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VENEZIA, LA FABBRICA DELLA CULTURA Fabio Isman Marsilio Editori 1998

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VENEZIA, LA FABBRICA DELLA CULTURA

Fabio Isman

Marsilio Editori1998

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6.2) Altre istituzioni, fin troppo dimenticate

A soffrire non sono, tuttavia, soltanto le Gallerie dell’Accademia. Anche altre istituzioni di grandissima importanza, come per esempio l’Arciconfraternita di San Rocco, dove spiegano: «Siamo un’istituzione per antico Stato, il che significa che, essendo sorti nel 1748, precediamo tutte le normative attualmente in vigore». L’Arciconfraternita gestisce uno dei luoghi più “magici” dell’intera città, la cinquecentesca Scuola grande con l’importantissimo ciclo di teleri di Jacopo Tintoretto, «eseguito a più riprese in quasi 25 anni» 17, ed è costretta a vivere in condizioni spesso difficili: «Abbiamo una decina di dipendenti, ma in Cancelleria siamo tre persone che lavoriamo a titolo assolutamente gratuito; cerchiamo di salvarci trovando, ogni tanto, qualche sponsor; comunque, i visitatori sono circa centomila all’anno, non ci lamentiamo», dicono.Tuttavia, se a San Rocco non ci si lamenta, altrove il numero degli stessi visitatori è assolutamente insufficiente; spesso davvero esiguo; talora perfino ridicolo. La Ca’ d’Oro veleggia sulle 60 mila presenze all’anno («è un gioiello così delicato, che forse non vorremmo nemmeno averne di più», dice la soprintendente Nepi Scirè 18); ma il Museo archeologico, pur assai insigne e collocato a un passo dalla Basilica di San Marco, non raggiunge le 20 mila; e, per restare nel novero degli statali, quello d’Arte orientale è aperto solo di mattina (come, per altro, anche l’importante Archivio di Stato ai Frari), e viaggia sui cinquemila visitatori all’anno. Cioè, per capirci, una media di nemmeno 14 persone al giorno: due circa per ogni ora d’apertura. Un paio d’anni fa, ha incassato 11 milioni e mezzo: forse, il costo delle sole pulizie, e forse nemmeno. Eppure, «possiede collezioni incredibili; ben 15 mila pezzi, alcuni dei quali davvero straordinari, che i giapponesi, i quali spesso vi vengono in visita, dicono di non trovare, altrettanto ben conservati, nel loro paese», spiega sempre Giovanna Nepi. Per carità: un museo specialistico non può certamente puntare alle grandi masse; «ma così, all’ultimo piano di Ca’ Pesaro, a lungo chiusa per restauri, sacrificatissimo, è davvero anche assai poco invogliante». Da tempo pressoché immemorabile, attende una nuova sede: il già assai conteso Palazzo Marcello (molti gli avevano posto gli occhi sopra), acquistato dallo Stato, a questo scopo, nel lontano 1981. Ma spesso, i restauri sono come gli esami di Eduardo: non finiscono davvero mai.Le singolarità, nella Venezia dei musei, non si fermano tuttavia qui. Un’altra, tra le tante, è sicuramente costituita da quello Diocesano: un «museo di parcheggio», come lo definisce il responsabile, monsignor Gino Bortolan19. «Da noi, non c’è biglietteria, e il calcolo delle presenze è quindi relativo; nei giorni feriali, forse entrerà qualche decina di persone: ma anche centinaia quando vi sono delle mostre speciali; l’arte sacra non è popolare; da noi, spesso vengono dei gruppi: venti o trenta persone alla volta; talora, lasciano un saluto sul libro degli ospiti, dove abbiamo anche trovato scritto frasi come “Finalmente un museo in cui non si deve pagare l’ingresso”». E ancora: «Spesso, i visitatori sono stranieri: tedeschi o inglesi che hanno saputo dell’esistenza del museo da un articolo su qualche loro giornale, talora perfino anni prima; se lo sono messo da parte, e appena arrivati a Venezia se ne ricordano. Non possediamo una nostra collezione: ospitiamo quelle opere e quegli oggetti provenienti dalle chiese in cui sono in corso lavori di adeguamento dei sistemi d’allarme, o il cui parroco non è certo di poterli conservare con assoluta sicurezza; restano un po’ di tempo da noi, poi, quando i lavori sono stati compiuti, ritornano alle loro sedi originali». Questo, evidentemente, impedisce al Museo anche di possedere un catalogo.Ma pochi forse sanno che la sua sede è nell’ex convento benedettino di Sant’Apollonia, già Seminario Ducale e poi Imperial Regio Tribunale criminale, con il chiostro (dice sempre monsignor Bortolan) «più antico e meglio conservato della città: protetto perfino dalle acque alte grazie a uno speciale catino, che ha permesso il recupero del pavimento duecentesco; il demanio ne era proprietario, e l’aveva lasciato decadere a rudere: fu riacquistato da papa Giovanni xxiii, quand’era soltanto il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, patriarca di Venezia»; e l’importanza di essere giunti fino allo stadio primordiale della sua costruzione, è davvero fondamentale, perché «i livelli di fondazione di qualsiasi fabbricato costituiscono, a Venezia, indicatori di eccezionale pregio e funzione» 20.Il chiostro presenta forme romaniche di terraferma, del tutto eccezionali per la città; al centro, una vera di pozzo del Duecento; importanti vestigia archeologiche, organizzate in un lapidario; nelle sue sale ci sono, o ci sono stati, anche dipinti di prima grandezza e di autori famosi; ma la “colpa” di questo singolare museo, aperto soltanto due ore nelle mattinate feriali, è soltanto una: di

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trovarsi nel sestiere di Castello. Avulso dai soliti itinerari turistici organizzati e anche da quelli battuti dai “visitatori fai da te”, che nemmeno sono informati di quante bellezze e particolarità l’ex Serenissima conserva.Questo “viaggio delle occasioni mancate” potrebbe proseguire a lungo. Vediamone un altro caso: oggi, un unico frammento di quello che un tempo era il poderoso Arsenale veneziano è aperto al pubblico e regolarmente agibile; quella che un tempo, da fine Seicento, era la “Casa dei modelli”, devastata a fine Settecento e poi ricostruita, e che oggi è il Museo storico navale. Non sarà un esempio di allestimento moderno, ma è un istituto singolare, con eccezionali cimeli e la possibilità di un interessante percorso storico. Ancora una volta, però, paga il prezzo di colpe non sue: ha infatti il torto di sorgere in fondo a Riva degli Schiavoni, di non essere certo attiguo alla Piazza di San Marco, che a Venezia sembra quasi essere l’unica. E quindi, non raccoglie che poco più di 45 mila visitatori all’anno.

17 Giandomenico Romanelli, Tintoretto. La Scuola Grande di San Rocco, Milano, Electa, 1994 (Dentro la pittura).18 Colloquio con l’autore, settembre 1998.19 Colloquio con l’autore, settembre 1998.20 Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, Milano, Electa, 1983.

6.3) Mostre e musei da percorrere davvero a passo di carica

Qualche ulteriore caratteristica del modo assolutamente sommario e lacunoso con cui Venezia viene – come si dice oggi con un pessimo, ma forse irrinunciabile termine – “fruita”, riesce cioè a trasmettere il messaggio culturale di cui è assolutamente portatrice, ce lo forniscono altri interessanti indicatori. Dall’aprile 1989, le Gallerie dell’Accademia e la Ca’ d’Oro possiedono due veri e propri banchi di vendita di libri e pubblicazioni: due di quelli che ormai vengono chiamati bookshop, e chissà perché non invece librerie. Li ha aperti la Elemond, che ha vinto la gara per garantire ai musei i cosiddetti “servizi aggiuntivi”, sulla base della legge nota come Ronchey, dal nome del ministro che la volle; e «da quel giorno sono successe cose incredibili», dice in soprintendenza Roberto Fontanari 21. «Per esempio, è andata pressoché esaurita, con una rapidità disarmante e perfino imprevista, l’intera tiratura della Guida breve dell’Accademia 22, edita in quattro lingue. Abbiamo dovuto subito provvedere alla ristampa». «Nei punti vendita, la spesa pro capite, dal 1997 al 1998, alle Gallerie dell’Accademia è lievitata da 1.163,8 lire, a 1.884,6; e alla Ca’ d’Oro perfino dalle 769,4 del 1997 alle 2.041 di oggi. L’ammontare complessivo degli incassi è aumentato rispettivamente del 58,1 e addirittura del 153 per cento. Alle Gallerie. Il fatturato dei primi otto mesi del 1998 è stato di quasi 400 milioni, 150 più dell’anno prima». Dunque, il turista veneziano, è spesso, all’insegna del risparmio, un “pendolare mordi e fuggi”; ma chi invece mette piede nei musei, sembra perfino disposto a spendere. Lo confermava Alberto Rossetti, quando era responsabile del settore mostre e musei della stessa Elemond 23: «Venezia è una città, da questo punto di vista, assai migliore di molte altre». E spiegava: anche se per introdurre l’abitudine alle audioguide serve sempre un po’ di tempo, «siamo già a una quota del 13 per cento sul complesso dei visitatori che le richiedono, quando invece la media generale nel nostro paese è appena del cinque o sei per cento».Ancora più interessante è poi esaminare la capacità globale di spesa del visitatore dei musei veneziani: «Le variazioni», chiariva ancora Alberto Rossetti, «dipendono da una lunga serie di fattori: non solo dal tipo e dal livello di pubblico, ma anche dall’esistenza o meno di altre bancarelle che, in precedenza, lo possano aver tentato lungo il percorso; o dal fatto che il punto vendita sia collocato in un luogo di passaggio obbligato, o invece più discosto e quindi meno invitante: può perfino aver influenza anche l’esistenza di due soli, semplicissimi scalini». Comunque, il visitatore medio del Colosseo «spende per esempio circa 500 lire», cioè meno della metà di quello delle Gallerie dell’Accademia e circa un quarto di quello della Ca’ d’Oro («dove il punto vendita è in una collocazione eccezionale»). A Palazzo Massimo, nel nuovo Museo archeologico nazionale di Roma, la libreria, posta proprio all’entrata e all’uscita e fortemente specializzata sul tema e sul territorio, «convince la gente a spese fino a una media che rasenta le seimila lire per ogni visitatore». Ma, per quanto riguarda la spesa media, Venezia si posiziona su livelli superiori a quelli di Palazzo Ducale di Mantova e dello stesso Palatino e dei Fori a Roma; un po’ più in basso rispetto agli utenti di Palazzo Altemps, sempre a Roma, della Biblioteca

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Ambrosiana di Milano, e di Palazzo del Te a Mantova; e, rispetto all’anno scorso, globalmente «ha guadagnato un buon 23 per cento», anche depurando i dati dell’influsso della Biennale. Sì, perché «tra tutti i visitatori», concludeva Rossetti, «colui che in assoluto spende di più è proprio quello della Biennale: viaggia su una media di 12 mila lire a persona». E questa è certamente una potenzialità da sfruttare, ma ben altre ancora ne esistono.«Basti pensare», spiega l’assessore Rumiz, «al tempo medio di permanenza delle comitive a Palazzo Ducale, valutato in soli venti minuti: dieci secoli di storia corsi a passo di carica. Dobbiamo incrementarlo, anche qualificando i nostri musei: prestando più attenzione sia all’informatica, che alla didattica». E poi, diversificare; il problema (o uno dei) che Venezia ha, in fondo non è molto dissimile da quello del Louvre con la Gioconda, o dei Musei Vaticani con la Cappella Sistina: tutti i turisti si precipitano, sempre e soltanto, a San Marco e dintorni. A Parigi, Monna Lisa è stata ormai confinata in un luogo dove l’eccessiva antropizzazione di cui è fatta oggetto almeno non complichi la visita agli altri fruitori; in Vaticano, si può solo “contenere” e regolare, con lunghi percorsi obbligati all’interno dei Musei, l’affluenza di pubblico nel “regno” di Michelangelo. Venezia ha invece bisogno d’itinerari alternativi, e, dice ancora Mara Rumiz, «non è tollerabile l’uso della città soltanto come sede e rappresentazione; siamo ormai al quaternario, visto che anche il terziario la sta abbandonando, e cioè alle attività e agli insediamenti che producono cultura; di questo c’è assoluto bisogno. Per esempio, è folle che la città, sede del Festival del cinema, non possieda nemmeno un teatro di posa: dobbiamo essere in grado di proporre qualche vantaggio, qualche servizio, a chi vuol venire qui per produrre qualcosa».Ma anche il sistema museale, deve riuscire a qualificare la propria offerta: «L’obiettivo deve essere, entro un paio d’anni, un fatturato di 35 miliardi», dice Giandomenico Romanelli 24, attento ed elegante storico dell’arte che dirige proprio quelli civici; peraltro, riconosce anche che «a parte il caso delle mostre, e un po’ durante i fine settimana, i prolungamenti d’orario, pur tentati, non hanno finora offerto grandi risultati». Importanti opere di ammodernamento del circuito museale di pertinenza del Comune sono in corso: interventi per un insieme di circa 165 miliardi, dei quali 43 per la sola area Marciana, 20 per Palazzo Fortuny e altrettanti per il Museo del vetro, quindici per Palazzo Ducale, e via di questo passo.«L’ambizione è di uscire dalla monocultura del turismo. Dobbiamo essere in grado di formulare una proposta culturale che riguardi soprattutto le scuole, ma non soltanto: anche quel pubblico giovane che con la scuola non c’entra. Nella mostra dedicata al 1848, abbiamo messo sul piatto delle offerte anche dei giochi di ruolo, veneziani contro austriaci; e abbiamo anche sperimentato il cybercafé, con buoni risultati da chi voleva venire a collegarsi in rete, in Internet», continua Romanelli. Sembra incredibile, ma a Venezia bisogna anche incentivare gli stessi ingressi gratuiti nei musei civici, cui hanno diritto tutti i cittadini residenti: «Forse, bisognerà limitarli a due soli mesi, agosto e dicembre; perché, con un’offerta che da normale diventa straordinaria, limitata nel tempo, contiamo di attirare più persone delle poche che ora si mostrano interessate all’agevolazione».Con chissà quali ritrovati, andrebbe tuttavia anche migliorato il modo con cui tanti visitano le mostre, e, in genere, si dedicano ai musei e al patrimonio storico ed artistico della città: ne escono soddisfatti, ma dopo un percorso compiuto, di solito, a gran carriera. Lo dimostra un’indagine, compiuta per l’Assessorato alla cultura, durante la mostra Leonardo e Venezia, a Palazzo Grassi (marzo-luglio 1992, 210 mila visitatori).La metà degli intervistati (il 52,33 per cento) era giunta in città in treno; il 21,82 per cento in automobile; il 6,14 con mezzi lagunari; il 5,51 in autobus pubblico; il 4,24 in pullman privato; il 9,96 con altri mezzi, aerei compresi. Poi, un terzo erano stranieri; degli italiani, circa un terzo veneti; e dei veneti circa un terzo veneziani. Un quarto impiegati, e un quinto studenti. Il 34 per cento tra i 26 e i 40 anni; il 28,80 tra i 41 e i 55; il 16,32 tra i 19 e i 25.

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Sette su dieci di loro, avevano dedicato alla mostra tra una e due ore; il 17 per cento, meno di un’ora; solo l’11 più di due. Tantissimi ne sono usciti “molto soddisfatti”: il 53,81 per cento (e l’esposizione non è stata una di quelle che, a Palazzo Grassi, abbiano richiamato maggiori quantità di pubblico); mentre il 37,50 era «abbastanza soddisfatto»; giudizi tutto sommato critici solo da meno del 9 per cento tra gl’interpellati. Interessante anche come avevano saputo della mostra: quasi il 32 per cento dai quotidiani; il 18 per cento dalla televisione o dai manifesti; quasi il 15 da periodici, e appena l’1,33 per cento dalle agenzie turistiche (che siano interessate a vendere piuttosto altri prodotti, su cui ricavano margini migliori?). Rari, infine (appena il 18,4 per cento) i visitatori solitari: tre su dieci con la famiglia, quasi quattro su dieci con degli amici, il 13 per cento in gruppo, appena l’1,5 con una guida.Molti, poi, erano autentici aficionados di Palazzo Grassi: solo il 29,7 delle donne e il 27,8 degli uomini era alla prima mostra nel luogo; e l’8,3 dei maschi, nonché il 3,6 delle femmine, ne avevano già visitate almeno otto; alla seconda esperienza circa uno su quattro, gli altri tutti più visite. Infine, netta è la distinzione tra il visitatore delle mostre, già di un livello – se così si può dire – superiore, e il turista “mordi e fuggi”: chi si era recato a Palazzo Grassi, in precedenza piuttosto che a Palazzo Ducale (solo l’8.7 per cento degli intervistati, anche se è il luogo che, in assoluto, a Venezia raccoglie più pubblico) aveva compiuto una puntata alle Gallerie dell’Accademia (14 su cento), o alla Guggenheim (il 10,4). Infine, la metà dei frequentatori di Leonardo, era andata a Venezia appositamente per quello, e non aveva compiuto altre visite. E tra quelle precedenti a Venezia (per chi non era al suo primo viaggio), la parte del leone l’avevano fatta le mostre di Canova (37,5), Tiziano (6,4), ma anche i dinosauri (5,2).Ora, però, conviene fare una pausa, se non vogliamo rischiare di scadere nel cahier des doléances delle occasioni sprecate; e vedere, invece, qualcosa che, perfino a Venezia, funziona in modo abbastanza esemplare. Perché, tra le istituzioni della laguna, e non soltanto tra quelle museali, ve ne sono alcune che, oltre a svolgere, con successo e in modo significativo i loro rispettivi compiti, possono anche diventare, e sovente già lo sono, un buon paradigma sotto i più disparati punti di vista.

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21 Colloquio con l’autore, settembre 1998.22 Le Gallerie dell’Accademia di Venezia, a cura di Giovanna Nepi Scirè, Guida breve, Milano, Electa, 1992 (Guide

Artistiche Electa).23 Colloquio con l’autore, settembre 1998.24 Colloquio con l’autore, settembre 1999.

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7) CINQUE “SUCCESSI ESEMPLARI”. PALAZZO GRASSI, GUGGENHEIM, GHETTO, CINEMA COMUNALE, TERRAFERMAIl panorama dei “successi veneziani” nel campo dell’industria culturale deve forse esordire con Palazzo Grassi: poiché le sue mostre raggiungono spesso picchi di visitatori quali poche altre nel paese, e perché esse, normalmente, incontrano un favore di pubblico, quale nessun altro luogo deputato alla cultura, e che organizzi soltanto delle esposizioni, può forse vantare. In Italia, infatti, non esiste un’altra istituzione analogamente accreditata di un livello così alto di frequentazione popolare, ma anche, nel medesimo tempo, di qualità scientifica e di notorietà internazionale assolutamente elevata. Di Palazzo Grassi è inutile ripetere qui la storia: è uno dei palazzi più insigni sul Canal Grande, iniziato a metà Settecento, dal 1951 sede dell’omonima fondazione culturale, restaurato all’inizio degli anni ottanta da Gae Aulenti e trasformato dalla Fiat in una possente “macchina da mostre”. Ma Palazzo Grassi si trova ora in un momento delicato: forse, non tanto perché è scomparso colui che ne è stato il presidente fin dalla fondazione (Feliciano Benvenuti, peraltro sostituito con Cesare Annibaldi), quanto perché Paolo Viti, l’organizzatore infaticabile di tutte le sue recenti, maggiori rassegne, ha purtroppo dovuto, per motivi di salute, rarefare il suo impegno. Dopo i primi anni, in cui ne fu direttore Pontus Hulten, ormai da due lustri la responsabilità scientifica era nelle sue mani; e Paolo Viti, certamente uno dei massimi organizzatori di cultura nel nostro paese, con all’attivo già una lunga stagione al vertice della cultura “targata” Olivetti (anche la famosa esposizione dei cavalli di San Marco, che girò per mezz’Europa, e tante altre), non è certamente un personaggio semplice da surrogare, per le capacità e le conoscenze che possiede, per la qualità e la quantità dell’impegno che ha sempre profuso.

Comunque, della ventina di mostre che Palazzo Grassi ha finora organizzato, soltanto due hanno raccolto meno di 100 mila presenze; e una dozzina possono invece vantare oltre 200 mila visitatori. Anche con “punte” eccezionali: l’esposizione, coordinata da Sabatino Moscati, sui Fenici, che (750 mila spettatori) nel 1988 costituì un autentico evento non soltanto nazionale;

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quella sui Celti del 1991 (che attirò ancora maggiore pubblico); la terza archeologica, sui Greci in Occidente nel ’96; e anche quella, recentissima, sui Maya. Mentre un apprezzabile riscontro ha avuto la rassegna, conclusa da poco, dedicata alla grande pittura di Venezia, e ai suoi rapporti con l’Europa del Nord.Certo, l’archeologia è la più apprezzata; come, peraltro, le mostre in assoluto meno “gettonate” risultano invece quelle dedicate all’arte più vicina a noi nel tempo: talché anche un grande innovatore quale Marcel Duchamp, di cui veniva presentata la prima rassegna completa nel nostro paese, non ha ottenuto il successo in cui gli organizzatori confidavano, superato (si intende in senso negativo) soltanto dallo svizzero Jean Tinguely. E forse, Andy Warhol ha fatto registrare un risultato migliore solo per il carattere, anche pubblicitario ed assai noto a livello popolare, di certe sue opere. Invece, la pittura “paga” unicamente quando è davvero di primissima qualità, e allora, si trasforma in autentico evento: rassegne pur importanti, come quelle sull’arte fiamminga e olandese e sull’espressionismo tedesco, non sono certo state tra le più apprezzate. Infine, penalizzati, anche perché è assai difficile esporli, i disegni: perfino quelli di Leonardo, oltre che gli inediti di Modigliani, infatti non primeggiano nella classifica dei grandi successi.Dopo qualche variabilità nei primi anni dalla sua fondazione, la politica di Palazzo Grassi prevede ormai «l’apertura di una mostra in primavera, e di un’altra a settembre; tranne il caso di quelle archeologiche, la cui durata, otto mesi, è superiore» 1, e con l’eccezione di un anno (il ’95) in cui una sola rassegna è stata organizzata. In molti casi, s’è trattato di esposizioni assolutamente originali per la tematica (gli anni italiani di Picasso; l’espressionismo tedesco; i disegni di Modigliani, ancora non pubblicati, né offerti al pubblico); in altri, perfino di mostre assai curiose per gli oggetti che presentavano (i modellini lignei dell’architettura rinascimentale; i due discussi “troni”, Ludovisi e di Boston, finalmente affiancati nella mostra dedicata ai Greci, la ricomposizione di una tela di Vittore Carpaccio, rimasta per metà a Venezia e per l’altra metà ora al Getty Museum in California).Ma Palazzo Grassi non si ferma a Venezia: anche per gli intuibili motivi promozionali che sottintendono la sua stessa esistenza, è una vera e propria ragnatela d’iniziative. La più recente, è la mostra sul barocco che, a Torino, nel Casino di caccia di Stupinigi (capolavoro anch’esso del barocco stesso), ha celebrato il centenario Fiat, con oltre 200 mila visitatori. E così, quella dell’architettura rinascimentale (appunto, con gli splendidi modelli in legno) ha viaggiato in numerose capitali del mondo; come quella sui Celti è stata accompagnata da una lunga serie di seminari internazionali in vari paesi, e via elencando. Per non dire poi dei cataloghi (Bompiani), che accompagnano ed illustrano ogni nuova iniziativa: sono veri e propri capisaldi di studio, ma anche rilevanti momenti dell’editoria, forti spesso anche di 700 pagine di saggi e di preziose immagini.Spesso, infine, Palazzo Grassi ha saputo rappresentare un buon esempio anche nell’integrazione tra un ente privato, quale esso è, e le istituzioni pubbliche, del paese e della città, con cui in più di un’occasione ha collaborato. Il progetto dei Greci in occidente era coordinato con lo stesso Ministero dei beni culturali, e l’organismo veneziano è stato una sorta di “capofila” di tutta una serie d’altre occasioni e manifestazioni sparse nell’intera penisola; per Leonardo e Venezia, invece, con la locale Soprintendenza ai beni artistici e storici si è manifestata un’unione di forze e intenti che deve evidentemente aver dato buoni frutti, se è stata ripetuta per la mostra, dedicata, dal settembre 1999 agli albori del nuovo millennio, al Rinascimento veneto e la grande pittura del Nord. Infine, di Palazzo Grassi bisogna anche sottolineare il ruolo di rilievo che occupa a livello internazionale: spesso, infatti, è una sorta di “ambasciatore” dell’immagine Fiat all’estero, e, per esempio, persegue una politica incessante di prestiti dai maggiori musei al mondo; forse, quella veneziana (anche per l’autorità e il prestigio del suo responsabile scientifico ed organizzativo) è rimasta l’ultima istituzione al mondo cui il Metropolitan o il Louvre imprestino ancora regolarmente i dipinti su tavola, che ormai non usa più (non lo fa, se non davvero assai di rado, nemmeno il nostro paese) lasciar circolare nel mondo. Le sue mostre, del resto, ogni volta sono in grado di presentare ed offrire quasi tutto il meglio che esiste nei musei dei vari paesi, riguardo al tema prescelto; ed è certo che nessun altro, in Italia, può vantare una simile caratteristica. In più, la loro inaugurazione, anche per il rango, la qualità e quantità degli invitati e la copertura mediatica che il Gruppo Fiat è in grado di assicurare, si fa evento; diviene sempre una di quelle occasioni in cui Venezia si trasforma in mirabile vetrina, da spendere con efficacia nel mondo.

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Di tutt’altro tenore è invece la Guggenheim Collection. Intanto, è appunto una collezione (Palazzo Grassi non possiede invece alcun corredo di opere proprie), e anche di estrema rilevanza. Quella accumulata dalla sapienza, nutrita anche con qualche pizzico di follia, della celebre Peggy (1898-1979), detta «l’ultima dogaressa», intima di Max Ernst, Robert Delaunay, Jean Cocteau, Marcel Duchamp, Jackson Pollock, Oskar Kokoschka, Fernand Léger e tanti altri, che ha dato origine a uno dei massimi musei d’arte contemporanea al mondo, rimasta per sempre come era: «Se dovesse venire a compiere un sopralluogo dal regno delle ombre, Peggy troverebbe intatta la sua collezione» 2. Quando lei lasciò gli Usa appunto per Venezia, nel dopoguerra, la partenza fu giudicata «una grave perdita per l’arte americana contemporanea» 3; e, di converso, fu un altrettanto importante acquisto, già fin da allora, per il capoluogo lagunare: nel 1948, l’esposizione della sua collezione, in un apposito padiglione della Biennale allestito da Carlo Scarpa, accanto alla rassegna degli Impressionisti curata da Roberto Longhi e alla retrospettiva di Picasso, destò grande sensazione: «Fu come stappare una bottiglia di champagne, un’esplosione di arte moderna dopo che la Nazione aveva tentato d’ucciderla» 4.La “parentela” con il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, ed ora con i capisaldi che l’istituzione ha creato a Bilbao e a Berlino, permette all’istituzione veneziana importanti scambi culturali, e concede, anche a basso costo, la possibilità di mostre interessanti e nuove. Di recente, inoltre, la Guggenheim ha ottenuto, per un discreto numero di anni, un lotto di importanti opere italiane del primo Novecento, appartenenti alla Collezione Mattioli (Morandi, Sironi, un bozzetto della Città che sale di Boccioni, cioè di un capolavoro che l’Italia non volle acquistare, per pochi milioni, negli anni cinquanta, ed è finito al Museum of Modern Art di New York 5), che da molto tempo in Italia era impossibile ammirare: ne hanno certamente impinguato in modo ulteriore le sale, e potranno anche essere esposte, in seguito, nelle altre sedi Guggenheim nel mondo. E ormai, sembra cosa pressoché fatta un suo “sdoppiamento”, con la creazione di un altro spazio espositivo all’ambitissima Punta della Dogana, il che, evidentemente, significherà ancora nuove occasioni di altre mostre ancora. Già oggi, la “casa di Peggy”, Ca’ Venier dei Leoni, settecentesco edificio rimasto al livello del piano terra (non si è mai capito se perché i Venier avessero finito i fondi, o perché i proprietari della dirimpettaia Ca’ Granda, edificata per i Corner da Sansovino, non volevano essere orbati della vista della laguna dall’edificio progettato da Lorenzo Boschetti; da qui, comunque, il soprannome di “Ca’ Nonfinita” 6), accoglie, ogni anno, più di 200 mila visitatori: 226 mila nel 1988, «cui vanno aggiunte almeno altre 15 o 20 mila persone che la visitano fuori orario», dice Philip Rylands, responsabile della struttura veneziana 7; una cifra cioè non molto lontana, per esempio, da quella delle Gallerie dell’Accademia. Nell’ultimo biennio, il trend è stato, per giunta, positivo, e buona parte dei visitatori di provienienza extra-italiana.Un’interessante innovazione, unica nei musei del nostro paese ma che in laguna trova applicazione da quasi vent’anni, riguarda poi i giovani, che affiancano gli unici cinque custodi in organico e permettono di tenere regolarmente aperte le sale, pur con un numero così ridotto di dipendenti stabili. I giovani, alla Guggenheim di Venezia, organizzano non solo la vigilanza, ma anche un accueil assolutamente senza eguali in nessun’altra istituzione, pubblica o privata, nel nostro paese. L’Intership Program, questo il nome dell’iniziativa, è davvero molto ambito: «Per nemmeno cento posti all’anno, oltre 600 domande», spiega Beate Barner 8, della Guggenheim.La cosa funziona così: borse di studio da un milione e 200 mila lire al mese, riservate a studenti purché – e lo vedremo – non italiani; quattro giorni alla settimana di lavoro nel museo (delle 11 alle 18, intervallo di un’ora per colazione), e tre liberi; un giorno ogni sette, partecipazione a una visita culturale organizzata, una volta al mese fuori Venezia; e, in più, la possibilità di accumulare i riposi, per chi, eventualmente, avesse altri angoli d’Italia da conoscere, o amici da salutare altrove; infine, non manca nemmeno il supporto per reperire un non sempre facile alloggio a Venezia: il che, spesso, significa farsi ospitare, oppure convivere con altri amici.Alla Fondazione Guggenheim, questi ragazzi fanno un po’ di tutto, anche per entrare in contatto con le diverse professionalità che esistono, e sono richieste, in qualsiasi museo: provvedono all’apertura e alla chiusura delle sale espositive, anche proteggendo ogni sera una buona aliquota di opere con speciali fodere su misura; si occupano dell’accueil e del guardaroba; prestano assistenza ai visitatori, nelle sale espositive, o negli uffici. In più, sono tenuti ad ascoltare un certo numero di lectures, tra cinque e sette al mese, e loro stessi devono tenerne almeno un paio ai loro colleghi (una, obbligatoriamente legata ai temi delle collezioni della Fondazione), spesso con contorno autogestito di pasticcini e salatini; li si vedono compiere delle visite guidate alle

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singole mostre, e il pubblico di solito ringrazia con prolungati battimani.

Non occorre aggiungere che l’audience internazionale del museo è soddisfatta della conoscenza dell’inglese che, oltre a quella dell’italiano, questi giovani, studenti universitari di arte, storia o materie simili, devono avere come da bando di concorso; e che, comunque, fa sempre più piacere essere osservati da una giovane ragazza, anziché da un custode in uniforme. Poi, «la rotazione degli incarichi», spiega ancora Beate Barner 9, «esclude la ripetitività e quindi, da una parte la noia e la monotonia, ma dall’altra anche l’assuefazione. All’entusiasmo per la novità, si accompagna, da parte di questi giovani, una grande apertura verso il pubblico; noi ne riceviamo in cambio anche il vantaggio di una grande flessibilità nel loro impiego. Non è un’esperienza pensata per risparmiare sulle spese del personale; ma un lavoro educativo, cui noi teniamo molto. Poiché i giovani lavorano qui da uno a tre mesi, noi dobbiamo continuamente spiegare loro come svolgere tutte le varie attività, dalla custodia del guardaroba a quella nelle sale, eccetera; ma, alla fine, si crea quasi un circolo: i ragazzi restano in contatto sia con noi che tra di loro, spesso li ritroviamo in altri musei, e così via. E certamente, in questo “lavoro sul campo” acquisiscono nozioni che potranno risultare loro utili».Dunque, un’esperienza interessante e formativa per studenti universitari; un’iniziativa che riceve sempre maggiore impulso (dal ’96 ad oggi, le persone coinvolte sono passate da 85 a 114), e

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che, come abbiamo visto, soltanto negli ultimi quattro anni ha riguardato quasi 400 studenti di ben 28 paesi. Ma rigorosamente non italiani. Perché, anche se ufficialmente non viene dichiarato, gli studenti italiani (che peraltro ancor oggi in scarso numero praticano le lingue straniere) sono esclusi da questo programma per paura del pretore: il timore, cioè, che ne venga decretata un’assunzione permanente obbligatoria. Agli italiani, sono invece riservate altre borse di studio, ma in numero minore: soltanto da una a tre all’anno, per prestare assistenza in un determinato ufficio organizzativo della collezione, ma non nelle sale espositive, e non a contatto con il pubblico. Più complesso è invece il discorso per quanto riguarda i rapporti con la città. Va subito sottolineato che il programma didattico della Guggenheim per le scuole è assolutamente valido: per non intralciare il normale afflusso dei visitatori, e per dedicare maggiore attenzione agli studenti, prevede perfino, su prenotazione, l’apertura gratuita, anticipata di due ore, e l’ingresso libero alle scolaresche dell’intero Veneto. E per una settimana all’anno, a tutti i residenti della provincia di Venezia viene pure concesso l’ingresso gratuito. Tuttavia, la Guggenheim è spesso considerata quasi come un corpo avulso dalla realtà veneziana; si potrebbe dire più un ospite (per giunta straniero), che non una reale protagonista della vita culturale cittadina, pienamente inserita nel suo contesto. «Paolo Costa ha parlato della percezione del nostro museo un po’ come una scatola chiusa, e forse ha ragione», riconosce Rylands 10. Un corpo avulso, e anzi spesso, a torto o a ragione, perfino osteggiato; come temuto. Forse, impaurisce la quantità di mezzi e di risorse di cui può disporre; forse, se ne diffida per gli inevitabili, stretti legami con la cultura made in Usa. Lo dimostra eloquentemente la querelle, protrattasi per anni e soltanto ora forse risolta, sull’uso della Punta della Dogana: luogo certamente dei più appetibili per qualunque funzione espositiva, ma rimasto troppo a lungo inutilizzato, senza che, da una parte, la città ne varasse un “progetto d’uso”, ma, nello stesso tempo, avversandone la concessione al Guggenheim.Comunque, un museo d’arte moderna e contemporanea di questo rilievo, nessuna città italiana può sicuramente vantarlo; e lo stesso Stato ne ha appena intrapreso la costituzione, con l’acquisizione, a Roma, di una caserma dismessa. La quantità e la qualità delle opere, il numero dei visitatori, nonché la stessa vitalità dell’istituzione veneziana, non sono nemmeno paragonabili alle altre realtà, non facenti capo allo Stato, che pure sorgono in alcune città italiane: dal Castello di Rivoli, al Museo Pecci di Prato, a quello di Rovereto. Non solo; ma, in Italia, spesso, anche chi possiede qualcosa di sia pur vagamente accostabile all’importanza della Guggenheim, come Milano con il suo Cimac, non sa nemmeno valorizzarlo adeguatamente: il Cimac, infatti, versa in condizioni assai perigliose; è da anni pressoché invisitabile (e nemmeno un assessore dai trascorsi di gallerista à la page, come Philippe Daverio, è riuscito minimamente a migliorarlo); non fa certo onore alla qualità ed alla quantità delle opere che accoglie (basti pensare alla famosa Raccolta di Riccardo e Magda Jucker, valutata anni fa una quarantina di miliardi, e provvista di eccezionali capolavori), e soltanto adesso, finalmente, il Comune ha deciso di provvedere.Oltre a Palazzo Grassi e alla Guggenheim Collection, Venezia, tuttavia, annovera anche altre esperienze significative, certamente di portata minore ma non di minore significato; ma altrettanto indicative di ciò che è possibile fare, e fare bene. Una, per esempio, riguarda il Museo ebraico, nel cuore del ghetto («Li Giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case, che sono in Ghetto appresso San Girolamo»: così comincia l’editto del primo “serraglio per ebrei” nel mondo, dove «oggi vivono press’a poco seicento ebrei, completamente inseriti nella normale vita della città» 11: più o meno, quanti erano, «circa settecento, di origine tedesca e italiana» 12 quando il ghetto sorse; la vicenda, continuò poi fino all’abbattimento dei portoni nel luglio 1797, dopo l’arrivo dei francesi di Napoleone). Dal 1990, il museo è affidato in gestione a una cooperativa, la Codess (divisa nei settori sociale e cultura; sedi anche a Vicenza, Udine, Torino, Bologna e Milano), che dà lavoro a oltre cento persone. In alcuni Comuni, ha aperto centri d’informazione per giovani, gestisce altri musei, fornisce personale e, con altre cooperative anche il servizio di guardiania, sia a quelli Civici veneziani, sia alla Fondazione Querini-Stampalia; da due anni organizza a Venezia il Salone dei beni culturali e, per il Festival del cinema, ha promosso il Venice Script & Film Market, mercato riservato ai film di qualità. Michela Zanon, la responsabile per il Museo ebraico, racconta 13: «Quando l’abbiamo preso in gestione, ci lavoravamo in tre persone; ora, siamo dodici. Il contratto con la Comunità, dapprima veniva rivalutato ogni due anni; l’ultimo, siglato nel 1995, ha validità fino al 2003. La gestione del

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museo fornisce alla cooperativa un utile dell’ordine del 20 per cento del fatturato». Perché, se ben gestiti, i beni culturali portano anche qualche soddisfacente risultato economico: ma non tutti, nemmeno a Venezia, mostrano evidentemente di saperlo. La progressione di audience che il Museo ebraico ha fatto registrare negli anni, è assolutamente significativa: dalle 38.903 presenze nel 1990, alle 72.831 dell’anno scorso, con una “punta” ancor maggiore nel 1996: un incremento dell’87,21 per cento in sette anni, cioè: un risultato ben superiore all’insieme dei musei italiani.I responsabili della cooperativa spiegano che almeno un quarto dei visitatori sono stranieri; che tre persone su quattro decidono di compiere le visite guidate (costano di più, ma illustrano anche l’ex ghetto); che elevata è l’affluenza, a prezzo ridotto, delle scolaresche: il 30 per cento del totale. La performance nel numero dei frequentatori è stata ottenuta praticamente senza organizzare od ospitare quasi nessuna mostra temporanea: una soltanto, sei mesi dal giugno 1997, nel quadro del secondo Festival di cultura ebraica (una tra le poche manifestazioni che ha visto il Museo ebraico interagire con altre istituzioni), ma che, come si vede, non ha prodotto alcun beneficio nel numero dei visitatori. A parte l’ideazione con il Comune, due anni fa, di un itinerario educativo, chi si occupa del Museo ebraico non ha contatti istituzionalizzati, né collaborazioni consolidate, con alcuna struttura culturale della città; infine, il successo è indubbiamente dovuto anche alle capacità dei giovani della Codess, e al loro sforzo per promuovere la realtà museale veneziana in tutte le manifestazioni culturali che riguardino l’ebraismo, in Italia e talora non solo.Un’altra delle non troppe innovazioni, peraltro abbastanza recente, è il circuito di 11 chiese, forse le più significative: dai Frari a San Polo, da San Giacomo dell’Orio a San Stae, a Santa Maria dei Miracoli, Santa Maria Formosa, San Pietro di Castello, Sant’Alvise, la Madonna dell’Orto, il Redentore e San Sebastiano. Dal febbraio ’98, l’ingresso costa duemila lire (tremila ai Frari); prima, ed era in vigore da mezzo secolo, un biglietto d’accesso esisteva, appunto, soltanto a Santa Maria Gloriosa dei Frari, che, oltre a splendidi monumenti e ad un trittico di Giovanni Bellini, offre ad esempio l’Assunta, il capolavoro che affermò Tiziano come il maggior pittore della Serenissima. Ebbene, i parroci si sono consorziati; hanno dato vita a un’associazione senza fini di lucro, di cui sono così i proprietari. Si chiama Chorus; dà lavoro a 24 persone (più tre collaboratori esterni), e gestisce l’intero circuito. Con risultati abbastanza soddisfacenti: da febbraio a fine settembre del primo anno, quasi 400 mila visitatori (per l’esattezza, 396.630), e un settembre giunto a quota 55.304. I mesi più “forti” sono, logicamente, quelli primaverili: 66.578 persone a maggio, 65.437 ad aprile.

L’iniziativa, tuttavia lascia anche qualcuno non poco perplesso: «Noi stavamo pensando a guide in due lingue e personale addestrato, a visite guidate per il circuito delle chiese; secondo noi, il progetto avrebbe incassato di che coprire i costi delle aperture; considero una mezza sconfitta l’imposizione del biglietto d’ingresso alle singole chiese da parte della Curia», dice la soprintendente Giovanna Nepi Scirè; ed «è una sorta di concorrenza, che i musei avvertono», aggiunge Romanelli 14.E c’è almeno ancora un’altra singolare novità, quantunque di dimensioni assai ridotte, quasi solo una stravaganza, che, almeno per la unicità, merita la citazione, e dimostra, ancora una volta, quanto la città sia cosmopolita: oltre alle varie orchestrine barocche, che si dedicano soprattutto ai più noti brani dei più noti tra i compositori veneziani dell’“età dell’oro”, a Castello, quasi in fregio a quel bonbon architettonico che è la chiesa di Santa Maria dei Miracoli, una delle prime rinascimentali della città (1481, Pietro Lombardo), di pomeriggio e di sera, tranne il martedì, è aperto un centro culturale, intitolato appunto Ai Miracoli, che forse non ha emuli nell’intera penisola. Pagando una piccola quota associativa (e lo fanno assai più gli stranieri, puntualmente di ritorno qui, che non gli italiani), si può fruire dei servizi a disposizione dei soci: bere qualcosa, rilassarsi su una poltrona o un divano, ma, soprattutto, ascoltare dischi, rigorosamente di musica classica. Qualche volta, serate “a tema”; la possibilità di essere informati sui programmi dei

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concerti in mezzo mondo. Un luogo dove la musica la fa da regina, e i melomani, di solito, si dicono soddisfatti. Perché anche questa (o, chissà, magari soprattutto questa) è Venezia. Del resto, Friederich Nietzsche affermò un giorno che «se dovessi cercare una parola che sostituisca “musica”, potrei pensare soltanto a Venezia»: chissà, forse tornerebbe a scriverlo ancor oggi.

1 Paolo Viti, colloquio con l’autore, settembre 1998.2 Thomas M. Messer, Nuovi progetti, in Grandi collezionisti, i Guggenheim, Firenze, Giunti, 1988 (allegato a «Art &

Dossier», n. 20, gennaio 1988).3 Karole P.B. Vail, con il contributo di Thomas M. Messer, Peggy Guggenheim: A Centennial Celebration, catalogo della

mostra (New York, Solomon R. Guggenheim Museum, 12 giugno-2 settembre 1998); Omaggio a Peggy Guggenheim, catalogo della mostra (Venezia, Collezione Peggy Guggenheim, 30 settembre 1998-10 gennaio 1999), prefazione di Thomas Krens, traduzione di Chiara Barbieri, New York, Guggenheim Museum Publications (Cinisello Balsamo, Amilcare Pizzi), 1999.

4 Così l’allora segretario di Peggy Guggenheim, Vittorio Carrain, in Vail, Peggy Guggenheim, cit.5 Laura Mattioli Rossi e Emily Braun, Capolavori della Collezione Gianni Mattioli, Milano, Electa, 1997.6 Kent, Venezia, cit.7 Philip Rylands, nel dibattito su L’industria culturale, cit.8 Colloquio con l’autore, settembre 1998.9 Colloquio con l’autore, settembre 1998.10 Nel dibattito su L’industria culturale, cit.11 Riccardo Calimani, Storia del ghetto di Venezia, Milano, Mondadori, 1995 (Le Scie).12 Veneto. Itinerari ebraici. I luoghi, la storia, l’arte, a cura di Francesca Brandes, Venezia, Marsilio, 1995 (Itinerari

ebraici, a cura di Annie Sacerdoti).13 Colloquio con l’autore, settembre 1998.14 Colloquio con l’autore, settembre 1998.

7.1) Mancano i cinema, e il comune si fa imprenditore

Ma tra i tanti paradossi che la laguna regala, ce n’è uno, certamente di assai maggior momento, che sicuramente bisogna raccontare, ed anzi sceverare per le non indifferenti implicazioni, sociali e di “mercato”, che reca con sé. In un tempo in cui numerosi Comuni mettono in vendita le proprie centrali del latte, o perfino le reti di trasporto urbano, e in cui la privatizzazione dei servizi procede comunque a passi di gigante, Venezia interviene invece direttamente, come ente locale e come imprenditore, nel circuito delle sale cinematografiche. E forse, era davvero doveroso che lo facesse, e perfino benemerito che l’abbia fatto. La città che fu dei dogi possiede, come solo alcune altre, un proprio Ufficio cinema; frutto, spiega Roberto Ellero 15 che non solo lo dirige ma ne è magna pars, «delle giunte di sinistra di metà anni settanta», che guardavano alle attività permanenti e sulle capacità dei Comuni di giocare un ruolo di coordinamento. E da allora, la sua presenza si è fatta indubbiamente sentire. Per esempio, racconta sempre Ellero, l’Ufficio s’è assunto l’onere della programmazione in una sala di Mestre, «che è diventata una sorta di riferimento per il circuito d’essai», ed ha stretti collegamenti con altri esercizi, di Padova e Treviso. Il risultato è che il Cinema Dante, 250 posti e non più, in un anno raccoglie 50 mila spettatori; «e l’iniziativa comunale, assunta in solido con il proprietario del locale che è il Dopolavoro ferroviario, nel senso che il Comune s’impegnava a ripianare il deficit o avrebbe potuto dividere i guadagni, da oltre cinque anni produce degli utili, sia pur limitati: tra i venti e i trenta milioni». Meno fruttuoso è invece l’accordo con il Cinema Accademia, in cui, nei giorni infrasettimanali (cioè, quelli abitualmente di minor affluenza), anche approfittando della sua vicinanza all’università, cioè al naturale bacino d’utenza per questo genere di proiezioni, l’Ufficio Cinema organizza rassegne tematiche o d’autore; e ormai del tutto tramontato un precedente, simile tentativo, con un’altra sala, il Cinema Olimpia, che ad un certo punto ha preferito, da locale di prima visione e d’essai, puntare a una programmazione quotidiana, ma di seconda visione.Comunque, l’intervento “parapubblico” per favorire cicli di qualità, a Venezia forse s’imponeva davvero: nel centro storico, sono rimaste, in tutto, cinque sale; di cui tre di prima visione, ma ridotte in condizioni ben lontane dall’ottimale. «Si sente che manca un imprenditore diciamo pure illuminato, come Gian Antonio Furlan che, a Mestre, dove il bacino d’utenza è certamente ragguardevole, poiché nel dopoguerra la città è passata da 30 mila a 200 mila abitanti, gestisce

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otto sale: tutte, tranne l’ex cinema del Dopolavoro ferroviario, dove appunto noi proiettiamo i film più, diciamo così, colti», spiega sempre Ellero. Nel centro storico, invece, esistevano degli spazi anche di imprenditorialità, tra l’altro perché esiste anche una richiesta, magari per un prodotto più selezionato: «Lo dimostra anche l’attività estiva: i 1.800 posti in campo San Polo che, in 50 serate, raccolgono 60 mila spettatori; tanto che ormai stiamo parlando della prima sala veneziana, anche se sala non è, per quantità di pubblico». Alle rassegne estive, e ad Esterno notte che proietta all’aperto le pellicole del Festival della Biennale, il Comune destina ogni anno 700 milioni. Ma l’Ufficio cinema non si limita a programmare: organizza anche due o tre corsi specifici all’anno, a tema (per esempio, sull’illuminazione di un “set”), di solito con un centinaio di attenti e coinvolti partecipanti, e perfino con simulazioni reali e non solo lezioni teoriche.«Ma a Venezia, nel centro storico, era forse il momento di dare una scossa a un sistema quasi bloccato. Per questo, invece di spendere ogni anno un centinaio di milioni in inutili fitti passivi, abbiamo deciso il grande passo», continua Ellero, il cui Ufficio costa circa un miliardo, ma può contare entrate per 700 milioni e quindi pesa per soli 300 sulle casse pubbliche. E spiega: il proprietario ha investito un paio di miliardi per rimettere a nuovo il Cinema Giorgione, e trasformarlo in una specie di prima multisala veneziana, con due (soli) locali di proiezione, da 220 e 100 posti; dal canto suo, il Comune ha deciso di prenderla in gestione: «Trenta film di prima visione al mese, più cicli monografici e rassegne specifiche; evidentemente, l’investimento si raddoppia: ma noi contiamo anche d’incrementare gli utili». Così, mentre altri Comuni dismettono le proprie attività, quello di Venezia è costretto, per la particolarità della situazione e la disaffezione degli stessi gestori, a farsi ancor più imprenditore.Non solo: ma, almeno nei mesi estivi, deve anche pensare, nonché provvedere, alle aree della città ormai totalmente dimenticate dal circuito cinematografico: «Due settimane di proiezioni in agosto a Pellestrina, ed è sempre il tutto esaurito; idem a Ca’ Savio, e qualcosa di simile anche a Favaro, dove ormai di sale non ne esistono più». E non solo in queste zone: «A Marghera, da vent’anni, il consiglio di quartiere collabora con un privato, e così riesce a proiettare almeno degli spettacoli all’aperto, perché di locali ne sopravvive uno solo». Ma, per esempio, a parte gli sprazzi del periodo del Festival che la Biennale organizza, è quasi dimenticato, con una sola sala, anche tutto il Lido: «Da dicembre a fine aprile, il venerdì, nella sala Volpi del Palazzo del Cinema organizziamo una stagione d’essai: raccoglie ogni giorno tre o quattrocento appassionati».L’assenza completa, in vaste zone del territorio, di ogni e qualsiasi struttura, e lo stesso decadimento di molte tra quelle esistenti, sono il punto finale di una crisi che viene da lontano, e che, come abbiamo visto, non riguarda soltanto Venezia. In Italia, negli anni cinquanta, l’industria del cinema era in pieno sviluppo: “staccava” anche 800 milioni di biglietti all’anno. La recessione è stata progressiva, e ha toccato il fondo negli anni ottanta; da allora, è iniziata una sia pur lenta ripresa, ed oggi in un anno, nell’intero paese, gli utenti cinematografici sono circa 104 milioni. Come dire, grosso modo, due biglietti a persona. Venezia supera questa media nazionale: nel centro storico, 250 mila biglietti all’anno, per una popolazione che, contando anche gli studenti non veneziani che ne frequentano gli atenei, si aggira sulle 80 mila anime. «Ma a Mestre», spiega sempre Ellero, «un film di cassetta incassa dieci o quindici volte più che non nel centro storico»; mentre questo gap si riduce, e non poco, per le pellicole d’autore; anche per quelle di Woody Allen, «che a Mestre incassano soltanto due o tre volte più che non nella parte insulare della città». Questo significa che la domanda del centro storico esiste, ed è anche abbastanza selettiva; abbastanza di qualità. Si attende anche, ma dato l’andamento dei lavori, come dicono nello stesso cantiere, non se ne parlerà comunque prima del 2003, il ritorno della sala del San Marco, acquistato, come l’intero edificio di cui fa parte e che comprendeva anche il Teatro del Ridotto, dalla famiglia Benetton.Per tentare di ampliare il bacino di utenza, il Comune di Venezia, e il Circuito Furlan di Mestre hanno anche messo a punto un “progetto studenti”, abbastanza innovatore. Prevede non solo riduzioni, variabili tra il 12 e il 27 per cento nelle programmazioni gestite dal Comune (ma anche del 33 per cento, in alcuni giorni o per alcuni spettacoli, nelle sale mestrine della famiglia Furlan); non solo spazi autogestiti dal Coordinamento studentesco sulle settemila copie del mensile «Circuito Cinema» edito appunto dal Comune e in distribuzione gratuita; ma soprattutto una sorta di “proiezioni a richiesta”. La possibilità cioè che gli stessi studenti, da marzo a maggio, scelgano, in due esercizi di Mestre, e al Giorgione di Venezia quando sarà entrato in funzione, tre

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spettacoli, non di prima visione, da far proiettare, e a cui assistere con un biglietto ridotto (seimila lire, contro prezzi che in certi casi raggiungono anche una cifra quasi doppia, 11 mila).Inoltre, a Venezia, sempre per continuare l’excursus sulle sue risorse cinematografiche affidate, in buona misura ed assai singolarmente, in mani pubbliche, due fenomeni che hanno toccato tante altre città, o ancora le investono, si sono manifestati assai meno che altrove. Pochi (uno al Lido nei giorni infrasettimanali, un altro paio in terraferma), e votati a una fine o una grave crisi prematura, i locali “a luci rosse”, tramontati in laguna prima ancora che in tante altre città; ma anche a lungo inesistenti, le multisale, che altrove invece hanno risollevato le sorti di più d’un esercente. Oltre al Giorgione che sarà una “mini multisala” poiché ne conterrà soltanto due, ne è stata allestita di recente una in terraferma; dove, ma a Marcon e cioè fuori dall’area comunale, dopo il successo dei precedenti esperimenti di Vicenza e Verona, e soprattutto di Roma dove un gran numero di spettatori, per lo più giovani, accorre quotidianamente alla Magliana, la Warner ha fatto nascere un altro dei suoi village multimediali integrati.Ma forse, le maggiori speranze per la resurrezione di un’industria del cinema a Venezia (dove operano alcune aziende, abbastanza esigue di dimensioni ma anche di qualche importanza), sono riposte nella nascita del Parco tecnologico di Porto Marghera, e in quel quadro le esamineremo; mentre quelle per un ritorno ad una fruizione meno sporadica e accidentata, nonché indirizzate alla nascita e lo sviluppo di nuove iniziative, oltre a quanto realizza l’Ufficio cinema del Comune, risiedono in buona parte nel futuro della Biennale, nella collaborazione che sarà possibile istituire con essa, con quanto di “permanente” riuscirà a realizzare, secondo i buoni proponimenti enunciati dal suo presidente Paolo Baratta e come conferma lo stesso responsabile della Sezione cinema, il dinamico Alberto Barbera.

15 Colloquio con l’autore, febbraio 1999.

7.2) Dalla terraferma, cenni di rinnovata vitalità

Ma forse, il destino di Venezia, anche del suo centro storico, e perfino nel campo se non della cultura in senso stretto almeno dell’“immateriale”, non si giocherà sulle sue Isole, bensì, ancora una volta, in terraferma. È infatti proprio lì che sta nascendo un Polo scientifico e tecnologico che non pochi benefici potrebbe recare a un quadro di sviluppo complessivo; ed è proprio dalla terraferma che provengono interessanti cenni di una certa qual vitalità. Vediamo, per esempio, il caso della Fenice: non di quella storica al centro della città, andata bruciata, ma del tendone al Tronchetto, isola altrimenti deputata soltanto al parcheggio, che in una provvisorietà per chissà quanto tempo ancora protratta, ora ospita il teatro.«Quella della musica era l’ultima impresa rimasta a Venezia, nel suo centro storico», dice Cesare De Michelis, ricordando anche come «il teatro veneziano fosse il secondo in Italia, o giù di lì, per importanza. Parte della pretesa rivalità tra Maria Callas e Renata Tebaldi s’è sviluppata anche qui. Arturo Toscanini vi era di casa. Le grandi prime di Verdi nell’Ottocento. Gli anni celebri in cui lo diresse Mario Labroca. L’importanza dei contemporanei: da quelli che la Biennale faceva intervenire, fino a Luigi Nono». Soltanto dal 1985, continua De Michelis 16, «accentuatasi la crisi veneziana, con la città ritrovatasi più povera, anche il ruolo della Fenice era diminuito: meno finanziamenti, meno proposte nuove, la scissione dalla Biennale». Ma tanto spesso, perfino per realizzare a Venezia alcune tra le moltissime pellicole cinematografiche che vi sono state girate, ricorda ancora, «si ricorreva proprio al personale della Fenice: macchinisti ed attrezzisti, magari alla fine dei turni di lavoro, o magari anche colpiti da qualche malattia, non si sa se più tempestiva o più provvidenziale».«Il teatro», spiega Cristiano Chiarot 17, «conta su 315 dipendenti fissi, che arrivano anche a 350 nei periodi più impegnativi»; trae le risorse in buona parte dai finanziamenti statali del Fus, il Fondo unico per lo spettacolo, le cui erogazioni globali, dal 1990 al ’97, si sono peraltro non poco ridotte: a lire costanti: dagli 891 miliardi del 1990, agli appena 653,12 del 1997 18, anche se formalmente, il Fus nel ’97 ha distribuito 900 miliardi, cioè undici in più di sette anni prima, e otto meno di quello precedente, contribuendo a finanziare settori d’attività assai disparati.I sei decimi del Fus spettano quindi alla musica; e sono assolutamente essenziali per mantenere in vita i 13 enti lirici di cui il paese dispone. Mentre altre risorse, certo assai meno consistenti, sono attribuite a 24 “Teatri di tradizione” sparsi nella penisola (due nel Veneto: il Sociale di Rovigo, beneficiario nel 1997 di 950 milioni, e il Comunale di Treviso, che ne ha ricevuti 1.512); a

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21 manifestazioni di lirica, di solito in centri minori; a 12 istituzioni concertistiche (anche l’Orchestra da camera del Veneto, sede a Padova: quasi due miliardi e mezzo). Infine, pochi spiccioli a 202 associazioni che fanno musica 19; a 11 provviste di un coro (nel Veneto, l’Asac, 13 milioni); a cinque enti di promozione (tutti nel Lazio); a quasi 200 altre iniziative 20 sparse per la penisola.Ai 13 enti lirici, il Fus ha concesso finanziamenti variabili, secondo alcuni indicatori che qui sarebbe troppo complesso spiegare. Comunque, nella graduatoria delle erogazioni, la Fenice viene al sesto posto, dopo la Scala, Roma, Firenze, Palermo e Napoli. Logicamente, ai fondi statali vanno poi aggiunti quelli degli enti locali (quasi 40 miliardi al Massimo di Palermo dalla Regione; quasi 17 miliardi all’Opera di Roma, sensibilmente aumentati l’anno successivo; oltre 13 alla Scala; 10,7 per Cagliari dalla Regione Sardegna; meno di sette per l’ente veneziano), e l’intervento di eventuali sponsor.Infine, ultima componente delle entrate perché assai spesso ne costituisce purtroppo la porzione davvero più esigua, i proventi della biglietteria e degli abbonamenti. E anche qui, Venezia non è certamente ai primi posti, anzi è proprio in coda: la salva soltanto l’incredibile e quasi ridicola percentuale che la biglietteria, e quindi la città e gli appassionati, forniscono al Massimo di Palermo.

Queste cifre legittimano qualche considerazione: intanto, l’apporto dei privati è, generalmente e

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incredibilmente, davvero assai esiguo: soltanto il Regio di Torino può contare su una componente significativa di sponsorizzazioni; il Verdi di Trieste, la stessa tanto malmessa Opera di Roma e la Fenice, che lo seguono in graduatoria, dai privati ottengono ben scarso supporto. Poi, generalmente assai limitata (escludendo pochi casi, oltre a quello atipico di Verona) è la componente della biglietteria: forse solo Milano e Torino ne ricavano entrate degne di qualche apprezzamento. Del resto, che le uniche alternative possibili di operare qualche risparmio, per i teatri lirici, siano legate all’incremento dei prezzi d’ingresso, o a un taglio sensibile nei costi della produzione artistica, l’ha affermato, già da tempo, l’economista che per primo, e più di ogni altro, si è occupato del settore specifico, e cioè William Baumol 21 (un classico ormai la sua ricerca degli anni sessanta 22, in cui tra l’altro annotava che «un quartetto di Boccherini composto nel xviii secolo e che ha un tempo d’esecuzione di mezz’ora, richiedeva due ore-persona di esecuzione a quell’epoca, e richiede esattamente la stessa quantità di tempo oggi»). Come dire che la forbice tra costi e ricavi tende più ad allargarsi, che a ridursi; cioè, l’andamento è diametralmente opposto a quello dei finanziamenti da parte dello Stato.

Secondo un’indagine del Centro internazionale di studi sull’economia dell’arte, prima che la sua

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sala (e non solo) andasse bruciata, la Fenice era in una fase di netto miglioramento: all’inizio degli anni novanta, infatti, quando il finanziamento pubblico era calato di un paio di punti percentuali, per tre anni di fila, le entrate dal botteghino, garantite dalla lirica per quote variabili tra i sei e gli otto decimi, avevano fatto registrare ripetuti incrementi, fino a produrre la non indifferente cifra di oltre quattro miliardi. È chiaro però che quella era la “vecchia” (e speriamo al più presto torni ad essere la “nuova”) Fenice; mentre l’attuale è un ben diverso teatro.Logicamente, ha dovuto ridurre i prezzi dei biglietti, fino quasi a dimezzarli (ora, il più caro costa 60 mila lire: un autentico “saldo” se paragonato a qualsiasi altra sala), poiché una cosa è offrire un teatro ed un’altra offrire un tendone; «e gli incassi, da quattro miliardi e 700 milioni, si sono ridotti a due miliardi e mezzo», dice il sovrintendente Mario Messinis 23. Eppure, continua, «mettiamo in scena più spettacoli di prima, ed abbiamo perfino il conforto di un numero maggiore di spettatori». Insomma: sotto il tendone non ci si arrende; anche se, per parafrasare il titolo del film con cui il regista tedesco Alexander Kluge vinse nel ’68 il Leone d’oro al Festival veneziano (Gli artisti sotto la tenda del circo, perplessi), difficoltà e, appunto, perplessità certamente non mancano.Il tendone della Fenice dispone di mille posti per le rappresentazioni liriche, che diventano 1.200 per i concerti. «Lavorarci, è come lavorare in cinemascope, poiché grande è la larghezza, ma scarsa l’altezza», spiega Giorgio Barberio Corsetti, direttore della Biennale teatro e la cui regia di Maria di Rohan (Donizetti) ha inaugurato la stagione 1999-2000; ci sono zone della platea, prima che le poltrone comincino ad essere più elevate, dove l’acustica è abbastanza improba. E gli intervalli, è meglio modularli sugli orari del vicino ferry-boat, che salpa nei pressi, giusto per evitarne i colpi di sirena durante l’esecuzione. Ma è inutile dedicarsi troppo alle pecche del tendone: tanto, è provvisorio, no? Più interessante è invece notare come, pur in condizioni di logistica abbastanza improbe, la Fenice riesce tuttavia a garantire una buona offerta di spettacoli.Tuttavia l’allontanamento dal centro storico ha anche mutato il pubblico del teatro. Gliene ha fatto scoprire uno, che prima lo degnava di ben scarsa attenzione: quello della terraferma, «a dimostrazione, ancora una volta, che i trasporti sono il grande ed irrisolto problema di Venezia», dice ancora Chiarot. Ma gli ha fatto perdere una buona fetta dei suoi abituali frequentatori: il pubblico appunto della Venezia insulare, quello del centro storico. Anche qui, le ragioni sono molteplici; non ultima, la concorrenza esercitata da una sorta di “piccola industria” musicale, che soltanto la città possiede; cioè i vari complessi da camera sparsi per la città, che certamente s’indirizzano maggiormente ai turisti che non ai melomani più sofisticati, ma che comunque muovono un giro d’affari non indifferente, valutato tra i cinque e i sette miliardi. E, oltre a chi suona, offrono lavoro anche a non poche altre persone: per esempio quei giovani che, agghindati in abiti di foggia settecentesca e dislocati in alcuni punti nevralgici della città, s’incaricano della prevendita dei biglietti.«Un nostro grosso problema», dicono sempre alla Fenice, «è anche che non entriamo nel grande mercato, spesso “nero”, del turismo; non riceviamo un biglietto che è uno dagli albergatori; non siamo affatto promossi, al massimo ci concedono d’esporre una locandina, dalle agenzie turistiche». Il tendone non offre certamente il contesto di un teatro; manca, per esempio, il foyer; che per una città come Venezia, è importante: è il luogo deputato al ritrovo, alle ciacole, all’aspetto, diciamo così, sociale di ogni rappresentazione. Un giorno, poi, con straordinaria ed immensa miopia, qualcuno ha pensato bene perfino anche di far accedere il pubblico al teatro facendolo obbligatoriamente passare per una sorta di portico, che in realtà è il luogo d’attesa dei bagni pubblici. «Finché c’era il teatro, la metà dei posti era assegnata in abbonamento»; ora, non più. E, tra gli stranieri, reggono ancora quasi solo i francesi. Per raggiungere il “tendone”, occorre uno scomodo e lungo giro in motoscafo; una “lancia” a prezzi incredibili; oppure l’automobile, che, nonostante gli sconti, paga 15 mila lire di posteggio. «Molti arrivano dalla terraferma; lasciano la vettura a Mestre e raggiungono la Fenice in bus». Ammettiamo che non sono i criteri migliori per promuovere un teatro. Così, la metà dei veneziani che seguivano la stagione lirica hanno rinunciato; mentre invece “resistono” ancora gli appassionati della sua stagione concertistica («una vera stagione mancava da dieci anni; abbiamo mille paganti a sera: triplicati gli abbonati che oggi sono oltre 700», dice il sovrintendente). E i “vuoti” dei veneziani sono stati riempiti da un pubblico diverso: che viene appunto dalla terraferma.Per riconquistare l’audience (insulare) perduta, la Fenice punta molto sul Teatro Malibran, la cui ristrutturazione ha richiesto più tempo del previsto, anche perché sono stati trovati dei reperti

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romani; secondo alcuni, perfino una casa che potrebbe essere stata quella di Marco Polo. È una sala da 800 posti, per spettacoli dalla scena ridotta: «Il palcoscenico non ha sfoghi laterali, mancano anche i camerini». Il problema che si porrà alla Fenice, in una prospettiva che speriamo non troppo lontana, è in quale modo capitalizzare questo suo nuovo pubblico, che la sta seguendo negli anni della sua provvisorietà: «Il nostro ciclo operistico a Padova può già contare su mille abbonati; e prevede due serate lì, ed una a Venezia», dice sempre il maestro Messinis.Il PalaFenice, che al Comune costa un miliardo e seicento milioni di noleggio all’anno, più altri tre e mezzo di gestione, «verosimilmente lo terremo in esercizio per un anno, anche dopo che avremo ritrovato il nostro teatro», spiega sempre il sovrintendente. Politiche differenziate di prezzo; accordi con chi gestisce i trasporti pubblici per corse straordinarie e a costi ridotti; «potenzieremo poi l’attività a Mestre, per non perdere il capitale che abbiamo accumulato. Ma intanto, cerchiamo di sfruttare tutti gli spazi disponibili nel centro storico, anche le chiese poiché solo a San Marco esistono reali limitazioni nella tipologia delle esecuzioni, puntando anche su una programmazione di qualità». Così, ecco la prima esecuzione moderna dell’Orione di Francesco Cavalli, una nuova produzione del Satyricon di Bruno Maderna, il seguito del ciclo dei Cameristi alla Fondazione Cini. E, evento abbastanza raro nonché significativo, dalla scuola di Rony Rogoff sono già nate incisioni delle “integrali” cameristiche di Brahms e Schubert, con l’egida della Fenice e l’etichetta della casa discografica Mondo musica, mentre il gruppo si appresta a divenire stabile con il nome di Accademia di San Giorgio.Ma il “nuovo pubblico” della Fenice, che non proviene dal centro storico della città, impone forse qualche considerazione. Perché il fenomeno di una “maggiore velocità” della terraferma rispetto alla parte insulare del Comune, non si limita alla lirica e ai concerti di musica classica, ma riguarda, per esempio, anche il teatro di prosa. Che, nel centro storico, è protagonista, anch’esso, di una crisi davvero assai accentuata.

16 Colloquio con l’autore, febbraio 1999.17 Colloquio con l’autore, gennaio 1999.18 Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento dello spettacolo, Relazione sull’utilizzazione del Fondo unico per

lo Spettacolo, Roma 1997.19 Nel Veneto, ne beneficiano il Comune di Bassano, 350 milioni; gli Amici della Musica di Asolo, 285 milioni; di Padova,

245; di Mestre, 30; di Vicenza, 100; di Verona, altri 100; l’Associazione Ipotesi cultura, 40; L’Offerta musicale, 20; gli studenti dell’Università di Padova, 30; il Circolo bellunese, 35; i Solisti Veneti, con 225.

20 Tra quelle venete, di nuovo Ipotesi Cultura, 13 milioni, e Asolo Musica, 70; oltre al Comune di Vittorio Veneto, 28; al Teatro comunale di Treviso, 75; al Comitato per la Lirica, 10; all’Associazione Venezia Poesia, 30; al Teatro Olimpico di Vicenza, 15; all’Ente Veneto Festival, 150 milioni.

21 H. e W.J. Baumol, Il morbo dei costi e le sue effettive implicazioni per la politica di sostegno dell’arte, in G. Pannella e M. Trimarchi, Stato e mercato nel settore culturale, Bologna, Il Mulino, 1993.

22 William Baumol, Performing Arts: the economic dilemma, Cambridge Mass., Twentieth Century Fund, 1996.23 Colloquio con l’autore, gennaio 1999.

7.3) Anche il teatro guarda più alla Venezia peninsulare

Nel centro storico, di tante sale che c’erano, dedicate alla prosa ne restano a malapena una, più altre due, minori di capienza, ma non certo per la programmazione sperimentale che organizzano e ospitano. Insomma, davvero molto poco. E infatti, a Venezia si va a teatro assai meno che altrove: raffrontato alla quantità di abitanti, il numero di biglietti che vi vengono venduti è inferiore alla media nazionale: 134.759 in tutto il 1997, invece dei 147.353 che la statistica vorrebbe, per allinearsi (attenzione) soltanto alla media dell’intero paese (comprese le zone più dimenticate o maggiormente ancora in attesa di sviluppo), e non certo a quella delle sue principali città. Ed è singolare che nel capoluogo del Veneto vengano messi in scena un numero di spettacoli pressoché simile a quelli di tutto il resto della provincia 24: a Venezia, càpita soltanto per la prosa; in tutti gli altri campi, infatti (a parte i concerti di musica leggera), il capoluogo la fa assolutamente da padrone.Ancora nel 1980, ricorda Maurizio Scaparro rievocando il Carnevale che organizzò come direttore della sezione Teatro della Biennale, «in città erano aperti La Fenice, il Malibran, il teatrino di Palazzo Grassi, il Goldoni, il Ridotto; e, oltre a tutto, c’era quello galleggiante di Aldo Rossi». Lontane, già allora, le mitiche contese tra Carlo Goldoni, Carlo Gozzi e Pietro Chiari, che si svilupparono al San Samuele. E lontani anche i tempi (1875) in cui Sarah Bernhardt interpreta La

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partita a scacchi di Giuseppe Giacosa; o in cui (1835) un’eccezionale Sonnambula cantata da Maria Malibran vale il nome di una sala. Ormai, con l’agonia tra le due guerre di cui ha scritto bene Silvio D’Amico, anche il teatro dialettale è andato in crisi: quasi sparito. E le sale, troppe di loro, diventano cinema; poi, quando il cinema va anch’esso in crisi, chiudono e basta.

Il Ridotto, che ospitava anche spettacoli cult, per esempio, perfino un Dario Fo quasi alle prime armi, o alle prime scene? «Tornerà, ma sarà più piccolo, nel 2003», garantiscono gli uomini che vi stanno lavorando, dopo che l’intero complesso, comprese le sale dell’ex Cinema San Marco, è stato rilevato dai Benetton, come anche l’albergo Monaco che fa parte del medesimo isolato o quasi, il garage del Tronchetto, e, di recente, l’isola di San Clemente, costata 20 miliardi, che forse diverrà un albergo o un villaggio turistico. Resta la sala che è giustamente intitolata al nome di Carlo Goldoni: Teatro stabile del Veneto, a metà con Padova dove però è collocato il “cuore” dell’attività. «È una vera paralisi», commenta Cesare De Michelis: «Si è ormai perduta anche la tradizione, iniziata negli anni trenta da Renato Simoni, del teatro all’aperto, nei campi, particolarmente a San Zaccaria e San Trovaso: un timido tentativo di rinverdirla si verificò sul finire degli anni sessanta, ma senza un grande esito».Così, il Teatro stabile del Veneto, fino all’anno scorso diretto da Mauro Carbonoli, ed ora da Luca De Fusco (sede legale a Venezia, ma sede operativa a Padova), offre nel centro storico una dozzina di spettacoli, di cui (1998) uno solo prodotto in proprio, un altro per la Compagnia dei giovani, e un terzo coprodotto; più quattro spettacoli per la rassegna Teatro oggi, e quattro operette. A Venezia, le compagnie vengono, e scappano: normalmente, tre o quattro giorni in tutto; altrettante rappresentazioni, e via. E per rendere possibili queste serate, per fortuna vengono in soccorso le sovvenzioni dei due Comuni interessati (1.103.709.000 a testa), e quelle del Fus. Nel 1997, come sempre dacché il Fondo fu istituito, quello del Veneto è stato uno dei 13 Stabili che ne ha beneficiato; per l’esattezza, con 1.830 milioni: quasi due miliardi.Anche qui, però, la terraferma manifesta un’interessante vitalità. In termini relativi, infatti, assai meglio vanno le cose per esempio al Teatro Toniolo: 50 serate di prosa in un anno, con una media di 570 spettatori paganti, non sono certamente poche (mentre invece, già che ci siamo, non sono certo molti i 178 spettatori per ogni spettacolo di danza e di teatro, sia pur sperimentale). «È stato un percorso lungo ed irto di ostacoli», spiega l’assessore Mara Rumiz 25, ma «il suo ruolo di simbolo e catalizzatore della vita culturale di Mestre, il Teatro Toniolo se lo è conquistato da tempo».Oltre al Goldoni, però, ci sono almeno altre due sale, sia pur di minore capacità, la cui programmazione, teatro di genere sperimentale, costituisce la vera novità, rispetto a quello che Giorgio Barberio Corsetti, regista e neo direttore della sezione teatrale della Biennale, chiama «il limite di quasi tutti i teatri stabili, che è di essere chiusi su se stessi, quasi impermeabili alle

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innovazioni del linguaggio e dei contenuti, come fondati sull’abitudinarietà del pubblico: luogo di puro consumo di uno spettacolo che, ormai, non ha nemmeno più molti consumatori» 26.L’anno scorso a Carnevale, il Teatro Fondamenta Nuove, di cui è responsabile organizzativo Gennaro Labanca, ha messo in scena E la commedia va, commedia dell’arte con la Compagnia Tiramisu, e non manca, ad ogni stagione, di proporre qualcosa di nuovo. L’altra sala è quella del Teatro all’Avogaria, fondato oltre trent’anni fa da un nome che, nel settore e nella città, fu famoso ed importante: Giovanni Poli, cui negli anni cinquanta si deve anche la fondazione del Teatro universitario di Ca’ Foscari, e infatti l’attuale rettore afferma che proprio a Poli sarà intitolata una prossima iniziativa permanente dell’ateneo. Negli anni, anzi nei decenni, l’Avogaria, che ha al suo attivo oltre cinquanta tournées in ben 32 paesi, ha messo in scena spettacoli anche d’assoluto rilievo, a cominciare da quello, celebre, che fu uno dei suoi primi, La commedia degli Zanni. Negli ultimi tempi, forse, il ritmo delle sue novità si è leggermente appannato; ma i periodi di crisi, si sa, di solito non risparmiano nessuno.

A questa situazione, nel suo complesso certamente non invidiabile, si può soltanto aggiungere un dettaglio: nei giorni del Carnevale, proprio per ovviare alla scarsità delle sale, a Venezia si fa teatro anche in altri luoghi: dal Palazzo delle Prigioni Nuove, a Ca’ Rezzonico; o, a Mestre, al Teatrino della Murata (che possiede una propria compagnia); o (come avviene più abitualmente) in quello del Parco, o in un’apposita sala a Chirignago, o perfino all’hotel des Bains del Lido. Ma si tratta di interventi d’emergenza: quasi come dei rattoppi a una situazione, appunto, davvero assai sfilacciata e perfino difficile quasi da sopportare, di carenza di strutture permanenti. Ed è appunto qui, tra la carenza delle strutture, la mancanza di “vocazioni”, gli sprechi di territorio e la ricerca di un futuro per la città, che valga a migliorare la qualità della vita di chi rimane e a far cessare l’emorragia di quanti invece se ne vanno, che si gioca il futuro di una città, che non sia soltanto museo o quinta teatrale. E su questi temi, vale forse la pena di enucleare i pensieri di alcuni “testimoni privilegiati”. Persone, cioè, che, per il ruolo che coprono e l’angolo di visuale da cui possono osservare l’evoluzione delle tendenze, più di altri sono forse in grado di prevedere, se non proprio il futuro, almeno delle linee di sviluppo degne d’essere favorite.

24 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit.25 Colloquio con l’autore, febbraio 1999.26 Colloquio con l’autore, gennaio 1999.

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8) CINQUE “TESTIMONI PRIVILEGIATI”. COSTA, DE RITA, FOLIN, RISPOLI, RUMIZ«A Venezia, il livello culturale è più elevato e ricco, almeno in termini di imprenditorialità e di iniziativa, di molti altri: da quello industriale, a quello commerciale, a quello turistico. Tuttavia, la realtà culturale della città è soprattutto una realtà di turismo culturale; e, nel campo della cultura, manca la capacità di produrre innovazione, di trasformare in realtà nuovi criteri d’organizzazione»: per un discorso su Venezia oggi e sulle possibilità del suo domani, si può forse prendere le mosse da questa affermazione di Giuseppe De Rita 1. Che, subito, cita un episodio concreto: «Giorni fa, leggevo il programma del Concertgebouw di Amsterdam, giusto per parlare di una città similare, ed ho visto che, in un mese soltanto, quello di novembre [1998], prevede 45 eventi musicali. Significa che, in un mese, nella città olandese va in scena quello che Roma mette in scena in un intero anno». «Se Venezia avesse soltanto un problema di fruizione turistica della propria dimensione culturale, allora basterebbe redigere un bel calendario, la cui mancanza è pure un punto cruciale, perché chi arriva non sa che cosa succede in un anno, ma nemmeno nella settimana della sua visita. Ma invece, non è così: il calendario non basta».Perché, in realtà, la questione non è (soltanto) questa: non si tratta soltanto di organizzare meglio il turismo culturale di Venezia, e forse nemmeno di renderne (sempre soltanto) più vitali le istituzioni preposte alla cultura; il «problema fondamentale», continua De Rita, è un altro: «È possibile fare di questa città un luogo di produzione, organizzazione, innovazione culturale, e non di pura fruizione turistica? Sull’argomento, si scontrano due scuole di pensiero. Una, interpretata da Giorgio Brunetti, secondo cui per fare produzione culturale occorre un distretto: una struttura interna che, basandosi sul territorio, esce dalla storia del territorio. Il distretto non è una tabula rasa: viene dalla storia; e questo vale per Biella, come per Prato, come per Fermo. Dall’altra parte, invece, c’è un’altra scuola, prospettata da Paolo Costa, che è quella della filiera. Tutta l’economia mondiale, del resto, oggi si gioca tra cultura del distretto e cultura della filiera». Per intenderci, l’integrazione dei diversi protagonisti di un determinato luogo, o le varie “filiere”: quella agroalimentare, piuttosto che dell’abbigliamento, o della produzione e distribuzione chimica.«Se dovesse prevalere la cultura del distretto, bisogna tentare la messa in moto di processi che non siano soltanto eventi, due mostre e quattro concerti; perché l’evento è qualcosa che muore. Jean Baudrillard diceva addirittura che “scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo”. L’evento decade; oggi, a mio avviso, hanno più ragione quanti dicono che bisogna produrre processi, e non soltanto eventi. Ma produrre processi non è come produrre eventi: occorrono una fatica e un modo di essere assai diversi». Gli eventi, infatti, «vanno soltanto ordinati in un calendario; se invece si vuol fare qualcosa di diverso, bisogna mettere in moto dei processi; cioè dei sistemi molto più complicati e complessi». Occorrono «programmazione, dimensione unitaria, progetti; i processi non sono unificazione monoteista delle nostre fantasie, ma, in qualche modo, vanno promossi e non solo coordinati: promossi e seguiti, accompagnati, non verticalizzati in una decisione, in un coordinamento, in una programmazione, in un progetto unitario».Va da sé che «questo è faticoso: occorre il metamanagement, che è una funzione e non un ente, il Comune, o una fondazione. Il manager fa unificazione, fa emprise verticalizzata, maneggia il problema e non lo accompagna, riesce a mettere in piedi tanti eventi; invece, aiutare i processi, seguirli ed accompagnarli, è un problema più complesso, ed è appunto quello di una cultura metamanageriale. Oggi, a Venezia, esiste questo tipo di cultura? Perché, se manca, è poi difficile attribuire i compiti». Per cui, «se ci accontentiamo di Venezia come città di industria culturale, intesa come la fruizione turistica della cultura, basta un calendario. Ma invece, c’è da fare qualcosa di più, da portare avanti qualcosa di più complesso; uno spirito di coalizione, d’accompagnamento, uno spirito del metamanagement, del distretto, della filiera: tutte culture che oggi in città mancano, ed è difficile pensare che qualcuno prenda in mano la situazione dicendo “creo io questo tipo di realtà”. Allora, l’unica soluzione mi pare di far crescere, d’accompagnare questi tre o quattro concetti fondamentali – il distretto, la filiera, la coalizione, il metamanagement – e approfondire ulteriormente tutta la tematica che sta loro d’attorno».E, in un’altra occasione 2, lo stesso De Rita aveva così sintetizzato i necessari modi con cui «una società locale, che voglia crescere», può affrontare «le sfide di uno sviluppo non puramente soggettuale»: «Aprirsi con disponibilità e serietà per interpretarsi e rappresentarsi; sapersi “contare”, misurando la sua effettiva vitalità; potersi parlare senza restrizioni né preclusioni,

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allargando il proprio orizzonte territoriale sia materiale che immateriale; saper accettare chi ritiene estraneo»; e indicava anche alcune prime misure, di cui parleremo nel capitolo conclusivo. Perché, adesso, è giunto il momento di dar voce al secondo dei nostri “testimoni privilegiati”: Paolo Costa, già rettore di università a Venezia, e poi, a Roma, anche ministro dei lavori pubblici («ma della Venezia che io ho visto stando a Roma, è meglio, per ora, non parlare»). Costa preferisce invece restare «in chiave positiva; e per questo, è meglio porci la domanda fondamentale, se stiamo ragionando, se stiamo dentro un ragionamento da wishful thinking, cioè, in veneziano, voria ma no posso; se ragioniamo per desideri o invece per realtà. Se cioè esistono ancora le condizioni attraverso e grazie alle quali Venezia riprenda un ruolo competitivo».Per esempio, il «vetro nuovo» della manifestazione chiamata Aperto Vetro, «non è un esporre o un raccontare: ma un invitare a produrre. Allora, chiediamoci se c’è una possibilità che l’industria culturale della città faccia parte della base economica della città stessa». Quindi, «non discutiamo» se la musica di Venezia risponda alla cultura musicale del paese, e se ogni altra forma artistica che a Venezia si coltiva sia à la page, in grado di confrontarsi con il mondo; ma «se, e in che forma, l’industria culturale possa dare da vivere non soltanto a chi ne è occupato, ma faccia invece campare addirittura la città: la mantenga, o almeno produca un surplus che consenta di contribuire al mantenimento». E Costa si risponde così: «Venezia possiede sicuramente un vantaggio competitivo, ed è di possedere un patrimonio, fortunatamente o sfortunatamente, unico. Palazzo Ducale non si può conservare in alcun altro luogo, se non a Venezia; e questo rappresenta un fattore localizzativo immutabile, una costante localizzativa da cui non si può prescindere».Partendo da questo assunto, Venezia ha «messo in piedi, magari molto male e certo in modo non ancora perfezionato, un circuito che utilizza la conservazione come base della fruizione. Certo: il turismo culturale va ottimizzato, e occorre capire come lo si possa fare. È sicuramente la componente turistica di maggior espansione prospettica: quindi, si tratta di organizzarla bene. Ma forse non bisogna guardare soltanto al centro storico: perché Venezia è un polo d’attrazione che motiva gente proveniente anche da molto lontano, poniamo, dal Kentucky, ma che poi dorme tranquillamente a Jesolo, o a Vittorio Veneto, perché tanto, per loro, è lo stesso». Questo, secondo Costa, è inevitabile, ineluttabile, va organizzato bene o male, «ed io spero bene». Poi, bisogna capire come gestire le collezioni; conservare; se occorre, catalogare di più. Ma, anche e soprattutto, «capire se c’è spazio per altri due sottoblocchi dell’industria culturale: se cioè riusciamo a trovare elementi di produzione culturale, luoghi in cui produrre cultura, alimentare lo stock di beni che la città possiede, oppure vendere qualcosa». Lo stock di beni, e quello d’immagine «sono capitalizzabili; quindi, o produciamo noi, o facciamo produrre. Questo è un luogo che può far produrre il mondo intero. Bisogna creare le condizioni per produrre: fare il contrario di quanto spesso è stato fatto; abbiamo perduto Maderna e Nono? Cerchiamo il modo per importare gli Schönberg di oggi. E questa condizione, questa possibilità, secondo me esistono».Inoltre, «l’industria culturale ha una proiezione tecnologica moderna di enormi dimensioni: possiamo immaginare che, nelle varie facce di questa città, noi costruiamo le filiere. Come abbiamo creato l’industria del legno e poi quella delle macchine per il legno, attorno alla conservazione e alla diffusione, alla produzione e alla distribuzione, possiamo immaginare le occasioni per far investire in questo luogo le tecnologie informatiche applicate: anche questo è un terreno su cui penso si possa sperimentare qualcosa. Su questi blocchi e sottoblocchi, si dovrebbe poter lavorare». Per esempio, «si tratta di vedere se possiamo indirizzare, caratterizzare una parte del Parco scientifico e tecnologico che sta nascendo a Marghera, come luogo che si specializza in tutte le tecnologie visuali: di arti visive, e che rendono il museo moderno. Certo, se queste cose le avessimo realizzate cinque anni fa, oggi saremmo all’avanguardia; e invece, siamo in coda. Dobbiamo prendere al volo i prossimi mesi, oppure rinunciamo anche a queste ultime possibilità».Perché la città «per dimensione è ridiventata provinciale; le energie devono essere ricanalizzate e anzi ricostruite. La carenza di fondo è strategica e di progetto. Di linee guida condivise». Si commettono errori di strategia non soltanto quando si costruiscono strade sbagliate («e la tangenziale di Mestre è una carenza strategica: un’incapacità di previsione che risale a 15 anni or sono»), ma anche «quando non si utilizza un patrimonio ricchissimo; ci siamo adagiati troppo, e per troppo tempo». Le condizioni per progettare, per camminare assieme, si creano quando «c’è qualcuno che sa esattamente dove andare, e capisce che lo stratega per definizione sarà il tal

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ente, la comunità, le sue espressioni, e così via. Occorre uno come Claudio Abbado: che riesce a far scatenare le cose già esistenti. O ci sono strateghi veri, veri innovatori, o continua a prevalere il modo di vivere di oggi: ciascuno per conto proprio, ottimizzando le proprie istantanee e magari, tutto sommato, stando anche bene».Paolo Costa conclude così: «Rovesciamo in positivo le occasioni perdute; potere continuare a perderne, significa che esistono ancora delle potenzialità. Ma il tempo della competitività tra le città in generale, e tra le industrie culturali in particolare, temo che si vada stringendo in maniera drammatica; forse, gli spazi per molte delle cose che si potevano realizzare cinque anni fa, non ci sono nemmeno più». Allora, «reperire altri spazi; trovare un interstizio; ricrearsi un sottomercato, affermando che occorre qualità assoluta in ogni progetto: e non c’è dubbio che è molto meglio portarne avanti due soltanto, ma validi, che non cinquecento diversi, ma mediocri. Come, forse, Venezia sta invece esattamente facendo».Critici anche i due rettori, Marino Folin dello Iuav, e Maurizio Rispoli di Ca’ Foscari. Dice Folin: «Venezia non è luogo di produzione culturale: è luogo espositivo; di vetrina. Ma è ancora possibile una rinascita, e quali ne sono le condizioni? Io sono ottimista e pessimista insieme. Credo che esistano ancora forti potenzialità e buone possibilità: sono apprezzabili segnali e indicatori interessanti, e la volontà della Biennale di non rimanere solo un luogo espositivo, bensì diventare un centro di attività e produzione permanente, costituisce un grande cambiamento. Parlare di museo che deve diventare laboratorio, e quanta attività potrebbe esserci in un museo pensato diversamente da adesso, anche questo è importante. Ma negli ultimi anni, parecchie condizioni sono cambiate; oggi, esiste un Parco scientifico tecnologico la cui costruzione è assai avanzata; quindi, anche materialmente si realizza una connessione tra città storica e Marghera, e fortissime sono le connessioni tra le università veneziane e il Parco scientifico».Insomma, «ci sono fermenti»; e perfino «la questione della casa per chi venga da fuori, comincia ad avere una soluzione: infatti, vi sono alcuni progetti». Ma sono possibilità; intenzioni «ancora fragili»: danno un senso di marcia; «ma la marcia è ancora lunga da compiere». La questione di fondo è «se in questa città esiste una chiara ed esplicita volontà politica perché Venezia diventi una capitale della cultura: una città capitale di produzione di cultura. E qui devo dire che, secondo me, questa volontà non esiste». Non appare «nella consapevolezza diffusa della popolazione, e nemmeno a livello politico nella città. Il mio non è assolutamente un attacco all’Assessorato alla cultura; anzi, ci sono iniziative assai interessanti che l’amministrazione comunale conduce. Ma questo non è ancora un disegno strategico: manca una scelta di fondo, senza la quale i tentativi e le operazioni, che i singoli soggetti portano avanti, resteranno inevitabilmente frammentari; non si tradurranno in sistema».«Sono cose», continua Folin, «che molti vanno dicendo almeno da un paio di anni a questa parte». I presupposti perché Venezia possa essere una grande città culturale, e le linee strategiche che devono essere affermate, «sono ancora quelle di qualche anno fa. Ma non sono riuscite finora ad imporsi». Oltre a tutto, «quando parliamo di Venezia come luogo di produzione di cultura, non possiamo fermarci al centro storico: bisogna legare insieme anche Mestre e Marghera. Proprio in questa direzione, alcune indicazioni esistono; ma, anche qui, non ci si muove ancora con la dovuta decisione». Nel campo della cultura, «importanti» sono anche alcuni progetti delle due università: nuove strutture didattiche nel campo della formazione e delle arti. «Lo Iuav ha in animo di trasformarsi, in tempi rapidi, in un grande politecnico delle arti; un’università che formi negli stessi settori artistici di cui si occupa la Biennale: architettura, musica, danza, arti visive, performing art, e così via. I rapporti tra città e università sono stati e sono importanti e rilevanti; però è vero che, per quanto riguarda la produzione culturale vera e propria, l’università è ancora un luogo molto chiuso. È centrale, rispetto a quello di ricerca e produzione culturale, il momento formativo; ma nel campo delle arti, attraverso la formazione deve passare anche la sperimentazione: cioè deve aver luogo un processo di produzione artistica».Lo Iuav intende affrontare «in modo massiccio, centrale, non marginale né episodico», la questione della formazione in campo artistico, anche con una «suddivisione di ruoli» tra i due atenei: Ca’ Foscari, «schematicamente, assumerà un ruolo rilevante nella formazione del manager della produzione artistica; e architettura un ruolo primario nella creazione artistica, nella formazione di chi produce, di chi fabbrica, di chi costruisce». «Attiveremo prestissimo due corsi di studio nella formazione delle arti visive e del teatro»: insieme con l’Accademia di belle arti, la formazione nel campo delle arti visive; e per il teatro, penseremo «non all’attore, ma al teatrante

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in senso lato: scenografi, registi, direttori dei lavori e quant’altro». Strutture «costruite molto per atelier», in cui formazione e produzione artistica diventino un tutt’uno; perché l’università sia un «motore di presenza e di produzione artistica dentro la città». Poi, le strutture: un auditorium, «a disposizione della città per altre attività, che può anche essere usato, eventualmente, come possibile sala cinematografica».Si sta muovendo in senso analogo anche Ca’ Foscari, di cui vale la pena di narrare una singolarità della sede che storicamente occupa. Infatti, quella principale è curiosamente bipartita in due palazzi di grande significato per la città: Ca’ Foscari non è soltanto il luogo della machina, il punto d’arrivo e di partenza della celebre Regata storica, uno dei massimi appuntamenti in laguna; ma, costruito per il doge Francesco Foscari nel 1437, è stato il primo edificio veneziano in assoluto a raggiungere i quattro piani 3. E l’attigua Ca’ Giustinian possiede invece una storia davvero assai curiosa: nel 1172, un disastro navale ridusse la celebre casata a un solo esponente, e per di più monaco; in seguito a una petizione, il papa gli concesse una temporanea dispensa dai voti, per sposare la figlia del doge: ne nacquero ben venti figli, e, nel 1452, alcuni loro discendenti fecero costruire anche questo palazzo, in cui poi Wagner, nel 1858, avrebbe anche composto una parte del Tristano e Isotta. Ma torniamo a quanto dice il rettore, Maurizio Rispoli.Parla subito di «un nuovo prodotto formativo, che coniughi le nostre conoscenze e tradizioni nel campo dell’economia e dei beni culturali», quasi per dire a chi voglia «studiare tutto ciò che ha a che fare con le arti sotto i diversi punti di vista», di venire a Venezia. Ma questo è soltanto un primo passo per uno sviluppo imprescindibile; tuttavia, «il distretto di Prato o quello di Sassuolo sono assai più semplici, da creare e gestire, che a Venezia un distretto culturale; il quale contiene elementi di varietà e complessità assai più ampi». A Venezia, «gli attori presenti sono guidati spesso da logiche differenti; vi sono i pubblici e i privati, i profit e i no profit, e vanno tutti considerati assieme. Le scelte di guida quindi non possono, contrariamente a Prato, essere puramente economiche e di profitto. Per sviluppare tutte le potenzialità, che pure esistono, i tempi sono sempre più stretti. Potenzialità inespresse, investimenti troppo leggeri su di esse: occorre mettere in piedi una coalizione progettuale, non lasciata alle regole della libertà di mercato e di iniziativa, se no non riuscirà mai a nascere».E serve, soprattutto, «un centro, una guida; ma io non vedo chi ha la forza per esserlo. Potrebbe essere la stessa amministrazione comunale, in una visione aperta ai contributi pluralistici, e quindi di sapore non dirigistico, a cominciare stilando un progetto e un programma. Se no, ciascuno resterà autoconfinato nel proprio piccolo orticello». Anche le nuove proiezioni dell’Università di Ca’ Foscari «richiedono collaborazioni strette tra le diverse organizzazioni culturali; e quindi un ambiente e un contesto modificati rispetto ad oggi». Insomma, «occorre un “comitato di gestione”: se no, continueremo con iniziative scoordinate, e quindi scarsamente efficaci, come quelle attuali; iniziative che devono essere poste “dopo” in relazione tra di loro, mentre invece questo dovrebbe accadere “prima”». E, anche qui, infrastrutture: «Ca’ Foscari aprirà un teatro; qualche anno fa, ha aperto l’auditorium Santa Margherita, che in alcuni casi è stato centro di eventi e di aggregazione per la popolazione; a questo aggiungeremo un teatro a Santa Marta, 350 o 400 posti, con le attrezzature più moderne, un paio di miliardi d’investimento: potrà servire anche alle altre realtà veneziane, con cui riuscirà a raccordarsi».Perché la città che fu dei dogi ha oggi non pochi bisogni e lamenta non poche necessità. Alle quali fanno fronte parecchi soggetti diversi, dallo Stato, agli enti locali. Il Comune, in particolare destina cifre non immense, una ventina di miliardi all’anno, agli interi comparti della cultura e dello spettacolo, riuniti in un assessorato con la pubblica istruzione. E proprio Mara Rumiz, che lo dirige, è il nostro ultimo “testimone privilegiato”.Dei circa 760 miliardi che costituiscono l’intero bilancio comunale, l’assessore ne ha a disposizione circa una ventina: dunque, una quota che supera di poco il 2,5 per cento. E quasi la metà, vanno in partite correnti per il funzionamento dei servizi nel settore dei beni culturali e dei musei (le cui richieste sono, in tutto, di 12 miliardi), personale, sorveglianza, pulizia e assistenza al pubblico comprese. Come non osservare che, da solo, Palazzo Ducale ne incassa qualcuno di più? Quindi, la “partita”, per il Comune, è assolutamente in attivo; ma spettacolo e cultura non ricevono nemmeno quanto introitano.Comunque, sia, Mara Rumiz non è donna certo facile alle “geremiadi” e alle lamentazioni. Dice: «È vero che i Civici musei godono di una rendita da posizione, di cui però beneficia anche tutta Venezia. E questo fa sì che la si usi esclusivamente come vetrina, il che inibisce la possibilità

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d’insediamenti di produzione culturale. Però questa utilizzazione esclusivamente turistica si può anche trasformare in un alibi per non affrontare le questioni. Vero: uno dei vizi di Venezia è forse di bearsi eccessivamente di quel che è stata, senza guardare troppo al futuro; però, alcuni piccoli segnali vanno anche colti: perché ci possono aiutare a capire se una possibilità esiste ancora».Il problema, spiega, «non è assolutamente quello di costituire tavoli di coordinamento: semmai, è di creare occasioni di lavoro comuni». E di progetti, in cantiere, anzi qualcosa di più, «dei piccolissimi segnali», ce ne sono parecchi: «Il master europeo per i diritti civili, la Venice International University, i Magazzini frigoriferi, dove intende agire lo Iuav; anche il progetto del nuovo cimitero; tutto quello che si sta facendo alla Giudecca, e le novità della zona portuale».

Poi, alcune entità già lavorano assieme: «La Fenice, la Fondazione Cini, la Fondazione Malipiero, la stessa Biennale, e l’amministrazione comunale. È anche positivo che l’università si stia indirizzando all’idea del fare, del produrre in questa stessa direzione. Sono sintomi di una diversa attenzione e di una volontà di relazione. Occorre sollecitare l’attivazione anche di soggetti esterni a Venezia: perché è chiaro che non possiamo pensare esclusivamente d’investire sui residenti e

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sulle realtà presenti. Non è sufficiente affidare a una realtà, qualunque sia, il compito di costruire una strategia: perché il problema riguarda noi tutti, e le scelte non possono essere confidate a un’unica istituzione».Problemi antichi, e problemi nuovi: la mostra Aperto Vetro aveva, tra l’altro, il significato di fare uscire Venezia «dal proprio isolamento, poiché l’arte vetraria è nata qui, ma oggi i principali centri di sperimentazione li ha altrove, in Francia, in Australia, negli Stati Uniti, e Venezia richia così di perdere un altro treno, di lasciarsi scappare un’altra occasione. Ma spesso, le novità, da sole, non bastano: per una mostra, non abbiamo applicato l’Iva sulla bigliettazione; ma l’Intendenza di Finanza, poiché avevamo avuto una piccola sponsorizzazione, ha deciso che la manifestazione aveva carattere commerciale, e ci ha imposto di pagare l’imposta. Mi pare trecento milioni di Iva, a fronte di trenta ricevuti dallo sponsor. Insomma, oltre ad avere idee, bisogna anche sconfiggere la burocrazia, superare i mille vincoli che ancora esistono. I privati: per Venezia, il loro apporto è fondamentale; ma per ottenerlo, occorre prima che cambi radicalmente la normativa fiscale. Ed è soltanto un esempio».«La strada da percorrere? Oltre alle novità che sono in cantiere, o che sono state realizzate e che da sole comunque non bastano, quella di una grande unità d’intenti, di una grande, ma celere poiché il tempo a disposizione sta ormai scadendo, discussione e mobilitazione tra tutti i soggetti interessati. Non basta incaricare il Comune, o lo Stato, di stilare un programma: bisogna fare molto di più. E a Venezia, tutto è spesso difficile più che altrove. Per rendere disponibile alla Biennale parte dell’Arsenale, è stato necessario, come per lo spettacolo di Marco Paolini, prima una specie di incrocio di volontà, poi uno sforzo assai faticoso. Perché sull’area gravano ancora tutti i vincoli, le servitù, il demanio; forse, bisognerà, ma in fretta, arrivare a una concessione, alla sdemanializzazione, a liberare il luogo». E Mara Rumiz spiega che «parlo dei luoghi perché una prospettiva di produzione culturale e materiale, di centro della formazione e che quindi investe anche le università, ha bisogno di luoghi dove realizzarsi. Venezia, questi luoghi li possiede: ne ha ancora parecchi, in buona parte non utilizzati proprio perché gravati da un’immensità di vincoli. Forse, ogni discorso passa anche per questi luoghi: ne costituiscono un motore, una leva su cui operare».Le leve su cui agire, tuttavia, sono parecchie: «Dobbiamo recuperare anche un po’ d’orgoglio. Siamo bravissimi nel non saper valorizzare quanto possediamo; in questo, siamo abbastanza provinciali. Recentemente, la Regione ha presentato un progetto che coinvolge il cinema e le scuole; ma lo ha fatto con l’Università di Bologna. E quella veneziana? E l’Ufficio cinema del Comune, di cui tutti riconoscono il valore? E la Biennale stessa? Non sappiamo utilizzare le occasioni: questo è soltanto l’ennesimo, piccolo esempio». Anche se, poi, il Comune stesso, quando s’impegna in un’iniziativa che riguarda la letteratura, “Fondamenta” sotto l’egida di Daniele Del Giudice, pensa bene – lui che protesta – di organizzarla con un gruppo torinese. Comunque, Mara Rumiz conclude così: «A Marghera stanno nascendo il Parco scientifico e tecnologico e la Città della musica; io credo che la città abbia ancora in sé le forze per guardare alla possibilità di un nuovo sviluppo». Secondo quali direttrici, è appunto il tema del nostro ultimo capitolo, il prossimo.

1 La citazione è tratta, come le altre di questo capitolo, dai due dibattiti, già abbondantemente citati, sull’ Industria culturale a Venezia e sullo Spettacolo a Venezia: evento, produzione e servizi, svoltisi il 31.10.1998 e il 26.3.1999 a Ca’ Mocenigo Gambara, per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia, e di Venezia 2000. Cultura e impresa, nel quadro degli Incontri per Venezia da loro promossi. Vi sono rispettivamente intervenuti Paolo Baratta, presidente della Biennale; Giorgio Brunetti, docente all’Università Bocconi di Milano; Sandro Cappelletto, critico musicale de «La Stampa»; Paolo Costa, ex ministro dei lavori pubblici; Andrea Emiliani, storico dell’arte e presidente dell’Accademia Clementina di Bologna; Marino Folin, rettore dello Iuav; Maurizio Rispoli, rettore di Ca’ Foscari; Giandomenico Romanelli, direttore dei Civici musei di Venezia; Mara Rumiz, assessore alla cultura e pubblica istruzione del Comune di Venezia; Philip Rylands, direttore della Collezione Peggy Guggenheim; Paolo Viti, direttore della Fondazione Palazzo Grassi; Giuseppe De Rita, presidente del Cnel e di Venezia 2000. Cultura e impresa, e segretario generale del Censis; e, il 26 marzo 1999, Stefano Balassone, consigliere d’amministrazione della Rai-tv; Alberto Barbera, direttore della Sezione cinema della Biennale; Giorgio Mattiello, direttore del Parco scientifico e tecnologico; Piero Rosa Salva, assessore al turismo del Comune di Venezia; il regista Maurizio Scaparro; di nuovo entrambi i rettori, Sandro Cappelletto e Mara Rumiz; e, per Venezia 2000, Cesare De Michelis. Entrambi gli incontri sono stati introdotti, per la Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia, da Roberto Tonini, e preceduti da altrettanti “documenti di lavoro” redatti dall’autore.

2 De Rita, Una città speciale, cit.3 Kent, Venezia, cit.

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9) CINQUE “SCENARI POSSIBILI”. DAL NULLA, FINO ALLA “CAPITALE DELL’IMMATERIALE”Sul futuro dell’ex Serenissima è forse possibile delineare più di uno scenario: perché tante, ed anzi infinite, sono le variabili sul tappeto (il tappeto dello sviluppo e delle occasioni), che molteplici, e diversissimi tra loro, possono essere i modi e le forme secondo i quali evolverà il presente. Logicamente, a tutti questi scenari possibili, ed a ciascuno di essi, sottostanno alcune premesse logiche ed irrinunciabili, dalle quali nessuno di loro può assolutamente prescindere: che Venezia è uno dei massimi “serbatoi” d’arte e di cultura al mondo, e come tale andrà sempre preservata, conservata, e, quando occorra, restaurata. Che Venezia, però, è anche (e forse in primis) una città, la quale deve vivere, tuttavia, in condizioni che siano meno difficili, precarie e penose di quelle odierne. Che pensare a futuri di tipo “materiale” per la capitale che fu dei dogi, è assolutamente impossibile: non soltanto per la stessa natura dei luoghi, ma anche per l’offesa all’intelligenza che questo indubbiamente costituirebbe.Per cui, Venezia non può che vivere dentro il proprio essere una “città speciale”; deve comunque trovare delle forme di sviluppo e delle speranze di futuro che siano compatibili con le proprie irripetibili caratteristiche, originali e irrinunciabili: non soltanto morfologiche, ma anche di fondo. Deve cercare di coniugare tutto ciò che le può recare dei legittimi vantaggi, nel quadro, comunque, di uno sviluppo che sia sostenibile non soltanto dalla sua atipicità, ma anche dall’evidente fragilità delle sue stesse strutture. Venezia è, nel mondo ed ancor oggi, assolutamente un mito: quasi che, nei secoli, le sue caratteristiche più essenziali non siano mai andate perdute, non siano rimaste neppure scalfite. «Mito di libertà ed equilibrio, mito politico di buongoverno e giustizia, mito architettonico di armonia, utopia reale, mito letterario di morte. Mito che, in tempi più recenti, prende forma di merce da vendere a stuoli di compratori sempre più vasti. Nessuna città ha posto altrettante energie a fare mito di se stessa, come questa» 1. E, dopo essere stata culla della grande pittura, anche «in questo secolo, ispira ancora interpretazioni che giungono ad espressioni astratte, spazialiste o concettuali: è un segno di una continuità attuale della sua attrattiva, e di un mito non destinato a perire» 2.Ma le glorie del passato, magari anche di un passato perfino recente, sicuramente non bastano più ad alimentarne la vita sociale e civile. Tra i tanti miti che si sono costruiti attorno a quello principale che Venezia è, c’è anche quello che, in laguna, tutto diventi impossibile. Tutto bloccato da incertezze continue, quando non da campanilismi di parrocchia (politica), e da veti incrociati. Perfino il salvataggio fisico della sua parte insulare dalle ricorrenti troppo alte maree, che secondo molti costituisce la base irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della città: del resto, sono trent’anni che se ne discute; e, intanto, qualcosa è stato realizzato; ma molto, e moltissimo, invece no. Le antinomie sono quelle, eterne di sempre: tra conservazione e sviluppo; tra il fare e la paralisi; tra il coraggio e – in fin dei conti – il timore o la paura.Addirittura un libro assai famoso, che abbiamo già citato, il primo “Rapporto” dell’Unesco 3 edito ormai la bellezza di trent’anni or sono, si poneva questa stessa, non dissimile tematica, scrivendo, in una delle pagine conclusive: «Ma dove comincia, propriamente, e dove finisce il sacrilegio? Sarà violato il carattere di Venezia, quando i vaporetti verranno sostituiti? È stata forse un’offesa minore quando sono stati introdotti? E, tuttavia, chi vorrebbe, oggi, proibirli?». Cioè: «Si devono conservare soltanto le novità… del passato?». Ecco: nel quadro di uno sviluppo compatibile, le soluzioni possono essere tantissime; alcune più giovevoli, ed altre meno, alla città; alcune più rispettose del “partito conservazionista”, altre invece più attente alle teorie degli innovatori; alcune più coraggiose, ed altre maggiormente ispirate alla cautela. «Il presente risuscita il passato facendone una continua metamorfosi», diceva André Malraux 4; «salvare Venezia è salvarla per la felicità di questo tempo [anche la sua: n.d.r.] e per il mondo del futuro: non è restituirla alla mitologia del passato» 5. Perché la città-monumento non è opera della natura, né «i misteri della laguna ne sono gli angeli custodi» 6. Tuttavia, quel testo si riferiva al nuovo che poteva comparire sulla scena esclusivamente, o soprattutto, a difesa dalle acque; e qui, invece, si tratta di difendere lo spirito e la vitalità di un agglomerato urbano; e le anime, ma anche qualcosa di assai più terreno, di coloro che vi abitano. È per loro, la città e gli abitanti, che vanno cercate delle soluzioni: perché continuare ad essere soltanto una quinta teatrale, forse non è proprio possibile.Ecco, quindi, il primo scenario, assolutamente minimalista, che discende appunto direttamente

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da questa condizione, abbastanza tipicamente veneziana, d’eterna paralisi. Ed è lo scenario della sconfitta: del non far nulla; del lasciare le cose esattamente come stanno, almeno finché sarà ancora possibile. Se così accadesse, il futuro di Venezia non ne guadagnerebbe davvero per niente. La città sarebbe sempre più, e progressivamente, invasa dal turismo; poiché tutte le previsioni 7 dicono che esso è destinato ad aumentare, in un futuro abbastanza prossimo, secondo ritmi davvero assai vertiginosi; che nuove masse popolari e nuovi ceti, ai quali finora il viaggiare e il tempo libero erano stati negati, ben presto approderanno a entrambi; e che, per quelli più evoluti, l’aumento del tempo libero, favorito dai passi da gigante che la tecnologia va compiendo e dalla progressiva riduzione del mondo e degli spazi del lavoro materiale, si tradurrà anche in sensibili incrementi di loisir, anche di viaggi & vacanze. Essendone Venezia una tra le mete principali, quel che ne discende è logico, ed anzi perfino scontato.L’incremento della pressione turistica esigerà misure e palliativi sempre più rilevanti, e – nel contempo – sempre più d’emergenza. Magari, anche, sempre più decisi nella fretta, con al collo l’acqua, altissima, dei tempi di riflessione che vengono meno, dell’urgenza del fare, del rattoppo immediato a qualche situazione diventata, anche all’improvviso, delicata e difficile. Siamo già approdati al circuito delle telecamere; alle calli a senso unico; alle passerelle pedonali, in caso d’acqua alta, distinte tra quelle per i turisti e quelle per i residenti: ma non basterà ancora, e non occorre certo essere pessimisti, né tanto meno apocalittici, per immaginarlo. Una sorta di biglietto d’accesso? Potrebbe essere: qualcuno, a suo tempo, ha già sollevato il dibattito: una volta, era forse l’allora sindaco di Venezia Mario Rigo; più recentemente è stato invece, per esempio, il ministro del tesoro Giuliano Amato.Ma è certo che, se non proprio ad imporre un autentico “numero chiuso” alle visite nel centro storico che fu dei dogi, a qualcosa del genere, in tempi che non sono poi nemmeno del tutto lontani e futuribili, sarà probabilmente necessario e forse indispensabile arrivare. Con tutto l’inevitabile corteo delle polemiche che ne seguiranno. E tutto lo scomodo che la città, frattanto, avrà già subito: poiché a passi del genere, tanto radicali e in buona misura impopolari (perfino difficili da gestire: mostrare la carta d’identità per dimostrare che si è veneziani, o il certificato d’iscrizione all’università per dimostrare che la si frequenta?), ci si rassegna, sempre e soltanto, quando macroscopici dispiaceri sono già stati sperimentati e, in una prima fase, perfino subiti. Quando, cioè, il vulnus, la ferita inferta, diventa davvero non più sopportabile.In questo caso, Venezia potrà invocare l’aiuto dello Stato; e il governo centrale, probabilmente, comprenderà che è il caso di fare la propria parte. Ma, almeno finora, Roma si limita a provvedere alle emergenze museal-monumentali, e soprattutto a conservarle e restaurarle: sul piano della loro valorizzazione e della loro messa a frutto, anche lo stesso governo centrale (che – pure – negli ultimi anni, con un’autentica inversione di rotta rispetto a quanto per decenni era accaduto, ha acquisito non poche benemerenze nel campo della tutela e valorizzazione del patrimonio storico ed artistico della penisola) sconta ancora, come del resto l’intero paese, una notevole arretratezza culturale di fondo. Inoltre, ha ben scarsa voce in capitolo, almeno nella gestione ordinaria dei centri storici: nel decidere, cioè, se non a base di vincoli e provvedimenti ostativi, in che modo essi vadano preservati, quale debba esserne l’andamento. Infine, in una situazione tanto immobile, sperare in un concreto, fattivo e massiccio intervento dei privati, costituirebbe soltanto una pia illusione: infatti, gli eventuali sponsor che cosa mai ricaverebbero in cambio di un aiuto, se non ritorni assolutamente inadeguati agli investimenti richiesti (almeno per la mole degli aiuti di cui Venezia necessita), perché, oltre a tutto, inquinati anche dal sovrabbondare turistico, con tutti i problemi, e anche le incertezze (perfino d’immagine) che esso implica? Per cui, la pressione turistica si riverserà, per primi, sui cittadini che ancora abitano nel centro storico, magari inducendoli ad infittire gli esodi; e, subito dopo, sull’amministrazione comunale: che si troverà, pressoché da sola, a doverla fronteggiare e contenere.Se questo sarà, come avrebbe detto Leonardo Sciascia, il contesto, a Venezia continueranno a vivere soltanto quanti potranno permettersi il lusso di farlo. Ovvero, i pochi che, coinvolti in qualche attività produttiva con la sede ancora nella città, o suscettibile di essere condotta a distanza, non avranno scelto le (maggiori) comodità della terraferma; gli inguaribili innamorati; chi saprà convivere con le ondate dei visitatori che, almeno per alcuni mesi all’anno, rendono la città perfino difficile da vivere e addirittura, banalmente, da transitare. Le case diverranno, sempre più, seconde case; la città, sempre più, un museo; nonché un autodromo pedonale per visitatori frettolosi, i cui paracarri saranno le opere d’arte e le emergenze culturali, da ammirare prima che l’autobus o il motoscafo ripartano.

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A guadagnare da questo stato di cose, sarà sicuramente soltanto l’hinterland dell’ex Serenissima: i cui frequentatori e il cui “mercato”, quantunque indotto dalla città dei dogi, per riflesso aumenteranno, recando ulteriori introiti e quindi un maggiore benessere. Ma non saranno certamente né Venezia, globalmente intesa, né, in particolare, il suo centro storico. E le iniziative tecnologiche che già si stanno realizzando, sempre se questo sarà il quadro d’insieme e di fondo, più che il terminal di una “città bloccata”, si faranno punto di riferimento per altri poli di produzione, sparsi soprattutto nel Nord Italia, con cui dialogheranno intensamente. Mentre le università, almeno nel campo della produzione culturale, continueranno ad essere abbastanza autoreferenziali; a vivere in una situazione piuttosto avulsa rispetto a quella della città, e del centro storico, che le ospita.Già ora, al di là del discorso formativo che riguarda gli studenti, il loro impatto nei confronti della città non deborda poi troppo dall’area che, fisicamente, i due atenei occupano; da quella che, a buon diritto, potrebbe essere chiamata la “città degli studi”. A questo proposito, per avvalorare questo assunto, basta osservare come la zona, che si estende nei quartieri di Dorsoduro, San Polo e Santa Croce, non raccolga nemmeno un terzo degli abitanti che ancora rimangono a vivere sulla porzione lagunare della città; ma ospiti invece i quattro decimi dei bar, delle pizzerie e delle paninoteche dell’intero centro storico; perfino i tre quarti delle librerie e il 34 per cento dei servizi di riproduzione 8. Il peso economico diretto rappresentato dai due atenei può essere sintetizzato nei 22,2 miliardi (lire ’92) erogati, per otto decimi a residenti nell’area metropolitana, da Ca’ Foscari come retribuzioni; negli oltre dieci (per sette decimi destinati all’area metropolitana) che lo Iuav spende per analoghe finalità; da una quindicina di miliardi per l’acquisto di beni durevoli e di consumo; dai quattro di spese per la ristorazione sostenute dagli studenti. Insomma, con quella del turismo, l’università è l’ultima industria ancora residente nel centro storico. Come annota Cesare De Michelis, «i due atenei sono l’unico soggetto, in città, che disponga di non pochi fondi pubblici».Tuttavia, né questo primo scenario, né probabilmente il secondo che delineeremo tra breve, varranno a risolvere un’altra questione, che lo stesso Cesare De Michelis sintetizza così 9: «La città deve produrre qualità. Cosa che non sempre le riesce, anzi le riesce abbastanza raramente. Per esempio, investe molte risorse pubbliche sull’università; che poi, però, produce negozi di fotocopie, spacci di pizze e via elencando. Fino al 1982, si è continuato a costruire delle scuole; ed ora sappiamo invece che nel 2008 tanti asili e tante scuole elementari dovranno invece chiudere, perché mancherà, ormai, chi li frequenti. Il turismo è la sola ricchezza di una città che non ha mai avuto alcuna vera politica globale. I pullman? Lasciarli arrivare soltanto fino a Fusina, e lì far loro pagare i costi dei servizi di cui dovranno, o vorranno godere. Ora, invece, tutto avviene soltanto nel nome e per conto del turismo; a Venezia non si organizzano congressi non soltanto perché manca un apposito centro; ma anche perché i congressisti, negli alberghi che fanno registrare per diversi mesi il tutto esaurito, disturbano gli altri clienti; e poi, con chi organizza quei meeting, assai raramente si riesce a spuntare, per l’occupazione delle camere, il prezzo pieno».Se il primo scenario ipotizzabile, votato all’immobilismo e quindi il peggiore di tutti, discenderebbe pressoché totalmente da quanto il turismo brado già porta, e ancor di più potrà portare alla città, ed è quindi un’ipotesi sicuramente da escludere a priori, ognuno degli altri richiede invece, comunque, qualche decisione e qualche capacità di mobilitazione. Tutti, cioè, sottintendono costruzioni e progetti più difficili e complessi; possono diventare realtà soltanto dopo essere stati, speriamo non troppo a lungo ma anche in modo quanto mai intenso, dibattuti in città: anzi, da tutta la città. Scartato questo scenario del “non fare”, questo “scenario impossibile”, subito sopra, ma appena di un gradino, ce n’è un altro: anch’esso abbastanza minimalista e contenuto nelle misure che impone e prevede, però certamente un po’ meno nichilista del precedente.È l’ipotesi che Venezia riesca pur sempre a fare sempre abbastanza (e troppo) poco per garantirsi un futuro migliore; ma che, almeno, tenti di regolamentare in qualche maniera almeno il traffico turistico più spicciolo, e tuttavia anche più ingente. Quello, cioè, che ne consuma le pietre (e, qualche anno fa, in grado di restaurare quella d’Istria di cui è composta buona parte dell’area lagunare, erano rimasti un numero di scalpellini che si potevano contare sulle dita d’una sola mano 10: chissà se, nel frattempo, hanno trasmesso ad altri, più giovani, il frutto della loro sapienza), ne sfrutta il territorio ed i servizi, senza spesso concedere quasi nulla (e comunque sempre assai poco) in cambio. Questo secondo scenario prevede che Venezia cerchi di incentivare e mettere a norma questo turismo, anche per poter così sfruttare maggiormente

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l’unico fattore di ricchezza che la città oggi ancora possiede, l’unica vera “industria” che le rimane: quella, appunto, dei visitatori.Questo ipotetico quadro prevede che l’amministrazione comunale adotti, e celermente, quanto meno alcune misure, sia pur secondarie, per trarre vantaggi (o non subirne troppo gli svantaggi) dai vacanzieri “mordi e fuggi”; e che riesca anche ad alleviare la pressione turistica nell’ormai inguaribilmente costipato “triangolo delle Bermude” (o, almeno in estate, dei bermuda?). Tutto ciò può essere realizzato secondo procedure diverse, e con sistemi e provvedimenti anche eterogenei. Essi spaziano da quelli di divieto (quando c’è troppa folla, bloccare alcuni punti sensibili della città), a quelli invece incentivanti (sistemi di promozione e prenotazione, attraverso i quali sia possibile evitare le code, ma anche calmierare i fenomeni di eccessiva frequentazione; altre facilitazioni riservate agli ospiti che saranno attesi, con le conseguenti penalizzazioni di chi invece giungerà in modo assolutamente autonomo e per nulla concordato). Si possono anche immaginare tassazioni alla fonte, cioè nei luoghi di partenza, che compensino almeno in parte l’utilizzazione dei servizi (primi tra tutti, quelli relativi ai rifiuti solidi urbani e alla pulizia della stessa area cittadina); oppure, una sorta di “diritto d’approdo” per chi raggiunga l’ex Serenissima, dalla terraferma, a bordo dei capienti motoscafi granturismo; più difficile, tuttavia, sarebbe immaginare, in questo caso, analoghe misure nei confronti di chi arrivi per via di terra: cioè di quelli che, ancor oggi, sono i più.Parallelamente, tuttavia il Comune dovrebbe anche occuparsi, almeno per quanto possibile, di non accrescere l’antropizzazione, o ancor meglio di sfoltirla, nell’area Marciana, di Rialto e della stessa Accademia, nonché, magari anche studiando formalità e punti d’arrivo diversificati, in quella dei due terminal, stradale e ferroviario, con la terraferma. Sia creando percorsi e itinerari alternativi, che tuttavia possiedano un minimo d’interesse, risultino cioè anche alquanto appetibili e non siano soltanto obbligati o forzosi (e quindi, valorizzando debitamente altre zone del centro storico); sia dislocando altrove alcune risorse ed alcune nuove strutture, per creare ulteriori poli di richiamo. In un simile contesto, lo Stato giocherebbe anch’egli il suo ruolo: sia nella ristrutturazione e nella messa in valore dei propri musei; sia, eventualmente, nella creazione di nuovi istituti che possano in qualche modo contribuire a dirottare altrove l’interesse e anche l’attenzione dei viaggiatori; sia anche nella possibilità di tentare, con l’ente locale, alcune forme di collaborazione sperimentale. Nel nome dell’arte e della cultura, di un turismo meno precario e di musei rinnovati nonché anche di nuovi istituti, più probabile, o meno aleatorio, sarebbe forse anche il reperimento di fondi privati; meno inascoltato l’appello agli sponsor e ai partner anche organizzativi.Tuttavia, la rendita della città resterebbe pur sempre affidata, confidata e legata a quella che, già attualmente, ne costituisce la maggiore risorsa e la principale fonte di proventi economici: cioè il turismo. Per carità: quello d’arte potrebbe risultarne perfino assai privilegiato, e già l’istituzione del biglietto unificato d’ingresso nei musei dello Stato e del Comune nell’area Marciana, che non ha alcun riscontro in altre zone della penisola, costituisce un primo passo indicativo; ma, probabilmente, alla fine, il turismo continuerebbe a farla, come oggi, da padrone. Il vantaggio per la città ed i cittadini sarebbe quello di un turismo, probabilmente, meno invasivo; di una sua maggiore programmabilità e di una sua minore concentrazione nelle aree più topiche; di una più evidente, quantunque certamente mai capillare, diffusione anche su parti del territorio che, oggi, del fenomeno non beneficiano quasi per nulla.Leggermente più progredito, se è lecito usare un simile termine, è il terzo scenario possibile: quello che vede Venezia recuperare un po’ del suo antico e dismesso ruolo di grande capitale della cultura. Questa ipotesi prevede il rafforzamento delle istituzioni che, nel centro storico, si occupano del patrimonio; il completamento dei restauri di alcune strutture, e nuove sedi per alcune altre; un investimento sensibile nel campo del marketing museale e culturale; la creazione (in parte, già in corso), di più celeri procedure d’accesso nei singoli musei ed alle singole mostre; la valorizzazione di quel bene culturale nel suo complesso che la città è, con il concorso dello Stato e del Comune, e l’intervento – in questo caso sicuramente più deciso e decisivo – anche degli sponsor e dei privati. Ne risulterebbero debitamente irrobustite le istituzioni preposte alla cultura e allo spettacolo; la Biennale sicuramente giocherebbe un ruolo fondamentale, con la possibilità di rendere permanenti, a tutto vantaggio dell’humus culturale della città, alcune delle sue attività, anche creando numerosi laboratori; e le stesse università vedrebbero esaltato il proprio ruolo, in un quadro di più stretta integrazione con la città stessa.Questo è lo “scenario della cultura”: che vede i massimi sforzi organizzativi proiettati proprio sulla

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funzione di fruizione, ma anche di produzione, nel campo delle arti, delle scene e di quant’altro. Del resto, Ca’ Foscari, e anche lo Iuav, si sono precocemente incamminati proprio su questo percorso: la prima, ha attivato un corso di diploma in Economia e gestione delle arti e delle attività culturali, e il secondo due corsi che riguardano il teatro e le arti visive, non già per formare dei manager o dei gestori, bensì degli operatori, con un indirizzo volto, specificamente, alla produzione di cultura. Il limite di questi buoni, ed anzi ottimi proponimenti, è costituito da alcune difficoltà strutturali, che le stesse università vivono. Il rettore di Ca’ Foscari spiegava, non troppo tempo fa 11, che, ad esempio, quello degli spazi è un grave ed annoso problema. «Circa vent’anni fa, chiedemmo la disponibilità di quello che un tempo era il distretto militare, ai Gesuiti; ci fu negata, e ora l’immobile è vuoto e inutilizzato, ma difficilmente potrebbe ormai rientrare nel contesto del nostro sviluppo e della nostra attività».Oltre agli spazi, un altro problema, gravissimo, è costituito dalla clamorosa carenza di alloggi; una recente indagine 12 parlava di «165 posti letto in case dello studente, 98 dei quali nel centro storico», e di altri 251 posti letto, di cui 58 nel centro storico, in esercizi alberghieri convenzionati: «Ma sono in un buono stato di avanzamento i lavori per costruire residenze studentesche a Murano e alla Giudecca», continua Rispoli, «mentre si stanno quasi per concludere quelli per la casa dello studente a San Tomà; almeno il dieci o il quindici per cento di quanti frequentano Ca’ Foscari, che ha sfornato 2.024 laureati e 131 diplomati nel 1997, non sono pendolari e, se soltanto potessero, resterebbero di buon grado più a lungo in città; ma non è certo facile cavarsela con il mercato degli affitti stagionali. Comunque, questi giovani hanno alquanto mutato il volto stesso del centro storico: anni fa, la zona attorno a campo Santa Margherita era quasi un deserto; ora, invece, è in assoluto tra le più vitali e vivaci». Ma è vero: «La città offre ben poco, e non aiuta certo i giovani a volerci vivere».Perché qualcuno voglia “volerci vivere”, la cultura, da sola, forse non basta. Serve anche dell’altro; per esempio, la possibilità di produrre. E questo è il quarto scenario che vogliamo considerare. Ma che è ancora più difficile da costruire, proprio per le remore che da tempo attanagliano la città. Il «modello è entrato in crisi a partire dalla fine degli anni sessanta, per molti motivi: per il superamento delle tipologie e dei modi produttivi di Porto Marghera, per l’uscita dal mercato dei modelli turistici del Lido, per l’evidente inadeguatezza della struttura urbana della terraferma, per la trasformazione profonda dei modi d’uso e di vita della città lagunare, e altri ancora. La reazione predominante della città è stata quella di combattere la crisi tentando di conservare l’esistente, o proponendo iniziative estemporanee, volte più a soddisfare interessi di gruppo che interessi generali o, peggio ancora, immaginando ritorni a inesistenti equilibri preindustriali» 13.Comunque sia, dubbi e riserve a parte, la quarta ipotesi tiene conto del non poco che in città si sta realizzando, a cominciare dal Polo scientifico e tecnologico di Marghera. Implica una città che allarghi l’orizzonte del proprio sguardo dal turismo alla cultura, e dalla cultura anche più oltre. Del resto, che a Venezia tutto sia immobile e immutabile, nonché destinato a rimanere tale, non sempre è vero. Per esempio, nel campo dell’architettura non pochi sono i lavori, e le realizzazioni in corso. Tutta una serie di progetti unificati «dall’essere possibilità reali; molti, anzi, già in fase di realizzazione, ed altri già appaltati» 14, con il recupero di aree dismesse (quelle ex portuali), o la riqualificazione di altre andate da tempo, come direbbero appunto a Venezia in malora (la Scuola grande della Misericordia che, pochi forse lo ricordano, fu sfruttata come palazzetto dello sport; la ristrutturazione di Ca’ Pesaro; il recupero della Punta della Dogana; l’area ex Junghans alla Giudecca).Questo quarto scenario passa per il tentativo di utilizzare al meglio tante nuove risorse; da quelle attualmente sprecate, a quelle le cui possibili mura si stanno costruendo. Tra quelle inutilizzate, una almeno è abbastanza clamorosa: la sede Rai di Venezia, in pieno centro storico. L’impresa radiotelevisiva pubblica possiede una location di tutto rispetto, di grande visibilità e di sicuro prestigio: il seicentesco Palazzo Labia sul Canal Grande, saloni affrescati dal miglior Giovanni Battista Tiepolo, nella sua piena maturità d’artista, la Vita di Cleopatra per esempio, e purtroppo visitabili soltanto a richiesta (fissare un appuntamento al numero 041.781.111). Sui Labia, che diedero il nome al palazzo, circolano non pochi aneddoti; erano incredibilmente ricchi, e, per esempio, dalle loro finestre lanciavano in canale perfino i piatti d’oro, al grido di «L’abbia o non l’abbia, sarò sempre Labia» 15.Ma il palazzo, certamente di grande prestigio, è un’ubicazione ormai anacronistica: poco utile alle finalità di una moderna impresa multimediale. Tanto che perfino i due studi radiofonici,

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assolutamente completi, che vi sono ubicati sono, purtroppo, da tempo del tutto inattivi e inutilizzati. E tanto che un centro culturale intitolato proprio a Palazzo Labia (non potrebbe ospitare, per dirne una, una qualche stagione di musica da camera, con esecuzioni affidate ai tanti complessi che si esibiscono a Venezia e sono ormai specializzati in musica barocca?) promette di essere presto rivitalizzato, e la Rai ha deciso di attribuirne la responsabilità a Riccardo Calimani, grande studioso dell’ebraismo veneziano (e non solo), per pochi giorni (poi si è dimesso) nominato anche consigliere della Biennale. «Nei nostri piani a breve e medio termine», dice Stefano Balassone, consigliere d’amministrazione della Rai-tv 16, «c’è l’intenzione di valorizzare il palazzo per quello che è; cioè un potenziale luogo di iniziativa e significato culturali; tanto che, dopo che qualche anno fa una parte era uscita dalla nostra proprietà, ci siamo affrettati a ricomperarcelo».Ma oltre al troppo da recuperare, c’è anche il molto di nuovo che sta nascendo. In particolare, a Marghera, il Parco scientifico e tecnologico, sostenuto anche dai fondi dell’Unione europea, in cui molti ripongono non poche speranze di sviluppo. Direttore ne è Giorgio Mattiello, 52 anni. Spiega che in questa zona stanno sorgendo una Città della musica, e una dell’immagine, entrambe gestite in modi abbastanza innovativi. «Della Città dell’immagine», dice 17, «si stanno occupando in molti: ha riscosso notevole interesse. Pensiamo a un coté di stampo maggiormente commerciale, e vi sarà una multisala gestita dalla medesima impresa, quella dei Furlan, che si occupa del circuito cinematografico di Mestre; poi, prevediamo delle attività di tecnologia dell’immagine, è già coinvolto un gruppo belga e se ne occupano anche dei developer americani. La Rai? Forse potrebbe avere un interesse a stabilirsi qui». E certo, potranno averlo anche un paio di poco conosciute aziende veneziane che, come spiega Roberto Ellero, «partite dall’attività di location per chi intendeva girare film nella città, sono diventate quasi un punto di riferimento per ogni impresa americana che si occupi di cinema in Italia, fino ad organizzare tutto quanto serve ad un produttore per girare nel nostro paese, dai discorsi fiscali a quelli delle paghe, e una di loro, per l’ultimo film con Kim Basinger, Sognando l’Africa, ha organizzato l’intera produzione in Italia». Queste due imprese «hanno poi collaborato anche con noi, per i corsi specifici che organizziamo, destinati ai giovani: per esempio, grazie a loro abbiamo potuto mostrare ai ragazzi come si illumina un set, sia in esterno che in interno». «Gli americani», spiega qualcuno, «cercano chi possa garantire le strutture necessarie alla post-produzione; e tra le proposte sul tappeto, c’è anche la costituzione di un “teleporto”, cioè un grosso campo di antenne per le trasmissioni satellitari».La Città della musica, invece, si fonderà su un primo nucleo strategico e sperimentale di attività: laboratori artistici, sale di registrazione audio e di montaggio video, punti vendita e dimostrativi; «immaginiamo anche un auditorium da 2.500 posti e magari un palamusica da diecimila, che serva anche per congressi e manifestazioni multimediali, nonché un’arena per spettacoli all’aperto», dicono in Comune; e lo sviluppo finale, potrebbe anche essere la nascita di un’università della musica e dello spettacolo. Ancora Mattiello immagina, tra le attività della Città della musica, anche un centro culturale e un archivio delle note veneziane, «che spazi da Vivaldi ai Pitura Freska», nonché «un centro sperimentale per nuovi gruppi musicali».Il vantaggio innegabile del Parco scientifico e tecnologico, progettato a partire dal 1993, è che già le sue strutture si cominciano a vedere; insomma, che si sta costruendo e sta nascendo per davvero. Qualcuno l’ha perfino chiamato «astronave» 18, altri «la fabbrica delle nuove idee» 19, o, scomodando anche il gergo anglosassone, l’ha addirittura definito Venetia gate, il cancello della città: certo è che buona parte del futuro di Venezia si giocherà in terraferma, a Marghera, in queste aree abbandonate dalle imprese ex Montecatini, ex Montedison, ex Enichem (e non solo), che – tra l’altro – vi sviluppavano anche lavorazioni non certo le più consone alle tipicità veneziane. Nel 1996, è stato recuperato il primo edificio, l’ex Cral della Agrimont, e vi si sono insediate le prime imprese; all’inizio 1999, sono stati resi disponibili altri 13.500 metri quadrati, subito occupati da aziende che si dedicano ad attività rare, a elevato contenuto tecnologico; e subito si è cominciato a pensare al terzo lotto, altri novemila metri quadrati, mentre, se sarà utile, si potrà arrivare perfino a una quarta e ad una quinta tranche del progetto. Quindi, oltre ad essere un’importante tappa di una ambiziosa riconversione produttiva e di terreni, l’iniziativa costituisce un’operazione imprenditoriale ad alto valore aggiunto, in grado di favorire l’insediamento delle più moderne tecnologie. Il ruolo di “capitale dell’immateriale” – titolo possibile per il quinto ed ultimo scenario, certamente di tutti il più ambizioso – che Venezia e perfino il suo centro storico potranno avere, passa anche attraverso i servizi, indispensabili, che verranno

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installati in questa sorta di terminal tecnologico di terraferma.Tra l’altro, servirà anche a risolvere antichissime e pur assai gravi carenze. Sempre nei panni del “testimone del tempo”, Cesare De Michelis ricorda che, quando, primi anni sessanta, Gianfranco De Bosio girava a Venezia, Il terrorista, film con Philippe Leroy, Gian Maria Volontè, Giulio Bosetti ed Ainouk Aimée, «bisognava mandare a sviluppare le pellicole a Milano, da dove tornavano dopo 48 ore. Se qualcosa del “girato” non andava bene, era perfino impossibile saperlo in tempo non soltanto reale, ma almeno accettabile». Da allora, la situazione non è cambiata: chi vuole realizzare un film a Venezia, o usa le moderne telecamere, oppure, se preferisce la classica pellicola, non ha nemmeno modo di poterla sviluppare.Ebbene, qualcosa di quel molto che a Venezia manca nel settore della produzione cinematografica, e una parte della stessa attività della Rai (per esempio, un centro da dove possano muovere le troupes che devono “coprire” le Tre Venezie in modo assolutamente tempestivo, e che costituisca in un certo senso anche la loro base operativa), potrebbero agevolmente trovare posto nel “Polo del futuro”. Anzi, la creazione in loco di una struttura della Rai-tv, anche con attività ad alto contenuto tecnologico «a noi interessa», dice ancora Stefano Balassone, anche perché «la stessa televisione a Venezia, ma più in generale nel Veneto, ha un problema di esilità, di crisi d’insufficienza».E continua: «È giusto collocare il problema della crisi di Venezia dentro la crisi dello spettacolo», e quindi è anche per di qua che passa una ritrovata vocazione imprenditoriale. «Le industrie creative richiedono consuetudine, rapporto, vicinanza, vita: Hollywood, per esempio, è una struttura creativa di Los Angeles; e New York stessa può essere intesa come una grande macchina creativa. Ma le macchine creative e le città italiane stanno invece tutte ferme. Bisogna rimetterle in moto, a tutti i costi», e Venezia potrebbe, quindi, costituire un’occasione che non si arresta alle soglie della Regione, non si ferma al Veneto.Allora, la differenza tra gli ultimi due scenari sta tutta qui: nella maggiore, o minore capacità di integrare tutte queste strutture. Soltanto “facendo sistema”, producendo qualità e creando circuiti, non soltanto museali ma anche produttivi e industriali, la città può puntare a un ruolo ambizioso, quello di “capitale dell’immateriale”. Raccordando tutto l’esistente; sforzandosi per farne esistere ancora di più; volando con la fantasia a quali prodotti immateriali possono trovare in laguna la propria fucina, dalla multimedialità fino all’ultima frontiera; e governando tutto questo assieme, in un lucido quadro di visione ambiziosa e strategica, secondo un autentico processo di modernizzazione. C’è davvero bisogno di «progettisti imprenditori», per riprendere il sottotitolo di un’interessante indagine-dibattito 20; ma c’è parimenti bisogno di chi raccordi il tutto in unità d’intenti, secondo un progetto globale di sviluppo della città. Senza mai dimenticare che, è vero, Venezia è grande, e il Comune esteso sulla terraferma più (almeno per il numero degli abitanti) che non nell’area lagunare; ma, come dice il musicologo Sandro Cappelletto 21, «Wagner non andava mica a Marghera: veniva qua».Forse, un simile progetto, che è assolutamente ambizioso non foss’altro perché la città non è mai riuscita a costruirne di altrettanto impegnativi, necessita perfino di nuovi collegamenti; e i «trasporti rapidi per via d’acqua» che il conte Vittorio Cini immaginava ormai quasi quarant’anni fa 22, probabilmente non bastano nemmeno più. Magari esorcizzando il rischio di “invasioni” che tutte queste strutture sempre comportano (in certe domeniche, a Roma viene sbarrata la fermata di Piazza di Spagna), il sindaco Massimo Cacciari ventila l’idea di «una metropolitana subacquea, da Tessera all’Arsenale, passando per Murano»; anche perché, spiega, la popolazione nel centro storico diminuisce, ma assai più per il problema dell’automobile, senza la quale nessuno vive, che non per quello della casa 23.E il presidente della Biennale, Paolo Baratta, inquadra così la problematica di quanto è ormai indispensabile fare: «Coordinare e governare le diverse attività, perché dall’insieme dei diversi soggetti, dall’insieme delle azioni e dal loro coordinamento possa sortire uno sforzo appunto coordinato, un effetto moltiplicato e quindi i buoni risultati dello sforzo congiunto» 24. L’“immateriale”: dove, se non in una cornice come quella veneziana? L’arte; la cultura; le tradizioni; le orme di un grande passato, ancora palpabili e misurabili, quasi ripercorribili; il nuovo delle tecnologie più avanzate, di comunicazione e di conoscenza: «Nella società della conoscenza e della globalizzazione, ciò che senz’altro non si può delocalizzare è il patrimonio culturale, costituito sia dai monumenti, sia dal talento accumulato nel corso dei secoli; società della conoscenza non significa soltanto un bagaglio di informazione: è anche percezione, memoria, immaginazione, critica. Nell’era della rivoluzione digitale, la prosperità delle nazioni e

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dei luoghi dipenderà dalla loro capacità di “navigare” nella conoscenza, e di produrre contenuti da immettere sulle autostrade dell’informazione», dice Giovanna Melandri 25, ministro dei beni e delle attività culturali. Dall’arte, al digitale; dai monumenti alle nuove frontiere della globalizzazione; alla “multimedialità”; a quanto, già oggi, fa molto domani: Venezia, che può esserne davvero capace ed è anche la più titolata a cimentarsi, riuscirà, una volta tanto, a volerlo davvero?

1 Sforza, Grandi teatri italiani, cit.2 Alessandro Bettagno, La mostra «Venezia da Stato a mito», in Venezia da Stato a mito, catalogo dell’omonima mostra

(Fondazione Giorgio Cini, Istituto di Storia dell’arte, 30 agosto-30 novembre 1997), Venezia, Marsilio, 1997 (Cataloghi di mostre).

3 Unesco, Rapporto, cit.4 Ivi.5 Ivi.6 Ivi.7 Giancarlo Lunati, presidente del Touring Club Italiano, colloquio con l’autore, marzo 1999.8 Università e città, incontro di lavoro promosso da Venezia 2000. Cultura e impresa e dalla Fondazione Cassa di

Risparmio di Venezia, Ca’ Mocenigo Gambara, 16 aprile 1994; materiali preparatori a cura di Giorgio Lombardi, Francesco Sbetti e Maurizio Sorcioni.

9 Colloquio con l’autore, febbraio 1999.10 Giuseppe Proietti, in un colloquio con l’autore, marzo 1995.11 Colloquio con l’autore, marzo 1999.12 Università e città, cit.13 Roberto D’Agostino, I nuovi scenari urbani, in Comune di Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Istituto Universitario di

Architettura di Venezia, Venezia. La nuova architettura, a cura di Marco De Michelis, catalogo della mostra (Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 26 marzo-13 giugno 1999), Ginevra-Milano, Skira, 1999.

14 Massimo Cacciari, Introduzione, in La nuova architettura, cit.15 Kent, Venezia, cit.16 Nel dibattito Lo spettacolo a Venezia, cit.17 Colloquio con l’autore, febbraio 1999.18 «La Nuova Venezia», 20.1.1999.19 «Il Gazzettino», 20.2.1999.20 Privatizzare Venezia. Il progettista imprenditore, a cura di Aldo Bonomi, Venezia, Marsilio, 1995 (Ricerche).21 Nel dibattito Lo spettacolo a Venezia, cit.22 Si veda capitolo 1, nota 17.23 «L’Unità», 13.1.1990, Per Venezia ora sogno il metrò subacqueo, intervista di Michele Sartori.24 Nel dibattito Lo spettacolo a Venezia, cit.25 Colloquio con l’autore, gennaio 2000.

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10) QUASI UNA POSTFAZIONEA conclusione di questo lavoro, che vorrebbe soltanto mettere una notevole quantità di dati – finora, forse, mai esposti, né osservati in modo tanto unitario – a disposizione di chi ha il compito di programmare e decidere, ma anche dei veneziani tutti e degli studiosi che devono sapere e comprendere, è giusto che io ne spieghi la genesi. E per farlo, devo innanzi tutto dare merito alla Associazione Venezia 2000. Cultura e Impresa (e per essa, a Giuseppe De Rita e Lucia Bartoli Valeri), che, insieme con la Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia (e, per essa, Roberto Tonini), nonché con l’apporto irrinunciabile di Cesare De Michelis (ha il grande pregio di non essere banale, e non è stato soltanto un normale editore: anzi, in primis un fondamentale interlocutore), mi hanno permesso d’occuparmi, nuovamente e con qualche spessore, di una città che mi è sempre stata assai cara, e dove, dal luglio 1969 al marzo 1970, ho anche lavorato. Mi piace ricordarlo: al «Gazzettino», con Alberto Cavallari come direttore.Così sono nate due piccole indagini, premesse per altrettanti dibattiti svoltisi a Venezia, nell’autunno 1998 e nella primavera ’99; e, da esse, questo “sguardo d’insieme”. I nomi delle fonti, che spesso ho tediato oltre ogni giusto limite (ma di solito, lo riconosco, hanno mostrato assai più della pazienza che mi sarei atteso), sono tutti puntualmente evocati, nel testo o in nota. E chi mi ha sapientemente aiutato, correggendo e completando (di tutti gli errori rimasti, mi assumo l’esclusiva, e fin d’ora ignominiosa, paternità), lo sa; come sa quello che io provo.

Roma, gennaio 2000