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Sorres, un’altra vita per le donne, di Rete delle Donne. Il Calendario “Sorres” nasce dalla volontà della Rete delle Donne di Sassari di trovare strumenti concreti di sensibilizzazione e di lotta per quella che sembra essere nel mondo, in Italia e anche in Sardegna, un’emergenza sociale in ascesa: la violenza contro le donne e il femminicidio. Le nostre donne che subiscono violenze e maltrat- tamenti, non senza difficoltà, si rivolgono ai pochi centri antiviolenza esistenti nel territorio, per trovare aiuto e protezione. Il Calendario, simbolo del tempo che scorre, per chi opera nella quotidianità, nel sus- seguirsi dei giorni sottolinea il diritto delle donne a vivere senza paura, a vivere con arte, armonicamente appunto; da qui l’idea di scandire lo scorrere del tempo con poesie e racconti a tema, immagini di donne raccontate da altre donne, con una sen- sibilità e solidarietà tutte femminili. “Sorres” sorelle, diciotto artiste, dodici visive e sei scrittrici, sarde di nascita o di ado- zione, unite per far riflettere e stimolare soluzioni per quella che sembra essere una nuova guerra. I proventi dell’iniziativa verranno destinati al progetto Un’altra vita per le Donne, a sostegno delle donne che lasciano la casa protetta del Centro Antivio- lenza Aurora di Sassari. Il Calendario è quindi un piccolo dono per un grande progetto, un gesto d’amore, tan- gibile e significativo, della Rete delle Donne di Sassari, sorelle per sorelle. Durante il 2014, la Rete delle Donne darà pubblicamente conto dell’esito dell’inizia- tiva. Non c’è un fuori: siamo tutti dentro, di Alberto Masala. Portare la colpa del mio genere? Non posso e non devo. Ma posso assumere perso- nalmente la sacralità di ciascuno nel mondo. E la separatezza da chi, assegnandomi identità, vorrebbe prestabilire il mio arbitrio: un maschile cui non appartengo. Con questa coscienza dichiaro che è colpevole chi agisce, ma lo è ugualmente chi tace, non guarda, sostiene, rinfocola l’ignoranza che crea il percorso della violenza. È col- pevole lo sguardo sulla donna costruito dall’arroganza ipocrita della morale, quanto la meschinità dell’esercitarlo. Mi assento da quel maschile che non ha mai confor- mato il mio spirito. Scelgo l’Etica che si prende cura di chi, per debolezza culturale, isolamento, fragilità affettiva, s’incolpa della propria disgrazia come se dipendesse da un’ancestrale incapacità di genere. E, invece di ribellarsi, si svaluta, tace, tollera, sopporta sofferenza e depressione nella fatalistica frustrazione di un falso destino che crede implicito del proprio essere femminile. Eccomi ancora qui: da sempre sto con chi parla, pensa, scrive, immagina e coltiva lo sguardo. Sto con le donne che ringrazio per aver creato questo calendario. Restiamo testimoni per usare diversamente il simbolo della massima oppressione: il Tempo, manovrato dai Sistemi che controllano e stabiliscono i nostri bisogni. Rovesciamolo insieme questo Tempo, con la sua cultura di violenza e di mediocrità. Per le donne, di Mariolina Cosseddu. Sono scatti emozionati quelli che dodici fotografe realizzano per le donne, per tutte le donne fragili e in balia della violenza maschile. Un’emozione controllata dalla professionalità di chi l’obbiettivo lo usa come mezzo privilegiato di espressione ma che, nell’irragionevolezza del tema, vede vacillare l’oggettività della denuncia. Prevale, di volta in volta, di immagine in immagine, lo sdegno e la rabbia, l’amarezza e la dolorosa rivelazione, accuse che fremono e vibrano nelle intense composizioni. Inquadrature e tagli decisi che vanno al cuore del problema e dicono sottovoce o quasi urlando, un dolore da condividere con la coscienza di tutti, con l’urgenza di una verità finora inascoltata. Una questione spinosa, difficile da dire, più difficile da rappresentare. Una follia, una vergogna contemporanea con radici antiche, che scatena una indignata risposta. Il mezzo fotografico svela il suo potere e ci conduce laddove non vorremmo inoltrarci, su un sentiero che vorremmo mai tracciato. Se il linguaggio scelto dalle artiste è diretto e forte come una lacerante scoperta, il colore e la luce ne sono i complementi necessari: anche laddove il bianco e il nero dominano nella livida luminosità, è il colore a prevalere, ad invadere le immagini come segno di una sottile speranza che riscatti chi è stata abusata e maltrattata, vio- lentata e offesa. Ogni immagine racconta una storia, con accenti realistici o attraverso liriche meta- fore, in ogni caso mostra una ferita da risanare, una prigione dell’anima e del corpo da divellere, una perduta innocenza da denunciare. Spingendo l’immagine verso una forte capacità evocativa, ineluttabilmente allusiva di una strisciante violenza mai nascosta, le fotografe artiste non rinunciano mai al- l’estetica compositiva, all’impaginazione raffinata, alla suggestione lirica, estremo omaggio ad una bellezza femminile troppe volte oltraggiata.

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Sorres, un’altra vita per le donne, di Rete delle Donne.

Il Calendario “Sorres” nasce dalla volontà della Rete delle Donne di Sassari di trovarestrumenti concreti di sensibilizzazione e di lotta per quella che sembra essere nelmondo, in Italia e anche in Sardegna, un’emergenza sociale in ascesa: la violenzacontro le donne e il femminicidio. Le nostre donne che subiscono violenze e maltrat-tamenti, non senza difficoltà, si rivolgono ai pochi centri antiviolenza esistenti nelterritorio, per trovare aiuto e protezione.Il Calendario, simbolo del tempo che scorre, per chi opera nella quotidianità, nel sus-seguirsi dei giorni sottolinea il diritto delle donne a vivere senza paura, a vivere conarte, armonicamente appunto; da qui l’idea di scandire lo scorrere del tempo conpoesie e racconti a tema, immagini di donne raccontate da altre donne, con una sen-sibilità e solidarietà tutte femminili.“Sorres” sorelle, diciotto artiste, dodici visive e sei scrittrici, sarde di nascita o di ado-zione, unite per far riflettere e stimolare soluzioni per quella che sembra essere unanuova guerra. I proventi dell’iniziativa verranno destinati al progetto Un’altra vita perle Donne, a sostegno delle donne che lasciano la casa protetta del Centro Antivio-lenza Aurora di Sassari.Il Calendario è quindi un piccolo dono per un grande progetto, un gesto d’amore, tan-gibile e significativo, della Rete delle Donne di Sassari, sorelle per sorelle.Durante il 2014, la Rete delle Donne darà pubblicamente conto dell’esito dell’inizia-tiva.

Non c’è un fuori: siamo tutti dentro, di Alberto Masala.

Portare la colpa del mio genere? Non posso e non devo. Ma posso assumere perso-nalmente la sacralità di ciascuno nel mondo. E la separatezza da chi, assegnandomiidentità, vorrebbe prestabilire il mio arbitrio: un maschile cui non appartengo. Conquesta coscienza dichiaro che è colpevole chi agisce, ma lo è ugualmente chi tace,non guarda, sostiene, rinfocola l’ignoranza che crea il percorso della violenza. È col-pevole lo sguardo sulla donna costruito dall’arroganza ipocrita della morale, quantola meschinità dell’esercitarlo. Mi assento da quel maschile che non ha mai confor-mato il mio spirito. Scelgo l’Etica che si prende cura di chi, per debolezza culturale,isolamento, fragilità affettiva, s’incolpa della propria disgrazia come se dipendesseda un’ancestrale incapacità di genere. E, invece di ribellarsi, si svaluta, tace, tollera,sopporta sofferenza e depressione nella fatalistica frustrazione di un falso destinoche crede implicito del proprio essere femminile.

Eccomi ancora qui: da sempre sto con chi parla, pensa, scrive, immagina e coltiva losguardo. Sto con le donne che ringrazio per aver creato questo calendario. Restiamotestimoni per usare diversamente il simbolo della massima oppressione: il Tempo,manovrato dai Sistemi che controllano e stabiliscono i nostri bisogni.Rovesciamolo insieme questo Tempo, con la sua cultura di violenza e di mediocrità.

Per le donne, di Mariolina Cosseddu.

Sono scatti emozionati quelli che dodici fotografe realizzano per le donne, per tuttele donne fragili e in balia della violenza maschile.Un’emozione controllata dalla professionalità di chi l’obbiettivo lo usa come mezzoprivilegiato di espressione ma che, nell’irragionevolezza del tema, vede vacillarel’oggettività della denuncia.Prevale, di volta in volta, di immagine in immagine, lo sdegno e la rabbia, l’amarezzae la dolorosa rivelazione, accuse che fremono e vibrano nelle intense composizioni.Inquadrature e tagli decisi che vanno al cuore del problema e dicono sottovoce oquasi urlando, un dolore da condividere con la coscienza di tutti, con l’urgenza di unaverità finora inascoltata.Una questione spinosa, difficile da dire, più difficile da rappresentare. Una follia, unavergogna contemporanea con radici antiche, che scatena una indignata risposta.Il mezzo fotografico svela il suo potere e ci conduce laddove non vorremmo inoltrarci,su un sentiero che vorremmo mai tracciato.Se il linguaggio scelto dalle artiste è diretto e forte come una lacerante scoperta, ilcolore e la luce ne sono i complementi necessari: anche laddove il bianco e il nerodominano nella livida luminosità, è il colore a prevalere, ad invadere le immaginicome segno di una sottile speranza che riscatti chi è stata abusata e maltrattata, vio-lentata e offesa.Ogni immagine racconta una storia, con accenti realistici o attraverso liriche meta-fore, in ogni caso mostra una ferita da risanare, una prigione dell’anima e del corpoda divellere, una perduta innocenza da denunciare.Spingendo l’immagine verso una forte capacità evocativa, ineluttabilmente allusivadi una strisciante violenza mai nascosta, le fotografe artiste non rinunciano mai al-l’estetica compositiva, all’impaginazione raffinata, alla suggestione lirica, estremoomaggio ad una bellezza femminile troppe volte oltraggiata.

Claudia Baldus “Silenzio”.

Hotel. Di Lalla Careddu.

Interrompimi quando ti va

Benvenuti a dogville, la città dei cani. Qua non ci sono pompe di benzina, ma

greppie piene di storie e gioiellieri che fanno dondolare catene di oro finto.

Quando i cani la presero lei forse canticchiava Mercedes Benz, con i capelli

sporchi e le unghie ridotte a un’idea di unghie, lei ridotta a un’idea di donna. Il

sesso un ricordo e nemmeno troppo importante. Janis, lei è la mia madonna.

Infilzata di aghi e assunta all’inferno della mia memoria.

Interrompimi se ti va

Benvenuti ad aracnoville, la città dei ragni. Qua non ci sono bar, ma stanze

piene di quadri dipinti con le mani, e farmacisti che dondolano lacci emostatici

veri.

Quando i ragni lo mangiarono lui si era fatto tre maratone e due figli, una sfilza

di seghe e nessun amico. Non che i ragni si preoccupino, ma lui ci teneva. Ai

figli dico. Ma riconobbe gli occhi dei bambini nei ragni.

Interrompimi se vuoi

Benvenuti a sharkville, la città degli squali. Qua non ci sono teatri, ma pesci

enormi che succhiano e non mordono, e pizzaioli che dondolano pomodori di

sangue.

Quando gli squali la succhiarono lei scriveva brutte poesie e annodava collane

inutili. Ventre piatto e sterile, madonna di nessuno, croce di qualcuno. Quando

venne risucchiata nella gola del pesce lei pensava a una poesia.

Interrompimi se puoi

Benvenuti a wormville, la città dei vermi. Qua non ci sono cinema, ma vermi

gentili con bocche di velluto, e sindaci che dondolano cappi di nylon.

Quando i vermi l’accarezzarono la ragazza era innamorata del nulla e del tutto

e cantava girando sulla griglia di gesso giù in strada. Non furono i vermi, ma

il cappio. Che sfiga

Interrompimi se sei stanco

Benvenuti a honeyville, la città di miele. Qua non ci sono market, ma martiri e

santi, e troie dal canto sublime.

Quando il miele la soffocò lei stava potando un ciliegio con mani di strega, le

labbra socchiuse, gli occhi velati di pianto. Nemmeno un martire a continuare

il lavoro.

E ora dormi se puoi

GEN

NAIO

Giusy Calia “Nada te turbe”.

Prima che vengano a prenderci. Di Lalla Careddu.

La collana che ho disegnato sul tuo collo con il vetro non sanguina più, amore mio,mia dolce Elena. Ti stendo sul mio letto,  apro le finestre su questo agosto desertoe mi stendo vicino a te. Voglio la tua gioia, prima che vengano a prenderci. Vogliovederti fiorire su questo lenzuolo, nuda come una bambina appena nata, la miabimba con la collana al collo, la mia bimba adorata e zitta zitta zitta.

La prima fase è il rigor mortis: la decadenza dell’adenosintrifosfato causa l’irrigi-

dimento di tutti i muscoli del corpo, a partire dalla mascella.

Oggi mi tieni il broncio, Elena. Capirai più avanti quale meraviglia sarà la tua vita,

replicata milioni e milioni di volte. Sfioro il tuo corpo nudo e accarezzo la collana

che ti ho disegnato, non sanguina più. Frugo a toccare le tue corde vocali, ferme. La

vita non parla, Elena amore, la vita schiocca, fruscia, sibila ma non parla. Ti resti-

tuisco la parola della vita recidendo i tuoi fili biancastri, corde di un osceno clavi-

cembalo. Le mangerò, stasera, per tacere anch’io.

Prima  che vengano a prenderci.

La seconda fase è quella dell’ autolisi ed autodigestione. L’autolisi consiste nell’au-

todistruzione dei tessuti del cadavere ad opera di enzimi proteolitici lisosomiali che

si liberano dopo la morte della cellula..

Stamattina le tue labbra hanno scoperto i tuoi dentini, e mi sorridi. Finalmente te-

soro mio hai capito quanto io ti amo. Siamo soli in questa estate oscena, i mostri

del piano di sopra saranno al mare ancora per molto tempo. Mostri che zampettano

per le strade che aspettano di uccidere la vita chiudendo i loro morti in casse di

metallo, consegnandoli ad una eternità sterile, con le loro pelli avvizzite e dure come

il cuoio. Inutilmente eterni.

La terza fase è lo stadio cromatico: è caratterizzato da macchie verdi che si diffon-

dono su tutta la cute. È dovuta al combinarsi del pigmento ematico con l’idrogeno

solforato dell’intestino e produzione di solfoemoglobina.

Il tuo corpo è un prato, e il sole ti illumina caldo. Per un attimo ho avuto paura che

respirassi e ho affondato il vetro nella tua bocca per scacciarlo. Non avere paura

anima mia, non permetterò che la vita di questi poveri stronzi ti prenda, tu sei già

nella vita perfetta che io ti ho creata, nel movimento gassoso che sento sotto i pol-

pastrelli. È arrivato il tuo menarca, lo vedo dalle macchie scure che si allargano

sotto il tuo culo, sul lenzuolo aggrinzito. Rendo grazie al tuo sangue mestruale

nuovo, lo adoro, costruisco un altare prima che vengano a prenderci.

La quarta fase è quella colliquativa: i germi anaerobi si diffondono fino alla cute; la

putrefazione, che in fase cromatica e gassosa aveva un decorso centrifugo, acquista

ora un andamento centripeto.

Sono arrivate le mosche. Un’ora fa eran solo due e una sul mio cazzo colloso.  Ho

aperto un cancello nel tuo ventre, giù sino alla fica, l’ho aperto con un coltello pic-

colo. Sei così cedevole, amore mio, vergine santa del mio amore benedetto. Ora le

mosche sono milioni, sono un  velo di tulle sulla mia sposa, sulla madre della terra.

Ti fecondano anche loro e tu le fecondi, Elena bella, Elena mia, Elena troia. Porte-

ranno il tuo seme ovunque nel mondo, sarai giglio, pomodoro, sarai pesce e sarai

cane. Ti lasciano uova nelle narici aperte, sul platino che ha trasformato i tuoi occhi.

Prima che vengano a prenderci, Elena madonna, Elena bella, Elena amore nasce-

ranno i tuoi figli, regina delle ali, regina delle mosche.

Prima che vengano a prenderci.

FEBBRAIO

Patrizia Cau “Io merito rispetto”.

Bobboti. Di Luana Farina.

Da una radio accesa lontano arrivano le note:

“Muta senza respironon più pugni sul visourlati al posto di paroleche pur facendo maleuccidono solo il cuore…tara tatà…tarà tatà.”

Muta senza respiroil sangue cola dal labbrosputa un dente spezzatole gambe livide tremano sotto il sesso violato…tara tatà…tarà tatà.”

Per anni l’ho guardato con occhi ciechi; con gli occhi di chi guarda un amore malato. Malatocome i miei occhi e quando tutto succedeva, bastava coprirli con la mano sudata di paura. E poi toglierla E rimetterla.E toglierla.E rimetterla, fin quando tutto sembrava svanire come facevo da piccola quando nel buioscorgevo Bobboti.

Il mio Bobboti di donna, comunque, restava lì; i miei occhi si rifiutavano di vederlo e lemie orecchie di sentirlo, quando, senza motivo, mi usava come tirassegno per i suoi insulti.Dal mare del dolore facevo emergere voci di sirene che cantavano le rare parole che lui,il Bobboti, mi aveva spacciato per amore.

Il canto d’oblio copriva lo schifo, come quando da piccola ripetevo a cantilena – BLA BLABLA BLA – tappando le orecchie, per non sentire qualsiasi cosa mi disturbasse. Nemmeno il mio corpo voleva più sentire i colpi che, a tradimento, arrivavano sul volto,sulle costole, i denti piantati sulle braccia e sul seno, i calci alle gambe e alla schiena.Nemmeno i miei vicini di casa, eppure erano le mie le orecchie “sorde d’amore”, non leloro; loro sì, avrebbero dovuto sentire, quando in terra, nuda, raggomitolata su me stessa,ancora non muta, guaivo per il dolore, “come una cagna ferita”, diceva Bobboti. Sghignaz-zava e mi lanciava fiammiferi accesi, come si fa nei combattimenti fra cani, che per fortuna

si spegnevano nel piscio tiepido della paura. Vicini e parenti e amici: tutti ciechi e sordi emuti come le tre scimmiette. Nessuno mai chiese conto dei lamenti, dei lividi, degli oc-chiali indossati anche dopo il tramonto, o delle smorfie di dolore per un abbraccio o met-tendomi a sedere.

Chissà perché ora hanno tutti tanto da dire su ciò che hanno visto o sentito. Ora che i mieiocchi sono guariti e anche le mie orecchie e la mia bocca.

Da qui sento e vedo. Tutto.E non starò più zitta. Mai più.

Ero lì, mentre portavano via Bobboti, in tre, lui gridava ancora il suo falso amore, assiemealla rabbia, perché andavo via “amore mio, ci vogliono dividere ma tu sei mia, solo mia…”urlava.Anche gli altri che finalmente sentono, vedono e parlano, di quanto eravamo felici, di comelui fosse un bravo ragazzo, e anche io, forse un tantino triste, ma gentile e riservata, epoi anche i giornali e la tv…roba da montarsi la testa!Ora lo sono davvero “riservata”, in questo tunnel dove mi avete messa e da cui vi vedotutti, in questo buco nero dove fiori, onori e lacrime di coccodrillo mi fanno compagnia.

Da una radio accesa lontano arrivano le note:

“Muta senza respironon più pugni sul visourlati al posto di paroleche pur facendo maleuccidono solo il cuore…tara tatà…tarà tatà.”

Muta senza respiroil sangue cola dal labbrosputa un dente spezzatole gambe livide tremano sotto il sesso violato…tara tatà…tarà tatà.”

MARZO

Giulia Mameli “Inizio della fine - presa di coscienza”.

Tu mi volevi quercia salda a terra. Di Roberta Tomaselli.

tu mi volevi quercia salda a terraa sorreggere la tua debolezzae mi volevi fiore a darti profumogentilezza amorecome un fiore appassito poimi butti via.Così non so più ciò che sonosono una cosa smarritacalpestata dal tuo orgogliodi maschio prepotente.

APRILE

Paola Rizzu “Cosificazione _ senza scadenza”.

Stanotte tra stelle fuggenti. Di Savina Dolores Massa.

Fu viola come il fiore del pensierocon polvere di nocche sulle palpebre,la mandibola spezzata da paroleparole!parole d’elemosina primapoi rancore. I capelli di una donnasono lunghi per nascondereil dolore e la vergogna

La chiamava Amore ai primi tempi – sia chiaro.Le baciava possesso sul collole mordeva le perle regalo di, Buon compleanno mio amore.Mio amore!

Cadde uno specchio perché nessuno si guardasse.Lei sui frammenti strisciò i polsi, e i bracciali,e ogni costruzione di giorni,e nessun piantoMio amore, rise la lama ferendo una veste con rose piccineuna specie di seta. Dal baco fiorisce la farfalla, si narra.Nessun volo stanotte tra stelle fuggenti

Lei, penetrata dal fallo della morte,[ebbe cura di tagliarsi i capelli sul tanfo

di una porta che va via

MAGGIO

Paola Fiori “La fine del gioco”.

Il tuo gioco bastardo. Di Roberta Tomaselli

Di nascosto son passata sotto casa, nulla è cambiato: il giardino la siepe che ci vide felici. Rimpianto? Non so.So soltanto che la mia vita era avvelenata da speranze non vissute. Fino all’ultimo ho sopportato il tuo crudele essere uomo,le tue ingiuste obiezioni, i sospetti le crudeltà gli schiaffi e tutti quei progetti accarezzati ma mai realizzati. Sei stato unoschiavista con la pretesa che fossi pronta alle tue pretese quando tu eri pronto a possedermi come una cosa urlando le tuegelosie e le tue voglie. Mi trascinavi a terra per i capelli e mi tiravi calci ovunque senza notare dove scagliavi il piede calzatoda scarpone e gli schiaffi. I bambini, sentendoti urlare andarono dai carabinieri. Ecco, allora compresi che non mi meritavi;si risvegliò il mio orgoglio di donna e di madre e ti lasciai, con due valigie, i bimbi per mano, andai da mia madre. Tu continuiil tuo gioco bastardo, con qualcun’altra, ma io ed i bambini viviamo meglio.

GIUGNO

Rosathea Cossu “La madre dell’uccisa”.

LUGLIO

S’affumentu. Di Rita Bonomo. (Estratto da dìri dìridànna, 2006, edito da liberodiscrivere editore.)

Ho spiato una notte che ritorna dalla finestra difronte, stanotte. Ne ho sentito i passi addosso cheritornano –come quella notte- e con essi le magliedello scacco che, insieme ad una madre, m’ha fattoostaggio di una notte che non ho chiamato. Ho sen-tito una notte entrare nella mia stanza –senza per-messo-. Arrivava dalla casa di fronte. Ho sentito isuoi passi camminarmi addosso, senza permesso,e con essi le maglie impossibili di una notte sottouno scacco impossibile. Ho ascoltato rumori dis-sacranti la notte, quella notte, li ho sentiti anchestanotte. Ho sentito l’imponenza del loro suono ad-dosso e con essa le maglie dello scacco di unamadre e dei suoi figli i cui singhiozzi inascoltati, mi-schiati a quella notte di stridore, non potrò mai piùdimenticare. Ho fatto i conti con quella notte, tantedi quelle notti, che la notte è ormai scacco perpe-trato dal suono di una notte che urla tutto il suo do-lore. E si erige, la notte. Urla la notte. Urla con boccadi madre tutti i singhiozzi inascoltati. Urla la notte.Urla una bocca di madre che piange con la vocebianca dei propri figli sotto scacco. Urla una vocebianca a tre gole, imprigionata per sempre nellanotte. Urla la madre, urla tutto il rimorso che sannofare le mie notti. Urla, per tutte le madri, quella ri-chiesta di soccorso che, tra i suoni mischiati diquella notte, non ho saputo ascoltare. E ho unanotte ammalata nelle orecchie, ho le orecchie am-malate di quella notte che si perpetra, tutte le notti,per ammalarmi di rimorso.

E fare i conti con ognuno di loro -gestirli - hai detto.Ho scoperchiato le notti, una dopo l’altra,guardandoci dentro simultaneamente.

Il fondo è lo stridere di un urlo malcontenutodalla giugulare di un maiale castrato a fil di ferroche non può figliare amore

Gli hanno ammazzato anche l’ultimo figlio-così hanno detto-

Endofasiamal d’orecchie rimedi popolariche sanno di caffè e fruscii

Voglio una majalzache metta in fila gli anarchici neuronie li scopi per me , spegnendo luci e rumoriCredo avrebbe i vostri occhi stupitiche piangono di commozione-Nessun bau bau in camice biancopuò frugarci dentroritrovando poi il posto di ognuno-hai detto

-Gestisci- hai detto

Ma è l’idea del cruentoad avere segni viola sul collo-lì, appena vicino l’orecchio-e ovatta a lenire il rumore sordod’una minaccia sospesa a mezz’ariatra il rumore d’una porta e il soffitto

che viene giù a togliere l’aria-Gestisci-hai detto

Sangue su vetri e piante scalzeche più non dolgono -vuoi ancora sentire?-Chi si alzerà per primoavrà il pigiamino macchiato di rossoe piante ignifughe a vital’altro terrà il conto del tempo che passae dei vari espedienti per far cessareil latrare dei cani-senza trovarne uno-e custodirà le urla appese ad un gancioin mezzo alla stanza

-Gestisci-hai detto

Sai, il candore delle perlesi tutela solo a contatto con la pelleIo, ho preso un ago e del ghiaccioe anestetizzati con cura i lobili ho forati -i lobi- con le mie stesse mani:tre volte il destro, quattro il sinistroper filtrare l’ udito, disperdendolo tra i foriabituandomi al dolore delle orecchiema ancora non so occuparmi di quel candore

Non conosco le preghierema ho riempito una tegola di foglie d’ulivo e granoli passo sopra,attorno e sotto i piediin attesa che una madre le reciti per me.

Francesca Randi “Nessuno ti sentirà”.

L’infelicità di Sylvia Plath. Di Luana Farina.

Dentro la testa della poetessa esausta

c’è il nulla vitale senza immagini

invisibili agli occhi di chi la guarda.

Ingoia lacrime come veleno seduta sul divano

piedi nudi affondati nella moquette

grigia come l’esistenza senza amore

mentre affoga il suo dolore inventato

ché teme l’altra glielo porti via

generato dalla sua stessa mente

posseduta dal verme della gelosia.

Lui andò via e poi un giorno tornò

lui bussò e lei aprì la porta dicendo

-forza entra!prendi qualcosa da bere?-

Lo baciò e tutti i miserabili fantasmi sparirono

dentro bocche incollate

sessi che si mancavano

nati come due metà distinte che si uniscono

per fare di un grande amore una grande poesia

che non si scioglierà mai

nemmeno fosse neve al sole

pensava…

nemmeno quando lei poetessa del dolore

uccisa prima da lui

che tornava dalla pregna amante

baciati i bambini e imburrate due fette di pane

entrò con la testa dentro il forno

per respirare silente gas liberatorio .

Uscì così dalla propria vita come da quella casa

avvolta in una bara rossa dopo l’ultimo bacio

che lui miserabile poeta le mandò

un freddo giorno d’inverno

al sicuro da dietro la finestra della casa

che li conobbe amanti e poeti mai felici.

AGOSTO

Veronica Muntoni “Nulla va nascosto”.

S’ultima angaria. Di Tetta Becciu.

Sola,frundida in su cuzolu‘e unu terighinu murinu,s’ojada a car’a chelujamat sos isteddos…a illebiare s’anima suaferida.

Falat,sulenas’ultima lagrima ‘e pratain su chizu ‘e rosa…

Attesu…unu caneapeddata sa luna mori-mori…nuschendes’attuffu ‘e sa morte.

In sa nottech’istremutit sa luna…unu coro ‘e astrau,appoderiu*appeutat*sas fruas de unu lizu …*e fischinidas de bisos *de una femina…

in fiore ‘e vida.

SET

TEMBRE

L’ultima violenza. (traduzione). Sola,/in un angolo/di una strada buia, /abbandonata/come un cencio/da buttar via…/lo sguardo rivolto/al cielo/chiama con flebile voce/le stelle…/a lenire/la sua anima /ferita./Lenta,/l’ultima lacrima solca/il suo viso di rosa…/Lontano…/un cane/abbaia alla luna…/fiutando/l’odore acre della morte./Nella notte/dell’ultima violenza,/anche i sassi han tremato…/un cuore di ghiaccio/ha calpestato/i germogli di un giglio.../e briciole di sogni/di una donna…/che apriva il varco/ai primi sentimenti… e promesse/d’amore!

Rita Chessa “Natura morente”.

Quando non si poteva contare fino a cento novanta quattro. Di Savina Dolores Massa.

La casa clandestina era in palazzosalimmo scale, obbligate a non leggerecognomi veri ai campanellia non vederefiocchi rosa o azzurri sulle portea non sentire alcun suonodi parole verseggiate per insulto

Ognuna, dei mobili in salotto, e delle altrenon ne notò la forma, ma intattoresterà a vita quel ricordo, di comesi cercassero tra lorole punteirrigidite di ogni scarpa

Ognuna, entrò sola nella cucinail tavolo puzzava di cipolletriturate per un sugo, raffinatecon la carne e le sue spezieil giorno prima

Ognuna, su quel tavolosi spogliò solo le gambe

Il lutto era rosso nella vascaembrioni da lavare a candegginao polvere abrasivaacqua calda per un prossimo turnoatteso a testa bassataciturno

Scendemmo scaleobbligandoci a non leggerecognomi veri ai campanellia non rubarefiocchi rosa o azzurri dalle portea non sentire alcun suonodi parole verseggiate per insulto

OTT

OBRE

Fabiola Ledda “Sposa con rami”.

Mascherata- Cherchez la femme.Di Rita Bonomo. (Estratto da dìri dìri dànna, edito da liberodiscrivere 2006).

Incolume? Avete detto incolume?Pura strategia non deturpare i vostri annosi, affabili alfabeti(ipocriti, ho detto!)mia sufficienza guardare oltre ogni vostro annoso, affabile labiale.

Ecco, sono l’ospite sbranata dal vostro credo indotto,siedo –per sconsiderata circostanza- alla destra del padreonorandolo, con devozione.Per due moine ci faccio all’amore –esorcizzando quell’imponenza che duole-Una leggerezza imperdonabile (lo so) guardare oltre ogni vostra annosa convenzione

EppureCredo in Dio Santo OnnipotenteCreatore del cielo della terra Sono come mi volete, come m’ avete allevata, sono ossequiosamente morigerata!

Quale straordinario raggiro, ora, questo incollarsi i vostri abbracci pietosi addosso?Sono la grande accerchiata cieca, mi dissepellisco –spuria marionetta-mi contemplo nella cerchia e con benedetta boria mi distinguo-eccello per aborigeno ingegno!-

Ecco un braccio, ci sono, rispondo all’appelloUna mano. Oh, le mie unghie rosicchiate hanno smesso di graffiareEcco le dita e uno spudorato anello –ancora- sull’anulare destro(un ostensorio d’indugi –ora- questo lauto perdono)Ecco il mio bacino rovesciato, sculettare adagio in accorta posaUna gamba infetta –è stata una zecca femmina che femmina m’ha infettata-Ecco la testa – orgoglio di padre perché parte buona di sperma-Ecco una grande bocca spalancata al ratto d’un prepuzio santo

-Ah, quale consolatorio oblio la divorazione!- -Perversa!- avete detto-Una ubbidita divinazione!- Ho risposto Questo l’altare dei miei natali onorato con riguardoun feticcio, un souvenir anch’esso, da riporre vicino alla catenina battesimalee ad un Cristo appeso alla sua croce, cui –affidata- lesinare una qualche benedizione -Raccapriccio!- avete detto-Un capriccio di esclusività, per la di me fautrice di me stessa, mia unica religione- ho rispostoda portare in dote al mio promesso sposo insieme ai candidi e lindi lini di corredo che si convengono alla femmina bianca ch’avete allevato bianca femmina da affidare ad un uomo.

Ed ecco il dorso e le tette, damigelle incaponite le areolee il bianco cosmo che verrà, con il suo latte, per un culetto rosso maschio da sculacciarein cambio d’un vagito pronunciante il mio nome

Intento vano quell’inclinazione a spogliarsi d’un antico e vetusto ruoloLe femmine di casa acclamavano la femmina da consegnare e prima di rivestirsi di quella bonaria e presunta benevolenzadalla platea urlavano: - all’adempienza, all’adempienza!-

Riponetemi nel mio cul de sac –se credete-Lì –tra i rondò del silenzio e i portaritratti vuoti delle vostre vuote facce- farò certo meno rumore

Ed è strano non fosse carnevale ma faceva freddo da rivestirsi

E piano piano andarono via, tutte, sfilando.

-Ma che bella infornata!-

NOVE

MBRE

Chiara Cossu “Yesterday”.

Anima ‘e umbra. Di Tetta Becciu.

In s’aidu ‘e sa notte dae sempre isetto unu carignu ‘e lughe.

Chirco ‘olos de paghe… in trainos de mudesa e libertade, in alenos pasidos de ‘entu.

A lugore ‘e ammentos carigno peraulas chi ricaman avreschidas in coro.

Trimizones de bisos atzenden relicchias de vida

in s’anima mia de umbra….imbalzamada…

E bizo, in coa ‘e sa notte furende cun ojos de ispera speranzadae sa tramas-presone de su “burqa”, farfaruzas de lughe a sos isteddos chi vagabundos

fuen… dae sas manos de sa vida mia de femina (?)

afghana…

DICEM

BRE

Anima d’ombra (traduzione) Nel varco della notte/aspetto/ancora/una carezza di luce./Bramo voli di pace…/in rivoli di silenzio/e/libertà,/in pacati respiri/di vento./Abbracciata ai ricordi/accarezzo parole/che ricamano albe/nel cuore./Rosari di sogni/accendono/reliquie di vita/nella mia anima/d’ombra/…imbalsamata…/E veglio,/in grembo alla notte/rubando con occhi di speranza/dalle trame-prigione/del “burqa”,/briciole di luce/alle stelle/che vagabonde/fuggono…/dalle mani/della mia vita/di donna (?)/afghana…

Le artiste e le scrittrici hanno collaborato a titolo gratuito alla realizzazione di questo calendario. Progetto grafico e impaginazione a titolo gratuito di Salvatore Palita -www.studiosegno.info.