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Sezione 6 IL POSSESSO di R. Caterina 6.1. Le relazioni di fatto fra l’uomo e le cose. — 6.1.1. Il possesso come criterio per l’attribuzione di poteri giuridici sui beni. — 6.1.2. Sul fondamento della protezione del possesso. — 6.1.3. I molti moduli del potere di fatto. — 6.2. Gli elementi del possesso. — 6.2.1. Gli elementi del possesso: il potere di fatto. — 6.2.2. Gli elementi del possesso: l’acquisto del potere di fatto. — 6.2.3. Gli elementi del possesso: l’animus domini. — 6.2.4. Il possesso mediato. — 6.2.5. L’esercizio del diritto reale: ipotesi problematiche. — 6.2.6. L’oggetto del possesso: i beni immateriali. — 6.2.7. L’oggetto del possesso: l’energia elettrica, le trasmissioni radiotelevisive. — 6.2.8. Gli elementi incompatibili: l’altrui tolleranza. — 6.3. Gli elementi della detenzione. — 6.3.1. La detenzione. — 6.3.2. Il titolo del detentore. — 6.3.3. La detenzione autonoma, la detenzione qualificata. — 6.4. Vicende del possesso e della detenzione. — 6.4.1. I modi di acquisto: l’occupazione, lo spoglio, l’interversione. — 6.4.2. La consegna. — 6.4.3. La successione nel possesso, l’accessione del possesso. — 6.4.4. Circolazione del possesso e autonomia privata. — 6.4.5. Le vicende del rapporto extrapossessorio: la legge, la decisione del giudice, l’atto amministrativo. — 6.4.6. La derelizione, la perdita, la rinuncia. — 6.5. I rapporti tra il proprietario e il possessore. — 6.5.1. I conflitti tra il possesso (o la detenzione) di cosa aliena e la proprietà. — 6.5.2. Il possesso di buona fede. — 6.5.3. Restituzione dei frutti e responsabilità per danni. — 6.5.4. Riparazioni, miglioramenti, addizioni. — 6.6. Le azioni possessorie. — 6.6.1. Le lesioni del possesso. — 6.6.2. Lo spoglio. — 6.6.3. Lo spoglio del possessore mediato. — 6.6.4. La molestia. — 6.6.5. La violenza e la clandestinità dello spoglio. — 6.6.6. L’elemento psicologico dello spoglio e della molestia. — 6.6.7. Le cause di giustificazione. — 6.6.8. Le legittimazione attiva alle azioni possessorie. — 6.6.9. La legittimazione passiva alle azioni possessorie. — 6.6.10. Oggetto delle azioni possessorie. — 6.6.11. Termine per la proposizione delle domande. — 6.6.12. La domanda di risarcimento del danno. — 6.6.13. Il divieto di cumulo del possessorio e petitorio. — 6.6.14. La nuova opera e il danno temuto. 6.1. Le relazioni di fatto fra l’uomo e le cose. 6.1.1. Il possesso come criterio per l’attribuzione di poteri giuridici sui beni. Il diritto regola i conflitti tra le persone, cui danno luogo il godimento, lo sfruttamento, la percezione del valore delle cose. A tale fine, il diritto presceglie generalmente una persona o una pluralità di persone e assegna loro una posizione privilegiata, a tal © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati

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Sezione 6

IL POSSESSO

di R. Caterina

6.1. Le relazioni di fatto fra l’uomo e le cose. — 6.1.1. Il possesso come criterio per l’attribuzionedi poteri giuridici sui beni. — 6.1.2. Sul fondamento della protezione del possesso. — 6.1.3. Imolti moduli del potere di fatto. — 6.2. Gli elementi del possesso. — 6.2.1. Gli elementi delpossesso: il potere di fatto. — 6.2.2. Gli elementi del possesso: l’acquisto del potere di fatto. —6.2.3. Gli elementi del possesso: l’animus domini. — 6.2.4. Il possesso mediato. — 6.2.5.L’esercizio del diritto reale: ipotesi problematiche. — 6.2.6. L’oggetto del possesso: i beniimmateriali. — 6.2.7. L’oggetto del possesso: l’energia elettrica, le trasmissioni radiotelevisive. —6.2.8. Gli elementi incompatibili: l’altrui tolleranza. — 6.3. Gli elementi della detenzione. — 6.3.1.La detenzione. — 6.3.2. Il titolo del detentore. — 6.3.3. La detenzione autonoma, la detenzionequalificata. — 6.4. Vicende del possesso e della detenzione. — 6.4.1. I modi di acquisto:l’occupazione, lo spoglio, l’interversione. — 6.4.2. La consegna. — 6.4.3. La successione nelpossesso, l’accessione del possesso. — 6.4.4. Circolazione del possesso e autonomia privata. —6.4.5. Le vicende del rapporto extrapossessorio: la legge, la decisione del giudice, l’attoamministrativo. — 6.4.6. La derelizione, la perdita, la rinuncia. — 6.5. I rapporti tra il proprietarioe il possessore. — 6.5.1. I conflitti tra il possesso (o la detenzione) di cosa aliena e la proprietà.— 6.5.2. Il possesso di buona fede. — 6.5.3. Restituzione dei frutti e responsabilità per danni. —6.5.4. Riparazioni, miglioramenti, addizioni. — 6.6. Le azioni possessorie. — 6.6.1. Le lesioni delpossesso. — 6.6.2. Lo spoglio. — 6.6.3. Lo spoglio del possessore mediato. — 6.6.4. La molestia.— 6.6.5. La violenza e la clandestinità dello spoglio. — 6.6.6. L’elemento psicologico dello spoglioe della molestia. — 6.6.7. Le cause di giustificazione. — 6.6.8. Le legittimazione attiva alle azionipossessorie. — 6.6.9. La legittimazione passiva alle azioni possessorie. — 6.6.10. Oggetto delleazioni possessorie. — 6.6.11. Termine per la proposizione delle domande. — 6.6.12. La domandadi risarcimento del danno. — 6.6.13. Il divieto di cumulo del possessorio e petitorio. — 6.6.14.La nuova opera e il danno temuto.

6.1. Le relazioni di fatto fra l’uomo e le cose.

6.1.1. Il possesso come criterio per l’attribuzione di poterigiuridici sui beni.

Il diritto regola i conflitti tra le persone, cui danno luogo ilgodimento, lo sfruttamento, la percezione del valore delle cose. Atale fine, il diritto presceglie generalmente una persona o unapluralità di persone e assegna loro una posizione privilegiata, a tal

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fine disponendo che le altre si astengano da questa o quellaingerenza nella cosa, e mettendo a disposizione delle primerimedi adatti per rendere effettivo questo obbligo di astensione eper reagire all’ingerenza lesiva. In tal modo, il diritto previeneconflitti violenti, ed evita la “tragedia dei comuni” che si producequando è possibile usufruire di una risorsa scarsa senza limita-zioni e senza dover pagare un costo adeguato.

Come identificare il soggetto favorito?L’individuazione può seguire un criterio fondato sulla rela-

zione di fatto che passa fra la persona e la cosa. Si protegge la talepersona perché si trova nell’immobile conteso, perché portaaddosso l’abito contestato. Beninteso, la protezione può prenderevarie forme: può concretizzarsi in una facoltà di rappresaglia, onel diritto ad un risarcimento; può concretizzarsi in un diritto ariottenere il potere di fatto sulla cosa.

Seguendo un criterio del tutto diverso, l’individuazione delsoggetto favorito può avvenire mediante un indice indipendentedalle relazioni di fatto che passano attualmente fra la persona e lacosa; si può stabilire che questo o quell’insieme di circostanze difatto, che chiameremo titolo ieratico, assegnino ad un soggettodato la protezione dell’ordinamento, e che tale protezione durisenza un limite di tempo, fino a quando non intervenga un altroinsieme di circostanze di fatto, che porranno termine alla prote-zione.

Il diritto può dunque scegliere fra un potere dipendente dauna relazione di fatto tra l’uomo e le cose, e un potere dipendentedal titolo ieratico.

Collegamenti fra i due criterii possono operare in vari modi.Così, ad esempio, la relazione di fatto protratta per un certotempo, o accompagnata da circostanze qualificanti, può essereessa stessa elevata a titolo per una protezione che, d’ora in avanti,si perpetuerà anche dopo la perdita della relazione stessa.

L’ordinamento italiano contemporaneo conosce entrambi icriterii di selezionamento del personaggio favorito. Nelle grandilinee, si può dire che i rimedi possessorii proteggono il soggettoche, al momento dell’evento, si trovava in una data relazione difatto con la cosa; mentre i diritti reali, e le azioni che ne derivano,

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sono accordati a chi sia munito di un titolo (il modo di acquistodella proprietà e degli altri diritti reali può peraltro consistere inun possesso qualificato).

Da secoli i giuristi discutono sulla giustificazione della pro-tezione del possesso. Il problema deve essere precisato. Ilpossesso, come criterio per l’attribuzione di poteri giuridici suibeni, è sicuramente più antico della proprietà. Ciò di cui sidiscute è in effetti la coesistenza della protezione del soggetto deltitolo con la protezione del soggetto della relazione di fatto; dellaprotezione della proprietà con la protezione del possesso.

Se ogni sistema ha bisogno di regolare l’uso delle risorse, eper ciò stesso di creare situazioni di appartenenza, ciò chenecessita di una giustificazione è la sopravvivenza dei rimedipossessorii in un sistema che conosce un sistema di appartenenzafondato sul titolo ieratico.

6.1.2. Sul fondamento della protezione del possesso.

Della coesistenza della protezione della proprietà con laprotezione del possesso è stata data una celebre giustificazione,che si fa risalire a Savigny: la protezione della relazione di fattoimpedisce l’uso delle armi da parte dei cittadini impegnati nelladifesa dei propri diritti (“ne cives ad arma veniant”). La tutela delpossesso risponderebbe ad esigenze di tutela dell’ordine pub-blico, impedendo il dilagare di esercizi arbitrarii delle ragioni deicontendenti e di spogli a catena.

La protezione possessoria, se ispirata a questa logica, portacon sé una serie di regole applicative. In particolare, essa sembrasuggerire la repressione non di qualunque offesa al possesso, masolo di quelle offese che costituiscono una concreta minaccia perl’ordine pubblico, e dunque delle offese violente, o clandestine.

La logica descritta ha contribuito alla formazione di più di unsistema storico. L’idea della prevenzione e della repressione dellaviolenza traspare nei nomi dell’interdictum unde vi, dell’interdic-tum de vi cottidiana, e ancor più dell’interdictum de vi armata. Ein Inghilterra, le formule dei writs che descrivono le originariefattispecie di trespass parlavano, all’origine, di “quare vi et armis

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clausum fregit” (trespass to land), “quare vi et armis lapidemmolarem gregit et bona et catalla cepit et asportavit” (trespass tochattels).

In Italia, il codice civile menziona la violenza o la clandesti-nità come elementi per la dequalificazione della condotta controcui reagisce l’azione di reintegrazione (art. 1168).

Tuttavia, l’evoluzione del diritto ha liquidato da tempo latradizione favorevole alla dequalificazione della lesione violenta eclandestina.

Limitandoci all’ordinamento italiano contemporaneo, si deveregistrare che già secondo il codice alcuni possessori sono protetticontro ogni lesione, e non solo contro quelle violente o clande-stine (art. 1170 c.c.); e, anticipando un dato su cui torneremo,diciamo subito che la giurisprudenza accoglie un’accezione cosìannacquata della violenza dello spoglio da neutralizzarla comple-tamente, svolgendola in un requisito tautologico: per la giurispru-denza ogni spoglio contrario alla volontà espressa o anche solopresunta del possessore è violento.

La tutela dell’ordine pubblico è una giustificazione insuffi-ciente di fronte all’ampiezza con cui in molti ordinamenti ilpossesso è protetto.

Una spiegazione alternativa della protezione del possesso èspesso ricondotta al nome di Jhering. Proteggendo il possesso, ildiritto proteggerebbe in modo più efficace la proprietà: spesso ilproprietario e il possessore coincidono; proteggendo il possesso,il proprietario non ha bisogno di provare il suo diritto quando èspossessato; la protezione accordata a possessori che non sonoproprietari sarebbe un “prezzo” da pagare per proteggere effi-cacemente i proprietari.

Anche questa proposta non riesce a dar conto di comeeffettivamente la protezione del possesso è configurata in moltiordinamenti. In particolare, non riesce a spiegare perché ilpossesso sia protetto anche quando il convenuto riesca a provareche il possessore non è il proprietario.

Una spiegazione più completa e convincente della protezionedel possesso deve partire dalle stesse ragioni che inducono, più ingenerale, gli ordinamenti a dare vita a situazioni di appartenenza,

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cioè l’opportunità di prevenire conflitti violenti ma anche ladistruzione e lo spreco delle risorse che discendono dalle “tra-gedie dei comuni”.

Come si è detto, l’ordinamento può scegliere se individuare ilsoggetto favorito attraverso la relazione di fatto con la cosa oattraverso il titolo ieratico. Nessun ordinamento moderno siaccontenta di un sistema di appartenenza fondato sulla relazionedi fatto con la cosa; tutti riconoscono una proprietà che soprav-vive anche in assenza della relazione di fatto.

Ma i problemi che conducono alla creazione delle situazionidi appartenenza si riproducono nelle ipotesi in cui il proprietarioè assente. Il proprietario ha diritto di escludere i terzi; ma comerisolvere i conflitti quando nessuna delle due parti in causa è ilproprietario?

L’ordinamento può avere interesse ad individuare un sup-plente del proprietario assente; ed è naturale che lo individui inun soggetto che è per definizione presente, cioè nel soggetto delpotere di fatto.

Lo stesso proprietario ha tutto da guadagnare dalla prote-zione accordata al possessore verso i terzi. Il possessore ha uninteresse proprio a difendere la cosa; l’ordinamento, una voltaconcessogli un potere di difesa, potrà imporgli di rispondere neiconfronti del proprietario per come ha difeso la cosa contro iterzi. Il proprietario ha interesse ad avere di fronte a sé un gestoreresponsabilizzato e messo in grado di difendere la cosa piuttostoche a lasciare, nella sua assenza, il bene alla mercé di qualunqueintrusione.

Il possessore difende il proprio interesse, aspirando a godereil bene e magari sperando di usucapire, ma allo stesso tempofinisce anche per difendere gli interessi del proprietario (1).

Il possesso può in questo quadro essere visto come una forma

(1) L’impostazione del testo riflette ampiamente riflessioni già presenti in R. SACCO, Ilpossesso, in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuatoda L. Mengoni, Milano, 1988, e in R. SACCO e R. CATERINA, Il possesso, 2ª ed., Milano, 2000.

Per una ricostruzione del dibattito sulle ragioni della tutela del possesso, e per una soluzionenon dissimile da quella proposta nel testo, cfr. anche J. GORDLEY & U. MATTEI, ProtectingPossession, in 44 American Journal of Comparative Law, 293 (1996).

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cadetta di appartenenza, protetto per le stesse ragioni dellaproprietà, e contro ogni genere di ingerenza, anche non violenta.

Il soggetto dotato di titolo ieratico avrà gli strumenti perprevalere sul soggetto del potere di fatto, e recuperare la cosa;potrà, in quella sede, chiedere conto dei danni arrecati dallostesso possessore o da terzi. Potrà, per evitare ingiustificatiarricchimenti, essere chiamato a tenere indenne il possessore diuna serie di spese legate alla gestione della cosa di cui ilpossessore ha dovuto darsi carico.

Il dato meno facile da spiegare, e per certi versi sorprendente,è la possibilità per il possessore, almeno in certe circostanze, direagire anche allo spoglio posto in essere dallo stesso proprieta-rio.

Intanto, bisogna dire che si tratta di una regola menouniversale di quella che protegge il possessore verso i terzi. Neisistemi di common law, sul possessore prevale il proprietario, cheha un better title; in Germania, l’opinione maggioritaria consenteche la ragione petitoria escluda la sussistenza della lesionepossessoria (2). Come vedremo, nello stesso ordinamento italianoil divieto per il convenuto nel possessorio di far valere in via dieccezione le sue ragioni proprietarie è stato ridimensionato dauna sentenza della Corte costituzionale.

Laddove il possessore è effettivamente protetto anche neiconfronti del proprietario, si possono immaginare alcune ragionia sostegno di questa soluzione.

Intanto, un ordinamento può ritenere più facile mettere infunzione, a favore del possessore, un’azione giudiziale esperibilenei confronti di tutti, contrappesata da un’azione per il rilascio eil rendiconto concessa al proprietario, piuttosto che non istituireun sistema di azioni per la tutela dell’appartenenza, fondate sultitolo relativamente migliore, in cui il possessore prevale sul terzoe soccombe di fronte al proprietario.

In secondo luogo, poiché il possesso fa nascere ragioni delpossessore per spese, riparazioni, ecc., esiste un legittimo inte-

(2) Cfr. G. A. BECCARA, La Corte costituzionale ridimensiona la portata del cosiddetto “divietodel cumulo” tra possessorio e petitorio, in Quadrimestre, 1993, 594, pp. 617 ss.

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resse del possessore a poter abbinare la definizione dei rapporticontabili relativi a queste voci con la definizione del suo doveredi rilasciare il bene al proprietario (tanto che molti ordinamentiriconoscono al possessore un diritto di ritenzione).

In terzo luogo, la tutela del possessore contro lesioni violenteda parte del proprietario può effettivamente essere ispirata allatutela dell’ordine pubblico; e la protezione del possessore anchecontro il proprietario potrebbe essere il residuo di una imposta-zione (“ne cives ad arma veniant”) che si è affievolita nel corso deltempo.

6.1.3. I molti moduli del potere di fatto.

Gli ordinamenti giuridici consentono a chi si trova in unarelazione di fatto con la cosa di reagire alle lesioni del possesso.

Non è questo l’unico effetto che gli ordinamenti assegnano allarelazione di fatto tra l’uomo e la cosa. La relazione di fatto con lacosa, accompagnata da circostanze qualificanti, può costituire unmodo di acquisto della proprietà — così avviene per l’usucapione,per l’acquisto a non domino di beni mobili, per l’occupazione. Laconsegna può essere oggetto di un obbligo contrattuale — e bi-sognerà stabilire quando esso è assolto. Il diritto penale può as-segnare una rilevanza alla relazione di fatto con le cose — a secondadei casi per proteggere il possessore o per punirlo.

Non necessariamente le relazioni di fatto a cui l’ordinamentoattribuisce, a vari fini, rilevanza, sono identiche. I tratti distintiviche possono diventare rilevanti sono molti.

Limitiamoci a qualche esempio, relativo all’ordinamentoitaliano. Secondo un’opinione consolidata, per non frustrare laragione della norma che impone il requisito della consegna, ai finidell’art. 1153 c.c. è insufficiente la consegna nelle forme spiritua-lizzate del costituto possessorio o della consegna delle chiavi; laregola “possesso vale titolo” presuppone il trasferimento all’ac-quirente del possesso materiale (c.d. “possesso reale”) (3). Ep-

(3) Cfr. L. MENGONI, Gli acquisti “a non domino”, 3ª ed., Milano, 1975, pp. 128 ss.; Cass.17 marzo 1950, n. 720, in Foro it., 1950, I, 1177.

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pure, ad altri fini, la consegna delle chiavi basta sicuramente atrasferire il possesso.

Il possessore di buona fede è (quasi ovunque) destinatario diregole diverse dal possessore di mala fede; ad esempio, in Italiasolo il possessore di buona fede acquista i frutti.

In senso ampio, possiamo dire che ogni relazione di fatto conla cosa è possesso; ed allora si dovranno precisare di volta in voltai fatti concomitanti il possesso che sono necessari perché siproduca questo o quest’altro effetto.

Nulla vieta, però, di riservare il nome di possesso solo allerelazioni di fatto caratterizzate da certi tratti distintivi; ed allorabisognerà trovare un altro nome per le relazioni di fatto prive diquei tratti distintivi, ma comunque rilevanti per il diritto.

Una apparente divaricazione tra i sistemi di civil law sitraduce sostanzialmente in una diversa scelta terminologica.

In armonia con la tradizione romanistica, i sistemi italiano efrancese distinguono tra possesso e detenzione sulla base di unelemento che l’opinione prevalente identifica nell’animus domi-ni — l’intenzione di comportarsi e farsi considerare come titolaredella proprietà, o, più ampiamente, di un diritto reale sulla cosa.Chi ha un potere di fatto sulla cosa ma non l’animus domini è undetentore.

Il legislatore tedesco assume un punto di partenza diverso. Lanozione di base è la signoria di fatto sulla cosa. Chi ha latatsächliche Gewalt ha il Besitz, cioè il possesso. Chi si comportacome conduttore, o come depositario, è Besitzer, così come chi sicomporta come proprietario.

La protezione possessoria è in Germania riconosciuta alBesitzer. E in Francia e in Italia? In Francia e in Italia la azionecontro lo spossessamento (réintégrande, azione di reintegrazione)è concessa anche al detentore. In Francia la equiparazione èancora più ampia, perché una legge del 1975 (l. 75-596 del 9luglio) ha esteso al detentore anche la azione contro le molestie(complainte) (4).

(4) Cfr. A. GUARNERI, Una legge francese sulle azioni possessorie, in Riv. dir. civ., 1980, I,302.

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In Francia, in Italia solo il possessore può usucapire. E inGermania? In Germania il BGB distingue tra chi possiede la cosaals ihm gehörend, come appartenente a lui stesso, e chi possiedein altro modo; e crea perciò la figura dello Eigenbesitzer,contrapposto al Fremdbesitzer; solo chi possiede come proprie-tario acquista per usucapione.

In altre parole: in Germania la categoria dei possessori è ampia,e dentro la categoria si ritaglia una sottocategoria più ristretta a cuiè riservata la possibilità di acquistare per usucapione; in Francia ein Italia la categoria dei possessori è più ristretta, ma la protezionepossessoria è estesa anche a soggetti che non sono possessori. Ladifferenza è principalmente terminologica.

Il legislatore italiano adotta la contrapposizione possesso-detenzione; non è detto che vi si mantenga sempre fedele. Adesempio, gli artt. 1992 ss. riservano al “possessore” del titolo dicredito la possibilità di presentare il documento all’emittente, perpretenderne con successo la prestazione. Ma il trattamentogiuridico del detentore non è diverso. Possessore e detentorepossono pretendere la prestazione; il debitore si libera non solopagando al possessore, ma anche pagando al detentore. E infattile leggi speciali sulla cambiale e sull’assegno identificano il“portatore legittimo” del titolo con il detentore (cfr. ad es. l’art.20 della legge cambiaria).

Sotto un diverso profilo, abbiamo già detto che secondoun’interpretazione pacifica “sebbene nell’art. 1153 c.c. il legisla-tore parli genericamente di possesso come condizione essenzialeper l’acquisto della proprietà delle cose mobili, egli ha intesoriferirsi al possesso materiale” (5).

È bene allora tenere a mente una lezione già da tempoassorbita in altri ordinamenti; possesso è un concetto funzionalee relativo; non è detto che le relazioni di fatto tra uomo e cosa acui il diritto attribuisce rilevanza a vari fini siano identiche fraloro (6).

(5) Cass. 17 marzo 1950, n. 720, in Foro it., 1950, I, 1177, p. 1181.(6) Nella letteratura inglese cfr., in questo senso, D.R. HARRIS, The Concept of Possession in

English Law, in A.G. GUEST (ed.), Oxford Essays in Jurisprudence, London, 1961, 69. Nellaletteratura italiana l’esistenza di molteplici figure di possesso, non riconducibili ad una nozione

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6.2. Gli elementi del possesso.

6.2.1. Gli elementi del possesso: il potere di fatto.

Secondo la impostazione tradizionale, ai fini della configura-bilità del possesso sono necessari due elementi: il potere di fattosulla cosa (latineggiando, corpus); l’intenzione di tenere quelladeterminata cosa quale proprietario o titolare di un altro dirittoreale (animus).

La descrizione del potere di fatto è difficoltosa. In dottrina sisono moltiplicate le perifrasi descrittive (signoria di fatto, signoriaeconomica, dominazione, etc.), che risolvono poco, perché spo-stano il problema dalla nozione del potere di fatto alle nozioni disignoria (fisica o economica), dominazione, etc.

Lo sforzo per indicare la struttura del possesso deve passareattraverso la constatazione di due concezioni alternative, più omeno esplicitamente seguite nella letteratura.

Una parte della dottrina muove dall’idea che il possessore,come il proprietario, può essere attivo, o essere inoperoso. Ilproprietario può coltivare il prato, o lasciarlo incolto; può leggereil libro o lasciarlo sulla scrivania. Il possessore deve poter fare lostesso senza smettere di essere tale.

La definizione del potere di fatto deve essere valida anche perl’ipotesi del possesso inoperoso; ed allora, deve ricorrere adelementi diversi dalla condotta del possessore.

Un primo passo in questa direzione si può far risalire aSavigny, che ebbe il merito di osservare che per la continuazionedel possesso non è necessaria la “immediata fisica disponibilità”della cosa, ma importa unicamente che duri “la potenza diriprodurre a piacere quell’immediato rapporto” (7). Basta, dun-que, la possibilità di ingerirsi senza ostacoli nella cosa.

Il secondo passo è stato la valorizzazione di un elementodiverso dall’ingerenza del possessore: l’astensione dei terzi. L’in-

unitaria, è sottolineata (anche attraverso la scelta del titolo) in B. TROISI e C. CICERO, I possessi, inTrattato di diritto civile del Consiglio nazionale del Notariato diretto da P. PERLINGIERI, Napoli,2005. Sulla molteplicità delle relazioni di fatto rilevanti insistono SACCO, Il possesso, cit., e SACCO

e CATERINA, Il possesso, 2a ed.(7) F.K. VON SAVIGNY, Il diritto del possesso (tr. it. P. CONTICINI), Firenze, 1839, § 18, p. 217.

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gerenza del possessore può essere saltuaria e sfuggente; l’asten-sione dei terzi è invece requisito del possesso in ogni sua fase. Ilpotere di fatto non consiste tanto in una relazione materiale tra ilsoggetto e la cosa, ma “nel fatto che i terzi si astengono e che nonvi è invece un ostacolo fisico, almeno di carattere duraturoall’ingerenza del possessore sulla cosa” (8).

Il potere di fatto sulla cosa, allora, richiede l’astensioneattuale dei terzi da ingerenze sulla cosa e la possibilità di ingerirsida parte del possessore; non richiede necessariamente una attivitàda parte del possessore (9).

Questa ricostruzione ha suscitato insofferenze in dottrina.Non sono mancate, infatti, critiche a una eccessiva “spiritualiz-zazione” del corpus. Il codice civile (art. 1140) richiede unaattività; mentre il proprietario può non esercitare il suo dirittosenza perderlo, il possessore inattivo perderebbe allora il suopossesso. In questo senso andrebbe respinta la tentazione di untroppo spinto parallelismo tra possesso ed esercizio del diritto diproprietà: il non uso non sarebbe adattabile al possesso, che esigeun comportamento positivo (10).

Se la dottrina è divisa, la giurisprudenza è fermissima nelritenere che “per la conservazione del possesso non occorre lamateriale continuità dell’uso né l’esplicazione di continui econcreti atti di godimento e di esercizio del possesso” (11); cheanzi il possesso “può anche concretarsi nel non uso” (12). Perlimitarci a qualche esempio, si è ritenuto che lo stato diabbandono in cui versa un fondo non vale a escludere il possesso,“poiché si può possedere un fondo anche trascurandone lacoltivazione, per mancanza di interesse o per altre ragioni”; e ciòin base al “principio di diritto che non condiziona la conserva-

(8) AL. FEDELE, Possesso ed esercizio del diritto, Torino, 1950, p. 63.(9) In questo senso, A. MONTEL, Il possesso, 2ª ed., in Trattato di diritto civile italiano diretto

da F. VASSALLI, Torino, 1962, p. 39 ss.; R. SACCO e R. CATERINA, Il possesso, 2a ed., in Trattato didiritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni,Milano, 2000, pp. 76 ss.

(10) In questo senso, U. NATOLI, Il possesso, Milano, 1992, p. 38 ss.; F. ALCARO, Il possesso,in Commentario del codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano, 2003, p. 35 ss.

(11) In questo termini Cass. 11 novembre 1997, n. 11119.(12) Cass. 29 luglio 1958, n. 2743.

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zione del possesso all’esplicazione di continui e concreti atti digodimento e di esercizio del possesso” (13); che “il sempliceabbandono del domicilio coniugale da parte del proprietario delfondo, ancorché seguito da assoluto disinteresse per le sorti diquesto bene” (disinteresse protrattosi per oltre venti anni) nonbasta a far perdere il possesso (14); che non necessariamenteperde il possesso di una servitù di passaggio chi tiene chiuso, permolti anni, il cancello di accesso alla strada utilizzata, essendosufficiente che la cosa resti nella “virtuale disponibilità” delpossessore (15).

La giurisprudenza spesso, adottando una formula latina,parla di possibilità di conservare il possesso solo animo (16). Laformula latina dichiara superfluo il corpus, perché con la parolacorpus indica la sola ingerenza attuale del possessore. Si dica chenon è necessario il corpus (nel senso di ingerenza attuale), si dicache il corpus si riduce alla sola ingerenza potenziale accompa-gnata dalla astensione dei terzi: ciò che è sicuro è che lagiurisprudenza non richiede un comportamento attivo da partedel possessore.

La concezione attivistica del possesso, se presa sul serio, èincompatibile con le esigenze di una gestione normale dei beni. Isoggetti di norma non realizzano continui atti di godimento deipropri beni; anche l’inerzia può essere un comportamentoefficiente, e non c’è ragione di scoraggiarla.

In realtà, la stessa dottrina che nega, in linea di principio, chel’inattività sia compatibile con l’esistenza del possesso, finiscespesso per ridimensionare le proprie affermazioni. Si ammette,infatti, che non è immaginabile una “continuità ‘fisica’ dellarelazione con la cosa”, che la attività deve essere valutata tenendoconto “della specifica funzione del bene di riferimento”, impli-cando necessariamente anche “momenti di inerzia e di disconti-nuità”; ma si avverte che occorre “tenere ben distinti i profili

(13) Cass. 4 giugno 1999, n. 5444.(14) Cass. 7 gennaio 1992, n. 39.(15) Cass. 6 settembre 1994, n. 7674.(16) PAOLO, Sent. V, 2, 1: “retinere tamen nudo animo possumus, sicut in saltibus

aestivisque contingit”.

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giuridici dell’inerzia rispetto a quelli puramente fattuali, per cosìdire naturali ed ‘esistenziali’ e quindi irrilevanti ai fini dell’inda-gine” (17).

Siccome qui si intende precisamente fornire una descrizione“fattuale” del potere di fatto, preferiamo chiamare le cose con illoro nome e dire che l’inerzia del possessore non è incompatibilecol possesso.

Il possesso, secondo la giurisprudenza, viene meno se ven-gono meno la possibilità di ingerirsi e l’astensione dei terzi.

Così, si è deciso che seppure “il possesso, che si esercita adintervalli (come nei pascoli soggetti a soste invernali o estive,‘saltus hiberni et aestivi’) non cessa di essere continuo, sel’utilizzazione della cosa, su cui si esercita il potere di fatto,subisce interruzioni dipendenti dalla natura o dalla destinazioneeconomica della cosa”, “la possibilità di ripristinare ‘ad libitum’il contatto materiale con la cosa, ossia il ‘corpus’, viene meno, sealtri abbiano frattanto instaurato sulla cosa il proprio possesso,sia pure attraverso un autonomo atto di apprensione”; con laconseguenza che “il possessore, privato del possesso, che (…)non si avvalga dell’azione reintegratoria, non può recuperare disua iniziativa la perduta disponibilità, senza incorrere, sussisten-done anche gli altri estremi, in uno spoglio” (18).

Si è escluso che possa considerarsi possessore chi, perriacquistare il possesso di alcuni beni mobili custoditi inun’abitazione, sia costretto a penetrare furtivamente nella casa,effrangendo la serratura di una porta, in quanto “il possesso soloanimo (…) presuppone necessariamente che il titolare abbia lapossibilità di disporre ad libitum ed a propria discrezione delcorpus e senza che debba avvalersi di azioni violente o clande-stine” (19).

Ancora, dal momento che “il possesso e la detenzione nonsono ipotizzabili se manchi la disponibilità, anche solo virtuale,della cosa”, si è escluso il possesso della madre “per l’allontana-

(17) ALCARO, Il possesso, cit., pp. 45-46.(18) Così Cass. 20 gennaio 1986, n. 368.(19) Cass. 5 dicembre 1988, n. 6583.

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mento forzato (…) dal fondo e per gli impedimenti frapposti dalfiglio ai tentativi di riacquisto del godimento del bene” (20).

La giurisprudenza insiste sulla necessità della possibilità diripristinare ad libitum il contatto materiale con la cosa. Lacasistica evidenzia però che l’impossibilità dell’ingerenza si ac-compagna puntualmente ad un’ingerenza altrui (e dunque alvenir meno dell’astensione da parte dei terzi). Non c’è da stupirsi.Finché l’impossibilità di ingerenza materiale (causata ad esempioda fattori naturali) non si accompagna all’ingerenza altrui, nonsorgono conflitti.

Possono essere utili due precisazioni.Il potere di fatto è elemento indispensabile del possesso. Lo

spoglio pone fine al potere di fatto, e dunque al possesso; il chenon esclude che lo spogliato abbia diritto a essere ripristinato nelpotere di fatto esercitando le azioni possessorie. Il linguaggiocorrente può indurre in equivoci; molte volte è comodo parlaredel “possessore” per indicare in realtà una persona che ha avuto,e poi perduto, il possesso. Si dirà così che “il possessore agisce inreintegrazione” invece di dire che “colui che era possessore finoal momento dello spoglio agisce in reintegrazione”.

Le molestie, invece, sono ingerenze marginali che modificanoil contenuto del potere di fatto, senza necessariamente distrug-gerlo. Chi passa sul mio fondo non distrugge il mio possesso;naturalmente il passaggio potrà preludere all’acquisto del pos-sesso di una servitù di passaggio, il che mi impedirà di passare allevie di fatto e ad esempio bloccare il passaggio senza commetterespoglio.

I requisiti dell’astenzione dei terzi e della possibilità diingerirsi nel bene si intrecciano allora in modo stretto. L’impos-sibilità di ingerenza diventa concretamente rilevante quando sicombina con l’ingerenza altrui; l’ingerenza altrui distrugge ilpotere di fatto quando tende ad escludere il precedente posses-sore.

(20) Cass. 26 ottobre 1993, n. 10642.

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6.2.2. Gli elementi del possesso: l’acquisto del potere difatto.

Si afferma, solitamente, che l’ingerenza deve essere attualenel momento iniziale del possesso, anche se può essere pura-mente potenziale nella fase ulteriore. Già i Romani insegnavanoche il possesso si può conservare, ma non acquistare soloanimo (21). E la giurisprudenza italiana si mantiene fedele a taleprincipio.

La regola così descritta è certamente ragionevole. Senza unapresa di possesso riconoscibile di Tizio, come si potrebbestabilire che il possessore è proprio Tizio, e non un altrosoggetto?

Il principio però conosce un’eccezione. Secondo una mas-sima giurisprudenziale consolidata, per stabilire se vi sia stato onon trasferimento del possesso, non è necessaria l’apprensionemateriale della cosa, “in quanto il potere di fatto deve intendersiconseguito quando, pur mancando la prossimità o contiguitàmateriale tra il soggetto e la cosa, questa sia posta, tuttavia, adisposizione del soggetto medesimo, il quale abbia la possibilitàdi agire liberamente su di essa” (22). Torneremo a parlare dellaconsegna; per ora registriamo che quando il potere di fatto si faderivare dal consenso del precedente possessore, non è necessa-ria, per iniziare a possedere, nessuna ingerenza materiale.

La necessità di un’ingerenza iniziale non deve allora esseresopravvalutata. Certo, la situazione di fatto deve essere intelleg-gibile; e in assenza di qualsiasi ingerenza materiale, di solito nonlo è. Ma quando la situazione è illuminata da altri elementi, anchedella ingerenza iniziale si può fare a meno.

Dal punto di vista dell’ambito spaziale dell’ingerenza, vale lavecchia regola romana secondo cui “sufficit quamlibet partemfundi introire” (23). La giurisprudenza ripete fedelmente che“una volta fornita la prova del possesso della cosa nella sua unità,

(21) PAOLO, Sent. V, 2, 1: “Sed nudo animo adibisci quidam possessionem non possumus,retinere tamen nudo animo possumus, sicut in saltibus aestivisque contingit”.

(22) Così Cass. 8 ottobre 1963, n. 2676; nello stesso senso Cass. 20 aprile 1962, n. 801;Cass. 10 dicembre 1996, n. 10986.

(23) PAOLO, Dig. 41, 2, 3, 1.

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non è necessaria l’ulteriore dimostrazione del possesso della parteo della frazione” (24) (il che presuppone, ovviamente, una cosachiaramente individuabile nella sua unità).

Nei limiti in cui gli atti di ingerenza rilevano, si pone ilproblema se essi debbano essere atti di ingerenza volontari. Ilproblema tende spesso a confondersi con quello della rilevanzadell’animus domini; sul piano logico, tuttavia, è ben possibiledistinguere tra volontà di assoggettare a sé la cosa e volontà diessere proprietario.

La risposta tradizionale è che gli atti di ingerenza devonoessere volontari. Nello stesso senso si esprime la giurisprudenzaitaliana.

L’atto di acquisto del possesso, secondo la giurisprudenza, èun atto giuridico, e come tale richiede la consapevolezza e lavolontà dell’agente, ma non è un negozio giuridico; pertanto“nell’atto di acquisto del possesso è indispensabile la volontà delsoggetto di esercitare la propria signoria sulla cosa mentrel’effetto è determinato direttamente dalla legge in relazione acircostanze che esulano del tutto dall’elemento interiore o spiri-tuale”; dal che si ricava che “per l’acquisto del possesso (…), nonè affatto necessaria la capacità di agire ma basta la capacitànaturale di intendere e di volere” (25). Di conseguenza, anche ilminore (26) e l’infermo di mente (27), purché dotati di capacitànaturale, possono porre in essere atti di acquisto del possesso.

Dunque, è indispensabile la volontà del soggetto di esercitarela propria signoria sulla cosa, e quindi la consapevolezza evolontà dell’ingerenza; non sarebbero sufficienti ingerenze do-vute ad episodi di sonnambulismo o di raptus.

La necessità di questa consapevolezza e volontarietà sonostate criticate. Si è osservato che uno stato psicologico di volontànon può durare quanto dura il possesso, né protrarsi quando ilpossessore dorme o è impazzito, e che si può avere il possesso dioggetti dimenticati.

(24) Cass. 11 febbraio 1967, n. 347; nello stesso senso, Cass. 19 luglio 1968, n. 2601.(25) Cass. 18 giugno 1986, n. 4072.(26) Cass. 18 giugno 1986, n. 4072.(27) Cass. 25 febbraio 1952, n. 504.

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Tali censure non sono insuperabili. Come l’ingerenza, lavolontà è richiesta nel solo momento dell’acquisto; come ilpossessore non deve mantenere un contatto fisico con la cosa,così non occorre che in ogni singolo istante pensi al propriorapporto.

D’altra parte, la consapevolezza e volontarietà dell’ingerenzanon implica necessariamente consapevolezza delle singole cose dicui si acquista il possesso: si pensi al rigattiere che, senzaesaminarne il contenuto, acquista una scatola piena di vecchigiocattoli.

Figure di potere di fatto, in cui l’operazione di ieri vale afondare il potere di fatto di oggi, hanno ugualmente fornitol’occasione per discutere sia del requisito dell’intento che dell’ef-fettiva esigenza di una ingerenza iniziale: si pensi alla predispo-sizione di una trappola o, più banalmente, di una cassetta per lelettere.

6.2.3. Gli elementi del possesso: l’animus domini.

Una lunga tradizione richiede che il potere di fatto siaaccompagnato da un elemento psicologico. Questo elementoviene definito come intenzione di comportarsi e farsi considerarecome titolare di quel diritto reale, cui corrisponde il potere difatto sulla cosa. Si parla, perlopiù, di animus domini, o animuspossidendi, o ancora di animus rem sibi habendi (il che può crearequalche confusione con il requisito della volontarietà dell’inge-renza, che talvolta è indicata nello stesso modo).

Questo intento viene utilizzato per discriminare il possessore(il quale intende esercitare la proprietà o altro diritto reale) daldetentore.

L’insegnamento in esame è saldo in Francia e in Italia. InGermania, come si è detto, si è abbandonata la distinzione trapossesso e detenzione; lo stesso BGB, però, distingue tra chipossiede la cosa als ihm gehörend, come appartenente a luistesso, e perciò acquista per usucapione la proprietà, e chipossiede in altro modo; e dottrina e giurisprudenza richiedono lavolontà di esercitare il potere sulla cosa come proprietario.

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Il codice italiano del 1942 non ha richiesto espressamentel’intento (mentre il codice civile del 1865, art. 686, parlavaespressamente di “animo di tenere la cosa come propria”).Tuttavia, distinguendo tra possesso e detenzione, sembra averlologicamente sponsorizzato. Il codice, inoltre, menziona il requi-sito dell’attività corrispondente all’esercizio del diritto reale, el’intento sembra un tipico elemento dell’attività-esercizio: l’eser-cizio del diritto di usufrutto su un appartamento si può distin-guere cioè dall’esercizio del diritto personale del conduttore inbase all’intento del soggetto.

La giurisprudenza è saldamente ancorata al criterio discretivodell’animus, e contrappone animus possidendi e animus deti-nendi (28); e, sia pur con formulazioni diversificate, anche indottrina rimane diffusa l’idea che sia l’animus a distinguere lefigure del possessore e del detentore (29).

Non manca, tuttavia, una forte corrente dottrinale orientataverso la concezione oggettiva del possesso, che rifiuta rilevanzaall’intento e propone di rimpiazzarlo con altri elementi.

Una parte degli autori, per sollevare il giudice dall’indaginesu un fatto psicologico, quale è l’intento, suggeriscono di quali-ficare il potere di fatto in base a comportamenti materiali delsoggetto.

In questo senso si è osservato che “ciò che conta è la condottadi chi tiene o usa la cosa, non le sue segrete intenzioni, di cui ildiritto non si può occupare”; per il possesso occorre che lapersona si comporti “in modo corrispondente a quello di chiesercita un diritto”; invece, “detentore è colui che si comportanon in modo corrispondente all’esercizio di un diritto reale, main modo diverso, cioè dando dei segni di riconoscere un ‘potere’altrui; per esempio, paga un canone di locazione, chiede un

(28) Cfr., a mero titolo di esempio, Cass. 19 agosto 2002, n. 12232; Cass. 18 febbraio 2000,n. 1824.

(29) Cfr., ad esempio, C. TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, in Digesto civ., XIV,Torino, 1996, 8, pp. 15 ss.; A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 41a ed., Padova, 2004, pp.546-547.

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contributo per le spese, scrive una lettera di ringraziamento, ochiede una dilazione per la riconsegna, ecc.” (30).

Altra parte della dottrina propone invece di sostituire al-l’animo il titolo. In questa prospettiva, “la differenza tra possessoe detenzione a chi ben guardi non è nella volontà, ma nel titolo,che dalla volontà o dalla legge si desuma; nell’autonomia o nelladipendenza obbiettiva dal possesso e dal potere di fatto altrui”;per cui non si richiede un determinato animus ma “un determi-nato titolo (che è la qualifica giuridica del fatto)” (31). Ed ancora,nello stesso senso, si è osservato che la relazione possessore/detentore “non può non sorgere sulla base di un rapporto (di tipoobbligatorio) configurato giuridicamente e formalmente inqua-drabile in un determinato modello o tipo negoziale, fonte di limitie di ‘misurate’ attribuzioni soggettive”; per cui “laddove taletitolo non si ravvisasse, la posizione del soggetto, nella cuidisponibilità la cosa si trovi, si qualificherebbe senz’altro intermini di possesso” (32).

Nella dottrina orientata verso la concezione oggettiva aleggiala diffidenza verso il ricorso ad elementi “di incerta naturapsichica o spirituale”, a “vaghi elementi fondati sulla ricerca dellesegrete intenzioni del soggetto” (33).

La valutazione del dibattito sul requisito soggettivo delpossesso deve essere articolata in più punti.

Innanzitutto, è bene precisare che, ammessa una rilevanzadella volontà, è ovvio che questa volontà deve manifestarsi inqualche modo all’esterno, e che nessuno intende attribuirerilevanza a pensieri segreti del soggetto da individuare mediantetecniche di divinazione sciamanica. Del resto, una genericairrilevanza degli stati intenzionali per il diritto sembra difficile da

(30) P. ZATTI e V. COLUSSI, Lineamenti di diritto privato, 9ª ed., Padova, 2003, pp. 277-278.Un discorso non dissimile (ma con toni più sfumati) è in F. DE MARTINO, Del possesso, inCommentario del codice civile a cura di A. SCIALOJA e G. BRANCA, 5a ed., Bologna-Roma, 1984, pp.1 ss.

(31) C.A. FUNAIOLI, L’animus nel possesso e il dogma della volontà, in Giust. civ., 1951, 16,p. 27.

(32) ALCARO, Il possesso, cit., p. 84. Favorevole alla sostituzione della volontà con il titoloè anche C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, Milano, 1999, p. 729.

(33) P. RESCIGNO, Manuale di diritto privato, Milano, 2000, p. 445. Considerazioni nondissimili in TROISI e CICERO, I possessi, cit., p. 16.

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sostenere (basti pensare al diritto penale); e naturalmente, lad-dove rilevano, gli stati intenzionali sono pur sempre ricostruitisulla base di indici esterni (34).

Il tentativo di sostituire all’animo il titolo incontra alcunedifficoltà.

Una conferma dell’irrilevanza dell’animus è spesso trattadall’art. 1141, 2° comma, c.c.: “la interversione infatti si verificaesclusivamente in dipendenza di due fatti obiettivi, ritenuti dallalegge idonei a mutare il titolo della detenzione” (35); “a nullavarrebbe in contrario la prova di una diversa volontà se nonattuata nelle forme necessarie appunto per mutare il titolo” (36).

Il codice italiano richiede al detentore, per acquistare ilpossesso, che il titolo muti per causa proveniente da un terzo o inforza di opposizione fatta contro il possessore.

Tale disposizione non soltanto non fornisce una provadecisiva a favore dell’irrilevanza dell’animus, ma anzi fornisce unindizio in senso contrario.

Certo, non basta al detentore mutare la propria volontà pertrasformarsi in possessore. Ma il fatto che, in questa ipotesi, atutela del possessore originario, siano richiesti dei requisiti

(34) Il sospetto di molti giuristi per il ricorso a elementi interni e psichici riecheggia, più omeno consapevolmente, le tesi del comportamentismo, che è stato il paradigma dominante nellaricerca psicologica nel corso della prima metà del Novecento. Gli psicologi comportamentisti,ponendo al centro dei loro interessi teorici la previsione e la spiegazione del comportamento,escludevano gli stati mentali dall’ambito della ricerca psicologica in quanto non osservabili.Secondo questo approccio, una teoria appropriata deve cercare di descrivere e spiegare ilcomportamento esclusivamente a partire da dati empirici certi, cioè stimoli e risposte; ilriferimento a supposti enti non osservabili è inammissibile. Per un comportamentista la mente nonesiste, almeno nel senso che nella pratica scientifica bisogna operare come se non esistesse; in talmodo la mente è a tutti gli effetti rimossa dalla spiegazione psicologica e dalla ontologia dellescienze del comportamento.

Dalla seconda metà degli anni Cinquanta il comportamentismo è entrato in crisi ed è statosoppiantato dalla psicologia cognitiva. La psicologia cognitiva è la scienza che studia i processi dielaborazione di informazioni negli organismi complessi. L’organismo di cui si occupa ilcognitivista non è più “vuoto” come voleva il comportamentismo. Tra la stimolazione e la rispostavi è nuovamente la mente, concepita come elaboratore di informazioni. Le informazioni iningresso vengono codificate nella mente, divenendo in tal modo oggetti interni (le rappresenta-zioni mentali) suscettibili di elaborazioni di vario tipo. Oggi il realismo intenzionale, cioè l’idea chegli stati mentali esistono e sono causalmente coinvolti nella genesi del comportamento, ha ripresovigore tra gli scienziati cognitivi. Per una introduzione a questi temi, cfr. M. MARRAFFA, Filosofiadella psicologia, Roma-Bari, 2003.

(35) ALCARO, Il possesso, cit., p. 111.(36) FUNAIOLI, L’animus nel possesso, cit., p. 27.

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ulteriori per l’acquisto del possesso non prova l’irrilevanza, intermini generali, dell’animo. Il fatto che in determinate ipotesinon basti avere il potere di fatto e l’animus domini per diventarepossessore non prova, cioè, che l’animo sia irrilevante.

Secondo l’art. 1141 il mutamento della detenzione in pos-sesso si verifica (in caso di mutamento del titolo da parte di unterzo e) in caso di opposizione del detentore contro il possessore.Sulla interversione dovremo tornare; ma iniziamo a dire che laopposizione consiste in una manifestazione; per dirla con lagiurisprudenza, una “manifestazione esteriore, dalla quale siaconsentito desumere che il detentore ha cessato d’esercitare ilpotere di fatto sulla cosa nomine alieno” (37). Ma cosa devemanifestare il detentore? Un titolo che non ha? O piuttosto unavolontà, uno stato mentale?

Altre difficoltà nascono quando si considerano casi in cuimanca una qualsiasi relazione preventiva del detentore con ilpossessore, quali quello del ritrovatore di cosa altrui o del gestoredi affari. Si è detto, a proposito di queste ipotesi, che “il titolopuò avere fondamento sia negoziale che legale” (38). Ma come sidistingue il ritrovatore dell’oggetto smarrito, che lo detiene perconsegnarlo al sindaco, da chi ha ogni intenzione di tenerselo, edunque è possessore? Come si distingue il gestore-detentoredallo squatter-possessore? Si potrà dire: sulla base di un com-portamento, ed allora rinviamo a quanto diremo fra poche righe;ma non sulla base di un titolo. Qui si può dire che c’è un titolodiverso; ma il titolo presuppone la distinzione fra le diversesituazioni, non la fonda.

Il riferimento al titolo sembra a maggior ragione inaccettabilese si considera detentore anche chi si immette nel bene sulla basedi un contratto di locazione invalido; se si considera detentoreanche chi si immette nel bene sulla base di un contratto dilocazione che si riferisce ad un bene diverso da quello erronea-mente individuato; se addirittura si considera detentore chi hacompletamente frainteso la situazione, e non ha affatto concluso

(37) Così Cass. 12 maggio 1999, n. 4701.(38) ALCARO, Il possesso, cit., p. 82.

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un contratto di locazione. Se si ammette che vi sia detenzione inquesti casi, appare completamente fuorviante il riferimento ad untitolo che può essere invalido ed addirittura inesistente. Ma sulpunto non insistiamo perché, come vedremo, la possibilità diravvisare una detenzione nei casi a cui si è accennato è in qualchemisura controversa.

Veniamo alla proposta di qualificare il potere di fatto in basea comportamenti materiali del soggetto.

I fautori di questa soluzione sembrano nutrire una eccessivafiducia nella inequivocità dei comportamenti materiali. Il pro-prietario di una autovettura compie, in massima parte, gestimaterialmente identici a colui che l’ha presa in affitto.

Si potrà obbiettare che la distinzione deve basarsi non susingoli gesti, ma su una valutazione complessiva del comporta-mento.

Gli psicologi ci spiegano, però, che ognuno di noi tende aspiegare le sequenze di azioni sulla base dell’attribuzione di statimentali. Questa pratica mentalistica poggia su una proto-teoriaspontanea, la c.d. psicologia del senso comune, che postula laesistenza di stati intenzionali. Si discute animatamente se talepsicologia ingenua abbia basi innate o si sviluppi nell’infanzia; èsicuro che essa è normalmente utilizzata dagli esseri umani, e, aprescindere dal suo statuto epistemico, essa sembra costituire unastrategia interpretativa efficace per razionalizzare il comporta-mento altrui (39).

Si potrà anche pensare, allora, che l’intenzionalità è soltantonegli occhi dell’interprete; di fatto, noi leggiamo i comportamentisulla base dell’attribuzione di stati intenzionali.

Pensiamo, ancora una volta, all’interversione regolata dall’art.1141 c.c., ed in particolare all’opposizione del detentore contro ilpossessore. La giurisprudenza chiarisce che l’opposizione deveestrinsecarsi in una “manifestazione esteriore, dalla quale siaconsentito desumere che il detentore ha cessato d’esercitare ilpotere di fatto sulla cosa nomine alieno”; tale manifestazione

(39) Per una introduzione a questi temi, si rinvia ancora a MARRAFFA, Filosofia dellapsicologia, cit.

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deve essere inequivocabile, e non bastano né atti che si traducano“in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali ladetenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un’ordi-naria ipotesi d’inadempimento contrattuale”, né “meri atti d’eser-cizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi diabuso” (40). Dunque non basta che il conduttore smetta di pagareil canone, né che compia atti che esulano dai suoi poteri. Ma ilconduttore che non paga il canone, e magari che cambiaarbitrariamente la destinazione economica della cosa, non sicomporta materialmente come un proprietario?

Non sembra facile rinunciare a dire, secondo l’impostazionetradizionale, che il detentore deve manifestare (espressamente otacitamente) una volontà.

Non sembra possibile sbarazzarsi del riferimento a statiintenzionali del possessore. Si potrà poi precisare che tali statiintenzionali devono manifestarsi in comportamenti esteriormenteapprezzabili; e rilevare che spesso è il titolo a illuminare ecircoscrivere l’intento, consentendo di leggere una condottaaltrimenti enigmatica.

6.2.4. Il possesso mediato.

L’art. 1140, 2° comma, c.c., prevede il possesso indiretto,“per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”.Alla base del possesso indiretto troviamo dunque l’ingerenza diuna persona diversa dal possessore: dipendente, mandatario,custode, conduttore, comodatario.

Secondo la impostazione tradizionale, il potere di fattoimperniato sull’ingerenza propria appartiene per intiero a questapersona diversa dal possessore. Peraltro il soggetto del potere difatto si astiene da quelle forme di interferenza nel bene chepregiudicherebbero le attese di quel possessore indiretto.

La situazione del soggetto del fatto è assistita da uno statopsicologico corrispondente, cui si dà il nome di “riconoscimento”del possessore, o di “laudatio possessoris”.

(40) Così Cass. 12 maggio 1999, n. 4701.

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I rapporti fra i due soggetti possono essere varii. In certi casi,il possessore si aspetta che il soggetto del potere di fatto gliretroceda la cosa a semplice richiesta; in altri casi, egli sa che ilsoggetto del potere di fatto tratterrà la cosa finché non scada uncerto termine o non maturi un certo evento. In certi casi ilsoggetto del potere di fatto può avvantaggiarsi della cosa; in altricasi invece non può approfittarne.

La contrapposizione concettuale tra possesso mediato eimmediato si collega con la dicotomia possesso-detenzione. Ilpossessore mediato non esplica ingerenza sulla cosa posseduta, equesta ingerenza viene esercitata dal detentore.

Il quadro che abbiamo tracciato non è incontroverso. Indottrina sono state proposte ricostruzioni diverse del possessomediato e dei rapporti tra possesso e detentore, che riflettono lecontroversie già accennate sulla struttura del possesso. Così (innome della esaltazione del titolo) si è criticata la coincidenza tradetenzione e corpus possessionis. Così (in nome della concezioneattivistica del possesso) si è respinta l’idea che il possessoremediato non eserciti un potere di fatto, sottolineando invece cheanche il possessore mediato svolgerebbe una attività, sia pureconsistente nel compimento di atti giuridici e non materiali (41).

6.2.5. L’esercizio del diritto reale: ipotesi problematiche.

Quando l’attività del soggetto corrisponde all’esercizio di undiritto indubbiamente reale, la fattispecie di cui all’art. 1140 c.c.è integra.

Un dibattito si è acceso intorno ai diritti reali che noncomportano una facoltà di ingerenza per il titolare.

I problemi si presentano analoghi per le servitù negative, perla nuda proprietà, per l’ipoteca. Una larga maggioranza degliinterpreti ammette un possesso presso chi attua la situazione delnudo proprietario (42), ma non sono mancate in dottrina opinioni

(41) Per le ricostruzioni “alternative” accennate nel testo, cfr. NATOLI, Il possesso, cit., p. 45ss.; ALCARO, Il possesso, cit., passim.

(42) In dottrina, cfr., ad es., A. MASI, Il possesso e la denuncia di nuova opera e di dannotemuto, in Trattato di diritto privato diretto da P. RESCIGNO, 8, Torino, 1982, 423, pp. 435-436;

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contrarie (43). Il fronte favorevole è però ulteriormente diviso frachi configura un possesso mediato, tramite il titolare del dirittoreale limitato, e chi invece ammette un possesso di contenutoridotto, in parallelo con le ridotte facoltà di ingerenza del nudoproprietario.

Anche per quanto riguarda le servitù negative, la dottrina èdivisa: la maggioranza ammette il possesso a titolo di servitùnegativa (44), ma è ben rappresentata l’opinione contraria (45).Non tutta la dottrina favorevole parla la stessa lingua: qualcheautore parla di possesso mediato, altri invece richiedono che ilpotere sulla cosa si esplichi direttamente attraverso intimazioni alpossessore del fondo servente. La giurisprudenza ammette senzadifficoltà il possesso di servitù negativa; richiede tuttavia chel’astensione del possessore del fondo servente si manifesti comedipendente dalla volontà di rispettare l’altrui possesso; consideraadeguati a tal fine o un’esplicita intimazione da parte delpossessore del fondo dominante seguita da un atteggiamento diosservanza da parte del possessore del fondo servente, o untitolo (46).

Anche sul possesso corrispondente al diritto di ipoteca ipareri sono divisi. Mentre non mancano i pareri favorevoli (47),un’ampia parte della dottrina è in questo caso contraria: se alcuniautori sono contrari per le consuete obiezioni alla configurabilitàdi un possesso senza attività (48), altri considerano decisiva lastretta dipendenza dell’ipoteca dall’iscrizione del titolo (49).

In realtà, mancano valide obiezioni alla configurabilità di unpossesso corrispondente a diritti reali negativi. Se si considerapossessore chi ha consegnato la cosa al conduttore o al comoda-

TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 12; BIANCA, Diritto civile, cit., pp. 735 ss.; ingiurisprudenza, cfr. Cass. 15 marzo 1980, n. 1735.

(43) Cfr., ad es., NATOLI, Il possesso, cit., pp. 48 ss.(44) Cfr., ad es., DE MARTINO, Del possesso, p. 7; MASI, Il possesso, cit., pp. 436-437.(45) Cfr., ad es., NATOLI, Il possesso, cit., pp. 63-64.(46) Cass. 12 ottobre 1971, n. 2865; Cass. 21 aprile 1979, n. 2229, in Giur. it., 1980, I, 1,

293.(47) Cfr. ad es. DE MARTINO, Del possesso, p. 7; TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione,

cit., p. 13.(48) Cfr., ad es., NATOLI, Il possesso, cit., p. 62.(49) Cfr., ad es., MASI, Il possesso, cit., p. 440.

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tario, si ammette una figura di possessore che non esplicapersonalmente nessuna ingerenza materiale nella cosa. Chi haorrore per l’idea di un possessore inattivo, dirà che l’attività nonsi concreta solo in operazioni di carattere materiale, ma anche in“comportamenti di ampio contenuto gestorio”, e che anche l’attodi investitura di un terzo costituisce attività (50). Ma l’attività cosìintesa “non solo in chiave materiale ma anche giuridica” nonesclude neppure il nudo proprietario. Il possessore potrà, indipendenza dalle figure specifiche di detenzione, riscuoterel’eventuale canone, effettuare controlli, in talune ipotesi esplicarelimitate ingerenze nella cosa; più o meno lo stesso può ripetersiper il nudo proprietario, a seconda dei vari diritti reali e delleeventuali pattuizioni delle parti.

Esiste, anche per i diritti reali negativi, l’esigenza che lasituazione di fatto sia intelleggibile. Qui i comportamenti mate-riali sono più difficili da leggere; può mancare, e anzi di normamanca, qualsiasi ingerenza materiale nella cosa. Ecco perché lasituazione di fatto in questi casi sarà normalmente illuminata daun titolo; ma potrà bastare un’intimazione del possessore (dirispettare la destinazione economica, di non costruire in viola-zione della servitù, etc.), cui fa acquiescenza la controparte.

Naturalmente, il possessore a titolo di nuda proprietà po-trebbe realizzare alcuni atti di ingerenza materiale (ad esempio,appropriarsi di un albero di alto fusto divelto per accidente;oppure effettuare una riparazione). Ma sarebbe assurdo condi-zionare il suo possesso all’occorrenza di simili occasioni.

Il discorso è più sfumato per l’ipoteca. Per l’ipoteca è ilcodice a escludere la possibilità di usucapione (gli artt. 1158-1159parlano di “diritti reali di godimento”). Ma il fatto che l’usuca-pione non sia possibile non esclude il possesso; il possessore atitolo di ipoteca potrebbe giovarsi delle azioni possessorie (ilcreditore può pretendere, ai sensi dell’art. 2813 c.c., che ildebitore e i terzi si astengano dal compiere atti da cui possaderivare il perimento o il deterioramento dei beni ipotecati).

(50) In questo senso già NATOLI, Il possesso, cit., pp. 46-47; le parole citate nel testo sonodi ALCARO, Il possesso, cit., pp. 48 ss.

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L’argomento legato alla necessità dell’iscrizione del titolo nonsembra risolutivo, sia perché l’iscrizione è richiesta per il diritto,ma non è detto che sia indispensabile per il possesso; sia perchési potrebbe comunque configurare un possesso di ipoteca là doveun titolo nullo sia stato iscritto.

In altri casi la situazione possessoria è dubbia perché dubbiaè la realità dei diritti. Ad esempio, a proposito della vendita conriserva di proprietà navighiamo in un mare di incertezze. Indottrina si è sostenuto che il compratore abbia: un semplicediritto personale; un’aspettativa reale; un diritto reale innomi-nato; una proprietà piena; un sottotipo di proprietà con conte-nuto ridotto; una proprietà risolubile. Se si accoglie, in unaqualsiasi delle sue variazioni, la proposta di considerare ilcompratore come titolare di un diritto reale, egli sarebbe ancheun possessore (e sembra in effetti opportuno concedere la tutelapossessoria al soggetto su cui gravano i rischi). Pacificamente siritiene anche il venditore titolare di un diritto reale (nella tesi piùestrema, che considera il compratore come pieno proprietario, diun diritto reale di garanzia); pertanto, anche al venditore dovràriconoscersi il possesso.

Un punto controverso riguarda quella situazione, che igiuristi intermedi chiamavano diritto ad rem. La Corte diCassazione — fermissima, come vedremo, nel negare efficacia alleconvenzioni che vogliano trasferire il possesso senza trasferire laproprietà — ha ritenuto compatibile con un preliminare dicompravendita un patto di immediato trasferimento del possesso,riconoscendo alla consegna “effetti attributivi della disponibilitàpossessoria, e non della mera detenzione, anche in mancanzadell’immediato effetto reale del contratto cui il patto accede” (51);e ha considerato possessore l’assegnatario in godimento, conpatto di futura vendita, di un alloggio di edilizia residenzialepubblica (52). La motivazione è, nei due casi, quasi letteralmenteidentica: è vero che, per stabilire se in conseguenza di unaconvenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il

(51) Cass. 13 luglio 1993, n. 7690.(52) Cass. 7 luglio 2000, n. 9106.

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godimento di un immobile si abbia possesso o mera detenzione,occorre stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti realio un contratto ad effetti obbligatori; ma la ragione del principiodi diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, “escludendonel’applicazione alle convenzioni che, per quanto con effetti soloobbligatori, tendono a realizzare il trasferimento della proprietàdel bene o di un diritto reale su di esso quando ad essi acceda unimmediato effetto traslativo del possesso sostanzialmente antici-patore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, leparti si sono ripromessi di realizzare”; in tali ipotesi “la conven-zione non tende solo ad attribuire il godimento del bene (…) maè in funzione di un comune proposito di trasferimento dellaproprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggioimmediato del possesso, che costituisce solo una anticipazionedell’effetto giuridico finale perseguito”.

Ma esistono anche decisioni in senso contrario: la stessaSuprema Corte ha affermato che “nel contratto preliminare adeffetti anticipati (…) la disponibilità del bene conseguita dalpromissario acquirente ha luogo con la piena consapevolezza deicontraenti che l’effetto traslativo non si è ancora verificato,risultando, piuttosto, dal titolo l’altruità della cosa”; la relazionedel promissario acquirente con la cosa andrebbe dunque quali-ficata come semplice detenzione (53).

Sul piano logico, la soluzione più coerente ai principi è quellache riconosce al promissario acquirente la mera detenzione. Ilcreditore che ha diritto di ricevere la proprietà di una cosadeterminata è pur sempre un creditore, e non esercita il dirittoreale di cui all’art. 1140.

Sul piano pratico, le tentazioni della giurisprudenza sonocomprensibili. Può darsi che sia in atto un processo di “realifi-cazione” del diritto del promissario acquirente, confermatodall’introduzione dell’art. 2645-bis. Può darsi che per molticittadini il contratto preliminare ad effetti anticipati sia difficil-mente distinguibile da un contratto definitivo.

Se la situazione attuale del promissario acquirente può

(53) Cass. 28 giugno 2000, n. 8796; nello stesso senso, Cass. 30 maggio 2000, n. 7142.

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lasciare insoddisfatti, però, non è possibile ricorrere a scorciatoie.Fra l’altro, il generalizzato riconoscimento del possesso ai pro-missari acquirenti deve fare i conti con ipotesi problematiche:l’affermazione si estende anche ai casi in cui il corrispettivo nonè stato pagato, o è stato pagato solo parzialmente? Si estendeanche al preliminare per persona da nominare?

6.2.6. L’oggetto del possesso: i beni immateriali.

Da più di un secolo in Italia ci si domanda se il godimento dibeni immateriali sia possesso ai sensi dell’art. 1140.

La dottrina favorevole muove dall’ampia definizione dei beni,qual è contenuta nell’art. 810 del codice, che si presta adaccogliere le cose immateriali; e dalla configurabilità di ungodimento ed utilizzazione, in chiave possessoria, dei beniimmateriali, che si avrebbe quando di fatto qualcuno si trovi,rispetto al diritto di utilizzazione, nella posizione che spetta altitolare (54). La dottrina prevalente è contraria, non solo perchérifiuta l’assimilazione dei diritti (assoluti) su beni immateriali aidiritti reali, ma perché i beni immateriali “per loro natura nonsono suscettibili di quell’uso esclusivo, dal significato socialmenteunivoco, che consente l’applicabilità delle norme di cui agli artt.1140 s.s. c.c.”; la loro riproducibilità comporta che possonoessere “contemporaneamente utilizzati da più soggetti senza chel’esercizio dell’uno impedisca quello dell’altro” (55).

La giurisprudenza sembra aperta verso il riconoscimento diun possesso di beni immateriali, ma si è sinora espressa su singoliproblemi, senza edificare regole sicure, e non senza qualcheripensamento.

Una sentenza assai citata della Suprema Corte ha affermato intermini generali che “i diritti di utilizzazione economica del-l’opera intellettuale hanno tutte le caratteristiche dei diritti reali”,

(54) Limitandoci alla dottrina più recente, cfr. MONTEL, Il possesso, cit., pp. 101 ss.; MASI,Il possesso, cit., pp. 443-444; ALCARO, Il possesso, cit., pp. 149 ss.

(55) Così TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 27; nello stesso senso cfr. adesempio NATOLI, Il possesso, cit., pp. 85 ss.; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, 2a ed.,Padova, 1993, I, pp. 400-401.

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che “è configurabile come possesso la posizione di chi di fatto sitrovi, rispetto alle possibilità di sfruttamento economico del-l’opera, nello stesso rapporto in cui si troverebbe se fosse titolaredei rispettivi diritti”, e che pertanto va individuato nell’art. 1155c.c. “il criterio risolutivo del conflitto tra più acquirenti deimedesimi diritti di utilizzazione economica di un’opera di inge-gno” (56).

In un’altra decisione la Cassazione ha ammesso che il dirittodell’imprenditore sulla ditta possa essere acquistato per usuca-pione, vista la “natura di diritto reale su bene immateriale” che sideve riconoscere a detto diritto; ma ha subordinato la usucapibilitàdella ditta al “concorso della duplice condizione che si sia verificatala cessazione del suo uso da parte del titolare originario e che si siainstaurato un uso a titolo di possesso ad usucapionem da parte dialtro esercente la ditta” (57). In materia di diritto d’autore, la Su-prema Corte, pur senza escludere la configurabilità di un possesso,ha affermato che, per la peculiarità del diritto, non sono invocabilimodi di acquisto a titolo originario diversi dalla creazione, e dun-que ha escluso la possibilità di acquisto per usucapione; anzi, haaffermato esplicitamente che la configurabilità di un possesso “nonimplica necessariamente l’applicabilità degli effetti del possessoche, per i beni materiali, sono collegati all’unicità di godimento delbene con la possibilità di possesso esclusivo e al trasferimento deldiritto di proprietà o di altro diritto reale unitamente alla consegnadella cosa; elementi questi che mancano nei trasferimenti dei dirittisui beni immateriali” (58).

Le controversie sul possesso dei beni immateriali possonoridimensionarsi facendo chiarezza su alcune scelte terminologi-che.

Il godimento di fatto dei beni immateriali è un fenomeno benconosciuto al legislatore; esso pone problemi in parte simili aquelli che nascono dal possesso di cose. Il legislatore attribuiscecerte protezioni a chi gode di fatto di beni immateriali, appli-

(56) Cass. 13 novembre 1974, n. 3004.(57) Cass. 22 dicembre 1978, n. 6150, in Giur. It., 1980, I, 1, 321.(58) Cass. 24 febbraio 1977, n. 826, in Giur. It., 1977, I, 1, 1320, p. 1329.

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cando criteri alquanto diversi dalle normali regole sul possesso.Così l’uso in buona fede di un marchio per cinque anni, tolleratodal titolare di un marchio anteriore o di un diritto di preuso,preclude l’azione di nullità (art. 48, r.d. 21 giugno 1942, n. 929).Chiunque nel corso dei dodici mesi anteriori alla data di depositodella domanda di brevetto abbia fatto uso nella propria aziendadell’invenzione può continuare a usarne nei limiti del preuso (art.6, r.d. 29/06/1939, n. 242). La legge sul diritto d’autore parlaespressamente di possesso (art. 167, l. 22 aprile 1941, n. 633); idiritti di utilizzazione economica riconosciuti dalla legge possonoessere fatti valere giudizialmente “da chi si trovi nel possessolegittimo dei diritti stessi” (attraverso i rimedi previsti dalla leggestessa negli art. 156 ss.). Qualche autore ha tratto dalla disposi-zione un argomento testuale a sostegno della configurabilità delpossesso; ma l’argomento è reversibile, perché il legislatore parlanon del possesso di una cosa, ma del possesso di un diritto (nonparla di possesso dell’opera dell’ingegno) e dunque non allinea ilproprio linguaggio a quello degli artt. 1140 ss. c.c. Del resto,l’uso, da parte del legislatore, del termine “possesso” nongarantisce l’identità concettuale col possesso di cui agli artt. 1140ss. (basti pensare al “possesso dello stato di figlio legittimo” di cuiagli artt. 236 ss. c.c.). La protezione di chi si trova nel possessolegittimo dei diritti non è poi affidata alle azioni possessorie; edanzi, parificando il possessore legittimo al titolare, la legge fa unascelta asimmetrica rispetto a quella compiuta disciplinando ilpossesso delle cose corporali.

Lo stesso fatto che il legislatore abbia dettato numeroseregole in tema di godimento di fatto di beni immateriali inducealla cautela rispetto alla proposta di estendere le regole di cui agliartt. 1140 ss.

Il fenomeno del godimento di fatto dei beni immaterialipresenta sicuramente alcune analogie col possesso di cose mate-riali. Il problema, allora, non è se si possa parlare, in un qualchesenso, di possesso. Nessuno ha difficoltà a vedere le “somiglianzedi famiglia” tra il possesso di cui all’art. 1140, il possesso di statodi figlio legittimo, il possesso di beni immateriali. Il problema è seal godimento di fatto dei beni immateriali si possano applicare le

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regole sul possesso elaborate dalla nostra tradizione e precipitatenegli artt. 1140 ss.

Sul punto anche la dottrina favorevole al possesso dei beniimmateriali è cauta. Si avverte che “l’ipotizzabilità di un talepossesso non implica necessariamente che tutte le norme dettatedal codice civile in materia di possesso siano, per ciò solo, sic etsimpliciter, applicabili al possesso dei diritti di utilizzazione” (59);che la peculiarità dei beni immateriali risulta “non del tutto inlinea con la integrale disciplina del possesso dettata dal co-dice” (60). E, come si è visto, la giurisprudenza a sua volta nonesclude il possesso ma non applica automaticamente le regole dicui agli artt. 1140 ss.

Non sembra che ci sia molto da guadagnare, allora, daun’omologazione dogmatica tra fenomeni diversi e che pongonoproblemi diversi. Non è proibito parlare di possesso, così come siparla di proprietà intellettuale o industriale; ma non si tratta delpossesso di cui agli agli artt. 1140 ss. (così come non si tratta dellaproprietà di cui agli artt. 832 ss.). Il ricorso all’analogia non èovviamente vietato, ma deve essere costruito e argomentatopartendo dai problemi peculiari dei singoli beni immateriali,verificando che il legislatore non abbia previsto delle soluzionispecifiche, dimostrando, in caso di lacune, che i problemipossono essere efficacemente risolti facendo ricorso alle regolesul possesso delle cose materiali.

Si attaglia perfettamente al nostro problema quanto è statodetto più in generale sulla tentazione di applicare affrettatamentegli schemi proprietari a realtà diverse dalle cose materiali: “nellanostra tradizione giuridica (…) la disciplina dei diritti reali è stataforgiata e pensata come un insieme di regole coerenti pergovernare la circolazione e la tutela dei diritti sulle cose corporali.Questo tipo di disciplina non può essere trasferita sic et simpli-citer a regolare fenomeni assai diversi” (61).

(59) MONTEL, Il possesso, cit., p. 102.(60) ALCARO, Il possesso, cit., p. 161.(61) A. GAMBARO, La proprietà, in Trattato di diritto privato a cura di G. IUDICA e P. ZATTI,

Milano, 1990, p. 38.

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6.2.7. L’oggetto del possesso: l’energia elettrica, le trasmis-sioni radiotelevisive.

Le conclusioni raggiunte sui beni immateriali si estendono, inbuona misura, a beni che non sono immateriali ma sono moltodiversi dalle cose materiali che sono tradizionalmente oggetto diproprietà e possesso.

Gli interpreti hanno giocato a lungo con l’idea di concedereuna tutela possessoria all’utente nella distribuzione di energiaelettrica, facendo così assurgere a spoglio il rifiuto del sommini-strante di proseguire l’erogazione (62). Dopo qualche sussulto, lagiurisprudenza si è assestata sull’idea che, poiché il possessoinizia con la consegna, che avviene “con l’immissione dell’energiain quella parte della rete sulla quale l’utente esercita, nel propriointeresse, un potere di fatto”, mentre prima l’energia soggiace alpotere dell’impresa fornitrice, “un attentato al possesso è (…)ipotizzabile soltanto quando l’atto che interrompe l’erogazionedell’energia elettrica avvenga nella parte dell’impianto che (…) sitrova nel luogo o nella cosa posseduta dall’utente” (63). Ladottrina ha parlato, con qualche ragione, di impostazione “ipo-crita”, perché la ratio decidendi “scolora in quella, sottaciuta macertamente presente, di possesso d’impianto” (64); ma, almeno aparole, la giurisprudenza ha continuato per lungo tempo aritenere configurabile lo spoglio di energia elettrica.

La vecchia, ed equivoca, impostazione giurisprudenziale èstata poi superata da una decisione della Suprema corte, che haoperato una ricostruzione attenta della materia, e una fecondariflessione sui limiti più generali della equiparazione delle energiealle cose materiali (65).

La Corte ha sottolineato che la disponibilità dell’energiaelettrica da parte del somministrato presuppone la continuacooperazione dell’ente somministrante, sicché l’utente non è unpossessore, ma un semplice creditore. “Una situazione assimila-

(62) Per una ricostruzione, cfr. R. PARDOLESI, voce Energia, in Digesto civ., VII, Torino,1991, 444, pp. 446 ss.

(63) Così Cass. 22 giugno 1968, n. 2084.(64) PARDOLESI, voce Energia, cit., p. 446.(65) Cass. 3 settembre 1993, n. 9312, in Foro it., 1995, I, 322.

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bile al possesso è ravvisabile soltanto nel momento in cui l’energiasomministrata (…), diviene oggetto di effettiva, materiale appren-sione da parte dell’utente”. Ma “l’atto di apprensione dell’ener-gia, in ragione della natura di questa, ne comporta il contestualeconsumo (salva l’ipotesi dell’apprensione a fini di accumulo, inapparecchiatura apposita)”.

Se l’atto di apprensione è il momento di instaurazione delpossesso dell’energia elettrica, “ne consegue che l’interruzionedell’erogazione effettuata dal fornitore è suscettiva soltanto diimpedire il sorgere del possesso sull’energia non erogata, e nonanche di integrare spoglio dell’energia già erogata, in quantoconsumata”.

Ne consegue che “pur potendosi riconoscere la sussistenzadel possesso dell’energia elettrica, deve concludersi che esso sipresenta con connotati peculiari, tali da renderlo non suscettivodi tutela ex art. 1168 c.c.”. E ciò in applicazione del principio piùgenerale secondo cui, pur essendo le energie, ai sensi dell’art. 814c.c., “considerate” beni mobili, l’estensione ad esse della tutelapredisposta per i beni mobili deve avvenire “compatibilmentecon le peculiarità che le energie presentano”.

Come si è detto in dottrina, l’art. 814 c.c. deve essere intesocome una disposizione che facoltizza l’interprete “a considerarele energie come beni mobili, superando i dubbi che nascono sulpiano della fisica, purché si accerti che l’inquadramento in schemidi appartenenza è adeguato”; “la tendenza ad adagiarsi sullalettera del codice e a considerare l’equiparazione tra energie ebeni un ordine del legislatore anziché una facoltà data agliinterpreti” inverte il cammino concettuale e crea “una tutelapossessoria debordante e irrazionale” (66).

Tale pericolo è perfettamente esemplificato dalla giurispru-denza che si è formata in materia di trasmissioni radiotelevisive.

Si domanda se l’attività di chi trasmette su un determinato“canale” (cioè mediante onde elettromagnetiche di una datafrequenza) sia difesa, in via possessoria, contro colui che prendaa trasmettere su quel medesimo canale, deturpando immagini e

(66) GAMBARO, La proprietà, cit. pp. 28-29.

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suoni prodotti e trasmessi dal primo operatore. Il problema ènato in un momento di assenza di un piano di ripartizione, inquella situazione che veniva definita come “far west dell’etere”, incui, all’indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 202del 1976, i privati si sono mossi in un quadro di sostanziale vuotonormativo, e la giurisprudenza si è trovata a cercare strumentiidonei a risolvere i conflitti. Anche in considerazione dellamaggiore celerità della tutela possessoria, la giurisprudenza èstata chiamata a pronunciarsi su numerose domande di reinte-grazione nel possesso esperite dagli imprenditori; dopo momentidi incertezza, ha optato con decisione per la risposta positiva.

Le ricostruzioni proposte sono state diverse. Limitiamoci aipercorsi argomentativi più diffusi. Secondo alcune pronunce, leonde elettromagnetiche costituiscono una forma di energia, daconsiderare come “un bene mobile economico che può essere uti-lizzato direttamente dalla azienda produttrice”; e pertanto “allor-ché un soggetto disponga di un impianto che gli consente di dif-fondere i programmi di una determinata zona e su una determinatafrequenza d’onda, esercita un potere di fatto corrispondente aldiritto di proprietà sulla energia elettromagnetica (…) e se taleesercizio viene impedito mediante sovrapposizione di segnali pro-venienti da altra emittente, si verifica indubbiamente la turbativao lo spoglio in danno del precedente possessore” (67).

Secondo un’altra impostazione, pur costituendo le ondeelettromagnetiche una forma di energia, da ricomprendersi tra ibeni mobili sulla base dell’art. 814, “si tratta pur sempre di resnon obiettivamente isolabili che, per la loro astrattezza, nonpossono essere oggetto di possesso indipendentemente dagliimpianti da cui promanano”; “il possesso delle energie inquestione, quindi, è tutt’uno col possesso dei supporti che leemanano e riceve tutela piuttosto come aspetto della più artico-lata situazione di possesso dei beni della emittente televisiva,intesa come il complesso delle apparecchiature che costituisconol’azienda di diffusione di programmi televisivi” (68).

(67) Così Cass. 19 aprile 1991, n. 4243.(68) Così Cass. 28 aprile 1993, n. 4999.

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Dunque, giungendo a risultati identici, la giurisprudenzaparla ora di possesso dell’energia, ora di possesso dell’azienda.

Se un consistente filone dottrinale si è pronunciato, findall’inizio, contro la configurabilità di un possesso facente capoall’operatore (69), altra dottrina ha accolto con favore l’idea di unatutela possessoria, spesso proponendo ricostruzioni alternative aquelle della giurisprudenza. Così, parte della dottrina, muovendodalla ricostruzione dell’etere come bene pubblico, preferisceparlare di possesso dell’etere e richiamare l’art. 1145 c.c. (70).

I tentativi di giustificare una tutela possessoria in materia ditrasmissioni radiotelevisive sono deboli sul piano logico, e insod-disfacenti sul piano dei risultati concreti.

Sgombriamo innanzitutto il campo dalla figura del possessodell’etere. L’etere non è nulla di reale, è un modo di dire. Fino alXIX secolo i fisici ritenevano che qualcosa — l’etere, appunto —dovesse riempire tutto lo spazio ed essere presente negli intersti-zii fra le particelle materiali, per rendere possibile il propagarsidella luce e dei fenomeni elettromagnetici. Invece oggi danno persicuro che l’etere non fa parte dell’esistente. Quando adoperanoquella parola, con essa vogliono solo indicare che entro quelconfine non hanno trovato nulla.

Quando si dice che il legislatore ha demanializzato l’etere, siusa un espressione figurata; il legislatore non ha demanializzatoun bene, ha regolato l’attività umana di radiodiffusione. Il fattoche lo Stato (nel senso di ordinamento giuridico) disponga inmerito a un bene e al suo godimento non significa affatto che loStato (nel senso di soggetto di diritto) abbia un diritto proprie-tario sul bene.

Il discorso non può vertere sull’etere, ma deve rivolgersi alleonde elettromagnetiche, che sono (meglio: generano) una ener-gia. Ma la ricostruzione di una tutela possessoria delle ondeelettromagnetiche è a sua volta impervia.

L’interferenza nell’onda non sottrae all’emittente alcun po-

(69) Cfr. ad es., SACCO, Il possesso, cit., pp. 121 ss.; PARDOLESI, voce Energia, cit., p. 447;TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 26; TROISI e CICERO, I possessi, cit., pp. 37 ss..

(70) In questo senso GALGANO, Diritto civile, cit., p. 400; F. SCAGLIONE, Possesso dell’etere etutela del canale televisivo, Padova, 2000.

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tere nel momento dell’interferenza. La vittima non ha più unpotere sull’energia, una volta che l’ha prodotta; emettere le ondesignifica rilasciarle, non avere più un controllo fisico su di esse.

Anche l’idea di una tutela delle onde, o del canale, comeparte dell’azienda lascia molte perplessità. Le onde elettromagne-tiche sono prodotte, emanate, rilasciate attraverso le apparecchia-ture che costituiscono l’azienda; basta a dire che fanno partedell’azienda? E basta a dire che l’imprenditore ha un potere su diesse una volta emanate?

Quanto al canale, esso non è una cosa, e neppure un’energia:trasmettere su un canale significa semplicemente trasmettereonde con una determinata frequenza. La stessa Corte di cassa-zione ha riconosciuto che il canale “rappresenta soltanto lacaratteristica di identificazione dell’onda elettromagnetica utiliz-zata e costituisce perciò una entità astratta” (71).

Si è detto che la tutela possessoria si rivela anche pratica-mente inadeguata. Di fatto, la giurisprudenza parla di possesso;ma applica a questo possesso regole inusuali.

In un caso deciso dalla Corte di Cassazione l’attore avevaposto in essere una attività strumentale, preordinata al sempliceaccaparramento della frequenza (trasmissione ripetitiva di duebrani musicali). La Corte, sulla base della “stretta connessione”tra tutela possessoria delle trasmissioni radiotelevisive ed espres-sione del pensiero, “in ragione della quale può affermarsi che ilprimo è in funzione della seconda”, ha sostenuto che “la meraoccupazione della frequenza non finalizzata alla realizzazione dialcuna espressione di pensiero, ma attuata al solo scopo diprecludere ad altri l’accesso al medesimo spazio, dà luogo (…) adun potere non corrispondente ad alcun diritto e fa conseguente-mente mancare i presupposti di una situazione possessoriatutelabile” (72). Non è difficile constatare che la decisione applicacriteri lontanissimi dalle normali regole in materia di possesso, acui è estraneo un controllo di meritevolezza sull’utilizzo del bene.

L’applicazione delle regole sul possesso, allora, non solo

(71) Cass. 19 aprile 1991, n. 4243.(72) Cass. 19 aprile 1991, n. 4243.

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comporta grandi forzature logiche, ma si rivela (comprensibil-mente) inadeguata a problemi così lontani da quelli per cui sonostate forgiate.

Le esigenze che hanno dato vita alla giurisprudenza citatapossono trovare risposte diverse, che consentano alle corti anchedi modellare regole adatte alla peculiarità della materia (attra-verso gli strumenti della concorrenza sleale, della responsabilitàaquiliana, e, per le esigenze di tutela celere, dell’art. 700 c.p.c.).

6.2.8. Gli elementi incompatibili: l’altrui tolleranza.

In virtù dell’art. 1144 c.c., gli atti compiuti con l’altruitolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto delpossesso.

Secondo una massima consolidata, gli atti compiuti conl’altrui tolleranza, o atti di tolleranza, “traendo origine dall’altruicondiscendenza o da rapporti di familiarità, amicizia o buonvicinato, implicano, di regola, un elemento di transitorietà esaltuarietà” (73); ancor più perentoriamente, si afferma che gli attidi tolleranza “sono quelli che, implicando un elemento ditransitorietà e saltuarietà, comportano un godimento di modestaportata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto daparte dell’effettivo titolare o possessore” (74).

Da questa definizione la giurisprudenza fa discendere che,nell’indagine diretta a stabilire se una attività sia stata compiutacon l’altrui tolleranza, la lunga durata dell’attività medesimaintegra un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione dellatolleranza; ciò, almeno, qualora si verta in tema di rapporti non diparentela, ma di buon vicinato, “tenuto conto che nei secondi, diper sé labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quellatolleranza per un lungo arco di tempo” (75). La lunga duratadell’attività non può, invece, integrare un elemento presuntivo inpresenza di vincoli di stretta parentela, “nei quali è ben plausibile

(73) In questi termini, Cass. 27 maggio 1994, n. 5191; Cass. 8 febbraio 1996, n. 1015.(74) Così Cass. 22 maggio 1990, n. 4631.(75) Così Cass. 3 agosto 1996, n. 8498. Nello stesso senso, fra le molte, Cass. 22 maggio

1990, n. 4631; Cass. 27 maggio 1994, n. 5191; Cass. 3 febbraio 1998, n. 1042.

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il mantenimento di un atteggiamento tollerante anche per unlungo arco di tempo” (76). Una decisione ha ritenuto che la lungadurata dell’attività non possa integrare un elemento presuntivoquando “l’atteggiamento del proprietario trovi giustificazionenella mancanza di un interesse ad opporsi ad un determinato usoche del bene facciano i terzi” (77).

Sarebbe invece incompatibile con la tolleranza ogni modifica,anche modesta, dello stato dei luoghi, e ciò anche in presenza divincoli di parentela (78).

Il codice alla lettera richiede la tolleranza altrui, non laconsapevolezza della tolleranza da parte di chi pone in esserel’ingerenza, e ancora meno l’animo di approfittare dell’altruitolleranza. Ma la giurisprudenza saltuariamente afferma che gliatti di tolleranza sono caratterizzati non solo dall’animus di chitollera (mera permissione), ma anche dall’animus di chi è tolle-rato (“consapevolezza della inidoneità della permissione a farsorgere a favore di esso utente un qualsiasi potere incompatibilecon quello del permittente” (79)); ovvero che la tolleranza ècaratterizzata dalla accondiscendenza del dominus “manifestataal destinatario, in modo che quest’ultimo ne abbia consapevo-lezza e (…) abbia sempre presente l’eventualità e la legittimità diun sopravveniente divieto” (80).

Il percorso logico seguito dalla giurisprudenza non è inattac-cabile.

Innanzitutto, è arbitrario identificare nella benevolenzal’unico motivo per cui si tollera l’ingerenza altrui. Tollerato èquasi sinonimo di sopportato. Le ingerenze tollerate sono tuttequelle ingerenze che un possessore non vuole, ma non vieta.

I motivi per tollerare sono numerosi. La tolleranza non ènecessariamente benevola. Io tollero l’ingerenza di mio fratello,

(76) Così Cass. 18 giugno 2001, n. 8194. Vedi anche, obiter, Cass. 3 febbraio 1998, n. 1042.(77) Cass. 11 febbraio 1998, n. 1384 (uso saltuario per il parcheggio di un’area scoperta; la

Corte ha evidenziato che l’uso non era limitato agli attori, che sostenevano di essere possessori, maera aperto a qualunque terzo).

(78) Cfr. Cass. 25 febbraio 1986, n. 1185 (l’attore aveva costruito una baracca, incorporataal suolo da malta cementizia, che sconfinava di 50 cm sul terreno del fratello).

(79) Così Cass. 10 aprile 1986, n. 2497.(80) Così Cass. 1 dicembre 1997, n. 12133.

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per generosità; ma posso tollerare l’ingerenza del mio vicino, cheè anche un mio buon cliente, per interesse.

Può darsi che alla base della tolleranza ci siano relazioni direciprocità. Tollero che il vicino parcheggi sul mio terreno,perché so che il vicino tollera la mia abitudine di suonare labatteria fino a tarda notte.

Altre volte tollero semplicemente perché temo reazioni pole-miche o fastidiose da parte dell’intruso, e, scegliendo fra duemali, preferisco sopportare e sperare che il comportamentoinvadente cessi spontaneamente. Ancora, posso tollerare perchétemo le sanzioni sociali che colpirebbero una reazione giudicataeccessiva o ingenerosa.

Una ricostruzione più realistica delle possibili ragioni della tol-leranza smentisce l’idea che l’ingerenza tollerata deve essere unaingerenza saltuaria e transitoria. Questa idea, a sua volta, conducea esiti poco conformi ai comuni canoni dell’interpretazione.

La dottrina più attenta si è accorta da tempo che, nella letturadella giurisprudenza, l’art. 1144 finisce col diventare inutile. “Ven-gono contemplate come ipotesi di tolleranza situazioni che nonpresentano le caratteristiche richieste per potere essere qualificatecome possesso. Conseguentemente l’art. 1144 non troverebbe maieffettiva applicazione, poiché difettando gli atti tollerati delle ca-ratteristiche richieste per potere condurre al possesso sarebbe su-perfluo invocare la disposizione in esame” (81). L’ingerenza sal-tuaria e transitoria, posta in essere da un agente che non intendeattuare un autonomo potere di fatto, difficilmente potrebbe essereconsiderata possesso, a prescindere dall’art. 1144.

Parte della dottrina, pur criticando sul piano logico l’orien-tamento della giurisprudenza, finisce per giudicarne favorevol-mente i risultati (82), sulla base di esigenze di certezza nellosvolgimento dei rapporti giuridici e del favore dell’ordinamentoper chi utilizza i beni in senso produttivo. Ad esempio l’efficaciadell’istituto dell’usucapione “risulterebbe affievolita se il titolare

(81) Così S. PATTI, Profili della tolleranza nel diritto privato, Napoli, 1978, p. 23.(82) Cfr., ad esempio, PATTI, Profili della tolleranza, cit., pp. 27 ss.; TENELLA SILLANI, voce

Possesso e detenzione, cit., p. 36.

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del diritto potesse provare, dopo il compimento del terminestabilito dalla legge, che l’effettiva disposizione del bene da partedel terzo è dovuta alla sua tolleranza” (83).

Le argomentazioni addotte a sostegno dell’orientamentogiurisprudenziale sono serie, ma devono essere bilanciate con laconsapevolezza dei rischi che esso comporta. Quando il legisla-tore stabilisce che gli atti compiuti con l’altrui tolleranza nonservono di fondamento all’acquisto del possesso, incentiva ilproprietario a tollerare tutte quelle ingerenze che non ha uninteresse attuale a respingere, fiducioso di poter in ogni momentoripristinare la situazione precedente. Attraverso la tolleranza sipuò realizzare una rete di scambi informali, mutuamente benefici,che presuppongono la libera revocabilità della tolleranza. Nonammettere che l’art. 1144 si applichi anche ad ingerenze di unacerta importanza significa in effetti scoraggiare la tolleranza.

6.3. Gli elementi della detenzione.

6.3.1. La detenzione.

Non c’è detenzione se non c’è potere di fatto sulla cosa; manon qualunque potere di fatto è detenzione tutelata. Il cliente delristorante, l’alunno della scuola sarebbero detentori tutelabili seogni ingerenza integrasse una detenzione.

Come vedremo, la tutela possessoria si estende al detentore.La protezione possessoria comporta un divieto di ricorrere aimezzi energici per far cessare la detenzione che si prolungaindebitamente. Per non paralizzare completamente la vita sociale,si fissa una soglia al di sotto della quale il potere di fatto sulla cosanon assurge a detenzione.

Poiché la detenzione non è mai definita dal legislatore se noncome potere di fatto al servizio di un possessore (art. 1140, 2°comma), la dottrina considera detenzione quel potere di fatto“che si caratterizza in modo da poter integrare l’elemento

(83) PATTI, Profili della tolleranza, cit., p. 27.

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oggettivo del possesso” (84); o, con maggiore precisione, quelpotere di fatto che può “costituire di per sé (senza bisogno diintegrarsi con il potere di fatto, eterogeneo, di altre persone)l’elemento materiale di un possesso” (85). Perciò non sonodetentori né il cliente seduto al tavolo del ristorante, né l’alunnoseduto al banco per seguire la lezione.

Il discorso, peraltro, si intreccia con quello della detenzioneper ragione di servizio o di ospitalità, su cui torneremo fra breve.

Un tema controverso è quello della detenzione mediata. Restadetentore colui che si sia svestito del potere di fatto sulla cosa,affidandola ad un depositario, ad un sub-conduttore, ad unvettore, etc.? In altre parole: resta detentore colui che, senzaanimo di attuare un diritto reale proprio, si trova nella posizionedi fatto corrispondente a quella del possessore indiretto?

La dottrina è divisa (86).La giurisprudenza più recente riconosce come detentore il

conduttore che lasci precariamente la disponibilità della cosa allocatore (di solito, per consentirgli di eseguire delle ripara-zioni) (87). In passato, la giurisprudenza aveva però escluso che ilsublocatore resti detentore (88).

C’è almeno un caso in cui sembrerebbe doversi riconoscereche il detentore è tale in virtù di un potere di fatto non suo. Comevedremo a suo tempo, il detentore, che sia tale per ragioni diservizio o ospitalità, non può intentare l’azione di reintegrazione.Tutti concordano nell’idea che, in un simile caso, la protezioneinterdittale competa a chi controlla il servizio o all’ospitante —sia egli possessore o semplice detentore. Nel secondo caso,avremo una detenzione mediata, perché ad esercitare un poteredi fatto sarà il detentore per ragioni di servizio od ospitalità.

(84) TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 18 (sulla scia di R. SACCO, Ilpossesso, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Trattato di diritto civile diretto da G.GROSSO e F. SANTORO-PASSARELLI, Milano, 1960, p. 47 e di altri autori).

(85) R. SACCO, Il possesso, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. CICU

e F. MESSINEO, continuato da L. MENGONI, Milano, 1988, p. 142.(86) Fra gli autori contrari, si veda, ad esempio, NATOLI, Il possesso, cit., pp. 136-137; fra

gli autori favorevoli, MONTEL, Il possesso, cit., p. 75.(87) Cass. 6 settembre 1995, n. 9381; Cass. 1 settembre 1994, n. 7621; Trib. Roma, 11

marzo 1999, in Foro it., 1999, I, 3081.(88) Cass. 17 gennaio 1951, n. 127; Cass. 30 luglio 1951, n. 2252.

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Non si vedono ragioni per non generalizzare la regola che con-sente al detentore di restare tale senza esercitare direttamente unpotere di fatto. La soluzione opposta creerebbe delle remore aldetentore che si trovi a dover lasciare temporaneamente, per leragioni più svariate, la disponibilità della cosa al possessore o adun terzo.

Secondo la impostazione tradizionale, la detenzione è assistitada due elementi psicologici. Il primo, chiamato “animus deti-nendi”, è il generico intento di tenere la cosa in proprio potere,per qualsiasi fine, anche limitato alla custodia. Il secondo èl’intenzione di attuare un diritto reale altrui (il diritto reale delpossessore), a cui si dà il nome di “riconoscimento di un dirittopoziore altrui”, o di “laudatio possessoris” (89).

6.3.2. Il titolo del detentore.

Secondo una giurisprudenza che appare ormai consolidata,mentre chi invoca il possesso può allegare l’eventuale titolo soload colorandam possessionem (90), chi invoca la tutela possessoriain quanto detentore qualificato ha l’onere di provare il titolo dacui la detenzione deriva (91).

Spesso la giurisprudenza (in obiter) richiede addirittura lavalidità del titolo (92); altre volte invece precisa che l’attore non ètenuto a dimostrare la validità ed efficacia del rapporto (93).

La giurisprudenza si è spinta sino ad affermare che “laposizione lato sensu possessoria del soggetto che assuma esseredetentore qualificato non ha una sua rilevanza oggettiva, chel’ordinamento le riconosca come autonoma ed indipendente

(89) V. per tutti MONTEL, Il possesso, cit., p. 53 ss.(90) Cioè per rafforzare la prova del possesso e illuminare una condotta materiale

eventualmente enigmatica.(91) Cass. 9 ottobre 1991, n. 10606; Cass. 3 marzo 1994, n. 2111; Cass. 17 giugno 1996, n.

5555; Cass. 7 febbraio 1998, n. 1299; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477; Cass. 16 agosto 2000 n.10816.

(92) Cass. 17 giugno 1996, n. 5555; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477; Cass. 16 agosto 2000n. 10816.

(93) Cass. 9 ottobre 1991, n. 10606; Cass. 3 marzo 1994, n. 2111.

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rispetto al diritto personale d’origine contrattuale dal quale essaderiva” (94).

In tal modo la giurisprudenza, che pure a parole si mantienefedele alla teoria soggettiva, spezza innegabilmente una lancia afavore della tesi secondo cui il criterio di distinzione tra possessoe detenzione deve fondarsi non sull’animus ma sul titolo (95).

Parte della dottrina approva (96), anche sulla base dellaconsiderazione che ammettendo che la detenzione possa acqui-starsi in mancanza di un titolo “si arriverebbe ad una ulteriorefrantumazione dei poteri proprietari ad esclusiva opera diterzi” (97).

Oltre a richiamare le considerazioni già svolte contro lasostituzione del titolo all’intento, si deve osservare che i beneficidi un orientamento che neghi tutela a chi detiene sulla base diun titolo invalido sono dubbi. Perché consentire al terzo che hacommesso uno spoglio di opporre la invalidità del titolo? E seconvenuto è il possessore, perché non dovrebbe far valere lainvalidità del contratto nella sede appropriata, invece di spo-gliare e poi pretendere che la invalidità sia accertata incidental-mente?

Una volta chiarito che anche il titolo invalido è sufficiente, irisultati concretamente raggiunti dalla giurisprudenza si possonoin molti casi condividere, anche se non se ne condivide l’iterargomentativo.

Osservando da vicino le sentenze citate, si può osservare chetalvolta il preteso detentore si era limitato ad ingerenze saltuarienel bene (98); in un caso, il preteso detentore aveva svolto attivitànell’immobile come istruttore di judo per conto di una societàsportiva comodataria (99); in un altro caso, in effetti era statoprovato che l’attore non aveva concluso una locazione, bensì una

(94) Così Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477.(95) Vedi supra § 6.2.3.(96) Cfr. G. LIOTTA, Situazioni di fatto e tutela della detenzione, Napoli, 1983, p. 43; ALCARO,

Il possesso, cit., p. 88.(97) LIOTTA, op. loc. ult. cit.(98) Cass. 16 agosto 2000, n. 10816.(99) Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477.

400 IL POSSESSO III, 6.3.2.

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semplice compravendita di erbe, incompatibile con la detenzionequalificata (100).

Abbiamo già sottolineato l’importanza del titolo per leggerecondotte altrimenti enigmatiche.

Chi non pretende di essere possessore, ma detentore, nor-malmente agisce sulla base di un titolo (sia pure invalido). Sequalcuno riconosce un altro come possessore, ma non è in gradodi indicare a che titolo detiene, è legittimo sospettare che esercitiun potere di fatto tollerato, o una detenzione per ragione diservizio o ospitalità.

6.3.3. La detenzione autonoma, la detenzione qualificata.

L’art. 1168 c.c. distingue dalla generica figura del detentorecolui che ha il potere di fatto per ragione di servizio o diospitalità, e nega a tale soggetto la tutela possessoria. Il codicedistingue cioè tra il detentore, di solito detto qualificato, munitodi azione, e il detentore per ragioni di servizio o ospitalità, nonmunito di azione.

La giurisprudenza ha coltivato però una ulteriore distinzione,a seconda che il soggetto detenga per interesse proprio oppureper interesse altrui.

Si è così precisato che “l’azione di reintegra compete (…)tanto (…) al detentore qualificato (la cui detenzione è collegataad un interesse proprio, come il conduttore, il creditore pigno-ratizio, ecc.), quanto ai detentori non qualificati, che hanno unpotere diretto sulla cosa in nome e per un interesse altrui, qualii gestori e gli amministratori, ma è esclusa la potestà di agire neiconfronti di coloro in nome e per conto dei quali posseggono odetengono” (101).

In tal modo si individuano tre figure di detentori:— il detentore qualificato, munito di azione verso tutti;

(100) Cass. 7 febbraio 1998, n. 1299.(101) Cass. 26 ottobre 1965, n. 2279, in Foro it., 1966, I, 676, p. 679; nello stesso senso,

Cass. 30 marzo 1951, n. 703, in Foro it., 1951, I, 549; Cass. 23 marzo 1954, n. 829, in Giust. civ.,1954, 690; Cass. 29 ottobre 1974, n. 3276; Cass. 9 gennaio 1980, in Giur. It., 1980, I, 1, 792 (inobiter, perché il detentore agiva contro terzi).

401IL POSSESSOIII, 6.3.3.

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— il detentore non qualificato, ma autonomo, diverso dal-l’ospite e dal servitore ma sprovvisto di un interesse proprio,munito di azione verso i terzi, ma non verso il possessore;

— il detentore per ragioni di servizio o ospitalità, sprovvistodi azione.

La giurisprudenza ha considerato detentori nell’interessealtrui i gestori e gli amministratori, i mandatari, i depositari.

La tripartizione, priva di fondamento nella legge e incerta neiconfini, ha raccolto molte critiche in dottrina (102), e sembraessere scomparsa nella giurisprudenza più recente.

La distinzione, così come concretamente applicata dallagiurisprudenza, muove d’altra parte da una concezione incom-prensibilmente restrittiva dell’interesse proprio a detenere. Ilvettore, il mandatario, il depositario sono assistiti da privilegio, eda diritto di ritenzione (art. 2761 c.c.); essi detengono anche peresercitare una garanzia, e un interesse personale non può essereloro negato.

L’orientamento prevalente (almeno in dottrina) si limitadunque a distinguere tra i detentori qualificati e i detentori perragioni di servizio o di ospitalità. Sui confini tra le due categorienon esiste unanimità di soluzioni.

La Commissione reale aveva inizialmente proposto di negarel’azione di reintegrazione “a chi tenga le cose per ragioni diservizio, che implichino rapporti di subordinazione, o per ospi-talità” (art. 555).

Nella relazione al progetto, si spiegava che l’azione eraconcessa al detentore autonomo “di ogni specie, anche, dunque,se nell’interesse altrui” perché “in causa delle responsabilità chegli incombono, è opportuno dargli un mezzo pronto per riaverela cosa”; “non invece a quello non autonomo, e ciò perché, neicasi in cui lo spoglio è opera del possessore, essa non sarebbegiustificata, non avendo il detentore non autonomo alcun dirittonei riguardi della persona, nel cui nome possiede; se lo spoglio è

(102) Cfr., ad esempio, NATOLI, Il possesso, cit., p. 140; MASI, Il possesso, cit., pp. 469-470;SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 190-191.

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opera di terzi, non è sembrato conveniente lasciare tale iniziativaad un operaio, apprendista, domestico o commesso” (103).

La relazione dunque individuava due diverse ragioni pernegare l’azione di reintegrazione, a seconda che lo spoglio siaopera del possessore o di un terzo; e ciò ha in qualche modolegittimato la tripartizione già descritta, che pure nel progetto enella relazione non è espressamente configurata. Identificava,inoltre (in armonia con il progetto) i detentori per ragioni diservizio con lavoratori subordinati addetti a modeste funzioni.

Nel Codice civile l’inciso “che implichino rapporti di subor-dinazione” scompare. Tuttavia, secondo una opinione assaidiffusa nella dottrina meno recente “la, pur inappropriata,espressione, delle ‘ragioni di servizio’ è rimasta a significare, insenso convenzionale, solo i casi di più circoscritte e più modestequalifiche e funzioni nella gerarchia dei rapporti di lavoro” (104);anzi, in questa prospettiva l’azione di spoglio non sarebbepreclusa agli alti dirigenti (105).

Nella dottrina più recente, una simile lettura delle “ragioni diservizio” è respinta in quanto restrittiva. Non c’è però unanimitàsul criterio da utilizzare. Qualcuno ritorna all’interesse, contrap-ponendo chi detiene nel proprio interesse a chi detiene “perragioni di servizio, ossia nell’interesse altrui, come il dipendenteche detiene gli strumenti di lavoro o il meccanico che detiene lavettura da riparare” (106). Qualcuno identifica il servizio con“qualsiasi rapporto di dipendenza o di lavoro” (107). Qualcunoritiene che sussista la ragione di servizio ogniqualvolta l’ingerenzaha solo lo scopo strumentale di consentire all’una o all’altra partedi svolgere una prestazione di fare: “c’è una ragione di servizio làdove il detentore svolge l’opera a favore del possessore (impresache detiene il mio ufficio, per lucidare il pavimento), e c’è unaragione di servizio anche là dove il possessore svolge l’opera a

(103) Codice civile, Secondo libro - Cose e diritti reali, Relazione al progetto, Roma, 1937, pp.242-243.

(104) Così MONTEL, Il possesso, cit., p. 67.(105) Cfr. ancora MONTEL, Il possesso, cit., p. 67.(106) Così F. GALGANO, voce Possesso (diritto civile), in Enc. Giur., XXIII, Roma, 1990, p. 11.(107) MASI, Il possesso, cit., p. 472.

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favore del detentore (paziente che detiene per lunghi mesi lacamera di una clinica)” (108).

Quali sono i casi in cui la giurisprudenza ravvisa unadetenzione per ragione di servizio?

Sono detentori “normali” (autonomi, qualificati) il condut-tore e l’affittuario (109), il mezzadro (110), il comodatario (111):ossia, coloro che detengono per godere la cosa.

Sono detentori per ragione di servizio i lavoratori agricolisubordinati, non legati al proprietario da un contratto agrario dicarattere associativo (112).

Anche gli agenti sono detentori per ragione di servizio deilocali in cui si svolge l’attività ad essi affidata (113).

Nell’appalto d’opera l’appaltatore è detentore qualifi-cato (114); la soluzione è opposta per l’appalto di servizi (115).

In prima approssimazione, la giurisprudenza sembrerebbenegare la tutela possessoria a quelle ingerenze che hanno lo scopostrumentale di rendere possibile il compimento di un servizio.Così formulato, però, il criterio renderebbe problematica lasituazione dell’appaltatore d’opera e del depositario. Il primo èinvece considerato detentore qualificato dalla giurisprudenza;quanto al secondo, escludere la tutela possessoria sembrerebbeirragionevole, sia perché il depositario ha un diritto di ritenzione(che sarebbe vanificato dallo spoglio del depositante), sia perchérisponde all’interesse dello stesso depositante che il depositariopossa difendere il bene contro i terzi.

L’appaltatore d’opera non ha un diritto di ritenzione; mal’appalto implica un meccanismo di accertamento, liquidazione epagamento rispetto al quale la detenzione garantisce all’appalta-tore facilità di contraddire e celerità di soluzione.

È più facile, insomma, indicare le ragioni per cui si estende o

(108) SACCO, Il possesso, cit., p. 157.(109) Cfr., ad es., Cass. 29 aprile 2002, n. 6221.(110) Cfr., ad es., Cass. civ. 4 luglio 2000, n. 8932.(111) Cfr. ad es., Cass. 27 giugno 1987, n. 5746.(112) Cass. 11 dicembre 1974, n. 4191.(113) Cass. 9 marzo 1992, n. 2802.(114) Cass. 21 agosto 1996, n. 7700; Cass. 18 giugno 1992, n. 7520.(115) Cass. 4 dicembre 1997, n. 12304; Cass. 17 aprile 2001, n. 5609.

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si nega la tutela possessoria a questa o quella figura di detentore,che non formulare compiutamente il criterio per individuare ladetenzione “per ragione di servizio”.

L’art. 1168 dà rilievo anche alla categoria del detentore “perragioni di ospitalità”.

In prima battuta, l’ospitalità implica un consenso all’inge-renza aliena, maturato per il piacere di godere della compagniadell’ospite o per generosità, e liberamente revocabile. L’ospitalitàsi distingue senza difficoltà dal comodato; la distinzione sfuma,però, se si considera il c.d. comodato precario (art. 1810 c.c.).

Di solito la giurisprudenza si è occupata di casi in cui laospitalità aveva luogo tra persone fisiche legate da vincoli diparentela o amicizia. Ma si è considerato detentore per ragioni diospitalità anche il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti dellaCampania, ospitato in locali condotti dalla Associazione Napo-letana della Stampa (116).

Ai margini del nostro tema si è svolto un animato dibattito,che ha riguardato prima i familiari conviventi, poi il conviventemore uxorio (in modo anche più acceso, visto che quest’ultimo èsprovvisto di altre tutele). In un primo tempo, è prevalsal’opinione che sia i primi che il secondo siano ospiti; in epoca piùrecente, sembra prevalere la tesi che li considera detentoritutelati (117).

6.4. Vicende del possesso e della detenzione.

6.4.1. I modi di acquisto: l’occupazione, lo spoglio, l’inter-versione.

Il possesso si può acquistare innanzitutto attraverso l’occu-pazione o lo spoglio. Sullo spoglio ritorneremo trattando le azionipossessorie.

L’occupazione è l’atto con cui un soggetto, senza ledere un

(116) Trib. Napoli, 10 aprile 2000, in Giur. napoletana, 2000, 253.(117) Sul punto, si rinvia a SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 201 ss.

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possesso altrui, e senza concorso della volontà altrui, crea ilproprio potere di fatto sulla cosa.

L’atto di occupazione implica sempre un’ingerenza nella cosaoccupata, un comportamento commissivo non soltanto psicolo-gico.

In date condizioni, l’occupazione conduce all’acquisto dellaproprietà; ma talvolta l’occupante acquisterà soltanto il possesso.Si pensi ad esempio all’occupazione di un reperto preistorico odarcheologico, o alla cattura di un animale protetto (a meno di nonvoler configurare tali ipotesi come spoglio).

Una figura particolare di spoglio è l’interversione.Con l’art. 1141, 2° comma, il legislatore italiano ha precluso

al detentore l’acquisto del possesso, ove non intervengano deter-minate circostanze di fatto (titolo proveniente dal terzo, oppureopposizione). Con l’art. 1164 viene invece preclusa (in difetto diquelle medesime circostanze) l’usucapione della proprietà daparte di chi aveva inizialmente il potere di fatto corrispondentead un diritto reale limitato.

La dottrina suole presentare l’art. 1164 come una mera appli-cazione dell’art. 1141, 2° comma, ed arriva a dichiararlo super-fluo (118). In realtà l’art. 1141 e l’art. 1164 prospettano due situa-zioni diverse, poiché nella prima si contrappongono due figure(detenzione e possesso) che differiscono solo per l’intento che as-siste l’esercizio del potere, e nella seconda si contrappongono duefigure (possesso a titolo di proprietà, possesso a titolo di dirittoreale limitato) che differiscono anche per il contenuto dell’eserciziodel potere. D’altra parte, l’art. 1141 ostacola l’acquisto del pos-sesso, mentre alla lettera l’art. 1164 ostacola solo l’usucapione(senza pregiudicare gli altri effetti dell’acquisto del possesso).

Ma, sulla base di una interpretazione sistematica delle duenorme, in dottrina è comunque pacifico che anche nell’ipotesi dicui all’art. 1164 l’interversione sia necessaria non solo per usuca-pire, ma anche per acquistare il possesso ad ogni altro fine (119).

La ratio delle due norme sembra essere quella di proteggere

(118) DE MARTINO, Del possesso, cit., pp. 97 ss.; MASI, Il possesso, cit., pp. 448 ss.(119) Cfr. SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 229 ss.

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il proprietario (o comunque, il possessore a titolo di proprietà)rispetto a comportamenti insidiosi. Il comportamento del con-duttore che prende a comportarsi da proprietario, il comporta-mento dell’usufruttuario che prende a comportarsi da proprieta-rio hanno in comune la scarsa pubblicità, l’equivocità, il fatto didipendere esclusivamente da un capriccio dell’agente. Se ilproprietario avesse ragione di temere simili comportamenti,dovrebbe investire tempo ed energie in una attenta vigilanzadell’operato del detentore o del titolare del diritto reale limitato;e non è detto che anche una simile sorveglianza sarebbe suffi-ciente.

In questa luce, agli artt. 1141 e 1164 sembrerebbe potersiaccostare l’art. 1102, secondo cui il comproprietario “non puòestendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altripartecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suopossesso”. Anche in questo caso il comportamento del compro-prietario che inizia a comportarsi da proprietario esclusivo puòessere oggettivamente ambiguo; anche in questo caso proteggerei comproprietari dai colpi di mano serve a facilitare la fiduciareciproca e la cooperazione.

All’indomani del codice, una voce autorevole affermava chele disposizioni “avrebbero potuto utilmente essere fuse tra diloro”, e che “la diversità delle formule usate nelle varie normenon implica nella sostanza alcuna diversità di significato” (120).

L’idea di leggere gli articoli 1102, 1141 e 1164 come espres-sioni di uno stesso principio non ha avuto fortuna. Secondo unamassima costantemente ripetuta dalla giurisprudenza, il compro-prietario “può usucapire l’altrui quota indivisa del bene senzanecessità della interversione del possesso, ma attraverso l’esten-sione del possesso medesimo in termini di esclusività”, anche se“il mutamento del titolo, ai sensi dell’art. 1102 comma 2 c.c., deveconcretarsi in atti integranti un comportamento durevole, tale damanifestare un possesso esclusivo con animo domini, incompa-tibile con il permanere del compossesso altri sulla stessa

(120) M. D’AMELIO, Del possesso, in Commentario del Codice Civile — Libro della Proprietàdiretto da M. D’AMELIO, Firenze, 1942, 933, p. 992.

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cosa” (121). Considerata la mutevolezza delle fattispecie concretesottoposte al vaglio delle corti, non è facilissimo definire cosa siaattività univocamente incompatibile con il diritto degli altripartecipanti, e misurarne la distanza concreta dalla interversione;ma, almeno a parole, la giurisprudenza nega che una interver-sione nelle forme previste dagli articoli 1141 e 1164 sia necessariaper il comunista. La dottrina dominante approva (122).

Il divieto di acquistare il possesso quale risulta dagli articoli1141 e 1164 cade se intervengono due fattispecie: l’opposizionecontro il possessore o il mutamento del titolo, per causa prove-niente da un terzo.

La opposizione contro il possessore è una dichiarazione, unamanifestazione di volontà; si tratta certamente di una dichiara-zione non formale, e possono essere sufficienti anche atti mate-riali, che però devono essere compiuti nella direzione del pro-prietario, una direzione atta a farglieli conoscere.

Si può allora approvare la giurisprudenza quando ammette lainterversione “mediante il compimento di attività materiali chemanifestino inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il pos-sesso esclusivamente nomine proprio, purché risulti rivolta controil possessore” (123); si deve approvare l’idea che l’interversionedebba estrinsecarsi in una manifestazione esteriore inequivoca“specificamente rivolta contro il possessore, in guisa che questi siaposto in condizione di rendersi conto dell’avvenuto muta-mento” (124). Si deve, in altre parole, tenere ferma l’idea che ancheil comportamento che più chiaramente ecceda i poteri del deten-tore (o del possessore a titolo di diritto reale limitato) non è idoneo,se non è atto a far conoscere l’opposizione al proprietario (125).

(121) In questi termini Cass. 2 marzo 1998, n. 2261. Nello stesso senso, fra le sentenze piùrecenti, Cass. 26 novembre 1997, n. 11842 e Cass. 18 febbraio 1999, n. 1370.

(122) V. per tutti A. LENER, La comunione, in Trattato di diritto privato diretto da P.RESCIGNO, 8, Torino, 1982, 245, p. 279; P. POLLICE, Contributo allo studio del compossesso, Napoli,1993, p. 110.

(123) Così Cass. 4 giugno 1992, n. 6906.(124) Cass. 12 maggio 1999, n. 4701; nello stesso senso, Cass. 20 maggio 2002, n. 7337;

Cass. 28 febbraio 2006, n. 4404.(125) Non sempre la giurisprudenza padroneggia con sicurezza tale distinzione: tra le

decisioni discutibili, si vedano Cass. 18 febbraio 1995, n. 1802 (costruzione di una strada da partedel detentore); Cass. 12 maggio 1999, n. 4701 (sostituzione di una serratura; ma si tratta di obiter).

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Si è giustamente ritenuto che il mancato pagamento delcanone di locazione, per quanto prolungato nel tempo, noncostituisce di per sé interversione (126); e più in generale che“sono inidonei atti che si traducano nell’inottemperanza allepattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita(verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempi-mento contrattuale) ovvero si traducano in meri atti di eserciziodel possesso (verificandosi in tal caso una ipotesi di abuso dellasituazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilitàdel bene)” (127).

Quanto alla causa proveniente da un terzo, essa è un titolo,proveniente dal terzo, rivolto a vantaggio del detentore, capace didar vita al novello possesso di quest’ultimo. Il titolo che qui siconsidera è la fattispecie idonea a fondare un possesso. Lagiurisprudenza precisa che l’interversione prescinde “dalla per-fezione, validità ed efficacia dell’atto medesimo (compresa l’ipo-tesi di acquisto da parte del titolare solo apparente)” (128).

6.4.2. La consegna.

La consegna è l’atto bilaterale mediante il quale il possessoreprecedente (tradens, trasferente) immette nel potere il possessoresuccessivo (accipiens, ricevente).

Tradizionalmente la consegna viene presentata come modo diacquisto a titolo derivativo del possesso (129). In dottrina si èperaltro sottolineato che tale qualificazione può essere accoltasolo in senso atecnico, perché non si può “trasmettere” uncomportamento, e dunque non è possibile un “trasferimento delpossesso”, costituendo la consegna solo “il presupposto dell’ap-prensione e quindi dell’autonoma iniziativa del soggetto posses-sore” (130).

(126) Cass. 8 settembre 1986, n. 5466.(127) Cass. 20 maggio 2002, n. 7337; Cass. 15 marzo 2005, n. 5551.(128) Cass. 5 dicembre 1990, n. 11691.(129) Cfr., ad esempio, DE MARTINO, Del possesso, cit., p. 10; TENELLA SILLANI, voce Possesso

e detenzione, cit., p. 30 (ma con la precisazione che la distinzione tra acquisto del possesso a titoloderivativo e a titolo originario è da intendersi in senso atecnico).

(130) In questi termini ALCARO, Il possesso, cit., p. 141.

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La consegna consta di un consenso bilaterale e di unaesecuzione. Il consenso non si appoggia a nessuna causa, è quindiastratto, e non rientra negli accordi contrattuali, perché non vertesulla variazione di rapporti giuridici. Naturalmente, la consegnasi farà in occasione di un contratto; ma la nullità del contrattonon intacca gli effetti della consegna.

Ci si domanda se la consegna sia un negozio. La questione dàluogo a soluzioni opinabili, condizionate dalla definizione delnegozio, che non si basa su dati positivi.

Sul piano concreto, l’idea di una vicenda possessoria annul-labile, cioè incerta, eliminabile con effetto retroattivo, destinata adar vita ad accertamenti complessi in punto alla libertà del volere,e come tali disadatti al giudizio possessorio, non può che lasciareperplessi. La consegna intende incidere su situazioni di fatto, equesta fattualità deve far capo a fattispecie creative semplici,facilmente accertabili, e destinate a produrre effetti non retroat-tivi. Perciò le norme destinate al vizio del consenso nel contrattonon paiono applicabili alla consegna. Sussistendone gli estremi,minaccia e incapacità potranno dequalificare la consegna, ridu-cendola a uno spoglio — e ciò, senza postume pronuncecostitutive di annullamento della volontà. Sembra perciò dapreferire la tesi — prevalente (131) — che nega la natura negozialedella consegna.

Come si è già detto (132), quando il potere di fatto si faderivare dal consenso del precedente possessore, non è necessa-ria, per iniziare a possedere, nessuna ingerenza materiale. Laconsegna non necessita di una apprensione fisica e materiale dellacosa, essendo sufficiente che essa sia posta a disposizione dell’ac-quirente (133). I requisiti minimi del possesso di chi riceve laconsegna sono cioè quelli proprii del possesso nella fase dellaconservazione, essendo sufficiente una mera possibilità di inge-renza.

L’apprensione materiale da parte dell’acquirente — non

(131) Cfr., ad esempio, BIANCA, Diritto civile, cit., p. 749.(132) Vedi supra § 6.2.2.(133) Cfr. Cass. 20 aprile 1962, n. 801; Cass. 8 ottobre 1963, n. 2676; Cass. 10 dicembre

1996, n. 10986.

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necessaria — sarà logicamente e cronologicamente successiva alconsenso del trasferente. L’ingerenza del possessore potrà pren-dere spicco in tutti i casi in cui gli effetti del consenso sianoenigmatici; ovvero quando la volontà di chi dismette il possessodegradi a consenso a che altri apprenda (come avviene seautorizzo qualcuno a frugare nel mio solaio per cercare unoggetto, e, trovatolo, a tenerselo).

Da sempre è equiparata alla consegna della cosa, ai fini dellatrasmissione del possesso, la consegna dello strumento cheassicura il controllo della cosa (chiave).

Il possesso viene trasferito anche attraverso due procedimentipuramente consensuali: il costituto possessorio e la consegna“brevi manu”.

Con il costituto possessorio il possessore immediato origina-rio abbandona l’intento di essere proprietario, e si costituiscedetentore (ad es., custode) per conto del ricevente — il quale, daquesto momento, diventa possessore mediato. Ad es. il proprie-tario vende una cosa e si impegna a custodirla per contodell’acquirente in attesa che questi la ritiri.

La consegna brevi manu presuppone che possessore e deten-tore non coincidano; e consiste nella rinuncia al possesso da partedel possessore mediato, con contemporanea assunzione dell’in-tento di essere proprietario — e acquisto del possesso immediato— da parte dell’originario detentore. Così avviene se il proprie-tario vende la cosa al conduttore.

Costituto possessorio e consegna brevi manu implicano unaconvergenza di due volontà. Ma non è detto che questa conver-genza sfoci in una apposita dichiarazione. Se le parti concludonoun contratto che incide sulla proprietà, e l’acquirente ha già ladetenzione della cosa, la consegna brevi manu è certamente uneffetto automatico del contratto, e opera anche senza che le partici pensino. Ad esempio se Tizio dona a Caio la casa di cui Caioè già conduttore, non ha senso immaginare che Tizio voglia chela proprietà passi, ma rimanga possessore con intento di proprie-tario. La volontà di trasferire contiene in sé la volontà in cui siconcreta la consegna brevi manu.

Si deve domandare se un discorso analogo valga in materia di

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costituto possessorio. In altre parole: si deve domandare sequando si trasferisce la proprietà, senza contestuale consegnadella cosa, ciò implichi, in assenza di una dichiarazione delleparti, un costituto possessorio, per cui l’acquirente diventapossessore mediato e l’alienante semplice detentore.

Il problema del costituto possessorio implicito è ovviamenteconnesso al principio consensualistico. Se la proprietà (come neldiritto romano, come nel diritto tedesco attuale) trapassa pereffetto della consegna, nessun costituto è implicitamente colle-gato al contratto (da cui nasce la semplice obbligazione diconsegnare la cosa); anche se la prassi potrà moltiplicare icostituti possessori, e ciò proprio al fine di anticipare il trasferi-mento del diritto.

Laddove, invece, il trasferimento della proprietà avviene pereffetto del semplice consenso delle parti (art. 1376), nasce ilproblema del costituto possessorio implicito.

Chi vende e aliena vuole il trasferimento della proprietà,dunque vuole che l’acquirente diventi proprietario, dunque nonvuole conservare egli stesso la proprietà, dunque non può averel’intento proprietario; chi acquista vuole per sé l’acquisto dellaproprietà, dunque ha l’intento proprietario. “La consegna oc-corre al trasferimento del possesso nel contratto con efficaciaobbligatoria (…) non nel contratto con efficacia reale, nel qualenon si vede perché il possesso dovrebbe rimanere scompagnatodalla proprietà, a meno di un’espressa clausola in senso contrariodeterminata dalle circostanze” (134).

C’è anzi chi, in senso più radicale, considera insufficienteanche una espressa clausola pattizia a scindere volontà di trasfe-rire la proprietà e volontà di trasferire il possesso, chiedendosi“che senso avrebbe una vendita (che è il tipico contrattotraslativo della proprietà), in cui il venditore può mantenere ilpossesso” (135).

Un’ampia parte della dottrina, tuttavia, esclude che il costi-

(134) F. SANTORO-PASSARELLI, Il trasferimento del possesso nel contratto con efficacia reale, inRass. Dir. Civ., 1987, 700, p. 701.

(135) G. B. FERRI, La vendita, in Trattato di diritto privato diretto da P. RESCIGNO, 11, 2ª ed.,Torino, 2000, 481, p. 537.

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tuto possessorio sia implicito nel trasferimento della proprietà(ammettendo semmai che il costituto possessorio possa risultareanche implicitamente dal tenore del contratto e dal comporta-mento delle parti, sulla base di una indagine caso per caso) (136).

Un orientamento giurisprudenziale che appare ormai conso-lidato afferma che “nel negozio traslativo della proprietà o dialtro diritto reale non è ravvisabile un costituto possessorioimplicito”, per cui “nel caso in cui si protragga il godimento dellacosa da parte dell’alienante, occorre indagare caso per caso,secondo il comportamento delle parti e le clausole contrattualiche non siano di mero stile, se la continuazione da partedell’alienante dell’esercizio del potere di fatto sulla cosa siaaccompagnata dal animus rem sibi habendi ovvero configuri unamera detenzione nomine alieno” (137). La tesi del costitutopossessorio implicito era invece ben rappresentata nella giuri-sprudenza meno recente (138).

Sul piano pratico, l’orientamento che esclude il costituto pos-sessorio implicito sembra preferibile. La volontà di trasferire laproprietà è presente non soltanto nel contratto di alienazione va-lido, ma in ogni accordo di alienazione, pur se viziato nella causae nella forma. Ove sia vero che ogni vendita e ogni donazioneveicola con sé un costituto, ciò dovrà essere vero ogni qual voltaesista il mutuo consenso ad alienare ed acquistare, indipendente-mente dalla presenza della causa idonea e della forma.

Se il venditore di cosa determinata è, dal momento della ven-dita, mero detentore, il compratore, ove il venditore ne rifiuti laconsegna e si comporti come proprietario, potrà ottenere il rilasciodi essa nel giudizio possessorio, dove non hanno ingresso le critichealla validità del contratto traslativo. Se invece ammettiamo che ilvenditore è possessore, il compratore dovrà invocare l’esecuzionedel contratto; e a questo punto il venditore convenuto dispone,senza limiti di tempo, delle eccezioni di nullità e annullamento.

(136) Cfr., ad esempio, TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., pp. 31 ss.; BIANCA,Diritto civile, cit., p. 753.

(137) Così Cass. 15 febbraio 1996, n. 1156; nello stesso senso cfr. ad esempio Cass. 21dicembre 1993, n. 12621; Cass. 24 giugno 1994, n. 6095.

(138) Cfr., ad esempio, Cass. 6 ottobre 1978, n. 4463.

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In altre parole: ammettere il costituto possessorio implicitosignifica azzerare quella speciale protezione che compete ad ognicontraente finché il contratto non sia eseguito.

Non solo: in caso di contratto nullo, il compratore odonatario diverrebbe ugualmente possessore mediato; e, nono-stante il fatto che il contratto non sia stato eseguito (magariperché le parti si sono rese conto della nullità), potrebbe, decorsoun ventennio, usucapire.

La tesi del costituto possessorio implicito, sviluppata nellesue logiche conseguenze, porterebbe a risultati indesiderabili;resta da domandarsi quali argomenti logico-giuridici si possanoinvocare contro di essa.

Spesso si invoca l’art. 1476, n. 1, c.c.: l’articolo obbliga il ven-ditore ad effettuare la consegna della cosa e ciò postulerebbe chela conclusione del contratto non contenga in sé una consegna. Ilvalore dell’argomento è dubbio: la consegna della cosa è sicura-mente dovuta dall’alienante che abbia conservato la detenzione(anche il trasferimento della detenzione è, infatti, una consegna).E l’art. 1476 può ben riferirsi a questo generico obbligo.

In dottrina si è scritto che la tesi che nega il costitutopossessorio implicito è preferibile non tanto per motivi logicisistematici, quanto per ragioni storiche (139). Si può in effettiosservare che il principio consensualistico è nato per sganciareil trasferimento della proprietà da quello del possesso, e non persganciare il trasferimento del possesso dalla consegna della cosa.

6.4.3. La successione nel possesso, l’accessione del pos-sesso.

L’art. 1146, 1° comma, c.c. dispone che il possesso continuanell’erede con effetto dall’apertura della successione. La “aper-tura della successione” indica qui il momento cui retroagiscel’accettazione dell’eredità. Ma il chiamato, che non ha accettato,non è erede, e non può invocare l’art. 1146 (provvede a lui in piùristretto ambito l’art. 460 c.c.).

(139) TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 33.

414 IL POSSESSO III, 6.4.2.

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La giurisprudenza concede la protezione interdettale a chiun-que sia pacificamente erede, senza bisogno di materiale appren-sione dei beni (140).

Consegue all’art. 1146, 1° comma, che — se il dante causa fudetentore — l’erede non acquista il possesso se non facendoopposizione al possessore o in virtù di titolo proveniente dalterzo; così, se il dante causa acquistò in modo vizioso o in malafede, si verificano, anche nei confronti dell’erede, gli effetti dellaclandestinità, della violenza e della malafede iniziale.

Infine l’erede, una volta acquistata la qualità di possessore,misura la durata del proprio possesso conteggiando il tempo delpossesso del suo dante causa, il periodo che va dall’apertura dellasuccessione all’acquisto del possesso, e il periodo successivo.

Il comma in esame si applica pacificamente a qualsiasisuccessore a titolo universale, anche diverso dall’erede (adesempio, società derivante dalla fusione di due altre).

La regola non si applica al legatario, che è successore a titoloparticolare. Egli, dopo l’immissione in possesso, può inveceinvocare l’accessione.

In base al 2° comma dell’art. 1146, il successore a titoloparticolare può unire al proprio possesso quello del suo autoreper goderne gli effetti. Questo successore può dunque invocarecome fatto acquisitivo del possesso l’atto d’acquisto del suoautore (e computare, ai fini della durata del possesso, anche ilpossesso del suo autore), oppure invocare l’atto con cui acquistòpersonalmente il possesso. Potrà preferire procedere nel secondomodo, ad esempio, quando l’autore era possessore di mala fede.

A differenza che per la successione di cui al 1° comma, perl’accessione la giurisprudenza richiede che il successore a titoloparticolare stabilisca concretamente un rapporto di fatto con lacosa (141).

Cosa si intende per “autore”?Secondo parte della dottrina, è autore chiunque consegna. Ai

(140) Cass. 21 luglio 1969, n. 2745; Cass. 16 gennaio 1971, n. 80; Cass. 8 settembre 1978,n. 4055.

(141) Cfr. Cass. 16 gennaio 1971, n. 80; Cass. 8 settembre 1978, n. 4055.

415IL POSSESSOIII, 6.4.3.

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fini dell’accessione sarebbe sufficiente, cioè, la consegna, che ètitolo per possedere (142).

La giurisprudenza unanime richiede invece un “titolo idoneoin astratto, anche se radicalmente viziato, a trasmettere laproprietà o altro diritto reale” (143). Una parte importante delladottrina approva (144).

Una volta stabilito che si richiede un titolo idoneo a trasferireil diritto, nasce il dubbio se taluni requisiti dell’atto di trasferi-mento siano richiesti anche ai fini dell’art. 1146, 2° comma, e inche limiti il titolo può essere “radicalmente” viziato. Una sen-tenza ha affermato che, ove si tratti di possesso di beni immobili,è necessaria la forma scritta (145). La sentenza è parsa a qualcunopoco coerente con lo stesso indirizzo giurisprudenziale maggio-ritario, che ammette anche il titolo invalido (146).

Sembra pacifico che non è richiesta la buona fede dell’acqui-rente (147).

Si è giustamente osservato che, accettando l’impostazionedominante, basta che le parti stipulino “una vendita ‘mascherata’del diritto per raggiungere lo scopo della fruibilità del beneficiodell’accessione in presenza di una semplice immissione nelpossesso” (148).

Su una delle conseguenze che la giurisprudenza ricava dallasua lettura dell’art. 1146 c.c. ritorneremo nel prossimo paragrafo.

6.4.4. Circolazione del possesso e autonomia privata.

L’acquisto, la circolazione, la perdita del possesso dipendono

(142) Cfr. SACCO, Il possesso, cit., p. 197 (e poi SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp.248-249); B. TROISI, Circolazione del possesso e autonomia privata, Napoli, 2003, pp. 79 ss.

(143) Così Cass. 3 luglio 1964, n. 1738, in Giur. It., 1966, I, 1, 182 (donazione rogata daufficiale incompetente, in difformità dalla delibera che la precedeva); nello stesso senso cfr. ancheCass. 6 aprile 1970, n. 936; Cass., 11 dicembre 1981, n. 6552; Cass. 27 settembre 1996, n. 8528;Cass. 12 novembre 1996, n. 9884.

(144) Cfr., ad esempio, TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 12; GALGANO,Diritto civile, cit., p. 418; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 754.

(145) Cass. civ. 23 gennaio 1982, n. 456.(146) GALGANO, Diritto civile, cit., p. 418.(147) Cfr., esplicitamente in questo senso, Cass. 3 luglio 1964, n. 1738, in Giur. It., 1966,

I, 1, 182.(148) TROISI, Circolazione, cit., p. 82.

416 IL POSSESSO III, 6.4.3.

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da comportamenti umani previsti dal diritto. Il mutuo consensodelle parti è esso stesso, in certi casi, sufficiente per determinarela circolazione del possesso da un soggetto ad un altro.

La volontà degli interessati, tuttavia, non potrebbe collegarequesta circolazione a fattispecie diverse da quelle che prevede ildiritto oggettivo. Così sarebbero nulle le clausole contrattuali chevolessero assegnare al conduttore la qualifica di possessore, oprivarlo della qualifica di detentore.

Poiché il possesso e la detenzione sono situazioni fattuali, ladichiarazione di volontà non può bastare a trasferirli.

Nel 1996 la Corte di Cassazione è stata chiamata, per ben duevolte, a pronunciarsi sulla questione — fino a quel momentopressoché sconosciuta alla giurisprudenza e marginalmente con-siderata dalla dottrina — relativa all’ammissibilità di un contrattoavente ad oggetto il trasferimento del puro e semplice possesso.Si tratta di un fenomeno tutt’altro che sconosciuto alla prassinotarile (149): non è infrequente, infatti, che la vendita includabeni di cui l’alienante ha il possesso, ma non la proprietà, o di cuinon è sicuro di avere la proprietà (perché, ad esempio, non èagevole calcolare se sia decorso il termine per l’usucapione).

Nella prima occasione (150) la Suprema Corte ha affermato lanullità di un contratto preliminare atipico con cui le parti si eranoobbligate ad alienare e ad acquistare la sola situazione possesso-ria. Nella specie, il contratto riguardava anche alcuni terrenigravati da diritti d’uso civico, abusivamente occupati dal promit-tente, il quale aveva promosso il procedimento amministrativo dilegittimazione di cui agli art. 9 e 10 della legge n. 1766 del 1927per acquistarne la proprietà.

Nella seconda occasione (151) la Suprema Corte ha esclusoche oggetto di un atto di compravendita possa essere il possessodi un immobile in quanto tale, e che da tale trasferimento

(149) Cfr., ad es., M. ALBERGO, Alienazione del possesso. Contratto atipico meritevole ditutela, in Vita notarile, 1998, 1422.

(150) Cass. 27 settembre 1996, n. 8528 (in Corr. giur., 1997, 162, con nota di P. IAMICELI ein Contratti, 1997, 468 con nota di A. ABBATE).

(151) Cass. 12 novembre 1996, n. 9884 (in Vita notarile, 1998, 1422 con nota di M.ALBERGO).

417IL POSSESSOIII, 6.4.4.

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possano discendere gli effetti di cui all’art. 1146 c.c. in materia diaccessione del possesso.

Nell’ampio dibattito dottrinale sul tema, e nelle stesse moti-vazioni delle sentenze, si intrecciano problemi diversi, che deb-bono però essere tenuti separati.

La Cassazione ha affermato che “dalla stessa nozione delpossesso (…) si evince la sua intrasmissibilità”, perché “un’atti-vità non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa” (152),suscitando l’approvazione di parte della dottrina (153); anzi,qualcuno si è addirittura preoccupato della “pericolosità diconcepire un sistema di ‘acquisto’ del possesso fondato sul meroconsenso”, che consentirebbe una “moltiplicazione di ‘situazionidi fatto’ in nessun modo suscettibili di controllo” (154).

L’osservazione che il possesso non può essere trasferitomediante una semplice dichiarazione di volontà è sicuramentecorretta, ma è irrilevante. Il problema di cui si discute non è se ilcontratto basti a trasferire il possesso; la risposta è sicuramentenegativa, essendo necessaria, perché inizi il possesso dell’acqui-rente, la consegna. E sotto altro profilo, non può neppuredubitarsi che, se la consegna concretamente ha luogo, essa siaidonea a far iniziare il possesso dell’acquirente.

I veri problemi al centro dell’attenzione delle corti sono altri.Il contratto di alienazione del possesso (che sicuramente nonbasta a trasferire il possesso) obbliga l’alienante alla consegna? E,se la consegna avviene, può l’acquirente avvalersi della facoltà di“unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne glieffetti”, sulla base dell’art. 1146 c.c.?

La Corte di Cassazione ha dato, ad entrambi i quesiti,risposta negativa. In particolare, essa ha ribadito, in entrambe leoccasioni, che l’accessione del possesso, prevista dall’art. 1146c.c., ha per presupposto indispensabile la esistenza di un titolo,

(152) Cass. 27 settembre 1996, n. 8528.(153) Cfr., ad esempio, F. ALCARO, Note in tema di trasferimento del possesso, in Vita

notarile, 1999, 487.(154) P. IAMICELI, Circolazione dei beni gravati da usi civici e “trasferibilità” del possesso, in

Corr. giur., 1997, 162.

418 IL POSSESSO III, 6.4.4.

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anche viziato, idoneo in astratto alla cessione del diritto diproprietà (o di altro diritto reale) sul bene.

Un argomento speso dalla stessa Cassazione e da una partedella dottrina muove dalla definizione di vendita. Siccome se-condo l’art. 1470 cc. la vendita è il contratto che ha per oggettoil trasferimento della proprietà di una cosa oppure il trasferi-mento di un altro diritto, e siccome il possesso non è un dirittoma una situazione di fatto, “esso non rientra certamente tra ipossibili oggetti di un contratto di compravendita” (155).

È difficile immaginare un approccio più sterile al nostroproblema. Una volta escluso che il contratto di alienazione delpossesso rientri nella definizione di vendita, infatti, resta aperta lapossibilità di considerarlo un contratto atipico (a cui applicareper analogia una parte delle regole della vendita).

Un’analisi proficua del nostro problema non può eludere undato evidente (156): le parti nel nostro sistema possono raggiun-gere esattamente i risultati che si vogliono impedire mettendo albando la “vendita del possesso” attraverso altri strumenti. Sipensi, in particolare, alla vendita a rischio e pericolo dell’acqui-rente (art. 1488, 2° comma c.c.). Il venditore che sa di non essereproprietario può concludere un contratto di questo tipo con ilcompratore, consapevole dell’altruità della cosa. Ne derivano:l’obbligo del venditore di consegnare la cosa; l’impossibilità peril compratore di chiedere la risoluzione del contratto, nonessendo in buona fede; la totale esclusione della garanzia perevizione; la possibilità per il compratore di avvalersi dell’art.1146, 2° comma, c.c.

Come si è giustamente scritto, “se lo scopo pratico dell’im-missione nel possesso può essere raggiunto, per via indiretta,attraverso i suddetti espedienti, non si vede perché lo stesso nonpossa essere raggiunto in via diretta e immediata, attraverso unospecifico strumento negoziale” (157). Non si vede cioè perchépenalizzare il compratore se il contratto descrive in modo onesto

(155) Cass. 27 settembre 1996, n. 8528.(156) Giustamente valorizzato da TROISI, Circolazione, cit., pp. 40 ss.(157) TROISI, Circolazione, cit., p. 42.

419IL POSSESSOIII, 6.4.4.

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(o, se si preferisce, sprovveduto) quello che è il suo vero oggetto,cioè il possesso e non la proprietà del bene (non essendo fral’altro il giudice vincolato dalle qualificazioni giuridiche operatedalle parti).

Se così è, allora sembra di dover riconoscere ai contratti dialienazione del possesso (comunque le parti li definiscano) glistessi risultati di una vendita a rischio e pericolo: cioè, sial’obbligo di consegnare da parte dell’alienante, che la possibilità,una volta avvenuta la consegna, di applicare l’art. 1146, 2°comma, c.c. (158). Sotto quest’ultimo profilo, il rigido orienta-mento della Suprema Corte non sembra in ogni caso impostodalla lettera della legge, che parla genericamente di “autore”.

I risultati raggiunti sembrano corrispondere anche al favoredell’ordinamento verso la circolazione dei beni e il loro usoproduttivo (159). L’impossibilità, per l’acquirente, di avvalersidell’art. 1146, 2° comma impedirebbe, in molti casi, al possessoredi monetizzare la propria situazione possessoria, sostituendo a séun soggetto che attribuisce un maggior valore al bene, e rischie-rebbe di paralizzare la circolazione del bene fino a che non siaaccertato giudizialmente l’acquisto per usucapione.

6.4.5. Le vicende del rapporto extrapossessorio: la legge, ladecisione del giudice, l’atto amministrativo.

Finora la dottrina ha mostrato scarsa curiosità in merito allaconnessione fra l’atto dell’autorità e le vicende del possesso.

Il possesso è una realtà di fatto, l’atto dell’autorità ovvia-mente modifica la realtà quando opera un cambiamento delmondo fisico esterno. Quando l’ufficiale giudiziario asporta dallacasa del debitore esecutando alcuni titoli di credito, il debitore neperde la detenzione.

Ci si può domandare, invece, se le leggi, le decisioni del

(158) TROISI, Circolazione, cit., ammette l’esistenza, nel nostro ordinamento, di un contrattoatipico d’immissione nel possesso, ammette che il nuovo possessore possa avvalersi dell’art. 1146c.c., ma ritiene che il contratto d’immissione nel possesso sia un contratto reale, che si perfezionasolo con la consegna.

(159) Nello stesso senso TROISI, Circolazione, cit., p. 39.

420 IL POSSESSO III, 6.4.4.

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giudice, gli atti amministrativi che incidono sulle situazioni diappartenenza trasformino in modo conseguente (senza bisognodi un’esecuzione a questo fine) le situazioni possessorie corri-spondenti.

Quando il legislatore modifica rapporti proprietari, modificain modo corrispondente le situazioni possessorie?

Se Tizio è possessore a titolo di piena proprietà di un bene,e Caio ottiene una sentenza che lo dichiara nudo proprietariodello stesso bene, basta la sentenza a ridurre Tizio a possedere unusufrutto (salva nuova interversione)?

Se la sentenza dichiara che Tizio, che non è al possesso delbene, è proprietario, Caio, fino a esecuzione della sentenza, restapossessore o è ridotto a guardiano?

Fra le situazioni a cui si è accennato è possibile tracciare unaimportante distinzione, che potrebbe orientare una prima, intui-tiva, risposta.

Un conto è trasformare un detentore in possessore, o renderelibero un possesso che finora era vincolato. Un conto è assegnareil possesso ad un soggetto che non ha mai avuto alcuna relazionedi fatto con il bene.

Se la legge cancella la proprietà del concedente, e trasformal’affittuario in proprietario, sembra plausibile che l’affittuario,senza bisogno di un’interversione, si trasformi in possessore delbene. Se la legge cancella la proprietà di Tizio, e attribuisce laproprietà a Caio, che non ha mai avuto alcuna relazione materialecol bene, sembra meno ovvio che essa cancelli automaticamenteanche il possesso di Tizio.

L’area in cui la giurisprudenza ha avuto maggiori occasioni diconfrontarsi col nostro problema è quella dell’atto amministra-tivo; le risposte non sono state univoche.

Quando l’atto amministrativo trasferisce una situazione do-minicale dal privato alla P.A., o quando svuota di contenuto unasituazione dominicale privata a favore della P.A., ci si puòchiedere se la fattualità trionfi, e la dichiarazione di volontàdell’autorità non intacchi, da sola, i poteri di fatto, o se invece laonnipotenza della P.A. le consenta di acquistare, oltre i diritti,anche le situazioni possessorie, per effetto della parola.

421IL POSSESSOIII, 6.4.5.

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Esistono, in materia, due diversi filoni giurisprudenziali. Inun primo tempo, la giurisprudenza ha affermato che, in caso diespropriazione per pubblica utilità, viene meno “per volontàimpositiva statale” l’elemento soggettivo del possesso, e l’espro-priato può “tutt’al più continuare a detenere il bene, comeavviene nella ipotesi civilistica del costituto possessorio” (160).

La Suprema Corte ha poi espressamente respinto tale orien-tamento, affermando che occorre distinguere gli effetti traslatividel diritto di proprietà conseguenti alla pronuncia del decreto diesproprio dall’acquisto del possesso del bene espropriato e che“eventuali relazioni di fatto con il bene espropriato da partedell’espropriato o di terzi permangono invariate fino a quandocostoro restino indisturbati nel godimento del bene” (161). Edanche in una seconda occasione ha ribadito che “un provvedi-mento di aggiudicazione non determina automaticamente, per ilsolo fatto che venga pronunciato (ed a prescindere dalla suaesecuzione) il mutamento dell’animus rem sibi habendi delproprietario espropriato, trasformandolo in animus detinendialieno nomine”; con la conseguenza che se al bene non è statadata “quella destinazione pubblica (…) che comporta la impos-sibilità di un possesso utile ai fini dell’usucapione”, e se dunqueil bene non è entrato nel demanio o nel patrimonio indisponibiledell’amministrazione espropriante, non vi sono ostacoli all’usu-capione da parte dell’espropriato rimasto nella disponibilità delbene (162).

Una più recente sentenza della Suprema Corte è più difficileda collocare rispetto agli orientamenti descritti (163). Secondo taledecisione, nell’ipotesi di occupazione d’urgenza preordinata allafutura espropriazione, lo spossessamento del bene si intenderealizzato in conseguenza del cosiddetto dimensionamento (l’in-dividuazione dell’area mediante infissione di picchetti) e dell’af-fermazione degli incaricati dell’operazione che da quel momentoil possesso dell’area si intende trasferito all’occupante; “l’acquisto

(160) Cass. 20 dicembre 1988, n. 6966.(161) Cass. 4 dicembre 1999, n. 13558.(162) Cass. 22 aprile 2000, n. 5293.(163) Cass. 8 giugno 2001, n. 7775.

422 IL POSSESSO III, 6.4.5.

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del possesso da parte dell’occupante ed il conseguente sposses-samento del proprietario e di qualsiasi altro soggetto che vantidiritti di natura reale (…) o personale sul fondo (…), impone poidi ascrivere a mera tolleranza della Pubblica Amministrazione laeventuale permanenza del privato (…) nel godimento del fondo”.

In quest’ultimo caso, come si vede, la Cassazione non ha, arigore, considerato il mutamento della situazione possessoriacome effetto automatico, in quanto ha ritenuto, a ragione o atorto, di individuare nel dimensionamento e nelle dichiarazionidegli incaricati dell’operazione un atto concreto di spossessa-mento. La sentenza però desta qualche perplessità, ed è statacriticata in dottrina: se davvero si considera concretamenterealizzato uno spossessamento, sembra difficile negare in linea diprincipio rilevanza al comportamento del proprietario espro-priando che si riimmetta nel pieno godimento del bene (164).

La dottrina recente ha perlopiù approvato l’indirizzo chenega che l’espropriazione faccia automaticamente venir meno ilpossesso dell’espropriato (165). Esso sembra logicamente preferi-bile sia per i fautori della teoria soggettiva (perché non c’èragione di ritenere che l’espropriazione faccia automaticamentevenir meno l’animus domini, che non è incompatibile con laconsapevolezza di non essere proprietario), sia per i fautori dellateoria oggettiva (perché manca un titolo che qualifichi il potere difatto dell’espropriato come detenzione (166)).

6.4.6. La derelizione, la perdita, la rinuncia.

Per derelizione o abbandono si intende la volontaria dismis-sione del potere di fatto sulla cosa. Per perdita si intende ladismissione involontaria del potere di fatto. Per rinuncia siintende la manifestazione della volontà di non aver più il poteredi fatto.

(164) Cfr. G. DORIA, Decreto di esproprio, occupazione d’urgenza e disponibilità del bene:brevi note sui rapporti tra possesso e detenzione, in Giustizia civile, 2003, II, 133.

(165) Cfr. A. CATAUDELLA, Variazioni civilistiche brevi, in Rass. Dir. Civ., 2001, 517; DORIA,Decreto, cit.

(166) In questa prospettiva, DORIA, Decreto, cit.

423IL POSSESSOIII, 6.4.6.

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La derelizione è il venir meno dei due elementi del possesso:l’operatore non vuole più essere proprietario, e cessa di esercitareil potere di fatto. Non ci interessa in questa sede indagare quandoessa incide sulla situazione proprietaria; certamente, comporta lacessazione del possesso.

La mera cessazione dell’ingerenza non è derelizione, perchél’intervento non è un requisito del possesso nella fase successivaall’acquisto.

La rinuncia è la manifestazione della volontà di rinunciare alpossesso. Essa esplicita il venir meno dell’animo; acquista unaparticolare rilevanza quando il possesso in questione sia mediato.In ogni caso, in cui il soggetto intenda perdere il possesso, eglipotrà formulare una rinuncia, oltre a derelinquere il bene: neguadagnerà la chiarezza.

Secondo la giurisprudenza, la rinuncia può desumersi dacomportamenti concludenti solo quando questi “indichino uni-vocamente l’intenzione del dominus in tal senso” (167); in parti-colare, la giurisprudenza è costante nell’affermare che, essendonecessaria una “univoca manifestazione di volontà abdicativa”,“la semplice astensione dall’esercizio del possesso non è suffi-ciente a determinarne la perdita, potendosi ritenere che per-manga l’animus possidendi quando sia sempre possibile alpossessore ripristinarne l’esercizio” (168). Si può concordare conl’osservazione che di fatto la rinuncia per comportamenti con-cludenti coincide con la derelizione (169).

Parte della dottrina orientata verso la concezione oggettivadel possesso dubita peraltro della idoneità della semplice rinun-cia a estinguere il possesso, e ne critica i presupposti “tenace-mente volontaristici” (170). Non sarebbe una manifestazione divolontà, ma solo la concreta dismissione del potere sulla cosa afar cessare il possesso.

Sulla irrilevanza della rinuncia come manifestazione di vo-lontà è difficile concordare.

(167) Cass. civ. 7 gennaio 1992, n. 39.(168) Cass. 21 dicembre 1999, n. 14370.(169) ALCARO, Il possesso, cit., p. 146.(170) Cfr. ALCARO, Il possesso, cit., p. 146.

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Se Tizio ha nel suo giardino un tagliaerba che giace inutiliz-zato da mesi, è difficile dubitare che Caio commette uno spogliose si impadronisce dell’attrezzo.

Ma se Tizio dichiara chiaramente, rivolto a Caio e a tutti glialtri vicini, che rinuncia al possesso dell’inutile e ingombrantearnese, la sua rinuncia creerà un affidamento, e Caio noncommetterà uno spoglio prelevando il tagliaerba.

Ciò non esclude che a certi fini (ad es., responsabilità) ildiritto possa continuare a trattare Tizio come un possessore o unproprietario. Chi tiene un comportamento obbiettivamente am-biguo (rinuncio, ma non dismetto il potere di fatto) potrebbevedersi applicare le regole che colpiscono il possessore consanzioni e responsabilità, senza poter usucapire e senza potersivalere della tutela possessoria. Si può peraltro rilevare che leresponsabilità spesso gravano non tanto sul possessore, quantosul custode; ed è sostenibile che chi rinuncia al possesso, ma nondismette il potere di fatto, resta custode della cosa.

Se l’elemento materiale resta intatto, peraltro, il ritornodell’animo ricostituisce il possesso. Nelle parole della giurispru-denza, la rinuncia cosciente e volontaria fa “presumere il venirmeno dell’animus” “ma non impedisce che esso si riaccompagnial mantenuto potere di fatto un istante dopo, dando luogo ad unnuovo periodo possessorio” (171).

Tuttavia, per le stesse ragioni di intelleggibilità della situa-zione di fatto che richiedono l’ingerenza attuale nel momentoiniziale del possesso, il ritorno dell’animo deve manifestarsi o conuna espressa dichiarazione o con un’ingerenza attuale nel bene. Ilpossesso di un fondo si conserva senza bisogno di continui econcreti atti di godimento; ma una volta che al possesso si siarinunciato può acquistare rilevanza verificare se il rinuncianteabbia, in un momento successivo alla rinuncia, ripreso a ingerirsinel fondo stesso (172).

Secondo la giurisprudenza la forma scritta non è necessaria

(171) Cass. 30 aprile 1982, n. 2724, in Giur. It., 1983, I, 1, 1313, p. 1315.(172) Cfr. Cass. 30 aprile 1982, n. 2724, in Giur. It., 1983, I, 1, 1313.

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per la rinuncia, nemmeno se si tratti di immobili (173). Taleorientamento ha destato qualche perplessità in dottrina (174), masembra condivisibile, dal momento che non si possono estendereautomaticamente al possesso le regole che riguardano la pro-prietà e i diritti reali.

La correlazione fra lo smarrimento e la perdita del possessodà luogo a problemi. La soluzione preferibile sembra quella diritenere che lo smarrimento non comporti senz’altro la perditadel possesso; la perdita del possesso consegue invece all’illecitausurpazione dell’inventore che decide di tenere per sé la cosa (eche commette uno spoglio). In alternativa si potrebbe ritenereche il possesso cessi con lo smarrimento, anche se il possessoreconserva un diritto alla restituzione ex art. 931 c.c., e ricorrereall’art. 1167 c.c. per risolvere gli eventuali problemi in tema diusucapione.

6.5. I rapporti tra il proprietario e il possessore.

6.5.1. I conflitti tra il possesso (o la detenzione) di cosaaliena e la proprietà.

Il proprietario può ottenere il rilascio della cosa da chiunquela possiede o detiene (art. 948 c.c.). Analogamente il titolare diqualsiasi diritto reale può ottenere che la situazione possessoria edetentoria sia resa conforme al suo diritto.

Il possesso di cosa aliena (e così la detenzione senza titolo),non consentito dal proprietario, sembra essere un fenomenooggettivamente antigiuridico. Lo stesso possessore di buona fede,come vedremo fra poco, è colui che ignora di ledere l’altruidiritto (art. 1147); ma di fatto lede l’altrui diritto.

Chi versa in una situazione illegittima di norma risponde deidanni purché fosse in dolo o colpa, ossia, purché fosse nota oconoscibile la violazione dell’altrui diritto e purché il danno fosse

(173) Cass. 20 ottobre 1975, n. 3432; Cass. 30 aprile 1982, n. 2724, in Giur. It., 1983, I, 1,1313.

(174) Cfr. ALCARO, Il possesso, cit., p. 145, nota 430.

426 IL POSSESSO III, 6.4.6.

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evitabile. Il danno potrà derivare, nel nostro caso, dal mancatogodimento della cosa, dal deterioramento, dalla distruzione,dall’alienazione a terzi, e così via.

La proprietà dei frutti naturali spetta di norma al proprietario(art. 821, 1° comma, c.c.). Quanto ai frutti civili, il 3° comma nondice chi li acquisti: normalmente, i frutti civili si acquistano inquanto venga adempiuta da un terzo un’obbligazione (contrat-tualmente assunta) di corrispondere un corrispettivo per ilgodimento del bene; il frutto civile spetta perciò, originaria-mente, allo stipulante, salve le pretese del proprietario nei suoiconfronti. Se il proprietario invoca l’art. 2043, potrà conseguirenon già il frutto ricavato dal possessore, ma i danni subiti (con iproblemi di quantificazione che affronteremo fra poco).

L’art. 936 detta poi la disciplina generale per il caso di opererealizzate su fondo altrui. In assenza di una disciplina specifica,esso dovrebbe applicarsi anche al possessore.

Fin qui i principii comuni. Il legislatore è poi intervenuto conarticoli numerosi, anche se lacunosi, a regolare arricchimenti eacquisti dei frutti (artt. 1147-1151 c.c.). L’interprete potrà do-mandarsi se questi articoli esauriscano il rapporto che intercorrefra proprietario e possessore, o se si integrino con le regolegenerali del nostro diritto, specialmente con quelle dettate intema di responsabilità civile delittuale.

6.5.2. Il possesso di buona fede.

Il legislatore, attenendosi ad una tradizione romanistica,suddistingue due categorie di possessori, a seconda che essiignorino o meno di ledere l’altrui diritto. Tale distinzione assumerilevanza a vari fini: acquisto dei frutti, quantificazione dellaindennità per i miglioramenti apportati alla cosa, tempo neces-sario per usucapire. Nel sistema italiano, la fattispecie “possessodi buona fede”, rilevante a tali molteplici fini, è unica, ed èdisegnata dall’art. 1147. Tale stato di cose non risponde a unanecessità logica; non è inconcepibile che un sistema disegnidiversamente il possesso di buona fede ai fini delle diverseconseguenze che ne discendono. Così ad esempio il codice civile

427IL POSSESSOIII, 6.5.2.

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francese ha accolto la regola canonistica della buona fede“continua”, disponendo nell’art. 550 che il possessore “cessed’être de bonne foi du moment où ces vices lui sont connus”, ilche ha rilevanza, ad esempio, ai fini dell’acquisto dei frutti; ma haaccolto la regola opposta per quanto riguarda il requisito dellabuona fede nel possesso ad usucapionem (art. 2269: “il suffit quela bonne foi ait existé au moment de l’acquisition”) (175).

In Italia, è possessore di buona fede chi, al momentodell’acquisto del possesso, ignorava di ledere l’altrui diritto. Diqui la formula “mala fides superveniens non nocet”, che benerispecchia la tradizione italiana.

L’ignoranza dovuta a colpa grave è equiparata a mala fededallo stesso articolo 1147, il che risponde alla ragionevoleesigenza di incentivare a una sia pur minima diligenza chi vogliabeneficiare del trattamento riservato al possessore di buona fede.Oggi è pacifico che l’errore di diritto non è incompatibile con labuona fede (176).

La buona fede del possessore, secondo l’art. 1147, è presunta.Si discute se il dubbio sia da equiparare alla mala fede. In

giurisprudenza si precisa che la presunzione di buona fede “nonè vinta dall’allegazione del mero sospetto di una situazioneillegittima, essendo invece necessario che l’esistenza del dubbiopromani da circostanze serie, concrete e non meramente ipote-tiche, la cui prova deve essere fornita da colui che intendacontrastare la suddetta presunzione legale di buona fede” (177). Siè tuttavia precisato che, così come non giova la buona fedederivante da colpa grave, a maggior ragione non può giovare unostato soggettivo di dubbio che dipenda da colpa grave, in quantoeliminabile con l’uso dell’ordinaria diligenza (178).

In altre parole: la certezza assoluta è segno soltanto diingenuità; il semplice dubbio non può essere equiparato a mala

(175) Cfr., sul tema, E. MOSCATI, “Mala fides superveniens non nocet”? (Per la rilettura di undogma), in Scritti in memoria di Angelo Lener, Napoli, 1989, 645, pp. 652 ss.

(176) Cfr., ad esempio, Cass. 26 luglio 1962, n. 2124; Cass. 6 luglio 1966, n. 1764.(177) In termini identici si sono espresse Cass. 24 dicembre 1991, n. 13920 e Cass. 22

maggio 2000, n. 6648; nello stesso senso, cfr. pure Cass. 6 luglio 1984, n. 3971.(178) Cass. 29 giugno 1963, n. 1753.

428 IL POSSESSO III, 6.5.2.

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fede. Ma se i dubbi possono essere, senza grandi sforzi, chiariti,chi omette una facile verifica versa in colpa grave.

La giurisprudenza ripete ormai da tempo che “ai fini dellaricorrenza del possesso di buona fede, non è necessaria l’esistenzadi un titolo (ancorché viziato) idoneo a trasferire al possessore laproprietà della cosa posseduta” (179), che l’art. 1147 prescinde“dall’esistenza di un titolo ancorché viziato” (180).

L’art. 701 del codice civile del 1865 considerava possessore dibuona fede “chi possede come proprietario in forza d’un titoloabile a trasferire il dominio, del qual titolo ignorava i vizi”. Lapratica si trovava a discutere quale titolo fosse abile, e quali vizifossero compatibili con la buona fede, per concludere che ognititolo era abile e ogni vizio si poteva ignorare. Il nuovo legislatorene ha tratto la conseguenza, eliminando dai costituenti delpossesso di buona fede il titolo.

La discussione sulla necessità del titolo si intreccia con unaltro problema. “Ignorare di ledere l’altrui diritto” non significanecessariamente ritenere di essere proprietario. Poiché non c’èlesione se non si agisce contro la volontà del soggetto leso, ilpossesso esercitato con il consenso del proprietario non è lesivo.Così chi si immette in un bene immobile a seguito di un contrattoverbale di compravendita, magari con l’intesa che il contrattoscritto sarà concluso in un momento successivo, dovrebbe con-siderarsi possessore di buona fede. La giurisprudenza, però, sulpunto è divisa (181).

(179) In questi termini Cass. 24 dicembre 1991, n. 13920 e Cass. 22 maggio 2000, n. 6648.(180) Così Cass. 20 agosto 1991, n. 8918.(181) Nel senso del testo si è espressa Cass. 20 agosto 1991, n. 8918, che ha respinto, sulla

base della irrilevanza del titolo, sia pur viziato, ai fini dell’art. 1147, l’affermazione del ricorrentesecondo cui il possessore versava in colpa grave (e quindi non poteva considerarsi di buona fede)non potendo ignorare che il patto concluso verbalmente richiedeva la forma scritta. In sensoopposto, cfr. ad esempio Cass. 29 settembre 1962, n. 3219, secondo cui chi possiede sulla base diun accordo verbale con il proprietario, che si è impegnato a trasferire la proprietà, non può essereconsiderato in buona fede, e il consenso del proprietario avrà il limitato effetto di precludere lafacoltà di chiedere la demolizione dell’opera ai sensi dell’art. 936 c.c.

Nello stesso senso del testo, cfr. BIANCA, Diritto civile, cit., p. 765.

429IL POSSESSOIII, 6.5.2.

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6.5.3. Restituzione dei frutti e responsabilità per danni.

Dall’art. 1148, 1° frase (“Il possessore di buona fede fa suoii frutti naturali separati fino al giorno della domanda giudiziale ei frutti civili maturati fino allo stesso giorno”), si argomenta cheil possessore di mala fede deve restituire sia i frutti naturali (inarmonia con la regola generale di cui all’art. 821) che i frutti civilimaturati.

La seconda frase (“Egli, fino alla restituzione della cosa,risponde verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la do-manda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire dopotale data, usando la diligenza di un buon padre di famiglia”)lascia invece aperto il problema se il possessore di mala fede, finoalla domanda giudiziale, risponde solo dei frutti percepiti o anchedi quelli percipiendi. La tesi largamente prevalente sostiene che ilpossessore di mala fede, anche prima della domanda giudiziale,risponde anche dei frutti percipiendi (182), ma non sono mancatisostenitori della tesi opposta (183) (che sostiene che il possessoredi mala fede deve restituire i frutti indebitamente percepiti, e solodopo la domanda giudiziale anche quelli percipiendi). Il divariotra le due tesi appare meno drammatico se si considera che ilpossessore di mala fede commette un illecito, ed è in ogni casotenuto a risarcire il danno. In assenza di allegazioni particolari, ildanno sarà identificato normalmente nei frutti che un uomomedio avrebbe potuto ricavare dal bene.

Un problema delicato, e che qui si può soltanto sfiorare,riguarda l’utilizzo dei beni nel corso di una gestione dinamica,quale avviene se Tizio, immessosi nell’azienda di Caio, ivi svolgefunzione d’imprenditore. La giurisprudenza ha ritenuto che, nelcaso di beni destinati ad esercizio commerciale, i frutti che sitraggono da tale esercizio hanno solo un collegamento “indi-retto” coi beni utilizzati, e trovano invece la loro giustificazione“nell’esercizio per sé stesso, come attività speculativa a sé stante”,con la conseguenza che “i frutti che si ritraggono dall’esercizio di

(182) Cfr., ad es., TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 40; BIANCA, Dirittocivile, cit., p. 772; TROISI e CICERO, I possessi, cit., p. 117.

(183) Cfr., ad es., MASI, Il possesso, cit., pp. 481-482.

430 IL POSSESSO III, 6.5.3.

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un’azienda commerciale, anche se illegittimamente posseduta dachi la gestisce, sono di pertinenza non del proprietario del-l’azienda, ma del soggetto che questa ha gestita” (184). Lasoluzione è stata approvata da buona parte della dottrina (185). Inrealtà la norma sui frutti sembra adeguata finché la causaprincipale del prodotto è la cosa madre, mentre la causa princi-pale del profitto imprenditoriale è l’iniziativa dell’imprenditore.Qualche autore ha proposto che al proprietario si riconoscano,come frutti percipiendi, i canoni che l’azienda avrebbe meritatose data in affitto (186) (mentre l’imprenditore potrebbe farproprio l’eventuale maggior profitto).

Secondo la giurisprudenza, ha carattere di debito di valorel’obbligo relativo ai frutti naturali, mentre è debito di valuta,soggetto al principio nominalistico, l’obbligo relativo ai frutticivili (187).

Si deve ritenere che il possessore di mala fede, tenuto arestituire i frutti che avrebbe potuto percepire con l’ordinariadiligenza, debba pagare il valore del godimento del bene di cuiabbia usato personalmente, nonché l’utilità ritratta dal bene sottoforma di risparmio di spese. Non si vede infatti perché trattarediversamente il possessore di mala fede che abita direttamentel’appartamento e quello che lo affitta ad un terzo.

Qualcuno si chiede se la regola sull’acquisto dei frutti troviapplicazione analogica in tema di detenzione. Naturalmente ilproblema si pone solo per quei detentori che, sulla base deltitolo, possono far propri i frutti (il conduttore, ad esempio; nonil depositario, o l’appaltatore). Se l’atto di concessione provienedal non legittimato, la detenzione del concessionario lede ildiritto del proprietario. Il detentore si trova allora soggettoall’azione di rivendicazione. Se il detentore ignorava di ledere

(184) Cass. 13 febbraio 1969, n. 486, in Giur. It., 1969, I, 1, 625.(185) Cfr., ad es., TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 39; SACCO e CATERINA,

Il possesso, cit., p. 458.(186) In questo senso SACCO, Il possesso, cit., p. 361; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 772.(187) Cass. 19 novembre 1992, n. 12362; Cass. 12 febbraio 1993, n. 1784; Cass. 15 marzo

2006, n. 5776.

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l’altrui diritto, potrà far propri i frutti come il possessore dibuona fede?

Parte della dottrina è favorevole all’equiparazione, che “trovaragione nella medesima esigenza di tutela dell’aspettativa di chi inbuona fede utilizza fruttuosamente la cosa” (188).

Le regole sul possesso di buona fede non si giustificano,ovviamente, come incentivi rivolti al possessore medesimo (che,per definizione, non sa che esse gli si applicheranno, a parte ilcaso della mala fides superveniens). Non sembrano plausibili,pertanto, i tentativi di giustificare la regola sull’acquisto dei fruttisulla base di istanze produttivistiche. Tale regola, sotto il profilodegli incentivi rivolti ai consociati, non fa né male (perché,richiedendo la buona fede, non rischia di incoraggiare intromis-sioni illecite nei beni altrui), né bene. La regola si giustifica sullabase di esigenze equitative (rende meno traumatico il “bruscorisveglio” da parte di un soggetto che in fin dei conti non versavain colpa grave), e perché evita i costi di giustizia che scaturisconodalla regola opposta (189). Le stesse giustificazioni valgono anchenel caso del detentore.

Un caso particolare è quello in cui il possessore di buona fedeconcede il bene ad un terzo. In questo caso almeno sembra logicoche il proprietario, che non può chiedere i frutti civili alpossessore, non possa neppure chiedere la restituzione dei fruttial detentore; altrimenti bisognerebbe ammettere che questi possaa sua volta agire contro il possessore.

In ogni caso, è utile ricordare che la nostra giurisprudenza dàspazio a contratti di locazione di fatto, rilevanti quando ilcontratto consensuale è nullo (190), il che riduce la rilevanza ai finipratici del nostro problema.

Le regole sui frutti interferiscono con l’applicazione dell’art.2043.

(188) BIANCA, Diritto civile, cit., p. 764; e vedi pure le pp. 772-773.(189) Quando non esistono solide ragioni di giustizia o di efficienza per “spostare” un

danno o un arricchimento, l’ordinamento spesso sceglie la soluzione meno costosa, cioè lasciarlodove è, evitando i costi di accertamento e di esecuzione che inevitabilmente scaturirebbero dallaregola opposta.

(190) Cass. 6 maggio 1966, n. 1168; Cass. 3 maggio 1991, n. 4849, in Giur. It., 1991, I, 1,1313.

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Il possessore di mala fede è responsabile sulla base dell’art.2043; egli è tenuto a risarcire il danno; il diritto, prescindendodalla prova del danno, lo condanna comunque a restituirel’ammontare di cui si è arricchito (cioè, i frutti). Ciò evita che ilpossessore di mala fede, per quanto abilmente abbia saputo farfruttare il bene, e per quanto inutile fosse il bene nelle mani delproprietario, si arricchisca grazie al suo illecito. Ma l’obbligo direstituire i frutti si cumula alla sanzione del risarcimento deldanno; per cui, se il proprietario può provare un danno maggioredei frutti percetti o percipiendi, il possessore di mala fede deverisarcire.

La stessa regola (con l’obbligo di pagare la maggior sommafra frutti percepiti e percipiendi e danno arrecato) deve applicarsial detentore di mala fede, che altrimenti sarebbe trattato, senzagiustificazione, meglio del possessore.

L’applicazione dell’art. 2043 comporterebbe, a rigore, laresponsabilità per danni del possessore di buona fede, quando visia una colpa lieve; comporterebbe, a rigore, la responsabilità perdanni del possessore in caso di mala fides superveniens. Ciòfrustrerebbe la tutela del possessore di buona fede, come risultadagli articoli 1147 e 1148. Per evitare tale risultato, si deveritenere che con le norme in commento il legislatore abbiaimplicitamente escluso l’applicazione dell’art. 2043 c.c. al posses-sore di buona fede.

Fin qui si è parlato della responsabilità del possessore per ilsolo fatto del possesso. Bisogna ora accennare all’ipotesi che eglidanneggi la cosa o la alieni efficacemente.

Per il caso di alienazione, sembra ragionevole considerare ilpossessore di buona fede responsabile nei limiti del corrispettivoricevuto, in applicazione di un principio desumibile dagli artt.535, 1776, 2038 c.c. Sempre traendo ispirazione dall’art. 2038c.c., sembra ragionevole ritenere che in caso di alienazione daparte del possessore di mala fede il proprietario possa esigere, asua scelta, il valore della cosa o il corrispettivo ricevuto.

Si può ipotizzare che gli stessi principi si estendano aldanneggiamento o alla distruzione della cosa. In questo caso, ilpossessore di buona fede sarebbe responsabile nei limiti del suo

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eventuale arricchimento conseguente al danneggiamento o alladistruzione; il possessore di mala fede sarebbe tenuto a pagare lamaggior somma tra i danni e il suo arricchimento.

6.5.4. Riparazioni, miglioramenti, addizioni.

Il possessore gode di rimedi e difese in materia di spese eriparazioni; di miglioramenti; di addizioni; il suo credito èprotetto mediante la ritenzione della cosa.

Il possessore, come gestore d’affari qualificato, ha diritto alrimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie, sia egliin buona o in mala fede (art. 1150, 1° comma). La diligenza e lapremura del possessore meritano di essere incoraggiate, perchéspesso è l’unico soggetto su cui si possa contare per la salvaguar-dia della cosa.

Le riparazioni e spese ordinarie sono considerate come unpassivo inerente al godimento della cosa, e si compensano conil godimento del bene e con l’acquisto dei frutti. Ne segue cheil possessore di mala fede, che deve restituire i frutti, e chepertanto ha diritto al rimborso delle spese fatte per la produ-zione e il raccolto, ha diritto anche al rimborso delle speseordinarie, mentre tale diritto non spetta al possessore di buonafede. Il debito nascente da riparazioni viene considerato divaluta (191).

Il possessore ha diritto a indennità per i miglioramenti recatialla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione. L’inden-nità è pari all’aumento di valore della cosa per effetto deimiglioramenti se il possessore è di buona fede, in caso contrarioè pari alla minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento divalore (art. 1150, 2° e 3° comma). Con tale restrizione, l’ordina-mento evita ancora una volta che il possessore di mala fede, perquanto abile, possa trarre beneficio dal suo illecito (comealtrimenti potrebbe fare quando apporta alla cosa un aumento divalore superiore alle spese).

Se il miglioramento ha carattere di addizione, si applicano i

(191) Cass. 9 agosto 1983, n. 5337.

434 IL POSSESSO III, 6.5.3.

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principii dell’art. 936 c.c. espressamente richiamati. Si debbonoallora distinguere tre ipotesi. Infatti l’art. 1150, 5° comma,introduce una particolare considerazione del possessore di buonafede; l’art. 936, a sua volta, distingue il costruttore di buona fededal costruttore di mala fede.

Il possessore di mala fede che sia inoltre costruttore di malafede è alla mercè del proprietario, che può costringerlo a toglierele addizioni ed a pagare i danni, ovvero può ritenere le addizionipagando a sua scelta il valore dei materiali e della mano d’opera,oppure l’aumento di valore recato al bene. Il costruttore di buonafede e il soggetto a lui equiparato (cioè colui che ha costruito ascienza e senza opposizione del proprietario), sempreché non siaanche possessore di buona fede, non è soggetto all’obbligo ditogliere le costruzioni ed avrà diritto all’indennità che il proprie-tario preferirà attribuirgli (fra aumento di valore e spese). Ilpossessore di buona fede ha diritto senz’altro all’indennità nellamisura dell’aumento di valore.

Secondo l’opinione prevalente, il debito per i miglioramenti,anche quando consista nel rimborso delle spese, è debito divalore (192).

La pratica ha additato ai giuristi l’importanza del problemadel miglioramento di incerto avvenire, ossia di quel migliora-mento che sussiste al momento della restituzione del bene, ma èesposto all’eliminazione. Il prototipo di questi miglioramenti è lacostruzione eseguita in modo non conforme a diritto.

La giurisprudenza ha affermato in ripetute occasioni chel’esecuzione di costruzioni senza la prescritta licenza edilizia, edunque esposte al pericolo di demolizione per ordine dellacompetente autorità amministrativa, non realizza un migliora-mento indennizzabile ai sensi dell’art. 1150 c.c (193).

La soluzione non soddisfa. Il miglioramento eliminabileassomiglia da vicino al danno alla persona reversibile in caso diincerta ed augurata guarigione; al danno consistente in un

(192) Cfr., ad esempio, Cass. 18 novembre 1987, n. 8491; Cass. 8 novembre 1993, n. 11051.(193) Cass. 8 aprile 1983, n. 2498, in Giur. It., 1983, I, 1, 1847 (ma attenzione: la sentenza

arriva allo stesso risultato applicando le regole comuni sull’arricchimento senza causa); Cass. 17dicembre 1991, n. 13568; Cass. 10 settembre 1997, n. 8834.

435IL POSSESSOIII, 6.5.4.

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aumento del rischio; e così via. Sono figure che pongonoproblemi delicati al diritto, ma che non possono essere conside-rate irrilevanti. Condoni o sanatorie sono d’altronde, nel nostroordinamento, ben lontani dall’essere eventi eccezionali. È dun-que necessaria una soluzione più sofisticata. In dottrina si èproposto che si accolli al proprietario il miglioramento come sefosse definitivo, legittimandolo alla ripetizione in caso di elimi-nazione (194). Certo, in questo modo si esporrebbe il proprietarioa un rischio notevole, perché il possessore potrebbe rendersiirreperibile o risultare insolvente.

Il diritto alle indennità del possessore di buona fede èspalleggiato dal diritto di ritenzione, che l’art. 1152 regoladettagliatamente.

Secondo la giurisprudenza, le disposizioni contenute negliart. 1150 ss. sono norme di carattere eccezionale, e dunque nonapplicabili per analogia al mero detentore (195).

Anche in questo caso, bisogna innanzitutto osservare che ilproblema non può neppure porsi se non nei limiti in cui il dirittoad indennità per riparazioni e miglioramenti sia previsto daltitolo.

In questi limiti, sembra in realtà che il trattamento delpossessore di mala fede sia il trattamento normale di chi, avendoarricchito altri, può chiedere la minor somma tra la propriaperdita e il vantaggio della controparte. Il possessore di buonafede beneficia invece di uno statuto privilegiato, ed è opinabile seesso si presti ad una estensione per analogia. Ma in molti casi ilproblema neppure si pone. Ad esempio, nel caso della locazioneè ovvio che il conduttore, sulla base degli artt. 1592 e 1593 c.c.,non potrà aspirare ad un trattamento equivalente a quello delpossessore di buona fede (196).

(194) SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., p. 466.(195) Cass. 21 dicembre 1993, n. 12627.(196) BIANCA, Diritto civile, cit., p. 776 ss. è favorevole in linea di principio ad un’estensione

delle regole dettate nell’art. 1150 c.c. al detentore, ma ritiene che se la detenzione trae titolo daun rapporto contrattuale, prevalgono le norme regolatrici di tale rapporto.

436 IL POSSESSO III, 6.5.4.

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6.6. Le azioni possessorie.

6.6.1. Le lesioni del possesso.

L’interprete ricostruisce i varii tipi di lesione del possessorilevanti, desumendoli dalle regole che prevedono i relativirimedii; questi, a loro volta, sono l’azione di reintegrazione,l’azione di manutenzione, la denunzia di nuova opera, la denun-zia di danno temuto, la petizione di eredità, la pretesa allarestituzione della cosa smarrita, e l’azione risarcitoria generale.

Le ipotesi cui il possessore può reagire possono enumerarsicome segue: lo spoglio; la turbativa o molestia; l’opera nuovadannosa; il pericolo di danno nascente da una cosa; il possessoalieno di cose ereditarie; il rifiuto di restituzione di cose smarrite;il danno ingiusto recato mediante una delle lesioni precedente-mente enumerate.

Il possessore, attraverso la raggiera dei rimedii possessori,riceve una tutela tanto estesa quanto quella che riceve, attraversole azioni sue proprie, il proprietario. Ma la difesa del possessoreha un’intensità minore, perché di fronte al convenuto non glibasta provare il suo stato di possessore; deve invece svolgere unacompiuta critica della condotta del convenuto, per dimostrareche quest’ultimo si è posto dalla parte del torto.

6.6.2. Lo spoglio.

L’art. 1168 non definisce direttamente lo spoglio.Nella lingua volgare, effettuare uno spoglio significa privare

qualcosa o qualcuno di qualcosa. La legge, se non definisce lospoglio, indica che si ripara allo spoglio rimettendo lo spogliatonel possesso, così lasciando intendere che, per effetto dellospoglio, egli ha perduto il potere di fatto.

Ne segue che è spoglio il comportamento di taluno, che faperdere al possessore il potere di fatto sulla cosa. La perdita delpotere generale sulla cosa (qual è ad esempio il potere a titolo diproprietà) avverrà nella forma della sottrazione quando la cosa siamobile, e della deiezione quando la cosa sia immobile. In modovia via corrispondente avverrà la perdita del potere frazionario

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del compossessore immobiliare, o di chi esercita una servitùpositiva. Da tempo però la dottrina ha evidenziato una certadisponibilità della giurisprudenza a considerare come spoglioanche attentati che non cagionano la perdita del possesso, ma nediminuiscono o rendono più incomodo l’esercizio (197). Taliaperture contrastano con un’altra corrente giurisprudenziale, checontrappone lo spoglio alla molestia identificando il primo comeun’aggressione al possesso che “incide direttamente sulla cosache ne costituisce l’oggetto, sottraendola in tutto o in parte alladisponibilità del possessore”, mentre la molestia si rivolge control’attività di godimento del possessore, “disturbandone il pacificoesercizio, ovvero rendendolo disagevole e scomodo” (198). Al di làdelle formule utilizzate, le ragioni delle decisioni non sonosempre trasparenti. In un’occasione la Suprema Corte ha ravvi-sato uno spoglio nella aratura di un fondo, che privava l’attoredella possibilità di utilizzare un certo bene come pascolo (199);mentre in altra occasione ha qualificato come semplice molestiadel possesso di un terreno la recisione e l’asporto di piante (200).Una decisione, sulla base del principio che lo spoglio puòconcretarsi in un atto che “restringa o riduca le facoltà inerenti alpotere esercitato sull’intera cosa”, ha considerato spoglio il fattodel condomino che, collocando alcuni tavolini nell’area antistanteun fabbricato, aveva compromesso la possibilità di transito adaltri condomini (201).

Un’indagine volta ad individuare un filo conduttore dellagiurisprudenza non è semplice. Molte decisioni sono note soloper massima, e la massima dice poco o nulla sul fatto. In molticasi, le affermazioni delle corti sono semplici obiter dicta, perchéil fatto in esame è una vera ablazione o deiezione, e dunque ladefinizione di spoglio scelta è ininfluente; o perché l’attore èlegittimato a reagire sia allo spoglio che alle molestie. Talvolta si

(197) Cfr., ad esempio, Cass. 21 marzo 1970, n. 749; Cass. 20 marzo 1978, n. 1386; Cass.14 novembre 1978, n. 5242.

(198) Così Cass. 6 dicembre 1984, n. 6415; nello stesso senso Cass. 6 gennaio 1982, n. 23.(199) Cass. 6 novembre 1991, n. 11853.(200) Cass. 16 aprile 1981, n. 2298.(201) Cass. 16 marzo 1966, n. 754.

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ha l’impressione di un certa ritrosia della Corte di Cassazione aridiscutere la qualificazione operata dal giudice di merito.

Si deve comunque segnalare una certa discontinuità dellaCorte di Cassazione; e forse una certa tendenza, in anni piùrecenti, a rendere più stretta la definizione dello spoglio.

Senza pretendere di elaborare una definizione compiuta edesaustiva, possiamo dire che la giurisprudenza fa sicuramenterientrare nello spoglio:

— tutte le innovazioni che pregiudichino, in qualsiasi modo,il rapporto elementare di fatto uomo-cosa, che ostino cioèall’ingerenza della vittima, impendendola o difficultandola (attra-verso la erezione di recinzioni e cancelli, l’apposizione di luc-chetti, e così via);

— i mutamenti di destinazione o le trasformazioni impor-tanti della cosa (ad esempio, il mutamento dell’ordinamentocolturale del fondo (202), o la rottura di un muro divisorio perrendere comunicanti due appartamenti (203)).

6.6.3. Lo spoglio del possessore mediato.

Il possessore mediato può essere spogliato da un terzo, o daldetentore immediato.

Sebbene ciò non venga scritto a tutte lettere, si ritienecomunemente che lo spoglio del potere immediato da parte di unterzo costituisca spoglio del soggetto del potere mediato. Spo-gliato il conduttore, si considera come spogliato il locatore.

La fondatezza di questa equiparazione potrebbe essere messain dubbio, laddove l’agente proclami di voler essere detentore (secioè effettui il riconoscimento del possessore); in un simile caso,si potrebbe sostenere che la situazione possessoria del possessoremediato resti immutata.

Una sentenza ormai remota, tuttavia, ha affermato che ilproprietario-locatore di un palazzo può reagire con l’azione direintegrazione allo spoglio commesso da uno dei suoi inquilini ai

(202) Cass. 23 marzo 1984, n. 1933.(203) Cass. 11 aprile 1959, n. 1065.

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danni degli altri (nella specie, appropriandosi di un ballatoio diuso comune) (204). Si crea così una figura speciale di azionepossessoria che ruota intorno alla identità del detentore imme-diato, e che trova giustificazione in un intuibile interesse praticodel possessore mediato a conservare un controllo sulla situazionedi fatto del bene.

La stragrande maggioranza degli attentati al potere mediato sicompie, peraltro, ad opera del soggetto del potere diretto.

L’occasione più frequente di controversie è il rifiuto, da partedel detentore immediato, di restituire la cosa. Sul tema, unagiurisprudenza ormai consolidata oppone il semplice ritardonella riconsegna del bene alla interversione (che costituiscespoglio).

Secondo tale consolidato orientamento, è vero che “colui ilquale abbia cominciato a possedere a titolo precario in nomealtrui, nel momento stesso in cui manifesti la sua volontà dipossedere non più nomine alieno, ma uti dominus, priva l’altraparte del suo possesso”, legittimandola all’esercizio dell’azione direintegrazione; ma tale azione è “esperibile soltanto quandol’opposizione da parte del precarista alla richiesta di restituzionedella cosa detenuta, si fondi sull’allegazione di un propriopossesso e non già allorquando il comodatario o il locatario e ilcolono, si opponga al rilascio per motivi attinenti alla validità oalla continuazione del rapporto obbligatorio in forza del qualeabbia ottenuto la detenzione” (205).

Di per sé il rifiuto di restituire il bene non costituisce spoglio“rilevando tale comportamento soltanto sul piano dei rapporticontrattuali, con la conseguenza che il proprietario concedenteresta abilitato ad agire non con l’azione di spoglio, ma conl’azione di restituzione fondata sull’estinzione del con-tratto” (206). Ad esempio, il comodante, una volta revocata laconcessione, per ottenere dal comodatario che non restituisce ilrilascio del bene, può soltanto avvalersi dall’azione di restitu-

(204) Cass. 1 febbraio 1950, n. 272, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1950, II, 43.(205) Cass. 21 maggio 1992, n. 6134.(206) Cass. 29 marzo 1995, n. 3700.

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zione, fondata sull’estinzione del contratto, mentre non è abili-tato ad agire mediante l’azione di spoglio (207). Coerentemente, siè ritenuto, in materia di appalto, che “nell’ipotesi in cui l’appal-tatore rifiuti la consegna dell’opera al committente, si ha spogliosolo se resti accertata l’assoluta mancanza di contestazione circal’avvenuta cessazione del rapporto contrattuale, con l’esauri-mento delle correlative posizioni soggettive, mentre, in presenzadi una controversia relativa alle vicende contrattuali, va escluso ilvenir meno dello ‘jus detinendi’ dell’appaltatore” (208).

Non è impossibile conciliare con tale orientamento giurispru-denziale quelle decisioni che hanno ritenuto che, in caso didetenzione per ragioni di servizio o di ospitalità, il semplicerifiuto di restituire la cosa integri spoglio (209). Poiché il detentoretale per ragione di servizio di ospitalità o di tolleranza detiene aun titolo che implica necessariamente il dovere di restituire lacosa a semplice richiesta del possessore, la mancata ottemperanzaalla richiesta implica normalmente una interversione illecita equindi uno spoglio.

In particolare, la Corte di Cassazione, richiamandosi espres-samente alla giurisprudenza in tema di mancata restituzione dellacosa, ha affermato che non commette spoglio il conduttore chesubloca la cosa in violazione di divieto contenuto nel contratto dilocazione, “sicché il locatore non è abilitato a proporre l’azione dispoglio non solo nei confronti del conduttore, ma neppure delsubconduttore, può semplicemente chiedere la risoluzione delcontratto, ed una volta ottenutala pretendere dal subconduttorela consegna della cosa a norma dell’art. 1595”; nella motivazione,la Corte ha affermato che “il regime possessorio non mira arafforzare l’obbligazione o a renderla insensibile alle vicende chela interessano” (210).

L’orientamento della giurisprudenza merita approvazione. Il

(207) Cass. 11 gennaio 1993, n. 178.(208) Cass. 21 agosto 1996, n. 7700.(209) In questo senso cfr. Cass. 12 aprile 1972, in Foro Italiano, 1972, I, 3175; Cass. 19

maggio 1982, n. 3086; Cass. 4 giugno 1992, n. 6906.(210) Cass. 29 maggio 2003, n. 8628. In SACCO, Il possesso, cit., p. 222 (e poi in SACCO e

CATERINA, Il possesso, cit., pp. 279) si affermava che “il regime possessorio non è stato istituito perrafforzare l’obbligazione, o per renderla insensibile alle querele di nullità”.

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locatore, comodante, committente che lamenta un inadempi-mento della controparte può invocare il rapporto obbligatorio;ed in quella sede eventuali eccezioni fondate sull’invalidità totaleo parziale del contratto, sulla sua interpretazione e qualificazione,etc. potranno essergli opposte. Il regime possessorio non è statoistituito per rafforzare l’obbligazione, né per renderla insensibilealle vicende che la interessano, e che non possono essere discussein sede di giudizio possessorio.

Lo spoglio implica un mutamento della situazione di fatto.Tale mutamento non può consistere in un inadempimentocontrattuale, per quanto grave, ma solo nel venir meno dellalaudatio possessoris. Il riconoscimento non viene meno se ildetentore ritarda o rifiuta genericamente la restituzione; vienemeno se il detentore ritarda o rifiuta la restituzione perchéintende disporre della cosa come dominus.

Il caso del detentore per ragione di servizio o di ospitalitàmerita un trattamento diverso. Da un lato, in questo caso nonesiste il timore che l’azione possessoria sia usata per aggirare lelegittime discussioni che possono sorgere in sede di azionecontrattuale. D’altra parte, il detentore per ragione di servizio odi ospitalità realizza un mutamento della situazione di fatto se,pur continuando a riconoscere il possessore, prende a compor-tarsi come un detentore qualificato.

6.6.4. La molestia.

L’art. 1170 c.c. non aiuta l’interprete a identificare i connotatidella “molestia” o “turbativa” cui si ripara con la “manuten-zione”.

Per definire la molestia bisogna rendere nitide due soglie: lasoglia superiore (che separa la molestia dallo spoglio) e la sogliainferiore (che separa la molestia dall’ingerenza lecita).

Per definire la soglia superiore è bene procedere per esclu-sione: è molestia l’ingerenza indebita, che non sia spoglio. Nellasede relativa alla molestia, si deve dare una definizione per segnipositivi della soglia inferiore.

Cosa costituisce molestia, secondo la giurisprudenza?

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Costituiscono molestia: la violazione delle distanze le-gali (211); le immissioni intollerabili di fumi, vapori ed odori (212);l’innalzamento del muro di cinta che limita l’afflusso di luce edaria (213); l’accumulo di terra a ridosso del muro di confine, inrelazione alle infiltrazioni di umidità ed alla diminuzione di aria edi luce (214).

La definizione di molestia, suggerita dal sistema e confortatadalla pratica, sembra essere la seguente: la molestia sussiste se unterzo si ingerisce sulla cosa in un modo che sarebbe illecito ove ilpossessore fosse titolare del diritto corrispondente al suo pos-sesso, e sempre che questa ingerenza non costituisca spoglio. Nonè molestia, invece, l’ingerenza che sarebbe lecita anche allastregua del diritto cui corrisponde il potere di fatto del posses-sore. Così ad esempio non è stata considerata molestia l’ingerenzaesplicata nello spazio sovrastante il suolo, a tale altezza da noncostituire lesione del diritto di proprietà (215).

Questa definizione merita alcuni chiarimenti.a) La molestia è nella sua essenza un’ingerenza nella cosa.

Essa non implica necessariamente un venir meno del potere digodimento della vittima, né una restrizione ad esso.

Ciò non collima perfettamente con le definizioni delle nostrecorti, che talvolta richiedono che l’attività abbia “un congruo edapprezzabile contenuto di disturbo” del possesso dell’attore, taleda “rendere impossibile, gravoso oppure notevolmente difficol-toso l’estrinsecarsi di tale posizione” (216); che il comportamentodel molestante “modifichi, restringa o rechi pregiudizio al legit-timo possesso altrui o comunque limiti o modifichi apprezzabil-mente il modo di esercizio di esso” (217).

Prese sul serio, tali definizioni porterebbero ad una ingiusti-

(211) Cfr., ad esempio, Cass. 23 gennaio 1995, n. 724; Cass. 9 dicembre 1996, n. 10935;Cass. 25 marzo 1998, n. 3147.

(212) Cass. 10 settembre 1997, n. 8829.(213) Cass. 4 dicembre 1995, n. 12489.(214) Cass. 18 marzo 1986, n. 1842.(215) Cass. 7 gennaio 1984, n. 106.(216) Così Cass. 24 febbraio 1993, n. 2260.(217) Cass. 29 maggio 1995, n. 6037.

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ficata restrizione della tutela del possessore. Peraltro, la stessagiurisprudenza finisce in molti casi per neutralizzarne la portataconcreta: così, ad esempio, si è ripetutamente affermato che “laviolazione delle distanze legali nelle costruzioni integra unamolestia al possesso del fondo finitimo contro la quale è datal’azione di manutenzione perché anche quando non ne comprimedi fatto l’esercizio importa automaticamente modificazione orestrizione delle relative facoltà” (218). Applicando questa logica,si potrebbe ripetere la stessa affermazione per ogni illecitaingerenza nella cosa.

b) La definizione proposta ruota intorno alla illiceitàdell’ingerenza. Non è tuttavia sempre facile sapere quale inge-renza debba dirsi lecita.

Il terreno che finora ha fatto nascere maggiori problemi èquello delle immissioni.

L’art. 844 c.c. assegna al giudice non solo vasti poteri diapprezzare il fatto, ma un’ampia potestà regolatrice, per cui puòconsentire o meno, discrezionalmente, un’immissione, bilan-ciando numerosi e disparati criterii (esigenze della produzione,ragioni della proprietà, priorità nella destinazione della cosa). Lanostra pratica conosce, altresì, la figura delle immissioni controcui non è concessa azione inibitoria, ma che comportano unobbligo di risarcire il danno. Come deve comportarsi il giudicedel possessorio? In che misura può svolgere lo stesso complessobilanciamento che spetta al giudice del petitorio? Come devecomportarsi di fronte ad immissioni che non darebbero luogo allainibitoria, ma al risarcimento del danno?

In un’occasione la Suprema Corte ha approvato l’operato delgiudice del merito, che, ritenendo che le immissioni sonore nonsuperassero la normale tollerabilità, aveva respinto l’azione dimanutenzione; in tale occasione la Suprema Corte ha precisatoaltresì che l’apprezzamento del giudice di merito sulla normaletollerabilità delle immissioni, onde escludere la turbativa o

(218) Così Cass. 19 marzo 1991, n. 2927. Nello stesso senso, Cass. 3 aprile 1976, n. 1185;Cass. 9 settembre 1989, n. 3911.

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molestia, si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientementemotivato (219).

In un’altra decisione, la Suprema Corte ha approvatol’operato del giudice di merito, che, accertato che le immissionisonore ed infiltrazioni di acqua provenienti dal fondo delconvenuto superavano la normale tollerabilità, aveva accoltol’azione di manutenzione proposta dall’attrice (220). In modoalquanto fuorviante, la Corte ha ritenuto di precisare che ai finidella configurabilità delle molestie non occorre che l’ingerenzasia “obiettivamente illecita in quanto violativa di un precisoprecetto normativo” e che “la lesione normativamente rilevanteviene in considerazione come semplice atto materiale (…)idoneo a turbare il possesso altrui, sicché la molestia conse-guente a inosservanza da parte dell’agente di precisi precettinormativi rappresenta soltanto uno dei possibili modi pratici concui la turbativa può essere arrecata”. Nel caso di specie, il fattoche le immissioni eccedessero i limiti della normale tollerabilitàera stato puntualmente accertato dal giudice di merito, eopportunamente valorizzato dalla Suprema Corte, il che con-ferma che l’ingerenza per costituire molestia deve essere illecita.Il problema sfiorato dalla Corte è semmai quello che in alcunicasi i “precetti normativi” non sono sufficientemente “precisi”da essere applicabili senza una complessa valutazione delgiudice.

Un ormai remoto precedente di merito si è spinto a rigettare,richiamando espressamente il 2° comma dell’art. 844 c.c., edando prevalenza alle ragioni della produzione, la domanda,proposta in sede possessoria, volta a far cessare un’immissioneinquinante (221).

Per quanto riguarda la possibilità che il giudice condannil’immittente al risarcimento dei danni, si rinvia a quanto diremo,fra poche pagine, sul risarcimento del danno da lesione delpossesso.

(219) Cass. 20 marzo 1995, n. 3223.(220) Cass. 13 settembre 2000, n. 12080.(221) Pret. Gavirate, ord. 11 giugno 1966, in Foro padano, 1966, 1068.

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c) La lesione in cui si concreta la molestia deve avere unasua realtà e una sua effettività.

Non è molestia l’atto che induce in un generico timore di unafutura, eventuale turbativa (e la giurisprudenza ha negato acco-glimento ad un’azione di manutenzione esperita con riferimentoal pericolo di inquinamento del fondo dell’attore, che sarebbepotuto derivare dalla difettosa costruzione di opere da parte delvicino nel proprio fondo (222)).

Ma la giurisprudenza non è contraria a riconoscere all’azionedi manutenzione una funzione preventiva. Così ha affermato che“un’immutazione dello stato dei luoghi che non arrechi attual-mente danno al possesso altrui, può egualmente configurare unamolestia, se sia idonea a porre in dubbio o in pericolo siffattopossesso, ma a tal fine è necessario che la detta immutazione siaper sé stessa evolutiva nella direzione di uno specifico attentatopregiudizievole, oppure che sia accompagnata da univoche ma-nifestazioni, da parte di chi l’ha posta in essere, tali da denotareuna contraria pretesa” (223) (nel secondo caso, si avrà unamolestia di diritto, di cui diremo fra breve).

La molestia deve avere un’esistenza non completamentesaltuaria e non fuggitiva. Può sussistere anche se la lesione non èduratura, ma non c’è molestia se un atto, isolato, non genera iltimore di reiterazione.

d) Un insegnamento risalente colloca accanto alle molestiedi fatto, che turbano materialmente il possesso, le molestie didiritto, “che consistono in atti giudiziali o stragiudiziali, con iquali si contesta l’altrui possesso” (224).

Il punto merita qualche chiarimento.Non può costituire molestia del possesso l’accampare diritto

o l’intimare al possessore di comportarsi in conformità di un(preteso) diritto del notificante. Altrimenti, la comune letteraraccomandata che si invia al possessore prima di instaurare ungiudizio di rivendicazione costituirebbe molestia.

(222) Cass. 10 gennaio 1981, n. 251.(223) Cass. 29 gennaio 1990, n. 532 (si tratta di obiter). Nello stesso senso, cfr. ad esempio

Cass. 13 febbraio 1999, n. 1214.(224) In questi termini, MONTEL, Il possesso, cit., p. 540.

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La molestia inizia là dove il dichiarante contesti il possesso, enon il diritto, altrui, o pretenda il rispetto di un proprio pretesopossesso.

La distinzione è ben formulata dalla giurisprudenza, secondocui la molestia può realizzarsi anche senza attività materiali,“attraverso manifestazioni di volontà che devono però esprimerela ferma intenzione del dichiarante di tradurre in atto il suoproposito”; in tal caso è tuttavia necessario “che il possesso siaposto in pericolo; se le manifestazioni di volontà (…) sono volteall’affermazione di un diritto (proprio) e alla negazione di undiritto (altrui) senza far temere imminenti azioni materiali con-trastanti con la situazione di possesso, si è in presenza solo diespressioni intese ad evitare, se possibile, una controversiagiudiziaria” (225).

6.6.5. La violenza e la clandestinità dello spoglio.

Il legislatore distingue due figure di spoglio: quello operato“violentemente o occultamente”, chiamato “spoglio violento oclandestino”, e quello “non violento né clandestino”, chiamato“spoglio semplice” (artt. 1168, 1° e 3° comma, e 1170, 3° comma,c.c.).

Le due figure, alla stregua della lettera del codice, appaionotrattate in modo diverso, ed è pertanto di grande interesseaccertare in cosa consistano i due fatti dequalificativi dellospoglio di cui all’art. 1168 — e cioè la violenza e la clandestinità.Il legislatore ha imperniato la sistematica delle lesioni del pos-sesso su tre contrapposizioni: possessore — detentore; molestia— spoglio; lesione violenta — lesione semplice. Il solo possessoreimmobiliare può reagire alle molestie e allo spoglio semplice.

Poniamo di fronte al dato testuale del codice il discorso dellagiurisprudenza.

“In tema di spoglio deve ritenersi violenta qualsiasi azioneche produca la privazione del possesso contro la volontà anche

(225) In questi termini, Cass. 24 giugno 1995, n. 7200. Nello stesso senso anche Cass. 19febbraio 1999, n. 1409.

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presunta del possessore, ancorché non vi concorrano veri epropri atti di violenza materiale” (226). Ricorre, dunque, spoglioviolento “anche nella privazione dell’altrui possesso mediantealterazione dello stato di fatto in cui si trova il possessore eseguitacontro la volontà anche soltanto presunta del possessore”,presunzione “sussistente sempre che manchi la prova di unamanifestazione univoca di consenso e che non è superata dalsemplice silenzio, fatto di per sé equivoco che non può essereinterpretato senz’altro come manifestazione di consenso o diacquiescenza” (227).

Dunque, solo una “una manifestazione univoca di consenso”esclude la violenza. Ma laddove esiste una manifestazione uni-voca di consenso, siamo in presenza di uno spoglio?

L’inciso “contro la volontà espressa o presunta del possessorespogliato” non aggiunge e non toglie nulla alla definizione dellospoglio. Definendo così la violenza, ogni spoglio è uno spoglioviolento.

La giurisprudenza svolge la “violenza” menzionata dal legi-slatore in un requisito implicito e tautologico, e così facendopone in essere una interpretazione abrogativa dell’espressione.

La giurisprudenza italiana rispetta una linea di evoluzioneche si è manifestata in molti ordinamenti e in molti momentistorici. Fin dall’inizio della trattazione abbiamo anticipato che laviolenza connotò figure di aggressione ai beni appartenenti adaltri in varii ordinamenti primitivi. Il diritto romano, il dirittoinglese, il diritto canonico ci offrono materiali per questa rico-struzione.

Peraltro, la evoluzione del diritto ha provveduto a liquidare latradizione favorevole alla dequalificazione della lesione solo seviolenta. Già la storia del diritto romano mostra come si siaannacquato, nelle regole dell’interdetto unde vi, il requisito dellaviolenza, che la regola giustinianea dà senz’altro presente quandola vittima abbandona il fondo per un ragionevole timore, o

(226) Cass. 23 febbraio 1981, n. 1101. Nello stesso senso cfr., ad esempio, Cass. 13 febbraio1987, n. 1577.

(227) Cass. 13 febbraio 1999, n. 1204.

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quando non può ripristinare la situazione anteriore alla lesionesenza ricorrere alla forza. L’azione canonistica di spoglio, ispirataoriginariamente all’orrore per la violenza, fu utilizzata in presenzadi qualsiasi ingiustificata perdita del possesso. Non è avvenutodiversamente in Inghilterra, per l’azione di trespass: il requisitodella lesione, espresso con la parole “vi et armis”, a distanza ditempo prese a considerarsi come non scritto, o non si scrisseaffatto, e la rottura del confine si estese concettualmente aqualsiasi violazione del confine, inteso come delimitazione idealedi uno spazio.

La evoluzione verso l’abbandono della violenza come requi-sito effettivo per la repressione dello spoglio è fondata su ragioniserie. Normalmente, la violenza non nasce da una decisionedell’aggressore, ma dalla resistenza fisica della vittima.

Concedere il rimedio solo se ci fu violenza fisica equivale astatuire che la vittima ha l’onere di opporre resistenza fisica, sottopena di decadere dal rimedio. Può essere una soluzione appa-gante in uno Stato fragile, che non può garantire l’ordine edemanda all’autotutela la conservazione della pace sociale; non èuna soluzione pensabile in un ordinamento moderno. Il deten-tore o il possessore mobiliare non possono essere penalizzatiperché hanno preferito cercarsi un avvocato piuttosto che ado-perare il bastone.

La giurisprudenza ha assimilato allo spoglio violento lospoglio semplice. In questo modo, il detentore beneficia dellarepressione dello spoglio semplice. Il detentore, ridotto dallalegge ad una protezione marginale, viene avvicinato dalla giuri-sprudenza alla posizione del possessore.

La violenza morale è equiparata a quella fisica (228); si precisache sono sufficienti a integrare il requisito della violenza “ancheatti di costringimento morale diretti contro la volontà espressa opresunta del possessore al fine di sottrarre al medesimo ilpossesso o impedirgliene l’esercizio” (229). Ritraducendo questaaffermazione nel linguaggio della giurisprudenza, diremo che lo

(228) Cass. 24 aprile 1959, n. 1227.(229) Cass. 29 giugno 1985, n. 3896.

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spoglio si considera contrario alla volontà della vittima anche làdove la volontà della vittima sussistesse, ma fosse prodotta daminaccia o altro elemento che ne distruggesse il valore. Lagiurisprudenza, però, precisa che la frode non elimina il con-senso, ancorché viziato (230); chi perciò consente perché ingan-nato ha altri rimedi, ma non può lamentare lo spoglio.

Quanto al requisito della clandestinità, bisogna innanzituttosegnalare che esso svolge un ruolo diverso da quello a cui lodestinava la lettera del codice. Se qualunque spoglio è violento, ilcarattere clandestino della lesione diventa un elemento superfluoe irrilevante ai fini della possibilità per l’attore di reagire allospoglio. Lo spoglio avvenuto all’insaputa della vittima (e dunquesenza il suo consenso) è sempre, secondo la giurisprudenza, unospoglio violento (231). La discussione sulla clandestinità si fainvece in relazione al decorso del termine di cui all’art. 1168, 1°e 3° comma: in caso di spoglio, l’azione deve essere propostaentro un anno dal fatto; ma, se lo spoglio è clandestino, il terminedecorre dal giorno della scoperta.

Secondo la giurisprudenza, si ha clandestinità non quando ilpossessore ha ignorato lo spoglio, ma quando “egli, usando l’or-dinaria diligenza e avuto riguardo alle concrete circostanze in cuilo spossessamento si è verificato ed è stato mantenuto, si sia trovatonella impossibilità di averne conoscenza” (232). Di conseguenza, “iltermine per l’esercizio dell’azione possessoria, in caso di espolia-zione o di turbativa clandestina, non decorre dall’effettiva scopertadel fatto lesivo, ma dal giorno in cui lo stesso avrebbe potuto esserescoperto usando la normale diligenza dell’uomo medio” (233).

Dietro la severità dei giudici, che impongono allo spogliatoun onere di diligenza nell’accertare le offese arrecate ai propriibeni, si intravvede una lotta del giudice contro i tentativi,

(230) Cass. 18 marzo 1975, n. 1048.(231) Significativa in questo senso è Cass. 29 gennaio 1993, n. 1131: “posto che lo spoglio

si considera violento quando avviene contro la volontà del soggetto passivo, si presume esserviviolenza anche nella semplice inconsapevolezza da parte di quest’ultimo dell’azione perpetratadall’autore dello spoglio”.

(232) In questi termini, Cass. 11 novembre 1986, n. 6589; Cass. 13 settembre 1991, n. 9585;Cass. 4 febbraio 1998, n. 1131.

(233) Così Cass. 25 febbraio 1989, n. 1044; Cass. 13 settembre 1991, n. 9585.

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pretestuosamente intrapresi dall’attore neghittoso, per rimettersiin termini dopo aver lasciato decorrere il termine legale per laproposizione dell’azione. Come spesso accade, essendo difficile laprova positiva della conoscenza, si equipara alla conoscenza laignoranza dovuta a colpa grave.

Significative sono quelle decisioni che respingono i tentatividi qualificare come clandestino lo spoglio sulla base della meralontananza fisica del possessore (risiedente in altra città o altroStato), attribuendo rilevanza alla presenza di “persone che inqualsiasi modo rappresentino il possessore” (234) (conduttori,custodi, congiunti incaricati di sorvegliare il bene), e che verosi-milmente lo hanno informato dell’avvenuto spoglio (235).

6.6.6. L’elemento psicologico dello spoglio e della mole-stia.

Per lungo tempo la giurisprudenza ha ripetuto che lo spogliodeve constare non solo del comportamento materiale, ma anchedi un requisito psicologico, battezzato animus spoliandi, definitocome la consapevole volontà di sovvertire la situazione possesso-ria, contro la volontà espressa o presunta del possessore (236). Inmodo analogo, la giurisprudenza ha a lungo richiesto, per laconfigurabilità delle molestie, l’animus turbandi, definito come lacoscienza e volontà di compiere un atto che implichi l’alterazionedell’altrui possesso, contro il divieto espresso o anche solopresunto del possessore (237).

Il requisito in esame non è menzionato dalla legge, ed è datempo contestato vigorosamente da una parte importante delladottrina (238).

(234) Cass. 4 febbraio 1998, n. 1131.(235) Cfr. Cass. 13 settembre 1991, n. 9585; Cass. 4 febbraio 1998, n. 1131.(236) Le sentenze sono troppo numerose per citarle. A mero titolo di esempio, cfr. Cass. 18

luglio 1985, n. 4226; Cass. 26 novembre 1986, n. 6978.(237) Cfr., ad esempio, Cass. 16 marzo 1984, n. 1800; Cass. 14 febbraio 1987, n. 1620.(238) Fra i primi e più vivaci oppositori della necessità dell’animus spoliandi, si possono

ricordare G. DEJANA, Un requisito non richiesto per lo spoglio: l’animus spoliandi, in Giur. compl.Cass. Civ., 1946, I, 159, e C. A. FUNAIOLI, A proposito di animus spoliandi e natura giuridica dellospoglio, in Foro civ., 1949, 34. L’opinione contraria alla necessità dell’animus spoliandi è molto

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Bisogna aggiungere che la giurisprudenza ripete spesso chel’animus spoliandi è “insito” nel fatto di privare il possessoredella cosa contro la sua volontà (239); e, di conseguenza, chel’animus spoliandi (o turbandi) si presume, una volta accertata lalesione del possesso (240). Ciò ha creato in qualche osservatorel’impressione che la giurisprudenza, che ha inventato il requisitodell’intento, finisca in pratica per vanificarlo, ricomprendendolonegli altri costituenti della lesione.

La Corte di Cassazione, nel 1994, con una decisione presa asezioni unite, ha dato l’impressione di recepire le critiche propo-ste dalla dottrina contro il proprio precedente orientamento. LaCorte ha condannato la dottrina dell’animus; innanzitutto, ledisposizioni del codice “prescindono del tutto dal c.d. animusnon conferendo ad esso alcuna rilevanza”; in secondo luogo, lastessa giurisprudenza che considera l’animus elemento essenzialedello spoglio e della turbativa “finisce col vanificarlo perché, puraffermando che per esso si richiede la consapevolezza delpossesso altrui e della contraria volontà dello spogliato o delmolestato, lo riduce poi a una semplice formula, affermando chesia insito (in re ipsa) nella materiale privazione o turbativa delgodimento della cosa”. La Corte ha ribadito tuttavia la necessitàdi un requisito psicologico, da ravvisarsi “nel dolo o nellacolpa” (241).

Dal 1994 coesistono due indirizzi giurisprudenziali almenonominalmente contrapposti. Alcuni giudicati si sono adeguatiall’indirizzo espresso dalla sentenza del 1994 (242), ma moltedecisioni sono rimaste fedeli alla tradizione, parlando di animusspoliandi o turbandi (243). La differenza concreta tra le duenozioni, del resto, non è stata chiarita (244).

diffusa in dottrina. Cfr., ad esempio, MASI, Il possesso, cit., p. 464; SACCO e CATERINA, Il possesso,cit., p. 303 ss.; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 842.

(239) Cfr., a mero titolo di esempio, Cass. 15 aprile 1982, n. 2281.(240) Cfr., a mero titolo di esempio, Cass. 27 maggio 1987, n. 4729.(241) Cass. S.U. 22 novembre 1994, n. 9871.(242) Cass. 28 maggio 1999, n. 5200; Cass. 1 dicembre 2000, n. 15381.(243) Cfr., ad esempio, Cass. 13 febbraio 1999, n. 1204; Cass. 22 giugno 2000, n. 8489;

Cass. civ. 23 febbraio 2001, n. 2667.(244) Qualche decisione sembra considerare l’animus come un requisito ulteriore, e più

stringente, rispetto al dolo o alla colpa. Così, ad esempio, Cass. 1 dicembre 2000, n. 15381

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Spostandosi sul piano dei risultati concreti a cui conduce laregola giurisprudenziale dell’animo, si devono analizzare quellesentenze che in circostanze particolari hanno respinto la do-manda di reintegrazione o di manutenzione per difetto di animo.Questa giurisprudenza sembra assegnare all’intento una funzionediscriminante. In realtà, non sempre è così. Nell’ambito in cuiopera questa giurisprudenza, il difetto dell’animo va spesso dipari passo con il difetto di un elemento oggettivo della fattispe-cie.

Spesso si afferma che esclude l’animus il consenso dellospogliato (che fa venir meno lo stesso elemento oggettivo dellospoglio) (245). Qualche volta la mancanza dell’elemento sogget-tivo maschera la presenza di una esimente tipica: così quandosi dice che manca l’animus nel comportamento di chi agisca inadempimento d’un obbligo giuridico discendente da un prov-vedimento autoritativo (246). In un caso si è escluso l’animusspoliandi “trattandosi di un bene incolto, senza alcun segnodel possesso di altri, che veniva preso in consegna in forza diun contratto di affitto stipulato con la p. a., e medianteoperazioni di recinzione effettuate, con l’intervento di funzionaristatali, senza alcuna immediata protesta o contestazione diterzi” (247).

In molti casi, dunque, il riferimento all’elemento psicologicoappare superfluo, essendo possibile escludere già sul pianooggettivo la presenza dello spoglio o della molestia.

Qualche volta invece la giurisprudenza sembra riconoscereuna effettiva rilevanza all’elemento soggettivo. Così una massimaripetuta statuisce che l’esistenza dell’animus può essere esclusa

respinge la tesi che “per l’esistenza dello spoglio o della turbativa del possesso richiede, oltre aldolo o alla colpa nella realizzazione della condotta costituente spoglio o turbativa, anche il cd.animus spoliandi o turbandi”, escludendo che il possessore debba “provare la consapevolezzadell’autore dell’aggressione di aver violata la norma posta a tutela del pieno e libero esercizio delpossesso”. In tal modo si contrappone al dolo o colpa “nella realizzazione della condotta” l’animuscome specifica consapevolezza della antigiuridicità della condotta stessa.

(245) Cass. 18 luglio 1985, n. 4226; Cass. 10 aprile 1996 n. 3291; Cass. 30 dicembre 1997,n. 13101; Cass. 22 giugno 2000, n. 8486.

(246) Cass. 7 febbraio 1981, n. 766.(247) Cass. 11 dicembre 1985, n. 6268.

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quando il convenuto provi “il proprio ragionevole convincimentocirca il consenso del possessore alla modifica od alla privazionedel suo possesso” (248). In almeno un caso, la giurisprudenza haescluso l’elemento soggettivo in presenza di un “errore scusabile”del convenuto, accusato di aver violato le norme sulle distanze traedifici, per la “palese obiettiva difficoltà nel ricondurre allaprevisione normativa, pur esaminata con la dovuta diligenza, ilcaso concreto” (249).

Non è chiaro, insomma, fino a che punto la stessa giurispru-denza prenda sul serio il requisito dell’elemento psicologico. Lamassima giurisprudenziale che richiede l’animo, ovvero il dolo ola colpa, in ogni caso non è da approvare.

L’evoluzione del diritto ha configurato il possesso come unaforma cadetta di appartenenza, protetta per le stesse ragioni dellaproprietà, e contro ogni genere di ingerenza; in questo quadro sispiega l’abbandono della tradizione favorevole alla dequalifica-zione della lesione solo se violenta (250). Il possesso, come laproprietà, merita di essere protetto con rimedii che prescindonodall’origine delittuosa dell’ostacolo che si frappone all’eserciziodel titolare.

Se Tizio usurpa incolpevolmente un cappotto potrà sempresottrarsi all’azione di reintegrazione restituendolo. La sua incol-pevolezza potrà esimerlo dalla condanna a risarcire il danno, manon dalla condanna a restituire prontamente il bene.

(248) Cass. 7 agosto 1982, n. 4447; Cass. 30 dicembre 1997, n. 13101; Cass. 21 febbraio2001, n. 2525. In realtà, le sentenze reperibili per esteso non testimoniano per l’effettiva rilevanzadell’elemento soggettivo. In Cass. 30 dicembre 1997, n. 13101 il convenuto aveva provato di avereffettivamente agito con il consenso del precedente possessore, che gli aveva consegnato le chiavidell’immobile. Cass. 21 febbraio 2001, n. 2525, invece, condanna il convenuto, considerato“consapevole di aver sovvertito la situazione di compossesso contro la volontà del soggetto passivoe di non agire secondo diritto”.

(249) Cass. 28 maggio 1999, n. 5200. Attenzione, però: la sentenza di merito aveva ritenutoche in ogni caso le norme locali invocate non fossero applicabili al manufatto costruito dalconvenuto. La Cassazione, rilevata la “incerta e non diretta applicabilità al caso di specie dellenorme locali in materia di distanze tra edifici”, condivideva la considerazione, “comunqueaggiuntiva” secondo cui “anche tale situazione contribuisse ad escludere l’elemento soggettivodella molestia in esame”. L’impressione, cioè, è che l’esclusione dell’elemento soggettivo corroborisemplicemente una conclusione a cui si poteva giungere per altra via.

(250) Vedi supra § 6.1.2 e 6.6.5.

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6.6.7. Le cause di giustificazione.

Dobbiamo domandarci se le comuni cause di giustificazione,previste in materia di fatto illecito, possano essere invocate da chiè convenuto in un giudizio possessorio.

La prima ipotesi che viene in considerazione è quella dellalegittima difesa, regolata dall’art. 2044 c.c.

Qualche volta si è parlato di una legittima difesa che faperdere il carattere di antigiuridicità dello spoglio se esercitata“con immediatezza”, onde non si potrebbe parlare di legittimadifesa se lo spogliato “compia a sua volta uno spoglio completa-mente distinto” (251). Forse più propriamente, si è parlato, insimili contesti, di “difesa privata del proprio possesso, anchemediante contrapposizione della forza”, richiamando il principio“vim vi repellere licet” (252).

In realtà, finché lo spoglio dell’attore è in corso, le iniziativedel convenuto costituiscono atti di resistenza all’aggressione. Soloimpropriamente si dice che il convenuto ha commesso unospoglio giustificato dalla legittima difesa; in realtà non ha com-messo alcuno spoglio, ma ha impedito il perfezionarsi dellospoglio dell’attore (e semmai invoca la legittima difesa persottrarsi al pagamento degli eventuali danni arrecati mediante lasua attività di resistenza). È chiaro, invece, sulla base del frasariodella giurisprudenza, che non può invocare la legittima difesa chi,avendo subito uno spoglio oramai perfetto, opera a sua volta unnuovo spoglio.

Un problema diverso è se l’art. 2044 possa essere invocatoper giustificare lo spoglio effettuato per la difesa di un benediverso dal possesso della cosa appresa mediante lo spoglio.

Se le azioni possessorie debbono vedersi come poste agaranzia di un regime cadetto di appartenenza, secondo laricostruzione che si è proposta nelle scorse pagine (253), allorabisogna concludere che il regime di appartenenza non può essere

(251) Cass. 8 novembre 1958, n. 3660.(252) Cass. 29 gennaio 1973, n. 277.(253) Vedi supra § 6.1.2.

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scalfito dalle circostanze che giustificano le lesioni apportate alpossesso.

Tizio cattura, ferendolo, un cane mordace, che il vicino hasguinzagliato per mettere a repentaglio la sua incolumità; ilvicino, sfrontato, chiede i danni e la restituzione. Non c’è dubbioche Tizio potrà bloccare la domanda di danni; ma, quandol’episodio è archiviato, deve restituire il cane.

Il discorso svolto in tema di legittima difesa è valido ancheper lo stato di necessità.

Le altre esimenti, bene sviluppate nel diritto penale, non ciaiutano a risolvere nessun problema nell’area che studiamo.L’adempimento del dovere pubblicistico di spossessare un sog-getto è al centro del meccanismo dell’esecuzione forzata degliobblighi di consegna, di rilascio, oltre che delle procedure dipignoramento ai fini della subasta e di altre procedure di questogenere. Ma l’operato dell’ufficiale giudiziario che precetta e poispossessa il debitore non appare come semplicemente coperto dauna comune esimente; ed infatti qui la legge non solo non vuolereprimere la condotta dell’ufficiale giudiziario che procede al-l’esproprio, ma vuole precisamente far cessare, in un modo onell’altro, il possesso dell’esecutato.

Così la libertà di chi esercita un diritto non interferisce nelnostro tema assicurando all’agente una causa di giustificazione. Invia normale, il proprietario non viene scusato se va a pigliarsi lacosa che altri possiede senza titolo (254). Le norme sul possessosono tessere del sofisticato mosaico che indica i modi prefissatiper esercitare e per difendere i diritti sui beni che ci apparten-gono. Il sopravvenire di una “causa di giustificazione” la qualeoperi, in modo generale, ovunque sia configurabile un “eserciziodel diritto sul bene” sconvolgerebbe di colpo l’equilibrio volutodal legislatore.

L’aggressione dell’altrui sfera è talora lecita; ciò avvienequando il regime di appartenenza dei beni esige esso stesso lospoglio o la turbativa, perché esige che il possesso del bene si

(254) Vedi infra § 6.6.13.

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trasferisca dal soggetto attuale all’agente o venga comunquemodificato ad opera dell’agente.

6.6.8. Le legittimazione attiva alle azioni possessorie.

L’azione di reintegrazione assicura una protezione minimalead un’ampia cerchia di legittimati. L’azione è data a chi haperduto al possesso, ma anche a chi aveva la semplice detenzione(purché non per ragioni di servizio o di ospitalità) ed è statospogliato.

L’azione di manutenzione assicura una protezione più estesaad una cerchia, apparentemente elitaria, di titolari di situazionipossessorie qualificate. Essa è concessa al soggetto del potere difatto corrispondente ad un diritto reale su immobili o suuniversalità di mobili, sempreché questo possesso sia statoacquistato in modo non violento né clandestino, e duri da oltreun anno continuo e non interrotto.

Abbiamo già illustrato come la giurisprudenza, vanificando ilrequisito della violenza, estenda l’azione contro lo spoglio sem-plice a tutti i soggetti legittimati sulla base dell’art. 1168 c.c.; lanostra attenzione si sposta allora sulla possibilità di agire,attraverso l’azione di manutenzione, contro le turbative.

In Germania, l’azione contro la turbativa (Störungsklage) èconcessa a qualunque Besitzer, anche privo di animus do-mini (255). In Francia il legislatore nel 1975 ha attribuito lacomplainte anche al detentore (256).

Anche in Italia, la lotta per l’estensione dell’azione di manu-tenzione al detentore è aperta.

Il problema è aperto soprattutto per il conduttore. C’è,innanzitutto, chi inscrive il diritto del conduttore fra i dirittireali (257). Questa via non ha bisogno, per tutelare il conduttore,di ridiscutere l‘art. 1170 c.c..

(255) Vedi supra § 6.1.3.(256) Loi n. 75-569, del 9 luglio 1975. Sul punto cfr. A. GUARNERI, Una legge francese sulle

azioni possessorie, in Rivista di diritto civile, 1980, I, 302.(257) In questo senso, cfr. C. LAZZARA, Il contratto di locazione (profili dommatici), Milano,

1961, pp. 109 ss.; M. COMPORTI, Contributo allo studio del diritto reale, Milano, 1997, pp. 327 ss.

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C’è chi invece, per ottenere l’allargamento dell’art. 1170 alconduttore, ne invoca una interpretazione evolutiva (258).

Altri autori hanno sostenuto la legittimazione del conduttoreall’azione di manutenzione sulla base dell’art. 1585, 2° commac.c., che consegna nelle mani del conduttore una parte delleragioni che competono al locatore nei confronti dei terzi (259). Inquesta prospettiva, il conduttore, legittimato ai sensi dell’art.1585 c.c., modella la sua condizione giuridica su quella dellocatore suo dante causa: l’annalità, la continuità, la pubblicitàdel possesso saranno l’annalità, la continuità, la pubblicità delpossesso del suo autore. Qualcuno sostiene poi l’estensioneanalogica dell’art. 1585 ad altre figure di detentori (260).

L’estensione dell’azione contro le turbative al detentore,stabilita dal legislatore in altri ordinamenti e caldeggiata in Italiada parte importante della dottrina, risponde a ragioni serie. Se ildetentore è molestato da un terzo, la soluzione più semplice èconcedergli l’azione, non costringerlo a invocare l’intervento delpossessore. In termini generali, “l’intelligenza giuridica mediasuggerisce che è più opportuno, soprattutto per il proprietarioconcedente, che l’affittuario si difenda da solo contro le aggres-sioni esterne” (261).

La giurisprudenza italiana, peraltro, risponde pienamente aqueste esigenze concedendo al conduttore un’azione, fondatasull’art. 1585, 2° comma c.c., diretta a far cessare le molestie deiterzi, azione che però non è qualificata come azione di manuten-zione (262). D’altra parte, la Corte di Cassazione riconosce ancheai titolari di diritti personali di godimento (e in primo luogo ai

(258) A. BELFIORE, Interpretazione e dommatica nella teoria dei diritti reali, Milano, 1979,specialmente pp. 30-74 e pp. 119-132.

(259) Cfr. SACCO, Il possesso, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, 1960, cit., p. 101;LIOTTA, voce Detenzione, in Enc. Giur., X, Roma, 1988, p. 6; GALGANO, Diritto civile, cit., p. 432.

(260) LIOTTA, op. loc. ult. cit.(261) A. GAMBARO e R. SACCO, Sistemi Giuridici Comparati, in Trattato di Diritto Comparato

diretto da R. SACCO, 2ª ed., Torino, 2002, p. 163.(262) Cfr. Cass. 14 ottobre 1987, n. 7609; Cass. 26 gennaio 1995, n. 939 (in entrambi i casi

l’azione, rivolta contro terzi, era diretta a ottenere la potatura di siepi che disturbavano ilgodimento degli immobili; nel secondo caso la Corte rettificava esplicitamente il nomen iurisdell’azione, proposta come azione di manutenzione ex art. 1170 c.c.). Sul punto, cfr. A. CHIANALE

e R. CATERINA, L’art. 1585 comma 2 c.c. e la tutela del conduttore, in Responsabilità civile eprevidenza, 2000, 253.

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conduttori) la possibilità di agire per ottenere la cessazione diimmissioni intollerabili, sulla base dell’art. 1585 2° comma e diun’applicazione analogica dell’art. 844 c.c. (263).

L’art. 1170 c.c. non tutela qualunque possesso, ma solo ilpossesso acquistato in modo non violento né clandestino.

Si suol dire che l’acquisto è violento o clandestino seprocurato mediante spoglio violento o clandestino.

Come si è visto, l’aggettivo violento, posposto al sostantivo“spoglio” contenuto nell’art. 1168 c.c., si intende come nonscritto (264). Trasponendo il modulo di lettura nell’art. 1170 c.c.,avremmo che il possesso acquistato mediante spoglio non giovaper ottenere protezione contro le turbative (perché qualunquespoglio è violento). Ma l’art. 1170 concede l’azione al soggetto ilcui possesso è viziato, allorché sia “decorso un anno dal giorno incui la violenza o la clandestinità è cessata”. Se noi riduciamo lospoglio violento allo spoglio generico, quando potremo conside-rare cessata la violenza?

Una ricostruzione razionale deve integrare i due requisitidell’ultraannalità e della non viziosità. Anche prima del compi-mento dell’anno, il possessore “pulito” può agire in manuten-zione, perché “unisce al proprio possesso quello del suo autore”(art. 1146 2° comma c.c.). Il possessore che non ha maturatol’anno è solo il possessore che ha acquistato da meno di un annomediante spoglio.

Il possessore vizioso e di fresca data è il possessore espostoall’azione di reintegrazione. La regola gli dice di non cercare lapagliuzza nell’occhio del vicino (che ascolta musica a un volumetroppo alto), finché deve rendere conto del fatto di essersiimpadronito dell’appartamento mediante una chiave fasulla.

Il discorso corre per quanto riguarda la violenza. Fin dalmomento dello spoglio la violenza è cessata; dopo un anno, ilpossessore è sottratto ad azioni possessorie recuperatorie, e puòagire in manutenzione.

(263) Cfr. Cass. 11 novembre 1992, n. 12133; Cass. 22 dicembre 1995, n. 13069. Sul tema,cfr. anche G. GABRIELLI, Sulla legittimazione a domandare la cessazione di immissioni, in Rivista didiritto civile, 1997, II, 627.

(264) Vedi supra § 6.6.5.

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Il discorso corre per quanto riguarda la clandestinità. Laclandestinità ritarda il termine per la proposizione dell’azione direintegrazione; allo stesso modo, ritarda il decorso dell’anno. Lanozione di clandestinità dovrà pertanto essere letta in modoomogeneo negli articoli 1168 e 1170 (265).

Il possesso deve durare da un anno. Questo requisito com-porta che la protezione possessoria opera se la lesione intervienequando il possesso è diventato ultraannale; se la lesione avvieneprima di questo momento, l’azione è respinta anche se propostaquando l’anno è maturato. Altrimenti, la regola dell’ultraannalitàconsisterebbe nell’imporre al possessore di fresca data di atten-dere il completamento dell’anno prima di agire, e ciò contro ilprincipio per cui se si attribuisce a qualcuno un potere d’azionesi deve spronarlo ad agire subito.

Si ricollega alla regola dell’ultraannalità il requisito dellacontinuità. Esso significa che il possesso deve protrarsi per unanno consecutivo; non implica invece che l’ingerenza del posses-sore debba essere qualificata da una assiduità speciale.

6.6.9. La legittimazione passiva alle azioni possessorie.

A quali criterii il legislatore si ispira, disponendo chi possaessere convenuto in un’azione possessoria?

Il legislatore ha davanti a sé due possibili criterii alternativi.In base al primo di essi, egli può concentrare la sua attenzione

sul fatto che dà luogo alla lite, ossia sull’aggressione al possesso,che si perfeziona quando la vittima ha perduto il possesso o haperduto le utilità che gli ha sottratte la turbativa. Questo eventostorico è irreversibile, e la legittimazione passiva colpisce coluiche, al momento della commissione del fatto, ne fu autore. Anchequando il processo si faccia a distanza di tempo, il soggetto daconvenire in giudizio si individua con riferimento al fatto storicolesivo, da cui inizia tutta la sequenza; e questa individuazione èimmutabile. Il criterio di cui parliamo è adottato nell’area della

(265) Vedi supra § 6.6.5.

460 IL POSSESSO III, 6.6.8.

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responsabilità aquiliana: l’autore del fatto illecito è legittimatopassivo, e la legittimazione si fissa al momento del fatto.

In base al secondo criterio, il giudizio è finalizzato a ripristi-nare la situazione che preesisteva alla lesione. Poco importa,sapere come la lesione è avvenuta. Importa invece domandarsiquale situazione sia di ostacolo al ripristino, a chi faccia capoquesta situazione ostativa, quale sia il possesso antagonista aquello dell’attore. Il legittimato passivo all’azione sarà colui, la cuisituazione deve essere sacrificata per ripristinare la situazione chepreesisteva alla lesione. Solo al momento dell’inizio della lite sisaprà chi debba essere convenuto. Il criterio in esame opera ades. nella rivendicazione. Il legittimato passivo è colui che possiede(o detiene) al momento dell’inizio della lite, perché è suo ilpossesso che dev’essere travolto se si vuole ripristinare il godi-mento del bene da parte del proprietario.

La concezione del giudizio possessorio come giudizio diresponsabilità delittuale inciderà sulla legittimazione passiva,ch’essa riserverà all’autore della lesione.

La concezione del giudizio possessorio come azione realereipersecutoria inciderà sulla legittimazione passiva, ch’essa riser-verà al soggetto la cui situazione possessoria sia di ostacolo alripristino della situazione possessoria originaria della vittima.

In particolare, venendo a parlare dell’azione di reintegra-zione, se l’azione è regolata come le delittuali sarà convenutol’autore dello spoglio violento o clandestino; se l’azione è regolatacome le azioni reali, sarà convenuto colui che possiede almomento dell’instaurazione del giudizio.

La prima soluzione è più coerente con la concezione che vedela tutela del possesso come strumentale alla tutela dell’ordinepubblico. La seconda soluzione è più coerente con la concezionedel possesso come forma cadetta di appartenenza.

Vediamo quale soluzione è data al problema nell’ordina-mento italiano.

L’art. 1168 c.c. dispone che l’azione va proposta contro“l’autore dello spoglio”. L’art. 1169 c.c. ammette l’azione direintegrazione anche “contro chi è nel possesso in virtù di un

461IL POSSESSOIII, 6.6.9.

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acquisto a titolo particolare, fatto con la conoscenza dell’avve-nuto spoglio”.

La regola legislativa si intreccia con una regola giurispruden-ziale che considera legittimato passivo non solo l’“autore mate-riale”, ma anche l’“autore morale” dello spoglio; è consideratoautore morale sia il mandante, sia il soggetto che abbia successi-vamente approvato gli atti di spoglio, traendone profitto con ilfare propri gli effetti della lesione possessoria nella consapevo-lezza dell’illiceità dell’atto (266).

La giurisprudenza sembra prendere sul serio la necessitàdella consapevolezza dello spoglio commesso da altri. In un caso,i convenuti eccepivano il difetto di legittimazione passiva, inquanto lo spoglio era stato materialmente commesso dal dantecausa, il quale aveva poi venduto loro il fondo. Il giudice delmerito aveva ritenuto che, avendo approfittato dello spossessa-mento, i convenuti dovessero esserne considerati autori morali;la Cassazione ha censurato la sentenza di merito, affermando che“chi ha acquistato la proprietà del bene, con diritto alla consegnadella cosa, commette spoglio non in qualunque caso in cuicomunque ottenga dal suo dante causa l’adempimento, masoltanto se sia cosciente che lo stesso suo dante causa pereffettuare la consegna, abbia con violenza o clandestinità sot-tratto la cosa a chi la possedeva”, mentre nel caso di speciel’“indagine sull’animus” dei convenuti era stata preter-messa (267).

L’ordinamento italiano, dunque, si discosta dalla soluzioneche considera legittimato passivo solo l’autore della lesione, manon arriva a considerare senz’altro legittimato passivo colui chepossiede al momento dell’instaurazione del giudizio.

Gli interpreti tendono a trattare in modo omogeneo ilproblema della legittimazione passiva in tema di reintegrazioneed in tema di manutenzione. Molto spesso le sentenze cheequiparano all’autore materiale l’autore morale si riferiscono sia

(266) Cfr., ad esempio, Cass. 23 febbraio 1981, n. 1101; Cass. 14 marzo 1987, n. 2656; Cass.10 febbraio 1997, n. 1222; Cass. 8 giugno 2001, n. 7775.

(267) Cass. 25 maggio 1993, n. 5873.

462 IL POSSESSO III, 6.6.9.

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allo spoglio che alle molestie (268); ed in dottrina si è affermatoche legittimato passivamente è non solo l’autore, materiale omorale, ma anche “il terzo acquirente a titolo particolare dellacosa a mezzo della quale la molestia sia stata attuata, il quale siaconsapevole della turbativa” (269).

6.6.10. Oggetto delle azioni possessorie.

Le fonti che incontriamo in tema di spoglio confermano unprimo dato elementare: avvenuto uno spoglio, l’ordinamentomette a disposizione del soggetto spogliato un provvedimento direimmissione in possesso, al conseguimento del quale miranol’azione di reintegrazione dell’art. 1168 e l’azione di manuten-zione di cui all’art. 1170 3° comma.

La soluzione appare semplice e piana finché il possesso facapo all’autore dello spoglio o a un terzo consapevole, perché intal caso la restituzione nel possesso costituisce un rimedio rivoltocontro l’autore dello spoglio o il terzo, che sono parti nelgiudizio.

Le difficoltà cominciano a profilarsi quando la cosa sottrattaha cessato di esistere, quando la cosa sottratta è nelle mani di unsoggetto diverso dall’autore dello spoglio, quando l’attività dispoglio (di una servitù) si è concretata in una costruzione o in unadistruzione.

Quando l’autore dello spoglio ha “totalmente distrutto odisperso” la cosa sottratta al possessore, la giurisprudenza ritieneche, difettando il presupposto della possibilità del ripristino dellaprecedente situazione possessoria, l’azione di reintegrazione delpossesso sia “preclusa” (270) (salvo il diritto della vittima dichiedere il risarcimento del danno). “Nell’azione di reintegra-zione lo scopo della tutela possessoria è quello di ripristinare lostato di fatto preesistente e di restituire il possessore, che hasofferto lo spoglio, nel possesso della cosa; ne consegue che

(268) Cfr. (sia pure in obiter) Cass. 4 aprile 1987, n. 3272; Cass. 11 settembre 2000, n.11916.

(269) MASI, Il possesso, cit., p. 477.(270) Cfr., fra le ultime, Cass. 15 giugno 1982, n. 3635; Cass. 4 novembre 1993, n. 10939.

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quando quest’ultima sia venuta a mancare del tutto, l’azione direintegrazione non può essere proposta per l’inesistenza del suooggetto (senza che possa rilevare la possibilità della ricostruzionedello stesso)” (271). In applicazione di questo principio, la Cortedi Cassazione ha cassato la decisione di un giudice di merito cheaveva disposto la ricostruzione di un muro distrutto (272).

La stessa regola opera quando la cosa, senza essere distrutta,abbia subito modificazioni tali da renderla non più idonea allaoriginaria destinazione, alla quale si intende recuperarla. Così siè ritenuto che “il completo riempimento di una fossa perl’irrigazione ed il correlativo spianamento del suolo, in modo darendere impossibile l’individuazione della sua ubicazione” nedetermina “la cessazione dell’esistenza in rerum natura, e quindine impedisce la reintegrazione a termini dell’art. 1168 c.c.”; laCorte ha escluso anche di poter ordinare la ricostruzione dellares, “perché sarebbe posto in essere un quid novi, e non siotterrebbe la restituzione della medesima res, cui tende l’azionedi spoglio” (273). In modo ancor più sorprendente, la Corte diCassazione ha ritenuto impossibile la reintegrazione, e quindiimprocedibile l’azione, in un caso in cui il convenuto avevaostruito l’accesso a una nicchia mortuaria rinchiudendola in unacappella di nuova costruzione (274).

L’azione di reintegrazione non è invece preclusa in caso dimera modificazione reversibile della cosa. Così la Corte diCassazione ha confermato una sentenza di merito che avevacondannato il convenuto a ripristinare nello stato precedente unmarciapiedi parzialmente distrutto durante lavori di ristruttura-zione (275), affermando peraltro, in modo poco coerente con altreprecedenti decisioni, che le innovazioni relative a beni immobilisarebbero di per sé sempre suscettibili di rimessione in pristino.

Leggendo la giurisprudenza, non è sempre facile capire in

(271) Cass. 28 febbraio 1985, n. 1745.(272) Cass. 9 febbraio 1982, n. 776. Nello stesso senso, vedi già Cass. 13 luglio 1963, n.

1900, in Foro it., 1963, I, 1, 2134.(273) Cass. 29 maggio 1978, n. 2701.(274) Cass. 23 aprile 1969, n. 1316, in Giur. It., 1970, I, 1, 1247.(275) Cass. 3 luglio 1996, n. 6057.

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base a quali criteri essa distingue le modificazioni reversibili dallealterazioni che rendono impossibile la reintegrazione. Il chesembra abbastanza naturale, considerando che l’importanza dellaalterazione dipende dalla lente con cui la si guarda: la demoli-zione di un muretto è distruzione totale del muretto medesimo, elieve alterazione della casa di cui fa parte.

Sembrerebbe invece pacifico che quando lo spoglio o lamolestia si concretino nella costruzione di un manufatto ilpossessore possa chiederne la demolizione (276); tuttavia, larichiesta di demolizione costituisce domanda autonoma, che nonpuò ritenersi implicita nella domanda di reintegrazione, ed èsubordinata alle condizioni previste dall’art. 936 c.c. (277).

Il quadro degli orientamenti giurisprudenziali apre qualcheinterrogativo. Innanzitutto, balza agli occhi la differenza ditrattamento tra la costruzione lesiva, che dà luogo alla demoli-zione, e l’abbattimento lesivo del bene posseduto, che non dàluogo alla condanna alla refezione. La distinzione può lasciarespazio a casi dubbi (perché nella alterazione della cosa, come nelripristino, possono intrecciarsi demolizioni e ricostruzioni), e nonsempre la giurisprudenza la applica in modo coerente.

In secondo luogo, l’affermazione che difetta ”il presuppostodella possibilità di una reintegrazione della precedente situazionepossessoria” (278) appare ovvia in alcune circostanze (il conve-nuto distrugge un’antica stampa giapponese; il convenuto uccideun cane da esposizione); è meno ovvia quando si tratta di scavarefosse o ricostruire muri.

Il nostro tema si intreccia con quello della legittimazione delpossessore ad invocare l’art. 2058. In un’occasione la SupremaCorte ha statuito (coerentemente con gli orientamenti appenaesposti) che “contro l’autore di spoglio, che abbia distrutto lacosa, l’azione di reintegrazione in forma specifica, ai sensi e neilimiti di cui all’art. 2058 c.c., spetta soltanto al proprietario, nonanche al possessore della cosa sottratta” (279). Tuttavia, in tempi

(276) Cass. 5 dicembre 1987, n. 9031; Cass. 7 agosto 1990, n. 7978.(277) Cass. 5 dicembre 1987, n. 9031.(278) Cass. 4 novembre 1993, n. 10939.(279) Cass. 15 giugno 1982, n. 3635.

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più recenti la stessa Cassazione ha affermato, in termini generali,che “la restituzione in pristino (…) non incontra, per esserepronunciata, il limite reale del danneggiato e quindi non puòessere condizionata dal previo accertamento della titolarità, daparte del danneggiato, di un diritto di tale contenuto” (280); allaluce di questa posizione, sembrerebbe aperta, al possessore chevuole il ripristino della situazione di fatto antecedente allospoglio, la possibilità di invocare l’art. 2058 c.c. (purché, ovvia-mente, il ripristino non sia materialmente impossibile) (281). Aquesto punto, per mantenere una qualche coerenza con l’orien-tamento che non ammette l’azione di reintegrazione quando lacosa è distrutta, si potrebbe applicare il 2° comma dell’articolo,escludendo la reintegrazione in forma specifica quando essarisulti eccessivamente onerosa. Non sarebbe dunque applicabile,in tema di possesso, la doctrine, talvolta enunciata dalla Corte diCassazione (ma ancora da esplorare nelle sue effettive implica-zioni), secondo cui il 2° comma dell’art. 2058 non è applicabilealle azioni di tutela di un diritto reale (282).

Si potrebbe allora immaginare, ricomponendo ad unità i variorientamenti giurisprudenziali, una regola così costruita: fuori daicasi di impossibilità materiale del ripristino della situazione difatto, il possessore ha diritto al ripristino, ma solo se non èeccessivamente oneroso.

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha affermato che, fuori daicasi di assoluta impossibilità di conseguire la restitutio in inte-grum, è inapplicabile alle azioni possessorie il capoverso dell’art.2058 c.c. (283). La giurisprudenza, insomma, più che applicare uncriterio fondato sul calcolo costi-benefici, sembra inseguire unaincerta distinzione ontologica tra modificazioni reversibili (cheaprono la strada al ripristino, per quanto costoso) e distruzione o

(280) Cass. 16 marzo 1988, n. 2472.(281) P.G. MONATERI, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile diretto da R. SACCO,

Torino, 1998, p. 325, considera “completamente superata” dai più recenti orientamenti dellaSuprema Corte l’opinione espressa in Cass. 15 giugno 1982, n. 3635.

(282) Cfr. Cass. 4 novembre 1993, n. 10932; Cass. 29 maggio 1995, n. 6035.(283) Cass. 28 aprile 1985, n. 2935.

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alterazione radicale della cosa (che forse preclude addirittura alpossessore la possibilità di invocare l’art. 2058 c.c.).

Un ulteriore difetto di coerenza nella giurisprudenza emergequando si confronta l’orientamento appena descritto con laregola enunciata nei casi in cui l’azione è proposta contro l’autoredello spoglio non più possessore della cosa. Secondo la giurispru-denza, il fatto di avere il convenuto dismesso ogni rapportomateriale con la cosa e di non essere, quindi, in grado di dareesecuzione all’obbligo di reintegrazione del possessore spogliatonon esclude la sua legittimazione passiva, conservando pursempre la sentenza di condanna una sua utilità, quanto meno alfine accessorio di legittimare una richiesta di risarcimento deidanni nei suoi confronti (284). Perfino la restituzione intervenuta,per iniziativa spontanea dell’agente, prima che il giudice glieneabbia fatto ordine non elimina, secondo la giurisprudenza,l’interesse del soggetto passivo ad ottenere una sentenza cheesamini la fondatezza, nel merito, dell’azione possessoria (e su cuil’attore potrà basare un eventuale separato giudizio didanni) (285).

A questo punto, però, sembra inconseguente che, distrutta lacosa, l’azione non sia proponibile, e invece lo sia quando la cosaè già stata riconsegnata al possessore leso. L’atteggiamento dellecorti dovrebbe essere omogeneo nelle due situazioni.

L’attore in manutenzione chiede, spesso, la cessazione, per ilfuturo, delle ingerenze del convenuto. Qualche volta, chiede unapronuncia puramente dichiarativa, di accertamento del suopossesso (così quando lamenti molestie “di diritto”). Come si èanticipato, quando la molestia ha lasciato tracce od opere lesive,l’attore può chiedere la riduzione in pristino delle cose e deiluoghi.

(284) Cass. 7 aprile 1987, n. 3356; Cass. 5 giugno 1990, n. 5389.(285) Cass. 13 febbraio 1987, n. 1578.

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6.6.11. Termine per la proposizione delle domande.

Le azioni possessorie possono essere intentate entro l’annodalla lesione (art. 1168, 1° comma; art. 1170, 1° comma, c.c.).

Ai fini della tempestività dell’azione possessoria si fa riferi-mento al giorno del deposito in cancelleria del ricorso (286).

Se la lesione consiste in uno spoglio clandestino, il terminedell’anno decorre dalla scoperta dello spoglio (art. 1168, 3°comma); sembra ragionevole che la medesima regola valga perogni ipotesi di lesione clandestina del possesso (compresa lamolestia o l’opera nuova), dato che la ragione del 3° comma cit.potrebbe risiedere non già nel fatto che la clandestinità dequali-fica lo spoglio, ma nella circostanza che essa impedisce al soggettouna tempestiva reazione (287).

Con grande frequenza la pratica deve decidere se, compiutipiù atti lesivi del possesso, distanziati nel tempo, l’anno decorradal primo o dall’ultimo di essi.

La giurisprudenza ha elaborato una coppia di massimecomplementari che vengono formulate come segue: “l’anno utileper l’esperimento delle azioni possessorie nel caso di turbativa odi spoglio posti in essere con più atti decorre dal primo atto senzache si possa tener conto di quelli successivi solo quando questisiano legati tra loro da un nesso di inscindibile dipendenza, cosìda costituire, nel loro complesso, una unica molestia o un unicospoglio, ma non anche quando si tratti di atti autonomi ciascunodei quali costituisca una turbativa o uno spoglio a sé stante, nelqual caso il termine annuale decorre dall’ultimo atto” (288).

In tema di molestie, si è poi precisato che il termine decorredall’inizio dalle molestie quando “i vari episodi (…) costituiscononient’altro che elementi, nella loro essenza e modalità lesiva, deltutto analoghi” e quindi da valutare “meramente ripetitivi” dellainiziale molestia turbatrice del possesso (sicché ad esempio si ènegata tutela contro le immissioni di rumori provenienti da una

(286) Cass. 4 novembre 1993, n. 10936.(287) Sulla clandestinità dello spoglio, vedi supra, § 6.6.5.(288) Così Cass. 15 luglio 1995, n. 7751; nello stesso senso, cfr. ad esempio Cass. 1

dicembre 1994, n. 10320; Cass. 23 marzo 1996, n. 2604.

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pasticceria che esercitava da anni la sua attività con le stessemodalità e gli stessi rumori) (289).

Dell’orientamento della giurisprudenza non si può che pren-dere atto; esso, tuttavia, può condurre ad applicazioni discutibili.

Il termine non decorre da un atto, ma da un evento (perditadel possesso, molestia). Gli eventi da considerare sono di diversanatura. La perdita del possesso è un evento istantaneo; potràessere reiterato, ma non è mai continuato. La molestia puòestrinsecarsi tanto in un fatto istantaneo quanto in un fattodurevole, e può avere intensità varie.

Il discorso sul termine non può essere il medesimo per i duetipi di eventi.

Trattandosi di eventi istantanei, il primo di essi produce uneffetto irreversibile, e gli atti susseguenti sono l’ovvio eserciziodella nuova situazione possessoria creatasi, e non possono costi-tuire lesioni nuove. Nel caso di reiterazioni, seguite da recuperi,ogni nuova lesione è un illecito a sé stante, e dà luogo al decorsodi un termine del tutto nuovo.

Trattandosi di eventi continuati o iterativi, la gravità dellalesione è in funzione della intensità, della frequenza, ma anchedella durata della lesione. Un fatto nuovo, aggiunto ai fattiprecedenti, può essere la goccia che fa traboccare il vaso.

Il termine annuale è pacificamente un termine di decadenza.La decadenza non è rilevabile d’ufficio (290), ed è anzi rinuncia-bile (291).

6.6.12. La domanda di risarcimento del danno.

Una tradizione che risale al diritto romano ricollega allalesione possessoria una ragione risarcitoria. Anche nell’ordina-mento italiano, esiste un consenso pressoché generalizzato degliinterpreti sul fatto che la lesione possessoria generi l’obbligo dirisarcire il danno subito dalla vittima (292). Le opinioni si

(289) Cass. 23 marzo 1996, n. 2604.(290) Cfr., ad esempio, Cass. 11 agosto 1997, n. 7481.(291) Cfr. Cass. 8 luglio 1983, n. 4599 (in obiter).(292) Cfr. ad esempio, C. TENELLA SILLANI, Il risarcimento del danno da lesione del possesso,

469IL POSSESSOIII, 6.6.12.

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diversificano invece sia sulle voci di danno concretamente risar-cibili, che sull’inquadramento della responsabilità (che alcuniriconducono nella figura generale delineata dall’art. 2043, altriconsiderano implicitamente ricompresa nei rimedi possessoriregolati dagli artt. 1168-1170 c.c.) (293).

Senza pretendere di fornire una descrizione dei vari orienta-menti, proviamo a delineare alcuni punti che sembrano ragione-voli e che rispecchiano, almeno in qualche misura, le scelte dellagiurisprudenza (la quale, peraltro, al di là della generica adesioneall’idea della risarcibilità del danno, non si muove con perfettacoerenza).

Giova partire da una sentenza elaborata con molta consape-volezza (294), che decide un caso in cui il convenuto ha estrattoghiaia da un fondo posseduto dall’attrice, ma, secondo il conve-nuto, appartenente al demanio dello Stato.

La Suprema Corte si misura con la tesi, sostenuta in unremoto precedente dalla stessa Cassazione (295) e condivisa dalgiudice del merito, secondo cui altro è il valore del possesso edaltro è quello del bene oggetto dello spoglio: chi ha subito laperdita del possesso non avrebbe, secondo questa tesi, diritto alcontrovalore del bene perduto, ma solo al danno relativo allaprivazione del possesso sino alla pronunzia, dovendosi provve-dere per il resto in sede petitoria, nella quale si deve stabilire a chiappartiene il diritto reale sulla cosa.

La Cassazione distingue tra il caso in cui autore dello spoglioè lo stesso proprietario del bene e il caso in cui autore dellospoglio è un terzo, che non accampa alcun diritto sulla cosa. Inquesto secondo caso “non può avere ingresso la questione dellaproprietà”; una volta accertati gli estremi dell’illecito extracon-trattuale, non ha nessuna rilevanza la deduzione secondo cui ilbene posseduto dall’attore appartiene a un terzo: il convenuto ètenuto “a risarcire interamente il danno arrecato” al possessore,

Milano, 1989; MONATERI, La responsabilità civile, cit., p. 545 ss. In giurisprudenza, cfr., da ultimoCass. 23 febbraio 2006, n. 4003.

(293) La divaricazione è studiata in modo analitico in TENELLA SILLANI, Il risarcimento, cit.(294) Cass. 12 maggio 1987, n. 4367.(295) Cass. 24 gennaio 1957, n. 225, in Giur. It., 1957, I, 1, 976.

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e questo “dovrà, a sua volta rispondere nei confronti delDemanio o di altro eventuale soggetto che intendesse rivendicarela proprietà del terreno”.

La sentenza ha il merito di chiarire un punto: quando autoredell’illecito è un terzo, che non accampa alcun diritto sulla cosa,il possessore ha sicuramente diritto a ottenere l’integrale risarci-mento del danno, senza che ciò implichi un diritto del possessoreal danno che la perdita del possesso ha causato nella sua sfera. Inrealtà, la questione della proprietà, come dice la Suprema Corte,semplicemente non ha ingresso; l’aggressore non può difendersidicendo che un terzo è proprietario, e il giudice non ha bisognodi accertare questo dato.

In materia di risarcimento del danno, il nostro ordinamentosembra adottare un sistema fondato sul titolo migliore: il posses-sore può domandare il cosiddetto risarcimento del danno (ilvalore della cosa e dei frutti) da chi ha distrutto o danneggiato lacosa, poi il proprietario può rivolgersi (in separato giudizio) alpossessore per chiedergli il capitale da lui riscosso (oltre ai frutti,se il possessore è di mala fede).

Ad un sistema siffatto vanno riconosciuti due grandi van-taggi. Da un canto, esso assicura al possessore non proprietario ilconseguimento del valore della cosa, della quale egli è a sua voltaresponsabile nei confronti del vero proprietario; e consente poi alproprietario di rivolgersi direttamente contro di lui, anzichécontro lo spogliatore, che il proprietario non conosce. In secondoluogo, esso non richiede al possessore di discutere del suo titolodi proprietà contro un autore dell’illecito a sua volta estraneo aqualsiasi controversia sulla proprietà.

Ciò si inscrive perfettamente nella ricostruzione che si èproposta nelle prime pagine del fondamento della protezione delpossesso (296). Quando il proprietario è assente, il possessore,messo in condizioni di difendere il proprio interesse contro ipotenziali danneggianti o usurpatori, finisce per difendere gliinteressi del proprietario, ma anche l’interesse più generale dellasocietà a prevenire lo spreco e la distruzione delle risorse.

(296) Vedi supra § 6.1.2.

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Più incerto è il problema della tutela risarcitoria del posses-sore quando l’autore dello illecito è il proprietario della cosa. Lagiurisprudenza, aperta in linea di principio a concedere unrisarcimento al possessore, appare piuttosto incerta al momentodella concreta quantificazione del danno risarcibile; talvolta si fariferimento ai danni subiti per il perduto godimento del bene.

In un caso risalente (297), la Corte di Cassazione ha affermato,che, “come la reintegrazione deve essere ordinata indipendente-mente dalla sussistenza dello ius possidendi”, del pari, anche ovelo spogliatore sia proprietario, “devono essere restituiti i danniche siano dello spoglio conseguenza diretta ed immediata”, dalmomento che il risarcimento è sostitutivo della reintegrazione peril periodo per il quale la privazione del possesso è durata, ed anzi“la reintegrazione non sarebbe completa se, relativamente all’in-tervallo di tempo interceduto tra lo spoglio ed il recupero delbene, non fosse in sede possessoria riconosciuto il diritto di chiha subito lo spoglio al risarcimento dei danni inerenti alla perditadi quelle utilità che, per effetto dello spossessamento, non potèconseguire”. Lo spogliato, però, “non può chiedere se non ilrisarcimento di quel pregiudizio economico che si rimanda allaperdita del possesso ed al protrarsi di tale privazione; pregiudizioche, ovviamente, è diverso da quello derivante dalla definitivaperdita della cosa o del suo valore, e che può essere fatto valerecome titolo di risarcimento solo in via petitoria e a condizione chelo spogliato dimostri, in quella sede, di essere titolare del dirittodi proprietà”.

La logica sottesa alla decisione citata si potrebbe riformularecosì. Il nostro ordinamento ha deciso di tener fuori le questioniinerenti alla proprietà dal giudizio possessorio; allo stesso modo,il giudice, constatato uno spoglio, deve disinteressarsi dellaproprietà, e concedere allo spogliato i danni temporanei, dovutial mancato godimento del bene. In altra sede si accerterà chi èproprietario del bene, ed eventualmente, se lo spogliato èproprietario, potrà chiedere il valore della cosa.

Un simile orientamento deve essere integrato con due preci-

(297) Cass. 24 gennaio 1957, n. 225, in Giur. It., 1957, I, 1, 976.

472 IL POSSESSO III, 6.6.12.

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sazioni. Innanzitutto, se lo spogliatore è proprietario, egli (quan-tomeno se il possessore è di mala fede) si vedrà in praticarestituire la stessa somma che ha dovuto pagare. Il possessoreottiene i danni dovuti al mancato godimento del bene nel periodocompreso fra lo spoglio e la restituzione. Questo godimento ètutt’uno con l’acquisto dei frutti, il quale a sua volta è consentitosoltanto al proprietario e al possessore di buona fede. Ai finidell’allocazione dei frutti — e dei benefici dipendenti dal godi-mento temporaneo del bene — il possessore di buona fede ètrattato come un proprietario; ma il possessore di mala fede nonha titolo alcuno, e deve restituire i frutti, e pagare il valore delgodimento del bene di cui abbia usato personalmente.

In secondo luogo, come vedremo nel prossimo paragrafo,oggi il nostro ordinamento sembre consentire, in certi limiti, allospogliatore di far valere le proprie ragioni petitorie in sedepossessoria; l’ordinamento non proibisce sempre e incondiziona-tamente la ragion fattasi al proprietario, e non concede alpossessore rimedi senza limiti contro la ragion fattasi del proprie-tario. Di ciò si dovrebbe tener conto anche in tema di risarci-mento del danno.

6.6.13. Il divieto di cumulo del possessorio e petitorio.

Il cardine dei rapporti intercorrenti tra giudizio possessorio egiudizio petitorio è contenuto negli artt. 704 e 705 c.p.c. L’art.704 riserva al giudice del petitorio ogni domanda che reagisca alesioni del possesso maturate nel corso dello stesso giudiziopetitorio. L’art. 705 nella sua formulazione originaria vietava achi fosse convenuto in giudizio possessorio di intentare giudiziopetitorio prima che il giudizio possessorio fosse definito, e, perquanto dipende da lui, eseguito.

Poiché la contemporanea trattazione del giudizio petitorio epossessorio suole chiamarsi “cumulo”, si dice che l’art. 705enuncia il “divieto di cumulo del possessorio e petitorio”. Divietodi cumulo significa divieto di trattare il petitorio prima che siadefinito il possessorio, e divieto di trattare in unico giudizio leragioni possessorie e petitorie.

473IL POSSESSOIII, 6.6.13.

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A questo punto è utile una precisazione. La lettera dell’art. 705c.p.c. vieta al convenuto di proporre il giudizio petitorio, non proi-bisce di proporre difese fondate sulla situazione extrapossessoria.

Ma un’interpretazione pacifica, fondandosi vuoi sull’art. 705,vuoi sul comma 4° dell’art. 1168 c.c. (che ordina al giudice diordinare la reintegrazione “sulla semplice notorietà del fatto”),vuoi sui principi generali del sistema, ha sempre vietato altresì alconvenuto di proporre un’eccezione petitoria, ossia di difendersichiedendo che si rilevi incidentalmente che lo spoglio o lamolestia era lecita perché proveniva da un avente diritto. In altreparole, gli interpreti hanno ricavato dalla preclusione dellaproposizione della domanda petitoria il divieto dell’invocazionedel diritto come causa di giustificazione della lesione possessoria.

La giurisprudenza applica con fedeltà la regola della impro-ponibilità della eccezione. Secondo una massima consolidata,“l’eccezione feci sed iure feci, sollevata dal convenuto nelgiudizio possessorio di reintegrazione, consente una valutazionedel titolo posto a sostegno di detta eccezione al limitato fine diacquisire elementi di prova in ordine alla esistenza ed estensionedel possesso che il convenuto opponga di avere sulla cosa perescludere o limitare quello ex adverso vantato, mentre è preclusaogni indagine sull’eventuale ius possidendi del convenuto mede-simo in considerazione del divieto di cumulo del giudiziopetitorio con quello possessorio, stabilito dall’art. 705c.p.c.” (298). La difesa feci sed iure feci è cioè sicuramenteaccoglibile se significa “ho operato in modo conforme alla miasituazione possessoria”, se cioè il convenuto vuole far valere lasua situazione possessoria; il convenuto non può invece far valerela situazione petitoria, che determina la sua pretesa al possesso.

Il divieto del cumulo è tradizionale (299), ed è sentito dagli

(298) Cfr., fra le tante, Cass. 5 dicembre 1988, n. 6583; Cass. 24 gennaio 1984, n. 580.(299) La parola tradizionale deve intendersi in senso relativo.In Italia il diritto comune, dai glossatori in poi, ammetteva la difesa petitoria nel giudizio

possessorio se di immediata soluzione, e questa regola permane nel diritto svizzero.Il divieto generale di cumulo è proprio invece della regola canonistica in tema di actio spolii.

Dall’actio spolii essa si è diffusa nel diritto francese; di qui, esso è penetrato nel diritto piemontesee poi italiano.

La regola canonistica-francese non è universalmente diffusa. In Germania la legge non è

474 IL POSSESSO III, 6.6.13.

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interpreti come qualcosa di ovvio, anche in assenza di unaesplicita enunciazione legale.

Il divieto di cumulo non opera se il giudizio petitorio non èproposto per secondo, e non è proposto da chi è convenuto nelgiudizio possessorio. Il divieto di cumulo del giudizio petitoriocon il giudizio possessorio opera pertanto nei soli confronti delconvenuto, e l’art. 705 c.p.c. non è ostativo alla proposizione, daparte dell’attore in possessorio, della separata azione petito-ria (300).

All’inizio del 1992, la Corte costituzionale ha ravvisatol’incompatibilità dell’art. 705 c.p.c. con gli artt. 3 e 24 dellaCostituzione (301). La Corte costituzionale ha osservato che ilgiudizio possessorio è organizzato dalla legge come procedi-mento speciale, con una prima fase di tipo interdittale improntataalle forme del processo cautelare. La cognizione sommaria delgiudice è giustificata dall’urgenza di intervento del braccio dellalegge per ripristinare uno stato di cose alterato dal comporta-mento arbitrario del terzo, ma è costruita in modo da arrecare alconvenuto, che sia titolare di un diritto sulla cosa, un sacrificiotranseunte e reversibile, cui porrà riparo il successivo giudiziopetitorio.

Secondo la Corte, “con questa concezione non è coerente —e perciò contrasta col principio di razionalità di cui all’art. 3 Cost.— l’assolutezza del divieto di invocare il proprio diritto che l’art.705 impone al convenuto, impedendogli non solo la proposizionedi eccezioni ex iure proprio nello stesso processo possessorio, maanche, fino a quando il processo non sarà conchiuso e la decisioneeseguita, la proposizione di un separato giudizio petitorio davantial giudice competente”. L’autonomia della tutela possessoria deve

chiara; la dottrina è divisa (la sua maggioranza consente che la ragione petitoria escluda lasussistenza della lesione possessoria); la giurisprudenza dà corso senza riserve all’eccezionefondata sul petitorio e al cumulo dei due contemporanei rimedii.

Si trovano maggiori notizie in G. A BECCARA, La Corte costituzionale ridimensiona la portata delcosiddetto “divieto del cumulo” tra possessorio e petitorio, in Quadrimestre, 1993, 594, pp. 614 ss.

(300) Cfr., ad esempio, Cass. civ. 13 maggio 1998, n. 4810; Cass. civ. 22 maggio 1998, n.5110.

(301) Corte cost., 3 febbraio 1992, n. 25, in Foro it., 1992, I, 616, nota di A. PROTO PISANI;in Giur. It., 1992, I, 1, 1634, nota di A. CHIANALE; in Riv. Dir. Proc., 1992, 1184, nota di P.POTOTSCHNIG; Le nuove leggi civ. comm., 1992, 790, nota di G. CIAN.

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essere bilanciata dalla condizione che il pregiudizio arrecato alconvenuto possa essere riparato mediante un altro giudizio.

La Corte ha fatto due esempi. “Quando si tratta di cosemobili non registrate, un pregiudizio definitivo e irrimediabileincombe soprattutto (…) quando lo spogliato risulti essere unladro, un ricettatore, un ritrovatore infedele o, come nella specie,un indiziato di truffa” che, rientrato in possesso della cosa, potràalienarla a un terzo di buona fede.

In materia immobiliare, l’esecuzione del provvedimento pos-sessorio arreca un danno irreparabile quando lo spoglio siconcreta nella costruzione di un manufatto; “in tal caso l’onere dieseguire la decisione prima di proporre il giudizio petitoriocostringe il convenuto a distruggere un’opera che, come risulteràdal successivo giudizio petitorio, aveva diritto di costruire”.

Secondo la Corte, nei casi di irreparabilità del danno inflittoall’avente diritto, l’esecuzione del provvedimento possessoriofrustra il giudizio petitorio, e si rende così manifesta unaviolazione dell’art. 24 Cost., non essendo in tal caso possibilesostenere che la tutela possessoria non preclude la tutela giuri-sdizionale del diritto del convenuto, ma soltanto la differisce a ungiudizio successivo.

La sentenza della Corte ha dato l’avvio a più di unaricostruzione.

Una prima lettura, che si appoggia senza dubbio ad alcunipassaggi del giudicato (302), suggerisce che la riforma operatadalla Corte legittimi chi è convenuto nel giudizio possessorio aintraprendere nella sede competente — quando sussista il peri-colo di danno — il giudizio petitorio (preceduto dalle eventualimisure cautelari idonee a bloccare l’esecuzione dell’eventualeprovvedimento possessorio). Secondo questa lettura, la Corte si èoccupata del divieto di azione (espressamente formulato dall’art.705 c.p.c.), e non del divieto di eccezione petitoria; essa ha

(302) Lo stesso dispositivo della sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 705c.p.c. “nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione dellacontroversia possessoria”. L’impressione, tuttavia, è che alcuni commentatori si siano fattiinfluenzare in misura eccessiva dal mero tenore letterale di alcune affermazioni della Corte. Peruna analisi puntuale, cfr. A. BECCARA, La Corte costituzionale, cit.

476 IL POSSESSO III, 6.6.13.

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ammesso la proposizione di un autonomo giudizio petitorio, manon la proposizione di una eccezione petitoria nell’ambito delgiudizio possessorio (303).

Una seconda lettura muove dal rischio di incentivare “guer-riglie giudiziarie”, destinate a combattersi a colpi di provvedi-menti tra loro in necessaria collisione; richiama il principiogeneralissimo del processo che tramite l’eccezione si può farvalere tutto ciò che può costituire oggetto di una autonomadomanda; conclude che, nei limiti in cui la Corte ha sancito lacaduta del divieto dell’art. 705 c.p.c., il convenuto ha pienalibertà di tutelare le proprie ragioni di indole petitoria siamediante proposizione di apposita domanda, sia in via dimera eccezione (e tale sarà prevedibilmente la via più fre-quente) (304).

Un orientamento che pareva consolidato della Corte diCassazione ammette che il convenuto in giudizio possessoriofaccia valere il diritto che gli compete in via di eccezione.Secondo tale orientamento, il convenuto può opporre le sueragioni petitorie quando dalla esecuzione della decisione sulladomanda possessoria potrebbe derivargli un danno irreparabile,purché l’eccezione sia finalizzata solo al rigetto della domandapossessoria (e non anche ad una pronuncia sul diritto conefficacia di giudicato) e non implichi, quindi, deroga delleordinarie regole sulla competenza (305).

Successivamente la Corte di Cassazione (curiosamente igno-rando i suoi stessi precedenti) si è pronunciata in senso diverso,affermando che la pronuncia di illegittimità costituzionale hainfranto soltanto il divieto per il convenuto in possessorio di agire

(303) Interpretano in questo modo P. POTOTSCHNIG, La Corte Costituzionale attenua ildivieto di cumulo fra giudizio possessorio e petitorio, in Rivista di diritto processuale, 1992, 1184; G.CIAN, Eccezione ed azione petitoria, in Le nuove leggi civili commentate, 1992, 793.

(304) In questo senso cfr. A. PROTO PISANI, La Corte Costituzionale fa leva sull’irreparabilitàdel pregiudizio per attenuare il divieto di cumulo del petitorio col possessorio, in Il foro italiano,1992, I, 617; A BECCARA, La Corte costituzionale, cit.; S. CHIARLONI, Note minime sui procedimentipossessori, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1994, 69; SACCO e CATERINA, Il possesso,cit., pp. 360 ss.

(305) Cass. 22 aprile 1994, n. 3825; Cass. 6 dicembre 1995, n. 12579; Cass. 30 ottobre 1998,n. 10862.

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in petitorio, senza porre nel nulla il divieto di sollevare difese dinatura petitoria nel giudizio possessorio (306)

Rimane da precisare la figura del danno irreparabile, elevatoa circostanza determinante per la praticabilità del cumulo delpetitorio con il possessorio.

La Corte costituzionale, come si è visto, ha fatto due esempi.A quanto pare, tutti i casi in cui la Corte di Cassazione haconsiderato ammissibile il cumulo riguardavano manufatti di cuisi chiedeva la demolizione nel giudizio possessorio, e che ilconvenuto sosteneva di avere diritto di costruire (307). Nonrisultano, invece, casi relativi a cose mobili, di cui il proprietarioteme la alienazione a terzi di buona fede (proprio un caso diquesto tipo si discuteva invece nel giudizio che ha dato occasionealla pronuncia della Corte costituzionale).

In un caso (308) il convenuto sosteneva che il pregiudizioirreparabile va esteso al “danno giuridico derivabile al convenutodalla pendenza, oltre il limite del ragionevole, del giudiziopossessorio”, nella fattispecie rappresentato dal prossimo com-pimento del termine utile per l’usucapione della servitù contro-versa.

La Cassazione ha respinto tale argomento, affermando che“la nozione di irreparabilità del pregiudizio è stata dal giudicedelle leggi inequivocabilmente individuata nella perdita materialee irreversibile del bene”; ma non senza aggiungere che in effetti“tanto l’azione, quanto l’eccezione petitoria, ancorché irritual-mente esperita o sollevata nel corso del giudizio possessorio (…),sul piano sostanziale sono idonee ad interrompere l’usucapione”.

Una riflessione sulla figura del danno irreparabile devemuovere dalla constatazione che, se non si vuole restringere in unambito angusto l’eccezione al divieto di cumulo, la “irreparabi-lità” non comporta la impossibilità materiale del ripristino. LaCorte costituzionale ha citato, approvandola, una remota sen-

(306) Cass. 13 agosto 2004, n. 15753; Cass. 20 aprile 2006, n. 9285.(307) Cass. 22 aprile 1994, n. 3825; Cass. 26 gennaio 1995, n. 951; Cass. 6 dicembre 1995,

n. 12579.(308) Cass. 20 giugno 2001, n. 8367.

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tenza della Corte di Cassazione (309), che, sotto il codice previ-gente, aveva ammesso che un’azione possessoria fosse paralizzatadall’esercizio contemporaneo di un’azione petitoria, con conse-guente sospensione dell’ordine di demolizione, allo scopo dichia-rato di evitare all’economia nazionale “un inutile spreco diricchezza”. La Corte costituzionale vuole evitare lo spreco diricchezza che discende dalla demolizione di qualcosa che dovràessere ricostruito; e che discende allo stesso modo da qualunquealterazione o trasformazione importante a cui potrebbe seguire,in seguito al giudizio petitorio, un ripristino nello stato originario.

È interessante notare che, nel caso da cui è scaturita lasentenza del 1992, il bene mobile, di cui il convenuto temeva laperdita, non era un bene unico o insostituibile (si trattava di unaruspa).

6.6.14. La nuova opera e il danno temuto.

Come abbiamo accennato, un rimedio è previsto se vi èragione di temere che da una nuova opera sia per derivare dannoalla cosa che forma oggetto del potere di fatto; e altro rimedio èconcesso se vi è ragione di temere che un edificio, albero, o altracosa possa metta in pericolo di un danno grave e prossimo la cosache forma oggetto del potere (artt. 1171-1172 c.c.).

I rimedii sono concessi al proprietario o titolare di altrodiritto reale di godimento, e al possessore. Tuttavia, essi, d’abi-tudine, vengono illustrati quando si parla del possesso, e non,invece, nelle trattazioni sulla proprietà.

I rimedii, dal nome dell’atto che introduce la domanda, sichiamano denunce: rispettivamente, denuncia di nuova opera edi danno temuto.

Gli articoli citati regolano le denunce, le procedure e iprovvedimenti giudiziarii che ne seguono; e contengono precisiriferimenti ad una successiva trattazione e decisione del merito,così chiarendo che i provvedimenti degli artt. 1171 e 1172 hannocarattere cautelare.

(309) Cass. 29 gennaio 1929, n. 405, in Foro it., 1929, I, 242.

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