" La Via " raccolta 2009

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in cammino con la Parola Raccolta 2009

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Raccolta del foglio settimanale "La Via" scritto da don Umberto. In questo libro tutte le uscite 2009

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in cammino con la Parola

Raccolta 2009

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Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

2009LA VIA

“LA FEDE CRISTIANA E’ UN’ ESPERIENZA DI VITA,

UN LUOGO DOVE INCONTRARE PERSONE,

STABILIRE RAPPORTI, PROPRIO COME SU UNA VIA… ”

(Via del 16/12/2007)

In queste pagine abbiamo raccolto le meditazioni di don Umberto

pubblicate sulla “Via” che, settimana dopo settimana, ci hanno

guidato, provocato o consolato:

Per non dimenticare,

Per intravedere risposte,

Per scovare una luce che rischiari le nostre domande

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2009LA VIA

Un altro anno è trascorso.E anche in questo 2009 che ci siamo lasciati alle spalle,La Via per ben 45 settimane ci ha tenuto compagnia. Un foglio piccolo, quasi tascabile, da portare ripiegato trale banconote in un portafogli o celato tra le pagine diun’agenda… Un foglietto semplice, senza alcun coloreattraente od immagine accattivante…Paginette umili che racchiudono in sé molto più deinumerosi appuntamenti settimanali che la parrocchiaoffre. La Via è soprattutto un silenzioso compagno che ciaccompagna nei nostri giorni, nella nostra ferialità, pienadi affanni e di distrazioni.E se è vero che la Bibbia è l’unica vera e grande Luce deinostri passi, La Via è un piccolo cerino che rischiara trat-ti della strada che stiamo percorrendo e che non lasciaspegnere il nostro desiderio di camminare con Cristo.

Erika.

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2009LA VIA Domenica 4 gennaio

TI RACCONTO UN SEGRETO(Gv 1, 1-5 . 9-14)

Tutto il Vangelo di Giovanni custodisce un segreto.Chi lo legge si imbatte spesso nella menzione di un “discepolo che Gesù amava”di cui non si dice il nome.Si sono fatte una molteplicità di ipotesi per capire di chi si tratta, ma nessunasoddisfa appieno tutte le esigenze.Ce n’è una però che ci emoziona più di altre: il discepolo amato senza nome ècolui che in quel momento legge il Vangelo che è quindi invitato ad entrare a farparte delle vicende stesse, rivivendole in prima persona senza lasciarle soloscritte sulla pagina.In una parola il discepolo amato è ciascuno di noi mentre legge questo Vangeloe lo scopo del Vangelo stesso è quello di farci conoscere Gesù per seguirlo.A questo punto si fa più chiara l’intenzione stessa dell’apostolo Giovanni: ilVangelo fu scritto per far crescere nella fede e solo alla fine vi fu aggiunta unapagina importante perché era quella che dava senso al tutto.Questa pagina era il prologo!Sì proprio il testo ascoltato oggi nella liturgia: esso è il primo capitolo del quartoVangelo ma fu scritto solo alla fine, quando il piano dell’opera era ormai defini-to.Dopo aver descritto cosa volesse significare essere discepolo l’evangelista si èchiesto: da dove ha origine tutto ciò?E ha risposto con una riflessione filosofica e a tratti poetica.Ci dice che il vero credente è un’eccezione perché tanti, troppi, non accolgono ilVerbo fatto carne.Chi crede infatti non vive “secondo la carne e il sangue”, cioè secondo i deside-ri spontanei. L’espressione “carne e sangue” infatti, descrive in forma sintetica imodi di sentire e di vivere che nascono in noi senza essere scelti ma suggeritidagli umori personali e dai modi di dire e pensare espressi da tutti.Vivere con la fede nel Vangelo vuol dire rompere la dipendenza dagli umori e dailuoghi comuni che premono su di noi come un peso inerte.Vuol dire mettere di mezzo, tra l’inclinazione e l’azione, l’ascolto disponibile dellaParola di Gesù per lasciarci guidare da Lui.Il cammino per essere simili discepoli è accompagnato dalla sapienza di Dio cheopera “fin dal principio”, dando senso e ordine alle cose e facendo rientrare tutto,anche gli sbandamenti, dentro il suo misterioso disegno.La meta è chiara: servire il Signore.L’origine pure: il pensiero provvidenziale di Dio.Tra i due poli, la nostra vita: piccola, semplice, ma unica e irripetibile.

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2009LA VIA Domenica 11 gennaio Battesimo di Gesù

CON I PECCATORI(Mc 1, 7-11)

Al vederlo lì in fila con tutti gli altri nessuno l’avrebbe mai detto che quell’uomoera il Figlio di Dio.Il battesimo di Giovanni era per il perdono dei peccati e i più incalliti venivano dalui per essere lavati e purificati.Tra questi Gesù di Nazareth.Lui che non ha mai conosciuto peccato.Cominciò così il suo ministero tra noi, con questa sua dichiarata scelta di starecon i peccatori e non contro di loro, con la sua opzione di convertirli con la con-divisione e non con la minaccia.Per tutta la vita Gesù si comportò così, al punto da essere chiamato “amico deipubblicani e dei peccatori”.Ma a Lui questa etichetta non darà mai problemi: egli non si curò della suaimmagine perché la sua certezza era che di questa immagine si sarebbe preoc-cupato Dio stesso, il Padre suo.Spesso Gesù chiese il silenzio sulla sua persona e i suoi gesti; quando lo cerca-vano per farlo re si ritirava in luoghi solitari; quando era acclamato e osannatofaceva discorsi duri ed esigenti.Per questo, ancor oggi, ha una parola vera da portare in una società che ha fattodell’immagine il suo feticcio.Ci si preoccupa di come si appare agli occhi degli altri a volte in modo eccessi-vo. La cura per la forma fisica diventa più importante di quella per la salute e ilmercato dei prodotti estetici si incrementa sempre più.Abbiamo costantemente bisogno di essere riconosciuti, apprezzati, considerati.Tutto ciò potrebbe anche essere naturale, se non fosse che l’effetto collateraledi una simile cultura è lo scoraggiamento e la desolazione che sperimenta chinon rientra in questi canoni.Proprio come i peccatori del tempo di Gesù, scartati e disprezzati dai ben pen-santi. Loro andavano da Giovanni il Battista; noi sappiamo di poter contare sulSignore.Ogni volta che sentiamo rinascere in noi il dubbio di non essere nulla, ogni voltache la fatica di vivere ci pare eccessiva e la delusione fa capolino deve tornarealla nostra memoria il Figlio di Dio che scende nell’acqua del Giordano.Non dobbiamo sfinire la nostra forza nel tentativo inutile di salvare la nostraimmagine agli occhi degli altri e ai nostri stessi occhi; dobbiamo invece rinnova-re l’attesa fiduciosa che oggi ancora risuoni dal cielo una voce e proclami lanostra dignità di figli.

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2009LA VIA Domenica 18 gennaio

IL NOSTRO NOME RISUONA(Gv 1, 35 - 42 e 1 Sam 3, 3 - 10)

Oggi si parla di vocazione.E’ un tema assolutamente fondamentale nella prospettiva della fede cristiana; esoprattutto non è l’esperienza privilegiata di pochi cioè solo di quelli che “hannoavuto la vocazione”.La vocazione è esperienza comune non solo dei cristiani, ma addirittura di tutti gliuomini.La nostra vita infatti è possibile soltanto nella forma di una risposta ad una chiama-ta: soltanto udendo il proprio nome pronunciato da altri ciascuno arriva a compren-dere la sua identità.Su questo tema dell’identità si sviluppano nella cultura odierna molte riflessioni.Si dice che ci sono identità deboli, che non ci sono più padri autorevoli, che sono incrisi le figure istituzionali dall’insegnante al prete.A volte c’è confusione persino sull’identità fondamentale di maschile e femminile: imargini tra i due si presentano incerti con le prevedibili conseguenze etiche.I grandi progressi delle neuroscienze, con la loro analisi della mente umana, hannoportato sì grandi benefici, ma anche profondi interrogativi su chi sia veramente l’uo-mo se viene equiparato ad un insieme di cellule neuronali in movimento.In questo contesto, non sempre sereno, le pagine bibliche di oggi suggeriscono unadirezione: l’identità può essere compresa alla luce della vocazione.Solo se capisco chi mi chiama, con che nome mi chiama, che cosa attende da me,posso insieme trovare la mia identità.E’ così fin dalla nascita: quando un bambino sente pronunciare il suo nome capiscedi esistere agli occhi degli altri. E tutta l’infanzia trascorre così: ogni bambino si sentechiamare; la sua vita non è possibile se non come risposta alla voce che chiama.I bambini non sono preoccupati per se stessi: giocano fino allo sfinimento, fino adignorare l’orario. Ma considererebbero assurda la richiesta di inventare da se stessila loro vita o la loro identità.Questa identità viene riconosciuta attraverso la voce della mamma e del papà chedeve rimandare però ad un’ALTRA VOCE che sta fuori campo.E’ la voce protagonista del racconto biblico della chiamata del piccolo Samuele; è lavoce di Cristo che chiama i discepoli a seguirlo.E’ strano che, con il sopraggiungere dell’età adulta, si metta a tacere questa voceche i bambini inequivocabilmente sentono.Mi chiedo se nell’invito di Gesù a tornare come bambini non ci sia anche quest’ap-pello a prestare ascolto alla VOCE invece che al frastuono che ci circonda.Si dice che solo da adulti si capiscono le cose e si conosce la vita; si dice chel’infanzia è una condizione di passaggio, una condizione temporanea.Sarà anche vero, ma non di rado mi trovo a pensare che sia la condizione adul-ta ad essere effimera.L’infanzia,lei sì che è eterna.

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2009LA VIA Domenica 25 gennaio

UNA FRETTA “EVANGELICA”(Mc 1, 14-20)

Quello di Marco è un vangelo breve, asciutto e incisivo.Sedici capitoli in tutto che si leggono in non più di due ore. E’ come un fulmine o unameteora.Tutto si svolge in fretta nelle pagine di questo vangelo.L’avverbio “subito” intervienespesso a scandire i tempi della narrazione.Anche Gesù si muove come se, per l’urgenza del fare, non ci fosse neppure un minu-to da perdere.Egli inizia il suo ministero con una frase: “.. il tempo è compiuto, convertitevi”.Bisogna prendere coscienza che il tempo favorevole è questo, domani sarebbe trop-po tardi.A questa fretta di Gesù fa eco S. Paolo nella lettura odierna “fratelli, il tempo si è fattobreve!”Certo fa riflettere questo ripetuto appello ad agire subito, senza tergiversare.In genere, infatti, la fretta non è una buona cosa. La nostra sapienza popolare ci fadire che essa è una cattiva consigliera; ma anche la tradizione spirituale della Chiesainsegna a valorizzare l’attesa e la pazienza piuttosto che la fretta e l’affanno.Vengono in mente le parole di S. Agostino che pregava così: “Signore, rendimi santo,ma non subito”.Perché allora questa insistenza di Gesù ad agire con immediatezza?Se guardiamo a noi stessi ci accorgiamo che quando si tratta di fare del bene, dicompiere un sacrificio o una azione che non ci procuri immediato vantaggio allorasiamo portati a rimandare molto i nostri gesti.Prima di deciderci ci attardiamo a lungo, magari con alibi e pretesti banali ma che noisentiamo insuperabili. Forse è proprio in queste situazioni che Gesù raccomanda lafretta.Si tratta di compiere scelte buone, gesti di attenzione o sacrifici o anche quando nonci sono le condizioni ideali e la nostra convinzione interiore non è del tutto solida.E’ il bene stesso a suscitare l’urgenza.Tanto spesso invece la nostra fretta e la nostra impazienza le esercitiamo nei con-fronti degli altri.Quando coltiviamo aspettative di qualsiasi tipo nei confronti dei fratelli allora, pianopiano, diventiamo anche esigenti e vorremmo vedere l’immediato realizzarsi deinostri desideri.Siamo portati ad essere impazienti con gli altri e pigri con noi stessi, mentre Gesù ciesorta a fare l’esatto contrario Dio ha con noi una pazienza infinita: ma di essa fa certamente parte anche il conti-nuo appello ad affrettare la nostra conversione, senza rimandare all’infinito il beneda compiere.

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2009LA VIA Domenica 1 febbraio

LA PAROLA FERISCE(Mc 1, 21-28)

La Parola di Dio può far male.Si consiglia, a chi soffre emozioni troppo forti, di stare lontano.Fa male anzitutto a chi la trasmette, a chi la annuncia, se la annuncia con sin-cerità.Mi viene in mente una splendida pagina del romanzo di Bernanos “Diario diun curato di campagna”. Si racconta di un giovane prete che va a trovare unanziano parroco, un uomo sapiente, ma burbero e arcigno.Il colloquio tra i due è toccante e alla fine l’anziano congeda il giovane con que-sta frase: “quando il Signore trae da noi, per caso, una parola utile alle persone,dobbiamo sentirla dal male che ci fa.”La Parola di Dio però fa male anche a chi la riceve. Se si va ad ascoltare laParola del Signore per cercarne un “effetto placebo” si rimarrà delusi.Perché essa deve inquietare. Deve corrompere anzitutto la nostra tranquillità.E’ ciò che ci testimonia il vangelo di oggi; l’ossesso guarito da Gesù reagiscedicendogli: “Sei venuto a rovinarci!”Mi colpisce questo grido di reazione.Quell’uomo ha avuto bisogno di passare attraverso una iniziale rovina per esse-re guarito. Era una persona normale, seduta tra i banchi della sinagoga, e laParola di Gesù lo scuote, lo ferisce e lo sana.Quando Gesù parlava le persone avvertivano come un coltello nella piaga, comeil sale sulle ferite, eppure continuavano ad andare ad ascoltarlo.Capivano che la sua Parola faceva crescere, perché pronunciata “con autorità”.Da dove veniva a Gesù la forza della sua parola?Anzitutto Egli parla in una sinagoga che è luogo di silenzio e di ascolto. Altrevolte sceglierà il deserto o il monte o la riva del lago.Perché la Parola, per essere autorevole, deve avere il profumo del silenzio. Nonpuò risuonare nel chiasso delle piazze o tra uno spot pubblicitario e l’altro.La forza della Parola di Gesù si fondava ancora sulla sua aderenza alla vita: nonimpartiva lezioni, ma parlava dal cuore.Il cuore dell’uomo è il suo oracolo, perché da lì vengono le parole più vere; sonoquelle più profonde non quelle istintive, perché il cuore non è il luogo della spon-taneità.Per arrivare al cuore di noi stessi e delle cose ci vuole tempo,come quando sicerca una sorgente sotterranea. Ma da quella profondità nascono parole autore-voli, parole che fanno crescere.E queste parole, come quelle di Gesù, a volte hanno bisogno di portare rovina.La Parola di Dio può far male: ma è un male che si converte nel nostro verobene.

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2009LA VIA Domenica 8 febbraio

Bisogno di guarigione (Mc 1,29-39) e (Gb 7,1-7)

Al tempo di Gesù Cafarnao era un piccolo paese con poco più di mille abitanti.Per questo, di fronte all’altissima densità di malati e di indemoniati di cui parla ilVangelo si rimane perplessi. Gesù opera guarigioni fin dopo il tramonto del sole,quando neppure agli schiavi era più permesso di lavorare.Sembra che i malati si siano concentrati tutti in quella cittadina talmente è esa-gerata la loro presenza. Forse erano giunti a Cafarnao anche dai dintorni.O forse lo scarso sviluppo della medicina faceva sì che tante fossero le personecon salute cagionevole. Ma se noi considerassimo anche la prima lettura di oggicapiremmo il senso di questa sproporzione. Il libro di Giobbe presenta un situa-zione di malattia che riguarda ogni uomo.Richiama alla mente quella che il filosofo Kierkegaard chiama “la malattia mor-tale”: un’esperienza che non riguarda solo il corpo ma anche lo spirito.Una condizione di tristezza, di sfiducia nella vita e di vuoto di senso dal quale siviene afferrati, per periodi che possono essere anche lunghi, venendo condottiad attendere qualcosa, una svolta, un evento che non accade mai.La condizione dell’uomo, se la guardiamo con disincanto non è quella che vieneofferta dalla pubblicità: belli, felici e vincenti.E’ qualcosa di molto più precario e più fragile: noi siamo tutti bisognosi di guari-gione.La comparsa di Gesù genera subito qualcosa di nuovo. Egli parla nella sinago-ga di Cafarnao e rompe la routine soporifera di quel paese; entra in casa di unadonna malata e la guarisce; rimane fino a sera inoltrata e sana una gran quan-tità di indemoniati.Gesù porta la guarigione di cui c’è bisogno. E mette in evidenza segni inequivo-cabili di tale guarigione.La suocera di Pietro, sanata dalla febbre, si mette a servire, si rende disponibi-le, uscendo da una preoccupazione rivolta unicamente a se stessa per andareincontro agli altri.Il vuoto di senso si colma smettendo di guardare solo il proprio mondo (il proprioombelico direbbero i padri della Chiesa) per abbracciare ciò che c’è intorno efuori di noi.Una vita offerta, una vita donata, come fu quella di Gesù,rappresenta la veraguarigione.La forza di questo dono il Signore la trova nella preghiera alla quale ricorre sot-traendo il tempo ad altre, pur legittime, incombenze.E quando tutti lo cercavano perché urgente era il bisogno di lui, egli andavaaltrove… Gesù, in verità, è sempre alla ricerca di un “altrove”; incapace di lasciarscivolare nella routine la forza del suo amore, rinnova la sua freschezza interio-re nel contatto con Dio.E così guariva.Guarirà anche noi.

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2009LA VIA Domenica 15 febbraio

TRASGRESSIONE E SALVEZZA(Mc 1,40-45)

Una terribile condanna alla solitudine.Ecco cos’era la lebbra: una malattia che generava emarginazione, isolamento, allon-tanamento da parte della società.Il lebbroso rappresentava tutto ciò che gli uomini per bene non volevano vedere: lebrutture, le imperfezioni, il marciume. E come se non bastasse, un lebbroso era ritenuto alla stregua di un peccatore col-pito da Dio e la sua malattia era il castigo divino.Alle barriere erette da parte degli uomini si aggiungevano quelle di Dio…O meglio, quelle di una certa idea di Dio: un Dio meschino quanto le persone, un Dioallineato con gli stessi sentimenti umani, paurosi e faziosi.Un Dio che non si differenziava in nulla e faceva sue le stesse piccole idee delle per-sone, perché in fondo non ne era che il prodotto.Sempre l’umanità ha dovuto far fronte a questo rischio: quello di manipolare Dio,facendogli dire quello che gli uomini avevano in testa, anzi, invocandolo come gran-de giustificatore delle azioni umane, anche se riprovevoli.Un Dio assurdo, ma che non poteva dar fastidio a nessuno perché tranquillamenteaddomesticato.Ma se una persona non ha più gli uomini con cui stare e nemmeno un Dio da invo-care cosa gli rimane?Cosa rimaneva a quel lebbroso? Ormai, solo un ALTRO DIO lo poteva salvare; anzi un Dio “totalmente altro”: GesùCristo.Il miracolo avviene, lo sappiamo bene ormai, ci siamo così abituati a questi raccon-ti di guarigione che essi non ci sorprendono più.Ma ci dovrebbe sorprendere il fatto che questo miracolo sia reso possibile da duetrasgressioni: trasgressivo è il comportamento del lebbroso che si avvicina a Gesù.Non ne aveva il diritto.Era un gesto che la legge puniva a colpi di pietra; ma trasgressivo è anche il gestodi Gesù che tocca il lebbroso. Era proibito.Del resto avrebbe potuto guarirlo senza toccarlo.La trasgressione per Gesù vuol dire cancellare la distanza, abbattere gli steccatidella separazione, diventare lui stesso un appestato assumendo su di sé la condizio-ne maledetta dell’altro.E con questo gesto dipinge i tratti di un nuovo volto di Dio.Nei confronti del lebbroso resta un ultimo atto di prudenza: Gesù gli dice di andarea presentarsi al sacerdote perché la religione istituzionale possa accertare la suaguarigione.Ma il lebbroso non ci va. E fa bene.Perché di un dio che lo aveva scartato, emarginandolo come avevano fatto gli uomi-ni non ne vuole più sapere e di una religione piena di regole, ma vuota di carità nonvuole più sentirne parlare.E noi?

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2009LA VIA Domenica 22 febbraio

ANDARE OLTRE(Mc 2,1-12)

Il Vangelo di Marco, al termine di un racconto di guarigione, ripropone spessol’ordine di Gesù di tacere. Egli compie miracoli e poi chiede che non lo si facciasapere in giro. Inizialmente si resta sorpresi di questa ingiunzione da parte diGesù, ma poi il significato ci diventa chiaro. Gesù diffida di quel fervore imme-diato e troppo facile che suscitano i suoi gesti di guarigione: esso appare unareazione solo umana, e troppo umana, che non coglie il senso del misteroannunciato da quelle guarigioni. Esse infatti non sono semplici rimedi a situazio-ni di disagio e di sofferenza, ma annunciano un mistero.Come tali non possono essere colte, nel loro pieno significato, da reazioni emo-tive e spontanee, ma richiedono tempo e riflessioni, richiedono di essere meta-bolizzate. C’è bisogno,insomma, di “andare oltre”, di non fermarsi solo a quelche si vede, perché solo andando oltre ci si mette in sintonia con Gesù.Il miracolo raccontato dal Vangelo di oggi va compreso esattamente con questalogica. Anzitutto occorre oltrepassare la folla che impedisce l’accesso diretto aGesù. Coloro che stanno intorno al Signore sono come una barriera per il para-litico che deve essere calato dal tetto sul suo lettuccio.La massa è spesso un impedimento ad una esperienza di fede forte, ad un realeincontro con Cristo. Occorre sempre uscire dalla confusione, “andare oltre” lacalca, la folla indistinta, per mettersi in gioco personalmente.Una volta davanti al paralitico è Gesù a compiere un gesto con cui va oltre l’evi-denza: egli lo guarisce ma associa questa guarigione al perdono dei peccati.Gesù è capace di “andare oltre” nel senso che vede nel male fisico l’espressio-ne di un altro male, un male morale, una ferita interiore.Per Gesù una ritrovata efficienza fisica che non fosse accompagnata da unaritrovata integrità interiore non sarebbe un vero miracolo.A che serve risolvere una paralisi esteriore se rimane paralizzata la propria inte-riorità? Gesù sa che la ragione vera per cui la paralisi fa tanto male sta nel fattoche gli uomini fanno consistere la loro vita in quelle cose che solo con le gambesi possono fare e quindi chi non le può usare è spacciato.Ma la vita non consiste in quelle cose; la vita vera sta nel nostro legame con Dio.Se noi fossimo certi d’essere cari a Dio e amati da Lui, nessun male di questomondo potrebbe toglierci la fiducia.Perdonando i peccati del paralitico, Gesù vuole fargli comprendere esattamentequesto: non è disprezzato da Dio solo perché non può far uso delle gambe!Possiamo chiederci anche noi che cosa ci paralizza: forse, se cercassimo bene,troveremmo in qualche angolo della nostra anima il timore di essere colpevolisenza rimedio. Troveremmo il timore, che nasce dal peccato, di non essere accolti, capiti, amatidal Signore e capiremmo che è questo a paralizzarci.Ma solo allora gusteremmo la bellezza di questa pagina del Vangelo.

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2009LA VIA Domenica 1 marzo -1° di Quaresima

TRA NOE’ E GESU’(Mc 1,13-15)

L’appuntamento fisso si rinnova e la Quaresima ritorna, con il suo radicale appel-lo alla conversione, alla sobrietà e alla carità.Ci si presenta davanti agli occhi l’immagine ormai familiare di Gesù nel deserto,tentato da Satana.La versione però è quella dell’evangelista Marco, che ne dà notizia in modo con-ciso, senza alcuna informazione relativa ai contenuti delle prove che Gesùdovette superare in quei quaranta giorni. Il senso di questa esperienza di Gesùè suggerito attraverso pochissime indicazioni, laconiche, ma molto dense di sug-gestione. Tra tutte, la più eloquente dal punto di vista simbolico mi sembra quel-la conclusiva dell’episodio:” Gesù stava con le bestie selvatiche e gli angeli loservivano”. E’ una visione di grande armonia e di pace. C’è qualcosa di paradi-siaco e di bucolico in questo rimanere di Gesù tranquillo anche tra animali fero-ci. E’ simile a quei momenti (pochi a dire il vero) nei quali capita anche a noi disentirci sereni, pacificati, in profonda sintonia con la vita e con il creato.Anche la prima lettura fa pensare a questo scenario: al termine del diluvio Dioristabilisce la sua alleanza con Noè e, attraverso di lui, con la creazioneintera.Un respiro sereno sfiora gli esseri viventi, dagli animali alle piante.La differenza consiste, evidentemente, nel modo con cui si è giunti a questaarmonia. La generazione del diluvio era cattiva e fu spazzata via da un interven-to di Dio, duro ma efficace. Per ritrovare sintonia ci fu bisogno di fare piazza puli-ta. Con Gesù invece si è giunti all’armonia grazie alla capacità di vincere le ten-tazioni e quindi di resistere al desiderio di imporsi e di possedere a tutti i costi lecose. La situazione in cui Gesù viene a trovarsi ricorda il paradiso: mediante lasua lotta vittoriosa con Satana, Gesù trasforma il deserto in giardino.Ma c’è bisogno di passare attraverso una mortificazione dei desideri perché ciòavvenga. Per noi oggi forse questo è un linguaggio antico e indigesto ma la suaverità resta immutata. Tutti sappiamo che l’eccesso del cibo, delle bevande o ladipendenza dal desiderio degli occhi sono nutriti da una permanente agitazionedello spirito; in una parola, sono nutriti dal nervosismo. Ci accorgiamo spesso diessere nervosi ma non sappiamo il perché. Il nervosismo è in realtà l’indice diuna assenza: ci viene a mancare qualcosa che riteniamo di dover avere e cosìci sentiamo colpiti da un’ingiustizia. Allora ci tuffiamo sulle cose per riempire que-sta assenza che ci fa soffrire. Ma nel deserto, dove Gesù andò, non c’era nien-te da possedere o niente da vedere: e solo quando la bocca è vuota e gli occhiplacati è possibile cogliere quello che c’è nel cuore. Questa situazione di pace e di armonia, senza nervosismo, non è un’illusione ouna chimera. E’ il frutto di un tempo quaresimale in cui si ridimensionano biso-gni, pretese e aspettative per porre la nostra fiducia in Dio al quale appartengo-no tutti i nostri giorni.Buona Quaresima

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2009LA VIA Domenica 8 Marzo - 2° di Quaresima

ADDIO MONTI(Gn 22 e Mc 9, 2-10)

Il titolo lo prendo in prestito dal Manzoni, ma spero che non mi vengano chiestii diritti d’autore. Mi sembrano le parole più adatte a dire in quale contesto ci fac-cia muovere oggi la liturgia. C’è il monte sul quale è chiamato a salire Abramoper sacrificare suo figlio; e c’è il monte sul quale sale Gesù per trasfigurarsidavanti ai discepoli. Il fascino di questi monti biblici non sta tanto nella strada fati-cosa per arrivarci quanto nel mistero dell’”altro versante” che essi svelano.Evidentemente la salita è un’immagine simbolica: è il simbolo di un cammino cheva verso Dio, che si innalza a qualcosa di straordinario e di sublime.Ma anche l’ “altro versante” è simbolico: il monte rivela qualcosa di inedito, disconosciuto che però attrae e incuriosisce. Per Abramo la vetta del Moria è unameta inquietante ed angosciosa: dovrà salire lassù per sacrificare suo figlio, quelfiglio tanto atteso e tanto amato.Ma una volta giuntovi, gli si rivela la bellezza dell’altro versante. Sul monte ilSignore provvede. Ciò che Abramo temeva come una prova terribile si dimostraessere un segno della provvidenza.E la notte oscura della sua fede si trasforma nell’aurora di luce del dono di Dioche gli restituisce il figlio. E così anche per gli apostoli che salgono sul montecon Gesù sono in serbo piacevoli sorprese.Avevano conosciuto Gesù sempre immerso tra la gente, pronto a guarire, con-solare,liberare, ora invece lo vedono tirarsi in disparte, sottrarsi all’assedio dellafolla e delle sue attese. Gesù si è spesso assentato quando coglieva aspettati-ve sbagliate nei suoi confronti. La sua vita non fu un continuo rispondere alleattese della gente. Anzi, il suo mistero fu quello di essere spesso altrove rispet-to a dove le persone volevano che egli fosse, costringendo gli altri a cercarlo piùche essere lui a cercare loro.E per gli apostoli ciò significò sperimentare l’altro versante del monte, cioè cono-scere Gesù in un modo nuovo più intimo, più vero. Lo conobbero in tutta la suagloria e la sua realtà divina.Gesù li ha sottratti alla pianura e li ha portati in alto, lontano dal mondo abitua-le. Facendoli uscire dalla vita ripetitiva, appesantita dalle consuetudini e offusca-ta dalle convenzioni hanno potuto intuire la verità interiore del loro maestro.Per questo è necessario, ogni tanto, uscire dalla dimensione mortificante dellapianura e guadagnare l’aria delle altezze, del silenzio, della solitudine e dellapreghiera. E custodire la consapevolezza che i monti vanno abbandonati.Sia per Abramo, che per gli apostoli con Gesù, il monte non fu una meta ma unasosta. Da quei monti occorreva discendere perché la vita era altrove.Ma senza quei monti la vita avrebbe avuto tutto un altro significato: senza dub-bio più vuota e più povera.Fa’ che la tua Quaresima non passi senza trovare anche tu il tuo monte su cuisalire.

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2009LA VIA Domenica 15 Marzo - 3° di Quaresima

TOGLIETE IL LIEVITO VECCHIO(Gv 2, 13-25)

“Imparate da me che sono mite e umile di cuore” Con questa frase, e con altre,Gesù ha presentato se stesso ai suoi.Sono parole che a prima vista non trovano riscontro nel gesto narrato oggi nelVangelo.Gesù si scaglia contro i venditori che si trovano nel recinto del Tempio e rovescia iloro tavoli da lavoro.Un atto che sembra frutto di un temperamento istintivo e passionale.Un gesto inatteso e sconcertante che dovette impressionare fortemente i presenti.Ma Gesù non voleva tanto orientare la sua irritazione contro i mercanti del Tempiocome fossero odiosi trafficanti, quanto denunciare il fatto che le pratiche rituali fos-sero diventate fonte di profitti illeciti e che l’esteriorità dei gesti avesse preso ilsopravvento sulla sincerità del cuore.Il racconto infatti inizia con una breve annotazione: “si avvicinava la Pasqua deiGiudei”.Per celebrare la Pasqua le famiglie d’Israele dovevano ripulire la loro casa da tuttociò che era impuro e vecchio: quindi pulizie esteriori per indicare la preparazioneinteriore alla festa.E’ a questa usanza che fa riferimento S. Paolo quando dice: “Togliete via il lievitovecchio”.Pertanto, come tutti pulivano e purificavano la propria casa, così Gesù vuole puri-ficare la casa di Dio, il Tempio. E lo fa con un gesto deciso e inequivocabile.In questa immagine della purificazione ritroviamo il centro del messaggio di questoVangelo.Si può infatti, quasi senza accorgersene, stabilire un rapporto con Dio come quel-lo dei mercanti del Tempio: avere a cuore i propri interessi e usare Dio come mezzoper raggiungerli.I nostri interessi infatti possono essere di vario genere: la salute, il successo, ildenaro, la serenità e per ottenerli si può invocare il Signore senza mai discernerese questi stessi interessi siano nella linea del Vangelo oppure no.In buona fede ci ritroviamo spesso a mettere prima i nostri interessi e poi Dio inve-ce che fare il contrario,lasciando andare nell’oblio quelle splendide parole di Gesù:“il Padre vostro celeste sa di che cosa avete bisogno; cercate prima il Regno di Dioe tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”C’è quindi bisogno di purificazione, ma di una purificazione che parte dal cuore eci aiuti a rimettere al centro Dio.Il cuore dell’uomo è infatti il vero Tempio, dove abita la presenza di Dio dal momen-to in cui, con il Battesimo, ciascuno di noi è stato incorporato a Cristo.E Gesù che conosce il nostro cuore e sa quello che c’è in ciascuno ci aiuti ad esse-re veri nei nostri rapporti e nella nostra fede perché la Quaresima sia realmente untempo di conversione.

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2009LA VIA Domenica 22 Marzo - 4° di Quaresima

COLLOQUI NOTTURNI(Gv. 3, 14 - 21)

Il colloquio tra Gesù e Nicodemo di cui ci parla il Vangelo di oggi avviene di notte.Nicodemo infatti era un capo dei farisei e non voleva farsi vedere pubblicamen-te in compagnia del maestro di Nazareth.Gesù però non lo mette in imbarazzo, non lo accusa di viltà, ma lo accoglie inuna confidenza che sorprende. Come se la notte fosse la cornice ideale per unaintimità amicale il Signore svela a Nicodemo la profondità della sua persona e ilsenso della sua missione: “ Io sono venuto non per condannare, ma per salva-re il mondo”.L’immagine emblematica utilizzata da Gesù è quella del serpente di bronzoinnalzato da Mosè.Il popolo di Israele, nel deserto, era stato attaccato da serpenti velenosi che mor-devano la gente: questo flagello fu interpretato come un castigo di Dio per lecolpe del popolo stesso che si lamentava per il cammino faticoso e che non spe-rava più nella provvidenza di Jahwhe.Ciò che sembrava una condanna diventa invece strumento di salvezza,esatta-mente come per la croce di Cristo.Il popolo, guardando il serpente, riconosceva la propria colpa e così trovava sal-vezza; il cristiano, guardando la croce, riconosce le sue colpe e così sperimen-ta il perdono.Chi non vuole riconoscere le sue colpe resta nelle tenebre per nascondersi, per-ché la luce metterebbe in evidenza la verità della sua persona.La minaccia vera alla nostra vita non viene dalla grandezza della nostra colpa,ma dalla nostra ostinazione a non volerla considerare, magari scaricandola suglialtri e negandoci così la parte più bella del volto di Dio: la sua misericordia.Ma siccome troppo poco crediamo a questa sua misericordia, va a finire che cer-chiamo in tutti i modi di negare la nostra colpa e di negare, in tal modo il nostrobisogno del suo perdono.Il nostro peccato non è senza rimedio: chi ha la forza di alzare lo sguardo al cro-cifisso lo sa bene.

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2009LA VIA Domenica 22 Marzo - 4° di Quaresima

Signore, Gesù Cristo!

Gli uccelli hanno i loro nidi e le volpi le loro tane,

ma tu non avesti dove posare il capo,

Non hai avuto un letto su questa terra.

Tuttavia eri quel luogo segreto, l’unico,

In cui il peccatore potesse trovar rifugio.

E anche oggi tu sei il nascondiglio:

Quando il peccatore corre a te,

Si nasconde in te, è nascosto in te.

Allora egli è eternamente difeso,

Poiché l’amore nasconde la moltitudine dei peccati

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2009LA VIA Domenica 29 marzo - 5° di quaresima

LA GLORIA DI GESU’ e LA GLORIA DEL MONDO(Gv 12, 20-33)

Un gruppo di pagani, greci, si rivolge all’apostolo Filippo chiedendogli di vedereGesù.E’ con questa richiesta che si apre il Vangelo di oggi.Una richiesta con un significato preciso: il desiderio di vedere Gesù è già, nel-l’intenzione dell’evangelista, un inizio di fede e non una semplice curiosità.E’ un momento grande e per Gesù costituisce un segno da parte del Padre: ini-zia la sua glorificazione, già prima preannunciata;inizia con l’accorrere dei paga-ni verso di lui.Questa glorificazione, intesa come irradiamento della presenza di Dio dimoran-te nel Verbo incarnato, non pare oscurata dalla Croce ma anzi troverà in essa lasua pienezza.La passione, momento estremo di fragilità, rivelerà la gloria di Cristo.E’ da questa idea di gloria che un cristiano si lascia plasmare.Se pensiamo alla gloria, noi oggi siamo portati ad associarla al successo, allacapacità di realizzare se stessi magari a scapito degli altri.Ci sembra che per essere nella gloria occorra essere “qualcuno” o quantomenofarsi strada nella vita.Per Gesù invece la gloria consiste nel fare dono della propria vita fino alla fine.Egli è nella gloria in modo diverso da come la concepisce il mondo: una vita vale,dal punto di vista del Vangelo, se è spesa per amore.Come il seme deve morire per portare frutto così Gesù porterà, attraverso la suamorte, vita abbondante per tutti gli uomini.Il tema della gloria intercetta quella domanda fondamentale di ogni persona:quando una vita umana è una vita di valore?Io ritengo che questa domanda sia feconda in due momenti chiave della vita: lagiovinezza e la vecchiaia.Da giovani si decide cosa farne della propria vita, quale direzione darle e su qualivalori lasciarla germogliare.Da vecchi ci si interroga, prima dell’incontro definitivo con il Padre, su cosa ne èstato della nostra vita, sui frutti che ha portato, sul valore che ha avuto.Ad entrambe le età Cristo potrebbe rispondere che tutto ciò che non viene dona-to va perduto (soprattutto la vita) e a lui fare eco S. Paolo nel ricordare che sare-mo giudicati sull’amore.Confesso che quando vedo generazioni di giovani crescere con l’ideale di diven-tare famosi ed affermare se stessi, sento dentro di me l’onda lunga dello scorag-giamento, soprattutto per le delusioni che loro stessi subiranno.E mi pare che in questo marasma di voci chiassose la proposta cristiana sia unsussurro.Forse è così; ma tutti i sussurri meritano attenzione, se non altro perché non ciimpongono la loro presenza.

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2009LA VIA Domenica 5 aprile

SOLITUDINE E SALVEZZA

Quasi fosse un portale d’ingresso alla Settimana Santa, la domenica delle Palmeci offre l’intera Passione di Gesù così come è importata dal Vangelo di Marco.Ma è nella lettura del profeta Isaia che noi possiamo trovarne una chiave inter-pretativa.Perché tutta questa sofferenza? Perché questa solitudine? Gesù, figlio di Dio,non poteva salvare il mondo in altro modo?La profezia ascoltata parla di un uomo che soffrendo ………“una lingua da discepolo, perché sappia indirizzre una parola allo sfiduciato” (15-50 ,4)Non è facile indirizzare una parola allo sfiduciato; ogni parola incoraggiante infat-ti che sia a lui indirizzata è da lui facilmente intesa come parola leggera, pronun-ciata da chi in realtà non conosce il suo dolore.Per potergli parlare con frutto occorre,in qualche modo, passare personalmenteattraverso la medesima prova.Ed è ciò che fa Gesù con la sua passione.Egli muore perché ogni persona che muore possa affidarsi a lui; egli soffre per-ché ogni persona che soffre si senta capita; egli ha paura perché la paura del-l’uomo non sia mai abisso incolmabile; egli sente l’abbandono perché tutti quel-li che si sentono abbandonati da Dio abbiano un compagno di viaggio.Mi persuado sempre più che Gesù doveva passare attraverso questa passione.Ogni altro modo di morire non avrebbe salvato integralmente gli uomini.La nostra è una cultura che esalta l’individualismo fino all’estremo, senza accor-gersi, a volte, delpenoso esito di solitudine che esso porta con sé.Anche Gesù si ritrovò solo.Il racconto della Passione è un progressivo allargarsi dell’abisso di solitudinesperimentato dal Cristo.Al colmo di questa avventura però, egli trovò la forza di affidarsi al Padre, ed inquella fiducia la solitudine si trasformò in compagnia.Iniziamo così questa settimana Santa, per ritrovarci anche noi a celebrare la vit-toria del perdono sul rancore, la vittoria della bellezza su ogni forma di volgari-tà, la vittoria del profumo della vita su ogni sentore di morte.

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2009LA VIA Domenica 12 aprile S. Pasqua

UNA PORTA SULL’ETERNO

La notte di Pasqua l’assemblea liturgica appare piuttosto rarefatta. Non c’è confron-to con la Messa della mezzanotte di Natale.A Pasqua, i pochi giorni di vacanza previsti per la festa sono un’attrattiva forte e intanti ne approfittano per muoversi dalla propria quotidianità.E’ come se la Risurrezione di Gesù fosse un mistero senza spazio e senza tempoche può essere ugualmente celebrato ed apprezzato in ogni luogo della terra.Si dice, appunto: “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”.Leggendo attentamente il Vangelo però, ci si accorge che le cose non stanno esat-tamente così.Ai suoi discepoli Gesù, attraverso la parola dell’angelo, dà appuntamento in un luogopreciso: “E’ resuscitato dai morti e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete”.Perché poi proprio in Galilea?La Galilea era stata l’inizio di tutto e soprattutto quella terra era stata il teatro abitua-le della vita di Gesù.Lì il Signore aveva compiuto i primi miracoli; lì aveva chiamato i discepoli; nella sina-goga di quella città egli aveva cominciato ad annunciare il Vangelo.Cristo risorto quindi non va in un’altra vita, ma ritorna nella vita di prima, con una pre-senza nuova però.E’ proprio il quotidiano il luogo dove fa esperienza del risorto. Tutte le cose che Gesùha fatto in Galilea, tutte le parole pronunciate e le azioni compiute vanno rilette allaluce della resurrezione.Pensare di credere al Gesù di Galilea, cioè agli insegnamenti del Signore, senza cre-dere alla sua risurrezione è un controsenso.Perché senza resurrezione le parole di Gesù diventano una semplice morale di vitama non certo la buona notizia che salva. E’ significativo che anche i gesti compiuti da Gesù risorto siano gesti intrisi di quoti-dianità: chiamare Maria per nome, mangiare il pesce sul lago di Tiberiade, spezzareil pane con i discepoli.Tutte azioni che Gesù nella sua vita aveva compiuto ripetute volte.La resurrezione di Gesù è quell’evento grazie al quale il mondo spirituale e sopran-naturale irrompe nel quotidiano trasfigurandolo.Non si tratta solo della vita oltre la morte, ma anche e soprattutto del fatto che ogniazione da noi compiuta non finisce in se stessa e ogni cosa che noi vediamo non hasolo la sua dimensione reale ma è come una fessura che dischiude l’invisibile; mi tor-nano alla mente le bellissime parole di Pavel Florenskij: “Al mondo niente si perde,ne’ del bene ne’ del male, e prima o poi si manifesta apertamente anche ciò che perun certo tempo, a volte molto lungo, rimane invisibile”.Tra noi e il mistero, tra noi e l’eterno c’è una relazione sostanziale che la resurrezio-ne di Gesù ha definitivamente ristabilito.Ogni giorno possiamo aprire la porta che ci spalanca la realtà spirituale e sopranna-turale realizzando così il nostro desiderio che ciò che facciamo, amiamo, crediamo,rimanga per sempre.Il Signore ci conceda di vivere da risorti!Buona Pasqua!

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2009LA VIA Domenica 19 aprile

LA FEDE E IL PERDONO(Gv 20, 19 - 31)

Ci sono momenti della vita in cui le persone si chiudono in se stesse. A causare que-sta chiusura può essere una forte delusione, una ferita, un dolore improvviso o ancheun senso di paura e sfiducia .Riesco quasi ad immaginarmi l’apostolo Tommaso inuna di queste situazioni, visto che il Vangelo ce lo presenta lontano dal gruppo deidiscepoli quando Gesù appare loro.Forse Tommaso ha cercato di rimanere solo macerando dentro di sé lo smarrimen-to e la ribellione che provava per l’insorgere di domande che dovevano mettere incrisi la stessa fede in Dio: se Gesù era il Salvatore atteso perché Dio non gli avevarisparmiato una morte così crudele e vergognosa?Dov’era Dio in quei momenti?O forse Tommaso si era chiuso in se stesso perché schiacciato dal senso di colpaper non aver dato a Gesù, soprattutto nei giorni della passione, la prova di una veraamicizia e di una coraggiosa solidarietà.E’ una esperienza che conosciamo bene: quando si perde un famigliare o un amicoè facile coltivare sensi di colpa per non aver saputo attestare tutto l’affetto che avreb-be meritato.Non credo sia una forzatura pensare che Tommaso fosse preso da questo senso dicolpa.Quando Gesù si era recato sulla tomba di Lazzaro mettendo a repentaglio la propriavita, Tommaso aveva commentato con un entusiastico: “andiamo anche noi a mori-re con lui!”.Ma poi, sotto la croce, non c’era. Era fuggito come tutti gli altri discepoli.Lui che si era così tanto esposto, lui che aveva dichiarato il suo coraggio, ora evi-dentemente era paralizzato dalla vergogna.E’ per questo che il recupero della fede, per Tommaso, passa attraverso il perdono.Gesù risorto affida agli apostoli un primo compito: quello di rimettere i peccati. E que-sto perdono la comunità lo mette in pratica subito nei confronti di quel discepoloapparentemente fedele, ma ora affranto dalla sua viltà.Noi tutti sappiamo bene perché Tommaso giunge alla sua professione di fede: Gesùaccetta di lasciarsi toccare da questo discepolo, mettendosi, in un certo senso, sulsuo stesso piano.Cristo risorto si fa riconoscere in modo diverso da ogni discepolo a seconda dellasituazione appropriata che ogni persona viveva: l’affetto del nome pronunciato conMaria di Magdala; l’intuizione spirituale con Giovanni; la lentezza con Pietro; la fisi-cità con Tommaso.Ma forse dovremmo pensare che quest’ultimo abbia superato le sue incertezze nonperché ha visto e toccato le ferite di Gesù, ma perché quelle ferite erano la testimo-nianza viva di un perdono e di un amore troppo grandi per essere cancellati dallamorte.A conquistare la nostra fede sarà sempre l’immagine di un Dio che ci ama fino alasciarsi segnare dalle nostre sofferenze.

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2009LA VIA Domenica 26 aprile e 3 maggio

VITA QUOTIDIANA E SACRE SCRITTURE(Lc 24, 36 - 48)

Gesù risorto mangia con i suoi discepoli e subito dopo spiega loro le Scritture.L’ordine dei gesti è esattamente invertito rispetto all’episodio di Emmaus: làGesù aveva prima spiegato le Scritture e poi spezzato il pane con i suoi.Sembra che per il Signore al gesto più semplice e ordinario, quello di mangiare,si associ questo nuovo la lettura e la comprensione delle Scritture.Quotidianità e parola di Dio per Gesù vanno di pari passo, perché è la Parolastessa a dare senso ai gesti quotidiani.Occorre sbarazzarsi del timore che la religione sia solo una fantasia, una cosachiusa nella mente e nei pensieri, che non riesca ad incidere nella vita di tutti igiorni.Tutto ciò che riguarda Dio e la sua parola è estremamente reale, molto più realedi tante nostre affannose occupazioni.Il mese di maggio che ci apprestiamo a vivere nella nostra comunità sia l’occa-sione per rilanciare la nostra fede.

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2009LA VIA Domenica 10 maggio

LA VITE E IL SUO FRUTTO(Gv 15, 1-8)

L’evangelista Giovanni è l’unico a parlare di Gesù come “vera vite”.E’ una immagine che negli altri vangeli non compare, quasi fosse una simbolo-gia cara solo all’autore di questo vangelo. Il contesto in cui Gesù pronuncia que-sta parola è quello dell’ultima cena e quindi il simbolo possiamo immediatamen-te coglierlo nel suo significato profondo: egli è la vite, pertanto anche il fruttodella vite, il vino, è la sua stessa persona. Il sangue di cui il vino è immaginereale dice la verità più profonda dell’identità, il livello autentico dell’io di ciascunuomo. “Questo è il mio sangue” significa “questo sono io in tutta la mia verità”.La vite però non può trasmettere la sua linfa agli acini d’uva senza i tralci.E qui il testo evangelico sorprende: i discepoli, (quindi ciascuno di noi) sono itralci. Senza di loro il messaggio di Gesù non può arrivare,non può essere tra-smesso. Eppure i tralci sono fragilissimi, così poco resistenti da sbriciolarsi tra lemani se non restano uniti alla vite. Splendida metafora della nostra vita!Agli occhi di Dio noi siamo preziosi, unici, necessari; ma al contempo poveri,semplici come tanti fili d’erba.Sentirsi grandi e custodire l’umiltà è l’arte di vivere evangelicamente.Resta poi da sviluppare un’altra immagine:il retroterra umano e culturale in cuicollocare il simbolo della vite e del suo frutto, il vino.Cosa significa piantare una vite? C’è un detto dei beduini del deserto che dice“se pianti una vite non puoi essere dei nostri”. Erano nomadi e per piantare unavite occorre invece stabilità. La vite dice investimento sul futuro, piantare unavite è segno di speranza; non a caso secondo la Bibbia fu il primo gesto com-piuto da Noè dopo il diluvio. Ma non solo: la vite richiede pazienza, i frutti nonsono immediati. Ci vuole calma, la stessa che si prova guardando i filari di viteche coprono le colline. E poi, diversamente dalle altre piante, il frutto della vitenon è l’uva, ma il vino, cioè la sua evoluzione ulteriore. Che valenza simbolicaha il vino? Il pane è necessario per vivere, il vino no; il vino è segnato dalla gra-tuità, non è per sopravvivere, ma per far festa. Il vino può accentuare l’amarez-za di chi è solo perché per essere gustato ha bisogno dell’intimità di una amici-zia. E’ una bevanda che ha il potere di liberare dalla schiavitù dell’efficienza esa-gerata per chè libera dalle pressioni. Quando Gesù dice di essere la vera vite stainvitando ciascuno a stabilirsi su di lui come il proprio punto fermo a partire dalquale avere fiducia nel futuro. Quando identifica il vino con il suo sangue, nonsta solo presentando il suo sacrificio, ma sta incoraggiando a gustare la sua ami-cizia e a gioire della sua presenza. Le tante metafore che il vino suggerisce sonotutte raccolte nella Bibbia: dalla gioia delle nozze di Cana, all’amore nel Canticodei Cantici, alle parole splendide del libro del Siracide: “L’amico nuovo è come ilvino nuovo: bevilo quando sarà invecchiato”. Oggi il Vangelo ci parla di gioia esperanza nel futuro. Non trasformiamo il cristianesimo nell’habitat naturale daivolti tristi che non hanno più niente da dare alla vita.

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2009LA VIA Domenica 17 maggio

IN QUESTO STA L’AMORE(Gv 15, 9-17)

La pagina evangelica di oggi si colloca nel contesto dell’ultima cena.Gesù parla ai suoi discepoli ed è l’ultima volta che lo fa durante la sua vita ter-rena; queste parole quindi costituiscono il suo testamento spirituale, la consegnadefinitiva del suo messaggio. Questa consegna dice: “rimanete nel mio amore”. Spesse volte Gesù aveva richiamato i suoi all’amore reciproco; ora dice qualedeve essere la radice di questo amore: si può amare se si riconosce l’amorericevuto. Senza questa condizione previa l’amore è destinato a finire perché nonè un’opera in potere dei discepoli, un’opera per la quale essi abbiano in sé lecapacità necessarie. Per amare non basta volerlo: capaci di un amore affettivosi diventa unicamente riconoscendo prima di essere stati oggetto dell’amore per-sonale di Dio. Ci sarebbe comunque da intendersi su cosa sia l’amore così comeGesù lo concepisce. Oggi la parola “amore” sembra diventata una formula magi-ca, un fluido arcano, una verità a cui tutti devono arrendersi. Si parla di amore inogni contesto a volte affrontando sbrigativamente domande necessarie a com-prenderlo: l’amore è un sentimento o un’opera? E’ frutto di decisioni ponderateo è un istinto? E’ passione o raziocinio? Può sottostare ad un comando o dev’es-sere spontaneo? Gesù ha lasciato ai suoi il COMANDO di amarsi; ha stretta-mente legato l’amore all’OSSERVANZA dei comandamenti, suggerendo conchiarezza che l’amore è un’opera più che un sentimento.Si può quindi amare compiendo azioni buone nei confronti dei fratelli e farlo sullaparola di Gesù. E questo è amore anche se il nostro sentimento e le nostre emo-zioni non fossero sufficientemente sollecitate.Per l’amore cristiano non è necessario l’ammiccamento reciproco, ma il gestoevangelico. Solo così si ha garanzia di cercare il bene dell’altro e non tanto lasua approvazione. Assai eloquente a questo riguardo è l’amore di Gesù stesso:certo i suoi discepoli avrebbero preferito che Gesù li amasse in altro modorispetto a quello che egli scelse . Ma soltanto a questo prezzo, soltanto a condi-zione che il suo amore fosse esigente e non condiscendente, fu possibile chegrazie a quell’amore essi crescessero. Si realizzò per loro la bellissima frase diun Salmo: “ la tua bontà mi ha fatto crescere” (Sal 18, 36) Di fronte ad un amoreesigente e concreto si può restare intimoriti. Eppure Gesù lega tutto questo alla gioia. Egli dice: “la mia gioia sia in voi e lavostra gioia sia piena”. E’ un grande dono la gioia. Non si può certo procurarse-la attraverso accorgimenti e iniziative personali (una festa, la carriera, una bellacasa …), ma è offerta in modo inspiegabile, come il profumo di un fiore appenasbocciato. Pur lasciandola nel suo carattere di mistero e di gratuità Gesù lasciaintuire che chi custodiscel’esperienza dell’amore ricevuto e segue i suoi coman-damenti sperimenterà una gioia che nessuno potrà togliergli.Dio Padre, fonte di ogni gioia vera, ci conceda questo dono.

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2009LA VIA Domenica 24 maggio festa dell’Ascensione

I DUE TEMPI( Mc 16, 15 - 20)

Nella vita di Gesù ci sono come due tempi: un tempo che finisce e un tempo cherimane.L’Ascensione, il mistero del Quarantesimo giorno, separa il primo dal secondo.Infatti nella simbologia biblica il numero quaranta indica un tempo compiuto in sestesso, destinato a finire. Gesù apparve ai suoi discepoli per quaranta giorni equel tempo si chiuse con la sua Ascensione.Qual è quindi il tempo che rimane?Quello della sua vita terrena che nient’altro fu che un assaggio, un anticipo dellavita eterna.Anche nella nostra esperienza ci troviamo frequentemente nella condizione deltempo che finisce.L’idea e la sensazione di non aver mai abbastanza tempo per fare tutto ciò cheabbiamo in mente o che ci incombe addosso, le sperimentiamo spesso.Il tempo è sempre troppo poco e la sua finitudine è la causa del nostro affanno.E se non riusciamo a fare qualcosa pensiamo di poterla fare domani, finchéanche il domani comincia a farsi incerto.E’ significativo che anche nel vangelo il tempo che finisce (cioè i quaranta gior-ni delle apparizioni) è vissuto in fretta: Gesù non si lascia trattenere, spariscedavanti ai due di Emmaus, le donne corrono dai discepoli e i discepoli corronoal sepolcro.Oserei dire che c’è quasi un affanno anche in loro, quasi un presentimento chequel tempo finirà.Ma per tutto il resto del racconto evangelico le cose non stanno così.La vita di Gesù fu fatta di segni, opere e parole.Gesù fece miracoli, predicò, offrì se stesso nella sua passioneE tutto ciò che fece era destinato a rimanere perché apriva alla dimensione dellavita eterna: i miracoli erano per suscitare la fede, le parole per alimentare la spe-ranza, la passione per generare la carità.Non sono forse queste per S. Paolo, le tre cose che rimangono?(1COR 13, 13)

Così anche i discepoli, dopo l’Ascensione, ricevono il potere di compiere gli stes-si gesti miracolosi di Gesù, e la missione di unire le persone a lui tramite il bat-tesimo.Ma non per risolvere tempestivamente i problemi (cosa che sarebbe comunquelodevole) quanto per aiutare l’uomo e la donna di sempre a capire che in mezzoall’affanno del tempo che finisce ci sono gesti e parole che rimangono e che que-sta vita terrena ha già tracce d’eternità.

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2009LA VIA Domenica 31 maggio Pentecoste

DISGELO

Nel pensare, in questi giorni, al significato della festa di Pentecoste e all’azionedello Spirito Santo nella vita dei credenti mi è venuta in mente l’immagine deldisgelo.Magari mi avrà influenzato il gran caldo di questa settimana, però trovo che sitratti di una metafora persuasiva.Quando Gesù promette lo Spirito Santo ai Discepoli lo presenta come colui cheli “guiderà alla verità tutta intera” perché fino ad allora essi non riusciranno a por-tare il peso delle parole del Signore.Pur essendo stati con Lui per tre anni, pur avendo conosciuto tutto di Lui, nonsono ancora in grado di rendergli testimonianza.Solo lo Spirito scioglierà il loro silenzio.Come il disgelo permette alla natura di riprendere vita, così lo Spirito farà emer-gere dal cuore dei discepoli tutto ciò che era taciuto e non compreso.Accade anche oggi che uomo e donna, genitori e figli, fratelli vivano insieme annie anni senza trovare le parole per dire ciò che invece dovrebbe essere detto.Il silenzio, spesso non deliberato e inconsapevole, a volte vissuto con dispiace-re, resta un muro difficilissimo da valicare.E’ come se le relazioni, nel loro livello più autentico e profondo, fossero conge-late anche se nel quotidiano proseguono con gesti ordinari.E’ una dinamica che non si verifica solo nella famiglia ma anche nella vita dellaChiesa più in generale.In questo caso il gelo prende la forma di una fede privata, tutta interiore e solointeriore, quasi intimistica e clandestina.Una fede che stenta così a diventare pubblica, ad esprimersi nella società congesti di giustizia, disinteresse, carità e sincerità.Non a caso però, la Pentecoste fece sì che i discepoli cominciassero a parlarea tutti, pubblicamente, dando vita così a quello stile di testimonianza che scon-volse il mondo intero.Invochiamo il dono dello Spirito perché operi il disgelo di ciò che nella nostra vitaappare come congelato soprattutto nei rapporti umani.Invochiamolo perché la Chiesa non si riduca al puro luogo fisico dove ciascunoincontri privatamente il suo Dio.

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2009LA VIA Domenica 31 maggio Pentecoste

Incontro al mistero

Spirito santo, Spirito di sapienza,di scienza, di intelletto,

di consiglio,riempici,

ti preghiamo,della conoscenza della volontà del Padre,

riempicidi ogni sapienza e intelligenza spirituale.

Apri il nostro cuorealla consolazione del tuo dono

perché possiamo conoscere il misteroche nel tempo si va rivelando.

Il mistero preparato da secoli eterni:la gloria di Cristo nell’uomo vivente.

E tu, Maria, frutto privilegiato e primodi questa gloria di Cristo,

rendi il nostro cuore sensibile alle vie di Dio,ai suoi modi di manifestarsi

nella nostra storia.Aiutaci a camminare nella sua veritàper poter incontrare il suo mistero.

(Card. Carlo Maria Martini)

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2009LA VIA Domenica 14 giugno Solennità del Corpus Domini

SEGNI CORRUTTIBILI DI UNA REALTA’ INCORRUTTIBILE

La sera dell’Ultima cena di Gesù con i suoi, tutto aveva il sapore di qualcosa che sistava chiudendo.Ultime erano le parole del Signore, ultimo il pasto, ultima la volta in cui lo vedevanoprima della sua morte.La loro abituale compagnia pareva sul punto di interrompersi e i discepoli cercavanoin tutti i modi di non pensare al poi; ma quel poi oscuro pesava sui loro cuori e incu-teva timore: “se verrà meno il Signore che ne sarà di noi? Che ne sarà della nostrasperanza?”Il rischio che quell’ultima cena potesse trasformarsi in uno straziante momento d’ad-dio era reale, palpabile.A tale rischio Gesù volle rimediare con un gesto straordinario, tanto straordinario darenderlo il più grande tra tutti i segni e tra tutti i sacramenti.Egli ha legato al pane e al vino il suo corpo e il suo sangue, quindi la sua presenzaperenne e duratura.Quei segni divennero indicatori corruttibili di una realtà incorruttibile.La presenza di Cristo tra noi infatti non finisce mai, è eterna, rimane per sempre;eppure questa presenza si manifesta con segni facilmente deperibili: il pane e il vino,il corpo e il sangue nella loro inesorabile caducità.Avrebbe forse potuto il Signore, legare la sua presenza ad un luogo o ad un edificio,ma non lo fece.Quanto pane e vino sono stati consumati e quanto sangue versato da quando esisteil Duomo di Milano?E nei nove secoli da quando c’è la cattedrale di Piacenza?Eppure queste enormi costruzioni servono a custodire al loro cuore i deboli e fragilisegni del pane e del vino cui è legato indissolubilmente il corpo e il sangue delSignore.Con l’ultima cena, ciò che poteva essere facilmente consumato diventa segno dieternità e durata.Per una società come la nostra che vive consumando, che produce perché le cosesempre più finiscano, questo è un segno di speranza.La scelta del pane e del vino ha evidentemente a che fare con la quotidianità.Quotidiano è il gesto di nutrirsi di loro, quotidiano deve essere il rapporto con la per-sona di Cristo.Fare la comunione frequentemente è importante, decisivo. Ancor più importante èfarla alle condizioni giuste.Mentre noi ci nutriamo di Gesù nell’Eucaristia e mangiamo il pane consacrato, inrealtà è Lui che ci assimila a sé, ci conforma alla sua vita.Fare la comunione infatti significa aver parte alla vita di Cristo, sentirsi mossi dal suoSpirito, fare nostre le sue scelte, le sue motivazioni ed entrare, con gli stessi atteg-giamenti, nel suo amore per il Padre e per gli uomini.La festa del Corpus Domini ci introduca sempre più nell’eterna presenza del Signoretra noi e susciti il desiderio di essere simili a Lui.

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2009LA VIA Domenica 21 giugno

ALL’ALTRA RIVA

(Mc 5,35-41)

C’è una geografia degli spazi e c’è una geografia del cuore; c’è una geografiadell’anima e una geografia della salvezza.La molteplicità di significati che questa parola può evocare ci sta pian pianodiventando familiare.E’ per questo che siamo in grado di cogliere nelle sue sfumature l’indicazione delVangelo di oggi: “passiamo all’altra riva”.Non è, evidentemente, solo un passaggio fisico ad essere in gioco. L’ “altra riva”è un luogo teologico e spirituale.Il suo retroterra simbolico è quello del passaggio del Mar Rosso e anche dell’at-traversamento del Giordano: è una riva che dice libertà, salvezza, terra promes-sa.Ma nella vicenda storica di Gesù di Nazareth c’è di più. Quella riva rappresentala regione del demonio, la terra infestata dal male, il luogo in cui ciò che è brut-to, avvilente, meschino, ha il sopravvento.Gesù vuole arrivare fin là, per sfidare il male sul suo terreno: per questo le avver-sità cominciano fin dalla traversata: le acque, soggiogate dal nemico di Dio, siribellano alla presenza del salvatore.Ma è una ribellione senza esito perché Gesù vince, come vincerà il male attra-verso la sua morte e resurrezione.Tutta la nostra vita è, in fondo, una grande traversata, una sfida per sconfiggerequanto c’è di negativo, ambiguo, mediocre, dentro e fuori di noi.In questa lotta non siamo soli.Vi siamo stati chiamati da Gesù, non l’abbiamo scelto noi ed è per questo cheegli ci sosterrà.Forse il fatto di non essere del tutto padroni potrà farci assaporare, come i disce-poli, il gusto amaro della paura.Ma è la paura ad invocare la fede; il sonno di Gesù potrà essere anche il nostro.Assomiglia tanto a quello di un bambino piccolo che dorme in braccio alla madreanche quando intorno a sé c’è pericolo.Se la madre non ha paura anche il bimbo non avrà paura.E Dio non è forse per noi come una madre?

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2009LA VIA Domenica 28 giugno

L’AMBIGUITA’ DELLE FOLLE CON GESU’(Mc 5,21-43)

Nella pagina di Vangelo proposta oggi alla nostra attenzione c’è un soggetto chedovrebbe rimanere solo sullo sfondo ma sembra, invece, assumere il ruolo diprotagonista: è la folla.E’ sempre pressante, incalzante, ingombrante.Essa seguiva Gesù e gli si stringeva intorno quasi senza lasciarlo passare.Cristo sembra rallentato dalla folla tanto da non riuscire ad arrivare per tempo alcapezzale di una bimba morente; la stessa folla nasconde, rendendola anonima,la donna che tocca il mantello di Gesù; ed è sempre la folla, fatta di gente senzanome, che viene a dire al capo della sinagoga che sua figlia ormai è morta.Quale rapporto vive il Signore con questa folla?Gesù non era un uomo da grandi folle.Non nel senso che non ne avesse intor-no, anzi, ma per il fatto che non andasse a cercarle e non ne sentisse il bisogno:spesso di fronte alla folla andava altrove, senza trascurare di soccorrerla comenel caso della moltiplicazione dei pani.Il Vangelo di oggi ci dice qualcosa di ancor più profondo su questo rapporto traGesù e la folla.Per poter incontrare veramente il Maestro di Nazareth occorredissociarsi dallafolla che è una sorta di impedimento alla relazione autentica.La donna guarita dopo aver toccato il mantello del Signore sente risuonare perlei le parole della salvezza solo quando esce dalla massa anonima che lanasconde per rivelarsi come l’artefice di quel gesto. L’assunzione timorosa dellapropria responsabilità, scrollandosi di dosso il giudizio dei tanti che la riteneva-no impura, trasforma il suo furtivo rapporto con Gesù in una grazia.Qualcosa di simile accade anche per Giairo, il padre della bambina malata. Eglisi accosta a Gesù mosso da una logica religiosa che è quella della folla: cerca-re la guarigione.Paradossalmente, la morte di sua figlia pone fine a questa logica quasi supersti-ziosa (non a caso è la folla a dirgli di non disturbare più il Maestro) per dare ini-zio ad un rapporto fondato sulla fede.“Continua ad avere fede!” si sente dire da Gesù.Anche lui è finalmente uscito dalla massa e solo allora può seguire Gesù lonta-no dalla folla e dalle sue suggestioni: egli è preso dal Signore nel numero deidiscepoli più fidati e cioè Pietro, Giacomo e Giovanni.Nella stanza segreta (dove Gesù voleva che ciascuno pregasse Dio Padre) eglisperimenta la potenza di Cristo e la grazia della vita di sua figlia.Ascoltando il Vangelo si accende in noi il desiderio di entrare con il Signore inquel luogo nascosto entro il quale è possibile fare esperienza di Lui.Sottratti e svincolati dall’assedio della folla, cioè dei luoghi comuni del mondoche ci circonda possiamo anche noi aver parte alla speranza di una vita che maidelude.

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2009LA VIA Domenica 5 luglio

UN TRIPLICE STUPORE(Mc 6, 1-6)

Lo stupore e la meraviglia scandiscono il brano evangelico di oggi, articolando-si in tre diverse sfaccettature.C’è lo stupore della gente che ascolta Gesù: è uno stupore positivo che nascedall’ammirazione.Ma questa stessa folla improvvisamente muta atteggiamento: si fa prendere dauno stupore triste, contrariato, che nasce dal disappunto nei confronti di Gesù.E infine c’è lo stupore di Gesù meravigliato dalla incredulità dei suoi compaesa-ni: è uno stupore che si tinge di delusione.Da questo stupore nasce la perentoria affermazione del Signore: “un profeta nonè disprezzato che nella sua patria”Profeta non è colui che indovina il futuro, ma chi interpreta il presente, con spi-rito critico, alla luce della parola di Dio.Il profeta può anche pronunciare parole che ci infastidiscono e ci mettono in crisi.Per questo è difficile che sia uno di casa nostra, un nostro parente o fratello.E’ più facile lasciarsi correggere da un estraneo che abbia qualche autorità cheda un nostro famigliare.Quando c’è troppa familiarità, svanisce la capacità di stupirsi, e senza stuporeanche la profezia non viene accolta.E’ difficile essere profeti con quelli di casa e tuttavia è proprio di loro che dobbia-mo occuparci per allargarne i confini fino a renderli capaci di ospitare Dio stes-so.

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2009LA VIA Domenica 12 luglio

IL POTERE DI ESSERE DUE(Mc 6,7-13)

Due, sempre due, ossessivamente due.La Bibbia ne è piena: è un numero che ritorna molto spesso a definirne i piùsignificativi personaggi.Adamo ed Eva; Caino e Abele; Isacco e Ismaele; Giacobbe ed Esaù e via viafino al nuovo Testamento dove troviamo i due fratelli della parabola del figliol pro-digo e i discepoli chiamati da Gesù a coppie. Oltre che chiamati anche inviati: “li inviò due a due” dice il Vangelo.Perché contro ogni amara solitudine, due è il numero della relazione e dellacompagnia; contro ogni sterile isolamento due è il numero della fecondità; con-tro ogni esaltazione personalistica due è il numero di chi impara a relazionarsiagendo insieme ad un altro.Solo Dio è Uno, perché Assoluto.Noi siamo sempre chiamati ad essere due.In questo sta il potere dato ai discepoli: a due a due ebbero il potere “sugli spi-riti impuri” cioè la possibilità di guarire attraverso gesti straordinari che fosseroperò il segno di un potere, per così dire, “ordinario”: quello di esorcizzare il mes-saggio scoraggiante e addirittura disperante, che viene dalla malattia, dalla sof-ferenza, dalla solitudine, o magari soltanto dal cattivo carattere.La Parola del Vangelo può generare una vicinanza nuova, un legame diversocapace di portare luce anche nelle tenebre più fitte.

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2009LA VIA Domenica 12 luglio

Signore è l’alba.

Fa' che io vada incontro nella pace a tutto ciò che mi porterà questo giorno.

Fa' che io mi consegni totalmentealla tua santa volontà.

Donami in ogni momento la tua luce e la tua forza.

Qualunque notizia io riceva oggi, insegnami ad accettarla nella quiete

e nella fede salda che nulla può accadere se tu non lo permetti.

In ogni mia azione e parola dirigi i miei pensieri e i miei sentimenti.

In tutti gli eventi inattesi, non farmi dimenticare che ogni cosa proviene da te!

Insegnami ad agire con apertura e intelligenza verso tutti i miei fratelli e le mie sorelle

e verso tutti gli uomini, senza mortificare o contristare nessuno.

Signore, donami la forza di portare la fatica del giorno che si avvicina,

e di tutti gli eventi inclusi nel suo corso.

Guida la mia volontà, insegnami a pregare, a credere,

a perseverare, a soffrire, a perdonare...e ad amare!

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2009LA VIA Domenica 19 luglio

ATTIMI DI RIPOSO

(Mc 6, 30-34)

Un invito al riposo. Ecco cos’è il Vangelo di oggi. Ma quale riposo?

Gesù chiama i suoi apostoli a sottrarsi alla pressione della folla e alle aspettati-

ve della gente, perché una vita trascorsa a soddisfare le aspettative altrui, prima

o poi, presta il fianco all’esaurimento.

Il riposo cui allude Gesù è la capacità di prendersi cura di sé e del proprio io inte-

riore ponendosi in ascolto della sua parola.

Per questo occorre solitudine, occorre il luogo isolato di cui parla il Vangelo.

Ma da luogo isolato che era, quell’ambiente, si trasforma subito in una piazza

pubblica piena di persone: la gente corse fin là per trovare Gesù e gli apostoli.

E’ come se il Vangelo sapesse che quel riposo silenzioso e pacifico fosse desti-

nato a durare poco perché gli altri sono attorno a noi e chiedono la nostra atten-

zione.

La vita quotidiana ci rivela la stessa costante: i tempi di riposo e di ricarica inte-

riore sono un breve privilegio, ma occorre che ci siano.

Il resto della vita è fatto di dedizione e di servizio, come fu per Gesù.

Egli infatti non allontanò la folla che accorreva ma si dedicò ad essa.

Lo fece prima con l’insegnamento e poi con la moltiplicazione dei pani.

Il primo gesto di solidarietà fu l’insegnamento perché non c’è più grande pover-

tà dell’ignoranza e perché istruire un altro vuol dire aiutarlo a maturare la propria

dignità. Fu un grande gesto d’amore poiché “l’amore consiste nella comunica-

zione reciproca, cioè nel dare e comunicare ciò che si ha cosicché se uno ha la

scienza la dia a chi non ce l’ha” (S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali)

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2009LA VIA Domenica 6 settembre

UDIRE E PARLARE(Mc 7,31-37)

Nessuna parola può entrare quando le orecchie sono chiuse. Nessuna parolapuò uscire quando la lingua è bloccata.Niente entra e niente esce: c’è solo chiusura.Ecco cos’era l’uomo sordomuto di cui parla il Vangelo: il simbolo di tutta la chiu-sura che siamo capaci di mettere in atto, quando il nostro piccolo io diventa lamisura di tutte le cose.Nel gesto miracoloso di Gesù noi cogliamo, quindi, il desiderio di Dio di farci apri-re alla parola Sua e dei nostri fratelli per poter, a nostra volta, farne dono.La successione delle azioni compiute da Cristo svela il senso di questo prodigio:Gesù guarisce prima la sordità e poi il mutismo; perché prima occorre ascoltaree poi parlare. E’ una successione naturale, accaduta a ciascuno di noi: ognibambino nasce senza poter parlare, ma potendo udire dei suoni.L’infanzia ha esattamente questo tratto: l’assenza di parola. Non a caso in latinoil termine “infantia” significa proprio “incapacità di parlare”.Prima quindi c’è l’udito e poi il linguaggio. Quando c’è un difetto di parola si sof-fre: quando non si riesce a comunicare, quando non si trovano le frasi giuste,quando non si sa cosa dire, si prova imbarazzo, vergogna, a volte dolore.C’è però anche l’altro difetto: l’incapacità di ascoltare, e più in profondità, diudire. E’ un difetto più nascosto, quasi inavvertito ma proprio per questo piùgrave. L’incapacità di dire parole vere, buone efficaci, nasce sempre dalla pre-cedente incapacità di udire e ascoltare.Guardiamoci intorno: c’è un’incredibile moltiplicazione di parole, fino all’eccesso.Ci basta accendere la TV o anche entrare in una libreria …Ma contemporaneamente cresce il bisogno di essere ascoltati: tanti cercanoqualcuno che li ascolti e spesso non lo trovano.Il muro della sordità è più diffuso di quanto si possa pensare, anche in coloro(come noi preti) che dovrebbero avere il carisma di ascoltare.E’ difficile ascoltare veramente: difficile ascoltare un rimprovero ma anche ascol-tare chi ci parla in modo buono.Tanto più è difficile ascoltare chi non parla, chi ci chiede qualcosa senza paroleo chi ci esprime incoraggiamento con la sua sola prossimità.Ascoltare è veramente un miracolo: non c’è scienza medica o psicologica chepossa supplire a questa eventuale carenza.Ascoltare è il primo gesto divino e spirituale che l’uomo possa compiere.Per questo, dopo il suo miracolo Gesù chiede che non ne si parli in giro, ma chesi taccia. Il Signore vuole che si mantenga questa priorità dell’ascolto sulla paro-la. Forse anche l’invito evangelico a tornare come bambini racchiude questomessaggio: non avere parole, ma stare in ascolto di Dio e degli altri senza riem-pirli delle nostre innumerevoli verbosità.

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2009LA VIA Domenica 13 settembre

UNA DOMANDA SEMPRE APERTA(Mc 8,27-35)

“E voi chi dite che io sia?”Come se Gesù dicesse oggi a ciascuno di noi: “Chi sono io per te?”Per noi che ci diciamo cristiani questa è la domanda decisiva da cui dipendetutta la verità del nostro modo di vivere la fede.Non basta, per essere cristiani, aver ricevuto il battesimo, appartenere ad unachiesa, praticare una religione o una morale che comunemente vengono defini-te cristiane, ma occorre che ci sia questo momento di interrogazione, nel segnodella più radicale sincerità, sulla figura di Cristo.Questa è una domanda che provoca, che costringe in qualche modo a mettersiin gioco, ad uscire dall’abitudine delle pratiche religiose per cercare un livello piùautentico di incontro personale con Cristo.La sensazione che si prova nel dare risposta a questo interrogativo è quella dinon sentirsi mai all’altezza:noi sappiamo che la risposta dovrebbe andare nelladirezione di un’importanza assoluta da dare al Signore, ma ci accorgiamo che lanostra vita, che costituisce la risposta concreta, non conferma ciò che vorrem-mo.Questa impressione di sdoppiamento ce la dà anche Pietro: la sua risposta èprecisa, assoluta, completa. Ma il suo modo di pensare e di vivere non erasecondo la logica di Gesù e del Vangelo.Questa domanda di Gesù mette a nudo lo scontro tra ideale e reale che c’è den-tro ciascuno di noi, ma non dobbiamo sentirci mortificati di fronte a questa sen-sazione.Ciò che conta è lasciar macerare dentro di noi la domanda, confessare umilmen-te la propria inadeguatezza e al tempo stesso affidare alla preghiera il desideriodi conoscere di più la persona di Gesù perché conoscendolo lo possiamo amaree amandolo possiamo conformare a lui la nostra vita.Per alcuni Gesù è solo l’oggetto della venerazione e della devozione; per altri èil compagno di viaggio; per altri ancora un grande sapiente che ha lasciato uninsegnamento da seguire.Tutte le risposte contengono una verità e tutte sono comunque incomplete.E’ la loro incompletezza, la loro parzialità che spinge a metterci in cammino.A noi piacerebbe progettare la nostra vita come una totalità senza rotture, comeuna continuità senza interruzioni, ma chi si mette seriamente sulla strada delVangelo sa bene che la forza della persona di Gesù chiamerà sempre a mette-re in gioco le proprie abitudini per condurci pian piano ad un rapporto sempre piùvero con lui.

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2009LA VIA Domenica 20 settembre

MANIE DI GRANDEZZA(Mc 9, 30-37)

Gesù con i suoi discepoli.Ancora una volta, come da due domeniche a questa parte, il Vangelo ci offre unascena in cui Gesù è solo con gli apostoli.La gente, la folla anonima è ai margini; come se non potesse entrare in quella rela-zione unica e speciale che intercorre tra il Maestro e i dodici.Il Signore stava progressivamente educando i suoi alla verità della sua persona e perdedicarsi a questo compito era indispensabile sospendere la pressione indebita dimolte presenze esterne.E’ un compito che si presenta a volte arduo e difficile perché i cuori dei discepoli sonolenti ad aprirsi al mistero di Dio.Emblematica è la scena di oggi dove è il silenzio a farla da padrone, almeno neidiscepoli.Gesù annuncia la passione, i suoi non capiscono, ma non gli chiedono nulla pertimore.Parlano e confabulano tra di loro senza coinvolgere il maestro nei loro discorsi. Pare quasi di vederli: Gesù davanti e loro dietro, a debita distanza.Quando il Signore pone loro una domanda essi non rispondono; tacciono e raccol-gono l’insegnamento di chi ha comunque capito i loro pensieri anche senza parole.Ma perché questo mutismo? Perché questo essere restii a parlare con Gesù?I dodici si erano fatti prendere da manie di grandezza.Gesù stava salendo a Gerusalemme e lì sarebbe stato riconosciuto nella sua quali-tà di leader.Allora ci sarebbe voluto un braccio destro, un uomo fidato e poi una cerchia più qua-lificata; come su una scala gerarchica.I discepoli fantasticavano, creandosi scenari mentali incui essi stessi si vedevano grandi e importanti.Come accade anche a noi, pure loro sentivano questo irrefrenabile impulso ad esse-re di più degli altri: più in vista, più bravi, più affermati.Ma queste manie di grandezza svaniscono quando vengono messe di fronte a Gesù.I discepoli tacciono perché sanno che le loro preoccupazioni sono grossolane e pue-rili rispetto alla grandezza del Vangelo.Quando questa esperienza accade è una grazia.Quando si prende in mano il Vangelo o ci si mette davanti a Gesù crocifisso ci siaccorge di quanto siano piccoli e relativi, a volte, i nostri pensieri e i nostri affanni,allora significa che Dio sta facendo breccia nel nostro cuore per deporvi il seme dellasua Parola.Così fu quel giorno in cui il silenzio dei discepoli divenne una porta spalancata allasapienza del Maestro:“se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”

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2009LA VIA Domenica 4 ottobre

PER LA NOSTRA DUREZZA DI CUORE(Mc 10, 2-16)

Quando una solitudine non è abitata da qualcun altro, allora è una maledizione.Nella Genesi è scritto: “non è bene che l’uomo sia solo” e ciò vale, evidentemen-te, anche per la donna.Perché non è bene? Perché ogni essere umano è incompleto e incompiuto.Non potendo bastare a se stesso , ha bisogno di avere accanto una presenza chealleggerisca questa sua condizione di finitezza.Può trattarsi anche della compagnia di Dio, o di un gruppo di amici, o di unacomunità.Ma per i più si tratta della compagnia di un essere umano che viene amato comenoi stessi.Ed è proprio ciò che ha pensato Dio fin dagli inizi: l’uomo poteva avere a dispo-sizione tutto il creato, dalle piante agli animali, ma tutto ciò non era sufficiente acolmare il suo vuoto.La donna fu, allora, il più grande dono di Dio per poter vivere l’avventura stupen-da dell’amore.Poi però sappiamo come è andata.E’ interessante che nel Vangelo di oggi Gesù definisca con la parola “durezza dicuore” la nostra incapacità di amare fino in fondo.Usa questo termine all’interno di un discorso forte e impegnativo sul tema deldivorzio.Dice che Mosè, permettendolo, si è arreso alla durezza di cuore delle persone.Ma lui, Gesù di Nazareth, a questa durezza di cuore non si vuole arrendere.Il suo parlare è chiaro e tagliente: tutte le unioni nate dopo separazioni sono adul-terine.Rimango senza parole ascoltandolo: penso a coppie conosciute e sento una fittaallo stomaco.Ma dalla Parola del Vangelo io sono stato salvato (e lo sono tuttora) e ho impa-rato a masticarla anche quando è un boccone amaro.Di questo però sono convinto: Gesù ha una enorme fiducia nella capacità diamare che ciascuno si porta nel cuore.Non confondendo l’amore con il sentimento Gesù crede fermamente che si possaamare con con tutto se stessi anche al di là delle proprie emozioni e che si possavivere questo amore fino al dono della vita.Tra i legami umani il vincolo di paternità o maternità è fondato sul sangue, maquello uomo–donna è fondato sulla libertà e sullo spirito.Gesù ha sempre considerato il secondo più importante del primo: proprio perchélegato alla libertà, allo spirito e alla fede, il vincolo matrimoniale è indissolubile.Onestamente continuo a preferire un Dio che mi dica:”tu hai la forza di amare finoin fondo” ad uno che accetti, compatendomi” la mia durezza di cuore.

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2009LA VIA Domenica 11 ottobre

COSA VOGLIO DI PIU’ DALLA VITA(Mc 10, 17-30)

Nota è la pagina evangelica; nota come quella pubblicità in cui ad un certo puntoviene posta la domanda: “ma cosa vuoi di più dalla vita?”È una domanda cruciale, decisiva per un cristiano.Peccato che nella pubblicità tutto vada a finire con un semplice bicchiere di dige-stivo. Bastasse quello a placare le nostre inquietudini … Evidentemente nonpoteva bastare all’uomo che nel Vangelo si accosta a Gesù chiedendogli cosadeve fare “di più” per avere la vita eterna. Forse era un giovane. Certamente eraricco. Certamente era anche bravo. Aveva tutto: cultura, soldi, serietà, religiosi-tà. Cosa voleva di più dalla vita? Voleva la certezza che quel che faceva rima-nesse per sempre. Voleva essere sicuro che lo portasse nell’eternità.Forse sarà stato preso anche lui da quel dubbio tremendo che fa dire “ma chi telo fa fare?” E Gesù gli risponde. Anzitutto portandolo a pensare a Dio, il solobuono. Perché il primo errore di quest’uomo era cercare in un’altra regola daosservare, in un’altra cosa da fare la certezza dell’eternità. Invece questa certez-za la si ritrova in Dio e quindi nel cuore, laddove si rivela l’essere e non tantol’avere o il fare.E poi la risposta di Gesù si fa più chiara e meravigliosa: “fissatolo lo amò”.Questa fu la vera risposta del Signore.È la profondità di questo sguardo ad offrire la salvezza.Gesù rivela a questo giovane che l’appagamento non parte da un sapere e daun fare, da un avere o da un possedere, bensì da un ricevere o da un lasciarsiamare e plasmare.Solo quando è guardato quest’uomo smette di essere un anonimo e diventa per-sona. Perché lo sguardo di Gesù non si posa su ciò che è già amabile, ma rendeamabile ciò su cui si posa.Questo sguardo d’amore domina tutto e accompagnerà l’uomo sempre e dun-que, fin giù all’inferno, se fosse il caso.Ecco perché questo sguardo dà la vita eterna.Ed ecco cosa vogliamo di più dalla vita: uno sguardo vero che ci faccia esistere.La richiesta di vendere tutto è solo una diretta conseguenza; bisogna trovarsicon il proprio nulla per incontrare Cristo.Dal proprio nulla non ci si può salvare: SI VIENE SALVATI.E il Signore si china su questo giovane per sollevarlo dalla sua palude: ma eglipreferisce rimanere attaccato alle sue certezze piuttosto che identificarsi con losguardo d’amore di Gesù.È allora che il suo volto, (dove Gesù aveva posato lo sguardo) diventa scuro etriste. Ma se va via triste è segno che per un istante la gioia vera l’ha provata.Se ne andrà per sempre o solo per un momento? Tornerà egli di nuovo presso il Maestro, questa volta finalmente libero?Per lui, e per noi, speriamo di sì.

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2009LA VIA Domenica 18 ottobre

IL MITO DEI PRIMI POSTI(Mc 10, 35-45)

A cosa pensano i due apostoli che chiedono a Gesù di sedere al suo fianco nellasua gloria è facile capirlo.Certamente non avevano in mente il paradiso o la vita oltre la morte, ma una gloriatutta terrena.Stavano andando verso Gerusalemme e là Gesù si sarebbe manifestato come mes-sia vittorioso, da tutti acclamato e osannato (secondo loro).E quindi ciò che essi desideravano era prendere parte in modo speciale a questotrionfo.Anche nei discepoli fa capolino quel modo di pensare che pervade la nostra socie-tà e le cui aspirazioni più vistose e tenaci sono quelle dell’ambizione, della volontàdi primeggiare e di occupare i primi posti.L’affermazione di sé è vista come il valore più importante, da anteporre a tutto, allafede, all’amicizia, a volte perfino alla famiglia.Non capita raramente di sentire uomini e donne che dicono: “prima la mia realizza-zione e poi i bisogni dei miei figli, di mio marito, o di mia moglie”.A partire almeno dall’800 si è affermata una cultura fondata sulla volontà di poten-za come unico modo di sopravvivere in una società fortemente concorrenziale.Che cosa si insegna ai giovani che vogliono affermarsi nella società se non la vogliadi battersi per riuscire a prevalere sugli altri? Anche noi siamo dentro questa logicaimplacabile.Purtroppo anche la Chiesa, quando è preoccupata del suo potere e della carrieradei suoi ministri.Quel giorno anche gli apostoli furono afferrati da questi pensieri.A questo modo di ragionare Gesù contrappone un mondo che celebra altri valori:non quelli dell’ambizione e del dominio ma dell’umiltà e del servizio.È una proposta audace, così audace da non essere capita e condivisa. Proprio a partire dall’800, la stessa filosofia che incoraggiava l’affermazione dell’in-dividuo denigrava il cristianesimo con parole feroci: “servire gli uomini è la più gran-de idiozia” diceva un poeta francese; “Gesù è un ladro di energia” gli faceva eco unaltro.La fede cristiana era vista (e per molti lo è ancora oggi) come l’alimento delle per-sone deboli, meschine, senza ideali, sconfitte dalla vita.Ma io chiedo: chi ha fatto cose grandi come madre Teresa nella sua umiltà? Chi hadato speranza agli afflitti come il futuro beato don Carlo Gnocchi? Chi ha influenza-to la cultura del suo tempo come S. Francesco d’Assisi nella sua povertà?E allora chi sono veramente i “grandi”? Gesù propone un mondo capovolto, un mondo che ha nome “regno di Dio”.Credo che questo si intenda quando ogni giorno nel Padre nostro noi imploriamo“venga il tuo regno”.Venga un modo di pensare che ci faccia uscire dall’asfissia della concorrenza, delpotere e dell’efficienza.

IL MIRACOLO NASCOSTO

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2009LA VIA Domenica 25 ottobre

(Mc 10, 46-52)

Gesù guarisce un cieco.Non è il primo e non sarà l’ultimo cieco guarito nel suo ministero. Più volte ilMaestro ripete questo genere di miracolo con il chiaro intento di presentare sestesso come la luce che illumina ogni uomo.Gli occhi che si aprono al mondo rappresentano l’inizio della fede, quell’orienta-mento del cuore e della mente che permette di vedere in modo nuovo ciò cheprima era nascosto.Fin qui è l’evidenza del miracolo.C’è però un altro dato miracoloso in questo episodio evangelico per cogliere ilquale occorre entrare nel testo con profondità.Perché questo cieco si trova seduto sul ciglio della strada e soprattutto all’usci-ta della città?È un dato strano ed inusuale: il Vangelo stesso racconta di un altro cieco guari-to alla Piscina di Siloe, cioè dentro le mura di Gerusalemme.E anche i mendicanti solitamente stavano in luoghi frequentati, addirittura negliAtti degli Apostoli si racconta di uno di essi alla porta bella del Tempio, quindi nelcentro della città.Ne’ ciechi ne’ mendicanti erano quindi ai margini.Perché invece il cieco di questo episodio lo è?Sembra un uomo che viva degli avanzi degli altri, non solo gli avanzi materiali,ma gli avanzi di tempo, di attenzione, di amore.È un escluso.La sua posizione non è casuale, ma voluta.È stato emarginato dalla città, perché a chi vive nella tranquillità dà fastidio averetra i piedi qualcuno che con la sua presenza faccia capire che ci sono cose chenon funzionano e che ci sono equilibri da ricomporre.Quando si vive da pianificatori perfetti del proprio benessere, i bisogni degli altrisono sempre un impaccio. E così è meglio allontanarli, facendo finta che non cisiano.E ciò fintanto che non si decida di dare credito alla Parola di Gesù.Nell’episodio infatti le stesse persone che rimproverarono il cieco per farlo tace-re e che lo avevano escluso su invito del Signore lo cercano, lo accolgono, loportano dal Maestro.Ecco svelarsi allora il miracolo nascosto: non è solo la cecità sanata, ma anchel’indurimento del cuore della società onesta che viene educata all’accoglienza.Forse Gesù ci ha detto che “i poveri li avremo sempre con noi” proprio perché cisia qualcuno che con il suo bisogno gridato ci richiami alla necessità della nostraconversione.

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2009LA VIA Domenica 25 ottobre

“Guidami, luce benigna, nel buio che mi circonda;nera è la notte e ancora lontana la casa.Non ti chiedo di vedere oltre e lontano:

solo, passo dopo passo, dove posare il piede”.

(Card. J H Wewnan)

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2009LA VIA Domenica 1 novembre 2009 Tutti i Santi

IN MEDIO STAT VIRTUS(Mt 5, 1-12)

Traduco subito l’espressione, per non lasciare qualcuno all’oscuro; in latino signi-fica “la virtù sta nel mezzo”.È una massima che conosciamo tutti. Una massima che esalta l’equilibrio, lamoderazione, la giusta sintesi tra due estremi.Ma è anche una massima pericolosa, della quale l’altra faccia della medaglia sichiama mediocrità.Oggi festeggiamo uomini e donne che mediocri non lo sono stati affatto: i Santi.Ma alla santità non siamo chiamati tutti?La domanda è evidentemente retorica perché la positività della risposta ormai datempo è stata proclamata nella chiesa.Ogni battezzato è chiamato ad essere santo, dice il Concilio Vaticano II.E noi ci riconosciamo chiamati alla santità?Forse no. Forse siamo tacitamente rassegnati ad una condizione palesementemediocre, della quale non sapremmo neppure immaginare il rimedio. In questatacita resa alla distanza inaccessibile della santità dobbiamo vedere le ragioni delcarattere spento e triste della nostra fede.La santità ci è estranea, come estranea ci è la delinquenza. Non siamo in nessu-no dei due estremi; siamo nel giusto mezzo.O mediocri?Eppure la santità non è un ideale impossibile, una meta raggiungibile solo a costodi imprese eroiche.La santità è molto più quotidiana di quanto sembri e i Santi molto più numerosi diquel che crediamo.Molto eloquente a questo riguardo è la lettura odierna del brano dell’Apocalisse:c’è una moltitudine di persone vestite di bianco che solo dopo la morte rivelanola loro identità.Sono santi, ma hanno vissuto come sconosciuti!Neppure il veggente del libro si era accorto di loro.A volte i santi sono sconosciuti e senza figura in questo mondo: non vanno suigiornali e neppure sugli altari; ma ci sono.Nel nostro sentirci distanti dalla santità c’è anche questa inconscia convinzioneche un santo sia cosa rara e che quindi sia meglio adeguarsi a come vive la mag-gioranza.Gesù invece i santi li riconosce subito e li chiama ad uscire dall’ombra; li racco-glie intorno a sé e davanti alla folla proclama la loro condizione: sono beati.Le beatitudini evangeliche sono anche la santificazione di condizioni di vita che ilmondo tenderebbe a rifiutare e che invece rendono sensibili e vicini a Dio e al suoregno.Allora ci accorgeremmo che la virtù non sta nel mezzo. Sta al centro.Ed è tutt’altra cosa.

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2009LA VIA Domenica 8 novembre

DIO VEDE NEL SEGRETO(Mc 12, 38-44)

È sempre sorprendente lo sguardo di Gesù.Non ci fosse stato il suo sguardo, il gesto di quella donna sarebbe passato inosser-vato.C’erano nel tempio altri personaggi ben più importanti, altri gesti ben più appariscen-ti.E lei, la povera donna vedova, pare di vederla per quello che racconta il Vangelo:schiva, appartata, quasi vergognandosi della pochezza della sua offerta.Ma Gesù riscatta con il suo sguardo quel gesto umile e oscuro celebrandone la gran-dezza.Molte monete gettate nel tesoro fanno rumore e strepito, attirano l’attenzione.Ma due spiccioli sono silenziosi, nessuno fa caso a chi li offre; ci vuole la capacità diguardare laddove nessuno guarda per potersene accorgere.Ci vogliono gli occhi di Gesù che si posano su ciò che è nascosto per beatificarlo.Questa vedova è uno dei personaggi apparentemente secondari del Vangelo data labrevità della sua apparizione, eppure dobbiamo ritenerla come una delle figure piùgrandi ed esemplari.La vedovanza, al tempo di Gesù, era una situazione molto penosa e difficile daaffrontare: ci si trovava sole, senza aiuti economici e con figli a carico, spessocostrette a mendicare.Non era solo un vuoto materiale, ma anche un vuoto affettivo.Possiamo immaginare quanto quella donna soffrisse per il fatto di sentirsi sola,senza più una voce amica, senza più un gesto di tenerezza.Avrebbe avuto tutte le ragioni per esprimere amarezza e risentimento contro il desti-no, la sorte, il mondo, Dio stesso: che cosa aveva avuto di buono dalla vita?E invece niente: compie un gesto di una generosità inaudita, un gesto segnato dalgrande valore della gratuità.Anche il brano dell’Antico Testamento parla di una vedova. Anch’essa offre per il pro-feta Elia tutta la farina e l’olio che aveva a disposizione.Ma sperimenta pure la ricompensa di Dio: la farina e l’olio si moltiplicano per lei e persuo figlio.La vedova del Vangelo invece non ottiene alcuna ricompensa. Come avrà fatto poia trovare da mangiare?Cosa sarà accaduto il giorno dopo? Non lo sappiamo.Abbiamo solo davanti agli occhi un gesto disinteressato. Un gesto che si nutre solodel gusto della carità. Verissime risuonano le parole di S. Bernardo: “L’amore bastaall’amore. L’amore ha in sé la sua ricompensa”In un mondo in cui tutto viene fatto con secondi fini o con interessi nascosti, potercontemplare la gratuità di una vedova è un miracolo.Ciò che conta non è la misura o la quantità di quello che possiamo dare, ma il comelo diamo.Se è poco quello che potremo offrire, sarà Dio stesso a colmare le nostre insufficien-ze.

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2009LA VIA Domenica 15 novembre

OGNI GIORNO C’É UN MONDO CHE NASCE(Mc 13, 24-32)

Ci viene offerta una pagina evangelica che parla dei giorni della fine e ci vieneofferta alla penultima domenica dell’anno liturgico.Si profila la conclusione del cammino celebrativo della chiesa e siamo invitati ameditare su ciò che finisce e su come ci rapportiamo all’idea della fine.Può finire un’esperienza, un iter formativo, un percorso scolastico. A volte puòfinire una relazione; finisce, finirà certamente la vita, nostra e dei nostri cari.Come ci rapportiamo all’idea della fine?Bisognerebbe stare in questa domanda e provare a rispondervi per cogliere afondo il messaggio odierno del Vangelo.La fine generalmente inquieta. Non parliamo solo della fine dell’esistenza madella fine di tutto ciò che sperimentiamo qui sulla terra.Pensare al fatto che le cose finiscono,quando in esse stiamo bene, è fonte diansia, persino di angoscia. Ci si sente mancare il respiro, a volte ci si scoraggia.Si pensa che, dato che tutte le cose finiscono, non valga la pena impegnarsi inesse.Eppure tutti i grandi maestri spirituali hanno insegnato che si cresce a mano amano che si impara a metabolizzare il pensiero della fine.Essi dicevano che per imparare a vivere bisogna imparare a morire.E il vangelo cosa ci dice?Che la fine è in realtà un nuovo inizio.Non fu così la fine della vita di Gesù?Non fu forse l’inizio della resurrezione?Nella logica evangelica quando le cose finiscono si sta preparando qualcosa dinuovo da parte di Dio.Non è semplicemente l’ovvietà delle cose, perché questa novità che si preparasi fonda sulla continuità e stabilità della parola del Signore.Gesù dice: “cieli e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.Noi potremmo infatti trovarci a veder finire il nostro lavoro, il nostro mondo, lanostra cultura, anche i nostri affetti.Ma ci accorgeremmo che sempre la verità del Vangelo rimane: Dio c’è e ci pre-cede; noi siamo figli dell’unico Padre; la carità e l’amore potremo sempre incar-narli, in qualsiasi condizione.In fondo, ogni giorno c’è un mondo che nasce; perché mantenere lo sguardosolo su quello che muore?

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2009LA VIA Domenica 22 novembre 2009 Cristo Re

VEDERE IL VERO RE(Gv 18, 33 - 37)

Mi piacciono i visionari, quelli che sanno vedere più in là del reale, quelli che scor-gono cose che altri non vedono.Quelli che le vedono magari in sogno e sognano anche ad occhi aperti. Perché chisogna anche di giorno vede più cose degli altri.I visionari che rasentano il grottesco come Don Chisciotte o che non vengono com-presi, come El Greco, sono portatori di verità.Oggi la liturgia ci offre due visionari: il profeta Daniele e l’apostolo Giovanni nell’apo-calisse.Entrambi vedono (che bello questo verbo nella sua normalità) guardando nellevisioni notturne.Come a dire che la visione delle cose che sono in cielo esige, come suo sfondo, chequesto mondo, con i suoi pregiudizi, i suoi difetti, le sue errate prospettive, vengaper un po’ oscurato.Il profeta e l’apostolo chiudono gli occhi alle cose della terra come fosse ormaisenza più fascino il mondo; li riaprono però sulla verità, nascosta dietro le apparen-ze.C’è invece chi dalle apparenze viene accecato: il governatore Pilato.Guarda il mondo come forse lo guardiamo noi e non riesce a scorgere, in Gesù, laverità incarnata.Ci vorrà sua moglie per suscitargli qualche interrogativo; una moglie che vide Gesùin sogno, guarda caso di notte, anche lei.Pilato e Gesù sono lì, uno di fronte all’altro: entrambi sono re, ma di una regalità dif-ferente.Per cogliere quella di Cristo ci vuole la visione, per vedere quella di Pilato basta labanalità dell’apparenza.Chi è in realtà il vero re? O meglio, cosa significa essere re?Pilato detiene il potere, ma deve usarlo come piace ad altri, non a lui. È costretto adinterrogare Gesù da coloro che stanno nascosti nell’ombra.Deve muoversi attento a non urtare i Giudei e contemporaneamente a soddisfarel’imperatore. È un topo in gabbia.Schiacciato da più parti, non è interessato nemmeno a sapere cosa sia la verità.Eppure solo la verità potrebbe renderlo libero.E come si può essere re se non si è liberi?Chi invece cerca la verità e la accoglie allora può capire la regalità di Gesù.Nessuno prende la vita di Gesù: egli la offre da se stesso.Nessuno ha potere su di lui, nemmeno la paura della morte con le sue sottili per-suasioni.Gesù è sovranamente libero, per questo è un re.È per questo che il suo gesto d’amore rimane il più grande compiuto nella storia;perché è un amore scelto, voluto, attuato e non subìto.Aver vinto su se stessi, diceva S. Francesco, è la vera letizia. Forse è anche lavera regalità.

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2009LA VIA Domenica 29 novembre 2009 1°di Avvento

VEGLIARE E INCONTRARE(Lc 21, 25-28.34-36)

Inizia l’Avvento e ci viene consegnata un’immagine.È l’immagine dell’incontro tra due donne, Maria ed Elisabetta, entrambe piene divita perché in attesa di una nuova vita, quella dei loro figli.Il loro incontro fatto di sguardi e di una intesa di tipo spirituale introduce allasplendida preghiera del Magnificat, l’inno di lode più noto e più pregato in tuttala storia della chiesa.Proprio questa preghiera orienta e qualifica tutto il percorso che la nostra ChiesaDiocesana compirà in preparazione al Natale.Un percorso scandito da tappe che ci facciano via via riscoprire le grandi coseche il Signore sta facendo per noi.La tappa di oggi ci lascia francamente disorientati dovremmo prepararci ad unlieto evento ed invece ecco risuonare annunci di catastrofi, terrore ed angoscia.Ma il Signore che viene non dovrebbe portare la pace? Le catastrofi di cui parla il Vangelo non è Dio a causarle: esse accadono.Come tutti i momenti terribili di sconforto e paura accompagnano la storia, quel-la universale e quella particolare di ciascuno di noi.È in quei momenti però che emerge la parola di salvezza per coloro che hannosaputo vegliareGesù fa esattamente questo invito: “vegliate in ogni momento, pregando”. Checos’è questo vegliare di cui il Signore parla? Noi trascorriamo le nostre giornate molto spesso senza pensare alla verità dellanostra vita.Sappiamo che essa non potrà scorrere all’infinito come scorre oggi o come è tra-scorsa ieri. Lo sappiamo bene e tuttavia i nostri cuori sono come stregati da un’il-lusione irresistibile: ci sembra che la vita sia una cosa ovvia, dotata di una con-sistenza scontata, quasi dovuta. Tant’è che se la vita si interrompe la riteniamola più grande delle ingiustizie, quasi un torto operato ai nostri danni.Occorrerebbe smontare questa illusione. La nostra vita infatti è sempre segnatada una certa fragilità, da una lacuna che rimanda ad un compimento più grande.Vigilare vuol dire appunto tener vivo nel cuore, attraverso la preghiera, questosentimento di incompletezza e di precarietà che ci faccia capire che il tempo pre-sente non ha in se stesso la sua giustificazione.Solo così quel giorno non ci piomberà addosso come un ladro e l’Avvento chesempre si rinnova avrà il sapore di una nostalgia.

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2009LA VIA Domenica 6 dicembre 2009 2° di Avvento

C’E QUALCUNO AD ASCOLTARE?(Lc 3, 1-6)

Nella prima biografia scritta su S. Francesco d’Assisi, si racconta l’episodio famosodella predica agli uccelli: alle porte di Perugia, il Santo si rivolge ai volatili trovando-li “disposti ad ascoltare devotamente la Parola di Dio.” Gli uomini non si erano mostrati altrettanto devoti e così Francesco si era rivolto aglianimali.Nella prima lettura di oggi sembra si verifichi qualcosa di analogo: il profeta Barucparla, pronuncia parole di consolazione ma rivolge la sua parola alla città generica-mente intesa. Dal momento che non trova uomini in carne ed ossa pronti ad ascoltarlo, il profetasceglie di parlare ai muri.Nella città, Gerusalemme in questo caso, gli abitanti ci sono, le vite si incrociano ele chiacchiere si sprecano. Ma l’ascolto, quello sembra mancare.Quando quindi risuona una Parola, non una chiacchiera, pare cadere nel vuoto.Anche il Vangelo sembra proseguire nello stesso solco tracciato dalla parola profeti-ca: Giovanni Battista è l’ultimo dei profeti; egli parla, ma parla nel deserto. Chi potrà mai ascoltarlo nel deserto?Anche la sua predicazione sembra segnata dallo stesso destino: un seme gettatosenza terreno che lo raccolga.Sorprendentemente però, la voce del profeta propizia un vero prodigio: molti esconodalla città e si raccolgono in quel luogo deserto.Lì scoprono di essere in tanti, riuniti dallo stesso desiderio, dalle stesse attese, dallostesso ascolto.La città era piena di gente, ma deserta di relazioni. Il deserto, che era privo di gente,si riempie ora di relazioni.Le cose si ribaltano e come spesso nel Vangelo, la loro verità si cela dietro l’appa-renza.Gli uomini, finchè se ne stavano nella città avevano l’impressione di essere soli: neldeserto si accorgono d’essere insieme.Tutto accade per la forza di una Parola, quella profetica, eco di quella di Dio.Una Parola efficace, viva e vivificante.Una parola così, poteva ssere pronunciata unicamente da un uomo avvezzo a staresolo con Dio, perché per fare magie con la parola occorre essere cresciuti negliimmensi spazi vuoti della solitudine.Anche per noi è questa Parola!Anche per la nostra città e i nostri paesi dai quali siamo chiamati ad uscire per anda-re verso il deserto.Solo lì è possibile trovare quei fratelli che finchè viviamo nella città triste e spenta,sembrano lontani.Solo lì può diventare reale l’ascolto della verità e non delle chiacchiere; così gra-zie a ciascuno di noi il profeta potrà parlare non ai muri e S. Francesco non agliuccelli.Il Signore ci guidi in questo cammino.

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2009LA VIA Domenica 13 dicembre 2009 3° di Avvento “in laetare”

DALLA FOLLA AL POPOLO(Lc 3,10-18)

All’inizio dell’odierno brano evangelico si parla di “folla” e successivamente questefolle diventano “popolo”.Non si tratta puramente di due sinonimi, ma di due parole qualitativamente diver-se.La differenza la fa una raggiunta identità, precisa, definibile orientata ad uno scopo.La folla è infatti indistinta e anonima, il popolo ha una sua personalità corporativa,è tenuto insieme da un ideale.Che cosa fa nascere questo passaggio dalla folla al popolo? Da cosa scaturiscequesta evoluzione?Anzitutto l’essere usciti dalla città per andare verso il deserto a vedere ed ascolta-re la parola del Battista.È nel deserto che la coscienza si scuote e pone le domande più vere.Ancora si ripete il paradosso: nella città, dove c’è frenesia di vita, il cuore è tuttochiuso nell’inerzia e nel torpore; nel deserto, dove tutto tace immobile, il cuore sirisveglia e l’urgenza di scegliere ciò che è radicale e duraturo emerge in tutta la suafreschezza.“Che cosa dobbiamo fare?” questa è la domanda di una coscienza risvegliata.È la domanda di chi vuole mettersi in gioco, di chi non si accontenta più, di chi final-mente comincia a provare di nuovo un desiderio, non un bisogno, e non vuole met-terlo a tacere.Solo questo desiderio può condurre alla ricerca e la ricerca approdare alla gioia,tema chiave di questa terza domenica di Avvento.La gioia si oppone a quella nota di stanchezza e di inerzia che rischia di appesan-tire la vita; la gioia è l’indice di una vita che non si trascina, di una vita che escedall’anonimato senza qualità.Per questo la gioia è anche la porta stretta attraverso la quale entrare per passaredall’essere folla all’essere popolo.In questo popolo, nel Vangelo, ci sono anche i soldati.Pure loro interrogano il Battista, probabilmente timorosi della sua risposta e del-l’eventuale durezza delle sue parole.Ma non c’è durezza nelle parole di Giovanni: solo ricorda ai soldati che il potereche hanno sugli altri non deve essere usato a loro stesso vantaggio. In fondo tuttiabbiamo un potere sui nostri fratelli. C’è il potere che viene dal sapere, quello cheviene dalla posizione sociale, o quello che viene da un carattere forte. Ma c’èanche il potere che viene dall’affetto: perché anche l’affetto di altri nei nostri con-fronti ci dà un potere su di loro.Non approfittiamone!Non strumentalizziamo a nostro vantaggio ciò che Dio ci ha dato come dono!Solo così ci scopriremo anche noi parte di questo popolo di salvati, popolo di Dioin cammino e in gioiosa attesa della venuta del Signore.

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2009LA VIA Domenica 20 dicembre 2009 4° di Avvento

PENSIERI A NATALE

L’approssimarsi del Natale ha un effetto quasi infallibile: accelera improvvisa-mente i già serrati tempi del vivere quotidiano.La vita di ogni giorno è segnata da un affanno strutturale e da un ritmo sempreben sostenuto; ma quando Natale è alle porte tutto il tempo a disposizione sem-bra non bastare mai. Si corre per i preparativi, si pensano e cercano i regali, sifanno visite, anch’esse frettolose, a persone che non si vedevano magari datempo.Sarebbe qui fin troppo superfluo e forse retorico lanciare l’ennesimo appello arallentare la frenesia della vita. Già altre volte l’abbiamo fatto dalle pagine di que-sto semplice foglietto parrocchiale; le soluzioni non appaiono molte: ogni tantobisogna togliersi l’orologio, sedersi, star fermi e constatare, alla fine della giorna-ta, che si è riusciti ugualmente a fare tutto.Non è però di questo che vogliamo trattare, ma di un rischio, anzi due, insiti inquesta accelerazione natalizia del tempo.Il primo rischio è che la corsa e l’affanno comportino lo smarrimento del sensodell’attesa; e con lo smarrirsi dell’attesa il sopraggiungere del Natale come di ungiorno vuoto.Capita proprio così! Si sta in fibrillazione per qualche giorno, tutti presi da millecose tranne che dalla preghiera, e quando Natale arriva, essendo un giorno con-notato da un senso spirituale ci pare che sia poca cosa, quasi una giornata spen-ta.Accade di pensare alla sera del 25: “tutto qui Natale?”Il secondo rischio è meno evidente, ma spiritualmente più pericoloso: i prepara-tivi che fervono ci portano a ritenere che Natale sia una nostra creatura. Senzache ce ne accorgiamo, questa festa rischia di assumere la consistenza di unevento da costruire invece che da ricevere.Mentre la festa di Natale non è il risultato di una nostra laboriosa costruzione,ma della grazia di Dio.Nemmeno i nostri impegni cristiani possono essere sufficienti: il Signore è sem-pre molto più in là di noi, anzi, più in basso di noi.Nessuno dei pastori presenti a Betlemme era pronto a quella nascita, a quel rive-larsi di Dio.Furono gli angeli ad offrirla loro come dono.Lasciamo da parte dunque l’agitazione.Non deve accadere che le molte cose da fare ci distraggano dall’ascolto dellavoce degli angeli.

“Ti faccio i miei migliori auguri, anzi uno solo, ma credo sia l’unico che da veroamico ad un altro caro si possa fare, ed è : la pace del cuore sia sempre con te,poiché quando ogni giorno tu possederai la pace, sarai veramente ricco”.

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Parrocchia Beata Vergine del CarmeloRoveleto di Cadeo

Piacenza

2009