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Avere cura del conflitto, di

Tiziana Tarsia (Angeli edizioni) di Maurizio Lozzi (*)

L’incapacità di ascoltare, di ascoltarsi e di essere ascoltati conduce sempre ed inevitabilmente ogni individuo a dinamiche di chiusura e di isolamento che contribuiscono a snaturare l’indole fortemente comunicativa che appartiene invece ad ognuno di noi. Purtroppo è su questo terreno che finiscono per fermentare le sofferenze e i disagi in cui la violenza può trovare spazi e manifestarsi come se fosse l’uni-co codice utilizzabile per imporre in maniera distor-ta e deviante i propri desideri. Ma così non è, la vio-lenza non è davvero l’unica possibilità. Quando nes-suno vuole o desidera impegnarsi per sentire la sof-ferenza dell’altro esistono fortunatamente modalità altre per abitare la complessità delle relazioni e fini-re – o forse è meglio iniziare – a valorizzarne le po-tenzialità. Fondamentale diventa innanzitutto distin-guere in due categorie interpretative e diverse l’e-mersione della violenza e l’ineluttabilità del conflit-to. La prima esprime e rafforza l’idea che i propri bisogni possano venire soddisfatti solo penalizzando quelli di qualcun altro e per questo è di per se irri-mediabilmente deprecabile, il secondo invece esige desiderio e necessità di chiarimento nella relazione con l’altro. Quindi nessuna similitudine: la violenza è una cosa, il conflitto un’altra. Ad educarci a fare un buon uso dei conflitti, aprendo un’interessante scorcio su questa dinamica relazionale che Max Weber considerava “un elemento dinamizzante della società”, è oggi un interessante volume di Tiziana Tarsia, edito dai tipi della Franco Angeli di Milano nella collana di Sociologia e, non a caso, intitolato “Aver cura del conflitto”. Centrato sulle esperienze intrecciate tra operatori ed utenti dei servizi sociali calabri, questo volume ha il pregio di indagare come la complessità della nostra società si pone oggi nei confronti di quelli che personalmente definisco i “nuovi italiani”, termine con il quale possono esse-re legittimati i protagonisti – o le vittime? – dei flus-si migratori diretti verso il nostro paese, dove il ri-schio peggiore che corrono o è quello di diventare invisibili o è quello di scomparire definitivamente. Osservare con cognizione di causa come i servizi sociali operino e come si interfaccino con i migranti, non è stata una scommessa per Tiziana Tarsia, ma il frutto di un’approfondita ricerca nella quale proprio il conflitto, fortemente inteso come relazione emo-

zionale, è diventato la categoria privilegiata d’inda-gine. Migranti, servizi sociali e conflitto diventano nel volume i tre pilastri di una narrazione che con-sente al testo di illustrare anche i sociologici fonda-menti teorici dai quali la Tarsia riesce a prendere il giusto nutrimento discipli-nare per rafforzare l’aspet-to più importante della sua ricerca: la dimensione del-la relazione. È in questo spazio che si diventa inca-paci di comunicare se si abbandonano le risorse emozionali ed è sempre nello spazio della relazione che invece può venire fuori l’infinita varietà cromatica delle emozioni e dei sani sentimenti che possono dare una svolta alla dimensione umana di ognuno. Italiano o “nuovo italiano” che sia, ognuno ha biso-gno di ascolto ed attenzioni per poter così superare im-pedimenti personali e socia-li che purtroppo condiziona-no spesso negativamente quelle che Georg Simmel definiva “microazioni”, riferendosi ovviamente alle interazioni sociali. Per Sim-mel e per quanti si avvicina-no alle scienze sociali con approccio clinico, le intera-zioni sociali possono assu-mere quel “carattere tra-sformativo ed integrativo” oggi più che mai indi-spensabile per evitare lo sgretolamento, al quale abitualmente facciamo seguire le dinamiche di con-flitto, dimostrando di non essere né abituati a viverle come opportunità, né capaci di discriminarle nell’ot-tica dialogica del confronto. Servono allora strumen-ti che il volume della Tarsia mette a disposizione del lettore, passando anche attraverso l’essenzialità di Johan Galtung che dell’approccio alla violenza ed ai conflitti ha fatto i pilastri su cui costruire nel tempo il metodo Transcend, uno tra i più importanti nello sviluppo delle dinamiche di regolazione pacifica delle relazioni conflittuali. “Aver cura del conflitto” è dunque una lettura apprezzabile in grado di far aprire gli occhi a chi ancora si ostina, soprattutto nel mondo del welfare, a restare ancorato a vecchi sche-mi e procedure davvero incomprensibili in un mon-do che dal paradigma del melting pot degli anni ’70 è ormai passato al paradigma della ethnic salad bowl. (*) Sociologo, Presidente Nazionale Conscom

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Siamo un pubblico im-

paurito “la cultura è una sezione fini-

ta dell'infinità priva di senso

del divenire del mondo, alla

quale è attribuito senso e si-

gnificato dal punto di vista

dell'uomo.” (Max Weber) di Pino Rotta

La definizione di cultura data da Weber ci rimanda ad una questione fondamentale e ad oggi ancora aper-ta nel dibattito scientifico: in che cultura viviamo? Un’altra grande intellettuale tedesca la filosofa Han-nan Arendt afferma la distinzione tra società e socie-tà di massa, attribuendo alle due differenti caratteri-stiche che determinano il concetto di cultura. “La differenza principale tra società e società di massa

sta nella <<funzionalizzazione della cultura>>. Nel-

la società, infatti, gli oggetti culturali restano tali,

anche quando se ne abusa. Nella società di massa

invece i prodotti culturali e le merci offerte dall’indu-

stria dello svago vengono consumati come ogni altro

genere di merce. La società di massa non vuole cul-

tura ma svago.” (Hannan Arendt, Culture for the mil-lions. Mass Media in Modern Society, 1959). Natu-ralmente dai tempi di Weber e della Arendt molti sono stati gli studi sul tema e quasi tutti ormai si sono concentrati sull’influenza che i mass media hanno sulla formazione del nostro modo di pensare e di agi-re (citiamo solo il paradigma olistico, cioè globale, applicato alle scienze sociali). Lo svago a cui la A-rendt faceva riferimento, oggi, quasi totalizzante, viene dalla televisione. Essa influenza le coscienze, ai fini del consumo e quindi della produzione, si pone quindi l’attenzione sulla capacità dei mezzi di comu-nicazione di imporre idee e stili di vita, fino a smon-tare il concetto tradizionale di trasmissione di saperi ed esperienza tra le generazioni e a sostenere, come fa Jurgen Habermass, che “la famiglia perde sempre più, con le funzioni di formazione del capitale, anche

la funzione dell’allevamento e dell’educazione, della

protezione, dell’assistenza, della guida e perfino del-

la più elementare tradizione e orientamento...”. L’in-fluenza della televisione segue il meccanismo della ripetizione del messaggio, che però, rispetto ai mezzi di stampa meno diffusi e con effetti di impatto emoti-vo di gran lunga inferiori, utilizza più canali sensoria-li per raggiungere il risultato di persuasione. Utilizza soprattutto l’immagine, il movimento, il colore e il suono, crea emozioni relegando il testo ad elemento spesso marginale del messaggio. Raggiungere l’o-biettivo di indurre le persone a determinati comporta-menti che sono legati alle esigenze della produzione ed al consumo è un dato dimostrato. Come è dimo-strato che il processo di globalizzazione dell’econo-mia stia estendendo uniformità nello stile di vita. Ma

è accertato anche che tra massa e pubblico c’è una sostanziale differenza: il pubblico non è un numero indifferenziato ed omogeneo di persone come lo è per definizione la massa. Questo vuol dire che lo stesso messaggio viene recepito in maniera differente e con reazioni differenti da persone che si trovano in posi-zioni differenti nella scala sociale, differenza per li-vello di conoscenza e di potere economico. Il pubbli-co può influenzare il mercato e quindi la produzione di beni di consumo, quello che rimane consolidato è il meccanismo detto di “coltivazione” cioè il raffor-zamento e il mantenimento delle convinzioni di base sui modelli culturali. Ad esempio le donne, anche se nella realtà hanno ruoli produttivi differenziati, nei messaggi televisivi vengono presentate sempre in contesti domestici. Con il tempo il sedimentarsi di questi messaggi crea modelli “accettati” seppure di-namici. La donna può uscire di casa, salire su una bella auto, vestirsi da manager, andare in palestra per rimanere in forma ma il suo “ambiente naturale” ri-mane la casa. Il messaggio serve quindi non solo ad indurre con-sumi ma so-prattutto a m a n t e n e r e stabilità so-ciale. Stabili-tà che viene cristallizzata dai messaggi a forte impat-to emotivo come quelli che suscitano la percezione della paura e del bisogno di sicurezza. Esistono, è evidente, segmenti di pubblico che reagiscono a que-sti messaggi in maniera critica o addirittura contesta-tiva e la capacità del sistema mediatico è proprio quella di adattarsi a queste istanze in maniera dinami-ca, offrendo una “percezione di accettazione” della critica o della contestazione a condizione che la mag-gioranza delle persone rimanga dentro il recinto della giostra dei consumi e del consenso. Possiamo riprendere così il concetto iniziale dato da Max Weber quasi un secolo addietro e confrontarlo con la realtà in cui, dopo un secolo di persuasione mediatica per fini economici e politici, ci ritroviamo a vivere: il mondo visto attraverso l’ottica della tele-visione ci ha isolati e ha creato un nuovo tipo di tri-balità che però parte da dentro le mura domestiche. La casa, la famiglia e l’unità domestica con al centro la televisione come regolatore e metro morale dei comportamenti è l’ambito di azione in cui ci è con-sentito muoverci, fuori c’è l’estraneo, il diverso, il pericolo, ciò che fa paura. Ecco se dovessi dare un senso alla sezione finita del divenire del mondo in questo momento storico lo definirei: cultura della paura.

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Dante, facebook e la

digestione lenta del-

la cultura

di F. Carlo Morabito (*)

Provare ad argomentare sulla complessa “questione cultura” in questo spazio angusto mi pone subito di fronte ad una contraddizione rispetto alle tesi che mi accingo a esporre. Le nuove tecnologie, e, si badi be-ne, la caratteristica preminente di queste appare pro-prio il breve permanere della novità stessa, hanno radi-calmente modificato il nostro stile di vita, in un tempo quasi trascurabile rispetto alla durata delle grandi fasi storico-sociali quali Medioevo, Rinascimento e così via. Ciò che si imputa all’innovazione tecnologica è, in realtà, un mero sottoprodotto della più rilevante trasformazione sociale nota come globalizzazione. Gli studiosi di scienza della complessità, ma ancora prima psicologi, fisici e chimici, hanno sperimentato che la struttura delle relazioni in un contesto cambia sostan-zialmente allorché si passa dall’interazione locale al-l’interazione a distanza. E’ stato altresì chiarito dalle neuroscienze che l’emergere di stati di coscienza im-plica una natura olistica del funzionamento del cervel-lo: la complessità cresce, e quindi il cervello funziona bene, in presenza di collegamenti “long-range”. Allo stesso modo, la complessità e la dinamica del nostro mondo sono cresciute notevolmente attraverso il pas-saggio da un’economia di interazione locale al model-lo globale. Per far fronte ad una rapida evoluzione del modo di vivere ed agire quotidiano, l’uomo ha sentito la necessità di escogitare strumenti che consentissero un incremento della velocità d’azione. Il telefono mo-bile, ad esempio, ha modificato in termini spazio-temporali il nostro diametro di raggiungibilità, spez-zettando di frequente la sincronizzazione dei nostri pensieri. Il mondo di Facebook, il più noto e frequen-tato Social Network, ha introdotto una transizione epo-cale nell’ambito delle relazioni, trasformando ogni sfera d’influenza umana, dalla religione, alla politica, fino al comportamento. Il modo di interagire (di con-nettersi agli altri ed alle istituzioni) va evolvendosi. Si osserva, intanto, una forte perdita di credibilità dell’-autorità, anche motivata dal flagello della burocrazia; una decentralizzazione, in alcuni casi solo apparente, del potere; una maggiore volubilità del nostro senso d’identità contrapposta ad una interpretazione più la-sca del concetto di privacy. Alcune cose considerate “intime” fino a pochi anni fa, diventano oggi tanto pubbliche da essere condivise deliberatamente con milioni di persone. Se Mark Zuckerberg, l’uomo dell’-anno di Time, intende lanciare una moda culturale può farlo in poche settimane: una corrente di pensiero (il Decadentismo, per esempio) si può sviluppare in po-chi giorni e diventare eventualmente dominante su

scala planetaria; la letteratura nazionale viene riman-data ad un livello gerarchico inferiore, territorializzata, perde d’identità nel frullatore globale della rete. Persi-no le lingue diventano dialetti da riserva linguistica: l’italiano diventa l’albanese che si preserva in paesini poco raggiungibili della Calabria. Facebook è il pro-dotto di una generazione ma anche il formatore della generazione stessa; ogni giorno un miliardo di nuovi pezzi di “contenuti” vengono immessi sulle pagine in modo asincrono, ciascuno per sé, riformando il tessuto connettivo di una parte significativa di pianeta, come un’alluvione informativa che determina scelte e para-digmi culturali. I nostri antenati incontravano poche centinaia di persone in tutta la vita, oggi ogni utente di Facebook ha in media lo stesso numero di “amici”. Dante Alighieri, nella tragicomica Commedia, propo-ne un modello antesignano di Social Network, dove concittadini, personaggi storici e mitologici vengono raccolti in gruppi fisicamente collocati in gironi o cer-chi definiti da una proprietà caratteristica che li acco-muna. La co-municaz ione “long-range” è però negata e il l i n g u a g g i o stesso delle comunità non-ché la valenza a r c h e t i p i c a delle metafore è relegata in ciascun clu-

ster: le diverse puntate della fiction (i Canti) costitui-scono episodi con personaggi e intreccio distinti. Sen-za la possibilità di cambiare ogni giorno spartito, sen-za continue trasformazioni che non ricordano il passo precedente, Facebook non potrebbe essere così perva-sivo e la conseguente perdita d’invadenza lo rendereb-be presto uno strumento inefficace. Nel contesto appe-na delineato, non stupisce che vi sia un sostanziale mutamento della “cultura”, in termini di fruizione, acquisizione, e di destrutturazione dei contenuti. I ca-ratteri principali di questa nuova cultura: 1) è distri-buita, ovvero, il libro è sostituito da un’intricata map-pa di direzioni e percorsi virtuali; la ricerca scolastica è preparata attraverso Internet; poiché le pagine che ci si presentano prima sono quelle generalmente selezio-nate, è quindi ripetitiva, riporta pezzi condivisi, ridu-cendo l’apporto personale e la costruzione autonoma; 2) è auto-organizzata e interattiva, al punto che, ad esempio, l’enciclopedia on-line Wikipedia consente correzioni multi-utente e l’inclusione autonoma di pagine e di contenuti, il cui successo (e, dunque, la cui verità) sarà decretato quantitativamente dal numero di accessi e non dall’elaborazione critica del contenuto; 3) è consumistica usa e getta, viene poco elaborata, diventa un oggetto di soddisfazione edonistica tempo-ranea, come lo shopping; attiva le stesse aree cerebrali del piacere transitorio, vive in librerie con scaffali pieni di colori e faccioni televisivi; trasforma la ricetta

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del cous-cous in una pagina di poesia; 4) è voyeuristi-ca, perché i media sociali implicano narcisismo e rapi-da penetrazione nella memoria, sfruttando deliberati meccanismi psicologici e percettivi; 5) è superficiale: confonde la profondità, atto mediato dal pensiero indi-viduale, con l’approfondimento collettivo di modalità salottiera, dove la sovrapposizione di voci deconcentra e la tambureggiante successione dei concetti proposti lascia irrisolta ogni questione; non vi è travaso dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, se non per aspetti marginali e secondari dal punto di vista culturale; 6) è politicamente scorretta, perché rifugge alla diversità, sinonimo di indipendenza e non sottende omologazione; il pensiero prevalente vi diventa domi-nante: la trasparenza e la condivisione delle informa-zioni, aspetti potenzialmente positivi della cultura fil-trata dalla rete, diventano veicolo di rafforzamento elitario del potere di chi è il gestore o sa gestire questi mezzi. In conclusione, è palesemente inutile contrap-porre un risibile cortile delle meraviglie alle corazzate sociali delle reti: questa è la strada che dobbiamo per-correre; è obbligatorio, però, provare ad introdurre dei correttivi affinché l’agorà mediatica faccia quello che il circolo o la piazza fomentavano un tempo. Bisogna ritrovare il tempo, la lentezza richiesta da un appro-fondimento culturale individuale post-sbornia: è ne-cessario un ritorno ad una privacy goduta, lontana dall’anacronistico ed antistorico tentativo di una limi-tazione della connettività, ma libera di svilupparsi compiutamente. (*) Docente Ordinario presso la Facoltà di Ingegne-

ria Università Mediterranea

—————————————————————-- Cultura e identità: para-

digmi di opposizione e inte-

grazione

di Giuseppe Lombardo (*)

Il campo dei concetti-funzione disegnato nella prima parte del mio titolo è talmente vasto che sarebbe illusorio il solo pensare di delimitarne alla buona i confini. Cultura è ter-mine onnicomprensivo per antonomasia, e da sempre in-globa le etichette più diverse e financo contraddittorie. Identità sembra indicare qualcosa su cui è più agevole intendersi, qualcosa di riconducibile alla dimensione per-sonale. E però, quante variabilità non si celano sotto que-sta etichetta? E quanti errori, per non dire orrori, non si è tentato di giustificare in nome di essa? Se poi l’intento è quello di coniugare i due poli in maniera da trarne esiti ragionevoli o anche solo moderatamente persuasivi, la difficoltà non sfuggirà ad alcuno. Sul problema dell’altro, del diverso, si è giocata e si gioca la credibilità dei moder-

ni ricercatori di scienze antropologiche e sociali. Nel mon-do globalizzato, la crescita esponenziale della velocità di spostamento delle masse umane in un contesto privo di “confini” visibili, nel senso di limiti ideologicamente im-posti o subiti, ha rimescolato tutte le carte. Nozioni ritenu-te acquisite e adeguatamente ripensate in una prospettiva di modernità, come straniero, autoctono, cittadinanza, migrante, nazione, etnia, ecc., si sono rivelate insufficienti di fronte al mutamento vertiginoso della realtà. Oggi perfi-no la definizione dell’oggetto di indagine è divenuta oltre-modo elusiva. Svanita per sempre l’ipostasi di confini insuperabili o insormontabili, tanto in termini fisici quan-to, e ancor di più, in termini mentali, l’uomo è come ripor-tato al “grado zero” della ricerca, alla sfida della costruzio-ne del primo ponte verso l’altro, al primo atto fondativo della comunità quale esito del tendere al diverso da sé per scoprire l’identità del sé. Più che progredire, l’umanità di oggi sembra chiamata a guardarsi dentro e a scegliere, finalmente, di riconsiderare le proprie radici dimenticate, quasi seppellite sotto secoli di pregiudizio e intolleranza. Per questi motivi, respinta la pretesa in sé irrealizzabile di comprimere un campo magmatico, in continua evoluzione, entro le caselle ordinate di un disegno esaustivo, tenterò invece di mettere a fuoco pochi, ma ritengo significativi, nodi problematici. Se non per altro, essi saranno comun-que utili nella ricostruzione delle linee di un dibattito cru-ciale per noi e per le generazioni future. Nel corso degli ultimi due decenni, le nostre città, le nostre campagne, si sono arricchite di una presenza con la quale non possiamo esimerci dall’entrare in contatto: gli stranieri, o comunque percepiti come tali, sia che siano cittadini o siano in attesa di diventarlo. Molti di loro hanno un lavoro stabile, una casa, una famiglia. I loro figli frequentano le nostre scuole e qualcuno perfino l’università. Essi hanno compiuto una scelta in qualche modo definitiva, e a tale scelta hanno legato le loro speranze, il loro progetto di vita. Nello stes-so scorcio di tempo sono mutate profondamente le correnti del flusso migratorio. Nuovi soggetti e direzioni prima inusitate si sono fatti avanti sulla scena: ai somali, agli etiopi, ai libici, fra noi per ragioni storiche legate al colo-nialismo, si è affiancata una massa crescente di magrebini, egiziani, nigeriani, oltre ai turchi e ai mediorientali. L’am-pio ventaglio dei paesi dell’est si è riempito in poco tem-po: albanesi, rumeni, bulgari, serbi, croati, georgiani, ecc. sono una presenza cospicua. In zone ben delimitate del nord, consistenti comunità di cinesi o filippini sono la norma. In parallelo, è cambiata anche la nostra società. I nuovi scenari dell’economia globale, la crisi delle ideologie, il venir meno della tradizionale famiglia allargata, ci hanno restituito un paese sempre più frammentato, insicuro, dalle prospettive incerte. Chiamato alla prova dei nuovi flussi migratori, è innegabile che questo paese abbia risposto nel segno della percezione emergenziale dei problemi. Mi-grante si associa inevitabilmente a illegalità, clandestinità, conflitto. Tutti aspetti che esistono, purtroppo, ma che non

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sono i soli, e certamente non irrisolvibili. I media, in nome di un malinteso diritto all’informazione, hanno soffiato e colpevolmente continuano a soffiare sul fuoco, cercando lo scoop e il sensazionalismo ad ogni costo. L’esito è ren-dere “invisibili” (nel senso ellisoniano del termine) i mi-granti che fra di noi rispettano la legge, svolgono lavori di grande impatto sociale ma non più appetiti dagli italiani, con basse garanzie e modesti livelli salariali. Stereotipi e pregiudizi si sprecano, mentre nuove “separatezze” nasco-no all’ombra della spirale discriminazione/isolamento/illegalità. I percorsi interculturali languono e l’orizzonte si tinge di colori sempre più foschi. Questo, sebbene tagliato con l’accetta, lo stato delle cose. Proviamo a indicare qual-che punto fermo. E’ sempre più evidente, e gli eventi tu-multuosi che ci coinvolgono non danno il tempo di riflette-re adeguatamente, che è giunto il momento di porre fine a quello che Umberto Melotti definisce come abbaglio mul-ticulturale, e tornare a una sana distinzione fra cultura e civiltà. I due termini non sono sinonimi, come a lungo si è pensato, né la presenza dell’uno spiega la presenza/assenza dell’altro. “Cultura” è primario cronologicamente in quanto connota tutte le reti di significato (materiali, strumentali, o simboliche) mediante le quali una comunità costruisce e governa il proprio posto e il proprio senso nel mondo. Non c’è gruppo umano senza “cultura” e non è possibile stabilire graduatorie fra culture diverse: tutte hanno pari legittimità sul piano antropologico. “Civiltà” è cosa assai diversa: il termine indica uno stadio relativo dello sviluppo di una determinata comunità, quello in cui si registra il ricorso diffuso alla scrittura, si osservano progressi marcati nelle arti e nelle scienze, si riscontra la nascita di strutture politiche e sociali complesse. L’abba-glio multiculturale è consistito nell’avere accostato il sin-golo immigrante non come portatore di un progetto di vita individuale, con i suoi limiti e i suoi interessi legittimi, bensì quale rappresentante dell’intera cultura/civiltà di provenienza. Ciò ha comportato un rallentamento della spinta all’integrazione e la contestuale riduzione di interi gruppi a testimonianza folklorica del paese d’origine. Il rovescio della medaglia è stato il cristallizzarsi delle politi-che di accoglienza in mere impalcature ideologiche che hanno tarpato le ali all’aspirazione umana ad “aprirsi”, a “conoscersi reciprocamente”, a “riconoscere le differen-ze”. Tutto ciò sta dietro il riduzionismo di cui l’intero spet-tro politico ha dato prova singolare: comunque la si metta, gli immigrati sono per la sinistra i “nuovi proletari”, per la destra “i nuovi barbari”, e per i cattolici i “nuovi poveri”. La strada maestra, invece, è ancora Melotti a suggerirlo, potrebbe essere quella della rigorosa distinzione fra citta-dinanza e nazionalità. Per una integrazione vera degli immigrati, vera perché non ridotta a un fallito tentativo di assimilazione etnocentrica, è necessario convincersi che la nazionalità è un sentimento di appartenenza ad una comu-nità che bisogna tenere nettamente distinto dal formale diritto di cittadinanza. Non ci si deve sentire italiani per godere dei diritti di cittadinanza. Né si deve costringere

alcuno a sentirsi italiano facendo violenza alla propria identità d’origine. Diritti di cittadinanza e legalità sono i poli di un patto reciproco fra migrante e paese di acco-glienza che solo può farci superare i contrasti e le armonie forzate di cui finora si sono nutrite le politiche assimilazio-niste frettolosamente messe in piedi. Il nostro secondo punto fermo non può che essere l’assunzione di una pro-spettiva transnazionale sul problema dei flussi migratori. Parecchi autori hanno sottolineato che la mobilità globale ha dato origine alla formazione di vere e proprie culture transnazionali. L’ecumene globale è contrassegnato da un “traffico” (o “scambio”, o “incontro”) di culture/civiltà che si svilup-pa a partire dalla traietto-ria, non solo geografica ma anche mentale ed emotiva, che unisce il paese di partenza e quello d’arrivo. I migranti, che definia-mo “mobili” per marcare il loro “progetto” di vita, forzata-mente imposto o liberamente scelto che sia, disegnano lo spazio unico globale all’interno del quale sono protagoni-sti in prima persona della produzione, negoziazione, e quindi probabile commistione di significati. E’ un proces-so che ha le caratteristiche inconfondibili del “meticciato”, in quanto esalta la creatività della differenza culturale, liberando energie che finora sono state troppo spesso com-presse dalle politiche di “forzata” e deresponsabilizzante, anche se ammantata di intenti benevoli, omogeneizzazione culturale. Dobbiamo renderci conto che da qui è necessa-rio partire, dalla valorizzazione della “differenza”, se si vuole aiutare il migrante nella sfida della ridefinizione del proprio progetto di vita. Egli deve individuare nuove coor-dinate di spazio e tempo, deve, per dirla con linguaggio antropologico, “elaborare il lutto” della separazione dal gruppo originario, dai legami costruiti durante l’infanzia e poi interiorizzati nella sua struttura psico-affettiva. In que-sto senso, le aspettative e le condizioni dell’arrivo sono altrettanto importanti rispetto a quelle della partenza. Co-me ha osservato A. Sayad, il passaggio dalla “illusione dell’emigrazione” alla “sofferenza dell’immigrazione” è il locus in cui si giocano tutte le possibilità di rielaborare con successo il progetto di vita sopra menzionato. E’ qui che si deve creare il varco che può liberare dalle strettoie di una assimilazione culturale sentita come modello imposto dall’esterno, o di una emarginazione culturale avvertita quale esito di una politica di marginalizzazione e di preva-ricazione del più forte. Nella prospettiva transnazionale, l’immigrato non è un soggetto passivo ma può divenire una risorsa in termini di capitale sociale ed economico, un agente creativo di cultura, uno strumento di azione politica

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per strategie di “globalizzazione dal basso”. Come confer-mato da numerose ricerche, le comunità transnazionali favoriscono la nascita di “economie etniche” attraverso l’utilizzo del capitale sociale etnico, facilitando l’inseri-mento degli immigrati a livello socioeconomico, nelle strutture delle società riceventi. In molti casi, questo sche-ma è del tutto alternativo a quello dell’integrazione for-malmente promossa dagli Stati, che ha quasi sempre la peculiarità di riprodurre forme di subalternità sociale e non di sostanziale parificazione del soggetto immigrato in termini di diritti civili e politici. Si ritorna così a quel che dicevamo all’inizio, sulla scorta di Melotti, circa il contro-verso rapporto tra nazionalità e cittadinanza. E’ solo nella dimensione transnazionale che le due polarità trovano una coesistenza non antagonistica e sono suscettibili di non autoescludersi reciprocamente. Il campo sociale transna-zionale è il luogo di riferimento ideale delle reti migrato-rie globali. La migrazione viene così ad essere incastonata in un contesto sociale multisituato. Ciò significa in termini di prospettive di ricerca adottare un’impostazione inclusi-va e onnicomprensiva, che tiene conto del contributo di tutti gli attori e di tutti gli scenari coinvolti nel processo migratorio. In sintesi, l’etnografia transnazionale proposta da George Marcus, che situa oggetti e soggetti dell’inda-gine qualitativa in un campo d’azione multisituato, può contribuire a chiarire e spiegare molti aspetti delle migra-zioni contemporanee. Ultimo punto su cui voglio offrire alcune chiose è un nodo che in anni recenti è venuto sem-pre più serrandosi: la progressiva femminilizzazione dei movimenti migratori. La categoria delle “donne globali” è entrata di prepotenza nel dibattito degli studiosi di feno-menologie sociali. Lo stato dell’analisi si deve misurare con situazioni in rapidissimo mutamento ma alcune linee di sviluppo ormai consolidate possono essere tracciate. Le donne migranti coprono per lo più specifiche carenze di welfare dei paesi avanzati mentre contribuiscono allo svi-luppo dei Paesi d’origine mediante le rimesse periodiche. In questo senso, per rimanere vincolati ad un lessico pura-mente marxiano, partecipano alla dinamica di classe at-tuando una “riallocazione” di risorse economiche per lo sviluppo. Per i cultori di un lessico “globale”, divengono invece protagoniste di una vera e propria “delocalizzazione” di tali risorse, e favoriscono un proces-so di accumulazione di capitale potenzialmente disponibile per l’investimento. Il problema, tuttavia, non lo si può circoscrivere al puro ambito delle variabili economiche. Esso infatti coinvolge una serie di fattori incardinati sul versante della “soggettività femminile”, che pertengono alla posizione occupata dalle donne nella struttura sociale e alla rilevanza delle cosiddette “relazioni sociali di gene-re” (gender). La maggioranza delle donne immigrate lavo-ra nel settore della cura e dell’assistenza alle famiglie, contribuendo al mantenimento dei legami di riproduzione familiare dei paesi ospitanti. Questa loro presenza in molti casi si trasforma in una sorta di doppia segregazione. Spesso essa viene passata sotto silenzio a livello politico e

di visibilità sociale. Nella maggior parte dei casi, le “badanti” vivono con la famiglia presso la quale prestano assistenza domestica e sono soggette a condizioni di sfrut-tamento in quanto “irregolari” poiché prive di permesso di soggiorno, esposte così a uno sfruttamento lavorativo e ad una invisibilità sociale. E, se non lavorano nelle nostre case, sono impegnate in mansioni contrassegnate dalle 3D (dirty, dangerous, on demand) facendo quei lavori che nessuno vuole più fare, perché considerati poco remunera-tivi o di scarso rilievo in termini di prestigio sociale. Molte di queste donne sono sole e senza legami di protezione familiare, e passano il poco tempo libero che hanno con le altre connazionali, di fatto senza entrare davvero in contat-to con la realtà locale. Si riuniscono un giorno alla settima-na nei luoghi aperti delle città, spesso in punti di confluen-za di vari mezzi pubblici (stazioni, metrò, giardini adia-centi, ecc). Si creano così dei veri e propri angoli etnici nelle zone centrali, ove si sviluppano anche attività com-merciali informali che permettono di acquistare i prodotti tipici dei loro paesi. Si incontrano i corrieri che fanno la spola e si può così inviare a casa abiti, doni e generi di conforto. Ciò avviene in particolare per le immigrate dei Paesi dell’Est europeo. Poco o niente è stato finora fatto per gettare un ponte con questo universo. Forse è giunto il momento di tentare un’azione sinergica fra antropologia, cultura di gender, e difesa dei diritti umani, nell’ottica, come si diceva, dell’incontro fra transnazionalità e diritto alla cittadinanza quale unica via per conciliare esigenze che altrimenti rimarranno in permanenza divaricate. Az-zardo a mo’ di provvisoria conclusione. Un’antropologia transnazionale che, a partire dalla “questione meridionale del mondo globalizzato e dei suoi tanti Sud”, attualizza le sue categorie e recupera una tradizione di impegno etico e civile, mettendosi dalla parte di chi sta in quell’altrove che è anche la nostra condizione. Riferimenti bibliografici:

- Ulf Hannerz, La diversità culturale, Il Mulino, Bologna 1996. - Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Bari 1996. - M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Il Mulino, Bologna 2000. - Umberto Melot-ti, Etnicità, nazionalità, cittadinanza, Seam, Roma 2000. - Umberto Melotti, L'abbaglio multiculturale, Seam, Roma 2000. - A. Petrillo, La città perduta. Eclissi della dimensione urbana nel mondo con-

temporaneo, Dedalo, Bari 2000. - A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, Raffael-lo Cortina Editore, 2002 - Simonetta Piccone Stella, Esperienze multiculturali: origini e problemi, Carocci Editore, Roma 2003. - AA.VV., Nomadismi contemporanei. Rapporti tra comunità loca-li, stati-nazione e “flussi culturali globali”, Rimini, Guaraldi, 2004. - V. Cotesta, Sociologia del mondo globale, Laterza, Roma-Bari 2004. - Umberto Melotti, Migrazioni internazionali, globalizzazione

e culture politiche, Bruno Mondadori, Milano 2004. - L. Zanfrini L., Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma-Bari, 2004. - M. Am-brosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 2005. Paolo Palmeri, Immigrazione conflitti sociali e violenza, in: I rap-porti interculturali oggi. Una prospettiva antropologica, a cura di Paolo Palmeri, Cleup, Collana di Antropologia, Padova, 2005. (*) Docente Facoltà di Scienze della Formazione, Università di

Messina

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La distopia multiculturale, ovvero

l’immaginazione della cultura

di Giuseppe Aricò (*)

All’interno delle attuali dinamiche che regolano i mec-canismi della globalizzazione, i concetti di cultura e identità svolgono un ruolo fondamentale. La loro for-za, e la loro debolezza, consisterebbe nel mettere in atto processi di simbolizzazione che possono essere osservati da una prospettiva non essenzialista, bensì profondamente relazionale ed eterogenea, nella quale si intrecciano questioni come la storia, la memoria, l’azione pubblica e il potere politico. Di fatto, nelle scienze sociali, la forma tradizionale di concepire cul-tura e identità come elementi omogeneamente radicati in una comunità stabile non rappresenta piú da tempo un approccio valido. Tuttavia, proprio nel momento in cui le scienze politiche e culturali sottolineano quanto le identità siano intrinsecamente flessibili e storico-congiunturali, e gli antropologi sociali scoprono l’im-mensa forza del carattere relazionale delle identità “tradizionali”, l’idea dominante di “cultura” non smet-te di produrre e promuovere identità di stampo essen-zialistico. È proprio in questo punto che la prospettiva antropologica ha ragione di sentirsi specialmente inter-pellata da parte della complessa e contraddittoria real-tà del mondo contemporaneo, in cui l’uso della nozio-ne di cultura ha ormai assunto un ruolo onnipotente e insignificante allo stesso tempo. Sempre più spesso utilizzata como parola-feticcio per eccellenza, la “cultura” viene invocata tanto per chiarire quanto per rendere incomprensibile qualsiasi aspetto della vita umana, senza dover pagare alcun prezzo in materia di rigore e precisione. Consideriamo, ad esempio, l’acce-zione più comune che intende la cultura come l’insie-me di quei tratti ipoteticamente immanenti che caratte-rizzano un gruppo umano rendendolo non solo singo-lare e differente, ma anche incommensurabile. Questa accezione è forse la più delicata e richiederebbe una riflessione seria, soprattutto alla luce delle esaltazioni essenzialiste della “differenza culturale” e dei discorsi pseudofilatropici tanto di moda che convertono magi-camente lo sfruttamento umano e le più brutali asim-metrie sociali nel vaporoso fenomeno del “multiculturalismo”. L’idea di multiculturalità racchiu-de in se una duplice funzione, tanto paradossale quan-to energica. Da un lato, annette i fenomeni sociali in reti di mondializzazione sempre più massificate, che tendono a unificare civilizatoriamente l’universo uma-no, mentre traccia un’infinità di intersezioni e sovrap-posizioni identitarie che non permettono l’incapsula-

mento di alcun individuo in una sola unità di apparte-nenza. Dall’altro, genera simultaneamente, ma in sen-so inverso, una proliferazione di ascrizioni collettive che invocano una certa nozione di “cultura” per legitti-marsi, aspirando a una compartimentazione della so-cietà in identità che si immaginano culturalmente in-compatibili e socialmente incomparabili. Queste dina-miche di singolarizzazione identitaria appaiono, a loro volta, associate a fenomeni potenzialmente non meno contrapposti. Possono coesionare e motivare comunità che si ritengono oppresse e che rivendicano la loro emancipazio-ne o i diritti che gli ven-gono negati. Ma possono anche tradur-si nell’alibi che giustifica l’esclusione, la segregazio-ne e l’emargi-nazione di coloro la cui “particolarità culturale” è stata considera-ta del tutto o in parte inaccettabile, con frequenza sotto un’ingannevole forma di “riconoscimento” dissimulata dietro concetti equivoci come “interculturalità” o “diritto alla differenza”. Non è casuale che, mentre i programmi di “promozione culturale” e i mezzi di comunicazione esaltano il mero folclore della diversità culturale, importanti settori della società continuino a stigmatizare l’altro come “sporco”, “incivile” o “razzialmente inferiore”, opponendo resistenza alla sua più ampia incorporazione all’interno del corpo politico, economico e sociale. Di fatto, credo che la strategia amministrativa delle politiche differenzialiste degli ultimi anni non sia stata propiamente quella di assimilare l’altro attraverso le logiche istituzionali dell’integrazione, quanto piuttosto quella di metterne in evidenza le differenze in uno scenario sociale mar-cato dal cosiddetto “abbaglio multiculturale”. Uno scenario in cui è possibile osservare come la nozione immaginata di “cultura” sia in grado di organizzare intorno ad essa i discorsi dominanti, nutrendo ideolo-gie identitarie che orientano le discussioni politiche e le polemiche pubbliche sulla base di una multicultura-lità distopica.

(*) Ricercatore in antropologia Università di Bar-

cellona (Spagna)

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L’identità arricchita

di Salvatore Romeo (*)

L’identità è un concetto che si struttura su un du-plice piano. Da una parte ogni individuo cresce e matura ac-quisendo il senso di Sé e la consapevolezza della propria storia personale indipendentemente da qualsiasi altra condizione e si percepisce come organismo unitario e completo dotato di una pro-pria immagine (rappresentazione di sé) e di pecu-liari qualità. Dall’altro egli impara a osservarsi come individuo singolo e differenziato da tutti gli altri che lo cir-condano. La prima osservazione concerne l’insight e l’auto-consapevolezza di sentirsi una persona compiuta all’interno del personalissimo processo di sviluppo psicomotorio: è la dimensione dell’unicità intrin-seca. La seconda invece concerne aspetti intersoggettivi e relazionali e si può realizzare solamente all’in-terno di una cornice di rapporti interpersonali, nei quali riuscire a stabilire i limiti e i confini della propria personalità: è la distinzione da ogni altra realtà.

La cultura comprende credenze, valori e ideali che ispirano i comportamenti e che costituisce un sistema vivente che viene creato, elaborato e tra-smesso attraverso la comunicazione di generazio-ne in generazione, perpetuando la memoria storica e le acquisizioni passate come base operativa per le conquiste future. Tra passato e futuro esiste però il presente e la cultura incide in maniera enorme sul modo di es-sere dei componenti di una società. Inserirsi all’interno di questo sistema significa, da parte dell’individuo, acquisire un sufficiente livel-lo di identità sociale e di adattamento che ne con-sentono un’esistenza armonica ed equilibrata, con-forme alle aspirazioni e alle esigenze che la socie-tà si aspetta da esso (ruolo e status). E’ fondamentale che, quindi, attorno al concetto di cultura sia presente anche quello di consenso, os-sia che l’individuo accetti le regole e le tradizioni della comunità nella quale è inserito, o si inseri-sce. Spesso, tuttavia, si tende a guardare a questo a-spetto come ad una perdita di identità, quasi come ad un tradimento di quelle che sono le caratteristi-

che peculiari della comunità di origine, delle pro-prie radici. Nulla di più falso. L’identità è una dimensione complessa, nella qua-le coesistono aspetti molto vari, come la percezio-ne di se stessi come singolarità ben definita, la percezione dell’altro come entità diversa e distac-cata da sé (auto- ed etero percezione), il riconosci-mento dell’interdipendenza e della reciprocità, ma anche la capacità di comprendere che essa stessa non è un qualcosa di statico e di immutabile, ma che invece contiene elementi processuali di cam-biamento e di adattamento a nuove esigenze e a nuove dimensioni sociali e culturali. L’orientamento deformante attuale è quello che considera quasi un tradimento avvicinarsi a tradi-

zioni e valori diversi, mentre l’identità è invece qualcosa di diverso, è un incontro con la cultura di riferimento, un arricchimento e, forse, un riscopri-re aspetti del nostro passato lontano che le sovra-strutture culturali hanno mascherato o modificato spesso in modo drammatico (vedi miti, simbolismi e inconscio collettivo). Un tradire appare anche, però, accogliere le tradi-zioni e i valori dell’altro in seno alla nostra socie-tà.Anche questo è un concetto fuorviante, che, al di là dei valori di solidarietà e di fratellanza uni-versale, trova una sua ragione d’essere anche in quelle prerogative proprie che abbiamo enumerato parlando di identità culturale e che si concretizza-no soprattutto nella reciprocità e nell’interdipen-denza. Accogliere il diverso non significa quindi solamente dimostrare umiltà e benevolenza, ma soggiace anche ad una regola sociale in virtù della quale la società stessa, soprattutto in quest’epoca di globalizzazione, di emigrazione e di immigra-zione, si fonda e continua ad esistere. Non è più una scelta di carità cristiana, ma una necessità sociale e antropologica. (*) psichiatra, psicoterapeuta

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Ambiente e personalità: ipote-

si di un rinnovamento culturale

di Cristina Freund (*)

La riflessione teoretica sulle modalità e sui tempi di sviluppo della personalità umana, sia lungo il versante individuale che sociale, è indubbiamente assai datata, e in occidentale si attribuiscono a Socrate e alla sua maieutica i primi tentativi di organica speculazione al riguardo. Da allora le osservazioni ed i contributi provenienti da un ampio ventaglio di scienze umane e sociali si sono moltiplicati e complessificati, talvolta intrecciandosi tra loro per abbracciare o confutare segmenti proces-suali o conclusivi di altri impianti teorici e impedendo in tal modo, per vastità ed uniformità/difformità di

(nella foto il Club di Chicago) conclusioni, la possibilità di fornire un compendio organico del tutto. Peraltro tra le teorizzazioni fino ad oggi elaborate di notevole interesse e profondità appare l’interazioni-smo simbolico di Georg Herbert Mead, che ha dato vita ad un sostanzioso filone di ricerca ( Blumer, Kuhn e altri). Ponendosi in contrasto con il riduzionismo insito nel comportamentismo di Watson, che determina la con-dotta umana quale risposta meccanicistica ad uno sti-molo ricevuto, Mead considera l’essere umano un soggetto fortemente sociale, che struttura se stesso in base ai significati attribuiti ai gesti e alle parole prove-nienti dall’ambiente circostante. Questa attribuzione di senso è un0operazione complessa che il nuovo nato conduce tra gli spiragli che si aprono nel sincretismo percettivo ed emotivo che lo avvolge alla nascita, ed è un’attività che intensifica sempre più in base alle ri-sposte ricevute dall’esterno, modulando con i genitori tutta una serie di significati condivisi, significati che a loro volta, in linea di massima, gli adulti assumono

dalla cultura di appartenenza. Per Mead sia le funzionalità del pensiero umano (propriamente la capacità di pensare) sia la costituzio-ne della soggettività necessitano di flussi scambievoli di messaggi con ciò che è “fuori da noi”, ed individua nei seguenti tre i principali locus di attività intersog-gettiva in cui questo avviene:

- il linguaggio, comprensivo della comunica-zione corporea

- il gioco di immedesimazione, “Play”, nel quale il bambino assume il ruolo di un altro diverso da sé: finge di essere la maestra, il dottore ecc.

- il gioco di ruoli, “Game”, più complesso, infatti il bambino è ora in grado di tener con-to di tutti i ruoli assunti dai soggetti coinvolti nel gioco.

All’interno di questo Sé emergente e che Mead consi-dera in continua evoluzione, lo studioso identifica due principali istanze: il Me e l’Io i quali, sintetizzando ai minimi termini, rappresentano l’uno la componente di controllo comportamentale tramite le condotte mutua-te dalla comunità, l’altro l’aspetto spontaneo e più propriamente originale dell’individuo, che è condizio-ne imprescindibile per la rigenerazione ed il migliora-mento sociale. So che è a questo preciso punto che la rassegna fin qui esposta voleva condurre: tentare di dare concretezza a ciò che la coscienza ha percepito di positivo in una speculazione teorica accattivante e generosa, altrimen-ti, senza fattualizzazione, probabilmente tutto il pensa-re dell’uomo non avrebbe scopo alcuno. Proviamo quindi. Postulato che l’essere umano è ciò che è per le sollecitazioni, le pressioni e gli stimoli provenienti dalla società e dalla cultura in cui è immerso, è la no-stra stessa società, nella figura delle istituzioni e dei singoli individui che la compongono, a doversi pren-dere in carico lo sviluppo e il potenziamento di quel-l’Io spontaneo e sincero indicato da Mead, unico in grado di spezzare il conformismo e la rigidità di una società autoperpetuantesi e rinchiusa in se stessa. Non è infatti temendo l’ignoto ed il diverso da noi che gli si impedisce di presentarsi. E non si tratta nemmeno di approntare gli strumenti adatti ad affrontare il futuro incombente, perché esso è già qui, con le sue schiere di immigrati e di nuovi poveri italiani e non, con i suoi rigurgiti di xenofobia ed insofferenza, con gli incon-cludenti tentativi malamente istituzionalizzati di assi-milazione culturale mentre per contro si alimentano dottrine di separatismo territoriale ed indipendentismo fiscale, con una caduta a picco di moralità ed eticità da parte di alcuni autorevoli rappresentanti politici e altro e altro e altro… Ricostruire un tessuto valoriale rian-nodando fibre sfilacciate e logore non è cosa da poco, ma è un’urgenza che non può più essere dilazionata: a volte si ha quasi l’impressione di assistere alla capito-lazione dell’umano…non possiamo permetterlo. (*) Pedagogista

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Immigrazione e cultura della solida-

rietà percezione e realtà dei fenomeni mi-

gratori

di Massimo Gabellone (*)

Sono 8 anni che per lavoro (e per passione) mi sposto in alcuni Paesi Balcanici, tra cui l’Albania. Quando si par-la di Cultura e Identità sarebbe a mio avviso opportuno iniziare a ragionare perlomeno partendo dalla conoscen-za diretta delle Culture e Identità altrui, analizzando l’altrui Storia e l’altrui percezione, e ben sapendo che, per quanto si possano avere esperienze dirette, e per quanto ci si sia riempiti il cervello di dati storici anche provenienti direttamente dagli altri Paesi, il tutto non potrà essere che parziale e rimanere tale, e ciò per la semplice ragione che qui viviamo e qui ragioniamo, e qui ci siamo formati. Altrimenti si corre il rischio di porsi nei confronti dell’altro senza rispettare lui e il suo “Cosmo”, e l’Umiltà che dovrebbe essere la base per una Conoscenza non inquinata dai nostri prodotti cultu-rali non viene in soccorso all’obiettività acritica che deve sempre essere il risultato da perseguire per non cadere nella trappola del giudizio, o, peggio ancora, del pregiudizio. Sarò drastico, ma la “buona fede” non può essere una attenuante. Non si può infine prescindere, sempre a mio avviso, dal “sistema” socio-economico che rappresenta un contesto determinante entro il quale si possono meglio analizzare dinamiche che altrimenti rimarrebbero o potrebbero sembrare sterili e/o squisita-mente “teoriche”. Il “comportamento” dell’immigrato, nel bene e nel male, rappresenta l’espressione di colui che pensa, sente e agisce esattamente come noi, ovvero attraverso la mediazione tra i propri prodotti culturali e la percezione dei nostri. Ovvero senza la conoscenza dell’altro, e compiendo uno sforzo enorme in tale me-diazione volta ad una potenziale integrazione, la quale può avvenire su diversi livelli, a seconda vi siano o me-no apertura e “cultura” da parte dell’immigrato almeno pari a colui con il quale si trova a dover interagire (ricordiamoci bene che la stessa cosa vale anche per noi), e, comunque, in tutti i casi, in un tempo che sia ragionevole e fisiologico. La cosa si complica e parec-chio quando la stragrande maggior parte degli immigrati proviene da territori dove cultura e istruzione non esi-stono, o esistono in modo, per dirla col nostro “linguaggio”, ad esempio, “primitiva”. Tutte queste condizioni, prescindono assolutamente da strutture ideo-logiche (associare l’immigrato al nuovo proletariato ad esempio) che di fatto non esistono più. Ritengo piuttosto che uno sviluppo della “Cultura della Solidarietà” che parta dall’analisi dei comuni bisogni primari sia un ar-gomento più funzionale verso un tentativo di integrazio-ne, perché, teniamone ben conto, non siamo più nella condizione esclusiva di “aiuto”, ma, ci piaccia o no, gli immigrati fanno comodo ad un sistema economico di cui beneficiamo tutti che di per sé crea disuguaglianza e iniquità, permettendo al fenomeno migratorio di assu-mere un ruolo determinante nel nostro sistema di pro-

duzione e spesso anche di distribuzione. Così come fan-no pure comodo gli “immigrati studenti”, che riempiono classi che senza di loro non avrebbero ragione di esiste-re, compresi i docenti (all’Università di Udine sono 400 solo gli studenti albanesi). Certe “professioni” e/o “lavori” gli italiani non sono più disposti a farli. E l’im-migrato risulta “utile” anche in questo. D’altra parte, a titolo di esempio, la presenza turca in Germania e di altri immigrati (tra cui gli italiani) fu determinante per la ricostruzione post – bellica. Amburgo, nel 1987, la po-polazione di oltre 2 milioni di abitanti, contava il 10% di stranieri. Le badanti, gli /le infermieri/e e altre cate-gorie spesso si trovano “accettati” in un sistema solo per convenienza, anche se ad esempio la lingua italiana la parlano pochissimo, proprio perché, gli italiani certi lavori non li vogliono fare, e tutto ciò avviene, infine, esclusivamente per questioni di budget (un concetto di budget che tuttavia non tiene conto dell’efficienza e della qualità, nonché della capitalizzazione delle profes-sionalità e delle esperienze, in modo particolare nel set-tore pubblico). Lo sfruttamento dalle mie parti di operai sloveni, serbi, macedoni, etc., nelle imprese edili è og-gettivo: 350 euro al mese… ma ci sono delle leggi che lo consentono, così come avviene presso un enorme cantiere navale con la manodopera proveniente preva-lentemente dal Bangladesh e le interminabili catene di appalti e subappalti che a loro volta, oltre a stipendi simili al settore dell’edilizia, permettono un mercato degli affitti aberrante con 30 persone che vivono in una camera e con prezzi, per chi semplicemente necessità di un tetto decoroso, assolutamente di conseguenza impra-ticabili. Concludendo, ritengo che il sistema economico e sociale attuale sia, oltre il recupero di Valori come appunto quello della Solidarietà nei bisogni primari, l’elemento fondamentale nel quale, a caduta, si possano elaborare teorie e buone pratiche che possano dare un concreto contributo a smussare le “differenze” identita-rie e culturali che provocano conflittualità, pregiudizi e contrasti da una parte e dall’altra. L’insistere con atteg-giamenti culturali autoreferenziali rischia di isolare e allontanare la Cultura e i suoi Valori dalla Gente, che non la riconosce più come un “Bisogno Primario” ma come un’espressione sempre più sterile dedicata a pochi eletti che certo non hanno bisogno di arrivare a fine mese come la stragrande maggioranza delle persone. Mi vengono i brividi, ma ciò che sta succedendo assomiglia molto al concetto elaborato nel Medioevo sulla cosid-detta “Musica Reservata”, dove il sistema politico e sociale si arrogava il diritto di “permettere” lo studio, la composizione, l’esecuzione musicale e la sua trascrizio-ne esclusivamente a caste specifiche, impedendo di fatto a chi non ne faceva parte, di tramandare ogni forma musicale profana. Il risultato fu, che ad oggi non c’è quasi traccia scritta di parecchi secoli di Musica, e, pa-radossalmente, è l’isolamento dato dalla mancanza di infrastrutture secolare che concede oggi, di venire a conoscenza in alcune aree di veri e propri patrimoni musicali tramandati nei secoli esclusivamente per via orale. Alla faccia della “globalizzazione”. (*) Maestro di musica. Esperto di cooperazione

internazionale nei Balcani

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Conformità e indipendenza so-

ciale

“il conflitto e il cambiamento sono

normali come il sole che sorge”

di Antonella Giglietto (*) Il conflitto tra l’impulso all’autonomia e le spinte all'adeguamento all'esistente, assumono un impor-tanza cruciale nella società: uniformità, conformi-tà ed obbedienza sono i tre aspetti della cosiddetta «eguaglianza». L'uniformità dei vari tipi di atteg-giamento in vari soggetti può avere diver-se motivazioni. Una di queste è la preva-lenza in una società, di regole informali grazie alle quali quella cultura diventa operativa: l'uniformità è il risultato dall'a-dattamento automatico e acritico a quelle norme. Il comportamento del prossimo può essere utile come esempio per il pro-prio comportamento, l'uniformità è stimo-lata dalle attività di confronto sociale, le proprie idee e punti di vista vengono para-gonati continuamente con quelli degli altri per ottenere maggiore sicurezza di giudi-zio. Si ha conformità quando l'individuo muta le proprie posizioni o le proprie con-vinzioni cedendo alla sollecitazione socia-le: in un noto studio sulla conformità, Saloinon Asch chiese ai soggetti di confrontare tra loro line-e di diversa lunghezza. Quando un gruppo di col-laboratori non identificabili si mostrava d'accordo con un giudizio palesemente scorretto, i soggetti si conformavano alla valutazione sbagliata nella mi-sura di un terzo delle valutazioni pronunciate. Il teorico Herbert Kelman ha individuato tre pro-cessi di influenza: acquiescenza, in cui la confor-mità è utile ad evitare la punizione da parte del gruppo, l’ interiorizzazione, con cui l'individuo si auto-convince della bontà delle opinioni del grup-po, l’identificazione, processo con cui vengono assunte completamente le peculiarità e le qualità dei componenti del gruppo. In culture collettiviste (soprattutto orientali), a differenza di quelle occi-dentali, che sono maggiormente individualiste, conformarsi è necessario, poichè non farlo sarebbe interpretato come devianza. Lo spirito di indipen-denza può essere favorito da diverse motivazioni psicologiche, le quali rendono l'individuo capace di resistere alle pressioni del gruppo o agli ordini impartiti dall'autorità. Una di queste motivazioni è costituita dalla reattività, una emozione negativa che si manifesta quando si verifica una riduzione

nella libertà di scelta della persona. Si ha maggio-re reattività quando la libertà minacciata è qualco-sa di importante e quando è convinzione dell'indi-viduo di avere diritto alla libertà. Anche la censura può accrescere la reattività. Voler essere indipen-denti può anche significare desiderare di sentirsi unici. L'indipendenza può essere diminuita o ac-cresciuta da diverse condizioni sociali, coloro che hanno un fisico attraente, o possiedono prestigio e conoscenza, hanno particolare successo nell'in-fluenzare gli altri. Alcune tecniche si dimostrano funzionali ad ottenere assenso da parte degli altri come, per esempio, esprimere un livello moderato di sicurezza in se stessi. Anche se perlopiù le mag-

gioranze esercitano una grossa influenza sul com-portamento delle minoranze, queste possono riu-scire con successo a portare la maggioranza nella loro direzione, questo spostamento ha possibilità di verificarsi specialmente quando il singolo o le minoranze danno prova di coerenza nel tempo e di grande investimento nelle proprie idee e fiducia in sé. La tendenza a conformarsi, quindi, è radicata nella nostra società, tanto che non è possibile com-prendere il comportamento umano senza tenerla in considerazione. Ma come dice il Professor John C. Turner la conformità non è sempre la norma: “Chiunque guardi fuori dalla finestra in occasione di eventi quotidiani di tutto il mondo scoprirà che la resistenza, il conflitto e il cambiamento sono normali come il sole che sorge”. Comprendere quando ci conformiamo al mondo e alle sue prati-che può essere utile; a seconda del punto di vista possiamo comprendere il nostro comportamento, o quello altrui, nelle diverse situazioni in cui siamo inseriti.E’ pertanto necessario essere a conoscenza di queste dinamiche, in modo da comprendere come influenzano aree importanti della nostra vita sociale. (*) psicologa

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Globalizzazione e diritto alla cit-

tadinanza “La cittadinanza è un diritto basi-

lare dell’uomo, nientepodimeno

che un diritto al possesso dei dirit-

ti”

di Olga Łachacz (*)

I processi di globalizzazione hanno un forte impat-to su diversi ambiti dell’attività dell’uomo e dello stato. Influiscono sulla vita sociale, economica nonché quella politica portando alla rivalutazione delle istituzioni già esistenti e al loro funzionamen-to. Un esempio interessante di tale istituzione può essere costituito dalla cittadinanza che pur essendo fortemente radicata nella tradizione degli stati na-zionali, non si era opposta alle modifiche apportate dal progresso civilizzatore. La cittadinanza, intesa in chiave giuridica, implicava sempre l’apparte-nenza ad uno stato concreto con tutti i diritti e do-veri da essa risultanti. Invece, dal punto di vista sociologico, la cittadinanza descriveva l’identità dell’individuo, anche di natura politica, e perciò, in questo caso, andava oltre l’ambito puremente giu-ridico. Attualmente, la stessa cittadinanza, sia nel senso giuridico che politico, è diventata un’istitu-zione il contenuto e il significato della quale si adattano alle esigenze di una realtà mutevole. I giuristi percepivano la cittadinanza in quanto colle-gamento tra l’individuo e lo stato. Quando, dopo l’avvento della Seconda Guerra Mondiale, si è as-sistito ad uno sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani, si erano verificati dubbi in merito al fatto di garantire ad ognuno la tutela dei diritti umani e il ruolo che la cittadinanza gioca a questo proposito. Nonostante il riconoscimento dei diritti umani come innati ad ogni uomo indipendente-mente dalla cittadinanza, non si può negare che la possibilità di godere in modo effettivo di tali diritti sia condizionata dal fatto di essere cittadini di uno stato. Possedendo la cittadinanza, trattiamo in mo-do naturale i diritti e doveri che ne risultano senza immaginarsi che cosa succederebbe se ne fossimo privati. Lo stato è soggetto che tutela anzitutto gli individui che appartengono ad esso, da ciò risulta che l’apolide è completamente privato dalla tutela del genere. Così come un intenso sviluppo del ca-talogo dei diritti umani è avvenuto dopo le espe-rienze della Seconda Guerra Mondiale, anche i casi di privazione della cittadinanza arbitrariamente, di senza patria e di discriminazioni sociali hanno cau-sato la necessità di completare questo catalogo con un diritto nuovo, cioè il diritto umano alla cittadi-nanza. Lo scopo di tale diritto è quello di assicura-re la cittadinanza ad ogni individuo, grazie a ciò le

chance per il riconoscimento dei diritti che gli sono innati cresceranno. Guadagnano del significato, allora, le parole espresse nel 1958 dal Presente della Corte Suprema americana, Earl Warren: “La cittadinanza è un diritto basilare dell’uomo, niente-podimeno che un diritto al possesso dei diritti”. Nel mondo contemporaneo è possibile individuare la presenza del diritto alla cittadinanza nelle vigen-ti fonti del diritto internazionale, e il suo contenuto consiste nel diritto all’acquisto della cittadinanza, nel divieto della sua privazione e nel diritto di cambiare la cittadinanza. Tuttavia il diritto alla cittadinanza non è ancora un diritto soggettivo e non implica nessun obbligo spettante ai singoli stati. Il riconoscimento del diritto alla cittadinanza crea le più grosse difficoltà perché è legato ad un’-eliminazione assoluta dell’apolidìa. Perciò una sola proclamazione del diritto alla cittadinanza nei do-cumenti internazionali non basta, visto che bisogna elaborare dei meccanismi della sua realizzazione. Il bisogno, legato all'effettivo riconoscimento del diritto alla cittadinanza, viene intensificato anche dai processi di globalizzazione e, da essa risultanti, fenomeni di migrazione. Essi accrescono, sfortuna-tamente, il disvalore intercorrente tra le condizioni che in un dato territorio sussistono tra cittadini e stranieri e ci fanno intavolare il tema della moda-lità d’acquisto della cittadinanza. Con una migra-zione più intensa i principi tradizionalmente appli-cati, quali lo ius soli e lo ius sanguinis, si rivelano insufficienti. Il criterio di un legame effettivo con lo stato, dove ci si vive per un tempo adeguata-mente lungo, potrebbe costituire una soluzione da adottare, premesso che questa sia l’unico comple-tamento del sistema tradizionale. Nei tempi odierni bisognerebbe percepire la cittadinanza dalla pro-spettiva dei diritti umani, riconoscendo, da una parte, il fatto che essa sia legata all’idea di questi diritti, e dall’altra il fatto che costituisca la loro indiretta garanzia. Si può constatare che la cittadi-nanza, a prescindere dalla sua interpretazione in quanto categoria giuridica, costituisca anche un dato stato di coscienza umana, nonché stato di con-vinzione riguardo alla sua appartenenza ad una struttura statale concreta. La cittadinanza garanti-sce la sicurezza, la mancanza della quale viene spesso sottolineate dagli individui che l’apolidìa riguarda personalmente. Lo sviluppo del diritto internazionale e l’impatto di esso sul diritto interno degli stati ci fa sperare che col tempo il diritto alla cittadinanza diventi il diritto soggettivo che goda di una tutela internazionale. (*) Docente Scuola Superiore di Polizia a Szczytno (PL) Traduzione: Anna Górska

Page 15: - mail: heliosmag@hotmail Magazine 6-2010.pdf - mail: heliosmag@hotmail.com Avere cura del conflitto, di Tiziana Tarsia (Angeli edizioni) di Maurizio Lozzi (*) L’incapacità di ascoltare,

La forza di vivere: la speranza di

essere ricordati, la dignità e il co-

raggio

di Valentina Arcidiaco (*)

L'arte della vita sta nell'imparare a soffrire e nell'im-

parare a sorridere

Herman Hesse

Nel 2010 abbiamo perso qualcosa: nella vita di tutti i giorni, nella politica, nell’economia, nel patrimo-nio artistico-ambientale, nei rapporti interpersonali. In questo spazio a me dedicato vorrei tanto essere vicina alle persone che nell’anno 2010 hanno perso un familiare o che ancora lottano contro mali defi-niti “ incurabili” nonostante la scienza abbia fatto passi da gigante. Nell’anno 2010 è morto un gior-nalista a me molto simpatico, Pietro Calabrese, il quale, oltre ad essere un giornalista di fama mon-diale, era anche un articolista per una rivista che esce settimanalmente, un inviato all’estero, ed è stato anche capo redattore di molte importanti te-state. Pietro ha cercato di far conoscere ai lettori del settimanale Magazine del “Corriere della Sera”, con le sue “Moleskine”, come stava affrontando il tumore che l’ha portato via il 12 settembre 2010, affrontando l’argomento come se scrivesse di un amico che era andato a fare un normale controllo di routine durante il quale aveva preso coscienza di essere affetto da questo male incurabile. Gino, il nome dell’amico di Pietro,il suo alter ego, ha tenuto legati milioni di lettori che speravano, leggendo quelle righe, che si riprendesse, che scon-figgesse “ quei pipistrelli”, che lo avevano assali-to,che riuscisse a scrivere ancora delle sue passeg-giate, dei suoi cani, delle persone incontrate al par-co. La posta elettronica di Pietro Calabrese è stata invasa letteralmente da messaggi di speranza e so-stegno, il suo intento era quello di :" riuscire a por-tare una speranza a tutti coloro che si trovano a intraprendere lo stesso percorso che ho iniziato io più di un anno fa, e spero di esserci riuscito, alme-no in parte". Purtroppo, la terapia non ha dato i risultati sperati, ma tutto è stato raccontato in un libro , uscito postumo, “L’albero dei mille anni” edito da Rizzoli, nel quale Calabrese non racconta soltanto della malattia ma anche del modo in cui la si può affrontare con forza nonostante gli effetti devastanti delle cure, cercando di svolgere una vita “normale” circondato dalle attenzione e dall’affetto dei familiari, degli amici ma anche di tanti scono-sciuti lettori e ammiratori di Pietro-Gino. Nello stesso periodo purtroppo, un'altra persona a me cara si è ammalata di un male “oscuro, incurabile, di prognosi infausta”; così come Pietro anche que-

sta persona ha dovuto affrontare, insieme alla sua amabile famiglia, un lungo iter sia dal punto di vi-sta logistico ( si doveva spostare dalla Calabria) sia dal punto sanitario ( si sottoponeva ad ogni tipo di cura). Anche questa persona purtroppo ci ha lascia-ti il 10 dicembre 2010 a quasi tre mesi dalla morte di Pietro, anche lui uomo di indescrivibile bontà e operosità,lavoratore, padre e marito attento e pre-muroso. Anche lui come Pietro aveva deciso di continuare a usare le parole e a comportarsi con dignità, coraggio e forza. Affrontare in un articolo il dramma della malattia sembrerà riduttivo ma, prendendo esempio da Pietro, di queste cose biso-gnerebbe parlarne di più, capire e cercare di dare un senso, cercare di essere solidali, non rifugiarsi nel proprio dolore ma fare come queste persone che hanno lottato finché hanno potuto, speranzosi,senza mai arrendersi. E, nel caso i nostri malati non riuscissero a soprav-vivere, dar loro la certezza che comunque essi rimarranno vivi nelle nostre menti e nei nostri

cuori.Seguire ogni strada, ogni speranza, fare di tutto per loro significa essere accanto a loro, essere familiari di queste persone, significa alimentare anche una fievole speranza se non di guarigione ma,almeno, di un minimo miglioramento, pur sa-pendo che, se la “prognosi è infausta” e le possibi-lità sono ridotte; bisogna prendersi cura della qua-lità di vita del malato, amarlo in questi momenti molto di più di quanto si sia fatto precedentemen-te. E’ vero la ricerca scientifica continua a fare pro-gressi, ma forse la cosa che dovrebbe interessare al mondo scientifico dovrebbe essere l’aspetto di quella parte di malattia che riguarda la fine, che riguarda la famiglia e il dopo, a livello non solo medico ma soprattutto psicologico per chi rimane. Nella mia professione di psicologa e nella vita per-sonale ho visto famiglie che hanno dovuto affronta-re malattie di tipo invasivo spesso senza trovare conforto se non all’interno della propria famiglia; si dovrebbe riflettere molto di più sul sostegno alle persone che rimangono, attivare molti più interven-ti per la terapia del dolore, in modo da rendere me-no drammatica e traumatica la lotta intrapresa dal malato e da color che gli sono accanto contro quelli che Pietro Calabrese, nei suoi articoli chiamava “ pipistrelli” o “pianeta cancro”. Un ultimo pensiero a coloro che rimangono dopo aver lottato accanto a chi ci ha lasciato: bisogna trovare dentro se stessi le proprie risorse personali con la stessa forza e lo stesso coraggio ma soprattutto la stessa dignità che hanno dimostrato quelle magnifiche persone che non sono più fisicamente accanto a noi ma che ri-marranno per sempre fra le pagine della nostra vita. (*) psicologa

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Indossare il burqa… non è un reato

di Mariella Vizzari (*)

“Il burqa non è né una maschera, né costituisce un mezzo atto a vietare il riconoscimento”. Lo afferma il Consiglio di Stato nella Sentenza n. 3076 del 15 Aprile 2008 depositata in segreteria il 19 Giugno 2008, con la quale ha definitivamen-te bocciato l’ordinanza emessa dal Sindaco leghi-sta - Enzo Bortolotti - del Comune di Azzano Decimo (Pordenone) contro l’uso del burqa nel proprio territorio. Ed invero, il punto centrale della controversia atteneva proprio all’interpretazione delle norme che vietano di comparire mascherati in luogo pubblico. Ebbene, secondo i giudici amministrativi, è del tutto errato il riferimento – operato dal Comune di Azzano - al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico di cui all’art. 85 del R.D. n. 773-/1931, in quanto è evidente che il burqa non co-stituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbigliamento di alcune popolazioni, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa. Altresì, il Consiglio di Stato ritiene non pertinen-te il richiamo, secondo la tesi sostenuta dal citato Comune, all’art. 5 della Legge N. 152/1975 che vieta l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il ricono-scimento della persona in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo, poiché si ritiene che il velo integrale “non costituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbiglia-mento, tuttora utilizzato anche con aspetti di pra-tica religiosa”. La ratio di quest’ultima norma, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è quella di evitare che l’uti-lizzo di caschi o di mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento. Tuttavia, un divieto assoluto vi è solo in occasio-ne di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente ido-nei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vie-tato solo se avviene “senza giustificato motivo”. Orbene, con riferimento al “velo che copre” il volto, o in particolare al burqa, si tratta di un uti-lizzo che, generalmente, non è diretto ad ottenere il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e cultu-

re. Ciò che, ad avviso dei giudicanti, rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato ad impedire, senza giustifi-cato motivo, il riconoscimento. Difatti, il richiamo all’art. 5 della Legge n. 152-/1975, consente, nel nostro ordinamento, che una persona indossi il velo per motivi religiosi o cul-turali; le esigenze di pubblica sicurezza sono sod-disfatte dal divieto di utilizzo in occasione di ma-nifestazioni e dall’obbligo per tali persone di sot-toporsi all’identificazione ed alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che, ad avviso del Supremo Organo Giudicante, tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi, o da parte di specifici ordinamenti, possa-no essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utilizzo, purchè, ovviamente, trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e speciali esigenze. Ed invero, dando uno sguardo al resto d’Europa, si rileva che in Francia è stato approvato il dise-gno di legge in ordine al divieto di indossare in luoghi pubblici il burqa ed il niqab, il velo isla-mico integrale. Pertanto, nel nostro ordi-namento si ritiene neces-sario un intervento legi-slativo preciso al fine di consacrare il divieto del burqa, poiché la giuri-sprudenza contempora-nea non dà gli strumenti essenziali per proibire alle donne musulmane di coprirsi in pubblico. Tuttavia, non dimentichiamo che l’individuo, la propria cultura, lingua e tradi-zione, è fondamentale in una società multietnica come la nostra, ecco perché, nel caso in cui si vanno a ledere dei diritti inalienabili come quelli relativi alla dignità umana, al diritto di scelta, alla democrazia, è condivisibile la tesi secondo la quale debba esistere un limite dettato dal ricono-scimento di questi diritti fondamentali. La libertà di professare una religione, il diritto di perpetuare una cultura, finisce laddove viene meno la libertà dell’individuo. Ne consegue che l’obiettivo di integrazione, tanto auspicato in una società multi-razziale, deve passare attraverso un processo di affermazioni di diritti come libertà personale e rispetto delle persone in quanto tali. (*) avvocato

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“L’enigma dei numeri primi”

di Marcus du Sautoy (ed. Bur

pagg. 606, euro 12,00)

di Gianni Ferrara

Al Congresso internazionale dei matematici, tenutosi a Parigi nell’agosto del 1900, Hilber prese la parola e propose ai suoi colleghi una sfida: risolvere ventitre problemi, che ancora insoluti, vivevano nel regno del caos. Sempre a Parigi, esattamente cento anni dopo la sfida lanciata da Hilbert, un gruppo di matematici di fama mondiale annunciarono un nuovo elenco di sette problemi da risolvere, i Millennium Problems, sei ine-diti più uno che era già presente nella lista di Hilbert all’ottava posizione: dimostrare l’ipotesi di Riemann. Du Sautoy apre questo meraviglioso saggio proprio dall’ipotesi di Riemann, per poi condurci in un viag-gio nel tempo in cui ci mostra le sfide, le vittorie e le sconfitte dei più grandi matematici della storia. Da sempre i matematici sono stati impegnati a risolvere i misteri nascosti dei numeri, e in modo particolare quelli dei numeri primi; alcuni sono stati risolti, altri invece, come quello di stabilire se l’ordine di sucessio-ne dei numeri primi sia casuale o fissato da delle rego-le, rimane tutt’oggi immerso nella fitta nebulosa delle congetture. Bernhard Riemann nel 1859 formulò un’i-potesi, che porta il suo nome, a questo essenziale que-sito matematico, ipotesi che ancora attende nel limbo delle verità scientifiche di venire promossa a teorema. Se la dimostrazione dell’ipotesi di Riemann è un di-lemma matematico, gli interrogativi in essa contenuti e le eventuali risposte hanno anche un loro valore filoso-fico. Non a caso Hilbert, in un’intervista, affermò di ritenere l’ipotesi di Riemann il problema più impor-tante, non soltanto della matematica ma il più impor-tante in assoluto. In effetti i numeri hanno sempre avu-to il compito di “ordinare” la realtà, e i numeri primi, in quanto costituenti della realtà numerica, più degli altri non dovrebbero sfuggire a un ordine stabilito. I numeri primi, in fondo, sono come gli atomi, e se que-sti si presentano secondo un ordine casuale lo stesso deve valere per le microscopiche particelle di materia. Se però non riconosciamo alla “casualità” un suo valo-re di “ordine” non ci resta che affermare che il “Grande Libro” della natura sia stato scritto da Mon-sieur il Caso. Ma da questa affermazione hanno poi origine una serie di domande, come ad esempio: cosa sono il Caso, il Caos e l’Ordine? E ancora, Caos e Ordine sono davvero due opposti inconciliabili? L’Or-dine è determinato dal caos o il Caos ha un ordine incomprensibile per noi? Tutte queste domande, infi-ne, ne nascondono una che per alcuni suona terribile: e se noi fossimo i figli del Caos? Ed io quest’ultima la rafforzerei formulando un’altra domanda: perché l’i-dea di essere i figli del Caos ci spaventa così tanto? Che alcune scoperte matematiche abbiano portato a delle situazioni critiche sul piano filosofico e sulla

visione razionale della realtà è un dato di fatto che trova conferma sia da episodi storici che da racconti avvolti dalla leggenda. Una leggenda particolarmente affascinante e rappresentativa è quella che narra della condanna a morte del pitagorico Ippaso, avvenuta per annegamento durante un naufragio, ed eseguita da una divinità su ordine di Pitagora. Ippaso si era macchiato di una colpa imperdonabile, aveva rotto il giuramento del silenzio rivelando ai “profani” un segreto “iniziatico”, ma a rendere la sua colpa ancora più gra-ve era la pericolosità del segreto che aveva divulgato. Pitagora aveva scoperto che il risultato della radice quadrata di 2 era un numero illimitato non periodico, un numero irrazionale. L’esistenza dei numeri irrazio-nali, con tutte le conseguenze matematiche e filosofi-che che comportava questa scoperta, era una “verità” che le “persone comuni” non sarebbero mai riuscite a gestire senza precipitare in una profonda crisi. Quella era una “verità” da conoscere e custodire solo all’in-terno di una ristretta cerchia di pitagorici, quelli che essendo particolarmente dotati non avrebbero rimesso in discussione tutti i principi fino ad allora dimostrati. Ippaso mettendo tutti a co-noscenza di questa scoperta aveva scatenato l’ira del suo maestro meritando così la punizione più severa: la morte. In questo appassio-nante libro Marcus du Sau-toy, narrandoci della vita di uomini straordinari che han-no dedicato la loro vita ad esplorare l’infinito mondo dei numeri, e conseguente-mente non solo quello, e utilizzando la forza della mente e il potere del ragionamento, ci porta ad interro-garci sull’essenza di tutto ciò che è. Leggere questo libro significa affascinarsi dinanzi alle opere d’arte del pensiero umano, l’arte Reale per eccellenza che pone l’uomo sul suo giusto trono. Sono ormai molti i mate-matici che sostengono l’impossibilità di risolvere l’i-potesi di Riemann, ma anche nel caso che qualcuno riuscisse a dimostrarla questa “soluzione” ci portereb-be davanti ad un nuovo dedalo di infinite ipotesi e congetture. La matematica rappresenta più di qualsiasi altra disciplina la ricerca umana: lo svelamento di una verità non è mai il raggiungimento della Verità ultima, ma una tappa dell’inesauribile cammino della cono-scenza. Il matematico francese André Weil disse: “Dio esiste perché la matematica è coerente, e il demonio esiste perché non possiamo dimostrare che lo è”, e se davvero fosse così noi abbiamo un debito di ricono-scenza maggiore verso il secondo rispetto al primo, perché è proprio il “vuoto” generato da quell’assenza di certezza che ci spinge sempre più lontano, in quel magnifico viaggio che la semplice accettazione di una “verità” non dimostrata ci avrebbe impedito di inizia-re.

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Edgar Morin

“Pro e contro Marx” (Edizioni Eriksson, pagg. 112, euro 8,50 ) di Elisa Cutullè

Edgar Morin è uno dei più grandi pensatori at-tualmente in vita: è un profondo conoscitore di Marx. Un valido esempio ne è la raccolta che contiene 5 testi pubblicati tra il 1960 e il 1993. Si tratta di cinque percorsi, di cinque sguardi sul-l'autore: una sorta di percorsi di scoperta di un viaggio sociale incentrato su Marx ma anche visualizzazione di un percorso di globalizzazione. Il primo capitolo è dedicato a “L'aldilà filosofico di Marx”; il secondo a “La dialettica e l'azione” con uno sguardo sui surrogati sintetici, l'ideali-smo materialista, il materialismo idealista, la ra-refazione politica ed il disgelo politico e dialetti-co, Il terzo capitolo contiene “Frammenti per u-n'antropologia”; il quarto capitolo è dedicato a “Marxismo e sociologia” con un'analisi della pie-trificazione del marxi-smo, del vero apporto del marxismo alla so-cietà ed una valutazio-ne della riprisitinabili-tà del pensiero marxi-sta; il quinto, ed ulti-mo capitolo, si incen-tra su “alla ricerca dei fondamenti perduti” analizzando la diffi-coltà sociale derivante dalla perdita dei fon-damenti esistenziali. L'autore stesso sottolinea che è una scoperta di se stesso sia come marxiano che come marxista, sue aspetti simili ma non equivalenti. Chi era Marx? Un titano del pensiero, un pensa-tore complesso, un comunista. Di questa perce-zione l'autore condivide l'interpretazione hegelia-no-marxista, mantenendo una fedeltà alla pro-spettiva marxiana. Si potrebbe affermare che il percorso su Marx si articola in quattro passaggi:

1. Etichetta marxista non è interessante 2. Elaborazione del pensiero post-marxiano 3. Definizione competenze polidisciplinari 4. Scoperta della teoria dei sistemi

Nella fase di contrapposizione si sviluppa un in-teresse per i manoscritti dell'opera giovanile di

Marx in cui vi è l'uomo generico contrapposto alla umanità, rappresentata come unità compiuta in sé. L'uomo generico, al contempo, è capace di evol-versi e diventa homo sapiens (di conseguenza anche demens), homo faber (attivo nella crezio-ne), homo mitologicus (che si avvicina e si af-fianca al divino), uomo ludens (che apprezza i

piaceri) e probabilmente un homo complexus, un uomo che, allo stesso tempo riunisce ad annulla tutte le diverse tipologie di umanità. Il circuito di “ingenerazione”, rivela i suoi tratti di struttura e di sovrastruttura, manifestando una dialettica dialogica che non solo supera ma anche integra il sistema dialettico hegeliano marxista. Nel 1989 Morin riscopre Marx, ma come pensa-tore della mondializzazione. Questa interpretazio-ne, proprio nell'anno in cui cade il muro di Berli-no e comincia a sbriciolarsi la grande potenza della Russia, lascia un po' perplessi: Come può Marx essere considerato un fautore della mondia-lizzazione? Morin, pur non condividendo lo spirito polemico di Marx contro Stirner ed alcune sue interpreta-zioni un po' troppo “rigide”, evidenzia come Marx, non essendo dominante, anche se multipre-sente, riesce ad essere un personaggio chiave nel processo della mondializzazione. Morin riesce, in questa raccolta, a dimostrare, a tutti gli effetti, come l'opera di Marx sia veramen-te proficua ed utile per scoprire magagne e strut-ture di un sistema dogmatico e chiuso, la diversa visione culturale, gli sforzi “impotenti” delle op-posizioni e la vera essenza del “non potere”. In altri termini ci fornisce le dritte per poter uti-lizzare l'opera e il pensiero di Marx, per districar-ci nel complesso panorama politico odierno. Un invito a rileggere Marx, a considerarlo come un pensatore moderno e, per la sua epoca, forse troppo all'avanguardia e anche sottovalutato.

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Viaggio nelle parole

di Mimmo Codispoti

In quel giorno d’autunno, guardandosi nello spec-chio, si ritrovò invecchiato, più cattivo, più povero di sogni, di illusioni, rispetto a quando c’era l’idealità del comunismo, si identificava la A con l’Amicizia verso l’uomo, con l’Amore verso la vita, con l’Anar-chia, c’era l’età e la voglia di ascoltare e credere nelle favole. Nel tempo s’era sempre più convinto che gli uomini di una volta fossero migliori degli uomini di adesso e che la ormai prossima era glaciale avrebbe cancellato tutte quelle figure sbiadite, più stinte che senza colore, che rendevano grigio, come la nebbia in Padania, il paesaggio della politica. Ora doveva sce-gliere se, nel dialogo, doveva vestirsi da cerimonia, adattandosi alla moda, o coprirsi con l’eskimo, conti-nuando ad essere se stesso, senza infingimenti, falsi-tà, convenevoli. Sapeva bene che in questo mondo, occupato da imbroglioni e da gente da poco, aveva perso la libertà, soffocato dalla necessità del lavoro, spinto dal senso della dignità di svolgere comunque il suo compito, dalla coscienza di non abusare di nulla e nessuno, dagli obblighi sentiti verso il prossimo. E i compromessi, per mantenere la pace fra gli ulivi, avevano scandito il suo tempo e intristito il suo cuore di vergogna. Non si era mai arreso, mai aveva rinun-ciato a fare quello in cui credeva, a scegliere, sempre nell’osservanza dell’etica e della morale, mentre in-torno a lui, per raggiungere “il potere”, vedeva tanta gente squallida che si vendeva e si faceva comprare. Così mentre a lui per vivere bastava guardare la luce dell’alba e i colori del tramonto, quelli davano tutto, tranne l’anima, per raggiungere i loro scopi. Tranne l’anima perché, secondo il suo giudizio, la loro vita era stata caratterizzata dall’avere più “quello”, il cu-lo, che quella, l’anima. Il rispettare, da respicio, guardare indietro, richiede che gli occhi sappiano vedere. Aprire gli occhi e con-templare è la condizione sine qua non per protegge-re, custodire. Dall’osservazione dei fenomeni, dalla percezione di ciò che è, l’uomo entra in relazione con gli altri esseri, comunica, da communico, entro in rapporto. Ed ecco la parola, con la magia delle sue lettere, come segno e mezzo di comunicazione, con-trapposta al silenzio, forma di rifiuto, tacito assenso di incomunicabilità. Avvertiva che tempo, spazio, relazione, punti di riferimento della nostra presenza nel mondo, ed essere, avere, appartenere, le variabili con cui questa presenza si realizza, non sono più sot-to il controllo della saggezza. Inquietudine e cupidi-

gia hanno sovvertito le priorità, creando disarmonia e caos. Considerava suo fine il lasciare una positiva impronta, esercitare la propria creatività, appropriarsi dei beni materiali e dello spazio, non nella dimensio-ne del possesso assoluto e privativo ma in quella del-l’utilizzo e della condivisione. Provava a reagire alla filosofia del nulla e del carpe diem, all’assenza dei valori: chiedeva che le leggi dell’economia fossero sottomesse a quelle dell’ecologia, per giungere all’e-cosofia, passando dal conoscere della scienza al sape-re della saggezza. Non voleva insegnare la vita, il tempo sarebbe stato il maestro ideale per tutti, ma nel girotondo, fra patetici pagliacci ed eroi senza spade e senza terre, avrebbe voluto che la libertà e la cultura si diffondessero, diventassero reali, non naufragassero in un mare d’i-pocrisia e d’ignoranza. Andava così al largo, alla ricerca del visibile e dell’invisibile, tra ciò che è e ciò che sarà, alla ricerca della luce, spostandosi dal silen-zio e dalle tenebre al bagliore. La voglia d’oblio della realtà, lo portava a relegare nel sogno l’utopia del mondo che verrà, dove non ci sarebbero state proces-sioni di rimpianti, labirinti di banalità, eterni falli-menti di chi, senza mezzi e senza futuro, era preda di famelici lupi. Continuava ad essere un sognatore e a differenza dell’adolescenza, dove c’era sempre qual-cuno che gli dava consigli non voluti e non richiesti, ora nessuno riusciva a soffocare il suo senso di rivol-ta e di protesta. Non stava a preoccuparsi che nessuno seguisse il suo disquisire, sapeva che la verità è un optional in questo mondo di bugiardi, dove i confor-misti si travestono da maghi, politici, preti, dirigenti, e i ragazzi non affidano più al diario le fasi della pro-pria crescita ma le diffondono in rete, nelle agorà informatiche. Affrontava la vita con dignità e com-batteva le sue battaglie nei suoi viaggi quotidiani in solitudine, senza il conforto della fede, senza cori di approvazione, senza soste in comunità accomodanti e accoglienti. E raccontava le sue storie senza poesia, senza predi-zioni, a volti sconosciuti che mai avrebbe visto e a cui avrebbe continuato a cantare le sue non canzoni all’infinito e per tutto il suo tempo. Ora andava via, liberando quella scuola da chi esprimeva, con parole ed esempi, il desiderio della conoscenza, da chi addi-tava comportamenti e stili di vita che racchiudevano l’uomo nella sua duplice essenza di organismo ani-male più evoluto e di animale culturale, volando via come un aquilone, un palloncino, una rondine. U-scendo si imbattè in uno stand su cui un cartello gial-lo con una scritta nera diceva: “Lega per la difesa del cane”. Alcuni volontari erano indaffarati a raccogliere le adesioni mentre, in un angolo, un cane se ne stava accucciato sul terreno, con la coda fra le gambe e lo sguardo perso nel vuoto. Aderì all’invito non veden-do l’ora, in difesa di quel cane, di abbaiare agli uomi-ni per porre fine, con un bau, al suo viaggio nelle parole.

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Appunti sulla teoria della

distruzione di Winfried

Sebald

di Claudia Ciardi

Il libro di Winfried Sebald, Storia naturale della distruzione, (titolo originale: Luftkrieg und Litera-tur) tradotto da Ada Vigliani, è una raccolta di tre saggi dedicati alla descrizione della “strategia” del-l’area bombing e al suo impatto sui civili tedeschi. L’autore si sofferma soprattutto su come l’esperien-za dei bombardamenti sia stata assorbita dall’imma-ginario collettivo tedesco e rielaborata attraverso la scrittura. Il saggio di chiusura, il quarto dunque nell’architet-tura dell’opera, fa parte per sé ed è un articolo mo-nografico sull’attività letteraria di Alfred Andersch, attorno a cui è peraltro in corso in terra tedesca un dibattito sulla sua riabilitazione. Descritto come un trasformista che cercò di cavalcare e sfruttare ai fini della sua carriera letteraria i rovesci della situazione politica del proprio paese, Sebald ne fa emergere il volto più enigmatico e sfuggente, qui proposto qua-le “massima e più compiuta espressione” di quella strenua volontà, di cui la Germania del dopoguerra si è solertemente nutrita, di rimuovere gli eventi o ricostruirli secondo una versione considerata accet-tabile. La coscienza collettiva del popolo tedesco, che per sopravvivere aveva bisogno di dormire sonni tran-quilli, e perciò di non scontrarsi con la nuda realtà fatta di macerie e sconfitte, secondo l’analisi di Se-bald, aspirò e raggiunse una sorta di apparente “atarassìa” del ricordo, un limbo del pensiero in cui il trauma delle vicissitudini di guerra, stemperato, deformato, quando non addirittura messo alla porta senza tante cerimonie, ha costituito la base più soli-da ma allo stesso tempo pesantemente minata al suo interno, del tentativo della Germania di recuperare uno spazio politico, economico e culturale nell’oc-cidente appena uscito dal conflitto mondiale. Quello che intende rilevare Sebald è il grande paradosso che ha alimentato la cultura e i sentimenti pubblici e privati nel dopoguerra tedesco: anziché ricostruire sulle vive tracce della memoria, è stato innalzato un edificio che ha le sue fondamenta nell’oblio. A naturale compendio di quanto si è detto vengono in mente le parole di Elias Canetti, che vedeva nella deformazione del ricordo la madre di ogni frainten-

dimento, fino alle sue estreme conseguenze. Il titolo della versione italiana, configurando lo stu-dio di Sebald come un contributo all’analisi della psicologia collettiva plasmata sulla desolazione della guerra, riprende il saggio concepito, e mai messo in cantiere, dal britannico Solly Zuckerman a proposito del bombardamento a tappeto che rase al suolo Colonia, argomenti ai quali lo scrittore riserva una parte del suo commento. Quasi fosse una tessera nel mosaico di un più ampio ragionamento sulle attitudini e le derive della socie-tà di massa, Sebald articola i suoi saggi facendo cadere l’accento sul modo in cui si organizzano i comportamenti umani e il loro concreto manifestar-si. Tutto ruota attorno alla incontrollabile pulsione a distruggere e, come per ogni istinto liberato, all’im-possibilità di indirizzarlo a un vero obiettivo. Quel che si è soliti definire una strategia si mostra allora per ciò che è: il caos dettato da una necessità senza freno e ben più forte della regola economica, che trova la sua rassicurazione teorica nel professare la “salvezza del mondo” dal nemico. Semmai questi sono i pretesti, sicuramente le mani che hanno aperto e guidato il gioco a distanza, e le motivazioni che bisognava cucire sulle uniformi dei ragazzi spediti in missione. Ma ogni cosa, in un cre-scendo efferato di truce parossismo, è finita confu-sa al delirante groviglio: la cosiddetta salvezza ha di-strutto “ab imo” ciò di cui si è dichiarata la più valida paladina. Di qui la conclusione che svuota e annulla qualsiasi tentativo di costruzione dialettica attorno alla prati-ca di guerra: “La guerra costruita sui bombardamenti era guerra in forma pura e scoperta. Dal suo sviluppo, contra-rio a qualsiasi razionalità, si può rilevare come le vittime di un conflitto (secondo quanto scrive Elai-ne Scarry nel suo libro di straordinaria acutezza The Body in Pain) siano non già vittime sacrificate sulla via che conduce a un qualche obiettivo, bensì esse stesse – nel vero senso del termine – e l’obiettivo e la via.” (Sebald, p. 31) L’ “epoca delle rovine”, così la chiama anche Ro-berto Carifi mentre ripensa ai giochi della propria infanzia “in uno spiazzo sterrato e desolato, circon-dato da edifici sventrati e cadenti”, orlando la vita e la parola ne scandisce l’istante della lacerazione e continua a farvi risuonare la sua eco. Epifania di un senso interrotto che, al deflagrare di

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ogni cosa, rivendica per sé un nuovo spazio nel mondo. C’è una consonanza, un accordo sonoro e sensibile, tra ciò che abita l’infanzia di Carifi, non a caso stu-dioso e traduttore di una parte cospicua della produ-zione poetica tedesca del ‘900, e l’impressione che Sebald riserva a se stesso da bambino: “Ho trascorso l’infanzia e la giovinezza in una zona che si estende lungo il margine settentrionale delle Alpi, zona largamente risparmiata dalle immediate conseguenze delle cosiddette operazioni militari. Alla fine della guerra avevo appena un anno ed è quindi difficile che, di quell’epoca segnata dalla distruzione, io possa aver serbato impressioni fon-date su eventi reali. Eppure ancor oggi, quando guardo fotografie o documentari del periodo belli-co, ho come la sensazione di esserne il figlio, come se di là, da quegli orrori che non ho vissuto, cadesse su di me un’ombra alla quale non potrò mai sfuggi-re del tutto. […] Le immagini dei sentieri di campagna, dei prati rivieraschi e dei pascoli montani vengono a confon-dersi davanti ai miei occhi con quelle della distru-zione, e – in maniera perversa – sono proprio queste ultime, non gli idilli infantili divenuti ormai assolu-tamente irreali, a darmi un senso di casa, forse per-ché rappresentano la realtà più potente, la realtà dominante dei miei primi anni di vita. Oggi so che allora, mentre ero disteso nella culla sull’altana del-la nostra casa di Seefeld e, socchiudendo gli occhi, guardavo in su verso il cielo bianco-azzurro, dap-pertutto in Europa erano sospese nuvole di fumo”. (Sebald, pp. 74-76) Questo agitarsi ossessivo di ombre nella retina dei “figli della guerra” fa parte di un nodo di memorie che chiede di essere sciolto e al contempo respinge chi cerca di attirarlo alle proprie mani; così il suo rivelarsi si ritrova ogni volta confiscato da altre fi-gure d’ombra, artigliato da una lontananza origina-ria e sostanziale, e il tentativo di abbracciarlo e in-terporvi un tempo che è al di là della sua misura ne fa una creatura ad-veniente. “Abitare le tracce di un ignoto disastro e offrire ogni cosa ad una vertigine vuota e distante”, così l’Infanzia e poesia di Roberto Carifi esorcizza l’at-timo dove, al deviare del vivere umano, si è aperta la ferita contemporanea ma non distoglie lo sguardo da quell’“Angelo bruciato” che sovrasta la “terra desolata” ormai sconfinante sul nostro passaggio. Si tratta di un’inconscia fedeltà a lambire quel che i suoi occhi hanno visitato all’origine della sua stessa fede nel mondo, nella stagione in cui, infanti, ci pieghiamo a guardare le cose e a sillabare le parole che le raccontano, antico ritornello dei secoli, un sentire che tuttavia si vede afferrato dalla perdita e dall’impotenza che riportano indietro. È l’Angelus Novus dipinto da Paul Klee, nel quale

Walter Benjamin riconosce l’angelo della storia con lo sguardo fisso a un passato da cui vorrebbe allontanarsi ma che proprio nel procedere oltre ac-cumula ai suoi piedi il disastro e lo trascina con sé. Ed è in questa stessa immagine che si rappresenta anche l’idea dell’andare in pezzi, beffardamente incarnata dall’“omino con la gobba”, il trickster che anima la celebre filastrocca tedesca recitata da Ben-jamin a conclusione dell’itinerario ispirato all’An-denken della sua infanzia berlinese: “Chi è guardato da questo gobbetto, perde la bussola. Non bada a se stesso, e neanche al gobbetto. Si ri-trova stordito davanti a un mucchio di cocci.” Così, nella disarmante sconfessione di una possibi-lità di uscita dal giro degli eventi e conseguente-mente dell’acquisizione di esperienza da essi, si intravede la soglia sulla quale è raccolta la fragilità della testimonianza umana e “poietica”, ossia del suo divenire qualcosa in opposizione al sopravveni-re di tutto, come nella parola che, contesa tra orrore e bellezza, si fa poesia, né è da considerarsi un caso che proprio l’immagine di Benjamin tagli a metà il libro di Sebald e s’incida come epigrafe che riflette l’inconciliabile necessità che in ogni epoca segna l’incerto avanzare degli uomini.

Testo analizzato:

- Winfried Sebald, Storia naturale della distruzione, traduzione italiana di Ada Vigliani, Adelphi, 2004 [titolo originale “Luftkrieg und Literatur”] Altri riferimenti bibliografici:

- Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, in particolare il saggio Tesi di filosofia della storia, traduzione e introdu-zione di Renato Solmi, Einaudi, 1962 [titolo originale “Schriften”]

- Walter Benjamin, Infanzia berlinese, tradu-

zione di Marisa Bertolini Peruzzi, Einaudi, 1981 [titolo originale: “Berliner Kindheit um Neunzehnhundert]

- Roberto Carifi, Nel ferro dei balocchi, Poe-sie 1983-2000, Crocetti Editore, 2008. Una silloge delle poesie di Roberto Carifi, cor-redata di una ricca nota biografica e di commento è stata riproposta nell’elegante volumetto curato da Fabrizio Zollo: Rober-to Carifi, D’improvviso e altre poesie scel-te, Via del Vento edizioni, collana “Le Streghe”, 2006

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Intervista a Olav Hergel autore

del thriller politico “Il fuggitivo” (Iperborea) di Cristina Marra

“La Danimarca è sempre stata un paese accogliente e

tollerante ma negli ultimi quindici anni si è trasforma-

ta nel paese europeo più intollerante.

Sono arrivati oltre trecentomila musulmani e hanno

avuto difficoltà ad integrarsi. Considerati con sospetto

e relegati nei campi profughi, non sono considerati

individui ma una massa da tenere a distanza. Ho visi-

tato quei campi, ho fatto un’inchiesta e credo che ci

sia davvero bisogno di una legge comunitaria per

tutelare gli immigrati”, così il noto giornalista Olav Hergel vincitore del premio Carling nel 2006 per la sua inchiesta sui centri di accoglienza in Danimarca descrive la nuova situazione socio-politica danese che racconta e denuncia nel suo romanzo d’esordio “Il fuggitivo” (Iperborea, pagg. 398, euro 17,50). Hergel, giornalista del “Politiken”, ambienta il suo romanzo nella Danimarca odierna, intollerante e xeno-foba, impaurita dalla diversità a cui reagisce con la legge anti-immigrazione più severa d’Europa. “Il fug-gitivo” è un thriller di denuncia di cui si fa portavoce la protagonista, la giornalista Rikke Lyngdal del Mor-

genavisen Danmark, “stufa del giornalismo da salot-to”. Inviata in Iraq e rapita da “un gruppo di spietati terroristi iracheni”, Rikke è mutilata in diretta tv dal giovane Nazir, diventa merce di scambio col governo danese: la sua vita in cambio del ritiro delle truppe militari. Il governo non cede al ricatto, e improvvisa-mente si apprende della fuga di Rikke che torna in patria accolta come un’eroina. Dietro la sua fuga si nasconde un’altra verità che coinvolge il giovane Na-zir, dagli “occhi azzurri scintillanti” e la sua decisione di diventare un terrorista. La società danese diventa la vera materia d’indagine dell’autore che con uno stile narrativo incalzante in cui si alternano suspense e a-zione lascia che siano gli occhi di Rikke, ciò che ha visto e che comincia ad esserle più chiaro a denuncia-re: i media al servizio del profitto, gli slogan politici che fomentano le paure xenofobe, le condizioni degli immigrazione e la loro impossibilità a integrarsi. Uno degli ospiti più attesi a “Più libri più liberi”, la fiera romana della piccola e media editoria, Olav He-gel, mi racconta della sua Danimarca e della sua deci-sione di scrivere un romanzo per far conoscere una situazione che accomuna diversi paesi. Perché hai scelto il thriller per la tua denuncia so-

ciale?

“Perché come giornalista non puoi avere un’idea poli-tica, devi essere imparziale, invece come romanziere

puoi dire ciò che vuoi. Ho scelto il thriller per le mie conoscenze in materia di politica e immigrazione, per-ché volevo un genere che mi permettesse di raggiun-gere più lettori possibili, e il thriller me lo consente”. Il romanzo nasce dalle tue conoscenze sul campo. È stato difficile inventare una storia in cui inserire fatti reali? “Questo romanzo è frutto di quindici anni di ricerca. Molte delle vicende che racconto sono reali, solo i personaggi sono tutti inventati. Ho inserito per-sonaggi romanzeschi nella realtà e in tre mesi e mezzo ho scritto “Il Fuggitivo”. Perchè la Danimarca è cambiata?

“Durante la Seconda Guerra Mondiale il mio paese ha salvato moltissimi ebrei e questa storia che mi raccon-tatva sempre mia madre mi riempiva di orgoglio. Ho sempre creduto che la mia nazione fosse pacifica e

tollerante. Questa immagine è cambiata soprattutto negli ultimi quindici anni. Siamo diventati un paese chiuso, con le leggi sull’immigrazione più severe d’Europa. Prima di questa attuale crisi economica, in Danimarca c’è stato un periodo di grande ricchezza e secondo me proprio quel benessere e quella ricchezza hanno portato alla chiusura. Ho visitato i campi profughi dove i rifugiati sono accolti e trattati bene ma da cui sia i bambini che gli adulti non possono uscire. I bambini non possono frequentare le scuole danesi. Con questo romanzo ho voluto anche denunciare il crescente nazionalismo a livello europeo”. La tua protagonista è una giornalista coraggiosa e

determinata. Com’è nato il personaggio di Rikke?

“Quando ho iniziato a scrivere il romanzo il protagoni-sta era un uomo, ma visto che sono molto conosciuto come giornalista non volevo essere identificato col mio personaggio. Scegliendo una donna, mi sono sen-tito più libero e ho potuto farla più coraggiosa, più sexy e più bella di me”.

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