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Dispense – Autonomia. Filosofia del diritto, 2017-2018 – Prof. F. Macioce Introduzione Da un punto di vista etimologico, il termine AUTONOMIA richiama la possibilità per l’individuo di auto-governarsi, determinando per se stesso la norma della propria azione. Tale rivendicazione, in base alla quale ciascun individuo può o deve poter governare se stesso, comporta, sul piano politico, il rifiuto di ogni norma che non sia e non possa essere riconosciuta come propria, seppure in modo indiretto: ogni potere che pretenda di esercitarsi sulle scelte individuali è pertanto illegittimo ove non sia espressione, almeno indiretta, della volontà soggettiva, ad esempio mediante un mandato rappresentativo. In tal senso, riconosciamo come legittime le norme prodotte dal legislatore, se riconosciamo che questo stesso legislatore ci rappresenta, ovvero agisce in nome e per conto di ciascuno di noi. Ad un livello molto intuitivo, pertanto, l’autonomia è la capacità di elaborare le regole e i criteri per la nostra azione, di essere legislatori di noi stessi: e questo può avvenire in modo diretto (quando, ad esempio, decido se e cosa mangiare, come vestirmi, cosa studiare, chi sposare, come comportarmi in una certa situazione, e così via), o indiretto (quando accetto di comportarmi come altri mi chiedono di fare, quando acconsento ad agire secondo regole che altri hanno elaborato, ma che io volontariamente decido di seguire, o quando in un gruppo si individua qualcuno che prende decisioni che tutti dovranno rispettare: pensiamo ad esempio ad un gruppo di amici che va in vacanza, e che affida a qualcuno il potere di fare il programma del viaggio, e di decidere cosa il gruppo dovrà fare e quando o come dovrà farlo. Per quanto insignificanti, si tratterà di regole che il gruppo riconoscerà comunque come proprie, perché il potere di elaborarle è stato volontariamente delegato da ciascuno al leader di quel piccolo gruppo di amici). La questione dell’autonomia, tuttavia, si può porre ad un livello ulteriore, e prioritario. Ci si può chiedere, in modo più radicale, in che termini e fino a che punto le nostre azioni e le

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Dispense – Autonomia.Filosofia del diritto, 2017-2018 – Prof. F. Macioce

IntroduzioneDa un punto di vista etimologico, il termine AUTONOMIA richiama la possibilità per l’individuo di auto-governarsi, determinando per se stesso la norma della propria azione. Tale rivendicazione, in base alla quale ciascun individuo può o deve poter governare se stesso, comporta, sul piano politico, il rifiuto di ogni norma che non sia e non possa essere riconosciuta come propria, seppure in modo indiretto: ogni potere che pretenda di esercitarsi sulle scelte individuali è pertanto illegittimo ove non sia espressione, almeno indiretta, della volontà soggettiva, ad esempio mediante un mandato rappresentativo. In tal senso, riconosciamo come legittime le norme prodotte dal legislatore, se riconosciamo che questo stesso legislatore ci rappresenta, ovvero agisce in nome e per conto di ciascuno di noi.

Ad un livello molto intuitivo, pertanto, l’autonomia è la capacità di elaborare le regole e i criteri per la nostra azione, di essere legislatori di noi stessi: e questo può avvenire in modo diretto (quando, ad esempio, decido se e cosa mangiare, come vestirmi, cosa studiare, chi sposare, come comportarmi in una certa situazione, e così via), o indiretto (quando accetto di comportarmi come altri mi chiedono di fare, quando acconsento ad agire secondo regole che altri hanno elaborato, ma che io volontariamente decido di seguire, o quando in un gruppo si individua qualcuno che prende decisioni che tutti dovranno rispettare: pensiamo ad esempio ad un gruppo di amici che va in vacanza, e che affida a qualcuno il potere di fare il programma del viaggio, e di decidere cosa il gruppo dovrà fare e quando o come dovrà farlo. Per quanto insignificanti, si tratterà di regole che il gruppo riconoscerà comunque come proprie, perché il potere di elaborarle è stato volontariamente delegato da ciascuno al leader di quel piccolo gruppo di amici).

La questione dell’autonomia, tuttavia, si può porre ad un livello ulteriore, e prioritario. Ci si può chiedere, in modo più radicale, in che termini e fino a che punto le nostre azioni e le nostre scelte siano espressione della nostra autonomia. Quando agiamo, abbiamo qualcosa che ci spinge all’azione, abbiamo cioè dei moventi dell’azione. Tali moventi (desideri, motivazioni, inclinazioni, obiettivi, ecc…) sono ciò che ci spinge ad agire: hanno un carattere autoritativo, ovvero possono rappresentare le cause della nostra azione. Tutto questo, naturalmente, non ci crea alcun problema: agiamo in un certo modo perché siamo spinti da un insieme di fattori che determinano le nostre scelte, che pertanto riconosciamo come pienamente nostre. Se scelgo di sposare Tizia, perché l’amore che provo (cioè, un sentimento, magari del tutto irrazionale e non del tutto controllabile) mi fa desiderare di passare tutta la mia vita con lei, posso ben considerare tale scelta come esercizio della mia autonomia. In fondo, posso dire a me stesso, potevo benissimo non sposarla, o potevo decidere di convivere, o potevo continuare ad amare Tizia ma sposare Caia per ragioni economiche, e così via: avevo altre scelte possibili, e se ho fatto quel che ho fatto, pur se spinto da un sentimento non del tutto razionale e controllabile, le scelte che ho compiuto le posso riconoscere ugualmente come espressione della mia volontà.

Se spostiamo il discorso dal pano personale a quello politico, altri fattori possono complicare il quadro d’insieme, e rendere la questione dell’autonomia meno evidente. Se normalmente posso

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ritenere le scelte normative del Parlamento (che ho contribuito ad eleggere, e perciò mi rappresenta) come espressione della mia autonomia, e riconoscerle come mie anche ove non le condivida nel merito, può capitare che così non avvenga. La complessità del sistema giuridico, e del sistema sociale, possono in alcuni casi portare alcuni individui o gruppi a non riconoscere le norme, pur ove siano state democraticamente prodotte: se dico che un certo governo “non mi rappresenta”, al di là dell’uso spesso troppo disinvolto di questa espressione, sto effettivamente contestando il legame fra le decisioni di quel governo e la mia autonomia. O ancora, se appartengo ad una minoranza (politica, religiosa, etnica…) che non riesce mai a condizionare la formazione della volontà politica, perché costantemente oscurata dalle scelte della maggioranza, posso effettivamente contestare che tali decisioni siano un’espressione, pur indiretta, della mia autonomia. O infine, posso negare che quelle decisioni, e quel potere, siano effettivamente rappresentativi del gruppo cui appartengo, tanto da rivendicare una propria ulteriore autonomia rispetto ad un potere centrale che, per ragioni sociali, storiche o politiche non riconosco come espressione della mia volontà, pur ove democraticamente eletto (così, ad esempio, si possono spiegare i movimenti per l’indipendenza della Comunitat Catalana).

Tuttavia, persino a livello individuale, l’autonomia è meno scontata di quanto si possa pensare. Un individuo può non avere il potere di governare se stesso, esattamente come un leader politico può, pur essendo legittimamente eletto, non essere in grado di governare (perché, ad esempio, i partiti che lo sostengono sono in conflitto fra loro). In questo senso, io posso essere in grado di elaborare delle volizioni (posso cioè volere, desiderare, avere obiettivi e impulsi) ma non essere in grado di attuare questa volontà; o al contrario, posso concretamente agire, ma in forza di una volontà e di moventi che non riconosco come pienamente miei. Ci sono cioè determinanti della volontà soggettiva che rappresentano una distorsione di tale volontà, e che riducono l’autonomia anziché determinarla. Una patologia psichiatrica, ad esempio, può condizionare pesantemente la mia volontà, e le mie scelte: sono tali scelte ancora autonome? E in che senso? E se al contrario ho la capacità di volere, ma non di attuare la mia volontà (perché sono incapacitato da fattori fisici, come una paralisi o la cecità, o ambientali, come l’assenza dei mezzi e delle strutture necessarie per attuarla), posso ancora considerarmi autonomo? E ancora: che differenza c’è tra una azione determinata dal freddo calcolo (mi sposo perché voglio i beni del/della mio/a partner), dalla passione sfrenata (un colpo di fulmine), da una affezione della volontà radicata in fattori fisiologici (un vizio: il tabagismo, l’alcolismo, la dipendenza da stupefacenti), o un’azione motivata da una patologia psichiatrica (es., la schizofrenia)? Sono tutte azioni non autonome? O solo alcune? In che senso alcuni di questi moventi sono in contrasto con la mia autonomia, perché condizionano la mia volontà, e altri no? Quando, esattamente, siamo in presenza di condizionamenti tali da poter escludere l’autonomia, e per esempio anche la responsabilità (ho fatto qualcosa, ma non sono responsabile perché sono stato costretto da fattori indipendenti dalla mia volontà)?

Ecco, tutte queste domande sono solo alcune delle questioni legate al concetto di autonomia, e dimostrano quanto la sua apparente semplicità sia ben lungi dall’esserlo davvero.

Concezioni dell’Autonomia personale.Numerose concezioni dell’autonomia personale si fondano sull’idea che un’azione è autonoma laddove l’agente è motivato ad agire da alcuni stati mentali che rappresentano il suo effettivo punto di vista sull’azione. In questo senso, un’azione non può essere attribuita all’agente (cioè, non è autonoma) se pur laddove effettuata non rappresenta il punto di vista dell’agente: è

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insomma qualcosa che l’agente ripudia, e che dunque non è qualificabile come espressione di auto-governo. Se non riconosco e ripudio ciò che mi ha spinto ad agire, quell’azione non la considero davvero mia, non me ne riconosco davvero come l’autore, perché essa è stata attuata in modo indipendente dalla mia volontà (o da quella considero tale). Ma a quali condizioni posso ripudiare le mie azioni, e non riconoscerle come mie?

Da un primo punto di vista, poiché l’agente persiste nel tempo, anche la volontà che guida le azioni dovrebbe persistere, e dunque essere diversa da un semplice stato mentale che si manifesta in un momento qualunque precedente l’azione. Devo, in altri termini, riconoscere le mie azioni sono frutto di una volontà che si è mantenuta tale per tutto il tempo dell’azione, e che anche al termine di essa posso continuare a riconoscere come tale. Un esempio, pur grossolano, potrebbe essere questo: se faccio qualcosa perché sono in preda al panico (notare il termine: in “preda”, ovvero non libero di fare quel che voglio), potrei dire che ciò che mi ha spinto ad agire è appunto quel sentimento di paura, e non la mia libera volontà. A cose fatte, una volta che tutto è più tranquillo, non riconosco più quel che ho fatto, e lo ripudio: se non fosse stato per quel sentimento di panico (o di altro tipo: anche una “folle” passione, o uno stato di ira “accecante”, ecc…) non avrei mai fatto quel che ho fatto. Tutte le frasi che utilizziamo per descrivere queste situazioni (perdere la bussola, perdere il senno, essere accecati, essere fuori di sé, ecc…) indicano esattamente questo dominio delle passioni sulla volontà, un dominio che può essere tale da rendere le mie azioni non del tutto, o per nulla, autonome.

Da un altro punto di vista, questa permanenza non è rilevante. Se pure per un solo momento, una affezione della volontà può essere la causa efficiente di azioni autonome, e può avere qualunque origine, ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la autonomia soggettiva. Anche se assumo droghe perché sono dipendente da certe sostanze, la decisione di assumerle è comunque mia, indipendentemente dal fatto che io mi possa pentire, o non sentire pienamente libero, o non essere capace di resistere. E così, se accoltello qualcuno perché sono accecato dall’ira, la decisione di prendere un coltello e utilizzarlo contro quella persona è (almeno entro un certo limite) comunque mia: quel sentimento, per quanto forte, può condizionare le mie azioni, ma non determinarle. Il panico, la passione, la rabbia, non sono come uragani che ci fanno volare via, e che ci portano dove non vogliamo, ma affezioni presenti nella vita di tutti, e che dobbiamo imparare a controllare: se non lo facciamo, se non controlliamo questi sentimenti, non per questo le azioni che compiamo cessano di essere espressione della nostra libertà.

Ancora, si può ritenere che la decisione dell’azione possa essere ascritta al soggetto (cioè, si possa dire che agisce in modo autonomo), se le motivazioni dell’azione sono ragioni che l’agente può riconoscere come proprie: in tal senso, siamo autonomi se le nostre azioni sono determinate da un bilanciamento fra ragioni a favore e ragioni contro, e tali di ragioni siamo consapevoli. Ci sono delle ragioni che mi hanno spinto ad agire in un certo modo, e sono consapevole di esse (anche se potrei aver cambiato idea, essermene pentito, o se sarebbe stato meglio agire diversamente), ed in tal senso non posso che ammettere di aver agito in modo autonomo: ad esempio, ho tradito il/la mio/a partner, perché in quel momento c’erano delle ragioni che mi hanno spinto ad agire in tal modo anziché nel modo opposto (il desiderio, la speranza di non essere scoperto, la volontà di ferire un’altra persona, ecc…), e il fatto che in seguito possa essermi pentito di ciò che ho fatto non impedisce che io debba riconoscere tali azioni come espressione della mia autonomia. Il soggetto che ha operato quel bilanciamento, quello che ha valutato di agire in quel determinato modo, ero

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comunque io: il fatto di aver cambiato idea, di essermi pentito di ciò che ho fatto, di non riconoscere la sensatezza di quelle scelte, non impedisce di affermare che quelle ragioni, giuste o sbagliate che fossero, erano le mie ragioni in quel momento, non le ragioni di qualcun altro.

Da questo puto di vista, la differenza tra un’azione autonoma e un’azione condizionata (ovvero effetto di manipolazione e/o condizionamento esterno) sta nella capacità soggettiva di valutare razionalmente gli impulsi o gli stati mentali che ci animano, elaborando un giudizio pratico su essi. Sono autonomo se, non ostante gli impulsi e gli stimoli che percepisco (la fame, il desiderio sessuale, la paura) elaboro delle ragioni per l’azione che sono ulteriori rispetto a questi stimoli, e che giustificano quello che faccio. Così, se sono in uno stato di ira, ma ritengo che la persona che sta di fronte a me “si meriti” di essere picchiata, o se sono in una condizione di eccitamento sessuale e ritengo, ad esempio che “un singolo episodio di tradimento non sia poi così grave”, la mia azione è qualificabile come autonoma. Se invece agisco solo o principalmente per paura, o perché un’altra persona mi condiziona, o perché sono stato indottrinato e manipolato, non sono pienamente autonomo (attenzione: non pienamente, perché esistono vari gradi di autonomia e non autonomia).

Ovviamente, tutte queste distinzioni possono essere intese in senso generale o particolare: ciascuno di noi potrebbe trovarsi in condizioni di limitata o ridotta autonomia rispetto a certe azioni, restando perfettamente autonomo per tutto il resto: posso non essere del tutto in grado di effettuare scelte autonome rispetto al consumo di droghe, perché sono dipendente da alcune sostanze, ma mantenere la mia autonomia sotto altri profili, ad esempio quando devo decidere di comprare un’automobile. Va da sé che tali profili possono intrecciarsi, e le distinzioni non sono sempre così nette.

Allo stesso modo, è utile distinguere una concezione elementare di autonomia da una concezione ideale. Ciascuno di noi sperimenta nella sua vita, e nelle sue scelte, molte forme di condizionamento: il desiderio di compiacere i nostri amici o parenti, la paura di deludere le aspettative degli altri, la passione, la sudditanza psicologica verso un certo modo di pensare, tutte queste sono certamente cose che ci condizionano, e riducono la nostra autonomia. Ma non la eliminano, altrettanto certamente. Ecco perché possiamo riconoscere in tutti noi, pur ove siano presenti questi condizionamenti, una autonomia elementare, mentre solo con difficoltà, e solo in certe occasioni, possiamo dire di aver fatto scelte totalmente e assolutamente autonome (nel senso ideale, massimo, del termine). Se mi iscrivo a Giurisprudenza – anziché aprire una scuola di ballo – perché non voglio deludere le aspettative dei miei genitori, e perché il loro giudizio mi condiziona, questa mia scelta esprime una autonomia limitata, elementare, anziché una autonomia ideale e piena.

È anche utile sottolineare la differenza tra autonomia personale e libertà personale: tali due caratteristiche sono molto spesso, e largamente, legate fra loro nell’esperienza di tutti noi, ma non coincidono. La libertà può infatti essere intesa come capacità di agire da un punto di vista pratico, ovvero come assenza di impedimenti esterni all’azione, mentre l’autonomia, come abbiamo visto, è collegata ai moventi dell’azione, a ciò che mi spinge ad agire o non agire in un certo modo. Così, posso ben restare autonomo in carcere, dove certamente la mia libertà personale è fortemente limitata, o non essere autonomo anche se non c’è niente che limiti praticamente le mie azioni, ad esempio perché sono del tutto incapace di intendere e volere (ma non fisicamente limitato).

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L’Autonomia morale.L’autonomia ha un ruolo centrale in molte teorie morali, perché l’essere umano in quanto autonomo è sia il soggetto di tali teorie – ovvero il soggetto destinatario dell’obbligo morale – sia il fondamento dell’obbligo morale stesso – ovvero è la nostra autonomia morale che ci rende meritevoli di rispetto, e che rende inaccettabile ogni azione che neghi tale caratteristica.

Nella teoria kantiana, ad esempio, l’auto-imposizione di norme morali è il fondamento dell’obbligo morale (che noi abbiamo verso gli altri) e del rispetto (che gli altri ci devono). La capacità della nostra ragione pratica di darci regole, e di determinare le nostre azioni sulla base di esse, è la base dell’imperativo categorico: agisci in base a quella regola di ragione che può valere come principio universale. Devo cioè agire sulla base di quella regole che la mia ragione ha elaborato, che non dipende dagli impulsi o dai desideri o dalle passioni del momento, e che posso pertanto riconoscere come regola universale: chiunque, in queste stesse condizioni, dovrebbe agire così. Allo stesso tempo, tuttavia, l’autonomia è la base del rispetto che gli altri ci devono: in me gli altri devono vedere un soggetto autonomo, che perciò non può essere usato, manipolato, abusato, condizionato, e la cui libera volontà va sempre rispettata.

In fondo, questa intuizione kantiana è molto vicina al nostro comune modo di pensare. L’autonomia è la caratteristica necessaria per l’elaborazione dei giudizi morali: essere autonomi è necessario per poter determinare cosa sia giusto e buono, e cosa sia cattivo, senza che tali giudizi siano influenzati da fattori irrazionali (la paura, il disgusto, l’attrazione, ecc…). Ed è pertanto ciò che dobbiamo rispettare negli altri, al di là della loro vita fisica (se posso mettere un guinzaglio ad un cane, e portarlo a spasso dove e quando voglio io, non è accettabile fare la stessa cosa con una persona. Se lo faccio, pur non attentando alla vita fisica di quella persona, sto negando la sua libertà morale, la sua dignità).

Per Kant, la capacità della volontà di autodeterminarsi è la radice della libertà morale. “questa legislazione propria della ragion pura e, come tale, pratica, è la libertà nel senso positivo. La legge morale non esprime dunque altro che l’autonomia della ragion pura pratica, ossia della libertà; e questa è essa stessa la condizione formale di tutte le massime, sotto la quale soltanto esse possono accordarsi con la legge pratica suprema» (Critica della ragion pratica, A 59). In questo stesso senso, Kant non riconosce la fondatezza di tutte le morali eteronome, né la moralità delle azioni compiute in ragione di un principio eteronomo: i sistemi morali che fanno dipendere le regole dell’azione da fonti esterne alla Ragione dell’uomo, come ad esempio dall’educazione, dalle convenzioni sociali, dalla volontà di Dio, dalla ricerca del piacere fisico, da sentimenti di benevolenza, rendono le azioni umane non universalizzabili, perché dipendenti da fattori necessitanti e soggetti a cambiamento. Le convenzioni sociali cambiano, il piacere fisico muta da soggetto a soggetto, la benevolenza v’è in alcuni e non in altri, o si produce in modo casuale e non preventivabile, e Dio non è da tutti riconosciuto come tale, né come supremo legislatore. Con una vera e propria rivoluzione copernicana, Kant inverte il rapporto fra la nozione di Bene e di Male, e la legge morale che gli esseri umani devono seguire: non è infatti una certa visione del Bene (che traggo dall’educazione familiare, o dalla religione, o dalle mie preferenze…) che mi può indicare come devo agire in una certa situazione, ma è la Ragione, la quale mi indica il principio della mia azione come imperativo categorico, che fonda e determina ciò che è bene fare.

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Tuttavia, l’idea di fondare una teoria morale sull’autonomia personale è stata oggetto di critiche da vari punti di vista. Un primo ordine di critiche è relativo al ruolo delle emozioni. Nella prospettiva di Kant, e in quelle che da essa derivano, le emozioni sono in contraddizione con l’autonomia in senso stretto, che come detto è dipendente dall’esercizio della ragione pratica: se posso universalizzare un principio di ragione, e farlo regola della mia azione, non posso certo universalizzare un’emozione (che spesso è persino difficile da spiegare agli altri).

Queste critiche hanno messo in luce come, contro l’opinione kantiana, le emozioni sono invece costitutive del comportamento morale in molte situazioni, e ben difficilmente possono essere considerate secondarie o ininfluenti in ciò che facciamo e che consideriamo buono. La cura dei genitori verso i figli, le azioni che essi compiono per accudirli, sono incomprensibili senza le emozioni, e persino prive di valore morale: ciò che fanno i genitori verso i figli è buono non solo in relazione al contenuto delle loro azioni (il fatto di nutrirli, vestirli, sostenerli economicamente, ecc…) ma in rapporto alla qualità delle emozioni che si manifestano (amore, affetto, cura, preoccupazione, ecc…). Ciascuno di noi, come figlio, non si aspetta semplicemente di essere nutrito lavato e vestito dai propri genitori, ma di essere amato: un buon genitore ama i propri figli, e tutto ciò che fa acquisisce valore in quanto espressione di tale sentimento.

Come possiamo dire che questi sentimenti sono moralmente irrilevanti? Se dunque accudisco i miei figli perché li amo, e non perché ho deciso razionalmente di farlo, le mie azioni sono meno autonome, e quindi moralmente meno significative? L’autonomia non può insomma essere intesa in una accezione puramente cognitiva, perché dobbiamo riconoscere che nel nostro auto-obbligarci anche le emozioni e i sentimenti giocano un ruolo fondamentale. Appassionarsi allo studio di una materia non è la stessa cosa che dedicarcisi per puro senso del dovere, ma entrambe possono essere azioni autonome, meritevoli di considerazione morale. Anzi, siamo tutti più contenti quando vediamo che qualcuno si appassiona a ciò che fa, quando lo fa volentieri e non per puro senso del dovere, perché riconosciamo in ciò un valore morale (è bene che sia così). O ancora, siamo tutti convinti che l’empatia, la capacità di essere in sintonia con i sentimenti altrui, sia una cosa ben meritevole: un medico capace di entrare in sintonia con la sofferenza dei pazienti, oltre che di curarli in modo corretto, sarà certo un medico migliore, farà insomma qualcosa che siamo disposti a riconoscere come buono. Si tratta, in altri termini, di considerare l’autonomia come la risultante di molteplici livelli decisionali, alcuni dei quali puramente razionali e cognitivi, e altri più soggettivi e/o emotivi.

Un secondo ordine di critiche è relativo al grado di astrattezza necessario per il giudizio morale. Si è detto infatti che l’autonomia presuppone un giudizio, da parte dell’agente, in relazione alle ragioni per l’azione: agisco in modo autonomo se le ragioni per l’azione sono mie, e le riconosco come tali. Ma tale giudizio è un giudizio ipotetico, o è un giudizio reale, effettuato in un certo momento e in un certo luogo? Il modello kantiano è evidentemente orientato nella prima direzione, e implica l’uso di una Ragione non personale, non qualificata, non contestualizzata. Ma è veramente possibile un giudizio di questo tipo? E se possibile, è anche desiderabile, o sensato? Mi devo cioè chiedere, in astratto, cosa dovrei fare in una determinata situazione, come agirebbe una persona ipotetica se si trovasse in una situazione analoga a quella che considero, o mi devo chiedere cosa devo fare qui e ora, in questa specifica situazione nella quale sono coinvolto? Pensiamo a quanto diverso sia chiedersi, in astratto, cosa farei se sapessi di avere un tumore allo stadio terminale, e cosa intendo fare ora che ho effettivamente ricevuto una diagnosi infausta, e

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so di dover morire. Oppure, pensiamo a quanto possano cambiare le proprie scelte (di fronte alle stesse opzioni) quando si hanno figli o quando si è da soli, quando si è incinte o quando si hanno sedici anni, e così via. Anche in tal caso, perciò, si ritiene che l’approccio kantiano sia eccessivamente astratto, e non tenga conto del fatto che le circostanze della nostra vita giocano un ruolo primario nelle nostre scelte, che possiamo considerare autonome: non è insomma razionale solo quella scelta che facciamo, per così dire, freddamente, ma anche quella che elaboriamo in modo situato, qui ed ora, tenendo conto del fatto che a decidere sono io (con un nome e cognome, e non un essere umano astratto), e che decido qui e ora (e non in un ipotetico momento nel tempo, chissà quando).

In modo simile, si è notato come l’autonomia si manifesti nei soggetti, e nella vita reale, con differenti gradi e differente evidenza. Onde evitare che questo conduca a ritenere – come pure è possibile sostenere – che in ragione del diverso grado di autonomia le persone abbiano un diverso statuto morale, si può pensare che la nostra dignità morale dipenda dal fatto che ci percepiamo come autonomi, anche se spesso non lo siamo. Questo aspetto è particolarmente rilevante se lo pensiamo in rapporto agli altri, ed al modo in cui agiscono: è difatti possibile che una persona debba essere considerata autonoma, anche se agisce sulla base di pressioni e moventi che ai nostri occhi risultano incomprensibili, inaccettabili, o ai limiti del patologico. È possibile insomma che una persona agisca sulla base di moventi che pur riducendo la sua autonomia non la eliminano in misura tale da giustificare un intervento esterno, che la costringa ad agire diversamente: se vedo un amico fare una cosa folle, o sbagliata, o pericolosa, posso certamente consigliarlo e cercare di dissuaderlo, ma non posso certamente impedirgli di agire, limitando la sua libertà. Ed allo stesso modo, rivendichiamo orgogliosamente, di fronte ai nostri genitori, la possibilità di fare le nostre scelte anche ove loro le possano considerare sbagliate o stupide. In tutti questi casi, siamo di fronte a gradi di autonomia differenti: quella che consideriamo ideale (noi, o i nostri genitori che ci guardano fare sciocchezze), e quella reale che motiva le nostre azioni; e per quanto quest’ultima possa essere minore della prima, è comunque di grado sufficiente da giustificare la rivendicazione della mia libertà. Questo aspetto, in effetti, è stato già discusso in precedenza; qui però mi interessa sottolineare che percepirsi autonomi, ed esserlo in rapporto a certi standard, non sono la stessa cosa. Al di là cioè della distinzione fra autonomia elementare e autonomia ideale (su cui si veda sopra), è opportuno distinguere tra autonomia come standard e autonomia come percezione soggettiva: uno standard, difatti, è sempre dato dall’esterno (dai genitori, da chi mi guarda, da chi mi giudica, ecc…) mentre la percezione dell’autonomia è sempre interna (io ritengo di essere autonomo, di essere in grado di decidere per me, anche se agli occhi degli altri le mie azioni possono apparire stupide e folli, o anche se lo standard legislativo non mi riconosce come tale).

Diverso è se il grado di autonomia che esercito è talmente ridotto da impedire che le mie azioni possano essere considerate realmente libere: così, ad esempio, nel caso di una patologia, o di azioni compiute sotto l’effetto di stupefacenti. Ma, anche in questo caso, del quale parleremo tra poco, molto dipende da chi pone lo standard dell’autonomia. Non si tratta semplicemente di riconoscere – e non è poco, in effetti – che lo standard chiesto per l’autonomia dipende da molti fattori culturali, giuridici e ambientali, e che pertanto può variare nel tempo e da luogo a luogo, ma che persino il folle, ai suoi propri occhi, esercita la propria autonomia decisionale. Siamo noi, insomma, noi osservatori e legislatori, che stabiliamo una soglia al di sotto della quale le azioni umane non devono essere considerate autonome, almeno da un certo punto di vista (giuridico, morale, sociale…).

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Il valore politico e sociale dell’Autonomia.Il LiberalismoSe nella prospettiva kantiana l’autonomia ha un valore essenzialmente procedurale (è ciò che mi serve per considerare le mie scelte moralmente apprezzabili, e l’essere umano come meritevole di rispetto), in altre prospettive essa diviene un valore di per sé. L’autonomia non è ciò cui fare riferimento per dare un valore morale alle azioni (come in Kant, dove le azioni hanno un valore morale in quanto autonome), ma un valore morale in sé. In J.S. Mill, ad esempio, l’autonomia è uno degli elementi del bene umano, ed è pertanto un bene – sul piano morale – garantire l’autonomia personale come capacità di perseguire i propri scopi, quali che essi siano.

Questa idea ha conseguenze molto rilevanti sul piano politico. La prima e più notevole di tali conseguenze è la possibilità di fondare l’ordine politico sull’accordo tra individui che si riconoscono e si rispettano reciprocamente come autonomi. L’ordine politico è il frutto di un accordo tra individui autonomi, che in quanto autonomi possono stipulare questo particolare accordo disponendo per se stessi, e per coloro che – non autonomi – essi rappresentano, in merito all’esercizio e ai limiti della loro libertà – e di quella delle persone che essi rappresentano. Allo stesso tempo, l’autonomia rappresenta la caratteristica ideale del cittadino, i cui interessi sono garantiti dai diritti e dalle libertà fondamentali che il sistema giuridico definisce. In tal senso, tutta la costruzione dello stato liberale è in rapporto al principio di autonomia, sia come fondamento dell’accordo tra consociati (il contratto sociale), sia come oggetto di tale accordo (che ha senso proprio al fine di proteggere e garantire l’autonomia individuale, attraverso il sistema dei diritti e delle libertà fondamentali).

Lo stato liberale viene costruito da soggetti autonomi, modellato in modo tale da consentire a tali soggetti di continuare ad esercitare la loro autonomia, e orientato alla difesa di tale autonomia: i diritti di libertà, così come i diritti politici, servono a tutelare l’autonomia rispetto a indebite ingerenze altrui, o a consentire ai singoli di partecipare alla formazione di quelle regole che inevitabilmente limitano la libertà soggettiva, facendo sì che ciascuno possa percepirle come proprie, espressione comunque della propria autonomia.

Più generalmente ancora, è il Liberalismo in sé che si costruisce in rapporto all’idea di autonomia: è proprio la pluralità di concezioni del bene, di obiettivi personali, di piani di vita e di progetti, che ciascun individuo elabora nella sua autonoma capacità di scelta, che il Liberalismo assume come premessa dell’ordine sociale. Siccome i soggetti elaborano scelte di vita e progetti diversi, perché ciascuno elabora tali scelte a partire da premesse differenti, l’ordine giuridico e politico deve essere compatibile con tale pluralismo, deve cioè consentire a ciascuno di vivere la propria vita in modo autonomo e libero, senza imporre ai cittadini scelte sostanziali riguardo ai valori. Siccome ci riconosciamo come soggetti autonomi, ovvero come soggetti in grado di fare scelte, di determinare le proprie azioni, di decidere cosa riteniamo migliore o peggiore per noi stessi, allora costruiamo un ordine sociale che abbia come sua finalità primaria quella di garantire a tutti noi, partecipanti all’accordo originario e costitutivo, di continuare ad esercitare tale autonomia. Il Liberalismo è in altri termini una teoria dell’ordine politico e giuridico che esalta il valore dell’autonomia, e lo tutela contro ogni interferenza esterna, quale che sia la specifica concezione del bene adottata da ciascuno. L’ordine politico liberale è un ordine capace di consentire a ciascuno di vivere secondo quelle regole e quei valori che ciascuno, in modo autonomo, sceglie per sé, con l’unico limite della reciprocità (il cd. Harm Principle): fai ciò che vuoi della tua vita, vivi nel

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modo che preferisci, perché sulla tua vita, sui tuoi beni e sul tuo corpo sei sovrano, ma fai tutto ciò senza impedire agli altri di fare altrettanto, senza danneggiare i loro diritti e la loro possibilità di decidere in modo autonomo per se stessi.

Il problema è, in effetti, molto più complesso di quanto sia possibile riassumere qui. E tuttavia, il principio di neutralità, in virtù del quale oggetto delle regole pubbliche non può mai essere la determinazione sostanziale del bene, poiché questa deve essere lasciata alla libera volizione dei singoli individui, è certamente legato al valore dell’autonomia. Il cuore del pensiero liberale sta in effetti nel principio di non-interferenza. Ogni restrizione o limitazione della libertà e dell’autonomia personale deve essere giustificata dalla necessità di tutelare la libertà altrui: l’esercizio della libertà individuale non può infatti mai andare a detrimento della libertà di qualche altro individuo. Non è accettabile che il sovrano, lo Stato, la maggioranza, mi dicano cosa devo fare della mia vita, come debba spendere i miei soldi, chi debba sposare, cosa debba fare con il mio tempo, o con il mio corpo: purché le mie scelte siano innocue per gli altri, e non danneggino i loro diritti, in un modello liberale classico tutto ciò deve essere affidato alla libera e autonoma determinazione del singolo individuo.

Ovviamente, ciò non vale per i soggetti non autonomi, o solo limitatamente autonomi: per costoro, interferenze di tipo paternalistico sono ammesse, proprio in considerazione del loro (presunto o reale) stato di incapacità; ciò è stato fatto in rapporto alle donne, a soggetti appartenenti a “razze” o etnie ritenute inferiori, ed è ancora accettato per i minori, o per altre categorie di soggetti ritenuti non autonomi.

Le tradizioni comunitarie.Questa concezione dell’autonomia, che il Liberalismo ha fatto propria, non è tuttavia la sola, né l’unica politicamente rilevante. In tale concezione, come s’è visto, il valore cardine dell’ordine politico è la capacità dell’individuo di definire in modo autonomo i propri obiettivi, i propri scopi, e le azioni necessarie al loro raggiungimento: l’ordine politico e giuridico viene costruito per, ed è finalizzato a, garantire tale possibilità.

Secondo altri, tuttavia, questo modo di concepire l’ordine politico non tiene nella dovuta considerazione quelle realtà collettive (tradizioni, comunità etniche, culture, gruppi) all’interno delle quali noi esercitiamo la nostra autonomia, e senza il cui apporto non siamo in grado di definire noi stessi. Queste dimensioni relazionali non solo definiscono chi siamo, ma orientano la nostra azione perché è al loro interno che ciascuno di noi forma quei criteri e quei principi che costituiscono (alcuni dei) moventi per l’azione. I nostri piani di vita, i nostri impegni, gli obiettivi che ci poniamo, pur essendo certamente fondati sulla base di preferenze individuali, sono altresì legati al modo in cui intendiamo il senso dei legami sociali, dei rapporti di coppia, del benessere, e così via. Tutte queste cose sono infatti profondamente influenzate dai legami e dalle appartenenze comunitarie in cui siamo inseriti: il modo in cui concepiamo i rapporti di coppia, e dunque il ventaglio di opzioni tra le quali decidiamo cosa fare (ovvero, entro cui esercitiamo la nostra autonomia), ci è dato dal contesto culturale, sociale, storico e religioso nel quale siamo inseriti, e che definisce l’ambito di ciò che consideriamo possibile, accettabile, lecito, buono, ecc… Allo stesso modo, ciò che diciamo è certamente frutto di una nostra libera scelta espressiva, ma solo all’interno di un ventaglio di possibilità che sono definite dagli usi linguistici che abbiamo assunto crescendo in un certo luogo. Siamo, in questo senso, definiti da un insieme di fattori che sono al di là del nostro controllo, che strutturano in larga misura i nostri valori, scelte e pensieri: l’autonomia

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non richiede di prescindere da tutto ciò (cosa che non sarebbe possibile) ma esercitare le proprie scelte a partire da questi fattori condizionanti. Posso ad esempio scegliere di fare un gesto galante, anziché non farlo, sapendo che nel contesto culturale e sociale nel quale vivo i “gesti galanti” sono codificati e definiti: posso regalare fiori, ma non lumache, e devo sapere che anche un mazzo di fiori può essere inappropriato (non posso regalarlo a chi proprio non conosco, a meno che non sia un attore/attrice d’opera, e non posso regalarlo alla regina Elisabetta, perché non previsto dal protocollo), o che al contrario può essere quasi dovuto, almeno in certe occasioni. Allo stesso modo, posso vestirmi come mi pare, ma all’interno di ciò che la moda o le mode stabiliscono: non posso vestirmi come una damina dell’ottocento, o come un vichingo, o come un neonato con pannolino e tutina, perché nel contesto in cui vivo tali scelte sarebbero un nonsense.

Va anche detto che queste identità non sono tutte uguali: alcune pesano più di altre. L’identità di genere, ad esempio (il fatto di essere maschi o femmine), l’identità etnica, l’identità culturale e religiosa, sono orizzonti dai quali l’individuo può ben difficilmente prescindere. Ben più che la moda, o certe convenzioni sociali minime, queste identità condizionano molto di più il mio orizzonte d’azione, e ben più di altre definiscono chi sono e come agisco. Eppure, notano i critici del modello liberale, nelle teorie del contratto sociale di esse non si parla mai, anzi, si prescinde volutamente da esse. In altri termini, mentre nel modello liberale classico la definizione dell’ordine sociale e politico (il contratto sociale) è data a partire da individui astratti, pure volontà che si manifestano, soggetti non qualificati da nient’altro che dalla loro autonoma volontà, altri autori ritengono che tali identità debbano essere considerate, perché individui puri, individui punto-e-basta, non esistono e non possono esistere (perché tutti noi, oltre ad essere delle persone che vogliono, siamo anche qualcos’altro: maschi, femmine, bianchi, neri, musulmani, rom, etero o omosessuali, italiani, cinesi, ecc…). Il contratto sociale liberale, per dirla più chiaramente, si fonda su un presupposto antropologico inesistente.

Questa tensione tra autonomia come qualità dell’individuo astratto, e autonomia come qualità di individui specifici, ha conseguenze notevoli, soprattutto quando nella società convivono gruppi (e identità) diverse, maggioranze e minoranze, e si pone il problema di tutele differenziate. In una prospettiva liberale classica, il problema della tutela delle minoranze si risolve nella tutela della libertà dei singoli individui, che devono essere garantiti a fronte di possibili pressioni della maggioranza: è l’applicazione del “Harm Principle” di cui s’è detto sopra, in virtù del quale il sistema giuridico garantisce a tutti gli individui eguale libertà e autonomia, e ciascuno la esercita nel modo che preferisce, purché tale modo non danneggi gli altri. Così, se in un paese a maggioranza cristiana vive una minoranza di ebrei, costoro devono essere ben liberi di praticare la loro religione, esattamente come ogni altro individuo: lo stato garantisce a tutti la medesima libertà di religione, indipendentemente da quanti siano i fedeli dell’una e dell’altra. Nessuna imposizione religiosa è ammessa, e ciascun individuo fa quel che vuole: crede, non crede, crede ma non pratica, crede in questo o in quel Dio, ecc…

In una prospettiva identitaria, questo non basta. Se la maggioranza dei cittadini è cristiana, la minoranza ebraica non avrà mai la forza di influire sull’attività normativa, e pertanto le leggi rispecchieranno fatalmente la volontà della maggioranza cristiana. Nessun problema, dal punto di vista liberale, perché comunque la maggioranza non potrà impedire alla minoranza di praticare la propria fede. Tuttavia le cose non sono così semplici: in quel paese (l’Italia, ad esempio) le festività nazionali saranno quelle decise dalla maggioranza (cristiana), così come i giorni di riposo dal

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lavoro, o un gran numero di simboli pubblici (in USA, i presidenti giurano sulla Bibbia, quando assumono l’incarico); saranno giorni festivi le domeniche ma non i sabati o i venerdì, il natale ma non Hanukkah, l’immacolata concezione ma non l’inizio del Ramadan; e ancora, sarà accettabile che nei pubblici uffici si faccia l’albero di natale, ma non che si esponga un candelabro, e sarà normale che nelle scuole si mangi carne di maiale. Insomma, l’eguaglianza formale liberale, per la quale tutti possono fare, come singoli, ciò che vogliono e credere nel Dio che preferiscono, non è tale sul piano sostanziale: chi fa parte della maggioranza, o è interno a quella tradizione, vive meglio, e fa meno fatica nel dare attuazione alla propria autonomia. Se davvero vogliamo garantire i singoli cittadini ebrei (o musulmani, o neri, ecc…) dobbiamo assicurare una presenza pubblica della loro identità: dobbiamo tutelarli come gruppo, affinché possano davvero vivere in modo autonomo e libero.

Garantire l’autonomia, in questo paradigma, non significa chiedere ai soggetti di prescindere da questi elementi (come avrebbe voluto Kant), ma di poter prendere decisioni rilevanti restando all’interno di essi, e senza che questi elementi diventino delle catene intollerabili. Significa garantire a ciascuno la possibilità di modificare la propria identità, di non sentirsene necessariamente vincolato, di scegliere in che misura dar peso a tali fattori, ma non di far finta che non ci siano. Per tornare agli esempi appena fatti, l’autonomia non si esercita in uno spazio neutro, nel quale ciascuno può operare le proprie scelte come individuo non qualificato, come se fosse indifferente essere cristiani, maschi o femmine, bianchi o neri; essa si esercita piuttosto in un contesto nel quale essere maschi o femmine, o cristiani o ebrei, o bianchi o neri, non implica uno svantaggio oggettivo, perché lo spazio pubblico è modellato in modo tale da rendere ragione delle differenze tra i soggetti.

L’Autonomia relazionale.In modo analogo il concetto di autonomia, così come pensato all’interno della tradizione liberale, è stato contestato dalle teorie femministe, e più di recente dagli studi sulla disabilità. In queste prospettive ad essere messi in questione sono proprio i presupposti del concetto di autonomia: la razionalità e l’indipendenza dell’individuo. Se tali concetti erano già stati fortemente ridimensionati dalle teorie comunitariste e identitarie (appena viste), essi vengono ora criticati ancora più radicalmente.

Tali prospettive muovono dalla constatazione che il paradigma liberale, facendo dell’individuo autonomo e indipendente il modello del cittadino, i cui interessi (ad essere lasciato libero di agire da solo, di commerciare, di praticare una determinata fede, di muoversi, ecc…) sono riflessi nei principi fondanti l’organizzazione sociale, ha sancito la svalutazione sociale e giuridica di tutti i soggetti che non rientrano in questo paradigma. Chi non è capace di piena autonomia, chi non è capace di agire da sé, e di produrre, votare, discutere, muoversi liberamente, non può identificarsi con il modello ideale del cittadino, e dunque viene emarginato e escluso: escluso dal voto, dalla capacità di agire, di gestire i propri interessi, di stare in giudizio, di contrarre vincoli, di esercitare la propria libertà, ecc…

Ciò è vero certamente per i disabili, ma in certa misura anche per le donne. Si pensi a come si costruisce il modello liberale: singoli individui autonomi, i quali per proteggere la loro libertà di agire, di produrre, e i loro beni, frutto del loro lavoro, decidono di creare una struttura sociale e politica orientata esclusivamente alla difesa di tali libertà di base. Ma chi sono questi individui, così astratti e descritti solo come volontà di agire? Sono uomini, certamente, e sani. Ovvero soggetti

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che non devono preoccuparsi di altro che di attuare la loro volontà nel campo della produzione di beni, nel lavoro: sia perché c’è qualcun altro (le donne!) che si occupa della gestione della vita biologica (riproduzione, accudimento, nutrizione), sia perché in quanto perfettamente abili e sani non hanno bisogno di essere accuditi.

Ecco perché, come sostengono molte prospettive femministe, il paradigma liberale è escludente: esso non può che escludere dalla pienezza della vita pubblica tutti/e coloro che non rientrano nel modello, relegandoli/e in una posizione di subalternità. Le donne, ammesse al voto solo di recente, e ancor più di recente ammesse a svolgere compiti di particolare prestigio (in Italia, le donne accedono alla magistratura dal 1963), perché troppo emotive, e dunque lontane dal paradigma di autonomia come razionalità pura che abbiamo visto prima. E i disabili, perché non pienamente capaci di agire, bisognosi di assistenza e sostegno, e dunque per definizione non auto-sufficienti. E ancora molte altre categorie di persone, escluse perché distanti dal paradigma individualista dell’autonomia liberale. Se chi ha stipulato il contratto sociale è un maschio bianco e sano, economicamente produttivo e libero da oneri e compiti di accudimento familiare, è chiaro che tutta la vita pubblica sarà modellata a partire da questo tipo di individuo. Il mercato del lavoro è pensato per uomini che – avendo una moglie a casa che si occupa di tutto – possono stare in ufficio dalla mattina alla sera; le strade e gli edifici sono pensati per soggetti che hanno gambe e braccia funzionanti, e possono fare le scale, prendere oggetti, guidare, e così via. In questo contesto, siamo davvero tutti uguali? In una società costruita così, è certamente vero che tutti sono liberi di agire e di fare ciò che vogliono (nessuno impedisce ad una donna di lavorare, o di stare in ufficio dalla mattina alla sera), ma è così anche sul piano sostanziale? Quale autonomia possono esercitare i disabili, se in certi edifici non possono entrare, certe scritte non le possono leggere, certe automobili non le possono guidare? Se tutti siamo liberi di votare, ed esprimere in modo autonomo la nostra volontà politica, possiamo dire la stessa cosa di un cieco, che non può leggere la scheda elettorale? E’ sufficiente, come nel modello liberale, non imporre a nessuno una scelta politica, o dobbiamo riconoscere che per qualcuno ciò non è abbastanza?

Questi approcci propongono perciò una nozione di autonomia del tutto diversa, che sia capace di includere la vulnerabilità umana, e che non sia costruita su una antropologia individualista, ma che sia connessa alla dimensione intersoggettiva dell’esistenza (al nostro essere in relazione). L’autonomia cessa di essere intesa come un predicato soggettivo (una qualità di singoli soggetti, per cui si possa dire che Tizio è autonomo e Caio non lo è), ma una caratteristica ontologica il cui esercizio può essere facilitato o inibito dalle reti di relazione nelle quali ciascuno è inserito. Tutti, o quasi tutti, in questo senso, sono autonomi, anche se alcuni in modo più evidente di altri possono esercitare la loro autonomia insieme ad altri, che li sostengono nelle loro azioni. In questo modo l’autonomia diventa un fine al quale tendere, e la concreta possibilità di esercitare azioni autonome si manifesta come una questione di grado, invece che rispondere alla logica del tutto o niente. L’esplicazione di attività autonome non coincide più con il diritto di fare tutto da sé, ma presuppone la relazione con altri, insieme ai quali porre in essere azioni autonome (che sono perciò l’obiettivo, e non il presupposto dell’azione umana). Se sono cieco non posso leggere ciò che voglio, e non posso neppure prendere un analgesico contro il mal di testa, perché rischio di sbagliare confezione e prendere una medicina molto più pesante: in un certo senso, non sono autonomo, perché non posso fare ciò che voglio (farmi passare il mal di testa), e sono dipendente dai farmaci che mi danno gli altri. Ma se la confezione dell’analgesico ha una scritta in Braille, o se qualcuno mi legge quel che riporta il bugiardino, posso agire in modo conforme alla mia volontà,

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anche se per farlo ho avuto bisogno di un supporto esterno: dunque, le mie azioni tornano ad essere espressione di scelte autonome. Ancora, se ho un ritardo mentale non riesco a capire quel che c’è scritto in un contratto che mi si chiede di firmare (in realtà, anche se sono semplicemente molto anziano, o illetterato, o non competente in materie giuridiche): non sono perciò libero di firmarlo, e la mia firma non ha valore, perché le mie limitate capacità cognitive mi impediscono di fare scelte che siano autonome, ovvero pienamente volute in tutta la loro complessità. Ma se qualcuno mi spiega con pazienza quel che c’è scritto, con termini che siano alla mia portata, e mi aiuta a comprendere le conseguenze della mia sottoscrizione, non c’è ragione perché io non possa firmare un contratto che pur voglio firmare. Non c’è ragione di non considerarmi autonomo.

In questo senso, l’autonomia non è solo una caratteristica dell’individuo (di alcuni individui), ma è una possibilità ontologica (relativa al nostro essere quello che siamo) che per essere esercitata ha bisogno del sostegno di altri, in gradi e con intensità differenti. È possibile compiere azioni autonome non come espressione di un irrealistico diritto di fare tutto da sé, ma in virtù della collaborazione intersoggettiva: in tal modo – seppur non assente – il requisito della razionalità risulta fortemente ridimensionato, poiché le preferenze individuali, i moventi per l’azione, possono anche essere formate in un contesto intersoggettivo. Si tratta di decisioni prese insieme, anziché da singoli individui, e ciò non di meno autonome.

Del resto, tutti facciamo esperienza di questa autonomia relazionale: se dobbiamo prendere una decisione molto significativa, ad esempio, ci consultiamo con qualcuno; chiediamo consigli, sottoponiamo le nostre decisioni al giudizio altrui, ci facciamo spiegare le conseguenze di quel che facciamo. Non solo, ma spesso la stessa decisione è frutto di un processo nel quale entrano vari soggetti: io che decido, chi mi ha consigliato, chi mi ha spiegato, chi ratifica la mia decisione, chi mi presta il denaro di cui ho bisogno, e così via. In tutti questi casi esercitiamo certamente la nostra autonomia, anche se non da soli: la esercitiamo insieme agli altri, tanto che la decisione finale, pur essendo mia, non sarebbe stata possibile senza l’aiuto e il sostegno di tutti costoro.

Autonomia e riconoscimento.Alcuni autori, contestando la visione individualistica dell’autonomia, insistono sull’importanza del “riconoscimento” soggettivo nel processo di socializzazione. In questa prospettiva, affinché una persona possa dirsi autonoma, è necessario che per lei si possa dire che vale la pena vivere la vita che sta vivendo, e che riconosce come proprie le scelte che sta facendo (e non, al contrario, che le percepisce come un peso imposto da altri). Perché ciò sia possibile, ad ogni individuo servono la fiducia in se stesso, il rispetto di sé e l’autostima: senza tali proprietà non si può riconoscere la propria vita come degna, né come pienamente autonoma.

Il rispetto di sé, anzitutto, è (già per Rawls) la condizione basilare di una vita che possa giudicarsi buona: è grazie al rispetto per noi stessi che possiamo vederci come persone che hanno l’autorità per fare affermazioni, chiedere, pretendere per noi stessi. Chi non ha rispetto per se stesso non chiede, non rivendica nulla, non afferma ciò che considera un valore, e dunque finisce per essere fatto vivere da altri, e accetta in modo subordinato le scelte che altri faranno al posto suo: chi non ha rispetto per se stesso non è autonomo, se non in modo molto limitato. In modo simmetrico, il rispetto di sé può essere danneggiato, o distrutto: l’emarginazione, l’umiliazione, l’esclusione sociale, distruggono il rispetto di sé. Ecco perché il riconoscimento pubblico del proprio valore, e del valore delle proprie scelte di vita, rappresentano le basi sociali del rispetto di sé, e fondano i diritti che sono necessari per l’esercizio delle libertà fondamentali: in una società in cui le mie

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scelte di vita (in merito alla religione, alla vita personale e familiare, al rapporto con le generazioni precedenti, …) non hanno un riconoscimento pubblico, o sono addirittura negate, marginalizzate, derise e discriminate, le mie possibilità di fare scelte autonome sono davvero molto limitate.

La fiducia in se stessi è radicata invece nella relazione con i propri sentimenti, emozioni, desideri, impulsi, ecc. Siccome tale relazione è cruciale per la possibilità di prendere decisioni, essa è centrale per l’autonomia personale: se non mi fido di me stesso, di quello che sento e provo, dei desideri che ho, perché vivo una situazione di conflitto interiore, non riesco a prendere decisioni pienamente autonome, ovvero decisioni che posso riconoscere come pienamente mie. Anche in tal caso, il riconoscimento sociale è fondante: se vivo in contesti che tendono a denigrare o mortificare la mia vita interiore, la mia autonomia è messa fortemente in questione. Se la società tende a svalutare le donne, ad esempio, perché le ritiene isteriche (cioè condizionate dai loro ormoni), inaffidabili, irrazionali, la capacità deliberativa delle donne sarà alquanto limitata: non solo perché esse, in generale, non verranno prese in adeguata considerazione, e le loro rivendicazioni non riconosciute, ma perché esse per prime tenderanno a svalutare le loro scelte, i loro desideri, le loro scelte. Solo il pieno riconoscimento pubblico del proprio mondo interiore può fondare la fiducia in se stessi, e dunque la possibilità di effettuare scelte autonome.

Certo, va ricordato che il riconoscimento sociale inserisce l’azione umana in un contesto di relazioni intersoggettive, ma non elimina le istanze di razionalità che connotano la capacità individuale. Tutto il discorso condotto fin qui, e portato avanti dai movimenti femministi e dalle prospettive comunitarie e identitare, non mira a negare l’autonomia individuale, quanto piuttosto a collocarne la sua realizzazione all’interno di un contesto relazionale. Riconoscere il peso che hanno, per me, la mia identità sessuale, il rispetto che la società mostra per le mie scelte personali, la mia appartenenza etnica o religiosa, non significa ritenere che la mia autonomia come individuo non esista, e che io agisca solo come esponente di un gruppo, nel quale mi annullo come soggetto; tale riconoscimento indica piuttosto che, come individuo, sono sempre parte di sistemi di relazione all’interno dei quali agisco, elaboro le mie preferenze, e formulo le mie scelte. Di conseguenza, una concezione sociale dell’autonomia non si basa solamente sul riconoscimento reciproco, ma sulla capacità individuale di volere e agire nell’ambito di un sistema di relazioni all’interno del quale il soggetto viene riconosciuto e si riconosce come libero.

Autonomia e bioetica.L’autonomia è un valore cruciale in molti settori della cosiddetta etica applicata, ovvero dell’etica specifica per certe circostanze o situazioni. Così, ad esempio, il problema dell’autonomia è centrale nei dibattiti sulla libertà di parola e le possibili limitazioni, e così è anche in quel (relativamente) recente settore dell’etica che è la bio-etica: si tratta di quella disciplina che si occupa di affrontare le questioni etiche relative alla vita fisica (nascita, morte, malattia, riproduzione, trapianti, ecc…), questioni che lo sviluppo delle tecnologie biomediche rende ogni giorno più complesse e delicate.

Fin dal suo primo sviluppo, la bioetica ha riconosciuto un rilievo centrale all’autonomia, vedendo in essa uno dei quattro principi fondamentali sui quali costruire un’etica per la vita fisica (tali principi sono, in generale: autonomia, beneficenza, non-maleficenza, giustizia). Nel Rapporto Belmont, uno dei primi documenti internazionali sulla bioetica (1979), la protezione dell’autonomia individuale fonda il rispetto dovuto ai soggetti, nel senso che tutti gli interventi

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biomedici (clinici, o sperimentali) devono essere attuati nel rispetto dell’autonomia dei pazienti, ovvero con il loro consenso.

Il principio del consenso informato è infatti lo strumento giuridico attraverso il quale si garantisce il rispetto dell’autonomia soggettiva in ambito clinico e sperimentale. Tale principio ha due aspetti, uno negativo e uno positivo: in negativo, il principio del consenso implica la necessità di non praticare alcun trattamento sulla persona senza il suo consenso, anche se necessario o clinicamente opportuno. Nessuno può obbligarmi a curarmi, a prendere medicine, a sottopormi ad un’operazione, a partecipare ad una sperimentazione clinica: il mio consenso è fonte di legittimità per tutte queste pratiche e questi interventi. In positivo, il principio del consenso implica che il paziente debba poter scegliere quale trattamento ritiene più adeguato per sé, sulla base delle informazioni che i sanitari hanno l’obbligo di fornire, ed in modo tale da garantire una scelta che sia il più possibile autonoma.

Certo, ci sono eccezioni, motivate però (in modo analogo alle restrizioni della libertà personale in ambito politico e sociale) esclusivamente dalla necessità di proteggere altri individui. Le vaccinazioni obbligatorie, ad esempio, sono finalizzate alla protezione della comunità da patologie ad alta diffusività, ed in special modo alla protezione di coloro che per ragioni cliniche o fisiologiche non possono vaccinarsi (in tal senso, il gruppo si vaccina per proteggere i soggetti più deboli: neonati, immunodepressi, ecc…). In questo caso, pertanto, ed in omaggio al già visto “Harm Principle”, la mia autonomia di scegliere se e come curarmi è limitata dal fatto che, non vaccinandomi, potrei contribuire alla diffusione di patologie altrimenti evitabili, danneggiando così i diritti altrui.

Ancora, costituiscono una parziale eccezione a questa regola i soggetti incapaci, o i minori: per costoro, vale in parte lo stesso principio visto in generale, per il quale altri soggetti (i genitori, i tutori…) decidono per loro nel loro interesse, in modo cioè paternalistico. È però una eccezione parziale, perché oggi si accetta l’idea (si veda l’art. 6 della Convenzione di Oviedo sulla Biomedicina) che i minori e gli incapaci debbano comunque essere coinvolti nel processo decisionale, che la loro volontà vada presa in considerazione, e che i loro desideri vadano considerati. In questo senso, un minore è solo limitatamente autonomo, e la sua volontà va presa in considerazione per stabilire se, e in che misura, un intervento sia lecito; quanto più un minore sarà riconosciuto come maturo (cioè capace di intendere, di valutare, e di formulare delle scelte), tanto maggiore sarà lo spazio che verrà dato alla sua volontà autonoma. Viceversa, saranno i genitori, o chi rappresenta il minore, a decidere per lui nel suo migliore interesse.

Anche in bioetica la critica ad una visione eccessivamente razionale e individualistica della autonomia ha avuto un certo spazio, ed anche in tale contesto è stata sostenuta una visione relazionale dell’autonomia. In bioetica, tale approccio è servito per contestare la dicotomia tra indipendenza assoluta e dipendenza da altri, sottolineando come la dipendenza, il bisogno di accudimento e sostegno, non soltanto non sono incompatibili con l’autonomia, ma sono in certa misura dei dati caratteristici di ogni individuo. Ed in questo senso, si è sostenuto che l’aver bisogno di un sostegno, fisico o cognitivo, non esclude l’autonomia, e dunque non esclude che il soggetto, insieme a chi lo sostiene (un familiare, un amministratore di sostegno, un fiduciario), possa elaborare scelte in merito alla propria condizione fisica e ai trattamenti sanitari.

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Allo stesso modo, si è sottolineato come proprio in ambito medico emerga con chiarezza il carattere relazionale e comunitario delle nostre scelte, e che ciò che decidiamo abbia necessariamente un effetto che va al di là della nostra singola esistenza. Ritenere che il singolo individuo possa decidere per sé in totale autonomia, come se le relazioni nelle quali è inserito non avessero importanza né peso, è una pura illusione. Prendere sul serio tali reti di relazione, e il peso che esercitano su ciascuno di noi, è un modo adeguato per rispettare l’autonomia individuale, non per negarla; così come è possibile che il contesto sociale nel quale una persona è inserita possa condizionare il modo in cui essa intende esercitare la propria autonomia.

Si pensi, ad esempio, alla quantità di informazioni da dare al paziente, e alle modalità per darle: una visione puramente formale e individualista dell’autonomia potrebbe spingere ad un modello di comunicazione medico-paziente in cui tutte le informazioni necessarie vanno date subito, e senza nascondere nulla, e solo al paziente. Una visione relazionale chiede invece di considerare le capacità di elaborazione delle informazioni da parte del paziente, e di coinvolgere altri soggetti (i familiari, ad esempio) nel processo decisionale. Sono, insomma, due modi diversi di considerare la libertà soggettiva, e le possibilità di esercitare l’autonomia.