- CAROL - di Patricia Highsmith (in italiano)

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Therese, 19 anni, è un'apprendista scenografa che, per raggranellare qualche soldo, accetta un lavoro temporaneo in un grande magazzino durante il periodo natalizio. Il suo rapporto sentimentale con Richard si trascina stancamente, senza alcuna passione tra voglia di coinvolgimento e desiderio di fuga: anche il viaggio che hanno progettato in Europa ora la intimorisce. In una gelida mattina di dicembre, nel reparto giocattoli dove lavora, compare una donna bellissima e sofisticata, in cerca di doni per la figlia. I grigi occhi della sconosciuta catturano Therese, la turbano e la soggiogano e d'un tratto la giovane si ritrova proiettata in un mondo di cui non sospettava nemmeno l'esistenza. È l'amore che le due donne si apprestano a vivere.

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Therese è un’apprendista scenografa che, per mettere insieme qualchesoldo, durante il periodo natalizio si fa assumere in un grande magazzino.Il suo rapporto sentimentale con Richard si trascina stancamente. Tuttoper Therese sembra precipitare in una grigia e disperata routine fino algiorno in cui conosce l’affascinante e bellissima Carol che, insinuandosinella sua vita le fa conoscere l’ebbrezza di un amore diverso...

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D i Patricia Highsmith (Fort Worth, Texas, 1921 – Locarno, Svizzera,1995) Bompiani ha pubblicato tutte le opere narrative. I suoi romanzi eracconti hanno anche ispirato celebri film: da Sconosciuti in treno è statotratto il capolavoro di Alfred Hitchcock L’altro uomo ; il personaggio piùfamoso della scrittrice, Tom Ripley, è stato portato sullo schermo daWim Wenders ( L’amico americano) e poi riproposto con il volto di MattDamon nel film Il talento di Mr. Ripley , per la regia di AntonyMinghella; da Il grido della civetta Claude Chabrol ha tratto Il grido delgufo.

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eISBN 978-88-58-74358-4

© 1995/2007 RCS Libri S.p.A.

Via Mecenate 91, 20138 Milano

Prima edizione digitale 2012 dalla quarta edizione Tascabili Bompianiottobre 2007

Copertina:Progetto grafico PolystudioFotografia di Fulvio Ventura

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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DedicaPer Edna, Jordy e Jeff

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PRIMA PARTE

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1Nella mensa per i dipendenti del Frankenberg era l’ora di punta.

Non c’era un posto libero a nessuno dei lunghi tavoli, e sempre piùgente arrivava e rimaneva in attesa oltre le barriere di legno di fianco allacassa. Chi già si era procurato il vassoio con il cibo si aggirava tra i tavoliin cerca di uno spazio dove potersi infilare, o di un posto che qualcunostesse per lasciare libero, ma invano. Rumori di piatti, sedie, voci,stropiccio di piedi, e il bra-a-ac dei cancelletti girevoli, si fondevano,nella stanza dalle nude pareti, nel fragore di un’unica, enorme macchina.

Therese mangiava nervosamente, l’opuscolo "Benvenuti alFrankenberg" davanti, appoggiato a una zuccheriera. Aveva già letto lospesso libretto durante la settimana, nel primo giorno di corso diaddestramento, ma non aveva nient’altro con sé da leggere, e lì in mensasentiva il bisogno di concentrarsi su qualcosa. Così tornava a informarsisui vantaggi per le ferie, le tre settimane di vacanza accordate a chilavorava da quindici anni da Frankenberg, e intanto mangiava il piattocaldo speciale del giorno: una grigiastra fetta di roast-beef con una palladi purea di patate coperta di un sugo marroncino, un mucchietto di pisellie un po’ di radicchio dentro una vaschetta di carta. Tentava diimmaginare come dovesse sentirsi chi aveva lavorato per quindici anninei grandi magazzini Frankenberg, e scopriva di non riuscirci. A chiaveva "venticinque anni di anzianità" spettavano quattro settimane divacanza, diceva l’opuscolo. Inoltre, il Frankenberg forniva un campo peri vacanzieri estivi e invernali. Dovrebbero avere anche una chiesa,pensava, e un ospedale per le partorienti. Il grande magazzino eraorganizzato un po’ come una prigione, e l’atterriva talvolta il pensiero difarne parte.

Girò rapidamente alcune pagine e vide, in grossi caratteri neriattraverso ben due fogli: "E TU sei ’materiale’ per Frankenberg?"

Lanciò un’occhiata verso le finestre al di là dello stanzone e cercò dipensare a qualcos’altro. Al bel maglione norvegese rosso e nero cheaveva visto da Saks e che avrebbe forse comperato a Richard per Natale,se non fosse riuscita a trovare per venti dollari un portafogli migliore di

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quelli che aveva visto. Alla possibilità di andare in macchina con i Kellyfino a West Point, la successiva domenica a vedere una partita di hockey.Il finestrone quadrato al di là della stanza faceva pensare a un dipinto di...Chi era? Mondrian. Un piccolo riquadro di vetro, nell’angolo, apertoverso un cielo bianco. Che specie di scenario si poteva mai creare per unacommedia che avesse luogo in un grande magazzino? Ecco cheripiombava lì.

"Ma per te è molto diverso, Terry," le aveva detto Richard. "Tu hail’assoluta certezza che ne sarai fuori nel giro di poche settimane, cosa chegli altri non hanno." Richard diceva che lei poteva essere in Francia,l’estate prossima. Che lo sarebbe stata. Voleva che andasse con lui,Richard, e in effetti non c’era niente che le impedisse di accompagnarlo.E l’amico di Richard, Phil McElroy, gli aveva scritto che sarebbe statoforse in grado di procurarle un impiego presso un gruppo teatrale, di lì aun mese. Therese non aveva ancora conosciuto Phil, ma aveva ben pocafiducia che potesse trovarle un lavoro. Aveva passato al setaccio NewYork fin da settembre, era tornata a setacciarla diverse altre volte, e nonaveva scovato niente. Chi mai, nel cuore dell’inverno, offriva lavoro aun’apprendista scenografa, alle prime armi perfino come praticante? Néle sembrava reale, del resto, poter essere in Europa con Richard l’estateprossima, per sedere con lui nei caffè all’aperto, passeggiare per Arles,cercare i luoghi che Van Gogh aveva dipinto, scegliere insieme localitàdove fermarsi per un poco a dipingere. Le sembrava irreale specie inquegli ultimi giorni, da quando aveva cominciato a lavorare almagazzino.

Sapeva che cosa la turbava in quel grande negozio. Era il genere dicosa che non avrebbe cercato di spiegare a Richard. Erano, intensificate,quelle stesse cose che sempre l’avevano turbata, da che aveva uso dimemoria: le azioni prive di scopo, le incombenze insignificanti fatteapposta, sembrava, per impedirle di fare quello che avrebbe desiderato,che avrebbe potuto fare. E lì erano i procedimenti complicati con ildenaro degli incassi, i controlli dei cappotti, gli orologi marcatempo cheimpedivano alle persone perfino di servire il magazzino al massimo dellaloro efficienza: la sensazione che ciascuno fosse nell’impossibilità di

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comunicare con chiunque altro e vivesse su un piano completamentesbagliato, così che il significato, il messaggio, l’amore o quant’altrociascuna vita possedeva, non potessero mai avere modo di esprimersi.Tutto ciò le richiamava alla mente conversazioni ai tavoli, sui sofà, conpersone le cui parole sembravano aleggiare al di sopra di cose morte einanimabili, persone che non toccavano mai una corda che vibrasse. Equando uno tentava di toccare una corda viva, vedendosi subito fissare dafacce eternamente impenetrabili, se ne usciva in un’osservazione cosìperfetta nella sua banalità da rendere quasi impossibile credere che sitrattasse di un sotterfugio. E poi la solitudine, accresciuta dal fatto che,giorno dopo giorno, vedevi sempre le stesse facce, le poche facce cuisarebbe stato possibile rivolgersi e mai lo si faceva, o mai era dato farlo.Non come la faccia sull’autobus di passaggio, che sembra dirti qualcosa,che, se non altro, una volta vista poi scompare per sempre.

Le veniva fatto di domandarsi, mentre ogni mattina faceva la fila inattesa di timbrare il cartellino, separando inconsapevolmente con gliocchi gli impiegati fissi da quelli temporanei, come fosse andata acapitare proprio lì – aveva risposto a un’inserzione, naturalmente, maquesto non spiegava il destino – e cos’altro le riservasse la sorte invece diun lavoro di scenografa. La sua vita era una serie di zigzag. A diciannoveanni, era ansiosa.

"Devi imparare a fidarti della gente, Therese. Ricordalo," le avevadetto spesso suor Alicia. E spesso, spessissimo, Therese cercava dimetterlo in pratica.

"Suor Alicia," bisbigliò a fior di labbra, traendo conforto da quei suonisibilanti.

Poi si scosse e riprese in mano la forchetta, perché l’addetto asparecchiare stava avanzando nella sua direzione.

Le pareva di vederla, la faccia di suor Alicia, spigolosa e rossastracome pietra rosa quando il sole vi batteva sopra, di vedere l’inamidatorigonfio azzurro del seno. La grande, ossuta figura di suor Alicia chesbucava dall’angolo in un corridoio, o tra i candidi tavoli del refettorio.Suor Alicia in un migliaio di luoghi, con i piccoli occhi celesti chesempre la individuavano in mezzo alle altre bambine, che la vedevano,

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Therese lo sapeva, in modo diverso da tutte le altre, e tuttavia con lesottili labbra rosee sempre serrate nella stessa espressione severa. Larivedeva ancora, suor Alicia che le porgeva i guanti di lana verde lavoratia maglia avvolti in carta velina, senza sorridere, soltanto offrendoglielidirettamente, quasi senza una parola, il giorno in cui lei aveva compiutootto anni; suor Alicia che, con la stessa espressione seria, le aveva dettoche doveva passare in aritmetica. A chi altri era importato che lei fossepromossa in aritmetica? Per anni Therese aveva serbato quei guanti verdiin fondo al suo armadietto metallico, a scuola, dopo che suor Alicia erastata trasferita in California. La carta velina candida era diventata molle etutta crepe come un tessuto antico, e lei non aveva ancora usato queiguanti. Alla fine, erano diventati troppo piccoli da indossare.

Qualcuno mosse la zuccheriera, e l’opuscolo che vi stava appoggiatocadde.

Therese guardò il paio di mani di fronte a lei, mani di donna grassocce,invecchiate, che stavano rimescolando il caffè, che ora spezzavano unpanino con tremante impazienza, intingendone avidamente una metà nelsugo brunastro del piatto, identico a quello di Therese. Erano maniscrepolate, c’era sudiciume nelle pieghe parallele delle nocche, ma ladestra portava un vistoso anello in filigrana d’argento con incastonata unapietra verde trasparente, la sinistra una fede nuziale d’oro, e c’eranotracce di smalto rosso agli angoli delle unghie. Therese osservò una dellemani portare verso l’alto una forchettata di piselli, e non aveva bisogno diguardare la faccia per sapere come potesse essere. Sarebbe stata identicaa tutte le facce cinquantenni di donne che lavoravano al Frankenberg,colpite da perenne sfinimento e terrore, gli occhi distorti dietro occhialiche ingrandivano o rimpicciolivano, le guance chiazzate di belletto chenon ravvivava il sottostante grigiore. Therese non poteva guardare.

"Tu sei nuova, vero?" La voce era acuta e nitida nel baccano, quasi unavoce dolce.

"Sì," disse Therese, e rialzò lo sguardo. Era la faccia il cui sfinimentole aveva fatto notare tutte le altre. Era la donna che Therese aveva vistoscendere lentamente dall’ammezzato giù per la scala di marmo, verso lesei e mezzo, una sera in cui il magazzino era ormai deserto, lasciando

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scivolare le mani lungo la larga ringhiera marmorea per alleviare in parteai piedi callosi il peso della persona. Non è malata, aveva pensato lei, nonè una mendicante: semplicemente, lavora qui.

"Te la cavi bene?"E ora quella donna era lì e le sorrideva, con le stesse terribili pieghe

sotto gli occhi e intorno alla bocca. Gli occhi erano realmente vivi, ora, epiuttosto affettuosi.

"Te la cavi bene?" ripeté la donna, perché c’era un gran frastuono dipiatti e di voci tutt’intorno a loro.

Therese si umettò le labbra. "Sì, grazie.""Ti piace lavorare qui?"Therese assentì."Finito?" Un giovanotto in grembiule bianco già premeva con autorità

il pollice sul piatto della donna.La donna accennò un tremulo gesto affermativo. Tirò verso di sé la

ciotolina di pesche sciroppate in scatola. Le pesche, come viscidipesciolini arancione, slittavano oltre l’orlo del cucchiaio ogni volta chequello si sollevava, tutte tranne quella che lei avrebbe messo in bocca.

"Io sono al terzo piano, nel reparto maglioni. Se vuoi domandarmiqualcosa": la donna parlava con nervosa incertezza, come se stessecercando di trasmetterle un messaggio prima che venissero interrotte oseparate. "Vieni su a trovarmi, qualche volta. Mi chiamo Robichek,signora Ruby Robichek."

"La ringrazio molto," disse Therese, e all’improvviso la bruttezza delladonna scomparve, perché gli occhi di un castano rossiccio dietro le lentierano gentili, e interessati a lei. Therese ora sentiva il cuore batterle,come se si fosse animato. Guardò l’altra alzarsi da tavola, ne osservò latozza, appesantita figura allontanarsi fino a perdersi tra la folla in attesaal di là della barriera.

Non andò a trovare la signora Robichek, ma la cercò con gli occhi ognimattina quando, verso le nove meno un quarto, il personale entrava allaspicciolata nell’edificio, e la cercò negli ascensori e in mensa. Non lavedeva mai, ma era piacevole avere qualcuno da cercare nel grandemagazzino. Faceva tutta la differenza del mondo.

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Quasi ogni mattina, quando arrivava al lavoro al settimo piano,Therese si tratteneva per qualche istante a guardare un certo trenino. Iltreno stava su un tavolo vicino agli ascensori. Non era un bel treno grandecome quello che si trovava sul pavimento in fondo al reparto giocattoli,ma c’era una furia nel pompare dei suoi minuscoli pistoni che i treni piùgrandi non possedevano. La collera e la frustrazione che sfogava lungol’angusto binario ovale esercitavano su Therese una sorta di incanto.

Aurr-rr-rr-rrgh faceva nello scagliarsi ciecamente dentro il tunnel dicartapesta. E urr-rr-rr-rrgh mentre ne emergeva.

Il trenino era sempre in corsa quando lei usciva dall’ascensore almattino e quando smetteva di lavorare la sera. Le sembrava cheimprecasse contro la mano che ogni giorno azionava l’interruttore. Nelbrusco rumore che faceva intorno alle curve, nell’impeto disperato concui affrontava i tratti diritti della rotaia, le pareva di avvertire il freneticoe futile inseguimento di un padrone tirannico. Trascinava tre vetture incui minuscole figure umane mostravano duri profili ai finestrini, e dietroquelle un carro merci aperto che trasportava vero legname in miniatura,un altro carico di carbone, che però era finto, e un vagone di servizio chesussultava attorno alle curve e si aggrappava al treno in fuga come unbambino alle gonne materne. Era come qualcosa di impazzito perchéimprigionato, qualcosa di già morto ma che mai si sarebbe esaurito, comele eleganti volpi nello zoo di Central Park, il cui complesso lavoro dielastiche zampe si ripeteva all’infinito mentre correvano tutt’intorno allagabbia.

Quel mattino, Therese si affrettò ad allontanarsi dal treno e proseguìverso il reparto delle bambole dove lavorava.

Alle nove e cinque, il vasto e quadrato reparto giocattoli stavaanimandosi. Panni verdi venivano tirati via dai lunghi banchi. Giocattolimeccanici cominciavano a gettare palle in aria e a riacchiapparle, sale ditiro facevano udire colpi e i loro bersagli ruotavano. Il tavolo deglianimali da cortile emetteva strida rauche, chiocciava e ragliava. Allespalle di Therese, era cominciato un tedioso rat-tat-tat tat tat, i colpi ditamburo del gigantesco soldatino di latta che bellicosamente guardavaverso gli ascensori e suonava lo strumento per tutta la giornata. Il tavolo

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delle arti e dell’artigianato emanava un odore di argilla fresca permodellare, che le ricordava l’aula d’arte, a scuola, quando era ancoramolto piccola, e anche una specie di seminterrato a volta, nel giardinodella scuola, di cui si diceva che fosse stata l’autentica tomba diqualcuno, e attraverso le cui sbarre di ferro lei era solita infilare il naso.

La signora Hendrickson, direttrice del reparto giocattoli, stava tirandogiù bambole dagli scaffali, sistemandole poi sedute, a gambe larghe, suibanchi di vetro.

Therese diede il buongiorno alla signorina Martucci, che al suo bancostava contando le banconote e le monete della sua borsa con taleconcentrazione da poter rivolgere a Therese soltanto un cenno piùenergico del capo, con cui già assentiva ritmicamente. Therese contò ildenaro della propria borsa, registrò la somma su un bianco tagliando perla busta delle ricevute di vendita, poi trasferì il denaro, suddividendolo aseconda del taglio, nel registratore di cassa.

I primi clienti, intanto, stavano uscendo dagli ascensori, esitando unistante con l’espressione sconcertata, quasi sbigottita, che avevanosempre le persone nel ritrovarsi nel reparto giocattoli, e incamminandosipoi lungo serpeggianti percorsi.

"Avete le bambole che fanno la pipì?" le domandò una donna."Vorrei questa, ma con l’abitino giallo," disse un’altra, spingendo una

bambola verso di lei, e Therese si voltò e prese dallo scaffale quellarichiesta dalla cliente.

La donna, notò Therese, aveva bocca e guance simili a quelle di suamadre: guance lievemente butterate sotto un fard di un rosa intenso,separate da una bocca rossa e sottile tutta rughe verticali.

"Sono solo di questa dimensione, le bambole che bevono e sibagnano?"

Non occorreva molta abilità nel vendere. La clientela voleva unabambola, una bambola qualsiasi, da regalare per Natale. Si trattava solodi chinarsi, tirar fuori scatole in cerca di una bambola con gli occhicastani invece che azzurri, chiamare la signora Hendrickson perchéaprisse una delle vetrine con la sua chiave, cosa che lei faceva dimalavoglia se era convinta che quella particolare bambola non figurasse

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fra i loro articoli, procedere di sghimbescio lungo il corridoio dietro ilbanco per depositare una bambola acquistata sulla montagna di scatoleche continuava a crescere sul tavolo dove si confezionavano i pacchi, perquanto i commessi si affrettassero a ritirarli e a consegnarli. Raramenteuna bambina si avvicinava al banco. Era Babbo Natale a portare lebambole, Babbo Natale rappresentato da facce frenetiche e da maniadunche. Eppure, rifletteva Therese, doveva pur esserci una certa buonavolontà nelle clienti, in tutte loro, perfino dietro le facce fredde eincipriate delle signore in visone o in ermellino, che erano in genere lepiù arroganti, quelle che in tutta fretta acquistavano le bambole piùgrandi e più costose, con i capelli veri e il cambio d’abiti. C’erasicuramente amore nelle persone povere, quelle che aspettavano il loroturno, che s’informavano timidamente sul prezzo di una certa bambola eche si allontanavano, poi, scuotendo con rimpianto la testa. Tredicidollari e cinquanta per una bambola alta appena venticinque centimetri.

"La prenda," avrebbe voluto dire Therese. "Costa davvero troppo,perciò io gliela regalo. Il Frankenberg non fallirà per questo."

Ma le donne dai miseri cappotti di stoffa, gli uomini timidirannicchiati dentro sformati giacconi, sarebbero stati già lontani, losguardo malinconico rivolto verso gli altri banchi mentre se ne tornavanoagli ascensori. Se venivano per comperare una bambola, non volevanonient’altro. Una bambola era un genere speciale di dono natalizio,praticamente vivo, la cosa più simile a un bebè.

Quasi mai venivano i bambini, ma di tanto in tanto ne capitava uno,generalmente una bimbetta, molto raramente un maschio, tenutastrettamente per mano da un genitore. Therese le mostrava, con pazienza,le bambole che riteneva potessero piacerle, finché una di queste facevaapparire sul volto della piccola quella metamorfosi, quella reazione allafinzione che era poi lo scopo di tutto, e in genere era quella la bambolacon cui la bimbetta se ne andava.

Poi una sera, dopo il lavoro, Therese vide la signora Robichek nelnegozio di caffè e ciambelle sull’altro lato della strada. Spesso Therese sifermava a bere una tazza di caffè, prima di tornare a casa. La signoraRobichek era in fondo al negozio, al termine del lungo bancone ricurvo, e

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intingeva una focaccia dentro la sua tazza di caffè.Therese prese ad avanzare verso di lei, attraverso una calca di ragazze,

tazze e ciambelle. Arrivata presso la signora Robichek, ansimò un"Salve", e si girò verso il banco, come se una tazza di caffè fosse stata ilsuo unico obiettivo.

"Salve," rispose l’altra, con tale indifferenza che Therese ci rimasemalissimo.

Non osò più guardare verso la signora Robichek, e tuttavia eranopraticamente spalla a spalla! Therese aveva quasi finito il suo caffèquando l’altra parlò con voce spenta: "Devo andare a prendere lasotterranea, l’Indipendente. Ma chissà se ce la faremo mai a uscire diqui." Il tono era depresso, diverso da come era stato quel giorno allamensa. Ora era di nuovo la donna ingobbita che Therese aveva vistoscendere a fatica le scale.

"Ce la faremo," disse Therese, con fare rassicurante.Aprì a viva forza un varco per entrambe fino alla porta. Anche Therese

prendeva l’Indipendente. Lei e la signora Robichek si insinuarono tra lafolla indolente all’entrata della sotterranea per essere poi risucchiate inmodo lento e inesorabile giù per le scale, come frammenti di avanzifluttuanti giù per lo scarico. Scoprirono di dover scendere entrambe allafermata di Lexington Avenue, sebbene la signora Robichek abitasse nellaCinquantacinquesima Strada, proprio a est della Terza Avenue. Thereseentrò con la signora nella rosticceria dove l’altra intendeva comperarequalcosa per cena. Anche Therese avrebbe potuto fare altrettanto, ma lapresenza della Robichek la metteva in imbarazzo.

"Hai già tutto, a casa?""No, dopo prenderò qualcosa anch’io.""Perché non vieni a mangiare da me? Sono sola. Vieni," terminò la

signora Robichek con un’alzata di spalle, come se le costasse menosforzo di un sorriso.

In Therese l’impulso di rifiutare durò appena un istante. "Grazie.Vengo volentieri." Poi vide sul banco una torta avvolta nel cellophane,una torta alla frutta simile a un grosso mattone scuro sormontato daciliegie rosse, e la comperò per offrirla alla signora Robichek.

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Era una casa suppergiù come quella in cui abitava lei, ma molto piùbuia e più tetra. Mancava qualsiasi illuminazione nell’entrata, e quandola signora Robichek accese la luce nel corridoio del terzo piano, Theresevide che non era uno stabile molto pulito. Nemmeno la stanza dellasignora Robichek era molto pulita, e il letto era sfatto. Chissà se si alzastanca come quando si corica, pensò Therese. Era stata lasciata in piedi inmezzo alla stanza, mentre la signora Robichek si trascinava straccamenteverso il cucinino, portando il sacchetto di provviste che aveva preso dallemani dell’ospite. Therese si disse che, ormai che era a casa, dove nessunopoteva vederla, la povera donna permetteva a se stessa di manifestaretutta la sua stanchezza.

Therese non avrebbe saputo dire com’era cominciato. Non riusciva aricordare la conversazione di qualche istante prima, e del resto laconversazione non aveva importanza. Quello che accadde fu che lasignora Robichek si allontanò da lei, in modo strano, come se fosse intrance, mormorando all’improvviso invece di parlare, e si distese supinasul letto sfatto. Proprio a causa di quel continuo mormorio, del lievesorriso di scusa, e della terribile, sconvolgente bruttezza di quel corpopesante, tozzo, dall’addome prominente, di quella testa piegata da un latocome a giustificarsi e senza mai smettere di fissarla educatamente, leinon poteva indurre se stessa ad ascoltare.

"Un tempo avevo un negozio di moda a Queens. Un bel negoziogrande," disse la signora Robichek, e Therese colse la nota vanagloriosa ecominciò suo malgrado ad ascoltare. "Quei vestiti con la vita a ’v’ e ibottoncini che correvano verso l’alto. Sai, tre, cinque anni fa..." Lasignora Robichek, incapace di esprimersi, allargava le rigide mani attornoalla vita. Con le tozze dita non abbracciava nemmeno una metà deldavanti di se stessa. Appariva vecchissima nella luce fioca che leanneriva le ombre sotto gli occhi. "Li chiamavano vestiti modelloCaterina. Te li ricordi? Li avevo disegnati io. Venivano dal mio negoziodi Queens. Erano famosi, eccome!"

La signora Robichek si alzò e andò a un piccolo baule sistemato controla parete. Lo aprì, senza mai smettere di parlare, e prese a tirar fuori abitidi tessuto scuro e pesante, che lasciava cadere a terra. Ne sollevò uno di

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velluto color rosso granato con un colletto bianco e minuscoli bottonibianchi che formavano una "v" lungo il davanti del corpetto.

"Vedi, ne ho tanti. Li facevo io. Gli altri negozi li copiavano." Al disopra del colletto bianco dell’abito, che teneva fermo con il mento, labrutta testa della signora Robichek si inclinava in modo grottesco. "Tipiace questo? Te ne do uno. Vieni. Vieni qui, provatelo."

Therese, al pensiero di provarselo, avvertiva un senso di repulsione.Avrebbe voluto che la signora Robichek tornasse a sdraiarsi e a riposare,ma si alzò da tavola, ubbidiente, come se non avesse una sua volontà, e lesi avvicinò.

Con mani tremanti e importune la signora le premette contro un abitodi velluto nero, e Therese improvvisamente capì come dovesse servire iclienti al negozio, spingendo loro addosso maglioni alla rinfusa, poichénon avrebbe potuto compiere quella stessa azione in nessun altro modo.La signora Robichek, Therese se ne ricordò, aveva detto di lavorare daquattro anni da Frankenberg.

"Ti piace di più questo verde? Provatelo." E, poiché Therese esitava, lolasciò cadere e ne prese un altro, quello rosso scuro. "Ne ho venduticinque alle ragazze del negozio, ma a te lo regalo. Sono avanzi dimagazzino, ma vanno ancora di moda. Preferisci questo?"

Therese preferiva quello rosso. Il rosso le piaceva, specie il rossogranato, e amava il velluto rosso. La signora Robichek la sospingevaverso un angolo, dove lei poteva togliersi i suoi abiti e posarli su unapoltrona. Ma lei non lo voleva, il vestito, non voleva che le venisseregalato. Le ricordava gli indumenti che le venivano dati in collegio,indumenti smessi, perché praticamente veniva considerata come unadelle orfane, quelle che rappresentavano una buona metà della scuola,quelle che non ricevevano mai pacchi da casa. Therese si sfilò ilmaglioncino e si sentì completamente nuda. Si afferrò le braccia al disopra dei gomiti, e la carne, là, era fredda e insensibile.

"Cucivo," stava dicendo estaticamente la signora Robichek tra sé,"quanto cucivo, dal mattino alla sera! Dirigevo quattro ragazze. Ma mi siammalarono gli occhi. Da uno non ci vedevo, questo. Infilati il vestito."Raccontò a Therese dell’operazione all’occhio. Non era cieco del tutto,

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solo parzialmente. Ma le faceva un gran male. Glaucoma. Tuttora le davadolore. L’occhio e la schiena. E i piedi. I calli.

Therese si rese conto che stava raccontandole tutti i suoi guai e la suasfortuna affinché lei, Therese, capisse perché era caduta così in basso dadover fare la commessa in un grande magazzino.

"Ti va bene?" s’informò fiduciosa la signora Robichek.Therese si guardò nello specchio dell’anta dell’armadio. Le mostrava

una figura lunga e snella con una testa piuttosto stretta che sembravaincendiarsi, lungo il contorno, di un fuoco dorato che correva fin giù alrosso vivido su entrambe le spalle. L’abito le pendeva in pesanti pieghedrappeggiate quasi fino alle caviglie. Era l’abito delle regine delle fiabe,di un rosso più intenso del sangue. Indietreggiò un poco, ne raccolsel’eccesso di stoffa dietro di sé, affinché le aderisse alle costole e alla vita,poi tornò a fissare nello specchio i suoi stessi occhi di un nocciola scuro.Era come incontrare se stessa. Quella era lei, non la ragazza dallamalinconica gonna scozzese e dal golfino beige, non quella che lavoravanel reparto bambole, da Frankenberg.

"Ti piace?" domandò la signora Robichek.Therese studiava la bocca sorprendentemente tranquilla, di cui poteva

vedere distintamente i nitidi contorni, sebbene non portasse più rossettodi quanto gliene sarebbe rimasto se qualcuno l’avesse baciata. Desideravapoter baciare la figura nello specchio e far sì che si animasse, tuttaviarestava perfettamente immobile, come un ritratto dipinto.

"Se ti piace, prendilo," la esortò con impazienza la signora Robichek,osservandola da una certa distanza, appostata contro l’armadio comefanno le commesse mentre, nei reparti confezioni, le clienti provano abitie cappotti davanti agli specchi.

Ma l’incantesimo non poteva durare, e Therese lo sapeva. Si sarebbemossa, e l’immagine sarebbe scomparsa. Se anche lei lo avesse tenuto,l’abito, sarebbe scomparsa, perché era cosa di un istante, di quell’istante.Non lo voleva il vestito. Tentò di immaginarlo nell’armadio di casa sua,tra gli altri abiti, ma non poté. Cominciò a slacciare i bottoni, a sganciareil colletto.

"Ti piace, sì?" domandò la signora Robichek, fiduciosa come sempre.

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"Sì," rispose in tono fermo Therese, ammettendolo.Non riusciva ad aprire il piccolo gancio sulla nuca. La signora

Robichek dovette aiutarla, e lei quasi non poteva aspettare. Aveval’impressione di venire strangolata. Che cosa ci faceva, lì? Come eraarrivata a indossare un vestito come quello? D’improvviso la signoraRobichek e il suo appartamento le apparivano come un sogno orribile chelei si era appena resa conto di stare facendo. La signora Robichek era lagobba guardiana della segreta. E lei era stata portata lì per esseretormentata con vane lusinghe.

"Che cosa c’è? Uno spillo ti ha punta?"Therese aprì le labbra per rispondere, ma la sua mente era troppo

lontana. Era in un punto distante, in un lontano vortice che si apriva sullascena nella stanza terrificante e male illuminata, dove loro duesembravano affrontarsi in un combattimento mortale. E a quel punto delvortice in cui la sua mente si trovava, lei comprese che ad atterrirla eral’irrimediabilità e nient’altro. Era la condizione disperata della signoraRobichek, con il suo corpo dolorante, il suo impiego al negozio, la suapila di vestiti nel baule, la sua bruttezza, l’assenza di speranza di cui lasua vita al tramonto era interamente composta. E inoltre l’assenza disperanza per sé, di poter mai essere la persona che voleva essere e dipoter fare le cose che quella persona avrebbe fatto. La sua vita, dunque,altro non era stata che un sogno, e la realtà era questa? Era il terrore diquell’assenza di speranza a farle desiderare di spogliarsi di quell’abito edi fuggire prima che fosse troppo tardi, prima che le catene le cadesserointorno, imprigionandola.

Poteva essere già troppo tardi. Come in un incubo, Therese stava là insottoveste bianca, rabbrividendo, incapace di muoversi.

"Che cosa c’è? Hai freddo? Ma fa caldo, qui."Faceva caldo, infatti. Il radiatore scottava. La stanza sapeva d’aglio e

di vecchiume, di medicine, e del peculiare odore metallico che eraproprio della signora Robichek. Therese avrebbe voluto lasciarsi caderesulla poltrona dove giacevano la gonna scozzese e il suo golfino. Pensavache, forse, sui propri indumenti poteva anche sedersi, non avevaimportanza. Ma no, non doveva farlo. Lasciarsi andare voleva dire

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perdersi. Le catene l’avrebbero serrata e lei sarebbe stata tutt’uno con lagobba.

Therese, perso all’improvviso il controllo di sé, ora tremava da capo apiedi. Era tutta un brivido, la sua non era solo paura o stanchezza.

"Siediti," disse la signora Robichek, con voce che sembrava arrivare dalontano. Poi, con fare indifferente e annoiato, quasi lei fosse avvezza adavere per casa ragazze che si sentivano male, e sempre da una grandistanza, i suoi secchi e ruvidi polpastrelli premettero contro le braccia diTherese.

Therese lottava contro la poltrona, sapendo già di stare per arrendersi,e conscia perfino d’esserne attratta proprio per questo. Cadde a sedere,sentendo che la signora Robichek dava strappi alla sua gonna persfilargliela da sotto, e si trovò nell’impossibilità di muoversi. Era sempreallo stesso punto di consapevolezza; tuttavia, conservava la stessa libertàdi ragionamento, sebbene le scure braccia della poltrona si levassero oraintorno a lei.

"Stai troppo in piedi al negozio," stava dicendo la signora Robichek."Questi Natali sono uno strazio. Ne ho già visti quattro, io. Devi impararea risparmiarti un po’."

Risparmiarsi strisciando giù per le scale, aggrappata alla ringhiera.Risparmiarsi pranzando alla mensa. Risparmiarsi sfilandosi le scarpe daipiedi callosi come la fila delle donne appollaiate sul radiatore nellastanza delle commesse, a contendersene un pezzetto per appoggiarcisopra un giornale e sedersi per pochi minuti.

La mente di Therese lavorava con estrema chiarezza. Incredibile,quanto nitidamente funzionasse, sebbene lei sapesse di staresemplicemente fissando nel vuoto davanti a sé, e di non potersi muoverenemmeno se l’avesse voluto.

"Sei solo stanca, bambina mia," sentenziò la signora Robichek,mettendole addosso una coperta di lana e rimboccandogliela sulle spalledentro la poltrona. "Hai bisogno di riposare, dopo essere stata in pieditutto il giorno e poi anche stasera."

Un verso dall’Eliot di Richard tornò alla mente di Therese: "Non èquesto ciò che intendevo. Non è affatto questo." Avrebbe voluto dirlo, ma

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non poteva indurre le labbra a muoversi. Qualcosa di dolce e di bruciantein bocca, ora. La signora Robichek, in piedi davanti a lei, versavaqualcosa da una bottiglia in un cucchiaio e glielo spingeva tra le labbra.Therese inghiottì, passiva, incurante perfino che potesse essere veleno.Era in grado di alzarsi dalla poltrona, ora, avrebbe potuto aprire le labbra,ma non ne aveva voglia. Alla fine, tornò ad abbandonarsi nella poltrona,lasciò che la Robichek le sistemasse addosso la coperta e finse diaddormentarsi. Ma per tutto il tempo tenne d’occhio la figura ingobbitache si muoveva per la stanza, sparecchiando la tavola, spogliandosi percoricarsi. Osservò la donna togliersi un busto tutto stringhe e poi unostrano aggeggio con delle cinghie che le passavano intorno alle spalle e inparte lungo la schiena. Chiuse gli occhi inorridita, a questo punto, e litenne serrati ben bene finché un cigolio di molle e un lungo sospiro disollievo le dissero che la signora Robichek si era messa a letto. Ma nonera ancora tutto. La signora Robichek allungò la mano verso la sveglia, lacaricò e, senza sollevare la testa dal cuscino, brancolò con l’orologio incerca della sedia che stava accanto al letto. Nel buio, Therese potéintravedere il braccio alzarsi e ricadere quattro volte, prima chel’orologio incontrasse la sedia.

Lascio passare un quarto d’ora per darle tempo di addormentarsi, poime ne vado, pensò Therese.

E, poiché era stanca, restò in tensione per tenere a bada quello spasmo,quell’improvvisa sensazione di cadere nel vuoto che si ripeteva ogninotte, parecchio prima di addormentarsi, e che tuttavia annunciava ilsonno. Non l’avvertì. Così, dopo un intervallo che le sembrò di unaquindicina di minuti, Therese si rivestì e lasciò in punta di piedi la stanza.Era facile, in fin dei conti, limitarsi ad aprire la porta e a fuggire. Facile,pensò poi, perché in realtà non stava fuggendo affatto.

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2"Terry, ricordi quel Phil McElroy di cui ti parlavo? Quello con la societàper azioni? Bene, è in città, e dice che avrai un lavoro entro un paio disettimane."

"Un vero lavoro? Dove?""Uno spettacolo nel Village. Phil vuole vederci stasera. Ti dirò tutto

allora. Sarò lì fra una ventina di minuti. Vengo via ora dalla scuola."Therese aveva fatto di corsa le tre rampe di scale che portavano al suo

monolocale. Stava dandosi una rinfrescata, ora, e il sapone le si asciugavasulla faccia mentre rimaneva là a fissare la manopola di spugna arancionenel lavandino.

"Un lavoro!" bisbigliò tra sé. La parola magica.Si cambiò, indossando un abito, si appese al collo una corta catena

d’argento con un medaglione di San Cristoforo, regalo di compleanno diRichard, e si pettinò, bagnando un poco il pettine perché i capellisembrassero più in ordine. Poi sistemò alcuni schizzi e qualche modelloin cartoncino nell’armadio a muro, a portata di mano, in modo da poterliprendere facilmente se Phil McElroy avesse chiesto di vederli. No, nonho fatto molta esperienza pratica, avrebbe dovuto ammettere, e subitoavverti un senso di avvilimento. Non aveva alle spalle neppure un lavorocome apprendista, salvo quello di due giorni a Montclair, per preparare ilmodello in cartone che il gruppo di dilettanti alla fine aveva usato,ammesso che si potesse chiamarlo un lavoro. Aveva seguito due corsi didisegno scenografico a New York, e aveva letto un sacco di libri. Lepareva già di udire Phil McElroy – un giovane uomo grave eoccupatissimo, probabilmente, un po’ seccato per essere venuto aconoscerla per niente – dirle con rammarico che, a conti fatti, non era lapersona adatta. Ma con Richard presente, si consolò, si sarebbe sentitameno avvilita che se fosse stata sola. Richard, da quando lo conosceva, siera dimesso o era stato licenziato da ben cinque impieghi. Niente lopreoccupava meno del trovare o del perdere un posto. Therese, nelricordare d’essere stata licenziata dalla Pelican Press, circa un meseprima, trasalì. Non le avevano dato nemmeno il preavviso, e la sola

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ragione per cui l’avevano licenziata, supponeva, era che il suo particolareincarico di ricerche era ormai terminato. Quando era andata a parlare conil signor Nussbaum, il presidente, del preavviso che non le avevano dato,lui non aveva capito, o aveva finto di non capire, di che cosa si trattasse."Preavvisse?... Cuss’è?" aveva detto con indifferenza, al che lei si eravoltata ed era scappata via, per paura di scoppiare in lacrime. Era facileper Richard, che viveva nella casa paterna, con una famiglia che lo tenevasu di morale, mettere soldi da parte: aveva risparmiato circa duemiladollari durante una ferma di un paio d’anni in Marina, e un altro migliaionell’anno successivo. E lei quanto avrebbe impiegato per mettere da partei millecinquecento dollari necessari per entrare a far parte, comepraticante, del sindacato disegnatori di scena? Dopo quasi due anni a NewYork, ne aveva racimolati cinquecento scarsi.

"Prega per me," disse alla Madonna di legno sullo scaffale dei libri.Era l’unico bell’oggetto dell’appartamentino, quella Madonna lignea cheaveva comperato fin dal primo mese del suo arrivo a New York. Lesarebbe piaciuto avere un posto dove esporla migliore di quell’orribilelibreria, che faceva pensare a una serie di cassette per la frutta messe unasopra l’altra e verniciate di rosso. Desiderava tanto una libreria in legnocolor naturale, levigata al tatto e lucidata a cera.

Scese a comperare sei lattine di birra e un po’ di formaggio. Poi,tornata di sopra, si ricordò del vero scopo per il quale era scesa, procuraredella carne per cena. Lei e Richard avevano in progetto di cenare in casa,quella sera. Forse ora il programma sarebbe cambiato, ma non le andavadi modificare i piani di sua iniziativa se riguardavano anche Richard, estava per scendere di nuovo a comperare la carne quando risuonò la lungascampanellata di lui. Premette il pulsante che apriva il portone.

Richard salì gli scalini di corsa, sorridente. "Phil ha telefonato?""No," disse lei."Bene. Vuol dire che viene, allora.""Quando?""Sarà qui a minuti, penso. Probabilmente non si fermerà a lungo.""Si tratta davvero di un incarico ben definito?""Phil dice di sì."

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"Sai di che specie di commedia si tratti?""So solo che hanno bisogno di qualcuno per gli scenari, e perché non

tu?" Richard la squadrò con occhio critico, poi sorrise. "Sei un amore,stasera. Non essere nervosa, capito? È soltanto una piccola compagniateatrale del Village, e probabilmente hai più talento tu di tutti loro messiinsieme."

Lei prese il soprabito lasciato cadere dal giovane su una sedia e loappese nell’armadio a muro. Sotto il soprabito c’era un rotolo di carta percarboncino che lui aveva portato dalla scuola d’arte. "Hai fatto qualcosadi bello, oggi?"

"Così così. Quello è un disegno che voglio completare a casa," risposelui, noncurante. "Abbiamo avuto quella modella con i capelli rossi, oggi.Quella che a me piace."

Therese avrebbe voluto vedere lo schizzo, ma sapeva che Richardprobabilmente non lo riteneva abbastanza buono. Alcuni dei primi dipintidi lui lo erano, come il faro in blu e nero appeso sopra il suo letto, quelloche lui aveva fatto quando era in Marina e cominciava appena adipingere. Ma i disegni dal vivo non valevano ancora molto, e Theresedubitava che potessero migliorare in seguito. Sui calzoni color tortora diRichard c’era una nuova macchia di carboncino. Indossava una T-shirtsotto la camicia a scacchi rossi e neri, e mocassini di pelle scamosciatache facevano assomigliare i suoi piedi già grandi a due informi zamped’orso. Più che di un artista, pensava Therese, ha l’aria di un boscaiolo omagari di un atleta di professione. Le riusciva più facile immaginarlo conin mano un’ascia che con un pennello. Lo aveva visto maneggiare l’ascia,una volta, tagliare legna nel giardino sul retro della sua casa di Brooklyn.S e non avesse dimostrato ai suoi che stava facendo progressi nellapittura, probabilmente quell’estate sarebbe finito a lavorare nell’aziendapaterna di bombole di gas, per poi aprire una filiale a Long Island, comeil padre desiderava che facesse.

"Dovrai lavorare questo sabato?" gli domandò, ancora timorosa diparlare del famoso incarico.

"Spero di no. Tu sei libera?"Si ricordò che, no, non lo era. "Ho libero il venerdì," disse in tono

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rassegnato. "Sabato si lavora fino a tardi."Richard sorrise. "È una congiura." Le prese le mani e si portò le braccia

di lei intorno alla vita; il suo irrequieto aggirarsi per la stanza era ormaicessato. "Domenica, magari? I miei volevano sapere se potevi venire apranzo, ma non dovremo trattenerci a lungo. Potrei prendere in prestitoun camion, così nel pomeriggio ce ne andremmo un po’ in giro."

"Sì, bene." Le piaceva, e piaceva anche a Richard, sedere là in altonella cabina di una grossa autocisterna vuota, e andare dove volevano,liberi come sulle ali di una farfalla. Tolse le braccia dalla vita di Richard.La faceva sentire impacciata e un po’ sciocca, come se stesseabbracciando il tronco di un albero, tenergli le braccia intorno alla vita."Avevo comperato una bella bistecca per stasera, ma al negozio mel’hanno rubata."

"Rubata? Da dove?""Dallo scaffale dove teniamo le nostre borsette. La gente che assumono

per Natale non dispone di un vero e proprio armadietto." Sorrideva, ora,ma quel pomeriggio aveva quasi pianto. Lupi, aveva pensato, un verobranco di lupi, rubare un pacchetto di carne sporco di sangue solo perchéera roba da mangiare, un pasto gratuito. Aveva domandato a tutte lecommesse se l’avessero visto, e tutte avevano risposto di no. Portarecarne nel posto di lavoro non era permesso, aveva detto indignata lasignora Hendrickson. Ma come bisognava fare, se tutte le macellerie allesei chiudevano?

Richard si distese sul divano letto. Aveva la bocca sottile e dal taglioirregolare, che in parte piegava all’ingiù, dando un che di ambiguo allasua espressione, qualcosa a volte di divertito, a volte di amaro,contraddizione che gli occhi azzurri, franchi e piuttosto inespressivi, nonfacevano niente per chiarire. In tono lento e un po’ beffardo, disse: "Nonsei scesa a sentire agli oggetti smarriti? Perduta bistecca di tre etti.Risponde al nome di ’Costata’."

Therese sorrise, perlustrando intanto gli scaffali del cucinino. "Crediche sia uno scherzo? La signora Hendrickson mi ha proprio detto discendere a cercarla là."

Richard diede in una gran risata e si alzò.

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"Qui c’è un barattolo di grano e ho della lattuga per un’insalata. E c’èdel pane e del burro. Devo scendere a comperare qualche costata dimaiale surgelata?"

Richard protese un lungo braccio al di sopra della spalla di lei e presedallo scaffale il pezzo di pane di segale. "Me lo chiami pane, questo? Èmuffa. Guardalo, azzurro come il didietro di un mandrillo. Perché non lomangi, il pane, dopo che l’hai comperato?"

"Quello lo uso per vederci al buio. Ma visto che a te non piace..."Glielo tolse di mano e lo lasciò cadere nella pattumiera. "Non era quelloil pane di cui parlavo, a ogni modo."

Il campanello squillò proprio a un passo dal frigorifero, e lei siprecipitò verso il pulsante.

"Sono loro," disse Richard.Erano due giovanotti. Richard li presentò come Phil McElroy e suo

fratello Dannie. Phil non era affatto come Therese se l’era immaginato.Non sembrava proprio un tipo serio o impegnato, e neppureparticolarmente intelligente. A stento l’aveva degnata di uno sguardo,durante le presentazioni.

Dannie rimase con il cappotto sul braccio finché Therese non glielotolse di mano. Non le fu possibile trovare dove appendere quello di Phil,e Phil se lo riprese e lo gettò su una sedia, mezzo per terra. Era unvecchio e sudicio giaccone da polo. Therese servì la birra, il formaggio ei cracker, e intanto ascoltava nella speranza che la conversazione tra Phile Richard toccasse finalmente l’incarico per lei. Ma stavano parlando dicose che erano accadute dall’ultima volta che si erano visti a Kingston.Richard aveva lavorato là per un paio di settimane, l’estate precedente, acerti murali per una trattoria, dove Phil aveva avuto un posto comecameriere.

"È anche lei nel teatro?" domandò allora a Dannie."No, io no," rispose Dannie. Sembrava un tipo schivo, o forse annoiato

e impaziente di andarsene. Era più vecchio di Phil e di corporatura un po’più massiccia. I suoi occhi d’un castano scuro si spostavano pensosi da unoggetto all’altro della stanza.

"Ancora non hanno niente salvo un regista e tre attori," disse Phil a

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Richard, lasciandosi andare contro lo schienale del divano. "La regia è diun tale con il quale ho lavorato una volta a Filadelfia, Raymond Cortes.Se ti raccomando io, l’incarico lo avrai di certo," aggiunse conun’occhiata a Therese. "Mi ha promesso la parte del secondo fratello, nellavoro. Il titolo è Small Rain. "

"Una commedia?" domandò Therese."Commedia, sì. Tre atti. Hai già fatto qualche fondale?""Quanti ce ne vorranno?" s’informò Richard, proprio mentre lei stava

per rispondere."Due al massimo, e probabilmente si accontenteranno di uno solo.

Georgia Halloran è la protagonista. L’avevi vista, tu, quella cosa di Sartreche hanno dato laggiù l’autunno scorso? Recitava lei."

"Georgia?" Richard sorrise. "Che ne è stato di lei e Rudy?"Delusa, Therese udì la loro conversazione soffermarsi su Georgia e

Rudy e su altre persone che lei non conosceva. Forse Georgia era statauna delle ragazze con cui Richard aveva avuto una storia. Lui una voltane aveva nominate cinque. Non le riusciva di ricordare nessuno dei nomi,salvo Celia.

"È uno dei suoi set, quello?" le domandò Dannie, guardando il modelloin cartone appeso alla parete, e, poiché lei assentiva, si alzò per vederloda vicino.

Ora Richard e Phil stavano parlando di un tizio che doveva soldi aRichard. Phil diceva d’averlo visto la sera prima nel bar San Remo.Therese stava pensando che il volto oblungo di Phil sotto i capellicortissimi faceva pensare a un El Greco, e tuttavia gli stessi lineamenti,nel fratello, sembravano invece appartenere a un indiano americano. E ilmodo come Phil parlava distruggeva completamente l’illusione dell’ElGreco. Parlava come tutti quelli che si vedevano nei bar del Village,giovani che in teoria passavano per scrittori o attori, e che in pratica nonfacevano un bel niente.

"Bello davvero," disse Dannie, scrutando dietro una delle figurinesospese.

"È un modello per Petrushka. La scena delle fate," spiegò Therese,domandandosi se lui conoscesse il balletto. Potrebbe essere un avvocato,

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pensò, o anche un medico. Sulle dita aveva macchie giallastre, ma nonerano chiazze di nicotina.

Richard accennò al fatto d’avere appetito, e Phil disse che non civedeva dalla fame, ma nessuno dei due mangiava il formaggio cheavevano davanti.

"Dobbiamo essere lì tra mezz’ora, Phil," rammentò Dannie al fratello.Poi, un istante dopo, erano tutti in piedi, e stavano indossando i

cappotti."Andiamo a mangiar fuori, Terry," disse Richard. "Che ne dici di quel

locale ceco, nella Seconda?""Va bene," approvò lei, cercando di avere un tono compiacente. Il

discorso finiva lì, probabilmente, e non c’era niente di definito. Provòl’impulso di porre una domanda diretta a Phil, ma non o ò.

Per la strada, presero ad avviarsi verso il centro, invece che nel sensoopposto. Richard camminava con Phil, e solo un paio di volte si voltò alanciarle un’occhiata, come per vedere se lei fosse ancora lì. Dannie leteneva il braccio quando c’era da attraversare, o da superare le chiazze disudiciume scivoloso, né neve né ghiaccio, che erano i resti della nevicatadi tre settimane prima.

"È un medico, lei?" domandò Therese a Dannie."Un fisico," rispose lui. "Ora sto seguendo dei corsi di specializzazione

all’Università di New York." Le sorrise, ma la conversazione per un pocosi fermò lì.

Poi, lui osservò: "È ben lontano dal disegnare scenari, vero?"Therese assentì. "Lontanissimo." Stava per domandargli se intendesse

fare ricerche riguardanti la bomba atomica, ma se ne astenne, perché cheimportanza poteva mai avere che le facesse o no? "Ha un’idea di dovestiamo andando?" gli domandò.

Lui fece un gran sorriso, mostrando denti bianchi e quadrati. "Sì. Allametropolitana. Ma Phil vuole prima mangiare un boccone da qualcheparte."

Ora procedevano giù per la Terza Avenue, e Richard stava accennandocon Phil al loro viaggio in Europa, l’estate prossima. Therese avvertivaun senso d’imbarazzo nel camminare appresso a Richard, come una sorta

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di appendice, perché Phil e Dannie avrebbero naturalmente pensato chelei era l’amante di Richard. Non ne era l’amante, né Richard si aspettavache lei lo divenisse, in Europa. Era un rapporto strano, il loro, ma chi loavrebbe creduto? Nessuno perché, da quello che lei aveva visto a NewYork, tutti andavano a letto con tutti dopo esserci usciti insieme appenaun paio di volte. E i due con cui era uscita prima di Richard — Angelo eHarry – l’avevano mollata appena avevano scoperto che lei non ci tenevaad avere una relazione con loro. Richard, nell’anno trascorso da che loconosceva, aveva tentato tre o quattro volte di averla, sebbene conrisultati negativi; Richard diceva che preferiva aspettare. Intendevaaspettare che lei tenesse di più a lui. Richard voleva sposarla, e dicevache lei era la prima ragazza alla quale lo avesse mai proposto. Theresesapeva che glielo avrebbe chiesto di nuovo prima della partenza perl’Europa, ma non lo amava abbastanza per sposarlo. E tuttavia, pensò conl’abituale senso di colpa, avrebbe accettato da lui la maggior parte deldenaro per il viaggio. Poi, le si parò alla mente l’immagine della signoraSemco, la madre di Richard, sorridente d’approvazione per loro due, peril loro matrimonio, e involontariamente scosse la testa.

"Che c’è?" domandò Dannie."Niente.""Ha freddo?""No, no. Niente affatto."Ma lui ugualmente le serrò il braccio più vicino a sé. Lei aveva freddo,

e si sentiva nel complesso piuttosto infelice. Dipendeva, lo sapevabenissimo, dal suo rapporto mezzo ciondolante, mezzo cementato conRichard. Si vedevano sempre più spesso, senza diventare per questo piùintimi. Ancora non ne era innamorata, dopo ben dieci mesi, e forse non losarebbe mai stata, fermo restando il fatto di preferirlo a qualsiasi altrapersona da lei conosciuta, e certo a qualsiasi uomo. A volte, svegliandosial mattino e fissando senza vederlo il soffitto, ricordandosiimprovvisamente di conoscerlo, ricordandone improvvisamente il voltosplendente di affetto per lei, in seguito a qualche gesto tenero da partesua, e prima che l’assonnato senso di vuoto avesse il tempo di riempirsidella realizzazione di che ora fosse, di quello che lei aveva da fare, della

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sostanza più concreta di cui era fatta l’esistenza, le sembrava di amarlo.Ma la sensazione non aveva alcuna somiglianza con quello che lei avevaletto sull’amore. L’amore, almeno in teoria, era una sorta di folliagioiosa. Nemmeno Richard, in verità, si comportava in modogioiosamente folle.

"Oh, si chiama tutto Saint-Germain-des-Prés!" gridò Phil, agitando unamano. "Vi darò io degli indirizzi prima che partiate. Quanto tempopensate di restarci?"

Un rumoroso camion carico di ferraglia svoltò proprio davanti a loro, eTherese non poté udire la risposta di Richard. Phil entrò da Riker,sull’angolo della Cinquantatreesima Strada.

"Non dobbiamo mangiare qui. Phil vuole fermarsi solo un istante."Richard le strinse una spalla, mentre varcavano la soglia del locale. "È ungran giorno, vero, Terry? Lo senti anche tu? Il tuo primo, vero incarico!"

Richard ne era convinto, e Therese si sforzò di rendersi conto che forseera davvero un gran momento. Ma non riusciva a ricatturare neppure lacertezza provata quando, dopo la telefonata di Richard, era rimasta afissare la manopola arancione nel lavandino. Si appoggiò allo sgabelloaccanto a quello di Phil, e Richard le rimase accanto, sempre parlandocon l’amico. L’abbagliante luce bianca sulle piastrelle candide sembravapiù vivida di quella del sole, perché lì non c’erano ombre. Lei potevadistinguere ogni singolo pelo nero delle sopracciglia di Phil, e le zoneruvide e lisce della pipa che Dannie teneva in mano, spenta. Potevavedere ogni particolare della mano di Richard, che pendeva inerte dallamanica del cappotto, e ancora una volta rifletté sull’incongruità di quellemani rispetto al corpo agile e longilineo di lui. Erano mani grosse,grassocce, perfino, e si muovevano sempre nello stesso modo rozzo einarticolato sia che afferrassero una saliera o la maniglia di una valigiasia che le accarezzassero i capelli. Il palmo di quelle mani eraestremamente morbido, come quello di una ragazza, e lievementeumidiccio. Quel che era peggio, lui dimenticava in genere di pulirsi leunghie, perfino quando si prendeva il disturbo di mettersi in ghingheri.Therese gli aveva detto qualcosa in proposito un paio di volte, ma sentivaormai di non poter dire altro senza irritarlo.

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Dannie la stava osservando. Si ritrovò per un istante a sostenerne losguardo pensoso, poi abbassò gli occhi. Capì all’improvviso perché nonle riuscisse di ricatturare l’euforia provata in precedenza: semplicementenon credeva che Phil McEkoy potesse procurarle un incarico dietroraccomandazione.

"È preoccupata per quell’incarico?" Dannie era lì accanto a lei."No.""Stia tranquilla. Phil può darle qualche suggerimento." Si era messo il

cannello della pipa tra le labbra, e sembrava sul punto di aggiungerequalcos’altro, ma si girò in là.

Lei ascoltava distrattamente la conversazione tra Phil e Richard.Stavano parlando di navi e di prenotazioni.

"A proposito," disse ancora Dannie, "il Black Cat Theatre è appena a unpaio di isolati da Morton Street dove abito io. Anche Phil sta da me.Venga a fare colazione da noi qualche volta, vuole?"

"Grazie infinite. Molto volentieri." Era probabile che non se ne facesseniente, ma era gentile da parte sua invitarla.

"Tu cosa ne dici, Terry?" domandò Richard. "In marzo è troppo prestoper andare in Europa? Sempre meglio andarci presto, senza aspettare chelà ci sia folla dappertutto."

"Marzo va bene, sì," disse lei."Non c’è niente che ci trattenga, ti pare? Non importa se anche non

finisco il semestre invernale, a scuola.""No, non c’è niente che ci trattenga." Era facile dirlo. Facile crederlo

anche, e altrettanto facile non credervi affatto. Ma se tutto era vero, sel’incarico era reale, la commedia un successo, e lei poteva partire per laFrancia con almeno un risultato alle spalle... D’improvviso, Thereseafferrò il braccio di Richard, lasciando poi scivolare la mano fino alledita di lui. Richard ne fu così sorpreso da interrompersi nel bel mezzo diuna frase.

Il pomeriggio seguente, Therese chiamò il numero di Watkins che Phille aveva dato. Rispose una ragazza dal tono quanto mai efficiente. Ilsignor Cortes non c’era, ma avevano saputo di lei attraverso PhilMcElroy. L’incarico era suo, e avrebbe cominciato a lavorare il ventotto

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dicembre a cinquanta dollari la settimana. Poteva recarsi lì anche prima emostrare qualche suo lavoro al signor Cortes, se lo desiderava, ma nonera necessario, dato che il signor McElroy l’aveva raccomandata contanto calore.

Therese chiamò Phil per ringraziarlo, ma al telefono nessunorispondeva. Gli scrisse un biglietto, presso il Black Cat Theatre.

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3Nel suo turbinio di metà mattinata, Roberta Walls, la sorvegliante piùgiovane del reparto giocattoli, si fermò giusto il tempo per bisbigliare aTherese: "Se non la vendiamo oggi, quella valigia da ventiquattro enovantacinque, lunedì verrà ribassata e il reparto ci rimetterà duedollari!" Accennando alla valigia di cartone sul banco, Roberta affidò ilsuo carico di scatole grigie nelle mani della signorina Martucci e siaffrettò oltre.

Giù per il lungo corridoio, Therese guardò le commesse lasciare ilpasso a Roberta, che si affrettava su e giù lungo i banchi e da un angoloall’altro del reparto, in moto dalle nove del mattino alle sei di sera.Aveva sentito dire che Roberta mirava a una nuova promozione. Portavaocchiali dalla montatura variopinta e, a differenza delle altre ragazze,spingeva le maniche del grembiule verde al di sopra dei gomiti. Theresela vide attraversare velocemente un corridoio e fermare la signoraHendrickson con un messaggio concitato e riferito gesticolando. LaHendrickson assentì, d’accordo. Roberta le toccò familiarmente la spalla,e Therese avvertì una lieve fitta di gelosia, sebbene non le importasseproprio niente della signora Hendrickson che, anzi, le era perfinoantipatica.

"Avete una bambola che piange, ma di stoffa?"A Therese non risultava che ce ne fossero in catalogo, ma la cliente era

sicura che da Frankenberg le avessero, perché le aveva viste su undépliant. Therese tirò fuori l’ennesima scatola dall’ultimo posto dove labambola poteva eventualmente tro varsi, e non c’era.

"’Osa sciai sceccanno?" le domandò la signorina Santini. La signorinaSantini aveva un tremendo raffreddore.

"Una bambola di stoffa, che piange," disse Therese. La Santini era stataparticolarmente cortese con lei, ultimamente. Therese ricordava la carnerubata. Ma ora la Santini si limitò a inarcare le sopracciglia, a stringersinelle spalle, a sporgere il labbro inferiore, di un rosso acceso, e adallontanarsi.

"Di stoffa? Con i codini?" La signorina Martucci, una smilza ragazza

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italiana dai capelli unticci e con un lungo naso da lupo, fissava Therese."Non farti sentire da Roberta," disse poi, dandosi un’occhiata attorno."Non farti sentire da nessuno, ma quelle bambole sono nel seminterrato."

"Ah." Il reparto giocattoli del piano superiore era in guerra con ilreparto giocattoli del seminterrato. La tattica era di indurre i clienti a farei loro acquisti al settimo piano, dove tutto era più costoso. Therese dissealla donna che quelle bambole erano nel seminterrato.

"Questa cerca di venderla oggi," le raccomando la signorina Davis nelpassarle accanto, battendo con la mano dalle unghie laccate di rosso sullamalconcia valigia di finto coccodrillo.

Therese assentì."Avete bambole con le gambe rigide? Che stiano in piedi?"Therese guardò la donna di mezz’età con le stampelle, che si sforzava

di tenersi bene eretta. La sua era una faccia diversa da tutte le altre al dilà del bancone: benevola, con uno sguardo diretto, come se i suoi occhivedessero davvero quello che guardavano.

"È un po’ più grande di come la volevo," disse, quando Therese lemostrò una bambola. "Peccato. Più piccola non l’avete?"

"Penso di sì." Therese andò a cercare più in là, e si accorse che ladonna la seguiva sulle sue grucce, aggirando la ressa di persone al banco,come per risparmiare a Therese di tornare indietro con la bambola.D’improvviso Therese desiderò di farsi in quattro, pur di trovare propriola bambola che quella cliente cercava. Ma neppure il nuovo articoloandava bene. La bambola non aveva capelli veri. Therese cercò daun’altra parte e trovò la stessa bambola con i capelli veri. Piangevaperfino, a piegarla. Era esattamente quello che la cliente desiderava.Therese avvolse con cura la bambola nella carta velina e la posò dentrouna scatola nuova.

"È perfetta," ripeté la donna. "Devo mandarla a un’amica in Australia.È infermiera, si era diplomata insieme a me, così ho fatto una piccolauniforme identica alle nostre per vestire una bamboletta. La ringraziotanto. E buon Natale!"

"Buon Natale a lei!" disse Therese, sorridendo. Era il primo "buonNatale" che un cliente le rivolgeva.

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"Ha già fatto la pausa, signorina Belivet?" le domandò la signoraHendrickson in tono brusco, come se stesse rimproverandola.

Therese non l’aveva ancora fatta. Dalla mensola sotto il banco prese ilsuo borsellino e il romanzo che stava leggendo. Il romanzo era Ritrattodell’artista da giovane di Joyce, e Richard era ansioso che lei lo leggesse.Richard aveva detto di non capire come si potesse leggere Gertrude Steinsenza avere letto niente di Joyce. Quando parlavano di libri, Thereseavvertiva una certa inferiorità. A scuola aveva meditato attentamentedavanti agli scaffali, ma la biblioteca messa insieme dall’Ordine di StMargaret, ora se ne rendeva conto, era stata tutt’altro che varia, purincludendo autrici inaspettate come Gertrude Stein.

Il corridoio che portava ai servizi per i dipendenti era bloccato dagrandi carrelli su cui si ammucchiavano scatole d’ogni genere. Thereseaspettò di poter passare.

"Fata!" le gridò uno degli addetti ai carrelli.A Therese venne da sorridere, perché era sciocco. Perfino giù al

guardaroba, nel seminterrato, le gridavano "Fata!", mattina e sera."Fata, aspetti me?" le gridò di nuovo la voce roca, al di sopra del

rumore dei carrelli che si urtavano.Riuscì a passare, e a schivare uno dei carrelli che veniva a tutta

velocità verso di lei con un commesso a bordo."È vietato fumare, qui!" urlò una voce d’uomo, una tipica voce

autoritaria da dirigente, e le ragazze davanti a Therese, che avevano giàacceso le sigarette, soffiarono il fumo nell’aria e protestarono in coro avoce alta, un attimo prima di trovare rifugio nella toilette delle donne:"Ma chi si crede d’essere, il signor Frankenberg?"

"Iu-huu! Fata!"Un carrello sbandò davanti a lei, che urtò con la gamba contro uno

degli angoli di metallo. Proseguì, senza guardarsi lo stinco, sebbene ildolore cominciasse ad aumentare, là, come una lenta esplosione. Siaddentrò nel composito caos di voci e di figure femminili, e nell’odore didisinfettante. Il sangue le scorreva verso la scarpa, e la calza mostrava unlacero foro. Cercò di risistemare un brandello di pelle e, in preda a unsenso di malessere, si lasciò andare contro la parete, aggrappandosi a uno

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dei tubi dell’acqua. Rimase così per alcuni secondi, ascoltando laconfusione di voci tra le ragazze allo specchio. Poi, bagnò un po’ di cartaigienica e tamponò fino a lavar via il rosso dalla calza. Ma il sanguecontinuava a uscire.

"Non è niente, grazie," disse alla ragazza che per un attimo si erachinata su di lei, e l’altra si allontanò.

Alla fine, non le restò altro da fare che comperare un assorbenteigienico al distributore automatico. Usò parte dell’ovatta interna, chelegò alla gamba con la garza. Ed ecco che era ormai tempo di tornare albanco.

I loro occhi si incontrarono nell’istante in cui Therese rialzò lo sguardodalla scatola che stava aprendo, e la signora voltò un poco la testa così datrovarsi a fissare direttamente Therese. Era alta, bionda, la figuralongilinea aggraziata nell’ampia pelliccia, tenuta aperta da una manopuntata alla vita. Gli occhi erano grigi, incolori, dominanti tuttavia comeluce o fuoco, e Therese, catturata da quello sguardo, non poté distogliereil suo. Udì la cliente che le stava di fronte ripetere la domanda, ma rimaseimmobile, muta. A sua volta la signora guardava Therese conun’espressione preoccupata, come se parte della sua mente meditassesulle cose da acquistare e, sebbene fra loro vi fossero diverse altrecommesse, Therese era certa che la signora si sarebbe rivolta a lei.

"Posso vedere una di quelle valigie?" domandò la signora, e si chinòsul banco, per guardare attraverso il ripiano di vetro.

La valigia malconcia si trovava appena un metro più in là. Therese sigirò per prendere una scatola dal fondo di una pila, una scatola che nonera mai stata aperta. Quando si rialzò, la signora stava guardandola con icalmi occhi grigi da cui Therese, pur non riuscendo a fissarliapertamente, non poteva distogliere lo sguardo.

"È quella che a me piace, ma non credo di poterla avere, vero?" dicevaora la signora, indicando la valigia marrone nella vetrina alle spalle diTherese.

Le sopracciglia bionde si prolungavano oltre la curva della fronte. Labocca era saggia come gli occhi, e la voce, sembrò a Therese, era come lapelliccia, ricca e morbida, e in un certo senso piena di segreti.

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"Sì," disse Therese.Si allontanò verso l’ufficio per prendere la chiave, che era appesa a un

chiodo proprio all’interno della porta, e che a nessuno era permessotoccare salvo che alla signora Hendrickson.

La Davis la vide e trattenne il respiro, ma Therese disse: "Mi serve", euscì.

Aprì la vetrina, tirò giù la valigia e la posò sul banco."Mi sta dando quella in esposizione?" La signora sorrideva come se

avesse capito. Appoggiando entrambi gli avambracci sul banco estudiando il contenuto della valigia, osservò con noncuranza: "Ne farannoun dramma, non crede?"

"Non importa," disse Therese."D’accordo. Questa mi piace. Ha il talloncino del pagamento alla

consegna, vedo. E per i vestitini? Questi sono compresi nella valigia?"C’erano, nel coperchio della valigia, abiti avvolti nel cellophane,

ciascuno col cartellino del prezzo. "No," disse Therese. "Questi sono aparte. Se vuole dei vestitini da bambola – questi non sono molto belli – litroverà al reparto confezioni, dall’altro lato del corridoio."

"Ah! Questa arriverà nel New Jersey prima di Natale?""Sì, la riceverà per lunedì." Therese si disse che, in caso contrario,

l’avrebbe consegnata lei personalmente."Signora H.F. Aird," scandì la voce morbida e signorile della cliente, e

Therese cominciò a scrivere a stampatello sul talloncino verde dellaconsegna a domicilio.

Il nome, l’indirizzo, la città apparvero sotto la punta della matita comeun segreto che Therese non avrebbe mai dimenticato, come qualcosa chestesse imprimendosi per sempre nella memoria.

"Non farà qualche errore, vero?" domandò la signora.Therese ne notò il profumo per la prima volta, e poté soltanto scuotere

la testa, invece di rispondere. Teneva gli occhi sul talloncino sul qualestava laboriosamente aggiungendo le cifre necessarie, e intantodesiderava con tutte le sue forze che la signora non smettesse di parlare eaggiungesse alle sue parole: "Davvero è così contenta d’avermiincontrata? Allora perché non ci rivediamo? Perché oggi non facciamo

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colazione insieme, per esempio?" Aveva un tono così disinvolto, avrebbepotuto dirlo con estrema facilità. Ma non venne altro dopo il "Vero?":niente che alleviasse la mortificazione d’essere stata riconosciuta comeuna nuova commessa, assunta per la corsa agli acquisti del Natale,inesperta e passibile di commettere errori. Therese spinse il registroverso la cliente perché vi apponesse la firma.

Poi la signora riprese i suoi guanti dal banco, si girò, si allontanòlentamente, e Therese osservò la distanza aumentare sempre più. Lecaviglie al di sotto della pelliccia erano chiare e sottili, la signora calzavascarpe di pelle nera a tacco alto.

"È un pagamento alla consegna?"Therese si ritrovò a fissare la faccia brutta e insignificante della

signora Hendrickson. "Sì, signora Hendrickson.""Non lo sa che deve staccare il tagliando e consegnarlo al cliente?

Come pensa che possano ritirare l’acquisto quando lo ricevono? Dov’è lacliente? Può raggiungerla?"

"Sì." Era a soli tre metri, presso il banco dei vestitini da bambola,dall’altra parte del corridoio. Therese, con il tagliando verde in mano,esitò un istante, poi fece il giro del banco, costringendosi ad avanzare,messa improvvisamente in imbarazzo dal proprio aspetto, dalla vecchiagonna blu, dalla camicetta di cotone – chi assegnava i grembiuli verdi siera dimenticato di lei – e dalle umilianti scarpe a tacco basso. Equell’orribile bendaggio, che nel frattempo aveva lasciato probabilmentefiltrare altro sangue.

"Dovevo darle questo," disse, posando il maledetto tagliando verdeaccanto alla mano sull’orlo del banco, e scappando subito via.

Di nuovo dietro il suo banco, Therese si girò verso le scatole di merce,tirandole fuori e rimettendole pensosamente a posto, come se stessecercando qualcosa. Aspettava con la speranza che la signora, avendoterminato gli acquisti all’altro banco, stesse allontanandosene. Eraconsapevole dei momenti che passavano come di attimi irrevocabili, diirrevocabile felicità, perché in quegli ultimi secondi poteva forse,voltandosi, rivedere il volto che non avrebbe rivisto mai più. Eraconsapevole, anche, in modo vago e con un diverso senso di orrore, delle

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solite, incessanti voci di clienti che, al suo banco, chiedevano assistenza,che chiamavano lei, e del sordo, ronzante rrrrrr del trenino, parte dellaconfusione che stava per imprigionarla e per separarla dalla signora.

Ma, quando finalmente si voltò, si ritrovò a fissare direttamente,ancora una volta, quegli occhi grigi. La signora stava venendo verso di leie, come se il tempo fosse tornato indietro, si chinava gentilmente sulbanco e indicava una bambola, chiedendo di vederla.

Therese, presa la bambola, la lasciò cadere abbastanza rumorosamentesul ripiano di vetro, e la signora le lanciò uno sguardo.

"Sembra infrangibile," commentò.Therese sorrise."Sì, prenderò anche questa," aggiunse l’altra con la sua voce lenta e

tranquilla, che creava una pozza di silenzio nel tumulto circostante. Diededi nuovo nome e indirizzo, e Therese li ascoltò lentamente dalle suelabbra, come se già non li sapesse a memoria. "Davvero arriverà tuttoprima di Natale?"

"Lo riceverà lunedì al più tardi. Due giorni prima di Natale."Therese annodò il nastrino che aveva messo intorno alla scatola della

bambola, e il nodo misteriosamente si sciolse. "No," mormorò. In unimbarazzo così profondo in cui non rimaneva più niente da difendere,rifece il nodo sotto gli occhi della signora.

"È un gran brutto mestiere, vero?""Sì." Therese fece passare il talloncino verde attorno al nastrino

bianco, assicurandolo poi con uno spillo.""Perciò mi perdoni se sono stata un po’ insistente."Therese la guardò di sfuggita, e le tornò la sensazione di averla già

conosciuta, che la signora stesse per rivelarle chi era e che entrambeavrebbero riso, allora, e compreso. "Non è stata insistente. Ma sono certache riceverà tutto." Gettò uno sguardo al di là del corridoio, dove lasignora si era fermata in precedenza, e vide il tagliandino verde ancora làsul banco. "Però doveva tenerlo, quel tagliando del pagamento allaconsegna."

L’altra sorrise e i suoi occhi cambiarono, illuminandosi di un fuocogrigio e incolore che Therese quasi conosceva e poteva identificare. "Ho

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già ritirato acquisti senza il tagliando. Lo perdo sempre." Si chinò adapporre una seconda firma.

Therese la guardò allontanarsi con lo stesso passo calmo di quando eraarrivata, la vide gettare un’occhiata a un banco nel passarvi accanto ebattere due o tre volte i guanti neri contro il palmo. Poi la osservò spariredentro un ascensore.

Si dedicò, infine, a una nuova cliente. Lavorò con pazienzainstancabile, ma le sue cifre sui talloncini di vendita mostravano codesbavate nei punti dove la matita aveva uno scatto convulso. Si recònell’ufficio del signor Logan, cosa che sembrò prenderle ore, ma quandoguardò l’orologio erano passati quindici minuti appena, ed era ormaitempo di darsi una rinfrescata per andare a colazione. Sostò rigidamentedavanti all’asciugamani rotante, sentendosi estranea a tutto e a tutti,isolata. Il signor Logan le aveva domandato se volesse fermarsi dopoNatale. Potevano darle un impiego ai piani inferiori, al reparto cosmetici.Therese aveva detto di no.

Verso la metà del pomeriggio, scese al primo piano e comperò unbiglietto di auguri nel reparto cartoleria. Non era un granché comebiglietto, ma se non altro era semplice, celeste pallido e oro. Con la pennasospesa al di sopra del cartoncino, pensò a quello che avrebbe potutoscrivervi – "Lei è meravigliosa" o perfino "Io l’adoro" – e, alla fine,scrisse in fretta l’atrocemente banale e impersonale: "Auguri vivissimidai Magazzini Frankenberg." Aggiunse il suo numero, 645 A, al postodella firma. Poi scese all’ufficio postale nel seminterrato, esitò davantialla cassetta delle lettere, perdendosi improvvisamente di coraggio allavista della sua mano che reggeva la busta già mezzo dentro la buca. Checosa sarebbe accaduto? Lei, oltre tutto, di lì a qualche giorno avrebbelasciato il posto. Che cosa poteva mai importargliene, alla signora H.F.Aird? Le bionde sopracciglia forse lievemente inarcate, avrebbe guardatoper un attimo il biglietto, poi l’avrebbe dimenticato. Therese lo imbucò.

Nel tornare a casa, le venne l’idea per una scenografia: l’interno di unacasa maggiore di profondità che di ampiezza, e con una specie di vorticeproprio nel centro, da cui si aprissero stanze su entrambi i lati. Intendevacominciare il modello in cartone quella sera stessa, ma alla fine si

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accontentò di elaborare uno schizzo a matita. Desiderava vederequalcuno... ma non Richard, e neppure Jack o Alice Kelly del piano disotto, forse Stella, Stella Overton, la scenografa che aveva conosciutodurante le sue prime settimane a New York. Si rese conto che non l’avevapiù vista da quando era venuta al cocktail-party che lei aveva dato primadi lasciare l’altro suo appartamento. Stella era una delle persone che nonsapevano dove lei ora abitasse. Stava per scendere a telefonarle,nell’ingresso, quando udì i brevi, rapidi squilli di campanello chesegnalavano una telefonata per lei.

"Grazie," gridò dall’alto Therese alla signora Osborne.Era la solita chiamata delle nove di Richard. Lui voleva sapere se le

facesse piacere andare al cinema, l’indomani sera. Al Sutton c’era unfilm che ancora non avevano visto. Therese disse che era libera, ma chedesiderava finire una federa. Alice Kelly le aveva detto che l’indomanisera poteva scendere da lei e usare la sua macchina per cucire. Inoltre,doveva lavarsi i capelli.

"Lavali stasera e domani sera esci con me," disse Richard."È troppo tardi. Non posso andare a dormire con la testa bagnata.""Te li laverò io, domani sera. Non useremo la vasca, soltanto un paio di

secchi."Lei sorrise. "Penso sia meglio di no." Era caduta nella vasca, la volta in

cui Richard le aveva lavato i capelli. Richard stava imitando congorgoglii e contorcimenti lo scarico della vasca, e lei aveva riso talmenteche i piedi le erano scivolati sul pavimento.

"Bene, che ne dici di quella mostra d’arte, sabato? È aperta il sabatopomeriggio."

"Ma sabato è il giorno in cui dovrò lavorare fino alle nove. Non potròvenir via prima delle nove e mezzo."

"Ah. Be’, resterò dalle parti della scuola e verso le nove e mezzo verròad aspettarti all’angolo. Tra la Quarantaquattresima e la Quinta,d’accordo?"

"D’accordo.""Qualche novità, oggi?""No. E tu?"

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"No. Domani andrò a sentire per i posti sulla nave. Ti richiamo domanisera."

Therese non telefonò a Stella, alla fine.Il giorno dopo era venerdì, l’ultimo venerdì prima di Natale, e la

giornata più massacrante che Therese avesse conosciuto da quandolavorava al Frankenberg, sebbene tutti dicessero che l’indomani sarebbestato anche peggio. La gente premeva in modo allarmante contro i banchidi vetro. Clienti che lei stava cominciando a servire venivano spazzati viae si perdevano nella vischiosa fiumana che riempiva il corridoio. Eraimpossibile immaginare che altra gente potesse affollarsi a quel piano,eppure dagli ascensori continuava a uscirne.

"Non so perché non chiudano le porte, da basso!" osservò Therese,rivolgendosi alla signorina Martucci, mentre si chinavano entrambepresso uno scaffale di merce.

"Come?" rispose l’altra, nell’impossibilità di udirla."Signorina Belivet!" gridò qualcuno, e soffiò in un fischietto.Era la signora Hendrickson. Aveva cominciato a usare un fischietto,

quel giorno, per ottenere attenzione. Therese si fece strada oltre lecommesse del suo banco e attraverso scatoloni vuoti al suolo.

"La vogliono al telefono," disse la Hendrickson, indicandolel’apparecchio vicino a uno dei tavoli per fare i pacchi.

Therese accennò un gesto di deplorazione che la signora Hendricksonnon ebbe il tempo di vedere. Era impossibile udire qualcosa al telefono,ora, e lei sapeva che probabilmente era Richard, in vena di spiritosaggini.Già una volta le aveva telefonato lì.

"Pronto?" disse."Pronto, è la commessa 645 A, Therese Belivet?" domandò la

centralinista tra ronzii e scariche. "Parli pure.""Pronto?" ripeté lei, e a stento udì una risposta. Trascinò l’apparecchio

via dal tavolo e dentro il locale scorte, qualche passo più in là. Il filo nonarrivava fin lì, e le toccò accucciarsi sul pavimento. "Pronto?"

"Pronto," disse la voce. "Be’... volevo ringraziarla per il biglietto diauguri."

"Oh. Oh, lei è..."

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"Sì, parla Aird. È lei che me lo ha mandato? O sbaglio?""Sì," confermò Therese, improvvisamente irrigidita da un senso di

colpa, come se fosse stata colta sul fatto. Chiuse gli occhi e serrò forte ilmicrofono, rivedendo quegli occhi intelligenti e sorridenti come li avevavisti il giorno innanzi. "Le chiedo scusa se l’ho disturbata," aggiunsemeccanicamente, nel tono che usava con i clienti.

La signora rise. "Molto divertente," commentò, e Therese, nel sentirlenella voce lo stesso disinvolto strascichio già udito il giorno prima,sorrise tra sé.

"Davvero? Perché?""Lei deve essere la ragazza del reparto giocattoli.""Sì.""È stato quanto mai carino da parte sua mandarmi quel biglietto," disse

gentilmente la signora.Allora Therese comprese. La signora aveva pensato che le venisse da

un uomo, qualche altro commesso che l’aveva servita. "È stato un veropiacere servirla," disse.

"Davvero? Perché?" Sembrava quasi che stesse facendole il verso."Be’, visto che è Natale, perché non ci troviamo per bere un caffè,almeno? O un aperitivo."

Therese trasalì mentre la porta si spalancava e una ragazza, entratanella stanza, si fermava proprio davanti a lei. "Sì... Con piacere."

"Quando?" domandò la signora. "Vengo a New York, domani inmattinata. Perché non facciamo per l’ora di colazione? Ha tempo lei,domani?"

"Certo. Ho un’ora, dalle dodici all’una," disse Therese, fissandodinnanzi a sé i piedi della ragazza nei piatti e sformati mocassini, legrosse caviglie e i polpacci in calze di filo di Scozia simili a zampe dielefante.

"Allora l’aspetto da basso all’ingresso sulla Trentaquattresima, versomezzogiorno?"

"D’accordo. Io..." Therese ricordò poi che l’indomani prendevaservizio alla una in punto. Aveva la mattinata libera. Levò un braccio perripararsi dalla valanga di scatole che la ragazza davanti a lei aveva tirato

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giù dallo scaffale. La ragazza stessa barcollò, quasi finendole addosso."Pronto?" gridò, sopra il rumore di scatole che precipitavano.

"Chiedo scusa," borbottò in tono irritato la ragazza, uscendo dallastanza.

"Pronto?" ripeté Therese.Ma era caduta anche la linea.

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4"Salve," disse la signora, sorridendo.

"Salve.""Che c’è?""Niente." Therese stava pensando che, se non altro, la signora l’aveva

riconosciuta."Ha qualche preferenza riguardo ai ristoranti?" domandò l’altra, sul

marciapiede."No. Sarebbe piacevole trovarne uno tranquillo, ma non ce ne sono, qua

intorno.""Ha tempo per l’East Side? Eh, no, non l’ha, se deve rientrare all’una.

Credo di conoscere un posticino a un paio di isolati da qui, lungo questastrada. Pensa di farcela?"

"Sì, certamente." Erano già le dodici e un quarto. Therese sapeva chesarebbe stata paurosamente in ritardo, e non le importava affatto.

Non si presero la briga di conversare, strada facendo. A tratti la folla leseparava, e una volta la signora lanciò un’occhiata a Therese, al di là diun carrello a mano carico di abiti, e sorrise. Entrarono in un ristorante dalsoffitto a cassettoni e dalle tovaglie candide, miracolosamente silenziosoe con mezza sala ancora vuota. Presero posto in un ampio séparé di legno,la signora ordinò un old-fashioned senza zucchero, invitò Therese a farlecompagnia, con quello o con uno sherry e, poiché Therese esitava,congedò il cameriere con l’ordinazione.

Si tolse il cappello, si passò le dita tra i capelli biondi, prima da un latoe poi dall’altro, e guardò Therese. "E come le è venuta l’idea gentile dimandarmi quel biglietto?"

"La ricordavo," disse Therese. Guardava i piccoli orecchini di perle,che in un certo senso non erano più chiare dei capelli stessi, o degli occhi.Guardava la signora e la trovava bella, sebbene la faccia ora le apparissein modo confuso, perché non aveva il coraggio di fissarla in modo diretto.Ecco che tirava fuori qualcosa dalla borsa, un portacipria e un rossetto, eTherese guardò l’astuccio del rossetto: dorato, come un gioiello. Avrebbevoluto osservare la bocca della donna, ma quegli occhi grigi, ora così

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vicini, glielo impedivano con il loro scintillio quasi incandescente."Non è molto che lavora là, vero?""No. Due settimane appena.""E non ci rimarrà ancora a lungo... probabilmente." La signora offrì

una sigaretta a Therese.Therese la prese. "No. Avrò un altro lavoro." Si protese verso

l’accendino che l’altra le porgeva, verso la snella mano bianca con lerosse unghie ovali e con una spruzzata di efelidi sul dorso.

"E si sente spesso ispirata a mandare cartoline?""Cartoline?""Biglietti di Natale?" L’altra sorrise di se stessa."No, naturalmente," disse Therese."Bene, al Natale, allora." Toccò il bicchiere di Therese e bevve. "Dove

abita? A Manhattan?"Therese glielo disse. Nella Sessantatreesima Strada. I suoi genitori

erano morti, spiegò. Da due anni viveva a New York, e prima era stata incollegio, nel New Jersey. Therese non disse che era una scuolasemireligiosa, episcopale. Non accennò a suor Alicia che adorava e allaquale pensava così spesso, suor Alicia con i suoi occhi azzurri slavati, ilsuo brutto viso e la sua affettuosa severità. Non la nominò perché, fin dalmattino precedente, suor Alicia era stata spinta in là, oscurata dalla donnache ora le sedeva di fronte.

"E che cosa fa nel suo tempo libero?" La lampada sul tavolino lerendeva gli occhi argentei, pieni di luce liquida. Perfino la perla al suolobo sembrava viva, una goccia d’acqua che un tocco avrebbe potutodistruggere.

"Io..." Doveva dirglielo che in genere lavorava ai modelli per le scene?Disegnati e dipinti, a volte, oppure scolpiti, come le minuscole figurineche forgiava per le scene di un balletto, ma che soprattutto amava farelunghe passeggiate senza meta, amava semplicemente sognare? Sentivache gli occhi di quella donna non potevano guardare niente senzacomprendere a fondo. Therese prese un altro sorso della sua bibita, che lepiaceva, sebbene da inghiottire fosse sconvolgente e forte come quelladonna.

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La signora fece cenno al cameriere, e arrivarono altri due drink."Mi piace, questo.""Cosa?" domandò Therese."Mi piace che qualcuno mi mandi un biglietto, qualcuno che non

conosco. Così dovrebbero andare le cose a Natale. E quest’anno mi piacein particolar modo."

"Ne sono lieta." Therese sorrise, domandandosi se l’altra dicesse sulserio.

"Lei è una ragazza molto graziosa. E molto sensibile, anche. Vero?"Sembrava che stesse parlando di una bambola, tale era la naturalezza

con cui le aveva detto che era graziosa. "Io trovo che lei sia magnifica,"disse Therese con il coraggio del secondo drink, incurante di comepotesse suonare, perché era certa che la signora già lo sapesse.

Rise, la signora, gettando indietro la testa. Era un suono più bello diuna musica. La risata le formava piccole rughe agli angoli degli occhi, lefaceva sporgere le labbra rosse nell’aspirare dalla sigaretta. Guardò perun attimo al di là di Therese, i gomiti sul tavolo e il mento appoggiatosulla mano che reggeva la sigaretta. C’era una lunga linea dalla cinturadell’abito nero aderente fino alle larghe spalle, e poi la testa bionda, daicapelli fini e ribelli, tenuta ben alta. Avrà dai trenta ai trentadue anni,pensò Therese, e la figlia, per la quale ha comperato la valigia e labambola, ne avrà forse sei oppure otto. Therese poteva immaginarsela, labambina, con i capelli biondo oro, il faccino dorato e felice, il corpicinosnello e ben proporzionato, e sempre intenta al gioco. Ma la faccia dellabambina, a differenza di quella della donna, dai tratti minuti e piuttostonordici, restava vaga, indefinibile. E il marito? Therese non potevaimmaginarselo in nessun modo.

"Di certo," disse, "avrà pensato che era stato un uomo a mandarle quelbiglietto, vero?"

"Infatti," confermò la signora con un sorriso. "Ho pensato che amandarmelo fosse stato un commesso del reparto sci."

"Mi spiace.""No, ne sono felicissima." Si appoggiò all’indietro. "Dubito molto che

sarei andata a colazione con lui. No, no, molto meglio così."

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L’odore cupo e lievemente dolce del suo profumo arrivò di nuovo aTherese, un odore evocativo di sete verde scuro, che apparteneva a leisoltanto, come l’effluvio di un fiore speciale. Therese si sporgeva inavanti per coglierlo, lo sguardo abbassato sul bicchiere. Avrebbe volutospingere da parte il tavolo per gettarlesi tra le braccia, per affondare ilviso nella sciarpa verde e oro legata morbidamente intorno al collo. Unavolta i dorsi delle loro mani si erano sfiorati, sul tavolo, e ora la pelle diTherese era come particolarmente viva, là, e quasi le ardeva. Therese nonsapeva spiegarselo, ma era così. Guardò di nuovo quel volto in partevoltato di profilo, e ancora una volta ebbe la sensazione fuggevole diriconoscerlo. Davvero una cosa da non credere. Lei quella donna nonl’aveva mai vista. Avrebbe mai potuto dimenticarla, altrimenti? Nelsilenzio, Therese senti che stavano entrambe aspettando che fosse l’altraa parlare, e tuttavia in quel silenzio non c’era imbarazzo. I loro piattiarrivarono, fumanti e odorosi di burro. Avevano ordinato purea di spinacicon un uovo sopra.

"Come mai vive sola?" s’informò la signora e, prima ancora direndersene conto, Therese le aveva raccontato la storia della sua vita.

Ma non in particolari tediosi. In sei frasi, come se tutto fosse menoimportante, per lei, di una storia letta da qualche parte. E, del resto, cheimportanza avevano mai i fatti, se sua madre era francese o inglese oungherese, se suo padre era un pittore irlandese o un avvocatocecoslovacco, se era stato un uomo di successo oppure no, e se sua madrel’aveva presentata all’Ordine di St Margaret come una noiosa infantepiagnona o come una malinconica bambina di otto anni? O se lei era statafelice, là. Perché adesso lo era, a partire da quel momento. Non avevaalcun bisogno di genitori o di un passato.

"Cosa potrebbe esserci di più noioso della storia di cose ormaitrascorse?" domandò Therese, sorridendo.

"Forse un futuro senza storia."Therese non stette nemmeno a rifletterci. Era vero. Stava ancora

sorridendo, come se avesse appena imparato a farlo e non sapesse comesmettere. Anche la signora le sorrideva, divertita, e Therese pensò cheforse stava ridendo di lei.

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"Che specie di nome è Belivet?""È cecoslovacco. Ma è stato cambiato," spiegò goffamente Therese. "In

origine...""È molto originale.""E il suo nome com’è?" domandò Therese. "Il nome di battesimo.""Il mio nome? Carol. Ma la prego di non chiamarmi mai Carol.""E io la prego di non chiamarmi mai Therese, pronunciato all’inglese,"

disse lei, facendo udire il "th"."Come vuole che venga pronunciato? ’Teres?"’"Sì, come lo pronuncia lei. Alla francese." Therese aveva usato un

numero infinito di variazioni, e a volte lei stessa lo pronunciava in mododiverso. Ma il modo in cui lo pronunciava Carol le piaceva, e le piacevasentirlo da quelle labbra. Una voglia indefinibile, di cui in passato erastata consapevole solo in modo vago, diveniva ora un desiderio benriconoscibile. Era un sentimento talmente assurdo, talmenteimbarazzante, che Therese lo allontanò dalla mente.

"Che cosa fa la domenica?" s’informò Carol."Non sempre lo so. Niente in particolare. Lei che cosa fa?""Niente... da qualche tempo. Se qualche volta le facesse piacere venire

a trovarmi, è la benvenuta. Almeno dove vivo io abbiamo intorno un po’di campagna. Le farebbe piacere venire questa domenica?" Gli occhi grigila fissavano direttamente, ora, e per la prima volta Therese li affrontò.C’era in essi un certo humour. E cos’altro? Curiosità, e una sfida, anche.

"Sì," disse Therese."Che strana ragazza è lei.""Perché?""Sembra piovuta dallo spazio."

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5Richard era ad aspettarla all’angolo della strada, e spostava il peso da unpiede all’altro a causa del freddo. Lei si rese improvvisamente conto dinon sentire il freddo, quella sera, sebbene le altre persone per la strada sirannicchiassero nei loro cappotti. Prese il braccio di Richard e lo strinse,affettuosamente.

"Sei entrato alla mostra?" gli domandò. Era in ritardo di dieci minuti."No, naturalmente. Ti stavo aspettando." Le premette le labbra fredde e

il naso contro la guancia. "Hai avuto una giornata faticosa?""No."La serata era molto buia, nonostante le decorazioni natalizie appese ad

alcuni lampioni. Therese guardò la faccia di Richard al chiarore delfiammifero che lui aveva acceso. La liscia superficie della frontesporgeva al di sopra degli occhi socchiusi, ampia come quella di unabalena, pensò lei, forte abbastanza da poter abbattere qualcosa. La facciaera come un volto scolpito nel legno, progettato liscio e disadorno. Poi glivide gli occhi aprirsi come inaspettate chiazze di cielo azzurro nelletenebre.

Lui le sorrise. "Sei di buon umore, stasera. Vuoi che facciamo duepassi? Non puoi fumare, là dentro. Ti va una sigaretta?"

"No, grazie."Cominciarono a camminare. La galleria era proprio accanto a loro, una

fila di finestre illuminate, ciascuna con una ghirlanda di Natale, al primopiano del grande edificio. Domani, stava pensando Therese. L’indomanimattina, alle undici, avrebbe rivisto Carol. L’avrebbe rivista a una decinadi isolati da lì, dopo poco più di dodici ore. Fece per prendere di nuovo ilbraccio di Richard, ma d’improvviso provò un senso di imbarazzo. Indirezione est, in fondo alla Quarantatreesima Strada, vedeva Orioneestendersi proprio al centro del cielo tra gli edifici. L’aveva sempreguardato dalle finestre della scuola, e poi da quella del suo primoappartamento a New York.

"Sono andato a prenotare i posti, oggi," disse Richard. "La PresidentTaylor salpa il 7 marzo. Ho parlato con l’addetto ai biglietti, e penso che

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possa procurarci delle cabine esterne, se gli sto appresso.""Il 7 marzo?" Lei udì nella propria voce un principio di interesse,

sebbene ora in Europa non volesse andarci affatto."Di qui a dieci settimane, più o meno," precisò Richard, prendendole la

mano."Puoi annullarle, le prenotazioni, in caso io non potessi venirci?" Tanto

valeva dirglielo ora che non desiderava affatto partire, ma lui si sarebbemesso a discutere per convincerla, come aveva fatto in passato quando leiesitava.

"Ma... Ma certo, Terry!" Lui rise.Le dondolava la mano, mentre camminavano. Come se fossimo due

innamorati, pensò Therese. Sarebbe stato quasi amore, quello che leiprovava per Carol, tranne che Carol era una donna. Non era proprio follia,ma senza dubbio era delizioso. Parola sciocca, certo, ma si sarebbe maisentita più felice di com’era ora, e di come si era sentita da giovedì?

"Vorrei che potessimo dividere la stessa," disse Richard."Dividere cosa?""La cabina!" esclamò forte Richard, ridendo, e Therese notò che due

persone sul marciapiede si erano girate a guardarli. "Vogliamo andare abere qualcosa, tanto per festeggiare? Possiamo entrare da Mansfield, quiall’angolo."

"Non mi va di restarmene seduta. Più tardi, semmai."Visitarono la mostra a metà prezzo, grazie ai tesserini della scuola

d’arte di Richard. La galleria era una serie di sale dagli alti soffitti e dallasoffice moquette, uno sfondo di finanziaria opulenza per i disegni, lelitografie, le illustrazioni o quant’altro era appeso in fitte file sulle pareti.Richard meditava davanti ad alcune opere per diversi minuti, ma Theresele trovava un po’ deprimenti.

"Hai visto questo?" domandò Richard, indicando il complicato disegnodi un operaio intento a riparare un cavo telefonico che Therese aveva giàvisto altrove, e che quella sera le costava uno sforzo guardare.

"Sì," rispose. Stava pensando ad altro. Se avesse smesso di lesinare sututto per risparmiare denaro per l’Europa – il che era stato sciocco, tral’altro, perché non intendeva andarci – poteva comperarsi un cappotto

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nuovo. Sarebbero cominciati i saldi, subito dopo Natale. Quello cheindossava ora era una specie di giaccone nero da polo, e averlo indosso lafaceva sentire sciatta.

Richard simulò un tono severo. "Non hai sufficiente rispetto per latecnica, ragazzina."

Lei simulò a sua volta un fiero cipiglio, poi gli prese di nuovo ilbraccio. D’improvviso si sentiva vicinissima a lui, confortata e felicecome lo era stata la sera in cui lo aveva conosciuto, a un party inChristopher Street dove l’aveva portata Frances Cotter. Richard quellasera era un tantino sbronzo, come non lo era più stato in seguito, con lei:aveva parlato di libri, di politica e della gente in modo più positivo diquanto lo avesse sentito parlare in seguito. Avevano chiacchierato pertutto il tempo, e quella sera le era piaciuto tanto proprio per i suoientusiasmi, per le sue ambizioni, per i suoi gusti, e anche perché quelloera il suo primo vero party e lui glielo aveva reso un successo.

"Ma tu non guardi," disse Richard."Ho visto abbastanza. Per me, quando vuoi, possiamo anche

andarcene."Vicino alla porta, incontrarono alcune persone che Richard conosceva,

un giovanotto, una ragazza e un altro giovanotto nero. Richard li presentòa Therese. Lei capiva benissimo che non erano proprio amici di Richard,ma lo sentì annunciare a tutti e tre: "In marzo andiamo in Europa."

E tutti e tre li guardarono invidiosi.Fuori, la Quinta Avenue sembrava deserta e in attesa di qualche azione

drammatica, proprio come uno scenario. Therese procedeva speditaaccanto a Richard, le mani sprofondate nelle tasche. Quel giorno, chissàdove, aveva perso i guanti. Stava pensando all’indomani mattina, alleundici. Si domandava se l’indomani sera, a quell’ora, sarebbe stataancora con Carol.

"E per domani, allora?""Per domani?""Ma sì. I miei volevano sapere se questa domenica saresti venuta a

pranzo da noi."Therese esitò, ricordandosene. Era stata invitata dai Semco già quattro

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o cinque volte, di domenica. Facevano un gran pranzo, verso le due, poi ilsignor Semco, un ometto calvo, voleva sempre ballare con lei polche edanze popolari russe, che metteva sul grammofono.

"Di’, sai che mamma vuole farti un vestito?" continuò Richard. "Ha giàprocurato la stoffa. Adesso vuole prenderti le misure."

"Un vestito... Ma è troppo lavoro." Therese si vide davanti le camicettericamate della signora Semco, camicette bianche con file su file di puntia ricamo. La signora Semco era orgogliosa dei suoi lavori d’ago. Theresesentiva di non poter accettare una fatica così colossale.

"A lei piace," disse Richard. "Bene, e per domani, allora? Ti va divenire, verso mezzogiorno?"

"Penso proprio di no, questa domenica. Non hanno fatto grandipreparativi, vero?"

"No," rispose Richard, deluso. "Vuoi solo lavorare, domani, o cosa?""Sì, preferisco lavorare." Non voleva che Richard sapesse di Carol, o

che la incontrasse, perfino."Neppure fare un giro in macchina da qualche parte?""Penso proprio di no, grazie." A Therese non andava che lui le tenesse

la mano, ora. Era una mano umidiccia, la sua, e quindi particolarmentegelida, in quel momento.

"Sei proprio sicura che non cambierai idea?"Therese scosse la testa. "No." C’erano cose che avrebbe potuto dire per

mitigare il rifiuto, qualche scusa da accampare, ma non voleva nemmenomentire riguardo all’indomani, non più di quanto avesse già mentito. Losentì sospirare, e per un poco procedettero affiancati, in silenzio.

"Mamma vuole farti un vestito bianco guarnito di pizzo. È frustrata daimpazzire per il fatto che in famiglia non ci sono ragazze, a parte Esther."

Si riferiva a una cugina acquisita, che Therese aveva visto solo un paiodi volte. "Come sta Esther?"

"Come al solito."Therese liberò le dita da quelle di Richard. D’improvviso le era venuta

fame. Aveva passato la pausa del pomeriggio a scrivere qualcosa, unaspecie di lettera a Carol che non aveva impostato, né intendeva spedire.Saltarono sull’autobus che risaliva verso la Terza Avenue, poi

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proseguirono a piedi in direzione est, fino a casa di Therese. Lei nonaveva nessuna voglia di invitare Richard a salire, ma lo fece ugualmente.

"No, grazie, ora vado," disse Richard. Posò un piede sul primo scalino."Sei di uno strano umore, stasera. Sei a chilometri di distanza."

"Ma no, non è vero," protestò lei, irritata con se stessa, perché nonriusciva a trovare parole adatte.

"E invece è così. Lo capisco benissimo. In fin dei conti, se non...""Cosa?" lo sollecitò lei."Non facciamo molti progressi, ti pare?" proruppe lui,

improvvisamente serissimo. "Se non vuoi nemmeno passare la domenicacon me, come potremo passare mesi insieme in Europa?"

"Be’... Se vuoi che lasciamo perdere, Richard.""Terry, io ti amo." Si passava la mano tra i capelli, esasperato. "Non

voglio, no, che lasciamo perdere, ma..." S’interruppe nuovamente.Lei sapeva che cosa era stato lì lì per dire, e cioè che in pratica non gli

dava niente, quanto a prove d’affetto; solo che non voleva dirlo, perchésapeva benissimo che lei non lo amava, e quindi quali prove poteva maiaspettarsi? Tuttavia, il solo fatto di non esserne innamorata faceva sì cheTherese si sentisse colpevole: colpevole nell’accettare qualsiasi cosa dalui, un regalo di compleanno, un invito a pranzo da parte della famiglia, oil suo tempo, perfino. Therese premeva con forza le dita sulla balaustratadi pietra. "D’accordo... Lo so. Non sono innamorata di te," disse.

"Non è questo che intendo dire, Terry.""Se vuoi che diamo un taglio a tutta la faccenda... Insomma, se vuoi

smettere completamente di vedermi, allora fallo." Non era la prima voltache glielo proponeva, in verità.

"Terry, sai bene che preferirei stare con te che con qualsiasi altra almondo. Lo strazio è proprio questo."

"Be’, se è uno strazio...""Tu mi vuoi bene, Terry? In che modo me ne vuoi?"Fammi contare i modi, pensò lei. "Io non ti amo, però mi piaci. A dire

il vero, stasera, proprio pochi minuti fa," disse, lasciando sgorgare leparole, in qualsiasi modo suonassero, perché erano sincere, "mi sonoaccorta che mi sentivo più vicina a te di quanto mi sia mai accaduto

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prima."Richard la guardava, un po’ incredulo. "Davvero?" Prese a salire

lentamente i gradini, sorridendo, e fermandosi quasi all’altezza di lei."Ma allora... Perché non mi lasci rimanere con te stanotte, Terry?Facciamo una prova, vuoi?"

Fin dal primo passo verso di lei, Therese aveva capito che cosa luistesse per chiederle. Ora si vergognava e si sentiva infelice, addolorataper se stessa e per lui, perché era così impossibile, così imbarazzanteproprio perché lei non se la sentiva. C’era sempre quel tremendo bloccodi non voler neppure provare, che riduceva il tutto a una sorta didesolante imbarazzo e niente più, ogni volta che Richard glieloproponeva.

Ripensò alla prima volta in cui gli aveva permesso di restare, e dinuovo si sentì come torcere internamente. Era stato tutt’altro chepiacevole, tanto che sul più bello lei gli aveva domandato: "Ma è giusto,questo?" Come può mai essere giusto, aveva pensato, se è cosìsgradevole? E Richard aveva riso, forte e a lungo, così di cuore che leiaveva finito per andare in collera. E la seconda volta era andata anchepeggio, probabilmente perché Richard aveva creduto che tutte ledifficoltà fossero ormai superate. Era stato doloroso al punto da farlapiangere, e Richard si era mostrato molto spiacente e aveva detto che leigli aveva dato l’impressione d’essere un bruto. Al che si era messa aprotestare che no, non lo era affatto. Sapeva benissimo che lui non lo era,che era angelico a paragone di come sarebbe stato Angelo Rossi, peresempio, se fosse andata a letto con lui la sera in cui, fermo su queglistessi gradini, le aveva fatto la medesima richiesta.

"Terry, tesoro...""No," disse Therese, trovando finalmente la voce. "Stasera proprio non

posso, e non posso nemmeno venire in Europa con te," terminò, conabietta e disperata franchezza.

Richard aveva le labbra semiaperte per lo stupore. Therese nonsopportava di guardare il cipiglio che le sovrastava. "Perché no?"

"Perché... Perché non posso," disse lei, ogni parola una tortura. "Perchénon voglio venire a letto con te."

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"Oh, Terry!" Ora lui rideva. "Scusami se te l’ho chiesto. Dimenticalo,amore, vuoi? E in Europa, anche?"

Therese, distogliendo lo sguardo, notò di nuovo Orione, che ora avevaun’inclinazione lievemente diversa, poi tornò a fissare Richard. Ma ionon posso, pensava. Mi tocca pensarci, ogni tanto, solo perché ci pensi tu.Le sembrò d’averle pronunciate, quelle parole, e che restassero sospesetra loro, concrete come pezzi di legno, pur non avendole sentite affatto.Le aveva già pronunciate davanti a lui quelle parole, una volta di sopra, eun’altra volta in Prospect Park, mentre srotolava il filo di un aquilone.Ma lui non voleva prenderle in considerazione, e allora che cosa lerestava da fare, ora, ripeterle? "Vuoi venir su ugualmente, per un po’?"domandò, torturata da se stessa, da una vergogna di cui non sapevaspiegarsi realmente la ragione.

"No," disse Richard con una lieve risata che la mortificò più che mai,proprio perché così tollerante e così comprensiva. "No, vado a casa.Buonanotte, amore. Ti amo, Terry." E, rivolgendole un ultimo sguardo, siincamminò.

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6Therese uscì nella strada e guardò, ma le vie erano deserte, com’è tipicodelle mattinate domenicali. Il vento si scagliava attorno all’alto angolo dicemento del Frankenberg, quasi fosse furioso di non trovare alcuna figuraumana, là, a tentare di opporglisi. Nessuno tranne lei, e Therese riseimprovvisamente di sé. Avrebbe potuto anche pensare a un luogo piùpiacevole, per l’appuntamento. Il vento era come ghiaccio contro i suoidenti. Carol era in ritardo di un quarto d’ora. Se non fosse venuta, leiprobabilmente avrebbe continuato ad aspettare, per tutta la giornata e finoa notte. Una figura usciva ora dall’ingresso della metropolitana, unamagrissima e frettolosa figura di donna in un lungo cappotto nero al disotto del quale i piedi si muovevano rapidi come zampe su una ruota.

Poi Therese si voltò e vide Carol dentro un’auto che si era fermatalungo il marciapiede. Therese si diresse verso la vettura.

"Salve!" gridò Carol, e si protese ad aprirle la portiera."Salve. Temevo che non venisse più.""Sono molto spiacente d’essere in ritardo. Sta gelando?""No." Therese salì e chiuse la portiera. Faceva caldo, all’interno

dell’auto, una lunga berlina verde scuro con imbottiture di pelle dellostesso colore. Carol prese a guidare lentamente in direzione ovest.

"Dobbiamo andare subito a casa? Dove le piacerebbe andare?""Per me è lo stesso," disse Therese. Poteva vedere le efelidi lungo il

naso di Carol. I corti capelli biondi che, secondo Therese, facevanopensare a profumo guardato contro luce, erano trattenuti dalla sciarpaverde e oro che le circondava la testa come una fascia.

"Andiamo a casa, allora. È piuttosto bello, là."Ora filavano verso la periferia. Era come viaggiare all’interno di una

montagna rotolante in grado di spazzare qualsiasi cosa davanti a sé, e chetuttavia obbediva docilmente a Carol.

"Le piace guidare?" domandò Carol, senza guardarla. Aveva unasigaretta tra le labbra. Guidava con le mani posate leggermente sulvolante, come se non la impegnasse affatto, come se se ne stesse rilassatain poltrona a fumare. "Perché è così silenziosa?"

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Imboccarono rombando il Lincoln Tunnel. Therese, nel fissareattraverso il parabrezza, sentiva montare dentro di sé un assurdo,inspiegabile senso di eccitazione. Avrebbe voluto che il tunnel crollasse ele uccidesse entrambe, e che i loro resti venissero trascinati fuoriinsieme. Si accorgeva che Carol, di quando in quando, le lanciavaun’occhiata.

"Ha fatto colazione, stamattina?""No," rispose Therese. Era pallida, probabilmente. Aveva cominciato a

prepararsi la colazione, ma aveva lasciato cadere la bottiglia del latte nellavello, dopo di che vi aveva rinunciato.

"Meglio che beva un po’ di caffè. È lì nel thermos."Erano uscite dal tunnel. Carol si fermò lungo il margine della strada."Lì," disse, indicando il thermos sul sedile in mezzo a loro. Poi lei

stessa lo prese e versò il caffè, ancora fumante.Therese lo accettò con gratitudine. "Da dove è piovuto, dal cielo?"Carol sorrise. "Vuole sempre sapere da dove piovono le cose?"Il caffè era forte e piuttosto dolce. Quando la tazza era ormai quasi

vuota, Carol rimise in moto. Therese era silenziosa. Di che cosa si potevaparlare? Del quadrifoglio d’oro, con sopra nome e indirizzo di Carol, chepenzolava dalla chiave dell’accensione inserita nel cruscotto? Dellabancarella di alberi di Natale che stavano oltrepassando lungo la strada?Dell’uccello che volava solitario attraverso un campo intriso d’acquacome una palude? No. Soltanto delle cose che lei aveva scritto a Carolnella lettera non spedita sarebbe valsa la pena parlare, e questo eraimpossibile.

"Le piace la campagna?" domandò Carol, mentre svoltavano in unastrada più stretta.

Avevano appena attraversato un piccolo centro e ne erano uscite. Ora,lungo un viale che descriveva un’ampia curva, stavano avvicinandosi auna casa bianca a due piani, con due ali laterali sporgenti come le zampedi un leone in riposo.

C’erano uno stuoino metallico, una grande e lucente cassetta dellelettere in ottone, un cane che abbaiava da un punto oltre il lato della casa,dove il bianco di un garage s’intravedeva tra gli alberi. La casa,

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all’interno, odorava di spezie, e si avvertiva anche un altro profumopiuttosto dolce, che però non era quello di Carol. La porta, alle spalle diTherese, si chiuse con uno scatto lieve ma fermo. Therese, nel voltarsi, siaccorse che Carol la guardava perplessa, le labbra un po’ schiuse comeper la sorpresa, ed ebbe la sensazione che di lì a un istante le avrebbedomandato: "Che cosa ci fa lei qui?", come se avesse dimenticato, o nonavesse avuto affatto l’intenzione di portarcela.

"Non c’è nessuno, a parte la cameriera, che però è lontana," spiegòCarol, come se stesse rispondendo a una domanda di Therese.

"È una casa bellissima," disse Therese, e notò un lieve sorriso di Carol,venato di impazienza.

"Si tolga il cappotto." Carol si levò la sciarpa che aveva intorno allatesta e si passò le dita tra i capelli. "Non le andrebbe un piccolobreakfast? È quasi mezzogiorno."

"No, grazie."Carol si guardò attorno, nel soggiorno, e sul volto le riapparve quella

stessa espressione perplessa e insoddisfatta. "Andiamo di sopra. È moltopiù confortevole."

Therese la seguì su per l’ampia scalinata di legno, oltre un dipinto aolio raffigurante una bimbetta con i capelli biondi e il mento quadratocome quello di Carol, oltre una finestra dove un giardino con un sentieroa forma di "s", una fontana con una statua verde-azzurra apparvero per unistante e svanirono. Di sopra, c’era un breve corridoio sul quale siaprivano quattro o cinque porte. Carol entrò in una stanza con moquette epareti verdi e prese una sigaretta da una scatola su un tavolo. Lanciòun’occhiata a Therese, nell’accenderla. Therese non sapeva che fare o chedire, pur sentendo che Carol si aspettava che lei dicesse o facessequalcosa, qualsiasi cosa. Studiava quel semplice ambiente dalla moquetteverde scuro e dalla lunga panca tutta cuscini verdi lungo una parete. Alcentro c’era un tavolo molto liscio in legno chiaro. Una stanza da gioco,pensò Therese, sebbene l’aspetto fosse più quello di uno studio, con ilibri, i dischi e l’assenza di quadri.

"La mia stanza preferita," disse Carol, uscendone. "Ma la mia camera èquella."

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Therese guardò dentro la stanza di fronte. Imbottiture ricoperte dicotone a fiorami e telai in legno biondo, come il tavolo di quel primoambiente. Un lungo e semplice specchio al di sopra della toletta e un chedi molto luminoso, sebbene nella stanza non penetrasse il sole. Il letto eraa due piazze. E c’erano spazzole da uomo sullo scuro cassettone dal latoopposto. Therese cercò invano una fotografia del marito. Ce n’era una diCarol sulla toletta, con in braccio una bimbetta dai capelli biondi. E lafotografia in cornice d’argento di una donna con i capelli neri e ricci econ un gran sorriso.

"Lei ha una bambina, vero?" domandò Therese.Nel corridoio, Carol aprì uno dei pannelli della parete. "Sì," disse. "Le

andrebbe una Coca?"Ora il ronzio di un frigorifero si avvertiva più intenso. In tutta la casa,

non c’erano altri rumori se non quelli prodotti da loro due. Therese nondesiderava affatto una bibita fredda, ma prese la bottiglia e la portò dabasso, seguendo Carol attraverso la cucina e nel giardino sul retro cheaveva scorto dalla finestra. Al di là della fontana c’era tutta una serie dipiante alte circa un metro e avvolte in sacchi di iuta che, ferme là ingruppo, pensò Therese, assomigliavano a qualcosa, ma lei non sapevadire a che cosa. Carol strinse una cordicella che il vento aveva allentato.La sua figura, china nella pesante gonna di lana e nel cardigan blu,sembrava solida e forte, come il volto, ma non come le sottili caviglie.Per diversi minuti Carol si comportò come se si fosse dimenticata di lei,aggirandosi lentamente, ben piantata sui piedi calzati di mocassini, comese nel gelo del giardino senza fiori si sentisse finalmente a suo agio.Senza cappotto il freddo era terribile ma, poiché Carol sembrava ignaraanche di quello, Therese si sforzava di imitarla.

"Che cosa le piacerebbe fare?" domandò Carol. "Una passeggiata?Ascoltare dei dischi?"

"Io sono già contenta d’essere qui," assicurò Therese. Sentiva chel’altra era preoccupata per qualcosa, e deplorava d’averla invitata lì acasa. Tornarono insieme verso la porta in fondo al sentiero.

"E il suo lavoro, le piace?" domandò Carol una volta in cucina, semprecon la stessa aria assente. Stava guardando dentro il grande frigorifero.

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Tirò fuori due piatti ricoperti di carta oleata. "Io mangerei volentieriqualcosa, lei no?"

Therese aveva inteso parlarle dell’incarico al Black Cat Theatre.Quello sì contava qualcosa, sarebbe stato l’unico particolare importanteche avrebbe potuto raccontare di sé. Ora rispose lentamente, cercando diavere lo stesso tono distaccato di Carol, pur sentendovi predominare lapropria timidezza. "Tutto sommato è educativo. Si impara a essere ladri,bugiardi e poeti, tutto contemporaneamente." Si abbandonò all’indietrosulla sedia rigida, così che la sua testa venisse a trovarsi in un tiepidoriquadro di sole. "E ad amare," avrebbe voluto aggiungere. Lei non avevamai amato nessuno prima di Carol, nemmeno suor Alicia.

Carol la guardò. "In che senso, a diventare poeti?""Diventando sensibili alle cose... Troppo, forse," rispose

coscienziosamente Therese."E ladri, come si diventa?" Carol si leccò qualcosa dal pollice e

aggrottò la fronte. "C’è anche un po’ di torta caramellata. Ne vuole?""No, grazie. Ancora non ho rubato, ma giurerei che sia facile, là. Ci

sono portafogli un po’ dappertutto, e non devi fare altro che prenderli. Tirubano la carne che hai comperato per cena." Therese rise. Si potevariderne, con Carol. Si poteva ridere di tutto, con lei.

Fecero colazione con pollo freddo, salsa di mirtilli, olive verdi einsalatina di sedano.

Ma Carol lasciò il pasto a mezzo e andò nel soggiorno. Tornòportandosi un bicchiere con del whisky, che allungò con un po’ d’acquadel rubinetto. Therese la osservava. Poi, per un lungo momento, rimaseroa fissarsi, Carol in piedi presso il lavello e Therese seduta a tavola, con latesta voltata, senza mangiare.

Carol domandò calma calma: "Le capita spesso di conoscere gentecosì, attraverso il banco? Non dovrebbe stare attenta alle persone con cuiattacca discorso?"

"Oh, sì." Therese sorrise."O con chi va fuori a colazione?" A Carol brillavano gli occhi.

"Potrebbe imbattersi in un rapitore." Agitò il liquido dentro il bicchieresenza ghiaccio, poi bevve, e i sottili braccialetti d’argento al suo polso

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tintinnarono contro il vetro. "Bene... Ne conosce molte di persone inquesto modo?"

"No," disse Therese."Non molte? Appena tre o quattro?""Come lei?" Therese ne sosteneva ora lo sguardo, con fermezza.E Carol continuava a fissarla, come se si aspettasse un’altra parola,

un’altra frase da lei. Ma poi posò il bicchiere sul coperchio chiuso dellacucina a gas e si voltò. "Suona il piano?"

"Un po’.""Venga a suonare qualcosa." E, poiché Therese faceva l’atto di

rifiutarsi, aggiunse imperiosa: "Oh, non m’importa di come suona. Bastache accenni qualcosa."

Therese suonò un pezzo di Scarlatti che aveva imparato dalle suore. Inpoltrona dall’altro lato della stanza, Carol ascoltava, rilassata eimmobile, senza nemmeno sorseggiare la nuova dose di whiskyallungato. Therese eseguì la Sonata in do maggiore, che era abbastanzalenta e piuttosto semplice, tutta ottave spezzate, ma a un tratto le sembrònoiosa, poi pretenziosa nelle parti trillate, e si fermò. All’improvviso eratroppo, le sue mani sulla tastiera che Carol di certo suonava, Carol che laosservava a occhi semichiusi, e la musica che la induceva adabbandonarsi, che la rendeva indifesa. Con un’esclamazione soffocata,lasciò cadere le mani in grembo.

"È stanca?" domandò tranquillamente Carol.La domanda sembrava riferirsi non a quel momento ma in generale.

"Sì."Carol si portò dietro Therese e le posò le mani sulle spalle. Therese

poteva vederle, quelle mani, nella sua memoria: flessibili e forti, con itendini delicati in rilievo nel premerle le spalle. Sembrò trascorrereun’eternità mentre quelle mani si muovevano verso il suo collo e sotto ilsuo mento, un’eternità di tumulto così intenso da offuscare il piacerequando Carol, inclinandole la testa all’indietro, le posò un lieve bacioall’attaccatura dei capelli. Therese quel bacio neppure lo sentì.

"Venga con me," disse Carol.Seguì nuovamente Carol di sopra. Si issava, tenendosi aggrappata alla

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ringhiera, e d’improvviso le tornò in mente la signora Robichek."Penso che un sonnellino non le farebbe male," disse Carol, gettando in

là il copriletto fiorato e ripiegando la coperta."Grazie, non sono proprio...""Si tolga le scarpe," disse gentilmente Carol, ma in un tono che non

ammetteva replica.Therese guardò il letto. Non aveva quasi chiuso occhio, la notte prima.

"Non credo che dormirò ma, se per caso...""La sveglierò tra una mezz’ora." Carol, dopo che lei si era distesa, le

sistemò addosso la coperta, poi sedette sull’orlo del letto. "Quanti anniha, Therese?"

Therese levò gli occhi verso di lei, incapace di sostenerne lo sguardoma sostenendolo ugualmente. Se anche fosse morta in quell’istante, seCarol l’avesse strangolata – prostrata e vulnerabile in quel letto,un’intrusa –, niente gliene sarebbe importato. "Diciannove." Vecchia, lesuonò. Vecchia come se avesse detto: "Novantuno."

Carol aggrottò la fronte, pur sorridendo lievemente. Therese intuì chestava pensando a qualcosa, e così intensamente che quasi si sarebbepotuto toccarlo, quel pensiero sospeso in mezzo a loro. Poi Carol le fecescivolare le mani sotto le spalle, chinò la testa fino a sfiorarle la gola, eTherese, nel sospiro che avverti caldo contro il collo e che le portò ilprofumo di quei capelli biondi, sentì allentarsi tutta la tensione del corpodi Carol.

"Sei una bambina," disse Carol, quasi come un rimprovero. Sollevò latesta. "Hai voglia di qualcosa?"

Therese si ricordò di quello che aveva pensato nel ristorante, e serrò identi per la vergogna.

"Hai voglia di qualcosa, eh?" ripeté Carol."Di niente, grazie."Carol si alzò, andò verso la pettiniera e si accese una sigaretta. Therese

la osservava attraverso le palpebre semichiuse, preoccupatadall’inquietudine di Carol, sebbene le piacesse vederla fumare.

"Che cosa ti porto, qualcosa da bere?"Therese capì che intendeva dire: "Acqua." Lo capì dalla tenerezza e

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dall’interesse del tono, come se lei fosse una bambina malata efebbricitante. Allora si fece coraggio: "Penso che mi andrebbe un po’ dilatte caldo."

Carol sollevò un angolo della bocca in un sorriso. "Un po’ di lattecaldo," la scimmiottò. Poi, lasciò la stanza.

E Therese giacque per tutto il tempo in un limbo di ansia e di torporefino a che Carol non riapparve con il latte dentro una tazzona bianca consotto un piattino, reggendo il piattino e il manico della tazza e chiudendopoi la porta con il piede.

"Ho lasciato che bollisse e si è formata sopra una schiuma," disse, intono seccato. "Mi spiace."

Ma a Therese piaceva, perché sapeva che era esattamente così cheCarol faceva sempre, pensando ad altro e lasciando che il latte bollisse.

"È davvero così che ti piace? Senza niente?"Therese assentì.Carol accennò una smorfia. Poi, seduta sul bracciolo della poltrona, la

guardò berlo.Therese si era sollevata su un gomito. Il latte era talmente bollente che

lei, da principio, sì e no poteva accostarvi le labbra. I piccoli sorsi le sispargevano in bocca, sprigionando un mélange di sapori organici. Il lattesembrava sapere di sangue e di ossa, di carne calda o di capelli, insipidocome gesso e tuttavia vivo come un embrione in crescita. Rimasebollente fino al fondo della tazza, e Therese lo mandava giù come ipersonaggi delle fiabe bevono la pozione che li trasformerà, o l’ignaroguerriero la coppa che gli darà la morte. Poi Carol si avvicinò perriprendersi la tazza, e Therese si rese torpidamente conto che le venivanorivolte tre domande, una che aveva a che fare con la felicità, una con illavoro in negozio e una sull’avvenire. Udì se stessa rispondere. Udì lapropria voce alzarsi improvvisamente in un balbettio, come una mollasulla quale lei non avesse più controllo, e si rese conto d’essere inlacrime. Stava parlando a Carol di tutto quello che temeva e chedetestava, della sua solitudine, di Richard, e di tante immense delusioni.E dei suoi genitori. La madre non era morta, ma Therese non l’aveva piùvista fin dall’età di quattordici anni.

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Carol la interrogava, e lei rispondeva, sebbene non volesse parlare disua madre. Sua madre non era poi così importante, non era nemmeno unadelle sue delusioni. Suo padre lo era. Suo padre era stato completamentediverso. Era morto quando lei aveva sei anni: avvocato di originececoslovacca che per tutta la vita aveva desiderato essere un pittore. Erastato del tutto diverso, lui, gentile, comprensivo, senza mai alzarerabbiosamente la voce contro la donna che continuamente lopunzecchiava, perché non era né un buon avvocato né un buon pittore.Non era mai stato molto forte, era morto di polmonite ma, nella mente diTherese, era stata la moglie a ucciderlo. Carol le faceva domande sudomande, e Therese raccontò di quando la madre l’aveva portata nelcollegio di Montclair – lei aveva otto anni – delle rare volte in cui eravenuta a trovarla in seguito, perché viaggiava molto e per tutto il paese.Era una pianista: no, non una grande artista, come poteva mai esserlo?Ma aveva sempre trovato lavoro perché sapeva imporsi. Poi, quandoTherese aveva dieci anni, la madre si era risposata. Therese era stata atrovarla nella sua nuova casa di Long Island durante le vacanze di Natale,e i due le avevano chiesto di rimanere con loro, ma non come se lodesiderassero davvero. E a Therese non era piaciuto il marito, Nick,perché era proprio come sua madre, grande e grosso, bruno, con una voceforte e gesti violenti e passionali. Therese aveva avuto la certezza che illoro matrimonio sarebbe stato perfetto. Sua madre era incinta già allora, eadesso di figli ce n’erano due. Dopo una settimana in quella casa, Thereseera tornata dalle suore. In seguito c’erano state forse tre o quattro visiteda parte di sua madre, sempre con qualche regalo per lei, una camicetta,un libro, e una volta un set per il trucco che Therese aveva odiato per ilsemplice fatto che le ricordava le ispide ciglia indurite dal mascara dellamadre, regali che la madre le porgeva con fare impacciato, come ipocriteofferte di pace. Una volta le aveva portato il bambino, suo fratellastro, eallora Therese aveva capito d’essere un’estranea. Sua madre non avevavoluto bene a papà, aveva scelto di affidarla a un istituto quando lei avevaappena otto anni, e perché ora si prendeva il disturbo di venirla a trovare,di fingere interesse per lei? Therese sarebbe stata più felice di non averli,i genitori, come una metà delle sue compagne di scuola. Alla fine,

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Therese aveva detto a sua madre di non desiderare le sue visite, e lamadre non era più tornata; e l’espressione mortificata e insieme offesa, lanervosa occhiata da sotto in su di quegli occhi castani, la contrazione diun involontario sorriso e il silenzio erano l’ultimo ricordo che lei neaveva. Poi aveva compiuto quindici anni. Le suore, essendosi accorte chela madre non si faceva più viva, l’avevano pregata di scrivere, almeno,cosa che aveva fatto, ma Therese non le aveva risposto. Poi, al momentodel diploma, quando Therese aveva diciassette anni, la scuola si erarivolta alla madre per chiederle duecento dollari. Therese non avrebbevoluto accettarli, aveva anzi pensato che la madre non volesse darglieli,invece glieli aveva dati, e Therese li aveva presi.

"Ma sono pentita di averli accettati. Non l’ho mai detto a nessuno,questo. Un giorno o l’altro, glieli restituirò."

"Sciocchezze," commentò dolcemente Carol. Sedeva sul bracciolodella poltrona, il mento appoggiato sulla mano, gli occhi fissi su Therese,e sorrideva. "Eri ancora una ragazzina. Quando dimenticherai divolerglieli rimborsare, sarai veramente adulta."

Therese non rispondeva."Sei proprio sicura che non vorrai mai più rivederla? Forse da qui a

qualche anno?"Therese scosse la testa. Sorrideva, ma le lacrime continuavano a

scorrerle. "Non voglio parlarne più.""Richard lo sa, tutto questo?""No. Sa solo che è viva. Ha importanza? Non è questo che conta."

Sentiva che, se avesse pianto abbastanza, si sarebbe liberata di tutto,stanchezza, solitudine, delusione, come se fossero nelle lacrime stesse.Ed era contenta che Carol la lasciasse sola a farlo, ora. Carol era andata afermarsi presso la toletta, volgendole le spalle. Therese giaceva rigida nelletto, sollevata su un gomito, squassata da singhiozzi mezzo repressi.

"Non piangerò mai più," dichiarò."Sì, lo farai." E si sentì sfregare un fiammifero.Therese prese un altro fazzoletto di carta dal tavolino da notte e si

soffiò il naso."Chi altro c’è nella tua vita, oltre Richard?" domandò Carol.

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Li aveva sfuggiti tutti. C’erano stati Lily e i signori Anderson, nellacasa dove era andata ad abitare nei primi tempi, a New York. FrancesCotter e Tim e la Pelican Press. Lois Vavrica, una ragazza che era stataanche lei a Montclair. Ora chi c’era? I Kelly, che abitavano al piano disotto, dalla signora Osborne. E Richard. "Quando mi licenziarono daquell’impiego, il mese scorso," spiegò, "mi vergognavo e così hotraslocato..." S’interruppe.

"Traslocato dove?""Non lo avevo detto a nessuno, a parte Richard. Sono praticamente

scomparsa. Immagino che la mia idea fosse di cominciare una nuova vita,ma soprattutto mi vergognavo. Non volevo che gli altri sapesserodov’ero."

Carol sorrise. "Scomparsa! Mi piace l’idea. E quanto sei fortunata peressere in grado di farlo. Sei libera. Te ne rendi conto?"

Therese taceva."No," si rispose Carol da sé.Accanto a Carol, sul ripiano della toletta, un grigio orologio quadrato

mandava un lieve ticchettio e Therese, come aveva fatto innumerevolivolte in negozio, lesse l’ora e le attribuì un significato. Poco più dellequattro e un quarto, già, e improvvisamente venne presa dall’ansia per iltimore d’essere rimasta sdraiata lì troppo a lungo, per il timore che Carolpotesse essere in attesa di qualche altra visita.

Poi il telefono fece udire uno squillo, nel corridoio, inaspettato e lungocome un grido di donna isterica, ed entrambe si videro trasalire a vicenda.

Carol si alzò, batté un paio di volte qualcosa contro il palmo, comeaveva battuto i guanti contro il palmo al negozio. Il telefono squillò dinuovo, e Therese ebbe la certezza che Carol stesse per scagliare quelloche aveva in mano, per scagliarlo contro la parete al di là della stanza.Ma Carol si limitò a posare tranquillamente l’oggetto, e lasciò la stanza.

Therese poteva ora udirne la voce, nel corridoio. Non voleva ascoltarequello che stava dicendo. Si alzò, si rimise la gonna e le scarpe. Vide, aquesto punto, ciò che Carol aveva tenuto in mano: era un calzascarpe dilegno rossiccio. Chiunque altro lo avrebbe scagliato, pensò Therese. Poile si parò alla mente una parola per definire quello che provava per Carol:

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orgoglio. Udì la voce di Carol ripetere lo stesso mormorio e ora,nell’accostarsi alla porta socchiusa, distinse le parole: "Ho un’ospite",presentate con calma per la terza volta, come una barriera. "Mi sembrache sia una ragione eccellente. Ne conosci di migliori? Perché non vabene domani? Se tu..."

Poi non si udì altro suono fino a che Carol non mosse il primo passoper rientrare, e Therese comprese che la persona al telefono avevasbattuto giù il ricevitore. Chi avrà osato farlo, si meravigliò.

"Non è ora che me ne vada?" domandò.Carol la guardò nello stesso modo in cui l’aveva guardata quando,

all’inizio, erano entrate in casa. "No, a meno che tu non voglia andartene.No. Più tardi faremo un giro in auto, se ti va."

Lei sapeva che Carol non aveva nessuna voglia di rimettersi al volante.Si accinse a rassettare il letto.

"Lascia perdere il letto." Carol la osservava dal corridoio. "Chiudi solola porta."

"Chi deve venire?"Carol si girò e si avviò verso la stanza verde. "Mio marito," disse.

"Hargess."Poi il campanello suonò due volte, da basso, e contemporaneamente si

udì lo scatto della serratura."Sollecito come non mai," mormorò Carol. "Scendiamo, Therese."Therese si sentì improvvisamente in preda allo sgomento, non

dell’uomo ma dell’irritazione di Carol per l’arrivo di lui.E lui stava già salendo le scale. Rallentò, nel vedere Therese, e sul

volto gli passò un’espressione di sorpresa, ma poi guardò Carol."Harge, questa è la signorina Belivet," disse Carol. "Il signor Aird, mio

marito.""Piacere," disse Therese.Harge lanciò soltanto un’occhiata a Therese, ma i suoi sospettosi occhi

azzurri la ispezionarono da capo a piedi. Era un uomo dalla corporaturasolida con una faccia piuttosto rosea. Un sopracciglio era più altodell’altro, e al centro si sollevava a formare una punta, come se fossestato distorto da una cicatrice. "Piacere." Poi a Carol: "Mi dispiace

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disturbarti. Volevo solo prendere un paio di cose." Le passò accanto eaprì la porta di una stanza che Therese non aveva visto. "Cose per Rindy,"aggiunse.

"Quadri alle pareti?" domandò Carol.L’uomo taceva.Carol e Therese scesero. In soggiorno Carol sedette, ma Therese rimase

in piedi."Suona ancora un po’, se ti fa piacere," disse Carol.Therese scosse la testa."Suona qualcosa," tornò a insistere con fermezza Carol.Therese era atterrita dall’improvvisa collera che le balenava negli

occhi. "Non posso," disse, testarda come un mulo.E Carol si arrese. Sorrise, perfino.Udirono i passi rapidi di Harge attraversare il corridoio e fermarsi, poi

scendere lentamente. Therese vide apparire dapprima la figura vestita discuro, poi la testa biondiccia.

"Non riesco a trovare la scatola degli acquerelli," si lamentò lui. "Mipareva che fosse in camera mia."

"Io so dov’è." Carol si alzò e si avviò verso le scale."Immagino tu voglia che le porti qualcosa, per Natale," disse Harge."Grazie, le cose gliele darò io." Carol si accinse a salire.Hanno appena divorziato, si disse Therese, o stanno per divorziare.Harge guardò Therese. Aveva un’espressione intensa in cui si,

mescolavano curiosamente ansia e noia. La carne che circondava labocca, ferma e pesante, si arrotondava intorno alle labbra così da darel’impressione che non le avesse. "È di New York, lei?" s’informò.

Therese sentì disprezzo e scortesia nella domanda; li avvertì come unoschiaffo in faccia. "Sì, di New York," rispose.

Lui era lì lì per domandarle qualcos’altro, quando Carol prese ascendere le scale. Therese si era già fatta forza, preparandosi a rimaneresola con lui per qualche minuto. Rabbrividì, nel rilassarsi, e capì che luise ne era accorto.

"Grazie," disse Harge, nel prendere la scatola dalle mani di Carol. Poiandò a riprendere il cappotto che Therese aveva notato su uno dei divani,

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buttato là con le maniche aperte simili a braccia che lottassero perimpossessarsi della casa. "Arrivederla," le disse. Indossò il cappotto e sidiresse alla porta. "Un’amica di Abby?" mormorò a Carol.

"Un’amica mia," rispose Carol."Hai intenzione di portare i regali a Rindy? Quando?""E se non le dessi niente, Harge?""Carol..." L’uomo uscì nella veranda e Therese a stento lo udì

mormorare qualcosa sul rendere le cose spiacevoli, prima di sentirlo dire:"Ora sto andando a trovare Cynthia. Posso fermarmi durante il ritorno?Sarò qui prima delle otto."

"Harge, a che scopo?" domandò stancamente Carol. "Specie visto chesei così sgradevole."

"Perché riguarda Rindy." E qui la voce di lui si abbassò, non piùintelligibile.

Poi, qualche istante dopo, Carol rientrò, sola, e chiuse la porta. Virimase addossata, con le mani dietro di sé, mentre fuori si udiva un’autopartire. Carol deve avere acconsentito a vederlo, questa sera, pensòTherese.

"Io vado," disse. Carol taceva. Nel silenzio tra loro c’era una sorta diindifferenza, ora, e Therese si sentiva sempre più a disagio. "Sarà meglioche vada, vero?"

"Sì. Mi dispiace. E ti chiedo scusa per Harge. Non è sempre cosìscortese. È stato un errore dire che avevo un’ospite."

"Non ha importanza."Carol aggrottò la fronte; poi domandò, con difficoltà: "Ti dispiace se ti

metto su un treno, stasera, invece di accompagnarti a casa?""No." Lei non avrebbe sopportato che Carol la accompagnasse a casa

per poi rifare la strada da sola, col buio.Rimasero silenziose anche durante il tragitto. Therese aprì la portiera

non appena l’auto si fermò alla stazione."C’è un treno tra quattro minuti circa," disse Carol.Impulsivamente Therese domandò: "Ci rivedremo?"Carol si limitò a sorriderle, con un po’ di rimprovero, mentre il

finestrino tra loro si rialzava. "Au revoir," disse.

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Ma certo, ma certo, la rivedrò, pensò Therese. Che domanda idiota.L’auto fece velocemente manovra e ripartì nel buio.Therese bramava di ritornare al negozio, bramava che fosse lunedì,

perché il lunedì Carol sarebbe forse tornata. Ma non era probabile.Martedì era la vigilia di Natale. Di certo lei poteva telefonare a Carol,martedì, non fosse che per augurarle un buon Natale.

Ma non c’era un momento in cui lei non rivedesse Carol, nella suamente, e tutto quello che vedeva, le sembrava di vederlo attraverso Carol.La sera da trascorrere, le strade buie e piatte di New York, l’indomani dilavoro, la bottiglia del latte lasciata cadere e rotta nel lavello divenivanoprivi d’importanza. Si gettò sul letto e, con una matita, tracciò una lineasu un pezzo di carta. E poi un’altra, con cura, e un’altra ancora. Unmondo era nato attorno a lei, simile a una luminosa foresta con milioni difoglie luccicanti.

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7L’uomo guardò l’oggetto, tenendolo con noncuranza tra il pollice el’indice. Era calvo, salvo una lunga ciocca di capelli neri che, partendodall’antica attaccatura, gli si incollavano sudaticci al cranio nudo.Sporgeva in avanti il labbro inferiore a esprimere il disprezzo e lanegazione che gli si erano fissati in volto fin da quando Therese si eraavvicinata al banco e aveva detto le prime parole.

"No," dichiarò alla fine."Non può darmi proprio niente per quello?"Il labbro si sporse ulteriormente. "Forse mezzo dollaro." E spinse

l’oggettino verso di lei attraverso il banco.Le dita di Therese vi si posarono sopra con gesto possessivo. "Bene, e

per questo?" Dalla tasca del giaccone estrasse la catenina d’argento con ilmedaglione raffigurante San Cristoforo.

Di nuovo il pollice e l’indice espressero con eloquenza il disprezzo, nelrigirare la medaglia come se fosse sudicia. "Due dollari e mezzo."

Ne costerà almeno venti, stava per dire Therese, ma se ne astenne,perché era l’obiezione che facevano tutti. "Grazie." Si riprese ilmedaglione e uscì.

Si domandava chi fossero mai quei fortunati che erano riusciti avendere cose come i vecchi temperini, gli orologi da polso rotti e le pialleda falegname esposti là alla rinfusa. Non seppe trattenersi dallo scrutareattraverso la vetrina, solo per rivedere la faccia dell’uomo al di sottodella fila di coltelli da caccia appesi. A sua volta lui la fissava,sorridendole. Therese ebbe la sensazione che comprendesse ogni suamossa, e si affrettò ad allontanarsi lungo il marciapiede.

Dieci minuti dopo, Therese era di ritorno. Impegnò il medaglioned’argento per due dollari e cinquanta.

Poi prese in direzione ovest, attraversò di corsa Lexington Avenue, poiPark, e svoltò nella Madison. Dentro la tasca stringeva la scatolina, fino asentirne gli orli taglienti penetrarle nelle dita. Era stata suor Beatrice aregalargliela. Era di legno intarsiato di madreperla, in un disegno ascacchiera. Non aveva mai saputo quanto potesse valere in denaro, ma

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aveva sempre ritenuto che fosse piuttosto preziosa. Bene, ora sapeva chenon lo era. Entrò in un negozio di borsette.

"Vorrei vedere quella nera in vetrina: quella con la cinghia e le fibbiedorate," disse alla commessa.

Era la borsetta che aveva notato il sabato mattina, primadell’appuntamento con Carol per l’ora di pranzo. Le era bastataun’occhiata per dirsi che sembrava fatta apposta per Carol. Si era dettache, se anche Carol non fosse venuta all’appuntamento, quand’anche leinon l’avesse rivista mai più, ugualmente doveva comperare quellaborsetta e mandargliela.

"La prendo," disse Therese."Sono settantuno dollari e diciotto, tassa compresa," disse la

commessa. "La vuole in confezione regalo?""Sì, per favore." Therese contò sei banconote da dieci dollari attraverso

il banco e il resto in biglietti da un dollaro e in monete. "Posso passare aritirarla verso le sei e mezzo di stasera?"

Therese lasciò il negozio con la ricevuta nel portafogli. Non osavaportare la borsetta da Frankenberg. C’era il rischio che la rubassero,anche se era la vigilia di Natale. Sorrise. Era il suo ultimo giorno dilavoro nei grandi magazzini. E di lì a quattro giorni avrebbe assuntol’incarico al Black Cat. Phil aveva promesso di venire a portarle ilcopione subito dopo Natale.

Passò davanti a Brentano. La vetrina era zeppa di nastri di raso, libririlegati in pelle e quadri di cavalieri in armatura. Therese entrò nelnegozio solo per pochi istanti, non per comperare ma per guardare, pervedere se c’era qualcosa di più bello della borsetta.

Un’illustrazione su uno dei banchi da esposizione attirò il suo sguardo.Raffigurava un giovane cavaliere in sella a un destriero bianco, checavalcava attraverso una foresta simile a un bouquet, seguito da una filadi paggi, l’ultimo dei quali reggeva un cuscino con sopra un anello d’oro.Prese in mano il libro, rilegato in pelle. Il prezzo, all’interno dellacopertina, era di venticinque dollari. Le bastava fare un salto alla bancaper ritirare altri venticinque dollari e avrebbe potuto comperarlo.Cos’erano venticinque dollari? Non avrebbe avuto alcun bisogno di

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impegnare il medaglione d’argento. Sapeva d’averlo impegnato soloperché le veniva da Richard, e non lo voleva più. Chiuse il libro e guardògli orli delle pagine, che formavano come una concava barra dorata. Ma aCarol sarebbe poi piaciuto, un libro di poesie d’amore del Medio Evo?Non lo sapeva. Non le veniva in mente il minimo indizio quanto a gusti infatto di libri di Carol. Posò in fretta il volume e uscì.

Su nel reparto giocattoli, la signorina Santini andava su e giù dietro ilbanco delle bambole, offrendo cioccolatini a tutte da una grande scatola.

"Prendine due," disse a Therese. "Li ha mandati su il reparto dolciumi.""Oh, sì, volentieri." Incredibile, pensò lei, addentando una pralina, il

reparto dolciumi investito dello spirito natalizio. C’era una stranaatmosfera nel grande magazzino, quel giorno. Tanto per cominciare, erainsolitamente tranquillo. Come sempre c’era folla di clienti, masembrava che non avessero fretta, sebbene si fosse alla vigilia di Natale.Therese lanciava occhiate verso gli ascensori, sperando di vedere Carol.Se Carol non fosse venuta, e non sarebbe venuta, probabilmente, verso lesei e mezzo le avrebbe telefonato, solo per augurarle buon Natale. Ilnumero di telefono lo conosceva: lo aveva visto là a casa,sull’apparecchio.

"Signorina Belivet!" Era la voce della signora Hendrickson achiamarla, e Therese si fece subito attenta. Ma la Hendrickson si limitò afarle un cenno con la mano, a beneficio del fattorino della Western Unionche ora posava un telegramma davanti a Therese.

Therese firmò la ricevuta con uno scarabocchio, poi lo aprì. Diceva:"Ci vediamo da basso alle cinque. Carol."

Therese lo appallottolò, premendolo forte con il pollice contro il palmoe osservando intanto il fattorino; che era in realtà un uomo anziano,ritornare verso gli ascensori. Camminava a fatica, con un’andatura che glifaceva spingere le ginocchia in avanti, e con le spalle curve nella divisatrasandata.

"Sembri felice," osservò malinconicamente la sua collega Zabriskie nelpassarle accanto.

Therese sorrise. "Lo sono." La Zabriskie aveva un bambino di duemesi, così aveva raccontato a Therese, e un marito al momento senza

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lavoro. Therese si domandò se la povera Zabriskie e il marito siamassero, e se fossero veramente felici. Forse lo erano, ma non c’eraniente nella faccia inespressiva e nel passo arrancante di lei che losuggerisse. Forse un tempo la Zabriskie era stata felice come lei. Forse,quella felicità era ormai passata. Ricordava d’avere letto – perfinoRichard l’aveva detto, una volta – che in genere l’amore muore dopo iprimi due anni di matrimonio. Era una cosa crudele, uno scherzo. Tentòdi immaginare la faccia di Carol, l’effluvio del suo profumo, divenutiprivi di significato. Ma in primo luogo poteva davvero dire d’essereinnamorata di Carol? Era arrivata a una domanda alla quale non sapevadare risposta.

Alle cinque meno un quarto, Therese andò dalla signora Hendrickson ele chiese il permesso di uscire una mezz’ora prima. Forse la signoraHendrickson pensò che il telegramma c’entrasse per qualcosa, ma lasciòandare Therese senza nemmeno un’occhiata di rimprovero, e quella eraun’altra cosa che rendeva strana la giornata.

Carol la stava aspettando nell’atrio dove si erano date appuntamento inprecedenza.

"Salve!" disse Therese. "Ho finito.""Finito cosa?""Ho finito di lavorare qui." Ma Carol sembrava depressa, e all’istante

Therese ne fu scoraggiata. Disse tuttavia: "Mi ha fatto un immensopiacere ricevere quel telegramma."

"Non sapevo se saresti stata libera. Sei libera, stasera?""Ma certo."S’incamminarono, lentamente, tra il turbinio della folla, Carol con le

sue leggere scarpette di camoscio col tacco che la facevano apparire piùalta di Therese. Circa un’ora prima era cominciato a nevicare, ma giàaveva smesso. La neve non era altro che un velo sotto i passi, comesottile lana bianca stesa attraverso la strada e il marciapiede.

"Potevamo trovarci con Abby stasera, ma lei ha da fare," disse Carol."A ogni modo, possiamo fare un giro in macchina, se ti va. È bellovederti. Sei un angelo a essere libera stasera. Lo sai?"

"No," disse Therese, ancora felice suo malgrado, sebbene l’umore di

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Carol fosse inquietante. Therese sentiva che era accaduto qualcosa."Pensi che ci sia un posto qua intorno dove poter prendere una tazza di

caffè?""Sì. Un po’ più in là."Therese stava pensando a una delle paninoteche tra la Quinta e la

Madison, ma Carol scelse un piccolo bar con una tenda sull’entrata. Ilcameriere era riluttante, dapprima, e disse che era l’ora dei cocktail, macome Carol fece la mossa di andarsene, si allontanò per andare a prenderei due caffè. Therese era ansiosa riguardo al ritirare la borsetta. Nonvoleva farlo mentre Carol era con lei, anche se il pacco sarebbe statodentro un sacchetto.

"È successo qualcosa?" domandò."Qualcosa che sarebbe troppo lungo spiegare." Carol le sorrise ma il

sorriso era stanco, e seguì un silenzio, un silenzio vuoto come se stesseroviaggiando attraverso lo spazio e allontanandosi l’una dall’altra.

Probabilmente, pensava Therese, Carol avrà dovuto rinunciare aqualche impegno al quale invece teneva. Era logico che Carol avessequalche impegno la vigilia di Natale.

"Non ti sto impedendo di fare qualcosa, vero?" domandò Carol.Therese si sentiva sempre più in tensione, e non poteva farci niente.

"Dovrei soltanto ritirare un pacco in Madison Avenue. Non è lontano.Posso farlo ora, se tu mi aspetti."

"Va bene."Therese si alzò. "Posso farlo in tre minuti, con un taxi. Ma non credo

che mi aspetterai, o sbaglio?"Carol sorrise e le prese una mano. Con fare indifferente gliela strinse e

la lasciò ricadere. "Sì, ti aspetterò."Il tono annoiato della voce di Carol le risuonava nelle orecchie, mentre

sedeva sul bordo del sedile del taxi. Durante il ritorno, il traffico era cosìlento che lei scese e fece l’ultimo isolato di corsa.

Carol era ancora là, il caffè bevuto solo in parte."Io il mio non lo voglio," disse Therese, perché Carol sembrava pronta

per andarsene."Ho l’auto in centro. Andiamoci con un taxi."

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Si addentrarono nella zona degli affari, non lontano dalla Battery.L’auto di Carol venne portata su da un garage sotterraneo. Carol sidiresse a ovest, verso la Westside Highway.

"Così va meglio." Carol si era sfilata il cappotto, mentre guidava."Buttalo dietro, ti spiace?"

E si chiusero di nuovo nel silenzio. Carol guidava velocemente,cambiando corsia per superare le altre macchine, come se loro dueavessero una destinazione. Il tempo di arrivare al George WashingtonBridge, e Therese si preparò a dire qualcosa, qualsiasi cosa.D’improvviso le era venuto in mente che, se Carol e il marito stavano perdivorziare, Carol quel giorno era di certo andata in centro per vedere unavvocato. Quella zona era piena di uffici di avvocati. E qualcosa eraandato storto. Perché divorziavano? Perché Harge aveva una relazionecon la donna di nome Cynthia? Therese aveva freddo. Carol avevaabbassato il finestrino dalla sua parte e, ogni volta che la macchinaaccelerava, il vento irrompeva nella vettura e le avvolgeva intorno le suegelide braccia.

"Là è dove abita Abby," disse Carol, accennando a un punto al di là delfiume.

Therese non vedeva neppure qualche luce speciale. "Chi è Abby ?""Abby? La mia migliore amica." Poi Carol la guardò. "Non hai freddo

con questo finestrino aperto?""No.""Devi avere freddo." Si fermarono a un semaforo e Carol tirò su il

vetro. Poi la guardò, come se quella sera la vedesse realmente per laprima volta e, sotto gli occhi di lei che andavano dalla sua faccia alle suemani abbandonate in grembo, Therese si sentì come un cucciolo cheCarol avesse appena comperato in un canile lungo la strada, che si fosseappena ricordata d’avere lì in macchina accanto a sé.

"Che cos’è successo, Carol? Stai per avere un divorzio, forse?"Carol sospirò. "Un divorzio, sì," disse con molta calma, e ripartì."E lui ha la bambina?""Soltanto per questa sera."Therese stava per fare un’altra domanda, quando Carol disse:

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"Parliamo d’altro."Un’auto le superò, con la radio che trasmetteva musiche di Natale e gli

occupanti che cantavano.Ma lei e Carol erano di nuovo taciturne. Ora filavano oltre Yonkers, e a

Therese sembrò d’avere perso in qualche punto lungo il tragitto anchel’ultima possibilità di parlare ulteriormente con Carol. All’improvviso,Carol prese a insistere che lei mangiasse qualcosa, perché erano quasi leotto, così si fermarono in un piccolo ristorante lungo la strada, un postodove servivano panini e pesce fritto. Presero posto al banco e ordinaronopanini e caffè, ma Carol non mangiava. Le faceva invece domande suRichard, non con l’interesse sincero che aveva mostrato la domenicapomeriggio ma piuttosto come se parlasse per impedire a Therese di farlaraccontare di sé. Erano domande personali, e tuttavia Therese rispondevain modo meccanico e impersonale. La voce tranquilla di Carol continuavaa interrogare, molto più sommessa di quella del ragazzo al banco, che sirivolgeva a qualcuno distante qualche metro.

"Vai a letto con lui?" volle sapere Carol."L’ho fatto. Due o tre volte." Therese le disse di quelle volte, la prima

e le altre tre successive. Non provava alcun imbarazzo, nel parlarne. Maile era sembrato un argomento tanto noioso e privo di importanza. Sentivache Carol poteva immaginare ogni momento di quelle serate. Neavvertiva su di sé lo sguardo obiettivo e valutativo, e sapeva che Carolstava per dirle che non aveva l’aria di una ragazza particolarmentefredda, o, forse, sofferente per inedia emotiva. Ma Carol taceva, eTherese, a disagio, fissava l’elenco delle canzoni sul juke-box di fronte alei. Ricordava che qualcuno le aveva detto, una volta, che aveva unabocca sensuale, ma non rammentava chi.

"A volte ci vuole tempo," disse alla fine Carol. "Non credi, tu, nelconcedere agli altri un’ulteriore possibilità?"

"Ma... A che scopo? Non è piacevole. E io non sono innamorata di lui.""Pensi che potresti esserlo, se riuscissi a superare questo problema?""È così che la gente s’innamora?"Carol restò un poco a fissare la testa di cervo dietro il banco. "No,"

disse, sorridendo. "Che cos’è che ti piace di Richard?"

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"Be’, la sua..." Ma non era sicura che fosse davvero sincerità. Non erasincero, ne era certa, sulla sua ambizione di fare il pittore. "Mi piace ilsuo atteggiamento... Più di quello della maggior parte degli uomini. Mitratta come una persona e non come una ragazza con la quale si puòarrivare fino a un certo punto oppure no. E mi piace la sua famiglia: ilfatto che abbia una famiglia."

"Un sacco di persone hanno una famiglia."Therese ritentò. "È flessibile. Cambia. Non è come la maggior parte

degli uomini che puoi etichettare come dottore o... o agente assicurativo.""Credo tu lo conosca meglio di quanto io conoscessi Harge dopo mesi

di matrimonio. Perlomeno tu non farai lo stesso errore che ho fatto io,quello di sposarmi perché, tra la gente che conoscevo, era la cosa da farequando arrivavi a vent’anni."

"Vuoi dire che non eri innamorata?""Sì, lo ero, e molto. E lo era anche Harge. E lui era il genere d’uomo in

grado di impacchettare la tua vita nel giro di una settimana e metterselain tasca. Sei mai stata innamorata, Therese?"

Lei aspettò, finché la parola falsa, colpevole, uscì dal nulla e le salì allelabbra. "No."

"Ma ti piacerebbe esserlo." Carol sorrideva."Harge è ancora innamorato di te?"Carol abbassò lo sguardo con fare impaziente, e forse, pensò Therese,

scioccata da tanta franchezza. Ma quando Carol parlò, il suo tono non eraaffatto cambiato. "Non lo so nemmeno io. In un certo senso, dal latoemotivo è lo stesso di sempre, solo che ora io posso vedere come èrealmente. Diceva che ero la prima donna di cui si fosse mai innamorato.È vero, credo, però non credo che lo sia stato – nel senso usuale dellaparola

– per più di qualche mese. Non si è mai interessato di nessun’altra: èvero anche questo. Forse, sarebbe più umano se gli succedesse. Potreicapirlo, questo, e perdonarlo."

"Vuole bene a Rindy?""L’adora." Carol le lanciò un’occhiata; sorrise. "Se è innamorato di

qualcuno, lo è di Rindy."

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"Che specie di nome è, quello?""Nerinda. Glielo ha messo Harge. Voleva un maschio, ma penso sia

perfino più soddisfatto d’avere una figlia. Io volevo una bambina. Nevolevo due o tre, di figli."

"E... Harge non li ha voluti?""Io non li ho voluti." Guardò di nuovo Therese. "È la conversazione

adatta, questa, per la vigilia di Natale?" Carol allungò la mano verso lesigarette, poi accettò quella che Therese le offriva, una Philip Morris.

"Mi piace sapere tutto di te," disse Therese."Non volevo altri figli, perché temevo che il nostro matrimonio stesse

per naufragare comunque, nonostante Rindy. E così tu vuoi innamorarti?Probabilmente ti succederà presto e, in quel caso, goditela, perché inseguito è più difficile."

"Amare qualcuno?""Innamorarsi. O perfino avere il desiderio di fare l’amore. Secondo me,

in tutti noi il sesso è molto più torpido di quanto ci piaccia credere,specialmente di quanto piaccia credere agli uomini. In genere le primeavventure non sono altro che un soddisfare la curiosità, dopo di che sicontinuano a ripetere le stesse azioni, cercando di trovare... cosa?"

"Cosa?" ripeté Therese."C’è una parola? Un amico, un compagno, o forse soltanto un

compartecipe. A che servono le parole? Voglio dire, io penso che spessola gente cerchi di trovare attraverso il sesso cose che è molto più faciletrovare in altri modi."

Quello che Carol diceva della curiosità era vero, lei lo sapeva. "Qualialtri modi?" domandò.

Carol le lanciò un’occhiata. "Penso che ciascuno debba scoprirlo da sé,questo. Chissà se mi servirebbero un drink, qui."

Ma il ristorante serviva soltanto birra e vino, così uscirono. Carol nonsi fermò in nessun posto per il suo drink, mentre ritornavano in macchinaverso New York. Domandò a Therese se voleva rincasare o venire per unpo’ a casa sua, e Therese optò per andare da Carol. Si ricordava che iKelly l’avevano invitata da loro per la festicciola a base di vino e torta difrutta che davano quella sera, e d’avere promesso d’andarci, ma si disse

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che non avrebbero sentito la sua mancanza."Che brutte ore ti faccio passare," disse all’improvviso Carol.

"Domenica, e ora questo. Non sono di gran compagnia, questa sera. Checosa ti piacerebbe fare? Ti andrebbe di andare a cena in un ristorante diNewark, dove stasera ci saranno luci e musiche di Natale? Non è unnight-club. Potremmo cenare piuttosto bene, tra l’altro."

"Non ci tengo ad andare da qualche parte... Per quello che mi riguarda.""Sei rimasta in quell’inferno di negozio per tutta la giornata, e non

abbiamo fatto niente per celebrare la tua liberazione.""A me basta starmene qui con te," disse Therese e, cogliendo nella

propria voce il tono esplicativo, sorrise.Carol scosse la testa. "Bambina, bambina, dove te ne vai... sola

soletta?"Poi, qualche istante dopo, lungo l’autostrada del New Jersey, aggiunse:

"Ho un’idea." E, svoltando con l’auto in una piazzuola in ghiaia di fiancoalla strada, si fermò. "Vieni con me."

Erano di fronte a una bancarella illuminata su cui si ammucchiavanoalberi di Natale. Carol le disse di sceglierne uno, né troppo grande nétroppo piccolo. Caricarono l’albero nel retro dell’auto e Therese ripreseposto accanto a Carol con le braccia cariche di rami di agrifoglio e diabete. Vi premeva contro la faccia e aspirava la verde intensità del loroodore, la loro pulita fragranza che era come una foresta e come tutti gliartifici del Natale: le decorazioni dell’albero, i regali, la neve, i cantinatalizi, le vacanze. Era l’averla finita con il negozio e l’essere ora sedutaaccanto a Carol. Era il ronzio del motore, e gli aghi dei rami dell’abeteche lei poteva sfiorare con le dita. Sono felice, felice, pensava Therese.

"Facciamo l’albero, ora," disse Carol, appena entrarono in casa.Accese la radio nel soggiorno e preparò un drink per tutt’e due.

C’erano canti di Natale, alla radio, e risonanti rintocchi di campane, percui l’impressione era di trovarsi all’interno di una chiesa. Carol portò unacoperta di cotone bianco per fare la neve intorno all’albero, e Therese visparse sopra dello zucchero perché luccicasse. Poi ritagliò da un pezzo dinastro dorato un angelo stilizzato che sistemò in cima all’albero e, piegatidei fazzolettini di carta, ritagliò file di altri angeli da appendere ai rami.

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"Ma sei bravissima," commentò Carol, ammirando l’albero dalcaminetto. "È splendido. Mancano solo i regali."

Quello per Carol era sul divano, accanto al cappotto di Therese. Ilbiglietto che lei aveva fatto per accompagnarlo era a casa, però, e lei nonvoleva darlo senza biglietto. Contemplò a sua volta l’albero. "Cos’altro ciserve?"

"Niente. Lo sai che ore sono?"La radio aveva cessato le trasmissioni. Therese guardò l’orologio sulla

mensola del caminetto. Era la una passata. "È Natale," disse."Sarà meglio che ti fermi, stanotte.""D’accordo.""Domani mattina che cos’hai da fare?""Niente."Carol andò a prendere il suo drink, che aveva posato sopra la radio.

"Non devi vedere Richard?"Doveva, sì, vedere Richard a mezzogiorno. Doveva passare la giornata

a casa di lui. Ma poteva inventare qualche scusa. "No. Ho detto che forseci saremmo visti. Non è importante."

"Posso riaccompagnarti con la macchina domani mattina presto.""Sei impegnata, domani?"Carol finì l’ultimo sorso del suo drink. "Sì," rispose.Therese cominciò a far sparire il disordine che aveva creato, i ritagli di

nastro e i frammenti di carta velina. Detestava rimettere ordine dopoavere lavorato a qualcosa.

"Il tuo amico Richard dev’essere il genere di individuo che ha bisognodi una donna intorno per cui darsi da fare. Che la sposi oppure no," disseCarol. "Vero che è così?"

Perché parlare di Richard, ora, pensò con irritazione Therese. Sentivache a Carol Richard piaceva – il che non poteva essere che per colpa sua –e si sentì assalire da una vaga gelosia, pungente come uno spillo.

"In realtà, ammiro di più un tipo così degli uomini che vivono soli opensano di vivere soli, e finiscono per comportarsi con le donne nel modopiù idiota."

Therese fissava il pacchetto di sigarette di Carol sul tavolino davanti al

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divano. Non aveva assolutamente niente da dire sull’argomento. Potevaavvertire il profumo di Carol come un filo sottile tra quello più fortedell’abete, e desiderava seguirlo, fino a mettere le braccia intorno aCarol.

"Non ha niente a che vedere con il fatto che la gente si sposi, vero?"aggiunse Carol.

"Come?" Therese la guardò, e vide che accennava un sorriso."Harge è il tipo d’uomo che non permette a una donna di entrare nella

sua vita. E, d’altra parte, il tuo amico Richard potrebbe anche nonsposarsi mai. Ma il piacere Richard lo trarrà dal pensare che vuolesposarsi." Carol guardò Therese da capo a piedi. "Con le ragazzesbagliate," aggiunse. "Tu balli, Therese? Ti piace ballare?"

Carol sembrava improvvisamente fredda e amara, e Therese avrebbepianto. "No," disse. Non avrei mai dovuto parlarle di Richard, pensò. Maormai era fatta.

"Sei stanca. Su, a letto."Carol l’accompagnò nella stanza dov’era entrato Harge la domenica, e

tirò indietro il copriletto di uno dei due letti gemelli. Therese pensò chedovesse essere la camera di Harge. Non c’era proprio niente che facessepensare alla cameretta di una bambina. Pensò alle cose di Rindy cheHarge aveva preso da quella stanza, e immaginò Harge trasferirsi in unprimo momento da quella che divideva con Carol, poi permettere a Rindydi portare lì le sue cose, mantenendole lì, isolando se stesso e Rindy daCarol.

Carol posò un pigiama sul letto. "Buonanotte, allora," disse dallasoglia. "Buon Natale. Che cosa vuoi per Natale?"

Therese improvvisamente sorrise. "Niente."Quella notte sognò di uccelli, lunghi, vividi uccelli rossi simili a

fenicotteri, che sibilavano attraverso una cupa foresta e descrivevanorossi archi, nell’emettere le loro strida. Poi aprì gli occhi e lo udìdavvero, un sibilo lieve, che aumentava e tornava a calare con una nota inpiù alla fine, e sullo sfondo un fievole, autentico pigolio di uccelli. Lafinestra era un riquadro grigio e luminoso. Il fischio ricominciò, propriosotto la finestra, e Therese si alzò dal letto. C’era una lunga macchina

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aperta, nel viale, e dentro una donna in piedi, che fischiava. Era come unsogno la scena che lei vedeva, priva di colori e con i contorni sfumatidalla nebbia.

Poi udì Carol bisbigliare, con la stessa chiarezza che se fossero statetutt’e tre insieme nella stessa stanza. "Stai andando a letto o ti sei appenaalzata?"

La donna nell’auto, con un piede sul sedile, rispose con un identicobisbiglio: "L’uno e l’altro", e Therese, udendo nella risposta un tremoredi risa represse, provò una simpatia immediata e istintiva. "Vieni a fareun giro?" domandò la donna. Guardava verso la finestra di Carol con ungran sorriso che Therese cominciava solo ora a notare.

"Tu sei matta," bisbigliò Carol."Sei sola?""No.""Oh-ho.""Ma figurati! Vuoi entrare?"La donna scese dalla macchina.Therese andò alla porta della sua stanza e l’aprì. Carol stava uscendo in

quel momento nel corridoio, allacciandosi la cintura della vestaglia."Scusa se ti abbiamo svegliato," disse Carol. "Tornatene a letto.""Non importa. Posso scendere anch’io?""Ma certo!" Carol improvvisamente sorrise. "Prenditi una vestaglia

dall’armadio."Therese si procurò una vestaglia, probabilmente una di quelle di Harge,

pensò, e scese."Chi ha fatto l’albero di Natale?" stava domandando la donna.Erano nel soggiorno."Lei, l’ha fatto." Carol si girò verso Therese. "Questa è Abby Gerhard,

Therese Belivet.""Salve," disse Abby."Piacere." Therese aveva sperato che fosse Abby. Ora Abby la

guardava con la stessa espressione vivace e divertita che Therese le avevavisto mentre stava in piedi nell’auto.

"Un gran bell’albero," si complimentò Abby.

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"Vogliamo smetterla, tutte, di bisbigliare?" domandò Carol.Abby si fregò le mani per scaldarsele e seguì Carol in cucina. "C’è un

po’ di caffè, Carol?"Therese, ritta presso il tavolo della cucina, le osservava, sentendosi a

suo agio perché Abby non le prestava ulteriore attenzione, limitandosi atogliersi il cappotto e mettendosi ad aiutare Carol per preparare il caffè.Vita e fianchi, in lei, sembravano perfettamente cilindrici, senza undavanti e un dietro, nell’abito di maglia violaceo. Le mani erano un po’maldestre, Therese lo notò, e i piedi non avevano niente della grazia diquelli di Carol. Sembrava più vecchia di Carol, e c’erano due rugheattraverso la sua fronte che spiccavano quando rideva e le sue arcuate efolte sopracciglia si sollevavano. E lei e Carol continuavano a ridere, ora,mentre si occupavano del caffè e spremevano arance, chiacchierando infrasi brevi di niente, o di niente che fosse abbastanza importante peressere approfondito. Salvo l’improvviso "Be’" di Abby, mentre pescavaun seme nell’ultimo bicchiere di succo d’arancia e poi, con noncuranza,si asciugava il dito sull’abito, prima di dire: "Come va il nostro Harge?"

"È sempre lo stesso," disse Carol. Carol cercava qualcosa nelfrigorifero e Therese, nell’osservarla, perse una parte di quello che Abbydisse subito dopo, o forse era soltanto un’altra delle frasi frammentarieche la sola Carol comprendeva, fatto sta che Carol si raddrizzò e rise, diuna risata improvvisa e dura, cambiando completamente espressione,tanto che Therese pensò, con invidia, che lei non sapeva farla ridere così,mentre Abby ci riusciva.

"Questo dovrò riferirglielo," disse Carol. "Non posso fare a meno."Era qualcosa a proposito di un oggetto da boy-scout per Harge."E digli anche da dove viene," raccomandò Abby, guardando Therese e

facendole un gran sorriso, come se anche lei dovesse partecipare alloscherzo. "Lei di dov’è?" domandò poi a Therese, mentre prendevanoposto al tavolo da un lato della cucina.

"E di New York," rispose Carol per lei, e Therese pensò che Abbystesse per dire: "Davvero? Ma pensa!" o qualcos’altro di sciocco, maAbby non disse proprio niente, si limitò a guardare Therese con lo stessosorriso, quasi aspettando di sentirle aggiungere qualcos’altro.

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Dopo essersi date tanto da fare per preparare la colazione, c’erasoltanto succo d’arancia, caffè e un toast non imburrato che nessunavoleva. Abby, prima ancora di assaggiare qualcosa, si accese unasigaretta.

"È abbastanza grande per fumare?" domandò a Therese, offrendole unascatola rossa con la scritta "Craven’s A".

Carol posò il cucchiaino. "Abby, cos’hai?" domandò con un’aria diimbarazzo che Therese non le aveva mai visto.

"Grazie, l’accetto volentieri," disse Therese, prendendo una sigaretta.Abby puntò i gomiti sul tavolo. "In che senso, cos’ho?" domandò a

Carol."Ho il sospetto che tu abbia bevuto un po’.""Dopo avere guidato per ore nell’auto aperta? Sono partita da New

Rochelle alle due, sono arrivata a casa, ho trovato il tuo messaggio, edeccomi qui."

Therese pensò che, probabilmente, Abby aveva tutto il tempo delmondo, e che non faceva niente tutto il giorno salvo quello che le andavadi fare.

"E allora?" s’informò Abby."Allora... Non ho vinto il primo round," rispose Carol.Abby aspirò dalla sigaretta, senza mostrare alcuna sorpresa. "Per

quanto tempo?""Per tre mesi.""A partire da quando?""A partire da ora. Da ieri sera, anzi." Carol lanciò un’occhiata a

Therese, poi abbassò lo sguardo sulla sua tazza di caffè; Therese alloracapì che non avrebbe detto altro, con lei seduta lì.

"Non sarà già deciso, o sì?""Temo di sì," rispose con indifferenza Carol, e nel tono c’era un che di

rassegnato. "Solo verbalmente, ma è lo stesso. Che cosa fai questa sera?Stasera tardi."

"Niente, né tardi né presto. Ho solo un pranzo alle due.""Chiamami, appena puoi.""Certo."

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Carol, sempre a occhi bassi, guardava il bicchiere di succo d’aranciache aveva in mano, e Therese vedeva che la bocca le si abbassava agliangoli in una piega triste, di una tristezza non di saggezza ma di sconfitta.

"Vorrei fare un viaggetto," disse Abby. "Andare da qualche parte." PoiAbby guardò Therese con un altro dei suoi sguardi vivaci e cordiali, mairrilevanti, come per includerla in qualcosa in cui era impossibile chevenisse inclusa e, a ogni modo, Therese si era già irrigidita al pensieroche Carol potesse fare un viaggio, allontanandosi da lei.

"Non sono molto dell’umore," disse Carol, ma Therese avvertì inquelle parole l’accenno di una possibilità.

Abby si dimenò lievemente, guardandosi attorno. "Di mattina questoposto è più tetro di una miniera di carbone, vero?"

A Therese venne da sorridere. Una miniera di carbone, con il sole chegià cominciava a indorare il davanzale e il sempreverde all’esterno?

Carol stava guardando Abby affettuosamente, accendendo una dellesigarette dell’amica. Come devono conoscersi bene, pensò Therese; cosìbene che niente di quello che l’una diceva o faceva poteva sorprenderel’altra, o venire frainteso.

"È stata una bella festa?" s’informò Carol."Mmm," fece con indifferenza Abby. "Conosci un tale di nome Bob

Haversham?""No.""Era lì ieri sera. L’avevo già incontrato da qualche altra parte, a New

York. Cosa strana, mi diceva che sarebbe andato a lavorare per Rattner eAird nel settore brokeraggio."

"Ma no!""Io non gli ho detto che conoscevo uno dei capi."Abby guardò il suo orologio da polso, un orologino inserito in una

piramide di pannelli d’oro. "Le sette e mezzo. Circa. A qualcunointeressa?"

"Vuoi dormire ancora un po’, Therese?""No, no. Sto benissimo.""Ti accompagno io, quando vuoi andare," disse Carol.Ma fu Abby che alla fine l’accompagnò, verso le dieci, perché non

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aveva altro da fare, disse, e le faceva piacere.Abby è un’altra che ama l’aria gelida, pensò Therese mentre

prendevano velocità sull’autostrada. Chi mai guidava un’auto con lacapote abbassata, in dicembre?

"Dove ha conosciuto Carol?" le urlò Abby.Therese sentiva che avrebbe quasi potuto dire ad Abby la verità. Quasi,

ma non del tutto. "In un negozio," urlò di rimando."Ah!" Abby aveva una guida irregolare, lanciava la grossa vettura

attorno alle curve, accelerando quando nessuno se lo sarebbe aspettato."Le piace Carol?"

"Ma certo!" Che razza di discorsi! Come domandarle se credeva inDio.

Therese indicò la sua casa ad Abby, quando svoltarono nella strada."Le dispiace farmi un piccolo favore?" domandò. "Può aspettarmi solo unistante? Voglio darle una cosa per Carol."

"Prego," disse Abby.Therese corse di sopra, prese il biglietto che aveva preparato e lo infilò

sotto il nastrino del regalo per Carol. Riportò il tutto giù ad Abby. "Lei lavedrà questa sera, vero?"

Abby assentì, lentamente, e Therese avvertì l’ombra di una sfida inquegli occhi neri e curiosi, perché lei, Abby, stava per rivedere Carol, alcontrario di Therese. Ma Therese che cosa poteva farci?

"E grazie d’avermi accompagnata."Abby sorrise. "Davvero non vuole che l’accompagni in qualche altro

posto?""No, grazie," disse Therese, sorridendo a sua volta, perché Abby

sarebbe stata sicuramente contenta di portarla perfino a BrooklynHeights.

Salì gli scalini d’ingresso e aprì la cassetta delle lettere. Dentro c’eranodue o tre biglietti di auguri, e uno veniva dal Frankenberg.

Quando guardò di nuovo nella strada, la grande vettura color panna erascomparsa, come qualcosa che lei avesse immaginato, come uno deifenicotteri visti in sogno.

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8"E ora esprimi un desiderio," disse Richard.

Therese ci pensò. Lo dedicò a Carol.Richard le teneva le mani sulle braccia. Erano fermi sotto una cosa che

pendeva dal soffitto, uno strano oggetto simile a una falce di luna tuttaperline o a una sezione di stella marina. Un oggetto bruttissimo, ma lafamiglia Semco gli attribuiva poteri quasi magici, e lo appendeva nelleoccasioni speciali. Il nonno di Richard lo aveva portato dalla Russia.

"Che cosa hai desiderato?" Lui le sorrideva con fare possessivo. Quellaera casa sua, e lui l’aveva appena baciata, sebbene la porta fosse aperta eil soggiorno pieno di gente.

"Non si è tenuti a dirlo," rispose Therese."In Russia puoi dirlo.""Be’, io non sono in Russia."Il volume della radio venne alzato improvvisamente, voci cantavano un

inno. Therese finì il resto del roseo eggnog che aveva nel bicchiere."Voglio salire in camera tua," disse.Richard la prese per mano, e si avviarono su per le scale."Richard?"La zia con il lungo bocchino stava chiamandolo dalla soglia del

soggiorno.Richard disse una parola che Therese non capì, e rivolse un cenno alla

donna. Perfino al piano superiore, la casa tremava per le folli danze alpiano di sotto, danze che non avevano niente a che fare con la musica.Therese udì un altro bicchiere finire a terra, e si figurò il roseo e spumosoeggnog che scorreva attraverso il pavimento. Questo non è niente, leaveva detto Richard, a paragone dei veri Natali russi che un tempousavano celebrare nella prima settimana di gennaio. Richard le sorrise,nel chiudere la porta della sua camera.

"Mi piace il mio maglione," disse."Sono contenta." Therese fece roteare la sua ampia gonna e sedette

sull’orlo del letto di lui. Il pesante maglione norvegese che lei gli avevadato era sul letto dietro di lei, steso attraverso la scatola foderata di carta

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velina. A lei Richard aveva regalato una gonna acquistata in un negoziodelle Indie Orientali, una gonna lunga a strisce verdi e oro e ricami. Erabella, ma Therese non sapeva dove avrebbe mai potuto indossarla.

"Che ne dici di un vero cicchetto? Quella roba giù da basso ènauseante." Richard aveva preso la sua bottiglia di whisky dal fondodell’armadio.

Therese scosse la testa. "No, grazie.""Ti farebbe bene."Lei tornò a scuotere la testa. Guardava, attorno a sé, la stanza quasi

quadrata dall’alto soffitto, la tappezzeria con il disegno di roselline rosa astento discernibile, le due finestre con le tende di mussola biancalievemente ingiallita. Dalla porta, si notavano due leggere tracce sullamoquette verde, una delle quali andava al cassettone e l’altra allascrivania d’angolo. Il vaso con i pennelli e la cartella posata sulpavimento contro la scrivania erano i soli segni del fatto che Richarddipingesse. Dipingere, in effetti, gli occupava solo un angolo del cervello.Lei lo sentiva e si domandava per quanto tempo ancora avrebbecontinuato a farlo, prima di rinunciarvi per dedicarsi a qualcos’altro. Sidomandava anche, come spesso aveva fatto in passato, se Richard citenesse a lei solo perché era la persona tra tutte quelle che avevad’attorno, maggiormente in grado di comprendere le sue ambizioni, eperché sentiva che le sue critiche gli erano d’aiuto. Si alzò, irrequieta, eandò alla finestra. Amava quella stanza – perché rimaneva la stessa erimaneva là dove stava – e tuttavia quel giorno sentiva l’impulso difuggirne. Era una persona diversa da quella che era entrata lì tresettimane prima. Quel mattino si era svegliata in casa di Carol. Carol eracome un segreto che le si spandeva dentro, che si spandeva anche inquella casa, come una luce invisibile a tutti tranne che a lei.

"Oggi sei diversa," disse Richard, così inaspettatamente che un brividod’allarme le corse per tutta la persona.

"Sarà il vestito," rispose.Portava un abito di taffettà azzurro ormai vecchissimo, che non

indossava dai suoi primi mesi a New York. Tornò a sedersi sul letto, eguardò Richard che, in piedi in mezzo alla stanza con il bicchiere di

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whisky in mano, spostava lo sguardo coi limpidi occhi azzurri dalla suafaccia ai suoi piedi, nelle nuove scarpette nere a tacco alto, e di nuovoalla faccia.

"Terry." Richard le aveva preso le mani, bloccandole contro il letto aidue lati di lei. Le lisce, sottili labbra calavano ora con fermezza sulle sue,con un lieve guizzo della lingua e con l’aromatico odore del whisky."Terry, sei un angelo," udì dalla voce profonda di Richard, e pensò aCarol che diceva la stessa cosa.

Lo osservò riprendere il bicchiere da terra e riportarlo nell’armadioinsieme alla bottiglia. D’improvviso si sentiva immensamente superiorea lui, a tutte le persone al piano di sotto. Era più felice di ciascuna di esse.La felicità era un po’ come volare, come essere un aquilone. Dipendevada quanto si lasciava scorrere il filo...

"Bello?" domandò Richard.Therese si tirò su. "Bellissimo!""L’ho finito ieri sera. Pensavo che, se fosse stata una bella giornata,

saremmo andati nel parco per farlo volare." Richard sorrideva come unragazzino, fiero della sua abilità. "Guardalo dietro."

Era un aquilone russo, rettangolare e convesso come uno scudo, lasottile intelaiatura incisa e legata agli angoli. Sulla parte anteriore,Richard aveva dipinto una cattedrale con cupole, guglie e un cielo rossocome sfondo.

"Andiamo a farlo volare," disse Therese.Trasportarono l’aquilone da basso. Poi gli altri li scorsero e tutti, zii,

zie, cugini, uscirono nell’anticamera, finché la confusione divenneassordante e Richard dovette reggere l’aquilone ben alto per proteggerlo.Quel baccano irritava Therese, ma a Richard piaceva.

"Fermati per lo champagne, Richard!" gridò una delle zie, quella con lostomaco talmente prominente da tendere l’abito di raso come un secondoseno.

"Non posso," rispose Richard, che aggiunse qualcosa in russo, eTherese ebbe l’impressione, già provata altre volte nel vedere Richardcon i suoi, che vi fosse stato un errore, che forse Richard era un orfano,un trovatello, abbandonato sulla soglia di quella famiglia e allevato come

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un figlio. Ma c’era il fratello Stephen fermo là sulla soglia, con gli stessiocchi azzurri di Richard, sebbene Stephen fosse più alto e più magro.

"Quale tetto?" Si udì, stridula, la voce della madre di Richard. "Questotetto?"

Qualcuno aveva domandato se intendessero far volare l’aquilone daltetto e, poiché la casa non aveva un tetto sul quale fosse possibileaggirarsi, la madre di Richard era stata colta da un accesso di risa. Poi ilcane cominciò ad abbaiare.

"Te lo farò quel vestito!" esclamò, rivolta a Therese, la madre diRichard, agitando il dito in un gesto ammonitore. "Ora le so, le tuemisure!"

L’avevano misurata con un metro, nel soggiorno, nel bel mezzo deicanti e dell’apertura dei regali, e un paio degli uomini avevano cercato didare una mano, anche. La signora Semco mise un braccio intorno alla vitadi Therese, e improvvisamente Therese l’abbracciò e le stampò un baciosulla guancia, affondando le labbra nella carne morbida e incipriata,riversando per un istante nel bacio, e nella stretta convulsa del braccio,l’affetto che sinceramente aveva per lei, e che si sarebbe nuovamentenascosto come se non fosse esistito, Therese lo sapeva, nell’attimo stessoin cui l’avrebbe lasciata andare.

Poi lei e Richard si ritrovarono liberi e soli, in cammino lungo ilmarciapiede antistante. Therese stava pensando che, se si fossero sposati,non vi sarebbe stato niente di diverso nella serie di Natali da passare infamiglia. Richard avrebbe fatto volare i suoi aquiloni perfino da vecchio,come suo nonno che, come Richard le aveva raccontato, era andato a farvolare i suoi aquiloni in Prospect Park fino all’anno in cui era morto.

Presero la metropolitana fino al parco, poi s’incamminarono versol’altura senza alberi dove erano già stati almeno una decina di volte.Therese si guardava attorno. C’erano alcuni ragazzi che giocavano a pallasullo spiazzo erboso al margine degli alberi, ma a parte loro il parcosembrava tranquillo e deserto. Non c’era molto vento, o non ce n’eraabbastanza, a giudizio di Richard, e il cielo era di un bianco denso comese promettesse neve.

Richard sbuffò, dopo un altro tentativo a vuoto. Stava tentando di fare

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alzare l’aquilone, correndo a sua volta.Therese, seduta sul prato con le braccia attorno alle ginocchia, lo

guardò sollevare la testa e girarla in tutte le direzioni, come se avesseperso qualcosa nell’aria. "Eccolo lì!" E si alzò, indicando.

"Sì, ma non si solleva bene."Richard provò a correre nella stessa direzione, e l’aquilone si afflosciò

sul suo lungo filo, poi diede uno strattone verso l’alto come se qualcosagli avesse dato una spinta. Descrisse un grande arco, poi prese ainnalzarsi in un’altra direzione.

"Ha trovato da sé il vento giusto!" commentò Therese."Sì, ma è lento.""Brontolone che sei! Posso tenerlo io?""Aspetta che si alzi ancora un po’."Richard incoraggiava l’ascesa con lunghe spinte delle braccia, ma

l’aquilone rimaneva dov’era nell’aria fredda e torpida. Le dorate cupoledella cattedrale oscillavano da parte a parte, come se l’intero aquilonescuotesse la testa dicendo di no, e la lunga coda inerte lo seguivascioccamente, come a ripetere la negazione.

"È il meglio che possiamo fare," disse Richard. "Non serve dargli altrofilo."

Therese non poteva staccare gli occhi dall’aquilone, che si erastabilizzato e fermato, come il dipinto di una cattedrale impastato controil cielo bianco. A Carol, pensava, probabilmente gli aquiloni nonpiacerebbero. Non la divertirebbero. Si limiterebbe a guardarnebrevemente uno, e direbbe di trovarlo insulso.

"Vuoi prenderlo tu?"Richard le mise tra le mani il legnetto del filo, e lei tornò ad alzarsi.

Stava pensando che Richard aveva lavorato all’aquilone la sera innanzi,mentre lei era da Carol, ed ecco perché non le aveva telefonato e non siera accorto che lei non era in casa. Se avesse telefonato, glielo avrebbedetto. Presto sarebbero cominciate le prime bugie.

D’improvviso l’aquilone ruppe il suo ormeggio nel cielo e diede unbrusco strattone, come per allontanarsi. Therese lasciò che il filo sisvolgesse rapidamente tra le sue mani, fintantoché osò farlo sotto gli

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occhi di Richard, perché l’aquilone era ancora basso. Ed ecco che oratornava a fermarsi, testardamente immobile.

"Da’ uno strappo!" disse Richard. "Vedi di farlo salire."Lei tentò. Era come giocare con un lungo elastico. Ma il filo era così

floscio, ora, che riuscire a smuovere un poco l’aquilone per lei era già ilmassimo. Therese provava e riprovava a dare strattoni. Poi, Richardvenne a toglierle il legnetto di mano, e Therese lasciò ciondolare lebraccia. Aveva il respiro un po’ ansante, e sentiva tremolare lievemente imuscoli delle braccia. Sedette a terra. Non l’aveva avuta vinta control’aquilone. Non aveva fatto quello che lei avrebbe voluto.

"Forse il filo è troppo pesante," osservò. Era una cordicella nuova,morbida, bianca e grassoccia come un vermiciattolo.

"Ma no, è leggerissimo. Guarda ora. Adesso sì che va!"Ora l’aquilone stava salendo in brevi balzi verso l’alto, come se

d’improvviso avesse trovato una propria volontà e avesse deciso difuggire.

"Molla altro filo!" gridò lei.Si era alzata di scatto. Un uccello volava al di sotto dell’aquilone. Lei

fissava il rettangolo che diventava sempre più piccolo, allontanandosi astrattoni come la vela gonfia di vento di una nave che stesse andandoall’indietro. Aveva la sensazione che l’aquilone, quel particolareaquilone, significasse qualcosa, in quel momento.

"Richard?""Cosa?"Poteva vederlo con la coda dell’occhio, accucciato con le mani davanti

a sé, come se stesse facendo del surf. "Quante volte ti sei innamorato?"gli domandò.

Richard rise, con una risata breve, roca. "Mai, prima di conoscerti.""Sì, lo sei stato. Due volte, mi hai detto.""Se conto quelle, devo contarne almeno altre dieci," replicò subito

Richard, con la franchezza di chi è preoccupato.L’aquilone stava cominciando a scendere.Therese mantenne la voce allo stesso livello. "Ti sei mai innamorato di

un ragazzo?"

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"Un ragazzo?" ripeté Richard, sorpreso."Sì."Passarono forse cinque secondi prima che lui dicesse: "No", in tono

fermo e categorico.Se non altro, pensò Therese, si è preso il disturbo di rispondere. Che

cosa faresti se lo fossi, ebbe l’impulso di insistere, ma la domandadifficilmente sarebbe servita a uno scopo. Teneva gli occhi sull’aquilone.Stavano fissando lo stesso aquilone, ma con ben diversi pensieri inmente. "Ne hai mai sentito parlare?" domandò.

"Sentito parlare? Di gente così, vuoi dire? Ma certo." Richard si tenevaeretto, ora, muovendo il legnetto in modo da riarrotolarvi intorno il filo.

"Non parlo di gente così," riprese Therese con cautela, perché ora luistava ascoltando. "Parlo di due che si innamorano all’improvviso l’unodell’altro, senza minimamente aspettarselo. Diciamo due maschi, o dueragazze."

La faccia di Richard manteneva la stessa espressione che se avesserodiscusso di politica. "Se ne ho mai conosciuti? No."

Therese aspettò che ricominciasse a fare tentativi con l’aquilone, perspingerlo più in alto. Poi osservò: "Però potrebbe succedere, immagino,praticamente a chiunque, non credi?"

Lui continuava a spingere in alto l’aquilone. "Ma queste cose nonaccadono così. C’è sempre una ragione, alla radice."

"Sì," convenne lei. Therese aveva riflettuto, sulla radice. La sensazionepiù vicina all’essere stata "innamorata" che le riusciva di ricordare eraquella che aveva provato per un ragazzino visto alcune volte nella città diMontclair, quando viaggiava sullo scuolabus. Un ragazzino con i capellineri e ricci e un bel faccino serio, che doveva avere circa dodici anni, dueo tre più di lei. Ricordava un breve periodo in cui aveva pensato a lui tuttii giorni. Ma quello non era niente, proprio niente a paragone di quello cheprovava per Carol. Era o non era amore, quello che provava per Carol? Equanto era assurdo il fatto di non saperlo neppure. Aveva sentito parlaredi ragazze che si innamoravano, e sapeva che specie di persone fossero eche aspetto avessero. Né lei né Carol erano così. Eppure quello che leiprovava per Carol superava tutti i test sull’amore e rispondeva a tutte le

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descrizioni. "Pensi che io potrei?" domandò semplicemente Therese,prima di domandarsi se osava farlo.

"Cosa?" Richard sorrise. "Innamorarti di una ragazza? Ma no! MioDio, non sarà così, vero?"

"No," disse Therese, in un tono strano, sconclusionato, ma Richardsembrò non badare al tono.

"Ricomincia a salire. Guarda, Terry!"L’aquilone puntava verso l’alto, sempre più rapidamente, e il legnetto

roteava tra le mani di Richard. Therese stava pensando che, a ogni modo,era più felice di quanto fosse mai stata. E perché preoccuparsi di definirequalcosa?

"Ehi!" Richard si gettò all’inseguimento del legnetto che stavasobbalzando follemente al suolo, come se a sua volta volesse sollevarsida terra. "Vuoi tenerlo tu?" domandò, riacchiappandolo. "Praticamenteporta su anche te!"

Therese prese il bastoncino. Non c’era rimasto molto filo attorno, el’aquilone era quasi invisibile, ormai. Quando lasciò che le sue braccia sialzassero al massimo, ebbe l’impressione deliziosa di galleggiarelievemente, quasi che davvero l’aquilone potesse sollevarla, se avessechiamato a raccolta tutta la sua forza.

"Lascialo andare!" gridò Richard, agitando le braccia. Stava a boccaaperta, e due chiazze rosse gli erano apparse sulle guance.

"Non c’è più filo!""Ora lo taglio!"Therese non poteva credere d’avere sentito bene ma, nel lanciargli

un’occhiata, lo vide frugare sotto il giaccone per prendere il temperino."Nooo," protestò.

Richard già si avvicinava di corsa, ridendo."No!" ripeté lei, con rabbia. "Ma sei matto?" Sentiva le mani stanche,

ma teneva con tutte le sue forze il pezzo di legno."Tagliamolo! È più divertente!" E Richard venne a sbattere in malo

modo contro di lei, perché stava guardando in su.Therese spostò il legnetto da un lato, per sottrarglielo, senza parole per

la rabbia e la meraviglia. Visse un istante di paura, in cui pensò che

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Richard potesse realmente essere impazzito, poi barcollò all’indietro, laforza d’attrazione svanita, il legno inerte tra le sue mani. "Tu sei matto!"gli urlò. "Sei folle, sei!"

"È soltanto un aquilone!" Richard rideva, allungando il collo verso ilnulla.

Therese guardava invano, cercando con gli occhi almeno il filopenzolante. "Perché l’hai fatto?" Aveva la voce stridula di pianto. "Era uncosì bell’aquilone!"

"Era solo un aquilone!" ripeté Richard. "Posso farne un altro!"

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9Therese cominciò a vestirsi, poi cambiò idea. Era ancora in vestaglia,stava leggendo il copione di Small Rain che Phil le aveva portato pocoprima, e che adesso era sparpagliato su tutto il divano. Carol aveva dettod’essere all’incrocio tra la Quarantottesima e Madison. Poteva arrivare lìentro dieci minuti. Therese si guardò attorno, si osservò la faccia allospecchio, poi decise di lasciare tutto come stava.

Portò alcuni portacenere nel lavello e li lavò, poi riunì ordinatamente ifogli del copione sul tavolo da lavoro. Si domandò se Carol avrebbe avutocon sé la borsetta nuova. Le aveva telefonato la sera prima da qualchepunto del New Jersey dove si trovava con Abby, per dirle che la borsettaera bella ma un po’ troppo di lusso come regalo. Therese sorrise,ricordando che Carol le aveva suggerito di riprendersela. Se non altro, aCarol la borsetta era piaciuta.

Il campanello suonò in tre rapidi squilli.Therese guardò giù per le scale e vide che Carol reggeva qualcosa. Le

corse incontro."È vuota. È per te," disse Carol, sorridendo.Era una valigia, tutta incartata. Carol fece scivolare via le dita da sotto

la maniglia e lasciò che a portare la valigia fosse Therese. Therese laposò sul divano del suo monolocale, poi tolse con cura la carta marrone.La valigia era di un bel cuoio chiaro, assolutamente semplice.

"È splendida!" esclamò Therese."Ti piace? Non sapevo nemmeno se ti servisse, una valigia.""Ma certo, e mi piace molto." Era il genere di valigia fatto apposta per

lei, esattamente quello e nessun altro. Sopra c’erano le sue iniziali inpiccole lettere d’oro: T.M.B. Ricordò che Carol, la vigilia di Natale, leaveva chiesto il suo secondo nome.

"Aprila e vedi se ti piace l’interno."Therese eseguì. "E mi piace l’odore, anche.""Hai da fare? Se hai da fare, me ne vado subito.""No. Siediti. Non sto facendo niente... Salvo leggere un copione.""Che copione?"

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"Di un lavoro teatrale per il quale devo creare le scene."All’improvviso Therese si rese conto di non avere mai accennato allascenografia con Carol.

"Le scene?""Sì... Sono una scenografa." Prese in consegna la pelliccia di Carol.Carol sorrideva, stupefatta. "Perché diavolo non me l’avevi detto?"

domandò. "Quanti altri conigli stai per tirar fuori dal cappello?""È il mio primo vero incarico. Ma non si tratta di uno spettacolo di

Broadway. Andrà in scena al Village. È una commedia. Ancora non sonomembro del sindacato, per adesso. Dovrò aspettare d’esserlo, per poterlavorare a Broadway."

Carol si informò sul sindacato, sull’iscrizione come praticante e comesocio, che costava rispettivamente millecinquecento e duemila dollari.Poi, le domandò se avesse già tutto quel denaro da parte.

"No... Solo poche centinaia. Ma, se ottengo un incarico, mipermetteranno di pagare a rate."

Carol aveva preso posto sulla sedia rigida, quella dove spesso si sedevaRichard. La osservava, e Therese, che poteva leggerle nello sguardod’essere improvvisamente cresciuta nella sua considerazione, sidomandava perché mai non avesse accennato prima al fatto d’essere unascenografa, e d’avere anzi già un incarico. "Bene," disse Carol, "se mai daquesto dovesse saltar fuori un incarico a Broadway, saresti disposta adaccettare il resto della somma da me? Semplicemente a titolo diprestito?"

"Grazie. Io...""Mi farebbe piacere, credimi. Non ti caricheresti di un debito di

duemila dollari, alla tua età.""Grazie. Ma per un incarico così non sarò pronta per almeno altri due

anni."Carol sollevò la testa e soffiò fuori il fumo in una spira sottile. "Ah,

perché non tengono veramente conto degli incarichi di apprendistato,vero?"

Therese sorrise. "No. Certo che no. Posso offrirti qualcosa? Ho unabottiglia di whisky."

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"Bene. Un whisky lo berrei volentieri, Therese." Carol si alzò e scrutòle mensole del cucinino, mentre Therese preparava i due drink. "Sei unabrava cuoca?"

"Sì. Lo sono soprattutto quando ho qualcuno per cui cucinare. So faredelle ottime omelette. Ti piacciono?"

"No," dichiarò senza cerimonie Carol, e Therese rise. "Perché non mimostri qualcuno dei tuoi lavori?"

Therese tirò giù una cartelletta dall’armadio a muro. Carol sedette suldivano ed esaminò tutto attentamente ma, dai commenti e dalle domandeche faceva, Therese intuì che considerava quei disegni troppo bizzarri peressere utilizzabili, e forse nemmeno molto validi. Carol disse di preferireil set per Petrushka, sulla parete.

"Ma è la stessa cosa," spiegò Therese. "La stessa cosa dei disegni, soloin forma di modellino."

"Be’, forse dipenderà dai tuoi disegni. Sono molto concreti, a ognimodo, e questo mi piace." Carol riprese il suo bicchiere da terra e silasciò andare contro lo schienale del divano. "Come vedi, non avevo fattoun errore, allora."

"Su che cosa?""Su di te."Therese non capì esattamente che cosa intendesse dire. Carol le

sorrideva attraverso il fumo della sigaretta, e questo la innervosiva."Pensavi d’averlo fatto?"

"No," disse Carol. "Quanto devi pagare per un appartamentino comequesto?"

"Cinquanta dollari il mese."Carol fece schioccare la lingua. "Non ti rimane molto del tuo salario,

vero?"Therese si era chinata sulla cartelletta, stava legandone le stringhe.

"No. Ma presto guadagnerò di più. Né ho intenzione di abitare qui persempre."

"No, naturalmente. Viaggerai, anche, come ora fai con la fantasia.Vedrai una casa in Italia di cui ti innamorerai. O magari ti piacerà laFrancia. O la California, o l’Arizona."

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La ragazza sorrideva. Probabilmente non avrebbe avuto il denarosufficiente, se questo fosse accaduto.

"La gente si innamora sempre delle cose che non può permettersi?""Sempre," sentenziò Carol, e anche lei sorrideva. Si passò le dita

attraverso i capelli. "Penso che andrò a fare un viaggio, tutto sommato.""Quanto starai via?""Un mese, più o meno."Therese rimise la cartelletta nell’armadio. "E quando pensi di partire?""Subito. Il tempo di sistemare le cose, immagino. E non c’è molto da

sistemare."Therese si voltò. Carol stava rigirando la punta della sigaretta nel

portacenere. Non significava niente, per lei, che per un mese non sisarebbero viste. "Perché non vai da qualche parte con Abby?"

Carol la guardò, poi levò lo sguardo al soffitto. "Non credo sia libera,tanto per cominciare."

Therese la fissava. Capiva d’avere toccato qualche tasto, nominandoAbby. Ma la faccia di Carol era adesso illeggibile.

"Sei molto cara a permettermi di vederti così spesso," riprese Carol."Sai, al momento non mi va di frequentare le persone che vedo di solito.Non è possibile, oltre tutto. Si parte dal principio che tutto si debba faresempre a coppie."

Com’è fragile, pensò improvvisamente Therese, quanto diversa dalgiorno di quel primo appuntamento. Poi Carol si alzò, come se le avesseletto nel pensiero, e Therese avvertì un’ostentazione di sicurezza nelmodo come teneva alta la testa e nel sorriso, mentre le passava cosìvicino che le loro braccia si sfiorarono.

"Perché non facciamo qualcosa, stasera?" propose Therese. "Puoirimanere qui se vuoi, e io finirò di leggere la commedia. Possiamopassare la serata insieme."

Carol non rispose. Stava guardando la cassetta di piante sullo scaffaledella libreria. "Che piante sono, queste?"

"Non lo so.""Non lo sai?"Erano tutte diverse, un cactus dalle foglie carnose che non era cresciuto

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nemmeno un po’ da quando lei lo aveva comperato, circa un anno prima,un’altra piantina simile a una palma in miniatura, e un qualcosa dicascante rosso-verde che andava sorretto con un bastoncino. "Sonopiante."

Carol si girò, sorridendo divertita. "Sono piante," la scimmiottò."Per questa sera, allora?""D’accordo. Ma non mi fermo. Sono soltanto le tre. Ti faccio uno

squillo verso le sei." Carol lasciò cadere l’accendino dentro la borsetta.Non era la borsa che le aveva regalato Therese. "Penso che andrò a vedereun po’ di mobili, questo pomeriggio."

"Mobili? Nei negozi?""Nei negozi o al Parke-Bernet. La mobilia mi fa bene." Carol si protese

a prendere la pelliccia dal bracciolo, e di nuovo Therese notò la lungalinea dalla spalla all’alta cintura di pelle, linea continuata poi dallagamba: bella come un accordo di musica, o come un intero balletto. Carolera bella, e perché mai, si domandava Therese, le sue giornate dovrebberoessere così vuote, ora, quando sembra fatta per vivere tra gente che l’ama,per aggirarsi in una bella casa, in belle città, in riva a coste marine con unlungo orizzonte e un cielo azzurro a farle da sfondo?

"Arrivederci," disse Carol, e con lo stesso movimento con il qualeindossò la pelliccia mise un braccio attorno alla vita di Therese. Fu unistante appena, troppo sconcertante con quel braccio improvvisamenteintorno a lei, per rappresentare sollievo o conclusione o inizio, prima cheil campanello risuonasse stridulo e inaspettato nelle loro orecchie. Carolsorrise. "Chi può essere?"

Therese sentì che, nel lasciarla andare, Carol le aveva graffiatoinvolontariamente il polso con l’unghia del pollice. "Richard,probabilmente." Non poteva essere che Richard, perché lei ne conoscevala lunga scampanellata.

"Bene. Mi fa piacere conoscerlo."Therese premette il pulsante, poi udì i passi saltellanti di Richard su

per le scale. Aprì la porta."Ciao," disse Richard. "Ho deciso...""Richard, questa è la signora Aird," disse Therese. "Richard Semco."

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"Piacere," disse Carol.Richard fece un cenno che era quasi un inchino. "Piacere," rispose a

sua volta, gli occhi azzurri sgranati.Per qualche istante si fissarono, Richard con una scatola quadrata tra le

mani, come se stesse per offrirgliela, e Carol in piedi, senza rimanere esenza andarsene. Richard posò la scatola su un tavolinetto.

"Ero così vicino, ho pensato di fare un salto su," disse e, sotto quelleparole di spiegazione, Therese avvertì l’inconsapevole asserzione di undiritto, proprio come se avesse intravisto dietro lo sguardo inquisitore dilui una spontanea diffidenza nei confronti di Carol. "Ero andato a portareun regalo a un’amica di mamma. Quello è lebkuchen." Accennò allascatola con un sorriso disarmante. "Qualcuno ne vuole un po’?"

Carol e Therese rifiutarono. Carol stava osservando Richard che oraapriva la scatola con il suo temperino. Lo trova simpatico, pensò Therese.Le piace come sorride, le piace questo spilungone con i capelli biondiribelli, le spalle larghe ancora scarne, i piedoni un po’ buffi neimocassini.

"Prego," disse, facendo cenno a Carol di sedersi."No, vado," rispose l’altra."Te ne do una metà, Terry, poi scappo anch’io," disse lui.Therese guardava Carol, e questa, divertita dal suo nervosismo, sedette

su un angolo del divano."Non scapperà via per causa mia, spero," soggiunse Richard,

sollevando la carta con dentro il dolce per posarla su un ripiano delcucinino.

"No, no. Lei è un pittore, vero, Richard?""Sì." Lui si ficcò in bocca alcune scaglie di glassa, poi guardò calmo

calmo Carol, poiché non c’era niente che potesse turbarlo, lo sguardofranco perché non aveva niente da nascondere. "Pittrice anche lei?"

"No," disse Carol con un altro sorriso. "Io non sono niente.""Ossia la cosa più difficile.""Dice? Ed è un buon pittore?""Lo sarò. Posso esserlo," assicurò Richard, imperturbabile. "Hai per

caso un po’ di birra, Terry? Ho una sete terribile."

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Therese andò al frigorifero e tirò fuori le due bottiglie che c’erano.Richard domandò a Carol se ne gradisse un po’, ma lei rifiutò. PoiRichard mosse qualche passo lungo il divano, guardando la valigia e lecarte che l’avvolgevano, e Therese pensò che stesse per dire qualcosa, malui se ne astenne.

"Pensavo, Terry, che stasera si potrebbe andare al cinema. Mipiacerebbe vedere quel film che danno al Victoria. Ti va l’idea?"

"Stasera non posso. Ho già un impegno con la signora Aird.""Ah." Richard guardò Carol.Carol spense la sigaretta e si alzò. "Devo proprio andare." Sorrise a

Therese. "Telefonerò verso le sei. Se per caso cambi idea, non haimportanza. Arrivederla, Richard."

"Arrivederla," rispose lui., Carol le rivolse una strizzatina d’occhi, nell’accingersi a scendere.

"Fa’ la brava," disse."Da dove viene quella valigia?" domandò Richard appena lei rientrò

nella stanza."È un regalo.""Che cosa succede, Terry?""Niente, succede.""Ho interrotto qualcosa di importante? Quella chi è?"Therese prese in mano il bicchiere vuoto di Carol. Sull’orlo c’era un

po’ di rossetto. "È una signora che ho conosciuto al negozio.""Te l’ha data lei quella valigia?""Sì.""Caro quel regalo! Ma è così ricca?"Therese gli lanciò un’occhiata. L’avversione di Richard per i ricchi,

per i borghesi, era automatica. "Ricca? Alludi alla pelliccia di visone?Non lo so. Le avevo fatto un favore. Ho ritrovato qualcosa che lei avevaperso, da Frankenberg."

"Ah. Cosa? Non mi avevi detto niente."Lei lavò e asciugò il bicchiere di Carol, poi lo rimise sulla mensola.

"Aveva lasciato il portafogli sul banco e io gliel’ho riportato. Tutto qui.""Ah. Mica male come ricompensa, accidenti." La fissò preoccupato.

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"Terry, cos’hai? Non sarai ancora in collera per quello stupido aquilone,spero."

"Ma no, figurati," rispose lei, con impazienza. Desiderava che se neandasse. Sprofondò le mani nelle tasche della vestaglia e attraversò lastanza, andando a mettersi dove si era fermata Carol e guardando lacassetta delle piantine. "Phil mi ha portato la commedia, questa mattina.Ho già cominciato a leggerla."

"Per questo sei preoccupata?""Che cosa ti fa pensare che sia preoccupata?" Therese si voltò."Sei di nuovo di quell’umore che ti fa sembrare lontana migliaia di

chilometri.""Non sono preoccupata e non sono a migliaia di chilometri." Therese

prese un lungo respiro. "È strano: sei così sensibile a certi umori e cosìpoco sensibile ad altri."

Richard la guardò. "D’accordo, Terry," disse con una stretta di spalle,come a darle ragione. Sedette sulla sedia rigida e versò il resto della birranel bicchiere. "Cos’è quest’impegno che hai con quella signora, stasera?"

Therese, che stava dandosi il rossetto, allargò istintivamente le labbrain un sorriso. Per un attimo, guardò la pinzetta per le sopracciglia posatasopra la piccola mensola fissata all’interno dell’anta dell’armadio amuro. Poi, posò il rossetto sulla mensolina. "È una specie di cocktail-party, credo. Una specie di serata di beneficenza per Natale. In unristorante, ha detto."

"Mmm. E hai voglia di andarci?""Ho detto che ci sarei andata."Richard finì la sua birra, aggrottando un poco la fronte al di sopra del

bicchiere. "E dopo? Io potrei rimanermene qui a leggere la commediamentre tu non ci sei, e più tardi potremmo mangiare un boccone e andareal cinema."

"Più tardi, pensavo di finire la commedia. Sabato devo cominciare alavorarci, e dovrei già avere qualche idea in mente."

Richard si alzò. "Già," concesse, con un sospiro.Therese lo guardò spostarsi oziosamente verso il divano e fermarsi là,

a guardare dall’alto il copione. Poi si chinò, a studiare la pagina del titolo

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e quelle successive. Infine guardò il suo orologio, poi lei."E se la leggessi subito?" domandò."Leggila," rispose lei con un tono brusco che Richard non udì o ignorò,

perché si limitò ad allungarsi sul sofà con il copione tra le mani e acominciare a leggere. Lei prese una bustina di fiammiferi da unamensola. Rifletteva tra sé che lui riconosceva soltanto l’umore "amigliaia di chilometri" quando, sentendola distante, si ritrovava comeprivo di lei. E le tornarono d’improvviso alla mente le volte in cui eraandata a letto con lui, della sua distanza, in quei momenti, a paragonedella vicinanza che si supponeva dovesse esservi, quella di cui tuttiparlavano. Ma Richard non l’aveva avvertita, forse a causa del fattomateriale d’essere a letto insieme. E le passò per la mente, ora,nell’osservare Richard completamente assorbito dalla lettura, nel vederloafferrarsi una ciocca di capelli con le dita rigide e grassocce e lisciarla,tirandola verso il naso, che lui aveva l’atteggiamento di chi sapevad’avere un posto inalienabile nella vita di lei, e che il loro era un legamepermanente, da non mettere in discussione, perché lui era il primo uomocon cui lei avesse fatto l’amore. Therese scagliò la bustina di fiammiferiverso la mensola, e una bottiglia di qualcosa si rovesciò.

Richard si tirò su, sorridendo un poco, sorpreso. "... Sa c’è, Terry?""Richard, sento il bisogno di rimanere sola... Per il resto del

pomeriggio. Ti spiace?"Lui si alzò. La sorpresa non sparì dal suo volto. "No, no. Figurati."

Lasciò cadere nuovamente il copione sul divano. "D’accordo, Terry.Forse è meglio. Forse è bene che tu legga questo, ora: che tu lo legga insanta pace," disse in tono polemico, come per convincere se stesso.Guardò di nuovo l’orologio. "Magari farò un salto da Sam e Joan, per unpo’."

Lei rimaneva là, senza muoversi, senza nemmeno pensare ad altro cheai pochi secondi da far passare fino a che lui se ne sarebbe andato, mentreRichard le passava la mano madida e un po’ attaccaticcia sui capelli e sichinava a baciarla. Poi, d’improvviso, si ricordò del libro su Degas cheaveva comperato giorni prima, il libro di riproduzioni che Richard volevae che non era riuscito a trovare da nessuna parte. Lo prese, da uno dei

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cassetti del trumeau. "Ho trovato questo. Il libro su Degas.""Oh, magnifico. Grazie." Lui lo prese con entrambe le mani. Il libro era

ancora rivestito di cellophane. "Dove l’hai trovato?""Da Frankenberg. Pensa un po’.""Da Frankenberg." Richard sorrise. "Costa sei dollari, vero?""Oh, lascia perdere."Richard aveva già estratto il portafogli. "Ma te l’avevo chiesto io di

procurarmelo.""Non li voglio, davvero."Richard protestò, ma lei non volle accettare il denaro. E un minuto

dopo lui se n’era andato, con la promessa di telefonarle l’indomani versole cinque. Potevano combinare qualcosa per le cinque, aveva detto.

Carol telefonò alle sei e dieci. Se la sentiva di andare a Chinatown?Therese disse di sì, naturalmente.

"Sto bevendo un cocktail con un amico al St Regis," disse Carol."Perché non passi a prendermi qui? Nella saletta piccola, non nellagrande. E ascolta, dobbiamo andare a una riunione di gente di teatro dovemi hai invitata tu. Capito?"

"Una specie di cocktail-party natalizio di beneficenza?"Carol rise. "Sbrigati."Therese volò.

L’amico di Carol era un certo Stanley McVeigh, un signore alto, sullaquarantina, con i baffi e con un boxer al guinzaglio. Carol era pronta pervenir via quando arrivò Therese. Stanley uscì dal locale con loro, le misesu un taxi e diede del denaro all’autista attraverso il finestrino.

"Chi è?" domandò Therese."Un vecchio amico. Mi cerca più spesso, ora che Harge e io stiamo

separandoci."Therese la guardava. Carol quella sera aveva un vago, meraviglioso

sorriso negli occhi. "Ti piace?""Così così," rispose Carol. "Autista, vuole portarci a Chinatown invece

che all’altro indirizzo?"

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Cominciò a piovere mentre cenavano. Carol disse che pioveva sempre,a Chinatown, ogni volta che lei decideva di andarci. Ma non avevaimportanza, perché loro due passavano da un negozio all’altro, guardandoe comperando cose. Therese aveva visto dei sandali con le suole azatteroni che le sembravano molto belli, persiani più che cinesi, e volevacomperarli per Carol, ma Carol disse che Rindy non avrebbe approvato.Rindy era molto conservatrice, non voleva nemmeno che la madreandasse senza calze d’estate, e Carol si adeguava. Lo stesso negozioaveva dei completi cinesi di un tessuto nero e lucido, con i calzoni e lagiacca a collo alto, e Carol ne comperò uno per Rindy. Therese, mentrel’altra dava disposizione su dove spedire il completino per Rindy,comperò ugualmente i sandali. Le era bastato guardarli per indovinare lamisura giusta, e a Carol fece piacere, tutto sommato, che lei li avesseacquistati. Poi, passarono un’ora bizzarra in un teatro cinese dove lagente in sala dormiva nonostante il gran baccano. E, infine, ritornaronoverso i quartieri alti per cenare in un ristorante dove suonava un’arpa.Una serata gloriosa. Una serata veramente splendida.

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10Il martedì, quarto giorno di lavoro, Therese se ne stava nella stanzettanuda e senza soffitto sul retro del Black Cat Theatre, in attesa che ilsignor Donohue, il nuovo regista, venisse a vedere il suo modello incartoncino. Il lunedì mattina, Donohue aveva sostituito Cortes comeregista, aveva bocciato il suo primo modellino e aveva bocciato anchePhil McElroy come secondo fratello nella commedia. Phil se n’eraandato, il giorno prima, indignatissimo. Therese si considerava fortunataper non essere stata bocciata a sua volta insieme al modello, così avevaseguito alla lettera le istruzioni del signor Donohue. Il nuovo modellonon aveva la sezione mobile che lei aveva messo nel primo, e che avrebbepermesso di trasformare la scena del soggiorno in quella della terrazzaper l’ultimo atto. Donohue sembrava irremovibile contro tutto ciò che erainsolito o perfino semplice. Per ambientare l’intera commedia nelsoggiorno, era stato necessario cambiare gran parte del dialogonell’ultimo atto, e alcune delle battute più brillanti erano andate perdute.Il suo nuovo modello indicava un caminetto, ampie porte-finestre chedavano su una terrazza, due porte, un divano, un paio di poltrone e unalibreria. Sarebbe sembrato, una volta finito, una delle tante stanze inmostra da Sloan, realistica in tutto, fino all’ultimo portacenere.

Therese si alzò, si stirò e tirò giù la giacca di velluto a coste appesa aun chiodo nella porta. Il posto era gelido come un granaio. ProbabilmenteDonohue non sarebbe venuto prima di quel pomeriggio, o magarinemmeno in giornata, se non glielo avesse ricordato lei. Non c’era alcunafretta per lo scenario. Poteva anche darsi che fosse la cosa menoimportante dell’intera produzione, ma lei era rimasta alzata fino a nottealta, per lavorare con entusiasmo al modello.

Uscì e andò a mettersi di nuovo fra le quinte. In scena c’era l’interocast, e tutti avevano il copione in mano. Donohue non si stancava di farripetere da capo l’intera commedia, per renderla scorrevole, diceva, masembrava che quel giorno riuscisse solo a far dormire l’intera compagnia.Avevano tutti un’aria svogliata, salvo Tom Harding, un giovanotto alto ebiondo che aveva la parte del protagonista, e sembrava fin troppo pieno di

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energia. Georgia Halloran era in preda a un attacco di sinusite, e ogni oradoveva fare una pausa per mettersi le gocce nel naso e andare a sdraiarsiper qualche minuto. Geoffrey Andrews, un uomo di mezz’età che recitavala parte del padre della protagonista, non faceva che borbottare tra unabattuta e l’altra perché non poteva soffrire Donohue.

"No, no, no, no," ripeté Donohue per l’ennesima volta quel mattino,fermando tutto e inducendo ciascuno ad abbassare il copione e a girarsiverso di lui con perplessa, irritata docilità. "Cominciamo di nuovo dapagina ventotto."

Therese lo osservava agitare le braccia per indicare chi aveva labattuta, alzare una mano per imporre a tutti il silenzio, seguendo ilcopione a testa bassa come se stesse dirigendo un’orchestra. TomHarding le fece l’occhietto, passandosi una mano lungo il naso. Dopo unmomento, Therese se ne tornò nella stanza dietro il divisorio, dovelavorava e dove si sentiva un po’ meno inutile. Conosceva il copionequasi a memoria, ormai. Aveva una trama sul genere della commediadegli errori alla Sheridan: due fratelli che fingevano d’essere padrone ecameriere onde fare colpo su un’ereditiera di cui uno dei due erainnamorato. Il dialogo era arguto e discreto, nel complesso; lo scenarioera piuttosto monotono e terra terra come Donohue aveva richiesto.Therese si augurava che si potesse fare qualcosa con i colori, perravvivarlo.

Donohue entrò da lei poco dopo mezzogiorno. Guardò il modellino, losollevò per osservarlo dal basso e dai lati, senza alcun mutamento nellasua espressione nervosa e tormentata. "Sì, questo va bene. Questo mipiace molto. Lo vede, vero, quanto è meglio questo rispetto a quellepareti vuote che aveva fatto prima?"

Therese mandò un gran sospiro di sollievo. "Sì," assicurò."Uno scenario nasce dalle necessità degli attori. Non è il set per un

balletto quello che sta disegnando, signorina Belivet."Lei assentiva, guardando a sua volta il modello, e cercando di capire in

che cosa potesse essere migliore, più funzionale."Il falegname verrà nel pomeriggio, verso le quattro. Terremo una

riunione e ne parleremo." Il signor Donohue la lasciò.

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Therese fissava il modellino in cartone. Se non altro, lo avrebbe vistoin uso. Se non altro lei e i falegnami ne avrebbero fatto qualcosa di reale.Andò alla finestra e guardò il grigio ma luminoso cielo invernale, il retrodi alcune case a cinque piani inghirlandate da scale antincendio. In primopiano c’era un piccolo lotto vacante con uno striminzito albero senzafoglie, tutto contorto come un cartello indicatore impazzito. Le sarebbepiaciuto telefonare a Carol per invitarla a colazione. Ma Carol era aun’ora e mezzo di macchina.

"Ti chiami Beliver, tu?"Therese si girò verso la ragazza apparsa sulla soglia. "Belivet.

Telefono?""L’apparecchio è vicino alle luci.""Grazie." Therese si affrettò, sperando che fosse Carol, sapendo che

probabilmente era Richard, invece. Carol non le aveva ancora telefonato,lì.

"Pronto, sono Abby.""Abby?" Therese sorrise. "Come sapeva che ero qui?""Me l’ha detto lei, non ricorda? Mi farebbe piacere vederla. Non sono

distante. Ha già fatto colazione?"Stabilirono di vedersi al Palermo, un ristorante a un paio di isolati dal

Black Cat.Therese fischiettava, strada facendo, felice quasi come se stesse per

incontrarsi con Carol. Il ristorante aveva la segatura sul pavimento, e duegattini stavano giocando sotto la barra del bar. Abby era seduta a untavolo piuttosto in fondo.

"Salve," disse Abby quando lei si avvicinò. "Ha un’aria moltosbarazzina, vedo. Quasi non la riconoscevo. Lo beve un drink?"

Therese scosse la testa. "No, grazie.""Vuol forse dire che è così allegra anche senza?" domandò Abby, e rise

tra sé con quel fare segretamente divertito che in lei, chissà perché, nonera offensivo.

Therese accettò la sigaretta che Abby le offriva. Abby ha capito, pensò.E forse era a sua volta un po’ innamorata di Carol. Il pensiero mettevaTherese in guardia. Creava una tacita rivalità che le dava una curiosa

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euforia, il senso di una certa superiorità nei confronti di Abby: statid’animo che in precedenza Therese non aveva mai conosciuto, né maiavrebbe osato sognare, emozioni di conseguenza rivoluzionarie in sestesse. Così quel fare colazione insieme, in un ristorante, assumevaimportanza quasi quanto un incontro con Carol.

"Come sta Carol?" s’informò Therese. Erano tre giorni che non lavedeva.

"Benissimo," assicurò Abby, osservandola.Si avvicinò il cameriere, e Abby gli domandò se poteva raccomandarle

le cozze e le scaloppine."Eccellenti, signora!" Le sorrideva come se fosse stata una cliente

speciale.Era il modo di fare di Abby, la luce che le splendeva in volto, come se

quel giorno, come se ogni giorno, fosse per lei una vacanza. Questo aTherese piaceva. Guardava ammirata l’abito a giacca di Abby di untessuto in cui si intrecciavano il rosso e il blu, i gemelli ai polsini simili achiocciole in filigrana d’argento. Abby s’informò sul suo incarico alBlack Cat. Therese lo trovava noioso, ma Abby sembrava molto colpita,forse perché, pensava Therese, lei non faceva niente.

"Conosco alcune persone che si occupano di produzioni teatrali," disseAbby. "Sarei ben lieta di mettere una buona parola per lei, quando crede."

"Grazie." Therese giocherellava con il coperchio della formaggera."Conosce per caso un certo Andronich? Credo sia di Filadelfia."

"No."Donohue le aveva detto di andare a parlare con Andronich la settimana

prossima, lì a New York. Stava producendo uno spettacolo che sarebbeandato in scena in primavera a Filadelfia, e poi a Broadway.

"Assaggi le cozze." Abby stava mangiando le sue di gran gusto. "Anchea Carol piacciono."

"È molto che conosce Carol?""Uhm." Abby assentì, guardandola con i suoi occhi vividi che non

rivelavano niente."E conosce anche il marito, naturalmente."Abby assentì di nuovo, in silenzio.

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Therese accennò un sorriso. Sentiva che Abby era lì per interrogarla,ma non per rivelare qualcosa di sé o di Carol.

"E se ordinassimo un po’ di vino? Le piace il chianti?" Abby chiamò asé il cameriere, facendo schioccare le dita. "Ci porti una bottiglia dichianti, per, favore. Un buon vino. Fa buon sangue," soggiunse, rivolta aTherese.

Poi arrivò la portata principale, e due camerieri si diedero da fareintorno al tavolo, stappando il vino, versandolo e servendo dell’altroburro. La radio nell’angolo trasmetteva un tango: era un piccoloapparecchio piuttosto malconcio ma, acceso su richiesta di Abby, creaval’impressione che un’orchestra d’archi stesse suonando alle loro spalle.Sfido che Carol la trova simpatica, pensava Therese. Abby faceva dacomplemento alla solennità di Carol, sapeva rammentare a Carol diridere.

"Ha sempre vissuto sola?" s’informò Abby."Sì. Da quando ho terminato la scuola." Therese sorseggiava il suo

vino. "E lei? O lei vive con la sua famiglia?""Vivo con i miei. Ma sono padrona della mia metà della casa.""E lavora?" azzardò Therese."Ho lavorato, certo. In due o tre campi diversi. Non gliel’ha detto,

Carol, che un tempo avevamo un negozio di mobili? Sì, un negozio subitofuori Elizabeth, lungo la carrozzabile. Compravamo mobili antichi osemplicemente vecchi e li restauravamo. Mai sgobbato tanto in vita mia."Abby le sorrideva gaiamente, come se non stesse dicendo una sola paroladi vero. "Poi c’è l’altro mio lavoro. Sono un’entomologa. Non sonobravissima, ma lo sono abbastanza per eliminare insetti dalle casse dilimoni italiani e cose del genere. I gigli delle Bahamas sono pieni diinsetti."

"Sì, l’ho sentito dire." Therese sorrideva."Scommetto che non mi crede.""Sì, invece. E lo fa sempre, questo lavoro?""Sono una riserva. Lavoro, ma solo nei momenti di emergenza."Therese osservava Abby tagliare le scaloppine in tanti piccoli pezzi

prima di cominciare a mangiare. "Va spesso a fare viaggi con Carol?"

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"Spesso? No, perché?""Penso che sarebbe un’ottima compagna per Carol, che è così seria."

Therese desiderava poter portare la conversazione al cuore delle cose, maquale fosse esattamente il cuore delle cose, lei stessa non lo sapeva. Ilvino le scorreva lento e caldo nelle vene, fino ai polpastrelli.

"Non sempre, no," corresse Abby, con quel sottofondo di risa nellavoce avvertito da Therese fin dalle prime parole che le aveva sentito dire.

L’ebbrezza che il vino le dava prometteva musica o poesia o verità, malei era sempre allo stesso punto. Non le veniva in mente una soladomanda che sarebbe stato logico fare, forse perché i suoi interrogativierano tutti così enormi.

"Come l’ha conosciuta, Carol?" volle sapere Abby."Carol non glielo ha detto?""Mi ha detto solo che vi siete conosciute al Frankenberg quando lei era

impiegata là.""Infatti, è stato così," confermò Therese, sentendo che in lei andava

accumulandosi, incontrollabilmente, un senso di risentimento neiconfronti di Abby.

"Vi siete messe a parlare?" domandò Abby con un sorriso, accendendouna sigaretta.

"L’avevo servita io," disse Therese, e tacque.Abby aspettava, per avere una descrizione esatta di quell’incontro.

Therese lo sapeva, ma non voleva darla né ad Abby né a nessun altro.Apparteneva a lei. Era certa che Carol non l’avesse detto ad Abby, chenon le avesse raccontato la sciocca storia del biglietto di auguri. PerCarol non sarebbe stata tanto importante da riferirla.

"Le spiace dirmi chi ha cominciato a parlare per prima?"Therese improvvisamente rise. Poi, sempre sorridendo, prese dal

pacchetto una sigaretta e l’accese. No, Carol non aveva detto niente delbiglietto di auguri, e quella domanda di Abby le sembravatremendamente buffa. "Io," rispose.

"Lei ha una gran simpatia per Carol, vero?" domandò Abby.Therese si rese conto che non c’era ostilità nella domanda. C’era

semmai gelosia. "Sì."

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"Perché?""Perché mi è simpatica? A lei perché lo è?"Abby continuava a fissarla con occhi ridenti. "Io la conosco da quando

aveva quattro anni."Therese ora taceva."Lei è giovanissima, vero? Quanti anni ha, ventuno?""No. Non ancora.""Lo sa, vero, che Carol al momento ha un sacco di preoccupazioni?""Sì.""Ed è anche molto sola," aggiunse Abby, e ora gli occhi erano attenti."Intende dire che mi cerca per questo?" domandò con calma Therese.

"Vuole forse farmi capire che non dovrei frequentarla?”Al che, gli occhi fermi di Abby ebbero un doppio batter di palpebre.

"No, niente affatto. Ma non voglio che lei debba soffrirne. E neppure chefaccia soffrire Carol."

"Non farei mai del male a Carol," dichiarò Therese. "Pensa che potreifargliene?"

Abby stava ancora osservandola attentamente, neppure per un attimoaveva staccato gli occhi da lei. "No, non lo penso affatto," replicò, comese lo avesse deciso in quell’istante. E sorrise, a questo punto, come sefosse particolarmente compiaciuta di qualcosa.

Ma a Therese quel sorriso non piacque e, rendendosi conto che glielo sidoveva leggere in volto, abbassò lo sguardo sulla tavola. Sul piattodavanti a lei c’era adesso un bicchiere di zabaione fumante.

"Therese, le farebbe piacere venire a un cocktail-party, questopomeriggio? Verso le sei. Non so se ci saranno altri scenografi, ma unadelle ragazze che lo offrono è un’attrice."

Therese spense la sigaretta. "Ci sarà anche Carol?""No, lei no. Ma sono tutte persone molto alla mano. È un party con

pochi invitati.""Grazie. Non credo che potrò venirci, però. È probabile che debba

lavorare fino a tardi.""Ah. Volevo darle l’indirizzo ugualmente ma, se proprio non può

venire... "

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"No," disse Therese.Abby propose di fare un giro intorno all’isolato, quando uscirono dal

ristorante. Therese acconsentì, ma cominciava a essere stanca di Abby,ormai. Abby con la sua spavalderia, le sue domande così brusche e privedi tatto, tendeva a farle sentire d’avere un vantaggio su di lei. E, inoltre,non le aveva permesso di pagare il conto.

"Carol ha una grande opinione di lei," assicurò Abby. "Dice che ha ungran talento."

"Davvero?" si meravigliò Therese, credendoci solo in parte. "A me nonl’ha mai detto." Avrebbe voluto camminare più in fretta, ma Abby laobbligava a rallentare il passo.

"Deve saperlo che ha una grande opinione di lei, visto che vuoleportarla a fare un viaggio."

Therese le lanciò un’occhiata e vide che Abby le sorridevacandidamente. "A me non ha mai detto neppure questo," replicòtranquillamente, sebbene il cuore avesse preso a martellarle.

"Sono certa che lo farà. E lei ci andrà, vero?"Perché mai Abby avrebbe dovuto saperlo prima di lei? Therese sentì

una vampata di collera salirle al viso. Ma insomma, che cosa c’era sotto?Abby la odiava? Se sì, perché non lo dichiarava apertamente? Poi,l’istante dopo l’ondata di collera passò, lasciandola debole, vulnerabile eindifesa. Se in quel momento Abby l’avesse messa con le spalle al muro,dicendole: "Parla chiaro. Che cosa vuoi da Carol? Quanto di lei intenditogliermi?", lei si sarebbe messa a balbettare. Avrebbe risposto: "Vogliostare con lei. Adoro stare con lei, e tu che cosa c’entri in tutto questo?"

"Non toccherebbe a Carol parlarmene? Perché lei mi fa questedomande?" Therese faceva uno sforzo per sembrare indifferente, mainvano.

Abby smise di camminare. "Mi spiace," disse, girandosi verso di lei."Credo di comprendere meglio, ora."

"Comprendere cosa?""Semplicemente che... ha vinto lei.""Vinto cosa?""Cosa," fece eco Abby a testa alta, lo sguardo verso l’angolo di un

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edificio, verso il cielo, e d’improvviso Therese sentì d’esseretremendamente impaziente.

Voleva che Abby se ne andasse per poter telefonare a Carol. Nienteaveva importanza al di là della voce di Carol. Niente contava al di là diCarol, e perché lei aveva permesso a se stessa di dimenticarsene, sia pureper un istante?

"Non mi fa meraviglia che Carol la tenga tanto in considerazione,"disse Abby ma, se anche voleva essere un’osservazione gentile, Theresenon l’accettò come tale. "Arrivederla, Therese. Ci rivedremo, ne sonocerta." Abby le tendeva la mano.

Therese gliela strinse. "Arrivederla," ripeté. Rimase a guardare Abbyallontanarsi verso Washington Square, il passo più rapido, ora, la testaricciuta bene eretta.

Therese entrò nell’emporio all’angolo e chiamò Carol. Parlò prima conla cameriera, poi con Carol.

"Che cosa c’è?" domandò Carol. "Sembri giù di corda.""Niente. Il lavoro è noioso.""Hai da fare, stasera? Ti andrebbe di andar fuori?"Therese uscì dal negozio rinfrancata. Carol sarebbe passata a prenderla

alle cinque e mezzo. Aveva insistito per venire lei a prenderla, perché iltragitto in treno era una tale noia.

Sull’altro lato della strada, avviato nella direzione opposta alla sua,vide Dannie McElroy, che procedeva a lunghi passi e senza cappotto, conin mano una bottiglia di latte non incartata.

"Dannie!" chiamò.Dannie si voltò e subito mosse verso di lei. "Passi da me un

momento?" le gridò.Therese stava per dire di no, poi, come lui le fu accanto, gli prese il

braccio. "Un momento solo, però. Ho già avuto un lungo intervallo dicolazione."

Dannie la guardava dall’alto, sorridente. "Che ore sono? Ho studiatotanto che non ci vedo più."

"Le due passate." Sentì il braccio del giovane irrigidirsi per il freddo.Sull’avambraccio, sotto la nera peluria, aveva la pelle d’oca. "Sei matto a

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uscire senza giacca," disse."Mi schiarisce le idee." Le teneva aperto il cancello dal quale si

accedeva alla sua porta d’entrata. "Phil è fuori, da qualche parte."Nella stanza c’era odore di fumo di pipa. L’appartamento era un

seminterrato, in genere piuttosto buio, e la lampada metteva una caldapozza di luce sulla scrivania, costantemente ingombra. Therese guardò ilibri che vi stavano sopra, aperti, le pagine coperte di simboli che lei nonpoteva decifrare, ma che le piaceva guardare. Tutto ciò che quei simbolidescrivevano era vero e dimostrato. I simboli erano più forti e più definitidelle parole. Sentiva che, aggrappandosi a quelli, la mente di Dannieandava da un fatto all’altro, proprio come se lui, una mano dopo l’altra, siissasse su solide catene attraverso lo spazio. Lo osservava prepararsi unsandwich, in piedi presso il tavolo di cucina. Le spalle, sotto la camiciabianca, apparivano larghe e arrotondate dai muscoli, fatti lievementeguizzare dai movimenti necessari per disporre del salame e del formaggiotra due grandi fette di pane di segale.

"Vorrei che venissi più spesso, Therese. Il mercoledì è il solo giorno incui non sono a casa per l’ora di colazione. Se anche Phil dorme, noi,mangiando qualcosa, non lo disturbiamo affatto."

"Lo farò," promise Therese. Sedette sulla poltroncina della scrivania,che era mezzo girata in là. Era stata lì una volta per colazione, e un’altradopo il lavoro. Le piaceva venire a trovare Dannie. Con lui non c’erabisogno di fare della conversazione spicciola.

Nell’angolo della stanza, il divano letto di Phil era sfatto, lenzuola ecoperte in un groviglio. Le due volte in cui era stata lì in precedenza,aveva trovato il letto sfatto oppure ancora occupato da Phil. La lungalibreria, sporgendo ad angolo retto con il divano, faceva di quella partedella stanza un’unità a sé stante, un’unità costantemente in disordine, diun disordine frustrato e nervoso, ben diverso dall’operosa confusionedella scrivania di Dannie.

La lattina di birra fece udire un sibilo mentre Dannie l’apriva.Addossato alla parete con in mano la birra e il panino, lui ora lesorrideva, felice d’averla lì. "Ricordi quello che dicevi della fisica, chenon sarebbe applicabile agli esseri umani?"

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"Mmm. Vagamente.""Bene, non sono sicuro che tu abbia ragione," continuò lui, dando

intanto un morso al panino. "Prendi l’amicizia, per esempio. Possopensare a tutta una serie di casi in cui due persone non hanno niente incomune. Penso che ci sia una ragione ben definita per ogni amicizia,proprio come c’è una ragione per cui certi atomi si uniscono e altri no:certi fattori mancanti nell’uno, o certi fattori presenti nell’altro. Tu checosa ne pensi? Secondo me, le amicizie sono il risultato di determinatenecessità che possono rimanere nascoste a entrambe le persone, talvoltaaddirittura per sempre."

"Può darsi. Mi vengono in mente alcuni casi, anche." Richard e leistessa, per esempio. Richard sapeva cavarsela con la gente, farsi largo agomitate nel mondo come a lei non sarebbe stato possibile. Si era sempresentita attratta da persone che, come Richard, possedevano sicurezza in sestesse. "E la tua debolezza in che cosa consiste, Dannie?"

"La mia?" disse lui, sorridendo. "Vuoi essere mia amica?""Sì. Ma tu sei la persona più forte che io conosca.""Davvero? Devo enumerarle, le mie manchevolezze?"Anche lei sorrideva, guardandolo. Un giovane di venticinque anni che

aveva sempre saputo quel che voleva fare fin da quando ne avevaquattordici. Aveva incanalato tutta la sua energia in un’unica direzione:proprio il contrario di quello che aveva fatto Richard.

"Ho un bisogno segreto e molto nascosto di una cuoca," confessòDannie. "E di una maestra di ballo, nonché di qualcuno che mi ricordi difare piccole cose, come portare la roba a lavare e farmi tagliare i capelli."

"Nemmeno io mi ricordo di portare la roba in lavanderia.""Oh," mormorò sconsolato lui. "Allora è escluso. Pensare che mi ero

fatto delle illusioni. Avevo avuto una vaga sensazione di destino. Sìperché, vedi, quello che intendo sulle affinità vale dall’amicizia giù giùfino all’occasionale occhiata a qualcuno per la strada: c’è sempre unaragione definita da qualche parte. Penso che perfino i poeti sarebberod’accordo con me."

"Perfino i poeti?" ripeté divertita Therese. Le venne in mente Carol, epoi Abby, e quella loro conversazione a tavola che era stata tanto più di

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un’occhiata e tanto meno, e la sequenza di stati d’animo che avevaevocato in lei. Il ricordo la lasciò depressa. "Ma devi tenere conto delleperversità della gente, di cose che non hanno alcun senso."

"Tenere conto delle perversità? Quello è soltanto un sotterfugio. Unaparola usata dai poeti."

"Credevo che la usassero gli psicologi," disse Therese."Tenere conto, intendo dire: è un termine che non significa niente. La

vita è una scienza esatta nei propri termini, si tratta solo di trovarli e didefinirli. Che cosa non ha alcun senso per te?"

"Niente. Stavo pensando a qualcosa che, tanto, non ha importanza."D’improvviso si sentiva di nuovo in collera, come lo era stata subito dopoquella colazione.

"Che cosa?" tornò a insistere lui."Pensavo alla colazione che ho appena fatto.""Con chi?""Non ha importanza. Se ne avesse, te ne parlerei. Stavo pensando che è

stato solo uno spreco, come perdere qualcosa. Ma forse si trattava diqualcosa che non esisteva in partenza." Aveva desiderato provaresimpatia per Abby, visto che la provava Carol.

"Tranne che nella tua mente? Può essere ugualmente una perdita.""Sì... Ma ci sono persone, o cose che le persone fanno, delle quali alla

fine non puoi salvare proprio niente, perché niente le collega con te." Eradi qualcos’altro che lei voleva parlare, però, non di tutto questo. Non diAbby o di Carol, ma di prima. Qualcosa che si collegava perfettamente eche lo aveva, un senso. Lei amava Carol. Appoggiò la fronte contro lamano.

Dannie stette un momento a guardarla, poi si staccò dalla parete. Sigirò verso il fornello, prese un fiammifero dal taschino della camicia, eTherese sentì che la conversazione languiva, che avrebbe continuato alanguire senza mai concludersi, qualsiasi cosa avessero continuato a dire.Eppure, era certa che se avesse riferito a Dannie ogni parola che lei eAbby avevano scambiato, lui ne avrebbe chiarito i sotterfugi con unafrase, come se avesse spruzzato nell’aria una sostanza chimica capace diassorbire all’istante la nebbia. O c’era sempre qualcosa che la logica non

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poteva toccare? Qualcosa di illogico, dietro la gelosia, il sospetto el’ostilità nella conversazione di Abby, rappresentato da Abby in sé?

"Non tutto è semplice come una serie di combinazioni," aggiunseTherese.

"Ci sono cose che non reagiscono, ma tutto è vivo." Lui si era giratocon un gran sorriso, come se ora la sua mente fosse occupata da un altrotreno di pensieri. Reggeva il fiammifero, che era fumante. "Come questozolfanello. E non sto parlando di fisica, dell’indistruttibilità del fumo.Anzi, oggi mi sento piuttosto poetico."

"Sul fiammifero?""Sento come se stesse crescendo, come una pianta, e non scomparendo.

Sento che a volte, per un poeta, tutto deve avere lo stesso tessuto di unapianta. Perfino questo tavolo, così come la mia stessa carne." Sfiorò conil palmo l’orlo del tavolo. "È come la sensazione che ho provato unavolta, cavalcando su per una collina. Non sapevo cavalcare molto bene,allora, e ricordo che il cavallo, girando la testa e vedendo la collina,decise da sé di correre fin su in alto. Si abbassò sulle zampe posterioriprima che partissimo, e all’improvviso stavamo andando come il vento eio non avevo affatto paura. Mi sentivo perfettamente in armonia con ilcavallo e con il terreno, come se formassimo un albero i cui ramivenivano semplicemente scossi dal vento. Ricordo la mia certezza cheniente mi sarebbe capitato in quel momento, anche se in altre occasionimi sarebbe potuto accadere. E questo mi rendeva molto felice. Pensavo atutti quelli che sono timorosi e fanno incetta di cose, e risparmiano sestessi, e pensavo: quando al mondo ognuno comprenderà quello che hoprovato io, volando su per la collina, ecco che ci sarà una sorta di giustaeconomia del vivere, dell’usare e del consumare ogni cosa fino alla fine.Capisci quello che voglio dire?" Dannie serrava i pugni, ma gli occhi glibrillavano come se stesse ancora ridendo di se stesso. "Hai mai logoratoun maglione che ti piaceva particolarmente a forza di portarlo, dovendoalla fine buttarlo via?"

Lei pensò ai guanti di lana verde di suor Alicia, che non aveva nélogorato né gettato. "Sì," disse.

"Bene, ecco a che cosa alludevo. E agli agnelli che non si rendevano

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conto di quanta lana stessero perdendo mentre qualcuno li tosava per fareil maglione, perché gliene sarebbe cresciuta dell’altra, di lana." Si giròverso il caffè che aveva riscaldato, e che stava già bollendo.

"Sì." Lei aveva capito. Agli agnelli, o anche a Richard e all’aquilone,perché Richard poteva farne altri, di aquiloni. Pensò improvvisamente adAbby con un senso di vacuità, come se la colazione fosse stata sradicata.Per un istante, provò l’impressione che la sua mente avesse tracimato estesse galleggiando vuota nello spazio. Si alzò.

Dannie venne verso di lei, le mise le mani sulle spalle, e sebbene leisentisse che era soltanto un gesto, un gesto invece di una parola, l’incantosi ruppe. Si sentiva a disagio sotto il tocco di lui, e quel disagio era unpunto di concretezza. "Dovrei proprio andare," disse. "Sono molto inritardo."

Le mani del giovane scesero a serrarle con forza i gomiti contro ifianchi, poi d’improvviso lui la baciò, premendo per un attimo le labbracontro le sue, e lei ne avvertì l’alito caldo sul labbro superiore, prima chel’altro la lasciasse andare.

"Tu," le mormorò, fissandola."Perché l’hai..." S’interruppe, perché nel bacio si erano mescolate a tal

punto violenza e tenerezza che lei non sapeva come prenderlo."Perché, Terry," disse lui, girandosi in là e sorridendo. "Ti è

dispiaciuto?""No," disse lei."Dispiacerebbe a Richard?""Penso di sì." Si stava abbottonando il giaccone. "Devo andare," disse,

avviandosi alla porta.Dannie la spalancò per lei, sempre con quel suo sorriso tranquillo,

come se niente fosse accaduto. "Tornerai domani? Vieni per colazione."Lei scosse la testa. "Non credo. Avrò molto da fare, questa settimana.""D’accordo, vieni... Lunedì prossimo, sì?""Va bene." Gli sorrise a sua volta, tendendogli con gesto automatico la

mano, e Dannie gliela strinse, educatamente.Fece di corsa i due isolati fino al Black Cat. Un po’ come il cavallo,

pensò. Ma non abbastanza, non a sufficienza perché fosse perfetto, e

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quello che Dannie intendeva era perfetto.

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11"I passatempi della gente oziosa," disse Carol, stendendo le gambedavanti a sé sul dondolo. "È tempo che Abby si trovi di nuovo qualcosada fare."

Therese non fece commenti. Non aveva riferito a Carol tutta laconversazione al ristorante, ma non aveva più voglia di parlare di Abby.

"Non vuoi sederti su qualcosa di più comodo?""No," disse Therese. Era seduta su uno sgabello di pelle vicino al

dondolo. Avevano finito da poco di cenare, ed erano salite inquell’ambiente che Therese non aveva mai visto, una veranda a vetri allaquale si accedeva dalla stanza verde.

"Cos’altro ha detto, Abby, che ti ha dato fastidio?" domandò Carol,sempre guardandosi le lunghe gambe nei calzoni blu scuro che tenevastese davanti a sé.

Carol sembrava stanca. Era preoccupata per altre cose, Therese ne eracerta, cose ben più importanti di quella. "Niente. E a te dà fastidio,Carol?"

"A me?""Sei diversa con me, stasera."Carol le lanciò un’occhiata. "Te lo immagini," disse, e la gradevole

vibrazione della sua voce tornò a spegnersi nel silenzio.La pagina che ho scritto ieri sera, pensò Therese, non ha niente a che

fare con questa Carol, non era indirizzata a lei. "Sento d’essermiinnamorata di te," aveva scritto, "e che dovrebbe essere primavera.Voglio sentire il sole pulsarmi sulla testa come accordi di musica. Pensoa un sole come Beethoven, a un vento come Debussy, e a cinguettii comeStravinskij. Ma il ritmo musicale è tutto mio."

"Credo di non essere simpatica ad Abby," osservò Therese. "Credo nonle faccia piacere che ci frequentiamo."

"Non è vero. Stai di nuovo lavorando di fantasia.""Non che l’abbia detto, intendiamoci." Therese si sforzava di apparire

calma come Carol. "È stata gentilissima. Mi ha invitato a un cocktail-party."

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"In casa di chi?""Non lo so. Non ha precisato. Ha detto solo che tu non ci saresti stata,

per cui non tenevo particolarmente ad andarci.""Ma non sai dove?""Non me l’ha detto. So soltanto che una delle ragazze da cui era offerto

è un’attrice."Carol posò l’accendino sul tavolino di vetro con un lieve rumore secco,

e Therese intuì che era dispiaciuta. "Di nuovo," la sentì mormorare, quasia se stessa. "Vieni più vicino, Therese."

Therese si spostò, andando a mettersi proprio ai piedi del dondolo."Non devi pensare che Abby la pensi così sul tuo conto. La conosco

abbastanza bene per sapere che non è vero.""D’accordo," disse Therese."Ma è incredibilmente maldestra, a volte, nel modo di esprimersi."Therese voleva dimenticare l’intera faccenda. Carol era ancora così

distante, perfino mentre parlava, perfino mentre la guardava. Una strisciadi luce proveniente dalla stanza verde le batteva proprio sulla testa, maadesso non era più possibile, per lei, vederla bene in faccia.

Carol la toccò lievemente con la punta della scarpa. "Tirati su."Ma Therese fu lenta a muoversi, e Carol sollevò i piedi, facendoli

passare al di sopra della testa di Therese, e si mise a sedere bene eretta.Poi, Therese udì il passo della cameriera nella stanza accanto, e lagrassoccia domestica irlandese nell’uniforme bianca e grigia apparve conil vassoio del caffè, facendo, vibrare l’impiantito della veranda con i suoipassi brevi e rapidi, che suonavano così ansiosi di compiacere.

"La panna è qui, signora," disse, indicando una brocchetta che non siaccordava con il resto del servizio. Florence lanciò uno sguardo a Theresecon un sorriso cordiale e occhi tondi e inespressivi. Era sulla cinquantina,con una crocchia di capelli sulla nuca, sotto il candore inamidato dellacuffietta. Therese non riusciva a definirla in alcun modo, non sapevastabilire a chi dei due fosse fedele. L’aveva sentita riferirsi un paio divolte al signor Aird come se gli fosse sinceramente devota, ma sel’atteggiamento fosse professionale o genuino, non avrebbe saputo dirlo.

"Serve altro, signora?" domandò Florence. "Devo spegnere le luci?"

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"No, le luci lasciale. Non abbiamo bisogno d’altro, grazie. Hatelefonato la signora Riordan?"

"Non ancora, signora.""Le dici per favore che sono fuori, se chiama?""Sì, signora." Florence esitò. "Mi domandavo se aveva finito quel

nuovo libro, signora. Quello sulle Alpi.""Va’ in camera mia a prenderlo, Florence. Non ho nessuna voglia di

finirlo.""Grazie, signora. Buonanotte, signora. Buonanotte, signorina.""Buonanotte, Florence," rispose Carol.Mentre Carol versava il caffè, Therese domandò: "Hai poi deciso

quando vuoi partire?""Forse tra una settimana." Carol le porgeva la tazzina di caffè con

panna. "Perché?""Solo perché mi mancherai. È logico."Carol rimase immobile per qualche istante, poi si protese a prendere

una sigaretta, l’ultima del pacchetto, che appallottolò. "Stavo pensando,anzi, che potrebbe farti piacere venire con me. Che cosa ne pensi, per tresettimane, più o meno?"

Ecco, pensò Therese: l’ha detto, e con la stessa indifferenza con laquale mi avrebbe proposto di andare a fare due passi. "Ne aveviaccennato con Abby, vero?"

"Sì," disse Carol. "Perché?"Perché? Therese non riusciva a esprimere a parole perché l’addolorasse

che Carol l’avesse fatto. "Be’, perché sembra strano che tu l’abbia detto alei prima ancora di parlarne con me."

"Non l’ho detto a lei. Ho detto soltanto che forse te l’avrei chiesto."Carol le si avvicinò e le mise le mani sulle spalle. "Senti, non c’è motivoche tu la pensi così riguardo ad Abby... A meno che Abby non ti abbiadetto dell’altro, a colazione, che non mi hai riferito."

"No," disse Therese. No, ma erano i sottintesi, era qualcosa di peggio.Sentì che le mani di Carol si staccavano dalle sue spalle.

"Abby è amica mia da sempre," spiegò Carol. "Parlo di tutto con lei.""Certo," disse Therese.

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"Allora, pensi che ti farebbe piacere venire?"Carol si era girata in là, e d’improvviso la cosa non volle dire più

niente a causa del modo in cui Carol le aveva posto la domanda, come senon le importasse più di tanto che lei rispondesse sì oppure no. "Grazie...Non credo di potermelo permettere, al momento."

"Non avresti bisogno di molto denaro. Andremmo in macchina. Ma seti hanno offerto un lavoro da fare subito, allora è diverso."

Come se non fosse stata pronta a rifiutare l’incarico di un set per unballetto, pur di andare con Carol... Di viaggiare con lei attraverso postinuovi che non aveva mai visto, sopra fiumi e montagne, non sapendodove sarebbero state al calar della notte. Carol lo sapeva, questo, e sapevaanche che lei avrebbe rifiutato, se glielo avesse domandato in quel modo.Therese sentì all’improvviso che Carol si prendeva gioco di lei, e se nerisentì con il rancore amaro di chi si sente tradito. Rancore che si tramutònella decisione di non rivedere Carol mai più. Lanciò un’occhiataall’altra, che stava aspettando la sua risposta con quella sfida mascheratasoltanto in parte da un’aria di indifferenza, espressione che, Therese losapeva, non sarebbe cambiata affatto se lei avesse dato una rispostanegativa. Therese si alzò e andò verso la scatola sul tavolino per prendereuna sigaretta. Non c’era niente, nella scatola, salvo qualche puntina delgrammofono e una fotografia.

"Che cos’è?" domandò Carol, che la osservava.Therese sentì che Carol aveva letto tutti i suoi pensieri. "Una fotografia

di Rindy," rispose."Di Rindy? Fa’ vedere."Therese osservò la faccia di Carol intenta a contemplare la foto della

bimbetta con i capelli biondi, il faccino serio e la benda bianca fissatacon il cerotto su un ginocchio. Nella foto, Harge era in piedi in una barcaa remi, e Rindy da un pontile stava per calarglisi tra le braccia.

"Non è una gran bella fotografia," disse Carol, ma la sua espressioneera cambiata, si era addolcita. "Qui aveva circa tre anni. Volevi unasigaretta? Sono lì, guarda. Rindy andrà a stare con Harge per i prossimitre mesi."

Questo Therese l’aveva intuito dalla conversazione in cucina, quella

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mattina con Abby. "È nel New Jersey, questo posto?""Sì. La famiglia di Harge abita nel New Jersey. Hanno una grande

casa." Carol fece una pausa. "Il divorzio diverrà effettivo fra un mese,penso, e alla fine di marzo avrò io Rindy per il resto dell’anno."

"Ah. Ma la vedrai di nuovo prima di marzo, no?""Qualche volta. Probabilmente non molte."Therese guardava la mano di Carol reggere con noncuranza la

fotografia. "Non sentirà la tua mancanza?""Sì, ma vuole molto bene anche al padre.""Più di quanto ne vuole a te?""No. No, in realtà. Ma lui ora le ha comperato una capretta con cui

giocare. L’accompagna a scuola nell’andare al lavoro, e va a riprenderlaalle quattro. Trascura i suoi affari per lei: e che cosa si può chiedere dipiù a un uomo?"

"A Natale non l’hai vista, vero?""No. A causa di qualcosa che era successo nello studio dell’avvocato. È

stato nel pomeriggio in cui il legale di Harge ha voluto vederci entrambi,e Harge ha portato anche Rindy. Rindy ha detto di voler andare a casa diHarge, per Natale. Lei non sapeva che io quest’anno non ci sarei andata.Hanno un grande pino in mezzo al prato e decorano quello, perciò Rindyci teneva molto ad andare. A ogni modo, sull’avvocato ha fatto unagrande impressione, capisci, il fatto che la bambina chiedesse di passareil Natale con il padre. E, naturalmente, io non volevo dire a Rindy chenon ci sarei stata, altrimenti sarebbe rimasta delusa. Non avrei potutodirlo in nessun caso, in presenza dell’avvocato. Le macchinazioni diHarge già bastano e avanzano."

Therese ascoltava, schiacciando fra le dita la sigaretta ancora spenta.La voce di Carol era calma, come forse lo sarebbe stata se, invece che conlei, Carol avesse parlato con Abby. A lei, fino a quel momento, non avevamai fatto tante confidenze. "Ma l’avvocato ha capito?"

Carol accennò una stretta di spalle. "È il legale di Harge, non il mio.Così, ho acconsentito subito all’accordo di tre mesi fin da ora, perché nonvoglio che venga sballottata avanti e indietro. Se devo tenerla io per novemesi e Harge per tre, tanto vale che sia lui il primo ad averla."

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"Non andrai nemmeno a trovarla?"Carol tardò talmente a rispondere da far pensare a Therese che non

intendesse farlo. "Non molto spesso. I suoi non sono molto cordiali. Parlocon Rindy ogni giorno per telefono. A volte è lei che mi chiama."

"Perché i suoi non sono cordiali?""Non sono mai andata a genio ai miei suoceri. Hanno trovato da ridire

fin da quando Harge mi conobbe, a un party di debuttanti. Sonobravissimi nel criticare. A volte mi domando chi mai otterrebbe la loroapprovazione."

"Per che cosa ti criticano?""Per avere avuto un negozio di mobili, per esempio. Ma quello non è

durato neanche un anno. Poi perché non gioco a bridge, o perché non citengo a imparare. Si attaccano alle ragioni più strane, alle piùsuperficiali."

"Ma è gente orribile.""Non sono orribili. Semplicemente, sei tenuta a conformarti. Io lo so

che cosa vorrebbero, vorrebbero un vuoto da poter riempire. Una personache abbia già le sue idee li disturba tremendamente. Vogliamo ascoltareun po’ di musica? Tu non la senti mai, la radio?"

"Ogni tanto."Carol si appoggiò al davanzale della finestra. "E ora Rindy può vedere

la televisione ogni giorno. I film di cow-boy. Quanto le piacerebbe andarenell’Ovest! La bambola è stata l’ultima che comprerò mai per lei,Therese. Gliel’ho presa perché lei diceva di volerla, ma ormai è grande,non gioca più con le bambole."

Alle spalle di Carol, il faro di un aeroporto rischiarò di luce pallida ilcielo e scomparve. La voce di Carol sembrava indugiare nell’oscurità.Nei toni più vivaci e più felici, Therese poteva cogliere la profonditàdell’affetto di Carol per Rindy, una profondità con la quale,probabilmente, non avrebbe mai amato nessun altro. "Harge non ti rendefacile vederla, vero?"

"Lo sai, questo," disse Carol."Non vedo come potrebbe essere così innamorato di te.""Non è amore. È bisogno di dominare. Penso che voglia tenermi sotto

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controllo. Scommetto che se fossi molto più scatenata ma non avessi maiun’opinione su niente al di fuori delle sue... Riesci a seguirmi?"

"Sì.""Non ho mai fatto niente per metterlo in imbarazzo sotto il profilo

sociale, e quella è la sola cosa di cui gli importi. C’è una tale, al club, evorrei tanto che avesse sposato lei. Una che vive unicamente per offriredeliziose cenette, salvo poi farsi trasportare fuori dai migliori bar ubriacafradicia. Ha contribuito al grande successo dell’agenzia pubblicitaria delmarito, così lui sorride delle sue piccole colpe. Harge non sorriderebbeaffatto, ma almeno avrebbe qualche ragione precisa per lamentarsi. Pensoche abbia scelto me come avrebbe scelto un tappeto per il suo soggiorno,e ha commesso un grave errore. Dubito che sia capace di amare qualcuno,in realtà. Quello che ha è una sorta di avidità, che ha molto a che fare conla sua ambizione. Sta quasi per diventare una malattia, vero?, l’incapacitàdi amare." Carol guardò Therese. "Forse sono i tempi. Volendo, sipotrebbe ricavarne un caso di suicidio razziale. L’uomo che cerca dimettersi al passo con le proprie macchine distruttrici."

Therese taceva. Le tornavano alla mente le innumerevoli conversazionicon Richard, Richard che mescolava la guerra, l’alta finanza, la cacciaalle streghe del congresso e, infine, determinate persone di suaconoscenza in un solo grande nemico, la cui unica etichetta collettiva eral’odio. Ora, anche Carol. Therese si sentiva scossa nella parte piùprofonda del suo essere in cui non c’erano parole, nessuna parola facilecome morte, o il morire o l’uccidere. Erano in un certo senso parole delfuturo, mentre quello era il presente. Un’ansia inarticolata, un desideriodi conoscere, di sapere qualsiasi cosa, con certezza, le bloccava ora lagola al punto che per un attimo sentì di poter a stento tirare il respiro."Pensi, pensi?..." cominciava. "Pensi che tutt’e due faremo un giorno unafine violenta, verremo improvvisamente spente?" Ma perfino quelladomanda non era sufficientemente definita. Forse era una dichiarazione, aconti fatti: "Non voglio morire senza conoscerti. Provi la stessa cosa,Carol?" Quell’ultima domanda avrebbe anche potuto proferirla, ma nonavrebbe potuto dire tutto quello che la precedeva.

"Tu appartieni alla generazione dei giovani," disse Carol. "E che

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cos’hai da dire in proposito?" Era tornata a sedersi sul dondolo."Ritengo che la prima cosa sia di non avere paura." Therese si girò e

vide che Carol sorrideva. "E tu sorridi perché pensi che io ne abbia,immagino."

"Tu sei debole quasi quanto questo fiammifero." Carol resse perqualche istante il fiammifero acceso, prima di accostarlo alla sigaretta."Ma, date le condizioni adatte, saresti in grado di dare fuoco a una casa,giusto?"

"O a una città.""Ma non osi nemmeno venire a fare un viaggetto con me. Non ne hai il

coraggio perché pensi di non avere abbastanza denaro. ""Non è per questo.""Tu hai degli stranissimi valori, Therese. Ti ho chiesto di venire con

me, perché mi farebbe piacere la tua compagnia. Un viaggio farebbe beneanche a te, credo, e sarebbe utile anche al tuo lavoro. Ma tu devi subitosciupare tutto per uno sciocco orgoglio riguardo al denaro. Come laborsetta che mi hai regalato: sproporzionato, come regalo. Perché non tela riprendi, se hai bisogno di soldi? Ma regalarmela ti faceva piacere,immagino. È la stessa cosa, capisci. Solo che io mi comporto in modosensato, tu no." Carol si alzò, le passò accanto e tornò a girarsi verso dilei. "Bene, lo trovi buffo?"

Therese sorrideva. "Non è del denaro che m’importa.""Che cosa vuoi dire?""Solo questo. Ce l’ho il denaro per venire Verrò."Carol la fissava, ora. Therese la vide rasserenarsi, poi sorridere a sua

volta, sorpresa e un po’ incredula."Be’, splendido," disse Carol. "Sono contentissima.""Anch’io.""Che cosa ha prodotto questo felice cambiamento?"Non lo sa proprio, si disse Therese. "Sembra che ti importi davvero che

io venga oppure no.""Ma certo che mi importa. Te l’ho chiesto, no?" ribatté Carol, ancora

sorridente, ma poi con una brusca giravolta le voltò le spalle e si diresseverso la stanza verde.

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Therese la guardò allontanarsi, le mani nelle tasche, i mocassini chefacevano un lieve e lento fruscio sul pavimento. Therese rimase a fissarela soglia ormai deserta, pensando che Carol avrebbe lasciato la stanzaesattamente nello stesso modo, se lei avesse detto: "No, non vengo."

A sua volta si avviò e attraversò il corridoio, fino alla porta dellastanza di Carol. "Che cosa stai facendo?"

Carol, china sulla toletta, scriveva. "Che cosa sto facendo?" Si rialzò esi infilò in tasca un foglietto. Sorrideva davvero, adesso, con gli occhi,come quel mattino in cucina, con Abby. "Qualcosa," disse. "Su, sentiamoun po’ di musica."

"Bene.""Perché non ti prepari per andare a letto, prima? È tardi, lo sai?""Si fa sempre tardi, con te.""È un complimento?""Non ho nessuna voglia di andare a letto, stasera."Carol attraversò il corridoio, diretta verso la stanza verde. "Preparati.

Hai gli occhi cerchiati dalla stanchezza."Therese si svestì in fretta nella stanza con i letti gemelli. Il fonografo

nell’altra stanza suonava Embraceable You. Poi, squillò il telefono.Therese aprì il primo cassetto del comò. Era vuoto, salvo un paio difazzoletti da uomo, una vecchia spazzola per abiti e una chiave. E alcunecarte in un angolo. Therese prese in mano una specie di tessera. Era unavecchia patente di guida appartenente ad Harge. Hargess Foster Aird. Età:37 anni. Altezza: 1,72. Peso: 75. Capelli: biondi. Occhi: azzurri. Theresela rimise dove stava e chiuse il cassetto, poi andò alla porta e ascoltò.

"Mi spiace, Tessie, ma non ce l’ho fatta," stava dicendo Carol in tonodi rincrescimento, ma la voce era felice. "È una bella festa?... Bene, nonsono vestita e sono stanca."

Therese andò verso il tavolino da notte e prese una sigaretta dallascatola. Una Philip Morris. Therese era certa che Carol le avesse messelà, non la cameriera, perché Carol ricordava che a lei piacevano. Nuda,ora, Therese si fermò ad ascoltare la musica. Era una canzone che lei nonconosceva.

Ma Carol era di nuovo al telefono?

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"Be’, non mi va," la sentì dire Therese, in tono mezzo arrabbiato,mezzo scherzoso, "neanche un po’."

... It’s easy to live... When you are in love..."Cosa ne so di che specie di persone sono?... Oh-ho! È così?"Abby, Therese ne era certa. Soffiò fuori il fumo e ne aspirò le volute

dall’odore dolciastro, ripensando alla prima sigaretta che aveva fumato,una Philip Morris, sul tetto di uno dei dormitori, dalle suore, facendo tiria turno con altre tre compagne.

"Sì, ci andiamo," disse con enfasi Carol. "Bene, io sì. Non si sente dacome lo dico?"

... For you... Maybe l’m a fool but it’s fun... People say you rule mewith one... Wave of your hand... Darling it’s grand... They just don’tunderstand...

Era una bella canzone. Therese chiuse gli occhi e si appoggiò alla portasemiaperta, ascoltando. Dietro la voce, c’era un lento accompagnamentopianistico che scorreva per tutta la tastiera. E una pigra tromba.

Carol stava dicendo: "Sono affari esclusivamente miei, dico bene?...Sciocchezze!" E Therese sorrise di tanta veemenza.

Poi, chiuse la porta. Il fonografo aveva lasciato cadere sul piatto unaltro disco.

"Perché non vieni a dire ’ciao’ ad Abby?" la chiamò Carol.Therese si era nascosta dietro la porta del bagno, dato che era nuda.

"Perché?""Vieni, su," disse Carol, e Therese si infilò una vestaglia e andò."Salve," disse Abby. "Sento che ha deciso di andare.""È una novità per lei?"Abby si esprimeva in modo sciocco, come se avesse voluto

chiacchierare per tutta la notte. Augurò a Therese un piacevole viaggio, leparlò delle strade della Corn Belt, la fascia del granturco, e di comepotessero essere pericolose d’inverno.

"Mi perdona se oggi sono stata scortese?" disse poi per la secondavolta. "Guardi che ho proprio simpatia per lei, Therese."

"Taglia, taglia," le fece segno Carol."Vuole parlare di nuovo con te," disse Therese.

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"Di’ ad Abigail che sono nella vasca."Therese riferì, e riuscì a liberarsi.Carol aveva portato nella stanza una bottiglia e due bicchieri."Ma che cos’ha Abby?" domandò Therese."In che senso, cos’ha?" Carol versò un liquido marrone nei due

bicchieri. "Credo che ne abbia bevuti un paio di troppo, stasera.""Lo so. Ma perché avrà voluto fare colazione con me?""Be’, credo per un sacco di ragioni. Assaggia un po’ di questa roba.""Mi sembra tutto molto vago," disse Therese."Che cosa?""Mah, quella colazione."Carol le porse un bicchiere. "Alcune cose sono sempre vaghe, tesoro."Era la prima volta che Carol la chiamava così. "Quali cose?" Therese

voleva una risposta, una risposta ben chiara.Carol sospirò. "Un sacco di cose. Le più importanti, a volte. Assaggia il

tuo liquore."Therese prese un sorso. Era dolce e scuro, come caffè, ma si sentiva

l’alcool. "Buono.""Me l’immaginavo.""Perché lo bevi, se a te non piace?""Perché è un po’ diverso. Bevo al nostro viaggio, affinché riesca

qualcosa di diverso." Con una smorfia, Carol vuotò il bicchiere.Nella luce della lampada, Therese poteva vedere tutte le lentiggini su

un lato della faccia di Carol e il sopracciglio pallidissimo e simile aun’ala attorno alla curva della fronte. D’improvviso, si sentivaestaticamente felice. "Cos’era quella canzone che sentivo poco fa, quellache aveva soltanto l’accompagnamento del pianoforte?"

"Accennami il motivo."Lei ne fischiettò una parte, e Carol assentì."È Easy Living,” disse. "Una vecchia canzone.""Vorrei tanto risentirla.""E io vorrei che ti coricassi. Te la farò risentire."Carol andò nella stanza verde, e vi rimase mentre il disco suonava.

Therese si trattenne presso la porta di camera sua ad ascoltare,

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sorridendo.... I’ll never regret... The years l’m giving... They’re easy to give, when

you’re in love... I’m happy to do whatever I do for you...Era proprio la sua canzone. Esprimeva tutto quello che lei provava per

Carol. Andò nel bagno prima che fosse finita, aprì il rubinetto, entrò nellavasca e lasciò che l’acqua salisse intorno alle sue caviglie.

"Ehi!" le gridò Carol. "Sei mai stata nel Wyoming?""No.""È tempo che tu veda l’America."Therese sollevò la manopola inzuppata e se la premette contro il

ginocchio. L’acqua era alta, ormai, e i suoi seni sembravano cose piatteche galleggiassero sulla superficie. Se li studiò, cercando di decidere checosa sembrassero, oltre a quello che erano.

"Non addormentarti là dentro," raccomandò Carol con vocepreoccupata, e Therese capì che doveva essersi seduta sul letto, a studiareuna mappa.

"Sta’ tranquilla.""Be’, a qualcuno capita.""Dimmi qualcos’altro di Harge," la esortò Therese, mentre si

asciugava. "Che cosa fa?""Un sacco di cose.""Sì, ma di che cosa si occupa?""Di investimenti nel campo immobiliare.""Che tipo è? Gli piace andare a teatro, frequentare gente?""Frequenta volentieri solo un piccolo gruppo di persone che giocano a

golf," disse Carol, sbrigativa. Poi, a voce più alta: "E cos’altro? E moltometicoloso in tutto. Ma ha dimenticato qui il suo rasoio migliore. Ènell’armadietto dei medicinali, e puoi vederlo, se ci tieni, eprobabilmente lo farai. Dovrò spedirglielo per posta, immagino."

Therese aprì l’armadietto. Vide il rasoio. L’armadietto era ancorapieno di cose da uomo, lozioni dopobarba e pennelli da barba. "Era la suastanza, questa?" s’informò nell’uscire dal bagno. "In quale lettodormiva?"

Carol sorrise. "Non nel tuo."

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"Posso berne ancora un goccio?" domandò Therese, guardando labottiglia di liquore.

"Certo.""Posso darti il bacio della buonanotte?"Carol stava ripiegando la mappa, sporgendo le labbra come per

mettersi a fischiettare. "No.""Perché no?" Tutto sembrava possibile, quella sera."Ti darò questo, invece." Carol sfilò la mano dalla tasca.Era un assegno. Therese lesse l’importo, duecento dollari, pagabili a

lei. "Perché, questo?""Per il viaggio. Non voglio che tu spenda il denaro destinato a

quell’iscrizione al sindacato." Carol prese una sigaretta. "Non ti serviràtutta la cifra, mi fa solo piacere dartela."

"Ma non ne ho bisogno," disse Therese. "Ti ringrazio. Non mi importase anche spendo i soldi dell’iscrizione."

"Niente storie," la interruppe Carol. "Mi fa piacere offrirteli, ricordi?""Ma io non voglio prenderli." L’aveva detto in tono sbrigativo, così

accennò un sorriso nel posare l’assegno sul tavolino da notte, accanto allabottiglia di liquore. Ma l’aveva posato con gesto un po’ brusco, senzavolerlo. Avrebbe voluto poterlo spiegare, a Carol: di quel denaro lei nonaveva alcun bisogno ma, dato che a Carol faceva piacere offrirglielo, ledispiaceva anche non accettarlo. "Non mi va l’idea in sé," disse. "Pensa aqualcos’altro." Guardava Carol. Poi si rallegrò nello scoprire che Carol,pur fissandola a sua volta, non aveva intenzione di mettersi a discutere.

"A qualcos’altro che mi dia piacere?" domandò.Therese s’illuminò. "Sì," disse, e prese il bicchiere."D’accordo," concesse Carol. "Ci penserò. Buonanotte." Carol si era

fermata presso la porta.Uno strano modo di darsi la buonanotte, pensò Therese, in una serata

così importante. "Buonanotte," rispose.Si girò verso il tavolino da notte e vide di nuovo l’assegno. Ma toccava

a Carol stracciarlo. Lo spinse sotto l’orlo del tappetino blu, così danasconderlo.

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SECONDA PARTE

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12Gennaio.

Era ogni genere di cose, ed era una cosa sola, come una solida porta. Lasua temperatura gelida chiudeva la città in una capsula di grigiore.Gennaio era una serie di momenti, ed era un intero anno. Gennaio facevapiovere istanti, e li cristallizzava nella memoria: la donna che lei avevavisto scrutare ansiosamente i nomi, alla luce di un fiammifero, in unandrone buio, l’uomo che scarabocchiava qualcosa e porgeva il pezzettodi carta all’amico prima che si separassero sul marciapiede, l’uomo chefaceva tutto un isolato di corsa per prendere un autobus e ci riusciva.Ogni azione umana sembrava avere un che di magico. Gennaio era unmese bifronte, tintinnante come i campanelli di un giullare,scricchiolante come neve incrostata, puro come qualsiasi inizio, arcignocome un vecchio, misteriosamente familiare e tuttavia ignoto, come unvocabolo che si può quasi ma non del tutto definire.

Un giovane di nome Red Malone e un falegname calvo lavoravano conlei al set di Small Rain. Il signor Donohue ne era molto soddisfatto. Leaveva detto di avere chiesto a un certo Baltin di venire a vedere il suolavoro. Baltin era un diplomato di un’accademia russa, e aveva disegnatoalcuni scenari per i teatri di New York. Therese non l’aveva mai sentitonominare. Aveva tentato di indurre Donohue a procurarle unappuntamento con Myron Blanchard o con Ivor Harkevy, ma Donohuenon faceva mai promesse. Non potrà, supponeva Therese.

Baltin arrivò, un pomeriggio, alto, curvo, con un cappello nero e uncappotto malandato, e osservò attentamente il lavoro che lei gli mostrò.Therese aveva portato soltanto tre o quattro modelli lì al teatro, imigliori. Baltin le parlò di una commedia che doveva andare inproduzione di lì a sei settimane. L’avrebbe con piacere raccomandatacome assistente, e Therese assicurò che la cosa faceva perfettamente alcaso suo, poiché nel frattempo sarebbe stata fuori città. Stava andandotutto molto bene da alcuni giorni. Il signor Andronich le aveva promessoun incarico di due settimane a Filadelfia per la metà di febbraio, periodoin cui lei sarebbe stata praticamente di ritorno dal viaggio con Carol.

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Therese si scrisse il nome e l’indirizzo dell’uomo che Baltin conosceva."Sta cercando qualcuno, al momento, perciò gli telefoni al più presto,"

raccomandò Baltin. "Si tratterà di un semplice incarico come aiutante, mal’aiutante che c’era prima di lei, un mio allievo, ora lavora con Harkevy."

"Oh. Per caso le sarebbe possibile... O magari a lui, procurarmi unincontro con Harkevy?"

"Niente di più facile. Non deve fare altro che telefonare allo studio diHarkevy e chiedere di Charles. Charles Winant. Gli dica che ha parlatocon me. Vediamo... Lo chiami venerdì. Venerdì pomeriggio, verso le tre."

"D’accordo. La ringrazio." Mancava un’intera settimana al venerdì.Harkevy non era inavvicinabile, aveva sentito dire Therese, ma avevafama di non dare mai appuntamenti, meno che mai di mantenerli se percaso ne dava, perché era occupatissimo. Ma forse Baltin lo sapeva.

"E non si dimentichi di telefonare a Kettering," raccomandò Baltinnell’andarsene.

Therese guardò di nuovo il nome che lui le aveva dato: AdolphKettering, Theatrical Investments, Inc., a un indirizzo privato. "Lochiamerò lunedì mattina. E grazie ancora."

Era sabato, giorno in cui lei doveva vedersi con Richard al Palermo,dopo il lavoro. Mancavano undici giorni alla data in cui lei e Carolavevano in programma di partire. Vide Richard in piedi con Phil al bar.

"Bene, come va il vecchio Cat?" s’informò Phil, avvicinando unosgabello per lei. "Ci si lavora anche di sabato?"

"Il cast non lavorava. Solo il mio settore," rispose lei."A quando la prima?""Il 21.""Guarda," disse Richard. Indicava una macchia di vernice verde scuro

sulla gonna di lei."Lo so, me la sono fatta qualche giorno fa.""Che cosa ti andrebbe di bere?" le domandò Phil."Non saprei. Forse una birra, grazie." Richard aveva voltato le spalle a

Phil, che era seduto all’altro lato, e Therese avvertì che c’era delmalanimo fra loro. "Hai dipinto qualcosa, oggi?" domandò a Richard.

Richard aveva un mezzo sorriso amaro. "Ho dovuto sostituire un

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autista ammalato. Sono rimasto senza benzina nel bel mezzo di LongIsland."

"Oh. Mi spiace. Forse domani preferirai dipingere che andare daqualche parte." Avevano parlato di andare fino a Hoboken, l’indomani,tanto per passeggiare un po’ e pranzare alla Clam House. Ma Carolsarebbe stata in città, l’indomani, e aveva promesso di telefonarle.

"Dipingerò se tu poserai per me," disse Richard.Therese esitò, a disagio. "Proprio non me la sento di posare, in questi

giorni.""D’accordo. Non ha importanza." Lui le sorrise. "Ma come potrò farti

il ritratto, se non ti va mai di posare?""Perché non lo fai a memoria?"Phil fece scivolare una mano sul banco fino a trattenere il bicchiere di

Therese. "Non berla, questa. Ordina qualcosa di meglio. La birra la berròio."

"D’accordo. Proverò un whisky con acqua."Ora Phil si era seduto di fianco a lei. Sembrava allegro, ma aveva gli

occhi un po’ cerchiati. Nel corso della settimana, chiuso in se stesso, siera dedicato a scrivere una commedia. Ne aveva letto alcune scene ad altavoce durante il suo party di Capodanno. Phil la definiva un’estensionedella Metamorfosi di Kafka. Lei, la mattina del primo dell’anno, avevabuttato giù uno schizzo per uno scenario, e lo aveva mostrato a Philquando era andata a trovarlo. E, d’improvviso, le venne in mente cheforse da questo dipendeva il muso lungo di Richard.

"Terry, dovresti proprio fare un modello da poter fotografare, da quelloschizzo che mi hai mostrato. Mi piacerebbe avere un set da unire alcopione." Phil spinse verso di lei il whisky allungato e si appoggiò albanco, restandole vicinissimo.

"Posso provare," disse Therese. "Davvero hai intenzione di cercare difarla produrre?"

"Perché no?" I neri occhi di Phil la sfidavano, al di sopra del sorriso.Poi lui schioccò le dita all’indirizzo del barman. "Il conto."

"Pago io," disse Richard."Neanche per sogno. Tocca a me." Phil aveva già in mano il suo

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vecchio portafogli nero.Therese stava pensando che la commedia non sarebbe mai stata

prodotta, e forse nemmeno finita, perché Phil andava soggetto a continuisbalzi d’umore.

"Ora io devo andare," disse Phil. "Fatti vedere presto, Terry. Ciao,Rich."

Therese lo guardò allontanarsi e salire i pochi scalini d’ingresso, piùtrasandato di come lo avesse mai visto, in sandali e liso giaccone da polo,e tuttavia con un’attraente nonchalance nella sua trascuratezza. Come unoche si aggiri per casa nella sua vecchia vestaglia preferita, pensò Therese.Gli ricambiò il gesto di saluto attraverso la vetrina del locale.

"So che hai portato birra e panini a Phil, il primo dell’anno," disseRichard.

"Sì. Mi aveva telefonato per dirmi che non si sentiva bene. Avevabevuto troppo durante il party."

"Perché non me ne hai parlato?""Me ne sarò scordata, penso. Non era niente di importante.""Niente di importante. Se passi..." Richard muoveva la mano rigida in

modo lento, disorientato. "Se passi metà della giornata nell’appartamentodi un tale, portandogli panini e birra? Non ti è venuto in mente cheanch’io avrei potuto desiderare dei panini, per esempio?"

"Semmai, tu avevi un sacco di gente intorno per procurarteli. Noiavevamo mangiato e bevuto tutto a casa di Phil, ricordi?”

Richard assentì, sempre con lo stesso sorriso scontento. "Ed eri solacon lui, soltanto voi due."

"Oh, Richard..." Therese ricordava, ora, e la cosa era talmente priva diimportanza. Dannie non era tornato dal Connecticut, quel giorno. Avevapassato Capodanno in casa di uno dei suoi professori. Lei aveva speratoche Dannie rientrasse quel pomeriggio a casa di Phil, ma a Richardquesto non sarebbe mai passato per la mente, e neppure che lei preferissedi gran lunga Dannie a Phil.

"Se l’avesse fatto un’altra ragazza, sospetterei che ci fosse sottoqualcosa, e probabilmente avrei ragione," continuò Richard.

"Sei proprio uno sciocco."

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"E tu sei proprio un’ingenua." Richard la guardava in modo duro,risentito, e Therese pensava: non può certo essere solo questo, il motivodi tanto rancore. Richard mal sopportava il fatto che lei non fosse népotesse mai essere come lui la voleva, ossia una ragazza che lo amavaappassionatamente, felice di andare in Europa con lui. Una ragazza comelei era, con la sua faccia, con le sue ambizioni, ma che lo adorava. "Nonsei il tipo di Phil, sai," aggiunse Richard.

"Chi mai ha detto che lo sono? Phil?""Quel buffone, quella mezza cartuccia di un dilettante," borbottò

Richard. "E ha avuto la faccia tosta di esprimere la sua opinione nonrichiesta, stasera, e di dire che non te ne frega niente di me."

"Non ha alcun diritto di dirlo. Non ho discusso di te, con lui.""Ah, ma che bella risposta. Vuoi dire che, in quel caso, l’avrebbe

saputo che non te ne importava un corno, eh?" Richard lo disse concalma, ma la sua voce tremava di rabbia.

"Cos’ha improvvisamente Phil contro di te?" domandò lei."Non è questo il punto!""E qual è, allora?" scattò, spazientita."Oh, Terry, finiamola.""Non sai che cosa rispondere," disse Therese. Ma, vedendo Richard

voltarsi dall’altra parte e spostare i gomiti lungo il banco, quasi cometorcendosi fisicamente sotto le parole di lei, avvertì un improvviso sensodi compassione. Non era il presente, o la settimana trascorsa, ainnervosirlo, ma l’intera passata e futura futilità dei suoi sentimenti perlei.

Richard schiacciò la sigaretta nel portacenere sul banco. "Che cosavuoi fare stasera?" domandò.

Dirti del viaggio con Carol, pensò lei. Già due volte aveva avutointenzione di dirglielo, e aveva rimandato. "Tu vuoi fare qualcosa?"Calcò di proposito l’ultima parola.

"Ma certo," rispose lui, depresso. "Che ne diresti di cenare e poi ditelefonare a Sam e Joan? Forse potremmo andare a trovarli, stasera."

"D’accordo." Detestava l’idea. Due delle persone più noiose che avessemai conosciuto, un commesso di calzoleria e una segretaria, felicemente

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sposati, che abitavano nella Ventesima Strada Ovest. Sapeva che Richardintendeva indicarglieli come un modello di vita ideale, rammentarle cheanche per loro due, un giorno, sarebbe stato possibile vivere nello stessomodo. Detestava l’idea, e in qualsiasi altra sera si sarebbe forse ribellata,ma la compassione per Richard prevaleva ancora in lei, e si trascinavadietro un’amorfa scia di colpa e la necessità di fare ammenda.D’improvviso, le tornò alla mente un picnic che avevano fatto l’estateprecedente, dalle parti di Tarrytown, ricordò esattamente Richardallungato sull’erba e intento a intagliare lentamente col temperino untappo di sughero, mentre chiacchieravano di... Di che cosa? Marammentava ancora quell’istante di appagamento, la convinzione chequel giorno loro due dividessero qualcosa di reale e di raro, e si domandòche fine avesse fatto, ora, e su che cosa si fosse basato. Perché ormaiperfino la lunga e piatta figura di lui fermo lì accanto sembravaopprimerla con il suo peso. Represse a forza il suo risentimento, che peròdivenne solo più greve dentro di lei, come qualcosa di concreto. Guardòle figure massicce dei due operai italiani fermi lì al bar, e le due ragazzeall’estremità del bancone che già aveva notato prima. Vide, ora che se nestavano andando, che vestivano entrambe in modo molto mascolino. Unaaveva addirittura i capelli tagliati come quelli di un ragazzo. Distolse losguardo, consapevole di evitarle, di evitare di farsi vedere a guardarle.

"Vuoi mangiare qui? Hai già appetito?" domandò Richard."No. Andiamo da qualche altra parte."Così uscirono e si avviarono verso nord, in direzione della casa di Sam

e Joan.Therese provò mentalmente le prime parole fino a renderle il più

possibile neutre. "Ricordi la signora Aird, quella che hai incontrato quelgiorno da me?"

"Certo.""Mi ha invitata ad andare a fare un viaggio con lei, un giro in macchina

all’Ovest, per un paio di settimane circa. Mi piacerebbe andarci.""All’Ovest? In California?" domandò Richard, sorpreso. "Perché?""Perché?""Be’... La conosci così bene, in fin dei conti?"

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"L’ho rivista diverse volte.""Ah. Be’, non me ne avevi parlato." Richard le camminava accanto,

lasciando dondolare le mani lungo i fianchi e fissandola. "Soltanto voidue?"

"Sì.""Quando dovreste partire?""Verso il 18.""Di questo mese?... Allora non assisterai al tuo spettacolo."Lei scosse la testa. "Non sarà una gran perdita.""Insomma, è deciso?""Sì."Lui rimase un momento in silenzio. "Che specie di persona è? Non sarà

una che beve o che so io, vero?""No." Therese sorrise. "Ha l’aspetto di una che beve?""No. Anzi, trovo che sia una gran bella donna. Sono solo

maledettamente sorpreso, tutto qui.""Perché?""È così raro che tu prenda una decisione su qualcosa. Probabilmente

cambierai di nuovo idea.""Non credo.""Forse posso rivederla una volta insieme a te. Perché non combini un

incontro?""Ha detto che domani sarebbe venuta in città. Non so quanto tempo

abbia a disposizione, o se veramente telefonerà oppure no."Richard non disse altro e neppure Therese. Per quella sera non

parlarono più di Carol.Richard passò la domenica mattina a dipingere, e si presentò a casa di

Therese verso le due. Era là quando Carol telefonò, un po’ più tardi.Therese le disse che c’era Richard da lei, e Carol rispose: "Porta anchelui." Poi spiegò d’essere dalle parti del Plaza, e che potevano vedersi là,nella Palm Room.

Una mezz’ora dopo, Therese vide Carol levare lo sguardo verso di loroda un tavolo quasi al centro della sala e, quasi come la prima volta, comel’eco di un effetto che era stato tremendo, provò un vivo turbamento nel

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vederla. Carol aveva lo stesso vestito nero con la sciarpa verde e oro cheaveva indossato quel giorno a colazione. Ma ora Carol prestava piùattenzione a Richard che a lei.

La conversazione si svolgeva inane, fra tutt’e tre, e Therese, vedendo lacalma nei grigi occhi di Carol che solo una volta si girarono verso di lei,vedendo l’espressione quanto mai indifferente sulla faccia di Richard,avvertiva una sorta di disappunto. Richard aveva fatto il possibile perincontrarsi con Carol, ma Therese pensava che non fosse stato tanto percuriosità quanto perché non aveva nient’altro da fare. Lo vide osservarele mani di Carol, le unghie curate e laccate di rosso, lo vide notarel’anello dal limpido smeraldo verde, e la fede matrimoniale alla sinistra.Richard non poteva dire che fossero mani inutili, mani oziose, nonostantele unghie piuttosto lunghe. Le mani di Carol erano forti, e si muovevanocon gesti essenziali. La voce di lei emergeva dal mormorio incolore dellealtre voci che li attorniavano, parlando con Richard di inezie, e a un certopunto lei rise.

Poi, Carol la guardò. "Hai detto a Richard che vorremmo andare a fareun viaggio?"

"Sì. Ieri sera.""All’Ovest?" domandò Richard."A me piacerebbe andare verso il Nordovest. Dipende dalle strade."E, d’improvviso, Therese fu presa da impazienza. Perché se ne stavano

lì a tenere una specie di conferenza in proposito? Parlavano ditemperature, ora, e dello stato di Washington.

"Quello di Washington è il mio stato natale," disse Carol. "In pratica."Poi, alcuni momenti dopo, Carol domandò se qualcuno avesse voglia di

fare una passeggiata nel parco. Richard pagò le loro birre e il caffè,sfilando una banconota dalla confusione di biglietti di banca e di spiccioliche gli gonfiava la tasca. Quanto è indifferente Richard a Carol, tuttosommato, pensava Therese. Sentiva che lui neppure la vedeva, così comenon aveva visto figure nelle formazioni di roccia o di nuvole quando leiaveva tentato di indicargliele. Ora stava fissando il tavolo, la linea sottilee incurante della bocca atteggiata a un mezzo sorriso mentre siraddrizzava e si passava rapidamente una mano fra i capelli.

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Dall’entrata del parco sulla Cinquantanovesima Stradas’incamminarono verso lo zoo, che poi attraversarono lentamente.Proseguirono sotto il primo ponte al di sopra del sentiero, dove questofaceva una curva e cominciava il parco vero e proprio. L’aria era fredda eimmobile, piuttosto tetra, e Therese avvertiva un’immobilità in tutto,perfino nel lento procedere delle loro persone.

"Devo andare in cerca di qualche nocciolina?" domandò Richard.Carol se ne stava china al margine del sentiero, la mano tesa verso uno

scoiattolo. "Ho qualcosa," disse sottovoce, e lo scoiattolo trasalì al suonodelle sue parole ma continuò ad avvicinarsi, le afferrò le dita in una presanervosa, addentò qualcosa e schizzò via. Carol si rialzò, sorridente."Avevo qualcosa in tasca da questa mattina."

"Dà da mangiare agli scoiattoli, là dove vive?" domandò Richard."Agli scoiattoli e ai tamia," rispose Carol.Di quante cose noiose parlano, pensava Therese.Poi sedettero su una panchina a fumare una sigaretta, e Therese,

osservando un piccolo sole calare il suo disco arancione tra i rami neri esparuti di un albero, desiderò che fosse già scesa l’oscurità e di ritrovarsisola con Carol. S’incamminarono sulla via del ritorno. Therese si disseche, se ora Carol avesse dovuto tornare a casa, lei avrebbe fatto qualcosadi violento. Come gettarsi dal ponte della Cinquantanovesima Strada. Oingoiare le tre compresse di benzedrina che Richard le aveva dato lasettimana precedente.

"Vi andrebbe di prendere un tè da qualche parte?" propose Carolmentre si avvicinavano di nuovo allo zoo. "Che ne dite di quel localerusso vicino alla Carnegie Hall?"

"C’è il Rumpelmayer a due passi," disse Richard. "Le piace ilRumpelmayer?"

Therese sospirò, Carol parve esitare. Ma si diressero là. Theresericordava d’esserci stata una volta con Angelo. Un locale che non lepiaceva affatto. Le luci troppo vivide le davano la sensazione d’esserenuda, ed era irritante non sapere se stavi guardando una persona ol’immagine riflessa da uno specchio.

"No, per me niente, grazie," disse Carol, scuotendo la testa davanti al

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grande vassoio di paste che la cameriera reggeva.Ma Richard qualcosa scelse. Due paste, sebbene Therese avesse

rifiutato."La seconda a che serve, nel caso io cambi idea?" domandò lei, e

Richard le fece l’occhietto. Aveva di nuovo le unghie sudicie, notòTherese.

Richard domandò a Carol che specie di macchina avesse, ecominciarono a discutere i pregi delle diverse marche d’auto. Theresevide Carol lanciare occhiate ai tavoli che aveva di fronte. Non piaceneanche a lei questo posto, pensò. A sua volta osservò un tale nellospecchio posto di sbieco dietro a Carol. L’uomo volgeva le spalle aTherese e, proteso in avanti, si rivolgeva animatamente a una donna,agitando la mano sinistra allargata per dare enfasi. Guardò poi la donnamagra, di mezz’età, con la quale l’uomo stava parlando, e di nuovo lui,domandandosi se l’aura di familiarità che emanava fosse reale oun’illusione come lo specchio, finché un ricordo fragile come una bolladi sapone affiorò alla superficie della sua coscienza ed esplose. EraHarge.

Therese guardò di sfuggita Carol ma pensò che, se anche Carol loaveva notato, non poteva sapere che era riflesso in uno degli specchi allesue spalle. Un momento dopo, guardò dietro di sé e vide Harge di profilo,immagine rimasta impressa nella sua memoria come una delle tante dellavilla: il naso pronunciato e breve, la parte inferiore della faccia piuttostopiena, i capelli biondi che recedevano un poco dalla normale lineadell’attaccatura. Carol doveva averlo visto, a tre tavoli appena da lei, allasua sinistra.

Carol spostò lo sguardo da Richard a Therese. "Sì," disse a lei,abbozzando un sorriso, e subito tornò a rivolgersi a Richard, proseguendonella conversazione. I suoi modi, Therese lo notò, erano gli stessi, nonerano minimamente cambiati. Therese guardò la donna con Harge. Nongiovane, non molto attraente. Poteva anche trattarsi di una parente.

Poi Therese vide Carol schiacciare una sigaretta appena accesa.Richard aveva smesso di parlare. Si preparavano ad andarsene. Theresestava guardando Harge nel momento in cui lui vide Carol. Al primo

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scorgerla, quasi chiuse gli occhi, come se dovesse aguzzare lo sguardoper convincersi che era lei, poi disse qualcosa alla donna che era con luie, alzatosi, le si avvicinò.

"Carol," disse."Ciao, Harge." Carol si rivolse a Therese e a Richard. "Volete scusarmi

un istante?"Nell’osservare dalla soglia dove aspettava con Richard, Therese

cercava di vedere tutto, di vedere oltre l’orgoglio e l’aggressivitànell’ansiosa, protesa figura di Harge che, per quanto alta, non arrivava alcupolino del cappello di Carol, di vedere oltre i cenni acquiescenti diCarol mentre lui le parlava, di supporre non quello che si dicevano orama quello che si erano detti cinque anni prima, tre anni prima, il giornodella foto nella barca a remi. Carol lo aveva amato un tempo, e questo erapenoso da ricordare.

"Possiamo liberarci ora, Terry?" le domandò Richard.Therese vide Carol rivolgere un cenno di saluto alla donna seduta al

tavolo di Harge, poi allontanarsi da lui. Harge guardò oltre Carol, versolei e Richard e, senza evidentemente riconoscerla, se ne tornò al suotavolo.

"Scusate," disse Carol nel raggiungerli.Sul marciapiede, Therese trasse Richard in disparte per dirgli: "Devo

salutarti ora, Richard. Carol vuole che stasera vada con lei a trovare unasua amica."

"Oh." Richard aggrottò la fronte. "Avevo quei biglietti per il concertodi questa sera, sai?"

D’improvviso Therese ricordò. "Quello di Alex. L’avevo dimenticato,mi spiace."

"Non è importante," disse lui, avvilito.Non era importante. Alex, l’amico di Richard, accompagnava qualcuno

in un concerto di violino, e aveva dato i biglietti a Richard, lei se nericordava, già da qualche settimana.

"Preferivi stare con lei che con me, vero?" domandò Richard.Therese vide che Carol stava cercando un taxi. Tra qualche istante,

Carol li avrebbe lasciati. "Avresti potuto accennare al concerto

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stamattina, Richard. Ricordarmelo, almeno.""Era il marito, quello?" Richard, accigliato, socchiudeva le palpebre.

"Che storia è questa, Terry?""Quale storia? Io non lo conosco, il marito."Richard aspettò un istante, poi il cipiglio si dissolse e lui sorrise, quasi

a concedere d’essere stato irragionevole. "Scusami. Avevo dato perscontato che ci saremmo visti, stasera." Si avviò verso Carol."Arrivederla," le disse.

Aveva il fare di chi sta per andarsene per conto suo, e Carol domandò:"Va verso il centro? Forse posso darle un passaggio."

"Cammino volentieri, grazie.""Pensavo che voi due aveste un impegno," disse Carol a Therese.Therese vide che Richard si attardava, e si avvicinò a Carol, per non

farsi sentire da lui. "Non era importante. Preferirei rimanere con te."Un taxi era venuto a fermarsi accanto a Carol. Lei mise la mano sulla

maniglia della portiera. "Be’, nemmeno il nostro è un impegnoimportante, quindi perché non vai con Richard, stasera?"

Therese gettò uno sguardo a Richard e capì che lui aveva sentito."A presto, Therese," disse Carol."Buona serata," le augurò Richard."A presto," fece eco Therese, e guardò Carol tirare a sé la portiera,

chiudendola."Bene," disse Richard.Therese si girò verso di lui. Non sarebbe andata al concerto, e

nemmeno avrebbe fatto qualcosa di violento, lo sapeva, niente di piùviolento dell’avviarsi in fretta verso casa e mettersi a lavorare al set chevoleva finire entro martedì per Harkevy. Nei pochi secondi che Richardimpiegò per andarle vicino, si vide davanti l’intera serata, con un senso difatalità che era in parte di depressione, in parte di sfida. "Ugualmente nonmi va di venire al concerto," dichiarò.

Con sua sorpresa, Richard si ritrasse, poi replicò rabbiosamente: "Vabene, non venirci!" E si avviò.

Si allontanò in direzione ovest, lungo la Cinquantanovesima Strada,con l’andatura sciolta e un po’ sbilenca che gli proiettava la spalla destra

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un po’ più avanti dell’altra, le mani ciondolanti in modo aritmico lungo ifianchi, e già dal modo come camminava lei avrebbe potuto intuire cheera furibondo. E in men che non si dica lo perse di vista. Le attraversò lamente il rifiuto che aveva ricevuto da Kettering, lo scorso lunedì. Rimasea fissare l’oscurità in cui Richard era scomparso. Non era senso di colpaper quella sera, quello che provava: era qualcos’altro. Era invidia. Gliinvidiava la sua fiducia che vi sarebbe sempre stato un posto, una casa, unimpiego, qualcun’altra, per lui. Gli invidiava quell’atteggiamento, alpunto da serbargliene quasi rancore.

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13Fu Richard a cominciare.

"Perché ti piace tanto, poi?"Era una sera in cui lei aveva mandato a monte un appuntamento con

Richard per la remota possibilità che Carol venisse a trovarla. Carol nonsi era vista, ed era passato da lei Richard, invece. Ora, alle undici ecinque, nel vasto ristorante self-service dalle pareti color rosa diLexington Avenue, lei era stata lì lì per esordire, ma Richard l’avevapreceduta.

"Mi piace stare con lei, mi piace parlare con lei. Mi è caro chiunquecon cui sia possibile parlare." Le frasi di una lettera che lei aveva scritto aCarol e mai impostata le passavano per la mente, quasi in risposta aRichard. "Mi sento come se tendessi le mani in mezzo a un deserto, e tufossi pioggia che cade sopra di me."

"Ti sei presa una maledetta cotta per lei," annunciò Richard, in tonoesplicativo e risentito.

Therese trasse un profondo respiro. Doveva limitarsi a dire di sì, odoveva cercare di spiegare la cosa? Che cosa poteva mai capirne, lui,quand’anche gliel’avesse spiegata con milioni di parole?

"Lei lo sa? Ma certo che lo sa." Con la fronte aggrottata, Richard aspiròuna boccata dalla sigaretta. "Non ti sembra che sia piuttosto sciocco? Ècome le cotte che prendono le scolarette."

"Tu non capisci," disse lei. Si sentiva così sicura di sé. "Ti ravvieròcome musica impigliata nelle chiome di tutti gli alberi della foresta..."

"Che cosa c’è da capire? Ma lei sì, lei capisce, e non dovrebbe darticorda. Non dovrebbe giocare con te in questo modo. Non è giusto nei tuoiconfronti."

"Non è giusto nei miei confronti?""Quello che sta facendo, divertendosi con te? E poi un giorno stancarsi

e darti un calcio?"Darmi un calcio?, pensò lei. Ma in che senso? Come si può prendere a

calci uno stato d’animo? Era furente, ma non aveva voglia di discutere.Non replicò.

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"Sei come inebetita!""Sono perfettamente sveglia. Mai stata più sveglia di così." Therese

prese un coltello dal tavolo e fece scorrere il pollice avanti e indietro sulrialzo alla base della lama. "Perché non mi lasci perdere?"

Lui la fissò, accigliato. "Lasciarti perdere?""Sì.""Vuoi dire, riguardo all’Europa, anche?""Sì," confermò lei."Ascolta, Terry..." Richard si dimenò sulla sedia, protendendosi verso

di lei, esitò, poi prese un’altra sigaretta, l’accese con fare disgustato,gettando il fiammifero a terra. "Sei in una specie di trance! È peggio..."

"Solo perché non voglio discutere con te?""È peggio che se fossi impazzita per amore, perché è tutto così

completamente irragionevole. Non lo capisci?"No, lei non capiva una parola."Ma ti passerà in una settimana, vedrai. Spero. Mio Dio!" Tornò a

dimenarsi. "Se penso... Se solo per un attimo penso che vuoi praticamentedirmi addio per via di una stupida infatuazione!"

"Io non ho detto questo. L’hai detto tu." Tornò a fissarlo, a osservarequel volto rigido che cominciava ad arrossarsi al centro delle guancepiatte. "Ma perché dovrei desiderare di stare con te se non fai altro chediscutere di questo?"

Lui si lasciò andare contro la spalliera. "Di qui a mercoledì, a sabato,non la penserai più come ora. Non sono nemmeno tre settimane che laconosci."

Lei guardava verso gli scomparti della tavola calda, dove i clientiavanzavano lentamente in fila, scegliendo questo e quello, avvicinandosialla curva del bancone e lì disperdendosi. "Tanto vale che ci diciamoaddio," mormorò, "perché nessuno di noi due sarà mai diverso da quelloche siamo in questo momento."

"Therese, tu sei come una persona impazzita al punto da credered’essere più sana che mai!"

"Oh, finiamola!"La mano di Richard, con la sua fila di nocche incassate nella carne

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bianca e lentigginosa, si posava sul tavolo contratta e immobile, veraimmagine di una mano che avesse battuto ripetutamente su un puntoinefficace e impercettibile. "Sai cosa ti dico? Penso che la tua amicasappia quello che sta facendo. Penso che stia commettendo un criminecontro di te. Ho una mezza idea di denunciarla a qualcuno, ma il guaio èche tu non sei una bambina. Ti stai solo comportando come tale."

"Perché ne fai un affare di stato?" domandò lei. "È una vera frenesia, latua."

"Ne fai tu un affare di stato, al punto da volermi dire addio! Che cosane sai di lei?"

"Che cosa ne sai tu, di lei?""Ti ha mai fatto qualche avance?""Dio!" scattò Therese, e avrebbe voluto ripeterlo una decina di volte.

Riassumeva tutto: perfino il suo imprigionamento lì, ora. "Tu noncapisci." Lui però capiva, e proprio per questo era fuori di sé. Ma capivache lei avrebbe provato la stessa cosa se anche Carol non l’avesse maitoccata? Sì, e se Carol non le avesse nemmeno rivolto la parola dopoquella breve conversazione, al negozio, sulla valigia per la bambola. SeCarol, anzi, non gliel’avesse rivolta mai, perché tutto era avvenutonell’istante in cui lei aveva visto Carol ferma in mezzo al reparto, che laosservava. Poi, la scoperta di tutto quello che era avvenuto dopoquell’incontro la fece sentire all’improvviso incredibilmente fortunata.Era così facile per un uomo e una donna trovarsi a vicenda, trovarequalcuno che andasse bene, ma per lei, avere trovato Carol... "Credo dicomprenderti meglio di quanto tu comprenda me. In realtà, nemmeno tuvuoi rivedermi, perché hai detto tu stesso che non sono più la medesimapersona. Se continuiamo a vederci, non farai che pensarla sempre più...come adesso."

"Terry, dimentica per un momento che abbia mai detto di volere che tumi ami, o di amarti. Parlo a te come persona, voglio dire. Tu mi piaci.Vorrei..."

"A volte mi domando perché pensi che ti piaccio, o che ti piacevo. Ineffetti, tu non mi conosci affatto."

"Tu non conosci te stessa."

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"Oh, sì... E conosco te. Un giorno o l’altro mollerai la pittura, e diconseguenza anche me. Proprio come hai fatto con ogni altra cosaintrapresa finora, da quello che posso vedere. La faccenda della tintoria, odelle auto usate..."

"Non è vero," protestò Richard, rabbuiato."Sai perché pensi che ti piaccio? Perché anch’io dipingo un pochino, e

possiamo parlarne. Io ti sono tanto inutile come ragazza quanto lo è lapittura come carriera." Therese esitò un istante, poi disse anche il resto."Ne sai abbastanza di arte, a ogni modo, per capire che non sarai mai unbuon pittore. Sei come un ragazzino che gioca a marinare la scuola finchégli sarà possibile, ma sapendo benissimo che cosa in realtà dovresti fare,e che cosa finirai per fare, vale a dire lavorare per tuo padre."

Gli occhi azzurri di Richard si erano fatti improvvisamente gelidi. Lalinea della bocca era diritta e molto breve, ora, il sottile labbro superiorelievemente increspato. "Tutto questo non è pertinente ora, vero?"

"Be’, sì. Fa parte del tuo insistere quando sai che è inutile, e quando saiche alla fine dovrai lasciar perdere."

"Ti sbagli!""Richard, non c’è scopo... ""Tu finirai per cambiare idea, e lo sai."Lei questo lo comprendeva. Era come una nenia che Richard si

ostinava a cantarle. Una settimana dopo, Richard se ne stava al centro del monolocale con lastessa espressione immusonita e furente, parlando nello stesso tono.L’aveva chiamata dal citofono alle tre del pomeriggio, ora per luiinsolita, e aveva insistito per vederla un momento. Lei stava preparandouna valigia da portare da Carol, per il week-end. Se non l’avesse vistapreparare quella valigia da portare a casa dell’amica, Richard sarebbestato probabilmente di tutt’altro umore, perché si erano visti tre volte,durante la settimana, e lui non era mai stato più amabile, non si era maimostrato tanto riguardoso verso di lei.

"Non puoi ordinarmi di uscire dalla tua vita come se niente fosse,"

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diceva ora, agitando le lunghe braccia, ma c’era una nota di solitudinenelle sue parole, come se fosse già incamminato sulla strada che loseparava da lei. "Quello che soprattutto mi addolora è che ti comporticome se io non valessi niente, come se fossi del tutto inutile. Non è giustoverso di me, Terry. Io non posso competere!"

No, pensava lei, naturale che non puoi. "Io non ho nessun motivo dilitigare con te," replicò. "Sei tu che hai deciso di litigare a proposito diCarol. Lei non ti ha tolto proprio niente, perché tu non avevi nienteneanche prima. Ma se non ti senti di continuare a vedermi..."S’interruppe, sapendo che lui se la sentiva e probabilmente avrebbecontinuato a cercarla.

"Se questa è logica," brontolò lui, strofinandosi un occhio.Therese lo osservava, colta da un’idea che le era appena passata per la

mente, e che all’improvviso capiva essere un fatto. Perché non le eravenuta in mente la sera del teatro, giorni prima? Avrebbe dovuto capirloda un centinaio di gesti, di parole, di sguardi, nel corso di quellasettimana. Ma, soprattutto, ricordava la serata del teatro – Richardl’aveva sorpresa con i biglietti per qualcosa che lei desideravaparticolarmente vedere – il modo in cui quella sera le aveva tenuto lamano, e poi la sua voce al telefono, che non si limitava a dirle diincontrarsi con lui lì piuttosto che là, ma le domandava con grandegentilezza se era libera. Non le era piaciuto. Non era una manifestazioned’affetto, ma piuttosto un mezzo di propiziarsela, di appianare in un certomodo la via per le domande inaspettate che le aveva posto poi con tantaindifferenza. "In che senso dici che le vuoi bene? Vuoi andare a letto conlei?" "Pensi che te lo direi, se fosse così?" aveva replicato lei, mentre unrapido susseguirsi di stati d’animo – umiliazione, risentimento, odio –l’aveva lasciata subito dopo senza parole, le aveva reso quasi impossibilecontinuare a camminargli accanto. E, nel lanciargli un’occhiata, lo avevavisto fissarla con quel vago, inane sorriso che nel ricordo appariva oracrudele e morboso. E pensò che quella morbosità le sarebbe forsesfuggita, se non fosse stato per il fatto che Richard stava tentando contanta franchezza di convincerla che a essere morbosa era lei.

Therese si voltò e gettò nella valigetta la spazzola per i capelli e lo

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spazzolino da denti, ricordandosi poi d’avere già uno spazzolino a casa diCarol.

"Che cosa vuoi esattamente da lei, Therese? Come andrà a finire questastoria?"

"Perché ti interessa tanto?"Lui la guardò, e per un attimo sotto la collera Therese riconobbe

l’ossessionante curiosità che aveva già notato in precedenza, come di chistia osservando uno spettacolo attraverso il buco di una serratura. Masapeva che lui non era affatto così distaccato. Al contrario, intuiva chenon era mai stato tanto legato a lei come ora, mai così determinato a nonrinunciare a lei. Ne era atterrita. Poteva immaginare quelladeterminazione trasformarsi in odio e in violenza.

Richard sospirò e torse il giornale che ora aveva in mano. "Il miointeresse è per te. Non puoi limitarti a dirmi: ’Trovati un’altra.’ Io non tiho mai trattata come trattavo le altre, non ti ho mai considerata in quelmodo."

Lei non rispose."Maledizione!" Richard, voltandole le spalle, scagliò il giornale contro

la libreria.Il giornale urtò la Madonna di legno che, come sbigottita, s’inclinò

all’indietro contro la parete, cadde, e rotolò giù dall’orlo. Richard fece unbalzo e riuscì ad afferrarla con tutt’e due le mani. Guardò Therese esorrise, involontariamente.

"Grazie." Therese gliela tolse di mano. La sollevò per rimetterla aposto, poi abbassò rapidamente le mani e scaraventò la statuetta al suolo.

"Terry!"La Madonna giaceva in tre o quattro pezzi."Non ha importanza," disse lei. Il cuore le batteva come se fosse fuori

di sé, o se stesse lottando."Ma...""All’inferno!" gridò lei, spingendo da parte i pezzi col piede.Un istante dopo Richard se ne andò, sbattendo la porta.Che cos’ho?, si domandò Therese. È per la faccenda di Andronich o per

Richard? La segretaria di Andronich le aveva telefonato circa un’ora

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prima per dirle che il signor Andronich aveva deciso di assumere, alposto suo, un assistente di Filadelfia. Così non ci sarebbe statoquell’incarico ad aspettarla, al ritorno dal viaggio con Carol. Thereseguardò la Madonnina in frantumi. Il legno internamente era bellissimo; siera spaccato di netto lungo la venatura. Quella sera Carol la interrogò in particolare sul suo discorso con Richard.Irritava Therese il fatto che Carol si preoccupasse tanto di stabilire seRichard ne avesse o meno sofferto.

"Tu non sei abituata a preoccuparti dei sentimenti degli altri," le dissechiaro e tondo Carol.

Erano in cucina a preparare qualcosa per cena, perché Carol avevaconcesso alla cameriera una serata di libertà.

"Quale vero motivo hai di pensare che non sia innamorato di te?"domandò Carol.

"Forse non lo capisco bene. A me, però, non sembra amore, il suo."Poi, nel bel mezzo della cena, nel corso di una conversazione

riguardante il viaggio, Carol d’improvviso osservò: "Avresti fatto meglioa non parlare affatto con Richard."

Era la prima volta che Therese aveva accennato a qualcosa con Carol, aqualcosa della prima conversazione avuta con Richard nel locale diLexington Avenue. "Perché, poi? Avrei forse dovuto mentirgli?"

Carol non stava mangiando. Spinse indietro la sedia e si alzò. "Seitroppo giovane per sapere bene come la pensi. O di che cosa staiparlando. Sì, in quel caso, meglio mentire."

Therese posò la forchetta. Guardò Carol prendere una sigaretta eaccenderla. "Dovevo dirgli addio e l’ho fatto. Non lo rivedrò più."

Carol aprì un pannello in basso nella libreria e tirò fuori una bottiglia.Versò due dita in un bicchiere pulito e richiuse in malo modo il pannello."Perché l’hai fatto ora? Perché non due mesi fa o di qui a due mesi? Eperché hai accennato a me?"

"So... Penso che la cosa lo affascini.""Probabilmente è così."

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"Ma se mi limiterò a non rivederlo..." Non poté finire, spiegare checosì non sarebbe stato propenso a seguirla, a spiarla. Non voleva dire cosedel genere a Carol. E inoltre, c’era il ricordo degli occhi di Richard."Penso che si arrenderà. Diceva di non poter competere."

Carol si batté la fronte a mano aperta. "Di non poter competere," ripeté.Tornò verso la tavola e versò un po’ d’acqua dal suo bicchiere nelwhisky. "Quant’è vero. Finisci di mangiare. Forse me la sto prendendotroppo, non lo so."

Ma Therese non si mosse. Aveva fatto uno sbaglio. E stava pensando,come già le era accaduto centinaia di volte, che anche a noncommetterne, non poteva rendere felice Carol come Carol rendeva felicelei. Carol era felice solo a tratti, in brevi momenti che lei coglieva eserbava. Uno si era verificato la sera in cui avevano messo via ledecorazioni di Natale: Carol aveva ripiegato le file di angeli e le avevainfilate tra le pagine di un libro. "Queste voglio tenerle," aveva detto."Con ventidue angeli a difendermi, non posso perdere." Therese guardavaCarol, ora, e sebbene Carol stesse osservandola a sua volta, lo facevaattraverso quel velo di preoccupazione che Therese vedeva così spesso, eche le teneva immensamente lontane.

"Battute," disse Carol. "’Non posso competere.’ La gente parla deiclassici. Queste sono battute classiche. Un centinaio di persone diversepronuncerà le medesime parole. Ci sono battute per la madre, battute perla figlia, per il marito e per l’amante. ’Preferirei vederti morta ai mieipiedi.’ È la stessa commedia ripetuta con attori diversi. Che cos’è che fadi una commedia un classico, Therese?"

"Un classico..." La voce di lei suonò tesa, soffocata. "Un classico èqualcosa che ha alla base una situazione umana." Quando Therese si svegliò, nella stanza entrava il sole. Giacque perqualche istante, guardando i giochi di luce che, liquidi in apparenza,s’increspavano sul soffitto verde pallido, e tese l’orecchio a coglieresuoni di attività nella casa. Guardò la sua camicetta, che pendeva in partedall’orlo del cassettone. Perché era così disordinata in casa di Carol? A

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Carol non piaceva il disordine. Il cane che viveva in qualche punto al dilà dei garage latrava in modo svogliato, intermittente. C’era stato unpiacevole intervallo, la sera prima, una telefonata da parte di Rindy.Rindy di ritorno da una festa di compleanno, alle nove e mezzo. Potevadare anche lei una festa per il suo compleanno, in aprile? Carol avevarisposto di sì. Era stata diversa, da quel momento. Aveva parlatodell’Europa, e delle estati a Rapallo.

Therese si alzò, andò alla finestra, sollevò il vetro e si appoggiò aldavanzale, irrigidendosi contro il freddo. In nessun altro luogo c’eranomattine come se ne godevano da quella finestra. La rotonda aiuola d’erbaal di là del viale era dardeggiata dal sole, e i dardi erano come aghi d’orosparpagliati. C’erano barbagli di sole anche nelle foglie rugiadose dellasiepe, e il cielo era di un azzurro fresco e compatto. Therese guardava ilpunto del viale dove si era fermata Abby quel mattino, e il pezzetto direcinzione bianca al di là delle siepi che delimitavano il prato. Il terrenoappariva vitale e giovane, anche se l’inverno aveva essiccato l’erba.C’erano stati alberi e siepi anche intorno alla scuola di Montclair, ma ilverde terminava sempre contro un tratto di muro di mattoni rossi o controun grigio edificio che faceva parte della scuola – un’infermeria, unalegnaia, un capanno degli attrezzi – e ogni primavera quel verde erasembrato già vecchio, usato e calpestato da una generazione di bambiniall’altra, parte a sua volta dell’armamentario della scuola, come i libri ditesto e le uniformi.

Si vestì, indossando i calzoni scozzesi che aveva portato da casa, e unadelle camicette che aveva lasciato lì in un’altra occasione, e che era statalavata e stirata. A Carol piaceva alzarsi verso le otto e mezzo, le piacevaessere svegliata da qualcuno con una tazza di caffè, anche se Thereseaveva notato che non lo faceva mai fare da Florence.

Florence era in cucina, quando lei scese, ma cominciava solo allora apreparare il caffè.

"Buongiorno," disse Therese. "Le dispiace se preparo io la colazione?"Florence non se l’era presa affatto le altre due volte in cui, entrando incucina, aveva sorpreso Therese intenta a prepararla.

"Faccia pure, signorina. Friggerò solo le mie due uova. A lei piace fare

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cose per la signora Aird, vedo," disse Florence, a mo’ di constatazione.Therese stava prendendo due uova dal frigorifero. "Sì," disse,

sorridendo. Lasciò cadere una delle uova nell’acqua, che aveva appenacominciato a scaldarsi. Il suo "sì" suonò piuttosto conciso, ma quale altrarisposta avrebbe potuto dare? Quando si voltò, dopo avere preparato ilvassoio, vide che Florence aveva messo a bollire anche il secondo uovo.Lo ripescò con le dita. "Ne vuole uno solo," disse. "L’altro è per la miaomelette."

"Davvero? Prima ne mangiava sempre due.""Be’... Ora no," disse Therese."Non dovrebbe calcolare i minuti per quell’uovo, signorina?" Florence

le rivolgeva il suo amabile sorriso professionale. "C’è il contaminuti lì,proprio sopra il fornello."

Therese scosse la testa. "Riesce meglio quando mi regolo a occhio."Finora non aveva mai sbagliato per l’uovo di Carol, che lo voleva un po’più cotto di come veniva con il contaminuti. Therese guardò Florence,che adesso si concentrava sulle due uova che stava friggendo in padella.Il caffè era quasi filtrato tutto, ormai. In silenzio, Therese preparò latazza da portare su a Carol.

Più tardi, nel corso della mattinata, aiutò Carol a portar dentro dalprato sul retro della casa le sedie di ferro battuto bianco e i cuscini deldondolo. Sarebbe stato più semplice farlo mentre c’era Florence, maCarol l’aveva mandata a fare la spesa, dopo di che era stata presa dalcapriccio improvviso di ritirare i mobili da giardino. Era un’idea di Hargequella di lasciarli fuori tutto l’inverno, spiegò, ma lei trovava cheavessero un aspetto triste. Alla fine rimase solo una sedia presso lafontana rotonda, una leziosa seggiolina di metallo bianco con il sedileconvesso e i quattro piedi merlettati. Therese la guardò, domandandosichi vi si fosse seduto.

"Vorrei che ci fossero più lavori teatrali che si svolgono all’aperto,"disse.

"A che cosa pensi, per prima cosa, quando cominci a lavorare a unset?" domandò Carol. "Da che cosa parti?"

"Dall’atmosfera della commedia, immagino. In che senso, dici?"

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"Pensi al genere di lavoro che è, o a qualcosa che tu vuoi vedere?"Una delle osservazioni di Donohue echeggiò nella mente di Therese

con un che di vagamente spiacevole. Carol era d’umore polemico, quelmattino. "Ho l’impressione che tu sia decisa a considerarmi unadilettante," disse.

"Trovo che tu sia piuttosto soggettiva. Questo è dilettantesco, no?""Non sempre." Ma lei capiva che cosa intendeva dire Carol."Devi saperla lunga per essere assolutamente soggettiva, giusto? Nelle

cose che mi hai mostrato, penso che tu lo sia stata troppo senza saperneabbastanza."

Therese contrasse a pugno le mani sprofondate nelle tasche. Avevatanto sperato che a Carol il suo lavoro piacesse, senza riserve. Era rimastamalissimo quando Carol non aveva apprezzato affatto alcuni scenari chelei le aveva mostrato. Carol non ne sapeva niente, dal lato tecnico, eppurepoteva demolire l’idea di un set con una frase.

"Penso che un’occhiata all’Ovest ti farebbe bene. Quando hai detto chedevi essere di ritorno? Per la metà di febbraio?"

"Be’, ora non più... L’ho saputo proprio ieri.""Come, come? È venuto a mancare? L’incarico di Filadelfia?""Mi hanno telefonato. Vogliono qualcuno di Filadelfia.""Oh, piccola. Mi spiace.""È un ambiente fatto così," disse Therese. Carol le aveva posato una

mano sulla nuca e, col pollice, la lisciava dietro l’orecchio, proprio comeavrebbe potuto coccolare un cane.

"Non avevi intenzione di dirmelo.""Sì, invece.""Quando?""Non so, durante il viaggio.""Sei molto delusa?""No," assicurò Therese.Riscaldarono l’ultima tazza di caffè, poi se la portarono all’aperto, fino

alla seggiolina bianca sul prato, per dividersela."Vogliamo pranzare fuori, da qualche parte?" propose Carol. "Andiamo

al club. Poi dovrei fare alcune spese a Newark. Che ne dici di una giacca?

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Ti piacerebbe una giacca di tweed?"Therese era seduta sull’orlo della fontana, una mano premuta contro

l’orecchio perché le doleva, per il freddo. "Non ne ho particolarmentebisogno," disse.

"Ma farebbe particolarmente piacere a me vedertela addosso."Therese era di sopra a cambiarsi, quando udì squillare il telefono. Sentì

Florence dire: "Oh, buongiorno, signor Aird. Sì, la chiamo subito", eattraversò la stanza per andare a chiudere la porta. Irrequieta, si mise ariordinare la camera, appese i suoi abiti nell’armadio e lisciò il letto cheaveva già rifatto. Poi Carol bussò alla porta e mise dentro la testa. "Hargepasserà di qui fra qualche minuto. Non credo che si fermerà a lungo."

Therese non voleva vederlo. "Vuoi che vada a fare una passeggiata?"Carol sorrise. "No. Resta di sopra e leggiti un libro, se preferisci."Therese tirò fuori il libro che aveva comperato il giorno innanzi,

l’Oxford Book of English Verse, e tentò di leggere, ma le parole restavanoseparate e prive di significato. Aveva la sensazione inquietante dinascondersi, così andò alla porta e l’aprì.

Carol stava uscendo in quel momento dalla sua stanza, e per un istanteTherese vide passarle in volto quella stessa espressione di indecisione chericordava dalla prima volta che aveva messo piede in quella casa. PoiCarol le disse: "Vieni giù."

L’auto di Harge arrivò proprio mentre loro entravano nel soggiorno.Carol andò alla porta, e Therese udì il loro scambio di saluti, quello diCarol soltanto cordiale, ma allegrissimo quello di Harge. Subito dopoCarol entrò con una lunga scatola di fiori tra le braccia.

"Harge, questa è la signorina Belivet. Credo vi siate già incontrati, unavolta," disse Carol.

Harge socchiuse un poco gli occhi, poi li aprì. "Oh, sì. Come sta?""Bene, e lei?"Entrò Florence, e Carol consegnò a lei la scatola dei fiori."Ti spiace metterli in un vaso?" le disse."Ah, ecco dov’è quella pipa. Lo immaginavo." Harge frugò dietro

l’edera sulla mensola del caminetto e tirò fuori una pipa."Tutto bene a casa?" s’informò Carol, nel prendere posto a

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un’estremità del divano."Sì. Benissimo." Il sorriso teso di Harge non arrivava a scoprire i denti,

ma la faccia e i rapidi movimenti del capo irradiavano giovialità eautocompiacimento. Osservò con soddisfazione da padrone di casa,mentre Florence portava nella stanza i fiori, rose rosse, in un vaso, e liposava sul tavolino davanti al divano. Therese desiderò improvvisamented’avere portato dei fiori a Carol, d’avergliene portati in qualcuna dellesvariate occasioni passate, e si ricordò dei fiori che le aveva portatoDannie un giorno in cui aveva fatto una semplice capatina in teatro.Guardò Harge, e istintivamente lui volse lo sguardo altrove, sollevandoancora di più il sopracciglio a punta, scoccando occhiate intorno, come acercare piccoli mutamenti nella stanza. Ma forse, pensò Therese,quell’aria così euforica potrebbe essere tutta una messa in scena. E, se citeneva abbastanza da fingere, doveva anche tenere in un certo senso aCarol.

"Posso prenderne una per Rindy?" domandò Harge."Ma certo." Carol si alzò, e avrebbe sicuramente spezzato un fiore, ma

Harge la prevenne, accostò la lama di un temperino a uno stelo e la rosasi staccò. "Sono bellissime. Grazie, Harge."

Harge si portò il fiore al naso. Rivolto un po’ a Carol, un po’ a Therese,osservò: "È una bella giornata. Avete intenzione di andare a fare un giroin macchina?"

"Sì, in effetti," disse Carol. "A proposito, vorrei venire a trovare Rindyun pomeriggio della settimana prossima. Martedì, magari."

Harge rifletté un istante. "Va bene. Glielo dirò.""Con lei parlerò io per telefono. Dillo ai tuoi, intendevo."Harge assentì, accondiscendente, poi guardò Therese. "Sì, mi ricordo di

lei. Certo. Era qui tre settimane fa. Prima di Natale.""Sì. Una domenica." Therese si alzò. Voleva lasciarli soli. "Faccio un

salto di sopra," disse a Carol. "Arrivederla, signor Aird."Harge accennò un lieve inchino. "Arrivederla."Mentre saliva, Therese udì Harge dire: "Be’, cento di questi giorni,

Carol. Ci tenevo a dirlo. Ti dispiace?"Il compleanno di Carol, pensò Therese. Carol, naturalmente, non aveva

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voluto dirglielo.Chiuse la porta e si guardò intorno nella stanza, rendendosi conto di

stare cercando qualche segno d’avere passato lì la notte. Non ve n’erano.Si fermò davanti allo specchio e si osservò, per un attimo, aggrottando lafronte. Non era più così pallida come tre settimane prima, quando Hargel’aveva vista; non si sentiva la creatura accasciata e spaventata che Hargeaveva conosciuto allora. Dal cassetto di sopra, prese la sua borsetta e netolse il rossetto. Poi udì Harge bussare alla porta e richiuse il cassetto.

"Avanti.""Chiedo scusa. Devo prendere una cosa." Lui attraversò in fretta la

stanza, entrò nel bagno, e sorrideva quando ne uscì con il rasoio in mano."Lei era in quel locale con Carol domenica scorsa, vero?"

"Sì," disse Therese."Carol mi diceva che lei è una scenografa.""Sì."Lo sguardo di Harge scivolò dal volto alle mani di lei, al pavimento, e

di nuovo al volto. "Spero faccia in modo che Carol esca spesso," disse."Lei è giovane e vispa. La porti a fare delle passeggiate."

Poi uscì in fretta dalla stanza, lasciando dietro di sé un lieve odore disapone da barba. Therese gettò il rossetto sul letto e si asciugò il palmodelle mani lungo la gonna. Si domandò perché Harge si fosse preso ildisturbo di farle sapere che dava per scontato il fatto che lei passassemolto tempo con Carol.

"Therese!" chiamò improvvisamente Carol. "Vieni giù!" Carol eraseduta sul divano. Harge se n’era andato. Lei guardò Therese con un lievesorriso. Poi entrò Florence e Carol disse: "Florence, puoi portarli di là,questi. Mettili in sala da pranzo."

"Sì, signora."Carol ammiccò all’indirizzo di Therese.Nessuno la usava, la sala da pranzo, e Therese lo sapeva. Carol

preferiva mangiare da qualsiasi altra parte. "Perché non mi hai detto cheera il tuo compleanno?" domandò Therese.

"Oh!" Carol rise. "No, è il mio anniversario di matrimonio. Mettiti ilcappotto e andiamo."

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Mentre uscivano in retromarcia dal viale, Carol commentò: "Se c’è unacosa che non sopporto, è l’ipocrisia di quell’uomo."

"Che cosa ha detto?""Niente che abbia importanza." Carol stava ancora sorridendo."Ma hai detto che è un ipocrita.""Per eccellenza.""Perché fingeva tutto quel buon umore?""Be’... In parte...""Ha detto qualcosa di me?""Ha detto che avevi l’aria di una brava ragazza. Ti giunge nuova?"

Carol imboccò a gran velocità la stretta strada che portava al villaggio."Ha detto che il divorzio richiederà sei settimane più del previsto permotivi burocratici. Questa sì è nuova. Forse pensa che io possa cambiareidea nel frattempo. Per me è ipocrisia. Io dico che gli piace ingannare sestesso."

Therese si domandò se la vita, i rapporti umani, fossero sempre così.Mai un terreno solido sotto di sé. Sempre come ghiaia, un po’ cedevole erumorosa, così che il mondo intero potesse udire... Si rimaneva sempre inascolto, per cogliere il passo forte e deciso dell’intruso.

"Carol, io quell’assegno non l’ho mai preso, sai," dichiaròimprovvisamente Therese. "L’ho infilato sotto la tovaglietta sul tavolinoaccanto al letto."

"Come mai ti viene in mente proprio ora?""Non saprei. Vuoi che lo strappi? Stavo per farlo, quella sera.""Se proprio insisti," rispose Carol.

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14Therese gettò uno sguardo allo scatolone. "Non mi va di prenderlo,questo." Aveva già le mani occupate. "Dirò alla signora Osborne di tirarfuori la roba da mangiare, e il resto può rimanere qui."

"Portalo," disse Carol, dalla soglia. Stava trasportando da basso alcunecose, libri e giacche che Therese aveva deciso all’ultimo momento diprendere.

Therese tornò di sopra a recuperare lo scatolone. Lo aveva portatoun’ora prima un fattorino: un certo numero di sandwich avvolti in cartaoleata, una bottiglia di succo di more, una torta, e una scatola contenentel’abito bianco che la signora Semco le aveva promesso. Richard nonaveva niente a che fare con quello scatolone, altrimenti dentro vi sarebbestato un libro o un altro messaggio.

Un vestito che non le serviva era ancora steso sul divano, un angolo deltappeto era rivoltato, ma Therese era impaziente di andarsene. Tirò a sé laporta, chiudendola, poi si affrettò giù per gli scalini con lo scatolone,oltre l’uscio dei Kelly che erano entrambi al lavoro, oltre quello dellasignora Osborne. Aveva già salutato la Osborne quando, un’ora prima, erascesa a pagarle l’affitto per il mese successivo.

Therese stava per chiudere la portiera dell’auto quando la signoraOsborne la chiamò dagli scalini esterni.

"Al telefono!" le gridò, e a malincuore Therese scese dalla macchina,convinta che si trattasse di Richard.

Era Phil McElroy, che le telefonava per informarsi sul colloquio conHarkevy il giorno innanzi. Lei ne aveva parlato a Dannie la sera prima,quando avevano cenato insieme. Harkevy non le aveva promesso unlavoro, ma le aveva detto di tenersi in contatto, e Therese sentiva cheaveva parlato sul serio. Le aveva permesso di andare a parlargli tra lequinte del teatro dove stava sovrintendendo al set per Winter Town .Aveva scelto tre dei suoi modelli in cartoncino e li aveva osservati moltoattentamente, ne aveva bocciato uno perché un po’ insignificante, avevaindicato nel secondo alcuni elementi poco attuabili, mentre gli erapiaciuto in particolare quello che Therese aveva cominciato la sera in cui

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era tornata dalla sua prima visita a casa di Carol. Era la prima personache avesse preso in seria considerazione i suoi set meno convenzionali.Lei aveva immediatamente telefonato a Carol per riferirle di quelcolloquio. Ne parlò ora a Phil, ma non accennò al fatto che l’incarico perAndronich era andato in fumo. Sapeva, però, che la vera ragione era diimpedire che venisse a saperlo Richard. Chiese poi a Phil di farle sapereper quale commedia Harkevy avrebbe successivamente curato i set,perché a lei aveva detto d’essere ancora indeciso tra due lavori diversi.C’erano buone probabilità che preridesse lei come apprendista, se avessescelto il dramma inglese di cui le aveva parlato il giorno prima.

"Non ho ancora un indirizzo da darti," disse Therese. "So di certo cheandremo a Chicago."

Phil disse che le avrebbe scritto là, fermo posta."Era Richard?" s’informò Carol, quando lei tornò."No. Era Phil McElroy.""Così Richard non l’hai più sentito?""Non l’ho sentito per alcuni giorni. Stamattina mi ha mandato un

telegramma." Therese esitò, poi estrasse il telegramma di tasca e lo lesse."Non sono cambiato. Tu nemmeno. Scrivimi. Ti amo. Richard."

"Penso che dovresti telefonargli," disse Carol. "Chiamalo da casa mia."Avrebbero passato la notte a casa di Carol e sarebbero partite

l’indomani mattina presto."Lo metterai quel vestito, stasera?" domandò Carol."Lo proverò. Sembra un abito da sposa."Therese si provò l’abito poco prima di cena. Le arrivava al di sotto dei

polpacci e si allacciava dietro, alla vita, con una lunga fascia bianca chesul davanti era fissata all’abito e ricamata. Scese per mostrarlo a Carol.Carol era in soggiorno, a scrivere una lettera.

"Guarda," disse Therese, sorridendo.Carol la guardò per un lungo momento, poi le si avvicinò ed esaminò il

ricamo alla vita. "Questo è un pezzo da esposizione. Sei adorabile.Tienilo stasera, vuoi?"

"È talmente elaborato." Non le andava di indossarlo, perché la facevapensare a Richard.

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"Che accidenti di stile è, russo?"Therese diede in una risata. Le piaceva il modo in cui Carol imprecava,

a volte, sempre con indifferenza e quando nessun altro poteva sentirla."Lo è?" ripeté Carol.Therese stava già avviandosi di sopra. "Lo è cosa?""Dove hai preso quest’abitudine di non rispondere alla gente?" scattò

Carol, la voce improvvisamente aspra di collera.Gli occhi di Carol avevano quella stessa luce furente che lei vi aveva

visto la volta in cui si era rifiutata di suonare il piano. "Scusa, Carol.Probabilmente non ho sentito."

"Forza," disse Carol, voltandole le spalle. "Va’ di sopra e toglitelo."Di nuovo Harge, si disse Therese. Esitò un istante, poi salì in camera.

Slacciò la vita e le maniche, si diede un’occhiata nello specchio, poitornò ad allacciare il tutto. Se Carol desiderava che lei lo tenesse,l’avrebbe accontentata.

Si prepararono loro stesse la cena, perché Florence aveva già iniziato lesue tre settimane di permesso. Aprirono alcuni vasetti di cose speciali cheCarol diceva d’avere tenuto da parte, e si prepararono un cocktail a basedi cognac e menta, subito prima di cenare. Therese pensava che a Carol ilmalumore fosse passato ma, quando fece per versarsi una seconda dose diliquore, Carol osservò in tono sbrigativo: "Non credo che dovresti berneancora, di quella roba."

E Therese se ne astenne, con un sorriso. Ma il malumore continuò.Niente di quello che Therese faceva o diceva riusciva a dissolverlo, eTherese se la prendeva con l’abito, che la inibiva, per non essere in gradodi pensare alle cose adatte da dire. Dopo cena si portarono marron glacéal liquore e caffè nella veranda al di là della stanza verde, ma nellasemioscurità trovarono ancor meno cose da dirsi, e Therese si sentivasoltanto assonnata e piuttosto depressa.

Il mattino dopo, Therese trovò un sacchetto di carta sugli scalini dellaporta di servizio. Dentro c’era un giocattolino, una scimmietta bianca egrigia. Therese la mostrò a Carol.

"Mio Dio," mormorò Carol, e sorrise. "Jacopo." Prese la scimmietta ene lisciò con l’indice la guancia bianca e un po’ sudicia. "Abby e io

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l’appendevamo sempre al lunotto dell’auto.""L’ha portata Abby? Ieri sera?""Penso di sì." Carol si avviò verso l’auto con lo scimmiottino e una

valigia.Therese ricordò d’essersi svegliata da un sonnellino sul dondolo, la

sera prima, immersa in un assoluto silenzio. Carol, seduta là, al buio,fissava dritto davanti a sé. Lei doveva averla sentita la macchina di Abby,la sera prima. Aiutò Carol a sistemare valigie e plaid nel baule dell’auto.

"Perché non è entrata, allora?" domandò."Oh, Abby è fatta così," disse Carol con un sorriso e con la fuggevole

ritrosia che sempre lasciava sorpresa Therese. "Perché non vai atelefonare a Richard?"

Therese sospirò. "Tanto non posso, ormai. È già uscito di casa, aquest’ora." Erano le nove meno venti e la scuola di lui cominciava allenove.

"Telefona ai suoi, allora. Non vuoi ringraziarli per tutto quello che tihanno mandato?"

"Pensavo di scrivere una lettera.""Chiamali ora, così non dovrai più scrivere. È molto più gentile

telefonare, tra l’altro."Rispose la signora Semco, al telefono. Therese lodò l’abito e lo

splendido ricamo, e ringraziò per tutto il buon cibo e il vino."Richard è appena uscito," disse la signora Semco. "Si sentirà

terribilmente solo. Ha già un’aria afflitta." Ma rise, della sua vigorosa,acuta risata che riempiva la cucina da dove Therese sapeva che stavaparlando, una risata che sarebbe risuonata attraverso la casa e perfinonella stanza vuota di Richard, al piano di sopra. "Va tutto bene fra te eRichard?" domandò poi con una sfumatura di sospetto, sebbene Thereseintuisse che stava ancora sorridendo.

Therese disse di sì, e promise che avrebbe scritto. Dopo, si sentìmeglio per avere telefonato.

Carol le domandò se avesse chiuso la finestra di camera sua, e lei corsedi sopra, perché non se ne ricordava. Non aveva chiuso la finestra e nonaveva neppure rifatto il letto, ma non c’era tempo, ora. A rifare il letto

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avrebbe provveduto Florence quando sarebbe venuta, il lunedì, a chiuderela casa.

Carol era al telefono, quando Therese scese. La guardò con un sorriso etese l’apparecchio verso di lei. Therese capì dalla vocina che si trattava diRindy.

"... Da... Dal signor Byron. È una fattoria. Ci sei mai stata, mamma?""Dov’è, gioia?" domandò Carol."Dal signor Byron. Ha i cavalli, lui. Ma di quelli che a te non

piacerebbero.""Ah, no? Perché?""Be’, sono pesanti."Therese cercava di captare qualcosa nella vocetta argentina e piuttosto

sbrigativa che ricordava un po’ quella di Carol, ma non ci riusciva."Pronto," disse Rindy. "Mamma?""Sono qui, cara.""Devo salutarti, adesso. Papà è pronto per uscire." La bambina tossì."Hai la tosse?" domandò subito Carol."No.""Allora non tossire al telefono.""Vorrei che portassi anche me a fare il viaggio.""Be’, non posso perché tu hai la scuola. Ma ne faremo altri,

quest’estate.""Puoi ancora telefonarmi?""Durante il viaggio? Ma certo che ti chiamerò. Ogni giorno." Carol

smise di porgere il telefono e si mise più comoda con l’apparecchio inmano, ma continuò a guardare Therese nel minuto o due in cui proseguìla conversazione.

"Sembra così seria," disse Therese."Stava raccontandomi tutto sulla grande giornata di ieri. Harge le

aveva permesso di marinare la scuola."Carol aveva visto Rindy due giorni prima, rammentava Therese. Era

stata evidentemente una visita piacevole, da quello che Carol le avevadetto per telefono; però ai particolari non aveva accennato, né Thereseaveva fatto domande.

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Proprio mentre stavano per partire, Carol decise di fare un’ultimatelefonata ad Abby. Therese si allontanò verso la cucina, perché facevatroppo freddo per andare a sedersi in macchina.

"Non conosco nessuna piccola città dell’Illinois," stava dicendo Carol."Perché l’Illinois?... D’accordo, Rockford... Me ne ricorderò, penserò alRoquefort... Ma certo che avrò buona cura di Jacopo. Perché non seivenuta con noi, sciocca... Be’, ti sbagli, ti sbagli di grosso."

Therese prese un sorso dal caffè lasciato a mezzo da Carol sul tavolo dicucina, bevendo dal punto dove c’era il rossetto di lei.

"Nemmeno una parola," disse Carol, calcando sulla frase. "Nessuno,per quanto ne so, nemmeno Florence... Be’, fallo, cara. Ciao, eh?"

Cinque minuti dopo, stavano lasciando la cittadina di Carol eimboccando l’autostrada segnata in rosso sulla mappa stradale,l’autostrada che avrebbero seguito fino a Chicago. Il cielo era coperto.Therese osservava intorno a sé la campagna divenutale ormai familiare, iboschi sulla sinistra, che la strada per New York oltrepassava, e inlontananza l’alto pennone che stava a indicare il circolo al qualeapparteneva Carol.

Therese aveva lasciato appena un sottile spiraglio nel finestrino dal suolato. Faceva un gran freddo, e il riscaldamento era gradevole intorno allecaviglie. L’orologio sul cruscotto segnava le dieci meno un quarto, eimprovvisamente lei pensò a quelli che lavoravano da Frankenberg,prigionieri là dentro a quell’ora del mattino, di quel mattino, di quellodell’indomani e così via, ogni loro movimento controllato dalle lancettedell’orologio. Ma per lei e per Carol, ora, le lancette dell’orologio sulcruscotto non significavano niente. Avrebbero dormito o non dormito,viaggiato o non viaggiato, a piacer loro. Pensò alla signora Robichek, chein quel momento vendeva maglioni al terzo piano, cominciando un altroanno, là, il suo quinto anno.

"Perché così silenziosa?" domandò Carol. "Che c’è?""Niente." Non aveva voglia di parlare. Eppure, sentiva migliaia di

parole urgerle in gola, soffocandola, e forse soltanto la distanza, lemigliaia di chilometri, avrebbero potuto metterle in ordine. Forse era lalibertà stessa a soffocarla.

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In qualche punto della Pennsylvania, attraversarono una zona di pallidosole, come una falla nel cielo, ma verso mezzogiorno cominciò a piovere.Carol imprecò, ma il suono della pioggia che tamburellava in modoirregolare sul parabrezza e sul tetto era piacevole.

"Sai che cosa ho dimenticato?" disse Carol. "Un impermeabile. Dovròprocurarmene uno, da qualche parte."

E Therese, all’improvviso, ricordò d’avere dimenticato il libro chestava leggendo. E dentro c’era una lettera per Carol, un foglio chesporgeva da entrambe le estremità del volume. Maledizione! Era rimastoseparato dagli altri libri, e proprio per questo lei lo aveva dimenticato, sultavolino accanto al letto. Si augurava che Florence non decidesse didargli un’occhiata. Cercò invano di ricordare se aveva scritto il nome diCarol nella lettera. E l’assegno. Aveva dimenticato di stracciarlo.

"Carol, l’avevi poi preso quell’assegno?""Quello che ti avevo dato? Avevi detto di volerlo strappare.""Non l’ho fatto. È ancora là sotto il tappetino.""Be’, non ha importanza," disse Carol.Quando si fermarono a far benzina, Therese tentò di comperare della

birra scura, che Carol a volte gradiva, in un piccolo supermarket attiguoalla stazione di servizio, ma avevano solo birra chiara. Ne acquistò unasola lattina, perché a Carol quella non piaceva. Poi, imboccarono unastradina che si dipartiva dalla carrozzabile, si fermarono, e aprirono ilpacco di panini preparato dalla mamma di Richard. C’erano anchesottaceti, una mozzarella e un paio di uova sode. Therese avevadimenticato di chiedere un apriscatole, così non poteva aprire la lattina dibirra, ma c’era del caffè nel thermos. Posò la lattina sul pavimento, dietroil suo sedile.

"Caviale. Oh, ma che cari," disse Carol, guardando dentro uno deisandwich. "Ti piace il caviale?"

"No. Purtroppo.""Perché purtroppo?"Therese osservò Carol addentare un boccone del sandwich a cui aveva

tolto la fetta di pane sopra, un boccone dove il caviale era abbondante."Perché agli altri il caviale piace sempre tanto, quando piace?"

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Carol sorrise e continuò a mordicchiare, lentamente. "È un gustoacquisito. I gusti acquisiti sono sempre più gradevoli... E più difficili daperdere."

Therese si versò dell’altro caffè nella tazza che usavano in comune. Leistava acquisendo il gusto del caffè nero. "Com’ero nervosa la prima voltache ho bevuto in questa tazza. Mi avevi portato il caffè quel giorno,ricordi?"

"Ricordo.""Come mai quel giorno ci avevi aggiunto la panna?""Pensavo che a te piacesse. Perché eri così nervosa?"Therese le lanciò un’occhiata. "Ero talmente eccitata perché ti

rivedevo," disse, sollevando la tazza. Poi guardò di nuovo Carol e le videin volto un’improvvisa immobilità, come per uno shock. L’aveva giànotata altre due o tre volte, in precedenza, quando aveva detto qualcosadel genere a Carol su quello che provava, o le aveva fatto uncomplimento eccessivo. Non avrebbe saputo dire se fosse compiaciuta odispiaciuta. La osservò avvolgere la carta oleata attorno all’altra metà delsuo sandwich.

C’era la torta, ma Carol non ne voleva. Era la torta scura e dal saporedi spezie che Therese aveva mangiato spesso a casa di Richard. Rimiserotutto a posto, dentro la valigia che conteneva le stecche di sigarette e labottiglia di whisky, con una precisione pignola che avrebbe irritatoTherese in chiunque, salvo che in Carol.

"Sbaglio, o hai detto d’essere nata nello stato di Washington?"domandò Therese.

"Ci sono nata, e mio padre ci vive. Gli ho scritto che forse sarei andataa trovarlo, se ci fossimo spinte tanto in là."

"Somiglia a te?""Io gli assomiglio, sì... Più a lui che a mia madre.""È strano immaginarti con una famiglia," disse Therese."Perché?""Perché secondo me tu sei tu. Una persona sui generis."Carol sorrise, la testa bene eretta mentre guidava. "Coraggio,

continua."

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"Fratelli e sorelle?""Una sorella. Immagino tu voglia sapere tutto anche di lei, vero? Si

chiama Elaine, ha tre figli e sta in Virginia. È più vecchia di me, e non sose ti piacerebbe. La troveresti insulsa."

Sì. Therese poteva immaginarsela come l’ombra di Carol, con tutti ilineamenti di Carol indeboliti e diluiti.

Nel tardo pomeriggio, si fermarono in un ristorante lungo la strada cheaveva in vetrina un villaggio olandese in miniatura. Appoggiata allaringhiera che vi correva davanti, Therese lo contemplava. C’era unpiccolo fiume che sgorgava da un rubinetto a un’estremità, scorreva aformare un corso d’acqua ovale e alimentava un mulino a vento. Piccolefigure in costumi olandesi sostavano per il villaggio e su chiazze d’erbavera. Le ricordava il trenino elettrico nel reparto giocattoli, daFrankenberg, e il furore che lo spingeva lungo il percorso ovale che erasuppergiù delle dimensioni di quel ruscello.

"Non ti ho mai parlato di quel trenino da Frankenberg," osservò, rivoltaa Carol. "Non lo avevi notato quando...?"

"Un treno elettrico?" la interruppe Carol.Therese sorrideva fino a quel momento, ma qualcosa le diede

un’improvvisa stretta al cuore. Era troppo complicato addentrarsi neldiscorso, e la conversazione si fermò lì.

Carol ordinò minestra calda per tutt’e due. Erano intirizzite e irrigiditedalla macchina.

"Mi domando se te lo godi davvero questo viaggio," osservò Carol. "Tupreferisci le cose riflesse in uno specchio, vero? Hai una tua concezionepersonale di tutto. Come quel mulino a vento. Per te è praticamente lostesso che essere in Olanda. Mi domando perfino se ti piaccia vedere veremontagne e persone vere."

Therese si sentì schiacciata, proprio come se Carol l’avesse accusata dimentire. Sentiva che Carol intendeva dire, inoltre, che aveva unaconcezione personale di lei, e che ne era risentita. Gente vera?D’improvviso le tornò alla mente la signora Robichek, e che lei l’avevasfuggita, perché era ripugnante.

"Come puoi sperare di creare qualcosa, se tutte le tue esperienze le hai

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di seconda mano?" domandò Carol, la voce morbida e piana, e tuttaviaspietata.

Carol la faceva sentire come se non avesse fatto mai niente, non fosseniente, come uno sbuffo di fumo. Carol aveva vissuto come un essereumano, si era sposata e aveva una figlia.

Il vecchio che stava dietro il banco veniva ora verso di loro. Zoppicavaun po’. Si fermò presso il tavolo accanto e incrociò le braccia. "Mai statein Olanda?" domandò amabilmente.

Rispose Carol. "No, mai. Lei sì, immagino. L’ha fatto lei quel villaggioin vetrina?"

Lui assentì. "Mi è costato cinque anni di lavoro."Therese guardava le dita ossute dell’uomo, le braccia scarne con le

vene violacee a fior di pelle. Comprendeva meglio di Carol il lavoro cheil piccolo villaggio aveva comportato, ma non riusciva a farsi uscire unasola parola.

Lui disse rivolto a Carol: "Abbiamo ottimi prosciutti e salsicce nelnegozio accanto, se apprezzate le cose genuine della Pennsylvania.Alleviamo noi i nostri maiali e vengono uccisi e stagionati qui."

Si trasferirono nel locale imbiancato a calce di un negozio accanto alristorante. Dentro c’era un delizioso odore di prosciutto affumicato,mescolato a quello del fumo di legna e delle spezie.

"Scegliamo qualcosa che non dobbiamo cucinare," disse Carol,guardando dentro il banco frigo. "Mi dia un po’ di questo," disse algiovanotto dal berretto con i paraorecchi.

Therese si rivide nella rosticceria, con la signora Robichek checomperava le sottili fette di salame e di salsiccia di fegato. Un cartellosulla parete diceva che si facevano spedizioni dappertutto, e pensò dimandare alla signora Robichek uno dei grossi cotechini rivestiti di tela,immaginò la gioia sulla faccia della donna nell’aprire il pacco e trovarviun cotechino. Ma poi si domandò se doveva, in fin dei conti, fare un gestoprobabilmente motivato da compassione, o da senso di colpa, o daqualche sua forma di perversità. Aggrottava la fronte, dibattendosi in unmare senza direzione né gravità, in cui sapeva soltanto di dover diffidaredei propri impulsi.

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"Therese..."Therese si voltò, e la bellezza di Carol la colpì come se avesse dato uno

sguardo alla Vittoria Alata di Samotracia. Carol le domandò se pensavache dovessero comperare un intero prosciutto.

Il giovane spinse tutti i pacchi attraverso il banco e prese la banconotada venti dollari di Carol, e Therese ripensò alla signora Robichek chequella sera, attraverso il banco, aveva spinto con mano tremula la suabanconota da un dollaro più una moneta da venticinque centesimi.

"Vedi qualcos’altro?" domandò Carol."Pensavo che potrei mandare qualcosa a una persona. Una donna che

lavora là da Frankenberg. È povera, e una sera mi ha invitata a cena."Carol prese il suo resto. "Che donna?""In realtà, non mi va di mandarle niente." Therese desiderò

improvvisamente di andarsene.Carol la guardò accigliata attraverso il fumo della sigaretta. "Fallo.""No, non ne ho voglia. Andiamo, Carol." Era di nuovo come

nell’incubo, quando le era sembrato di non potersi allontanare dallaRobichek.

"Mandaglielo," disse Carol. "Chiudi quella porta, e manda qualcosa aquella tale."

Therese richiuse la porta, poi scelse un cotechino da sei dollari escrisse un biglietto di accompagnamento: "Questo viene dallaPennsylvania. Spero che le rallegrerà qualche domenica mattina. Conaffetto da Therese Belivet."

Più tardi, in macchina, Carol s’informò sulla signora Robichek, eTherese rispose come faceva sempre, in modo succinto, e conl’involontaria e assoluta onestà che, dopo, la lasciava sempre depressa.La signora Robichek e il mondo in cui viveva erano talmente diversi daquello di Carol, che sembrava lei stesse descrivendo un’altra specie divita animale, qualche bestia orribile appartenente a un altro pianeta.Carol non faceva commenti sulla storia, si limitava a rivolgerle continuedomande, intanto che guidava. Non fece commenti neppure quando nonrimase altro da domandare, ma l’espressione tesa e pensosa con cui avevaascoltato le rimase in volto anche quando cominciarono a parlare d’altro.

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Therese si serrava i pollici all’interno delle mani. Perché si era lasciataossessionare dalla Robichek? E ora aveva comunicato quell’ossessioneanche a Carol e non poteva più farci niente.

"Ti prego di non nominarmela mai più, Carol. Promettimelo."

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15A passettini rapidi, Carol andò a piedi nudi verso la cabina della doccia,nell’angolo, rabbrividendo per il freddo. Aveva le unghie dei piedismaltate di rosso, e il pigiama azzurro le andava troppo largo.

"Colpa tua, per avere lasciato la finestra troppo aperta," disse Therese.Carol tirò la tenda, e Therese udì la doccia aprirsi con uno scroscio.

"Ah, divinamente calda!" disse Carol. "Meglio di ieri sera."Erano in una lussuosa "unità residenziale" per turisti, con folta

moquette, pannelli di legno alle pareti e ogni altra raffinatezza, dalleciabattine chiuse nel cellophane alla televisione.

Therese sedeva sul suo letto in vestaglia, china su una mappa stradale,misurando distanze a spanne. Una spanna e mezzo corrispondevasuppergiù a una giornata di guida, in teoria, anche se probabilmente nonce l’avrebbero fatta. "Oggi potremmo riuscire ad arrivare addiritturanell’Ohio," disse.

"L’Ohio. Noto per i fiumi, la gomma e alcune ferrovie. Alla nostrasinistra il famoso ponte mobile Chillicothe, dove ventotto irochesimassacrarono una volta un centinaio di... Di fessacchiotti."

Therese rise."E dove una volta si accamparono Lewis e Clark," aggiunse Carol.

"Penso che mi metterò i calzoni, oggi. Vuoi vedere se sono in quellavaligia? Altrimenti, dovrò cercarli in macchina. Non quelli leggeri, quellidi gabardine blu."

Therese cercò nella valigia grande, ai piedi del letto di Carol. Era pienadi maglioni, di biancheria e di scarpe, ma niente calzoni. Vide un tubo dinichel sporgere da un golfino piegato. Sollevò l’indumento. Era pesante.Lo spiegò, e trasalì al punto da lasciarsi quasi sfuggire l’oggetto di mano:era una pistola con il calcio bianco.

"No?" domandò Carol."No." Therese tornò ad avvolgere l’arma nel golfino e rimise il tutto

così come l’aveva trovato."Cara, ho dimenticato l’asciugamano. Dev’essere su una sedia."Therese lo prese, glielo portò e, nel suo nervosismo, mentre metteva

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l’asciugamano nella mano tesa di Carol, abbassò lo sguardo dalla facciaal seno nudo dell’amica e più giù, e notò la sua immediata sorpresa,all’atto in cui si voltava in là. Therese serrò gli occhi e ritornò lentamenteverso il letto, vedendo dietro le palpebre chiuse l’immagine del corponudo di Carol.

Therese fece la doccia e, quando ne uscì, Carol era in piedi davanti allospecchio, quasi pronta.

"Cos’hai?" domandò Carol."Niente."Carol si girò verso di lei, pettinandosi i capelli leggermente scuriti

dall’umidità dopo la doccia. Tra le labbra, vivide di rossetto appenamesso, una sigaretta. "Ti rendi conto di quante volte in una giornata micostringi a farti questa domanda?" disse. "Non ti sembra un po’sconsiderato, da parte tua?"

Mentre facevano colazione, Therese domandò: "Perché ti sei portatadietro quella pistola, Carol?"

"Ah, per questo eri preoccupata, allora. È di Harge, altra cosa che lui hadimenticato." Carol parlava con indifferenza. "Ho pensato che fossemeglio prenderla che lasciarla lì."

"È carica?""Sì, è carica. Harge ha il porto d’armi, perché una volta avevamo avuto

un ladro in casa.""Sai usarla?"Carol le sorrise. "Non sono una tiratrice scelta, ma so usarla. Ti

preoccupa, mi pare, vero? Non mi aspetto di dovermene servire."Therese non disse altro in proposito. Ma le bastava pensarci per

sentirsi turbata. Ci pensò la sera dopo, quando un fattorino lasciò caderedi peso la valigia sul marciapiede. Si domandò se un’arma potesse lasciarpartire un colpo, dopo un simile scossone.

Avevano scattato alcune istantanee nell’Ohio e, poiché potevanoritirarle, sviluppate, il mattino dopo di buon’ora, passarono una lungaserata e la notte in una città chiamata Defiance. Passeggiarono tutta lasera per le strade, guardando nelle vetrine, aggirandosi per silenziose vieresidenziali dove le luci erano accese nei soggiorni e le case apparivano

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confortevoli e sicure come altrettanti nidi. Therese aveva temuto cheCarol si annoiasse a girovagare così, senza meta, ma era proprio Carol asuggerire di percorrere ancora un isolato, o di portarsi in cima a una salitaper vedere che cosa c’era dall’altra parte. Intanto, parlava di sé e diHarge. Therese tentava di riassumere in una parola che cosa avesseseparato Carol e Harge, ma le scartava tutte quasi subito: noia, rancore,indifferenza... Carol le raccontò della volta in cui Harge si era portato viaRindy per una gita di pesca e non aveva dato più notizie per giorni. Erastata una forma di rappresaglia perché Carol si era rifiutata di passare levacanze con lui nella residenza estiva dei suoceri, nel Massachusetts. Unatteggiamento di dispetto reciproco, che risaliva a molto tempo addietro.

Carol mise due delle istantanee nel portafogli, una di Rindy vestita dacavallerizza, scattata nella prima parte del rullino, e una di Therese,sigaretta in bocca e capelli al vento. Ce n’era una poco lusinghiera diCarol in piedi, infagottata nella pelliccia, che Carol disse di volermandare ad Abby, proprio perché era così brutta.

Arrivarono a Chicago un pomeriggio sul tardi, insinuandosi lentamentenel suo grigio e spampanato disordine in coda a un enorme camion di unaditta di distributori di carne. Therese stava protesa verso il parabrezza.Non ricordava niente di quella città, del viaggio che aveva fatto con suopadre. Sembrava che Carol, invece, la conoscesse altrettanto bene diManhattan. Le mostrò il famoso Loop, e si fermarono un poco a osservarei treni e il fuggifuggi verso casa delle cinque e mezzo pomeridiane.Niente di paragonabile, però, al manicomio che era a quell’ora New York.

Alla posta centrale, Therese trovò una cartolina di Dannie, niente daPhil e una lettera di Richard. Diede solo un’occhiata alla lettera e videche cominciava e terminava in maniera affettuosa. Proprio quello che leisi aspettava: Richard che si faceva dare da Phil il recapito fermo posta ele scriveva una lettera affettuosa. Se la mise in tasca, prima di tornare daCarol.

"C’era niente?" domandò Carol."Solo una cartolina. È di Dannie. Ha finito gli esami."Carol rimise in moto verso il Drake Hotel. L’albergo aveva il

pavimento a scacchi bianchi e neri, una fontana nell’atrio, e Therese lo

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trovò sontuoso. Nella loro stanza, Carol si tolse la pelliccia e si gettò suuno dei due letti gemelli.

"Conosco alcune persone, qui," disse con voce assonnata. "Vogliamocercarne qualcuna?"

Ma si addormentò prima che avessero veramente deciso.Therese si mise a guardare dalla finestra il lago contornato di luci e la

linea irregolare e a lei non familiare degli alti edifici contro il cieloancora grigiastro. Le appariva tutto confuso e monotono, come in unquadro di Pissarro. Paragone che Carol non apprezzerebbe, pensò.Appoggiata al davanzale, contemplava la città, osservando la luce dei faridi un’auto in lontananza frammentarsi in punti e linee nel passare dietrogli alberi. Era felice.

"Perché non chiami per far portar su dei cocktail?" risuonò la voce diCarol alle sue spalle.

"Che cosa ti andrebbe?""E a te?""Un martini."Carol zufolò. "Con cipolline," la interruppe poi, mentre stava

telefonando. "E un piatto di tartine. Di martini tanto vale ordinarnequattro."

Therese lesse la missiva di Richard mentre Carol era nella doccia.L’intera lettera era affettuosa. "Tu non sei come le altre ragazze," lescriveva. Lui aveva aspettato e avrebbe continuato ad aspettare, perchéaveva l’assoluta certezza che insieme sarebbero stati felici. Voleva chelei gli scrivesse ogni giorno, non fosse che una cartolina. Le raccontavache una sera si era riletto le tre lettere che gli aveva scritto quando,l’estate scorsa, era andato a Kingston. C’era, nella lettera, una notasentimentale che non era affatto da lui, e il primo pensiero di Therese fuche fingesse, forse allo scopo di assestarle il colpo in seguito. La secondareazione fu di antipatia. Ritornò alla vecchia decisione che non scrivergli,non dire più niente, fosse la via più breve per troncare la cosa.

Arrivarono i cocktail, e Therese li pagò, invece di firmare. Nonriusciva mai a pagare un conto, se non all’insaputa di Carol.

"Ti metterai l’abito nero?" domandò, quando Carol riapparve.

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Carol le lanciò un’occhiata. "Ripescandolo dal fondo di quellavaligia?" disse, avvicinandosi alla valigia in questione. "Tirandolo fuori,spazzolandolo, perdendo mezz’ora a rinfrescarlo perché sarà tuttospiegazzato?"

"Anche per bere quelli, ci vorrà una mezz’ora.""I tuoi poteri di persuasione sono irresistibili." Carol si portò l’abito in

bagno e aprì il rubinetto della vasca.Era l’abito che indossava la prima volta che avevano fatto colazione

insieme."Ti rendi conto che questo è il primo cocktail che bevo da quando

abbiamo lasciato New York?" disse Carol. "No, naturalmente. E saiperché? Perché sono felice."

"Sei bella," replicò Therese.E Carol le rivolse quel sorriso scettico che Therese amava, prima di

andare verso la toletta. Si gettò intorno al collo una sciarpa di seta giallache annodò mollemente, poi cominciò a pettinarsi. La luce della lampadale incorniciava la figura come in un quadro, e Therese provò lasensazione che tutto questo fosse già accaduto. D’improvviso ricordò: ladonna dietro la finestra, che si spazzolava i lunghi capelli. Rammentavaperfino i mattoni della facciata, l’atmosfera di bruma e di pioggia di quelmattino.

"Un po’ di profumo?" domandò Carol, venendo verso di lei con laboccetta. Sfiorò con le dita la fronte di Therese, proprio all’attaccaturadei capelli, dove un giorno aveva posato un bacio.

"Mi fai venire in mente una donna che ho visto una volta," disseTherese, "più o meno dalle parti della Lexington. Non tu, ma la luce.Anche lei stava pettinandosi." Therese s’interruppe, ma Carol aspettò checontinuasse. Ogni volta Carol aspettava, e lei non poteva mai esprimerecon esattezza quello che voleva dire. "Una mattina presto mentre andavoal lavoro, e ricordo che cominciava a piovigginare," ripreseconfusamente. "La vedevo al di là di una finestra." Proprio non potevacontinuare, sull’essersi fermata là per tre o quattro minuti, forse,desiderando con un’intensità che la lasciava del tutto priva di forze diconoscere quella donna, di poter essere bene accolta se si fosse avvicinata

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alla casa e avesse bussato, desiderando di poterlo fare, invece di doversirecare al lavoro alla Pelican Press.

"La mia orfanella," disse Carol.Therese sorrise. Non c’era alcuna nota deprimente, niente che la ferisse

in quella parola, quando a pronunciarla era Carol."Com’è tua madre, d’aspetto?""Aveva i capelli neri," disse subito Therese. "Non aveva niente in

comune con me." Therese si ritrovava sempre a parlare della madre alpassato, sebbene in realtà fosse viva e vegeta, in qualche parte delConnecticut.

"Davvero pensi che lei non desideri mai rivederti?" Carol era di nuovoallo specchio.

"Non credo.""E la famiglia di tuo padre? Non mi avevi detto che aveva un fratello?""Non l’ho mai conosciuto. Era una specie di geologo, lavorava per una

società petrolifera. Non so dove sia." Le era più facile parlare dello zio,che non conosceva affatto.

"Tua madre come si chiama, ora?""Esther... Signora Nicolas Strully." Il nome non aveva alcun

significato, per lei, proprio come se l’avesse letto a caso sull’elencotelefonico. Guardò Carol, improvvisamente pentita d’averlo pronunciato.Un giorno o l’altro Carol poteva... Si sentì invadere da un senso dismarrimento, di impotenza. Sapeva così poco di Carol, in fin dei conti.

Carol le lanciò un’occhiata. "Non lo menzionerò mai," disse, "non melo sentirai citare mai più. Se quel secondo martini rischia di fartidiventare malinconica, non berlo. Non voglio che tu sia giù di corda,stasera."

Anche il ristorante dove cenarono si affacciava sul lago. Fecero unvero banchetto, con champagne e, dopo cena, brandy. Per la prima voltain vita sua Therese si sentiva un tantino brilla, anzi più brilla di quantovolesse far vedere a Carol. La sua impressione del lungolago sarebbesempre stata quella di un largo viale tempestato di residenze cheassomigliavano tutte alla Casa Bianca di Washington. Nel ricordo visarebbe stata la voce di Carol che le parlava di una casa, qui o là, dove lei

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in precedenza era stata, e l’inquietante consapevolezza che per un periodoquello era stato il mondo di Carol, così come Rapallo, Parigi e altriluoghi che lei non conosceva, erano stati per un certo tempo la cornice ditutto quello che Carol aveva fatto.

Quella sera, prima di spegnere la luce, Carol sedette sul bordo del suoletto, fumando una sigaretta. Therese, distesa nel proprio letto, laosservava assonnata, cercando di leggere il significato dell’inquieta,perplessa espressione negli occhi di Carol, che per un attimo fissavanoqualcosa nella stanza e subito si spostavano altrove. Era a lei chepensava, o a Harge, oppure a Rindy? Carol aveva chiesto la sveglia per lesette, l’indomani, per poter telefonare a Rindy prima che andasse ascuola. Therese ricordava la loro conversazione telefonica da Defiance.Rindy aveva litigato con un’altra bambina, e Carol aveva speso un quartod’ora a esaminare la cosa, e a cercare di convincere Rindy che toccava alei fare il primo passo e chiedere scusa. Therese sentiva ancora l’effettodi quello che aveva bevuto, l’ebbrezza lasciatale dallo champagne che lefaceva sentire quasi come una sofferenza l’attrazione per Carol. Pensavache, se soltanto glielo avesse chiesto, Carol quella notte l’avrebbelasciata dormire nel suo letto. Ma lei voleva di più, voleva baciarla,sentire i loro corpi a contatto l’uno dell’altro. Le tornarono in mente ledue ragazze che aveva visto nel bar del Palermo. Questo facevano, losapeva, e anche altro. E Carol, l’avrebbe improvvisamente allontanata dasé con disgusto, se lei avesse voluto semplicemente tenerla tra le braccia?E l’affetto che Carol aveva per lei, sarebbe svanito in quell’istante? Lavisione del gelido rabbuffo di Carol bastò a spazzar via tutto il suocoraggio. Ma già le tornava, strisciando umilmente, nell’interrogativo:non potrei limitarmi a chiederle di lasciarmi dormire nel suo letto?

"Carol, ti dispiacerebbe...""Domani andremo a vedere i paddock per il bestiame," disse

contemporaneamente Carol, e Therese scoppiò a ridere. "Che c’è di tantobuffo, poi?" domandò Carol, spegnendo la sigaretta, ma sorrideva anchelei.

"Non lo so, ma è buffissimo," rispose Therese, sempre ridendo, escacciando con la risata tutta la bramosia e l’intenzione della serata.

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"Ti è presa la ridarella per colpa dello champagne," sentenziò Carol,mentre spegneva la luce. Il pomeriggio seguente, sul tardi, lasciarono Chicago e si misero inviaggio in direzione di Rockford. Carol disse che forse avrebbe trovatouna lettera di Abby, là, o forse no, perché Abby era una pessimacorrispondente. Therese entrò da un ciabattino per farsi ricucire unascarpa e, quando tornò, Carol stava leggendo la lettera in macchina.

"Che strada dobbiamo prendere, ora?" Carol aveva adessoun’espressione più felice.

"La 20, verso ovest."Carol accese la radio e girò la manopola fino a che trovò musica. "Qual

è una città che vada bene per fare tappa stanotte, lungo la strada perMinneapolis?"

"Dubuque," disse Therese, studiando la mappa. "Oppure Waterloosembra abbastanza grande, ma è a circa trecento chilometri."

"Potremmo anche farcela."Presero la statale 20 in direzione di Freeport e Galena, che era indicata

sulla mappa come luogo natale di Ulysses S. Grant."Che dice Abby?""Non molto. È solo una lettera molto spassosa."Carol non le disse quasi niente, né in macchina né nel locale dove

sostarono poco dopo per bere un caffè. Carol andò a fermarsi davanti a unjuke-box, per infilarvi lentamente delle monete.

"Vorresti che fosse venuta anche Abby, vero?" osservò Therese."No," disse Carol."Sei così diversa da quando hai ricevuto la sua lettera."Carol la fissò attraverso il tavolino. "Tesoro, è solo una sciocca lettera.

Puoi anche leggerla, se vuoi." Carol si protese a prendere la borsa, manon tirò fuori la lettera.

A un certo punto, durante la serata, Therese si addormentò in auto e sisvegliò con le luci di una città negli occhi. Carol se ne stava stancamenteappoggiata al volante con tutt’e due le braccia. Erano ferme a un

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semaforo."Qui è dove passeremo la notte," disse Carol.Therese era ancora tutta assonnata mentre attraversava l’atrio

dell’albergo. Salirono con l’ascensore, e lei era acutamente consapevoled’avere accanto Carol, come se avesse fatto un sogno in cui Carol era ilsoggetto e l’unica figura. In camera, sollevò la valigia dal pavimentosopra una sedia, l’aprì e la lasciò là, fermandosi poi presso il piccoloscrittoio, a osservare Carol. Come se i suoi stati d’animo fossero rimastiin sospeso in tutte quelle ultime ore, o giornate, ora se ne sentiva comesommergere mentre guardava Carol aprire la sua valigia, toglierne, comefaceva sempre per prima cosa, la bustina di pelle contenente i suoiarticoli da toletta e, infine, gettarla sul letto. Fissava le mani di Carol, laciocca di capelli che ricadeva al di sopra della sciarpa legata intorno allatesta, e il graffio che si era fatta qualche giorno prima a uno deimocassini di pelle.

"Che cosa fai lì impalata?" domandò Carol. "Va’ a letto, dormigliona.""Carol, ti amo."Carol si raddrizzò. Therese la fissava con uno sguardo intenso,

assonnato. Poi, Carol finì di togliere il pigiama dalla valigia e riabbassò ilcoperchio. Si avvicinò a Therese e le mise le mani sulle spalle. Glielestrinse con forza, come per esigere da lei una promessa, o forse perscoprire se quello che aveva detto era vero. Poi baciò Therese sullelabbra, come se si fossero già baciate così migliaia di volte.

"Non lo sai che ti amo anch’io?" disse.Poi si portò il pigiama in bagno, e per un momento rimase là a fissare

il lavabo."Faccio un salto fuori," disse. "Ma torno subito."Therese rimase in attesa presso lo scrittoio mentre Carol era assente,

mentre il tempo passava in modo indefinito o forse non passava affatto,finché la porta si aprì e Carol riapparve. Posò sul tavolino un sacchetto, eTherese capì che era andata soltanto a prendere una confezione di latte,come entrambe facevano molto spesso la sera.

"Posso dormire con te?" domandò Therese."Lo hai visto il letto?"

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Era un letto matrimoniale. Sedute nel mezzo, in pigiama, rimasero abere il latte e a dividersi un’arancia che Carol aveva troppo sonno perfinire. Poi Therese posò il contenitore sul pavimento e guardò Carol chedormiva già, bocconi, un braccio gettato in là nella posizione in cuisempre si addormentava. Therese spense la luce. Poi Carol le fecescivolare il braccio sotto la nuca, e i due corpi rimasero a contatto pertutta la loro lunghezza, aderendo come se tutto fosse stato in qualchemodo predisposto. La felicità era come vino nuovo che si spargesse in lei,distendendo lievissimi viticci, recandole fiori nella carne. Ebbe per unattimo la visione di un pallido fiore bianco, che baluginava come vistonel buio, o attraverso l’acqua. Si domandò perché gli altri parlassero dicielo.

"Dormi," disse Carol.Therese si augurava di no. Ma quando sentì la mano di Carol muoversi

sulla sua spalla, comprese d’avere dormito. Era l’alba, ormai. Carol leserrò le dita fra i capelli, la baciò sulle labbra, e il piacere insorse dinuovo in lei come se fosse soltanto la continuazione del momento in cuiCarol le aveva fatto scivolare il braccio sotto la nuca, la sera prima. "Tiamo", avrebbe voluto ripetere Therese, ma poi le parole vennerocancellate dal terrificante fremito di piacere che dalle labbra di Carol sispandeva in ondate al suo collo e alle sue spalle, che d’improvviso lainvadeva da capo a piedi. Le sue braccia erano strette intorno a Carol, elei era consapevole di Carol e di niente altro, della mano di Carol chescivolava lungo le sue costole, dei capelli di Carol che le sfioravano ilseno nudo. Infine l’intero suo corpo parve svanire in cerchi che sifacevano sempre più grandi e si spingevano sempre più in là, fin dove ilpensiero non poteva più seguirli. Mentre, a migliaia, i ricordi e imomenti, le parole, il primo "Tesoro", la seconda volta che Carol eravenuta a prenderla al negozio, infiniti ricordi della faccia di Carol, dellasua voce, di istanti di collera e di risa, le balenavano nella mente come lacoda di una cometa. E adesso tutto era distanza cilestrina e spazio, unospazio che andava espandendosi e in cui lei spiccava improvvisamente ilvolo come una lunga freccia. La freccia sembrava attraversare senzasforzo un abisso di ampiezza inaudita, sembrava inarcarsi sempre più

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verso l’alto, e non fermarsi mai del tutto. Poi, si rese conto d’essereancora aggrappata a Carol, di tremare violentemente, e d’essere lei quellafreccia. Si vide davanti agli occhi i chiari capelli di Carol, che ora avevala testa vicinissima alla sua. E non doveva domandarsi se questo fossebene: nessuno doveva dirglielo, perché niente poteva essere più giusto opiù perfetto. Strinse più forte Carol contro di sé, e sentì la bocca di Carolsulla sua, che sorrideva. Infine giacque immobile, guardando Carol, lafaccia di Carol a soli pochi centimetri dalla sua, gli occhi grigi calmicome mai li aveva visti, come se conservassero parte dello spazio da cuilei era appena emersa. E sembrava strano che fosse ancora la faccia diCarol, con le stesse lentiggini, le stesse bionde sopracciglia ricurve chelei conosceva, la stessa bocca ora calma quanto gli occhi, da lei vista giàtante volte.

"Angelo mio," disse Carol. "Piovuto dallo spazio."Therese levò lo sguardo agli angoli della stanza, ora molto più

rischiarati dalla luce, al cassettone con la parte anteriore sporgente e lemaniglie dei cassetti a forma di scudi, allo specchio senza cornice emolato agli orli, alle tendine dai verdi disegni che pendevano rigide allefinestre, e alle due grigie sommità degli edifici che s’intravedevano pocoal di sopra del davanzale. Avrebbe ricordato ogni particolare di quellacamera, per sempre.

"Che città è questa?" domandò.Carol rise. "Questa? È Waterloo." Si protese a prendere le sigarette.

"Orribile, vero?"Sorridendo, Therese si sollevò su un gomito. Carol le mise una

sigaretta fra le labbra. "Di Waterloo ce ne sono almeno un paio in ognistato," disse Therese.

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16Therese scese a prendere qualche giornale, intanto che Carol si vestiva.Entrò nell’ascensore e si girò, proprio al centro della cabina. Si sentiva unpo’ strana, come se tutto fosse slittato lievemente e le distanze nonfossero più proprio le stesse, l’equilibrio non più quello di prima. Siavviò attraverso l’atrio, fino all’edicola all’angolo.

"Il Courier e il Tribune," disse all’edicolante, prendendoli, e perfinopronunciare le parole le sembrava diverso, proprio come i nomi deigiornali che stava acquistando.

"Otto centesimi," disse lui, e Therese guardò il resto che l’uomo leaveva dato e vide che c’era ancora la stessa differenza fra otto centesimie un quarto di dollaro.

Tornò ad attraversare l’atrio, gettò uno sguardo oltre la vetrina delnegozio di barbiere dove un paio di uomini stavano facendosi rasare. Unnegro stava lucidando scarpe. Un uomo alto con un sigaro e un cappello afalda larga le passò accanto. Avrebbe ricordato per sempre anchequell’atrio, le persone, l’antiquato fregio alla base del bancone in legnodel portiere, e il signore con il cappotto scuro che l’aveva guardata dasopra il suo giornale per poi riadagiarsi nella poltrona e continuare aleggere, accanto alla colonna in marmo nero e color panna.

Quando Therese aprì la porta della camera, la vista di Carol la trapassòcome una lancia. Si arrestò per qualche istante con la mano sullamaniglia.

Carol la guardava dalla stanza da bagno, tenendo il pettine sospeso aldi sopra della testa, contemplandola da capo a piedi. "Non fare così inpubblico," raccomandò.

Therese gettò i giornali sul letto e corse da lei. Carol la serrò subito trale braccia. Rimasero strette l’una all’altra come se non dovesserosepararsi mai. Therese rabbrividiva, e aveva le lacrime agli occhi. Eradifficile trovare le parole, chiusa nella stretta di Carol, stretta più intimadi un bacio.

"Perché hai aspettato tanto?" domandò Therese."Perché... pensavo che non vi sarebbe stata una seconda volta, che non

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l’avrei voluto. Ma non è vero."Therese pensò ad Abby, e fu come se una sottile asta di amarezza

s’insinuasse fra loro. Carol la lasciò andare."E c’era qualcos’altro... Averti d’attorno me lo ricordava, conoscendoti

e sapendo che sarebbe stato così facile. Scusami. Non era giusto verso dite."

Therese serrò i denti. Guardava Carol allontanarsi lentamenteattraverso la stanza, vedeva la distanza aumentare, e ripensava alla primavolta che l’aveva vista allontanarsi altrettanto lentamente nel repartogiocattoli: per sempre, aveva pensato lei. Carol aveva amato anche Abby,e rimproverava se stessa per questo. Chissà, si domandava Therese, se ungiorno si sarebbe rimproverata d’avere amato lei. Comprendeva, ora,perché le settimane di dicembre e gennaio fossero state fatte di collera edi indecisione, di un alternarsi di rimproveri e di indulgenza. Macomprendeva anche che, qualsiasi cosa Carol dicesse a parole, nonc’erano né barriere né tentennamenti, ora. Non c’era neppure Abby, daquel mattino in poi, qualsiasi cosa fosse accaduta in passato tra Abby eCarol.

"Vero?" domandò Carol."Tu mi hai resa tanto felice fin da quando ti ho conosciuta," disse

Therese."Non credo tu sia in grado di giudicare.""Posso giudicarlo questa mattina."Carol non rispondeva. Soltanto lo scatto della serratura le rispose.

Carol aveva chiuso a chiave la porta, ed erano sole. Therese andò verso dilei, dritto fra le sue braccia.

"Ti amo," disse, solo per udire le parole. "Ti amo, ti amo."Ma quel giorno Carol sembrava farlo apposta a non prestarle nessuna

attenzione. C’era più arroganza nell’inclinazione della sua sigaretta, nelmodo in cui faceva manovra per scostarsi da un marciapiede,imprecando, e non solo per scherzo. "Mi venga un accidenti se metteròmai più una moneta in un parchimetro con una prateria bene in vista,"diceva Carol. Ma quando Therese ne incontrava lo sguardo rivolto a lei,vedeva che gli occhi le ridevano. Carol la prendeva in giro, pesandole

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sulla spalla mentre erano davanti a un distributore di sigarette, toccandoleil piede sotto i tavoli, facendo sì che Therese si sentisse al tempo stessoillanguidita e tesa. Ripensava alle persone che aveva visto mani nellemani al cinema, e perché non dovevano farlo lei e Carol? Eppure, quandosi limitò a infilare il braccio in quello di Carol mentre, in un negozio,sceglievano una scatola di dolciumi, Carol mormorò: "Non farlo."

Dalla pasticceria di Minneapolis, Therese mandò una scatola di dolcialla signora Robichek, e una anche ai Kelly. Mandò uno scatoloneelegantissimo alla madre di Richard, a due ripiani, con scomparti in legnoche la signora Semco, lei ne era certa, avrebbe usato in seguito per gliarticoli da ricamo.

"L’hai mai fatto con Abby?" domandò di punto in bianco Theresequella sera in macchina.

Negli occhi di Carol balenò un improvviso lampo di comprensione elei batté le palpebre. "Ma certo."

Ma certo. Therese già lo sapeva. "E ora...?""Therese..."Rigidamente, lei domandò: "Era proprio lo stesso che con me?"Carol sorrise. "No, cara.""Non credi che sia più piacevole che dormire con un uomo?"Il sorriso di Carol era divertito. "Non è detto. Dipende. Chi hai

conosciuto oltre Richard?""Nessuno.""Bene, non credi che faresti meglio a provare con qualcun altro?"Therese rimase per un momento senza parole, ma si sforzò di mostrarsi

indifferente, tamburellando con le dita sul libro che aveva in grembo."Intendo dire una volta o l’altra, tesoro. Hai tanti di quegli anni davanti

a te."Therese non rispondeva. Non riusciva neppure a immaginare di

lasciare Carol. Quella era un’altra terribile domanda che le era balzataalla mente fin dal principio, che ora le martellava il cervello con penosainsistenza, per avere risposta. Carol avrebbe mai voluto lasciarla?

"Insomma, dipende molto dall’abitudine, con chi fai l’amore,"continuò Carol. "E tu sei troppo giovane per prendere decisioni così

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enormi. O abitudini.""Tu sei solo un’abitudine?" domandò lei, sorridendo, ma udiva il

risentimento nella propria voce. "Vuoi dire che non è altro che questo?""Therese... proprio ora mi diventi così triste.""Non sono triste," protestò Therese, ma di nuovo sotto di lei c’erano il

sottile strato di ghiaccio e le incertezze. O forse era perché voleva semprequalcosa di più di quello che aveva, non importa quanto avesse?Impulsivamente disse: "Anche Abby ti ama, vero?"

Carol trasalì un poco, posò la forchetta. "Abby mi ha amatopraticamente per tutta la vita... Anche come amante."

Therese la fissava."Un giorno te ne parlerò. Qualsiasi cosa sia accaduta, appartiene al

passato. A mesi e mesi fa," aggiunse, talmente sottovoce che Therese astento la udiva.

"Soltanto mesi?""Sì.""Parlamene ora.""Non è né il momento né il luogo.""Non c’è mai un momento," replicò Therese. "Non l’hai detto proprio

tu che non c’è mai il momento adatto?""Ho detto così? A che proposito?"Ma nessuna delle due aggiunse altro, per qualche istante, perché un

nuovo assalto del vento scagliò la pioggia contro il tetto e il parabrezzacon il fragore di milioni di proiettili, e per un momento non avrebberopotuto udire nient’altro. Non tuonava, quasi che il tuono, lassù in alto, siastenesse modestamente dal competere con quell’altro dio della pioggia.Aspettarono, all’insufficiente riparo di una collina di fianco alla strada.

"Potrei raccontarti la parte di mezzo," riprese Carol, "perché èdivertente... E c’è dell’ironia. Riguarda lo scorso inverno, quandogestivamo insieme quel negozio di mobili. Ma non posso cominciaresenza dirti la prima parte, e quella risale a quando eravamo bambine. Lenostre famiglie vivevano vicine, nel New Jersey, perciò ci vedevamodurante le vacanze. Abby aveva sempre avuto una leggera cotta per me,pensavo, fin da quando avevamo circa sei e otto anni. Poi mi scrisse un

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paio di lettere, quando era sui quattordici anni ed era lontana, a scuola. E,nel frattempo, io avevo sentito parlare di ragazze che preferivano leragazze. Ma i libri dicevano anche che è una cosa che passa, dopoquell’età." C’erano pause tra una frase e l’altra, come se lei stessesaltando quelle di mezzo.

"Eri a scuola con lei?" domandò Therese."No, mai. Mio padre mi aveva mandato a una scuola diversa, fuori

città. Poi Abby a sedici anni andò in Europa, e io non ero a casa quandolei tornò. La vidi una sola volta, a una festa, più o meno all’epoca del miomatrimonio. Abby era molto diversa, ora, non aveva più l’aspetto di unmaschiaccio. Poi Harge e io andammo a vivere in un’altra città, e non larividi più... Oh, per anni, fino a dopo che Rindy era nata già da un belpezzo. Capitava ogni tanto nel maneggio dove Harge e io andavamo acavalcare, e qualche volta uscivamo a cavallo insieme. Poi, Abby e iocominciammo a giocare a tennis il sabato, quando Harge di solito giocavaa golf. Ci divertivamo sempre molto, insieme. Della cotta che lei avevaun tempo per me io nemmeno mi ricordavo più: eravamo entrambe tantopiù vecchie ed erano successe tante cose. Mi venne l’idea di aprire unnegozio, perché volevo passare meno tempo con Harge. Avevol’impressione che stessimo venendoci reciprocamente a noia, e forse cisarebbe stato d’aiuto. Così domandai ad Abby se volesse diventare miasocia, e avviammo il negozio di mobili. Di lì a qualche settimana, conmia sorpresa, mi accorsi di sentirmi attratta da lei," raccontò Carolsempre con lo stesso tono tranquillo. "Non riuscivo a spiegarmelo, e mifaceva anche un po’ paura... ricordandomi di come era Abby un tempo, erendendomi conto che poteva provare la stessa cosa, o che potevamoprovarla entrambe. Così cercai di non lasciarlo capire ad Abby, e ciriuscii, penso. Ma alla fine – e qui viene la parte buffa, finalmente – ci fula sera a casa di Abby, una sera dell’inverno scorso. Le strade eranoimpraticabili per la neve, e la madre di Abby insistette perchédormissimo insieme nella camera della figlia, per il semplice fatto che inquella dove avevo dormito altre volte il letto non era fatto ed era giàmolto tardi. Abby disse che avrebbe pensato lei a fare il letto,protestammo tutt’e due, ma la madre di Abby insisteva." Carol abbozzò

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un sorriso e le lanciò un’occhiata, ma Therese sentì che in realtà non lavedeva nemmeno. "E così, dormii con Abby. Niente sarebbe successo, nesono certa, se non fosse stato per quella notte. Se non fosse stato per lamadre di Abby, ed è questo il lato ironico, perché lei neppure se loimmagina. Ma accadde, e io mi sentii un po’ come te, credo, altrettantofelice." Carol pronunciò le ultime parole tutte d’un fiato, sebbene la vocefosse ancora calma e in un certo senso priva di qualsiasi emozione.

Therese la fissava, non sapendo se fosse gelosia, amara sorpresa ocollera, quella che d’improvviso sciupava tutto. "E dopo?" domandò.

"Dopo capii d’essere innamorata di Abby. Non lo so, ma... perché nonchiamarlo ’amore’? Ne aveva tutti i sintomi. Ma durò un paio di mesiappena, come una malattia che viene e se ne va." Carol aveva ora un tonodiverso. "Tesoro, non ha niente a che fare con te, ed è finito, ormai.Capivo che tu volevi sapere, ma non vedevo alcuna ragione di dirtelo. Atal punto la cosa è priva di importanza."

"Ma se tu provavi la stessa cosa per lei...""Per due mesi?" disse Carol. "Quando hai un marito e una figlia, sai, è

un po’ diverso."Diverso da lei, intendeva dire Carol, perché lei non aveva altre

responsabilità. "Dici? Puoi tranquillamente cominciare e smettere?""Quando sai che non ha senso," rispose Carol.La pioggia stava diminuendo, ma solo nel senso che ora lei poteva

vederla come pioggia, e non come vere e proprie lastre d’acqua. "Non cicredo."

"Non sei certo in condizione di giudicare.""Perché sei così cinica?""Cinica? Io?"Therese non sapeva bene come rispondere. Che cosa voleva dire amare

qualcuno, che cos’era esattamente l’amore, e perché finiva o non finiva?Erano quelle le vere domande, e chi poteva dare una risposta?

"Piove meno, ora," disse Carol. "Che ne diresti di andare a cercarci unbuon brandy da qualche parte? O questo è uno stato proibizionista?"

Proseguirono fino alla città più vicina e trovarono un bar desertonell’albergo più grande. Il brandy era delizioso, e ne ordinarono altri due.

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"È cognac francese," disse Carol. "Un giorno ci andremo, in Francia."Therese rigirava tra le dita il piccolo bicchiere panciuto. Un orologio

ticchettava a un’estremità del bar. Un treno fischiò in lontananza, e Carolsi schiarì la voce. Suoni ordinari, eppure quello non era un momentoqualsiasi. Non c’erano più stati momenti qualsiasi dalla mattina aWaterloo. Therese fissava la vivida luce color oro scuro nel bicchiere dicognac, e d’improvviso non ebbe più alcun dubbio che un giorno lei eCarol sarebbero andate in Francia. Poi, da quel sole bruno-dorato cheluccicava nel bicchiere, affiorò la faccia di Harge: occhi, naso e bocca.

"Harge sa di Abby, vero?" domandò."Sì. Mi aveva fatto delle domande su di lei, mesi fa... e io gli spiattellai

tutta la verità, dal principio alla fine.""Gli hai..." Therese pensò a Richard, immaginò come lui avrebbe

reagito. "Per questo state per divorziare?""No. Non ha niente a che fare con il divorzio. È un altro lato ironico,

questo: che io l’abbia detto a Harge dopo che tutto era finito. Un errore,uno sforzo di sincerità quando tra me e Harge non c’era ormai più nienteda recuperare. Avevamo già parlato di divorzio. Ti prego, nonricordarmeli, gli errori!" Carol aggrottava la fronte.

"Vuoi dire... Sicuramente sarà stato geloso.""Sì. Perché in qualsiasi modo glielo avessi detto, sarebbe sembrato,

immagino, che in un dato periodo mi fosse importato più di Abby diquanto mi fosse mai importato di lui. A un certo punto, nonostante Rindy,mi sarei lasciata tutto alle spalle pur di andare con lei. Non so come siastato che non l’ho fatto."

"E avresti portato Rindy con te?""Non lo so. So che il fatto che Rindy esisteva mi trattenne dal lasciare

Harge, allora.""Lo rimpiangi?"Carol scosse lentamente la testa. "No. Non sarebbe durato. Non è

durato, e forse inconsciamente lo sapevo. Con il mio matrimonio cheandava a rotoli, ero troppo spaventata e troppo debole..." S’interruppe.

"Sei spaventata, ora?"Carol taceva.

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"Carol...""No, non lo sono," dichiarò ostinatamente, sollevando la testa.Nella luce fioca, Therese la contemplava in volto, di profilo. "Come

fare per Rindy, ora?" avrebbe voluto domandare. "Che cosa succederà?"Ma sapeva che Carol era li lì per spazientirsi, di darle una rispostanoncurante o di non risponderle affatto. Un’altra volta, si disse, ora non èil momento. C’era il rischio di distruggere tutto, perfino la concretezzadella persona di Carol accanto a lei, e la linea del corpo di Carol nelmaglione nero sembrava la sola cosa concreta al mondo. Therese fecescorrere il pollice lungo il fianco di Carol, dall’ascella alla vita.

"Ricordo che Harge era particolarmente seccato a proposito di unviaggio che avevo fatto con Abby nel Connecticut. Abby e io c’eravamoandate soltanto per comperare cose per il negozio. Era stato un viaggio disoli due giorni, ma lui disse: ’A mia insaputa. Dovevi scappare, dovevi.’"Carol lo disse con amarezza. C’era più autorimprovero, nella sua voce,che imitazione di Harge.

"Ne parla ancora?""No. È forse una cosa di cui parlare? Di cui essere fieri?""È forse una cosa di cui vergognarsi?""Sì. Tu questo lo sai, vero?" domandò Carol nel suo tono tranquillo,

scandito. "Agli occhi del mondo è qualcosa di abominevole."Da come lo disse, Therese non poté veramente sorriderne. "Ma tu non

lo credi, però.""Per gente come la famiglia di Harge.""Non sono il mondo intero, loro.""Lo sono quanto basta. E bisogna viverci, nel mondo. Tu, intendo

dire... E non mi riferisco, al momento, a chi tu decidi di amare."Guardava Therese, e alla fine Therese vide un sorriso splenderlelentamente negli occhi. "Parlo di responsabilità nel mondo in cui altragente vive e che potrebbe non essere il tuo. Ora come ora non lo è, eproprio per questo io ero l’ultima persona, a New York, che avrestidovuto conoscere: perché io ti vizio e ti impedisco di crescere."

"Perché non smetti?""Proverò. Il guaio è che viziarti mi piace."

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"Sei esattamente l’ideale, fra quante avrei potuto conoscerne," dichiaròTherese.

"Dici?"Una volta in strada, Therese osservò: "Non credo che a Harge farebbe

piacere sapere che stiamo viaggiando insieme, vero?""Ma non verrà a saperlo.""Vuoi sempre andare a Washington?""Sì, certo, se tu il tempo ce l’hai. Puoi rimanere assente fino alla fine

di febbraio?"Therese assentì. "A meno che non senta qualcosa a Salt Lake City. Ho

detto a Phil di scrivermi là. Ma è un’ipotesi molto remota."Probabilmente Phil non mi scriverà nemmeno, pensò. Ma se vi fosse statala minima possibilità di un incarico a New York, si sarebbe vista costrettaa tornare. "Proseguiresti per Washington senza di me?"

Carol le lanciò un’occhiata. "Per la verità, no," dichiarò con un lievesorriso. La loro stanza d’albergo era talmente surriscaldata che quando vitornarono, quella sera, per un poco dovettero spalancare le finestre.Appoggiata al davanzale, Carol imprecava contro il caldo per far divertireTherese, dandole della salamandra perché lei invece riusciva asopportarlo. Poi, Carol domandò bruscamente: "Cosa aveva da dirtiRichard, ieri?"

Therese non sapeva nemmeno che Carol fosse al corrente diquell’ultima lettera. Quella che lui aveva promesso, nella lettera diChicago, di farle trovare a Minneapolis e a Seattle. "Non molto," rispose."Era una lettera di una sola pagina. Vuole sempre che gli scriva. E io nonintendo farlo." L’aveva gettata via, la lettera, ma se la ricordava: Non una parola da te, e comincia a farsi strada, in me, il pensiero di qualegroviglio di contraddizioni tu sia. Sei sensibile e tuttavia così insensibile,ricca di fantasia e al tempo stesso così priva di fantasia... Se la tuaimprevedibile amica ti pianta per strada, fammelo sapere e verrò a

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cercarti. Questa storia non può durare, Terry. M’intendo un po’ di questecose. Ho visto Dannie e voleva sapere se avevo tue notizie, che cosa stavifacendo. Ti avrebbe fatto piacere, se glielo avessi detto? Non gli ho dettoniente, per amor tuo, perché penso che un giorno ne arrossirai. Ti amoancora, lo ammetto. Correrò da te – e ti mostrerò com’è veramentel’America – se ci tieni abbastanza a me da scrivermi e dirmelo... Era offensiva per Carol, e Therese l’aveva stracciata. Ora, seduta sul lettocon le braccia intorno alle ginocchia, si afferrava i polsi dentro lemaniche della vestaglia. Carol aveva esagerato con la ventilazione, eadesso la stanza era gelida. I venti del Minnesota ne avevano presopossesso, e afferravano il fumo della sigaretta di Carol, disperdendolo.Therese guardava Carol lavarsi con calma i denti presso il lavabo.

"Dicevi davvero di non volergli più scrivere?" domandò Carol. "È latua decisione?"

"Sì."Therese guardò Carol scuotere via l’acqua dallo spazzolino, poi voltare

le spalle al lavabo e asciugarsi la faccia con una salvietta. Niente diRichard era tanto importante, per lei, quanto il modo in cui Carol sitamponava il viso con un asciugamano.

"Non diciamo altro, allora."Therese sapeva che Carol non avrebbe detto altro. Sapeva che non

aveva fatto che spingerla verso di lui, fino a quel momento. Ora sembravache tutto fosse stato fatto in nome di quel momento, in cui Carol si giravae veniva verso di lei, e il suo cuore faceva un gigantesco balzo in avanti.

Proseguirono il viaggio verso ovest, attraverso Sleepy Eye, Tracy ePipestone, prendendo a volte una strada indiretta, a capriccio. L’Ovest sispiegava come un tappeto magico, punteggiato di linde e compatte unitàdi fattoria, granaio e silo che si potevano scorgere già una mezz’oraprima di arrivare alla loro altezza. Si fermarono una volta in una di quellefattorie per chiedere se potevano comperare benzina sufficiente perarrivare fino alla prossima stazione di servizio. La casa odorava diformaggio fresco. I loro passi risuonavano sordi e solitari sulle solide assibrune dell’impiantito, e Therese pensò in un fervido accesso di

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patriottismo: America. C’era l’immagine di un gallo, sulla parete, fattacon pezzetti colorati di stoffa su un fondo nero, abbastanza bella dafigurare in un museo. L’agricoltore le avvertì che le strade in direzioneovest erano ghiacciate, così presero un’altra strada che andava a sud.

Scoprirono un circo, quella sera, accanto alla strada ferrata in unacittadina chiamata Sioux Falls. Quelli che vi si esibivano non erano moltoesperti. Therese e Carol sedevano in prima fila, su un paio di cassette perle arance. Uno degli acrobati le invitò nella tenda degli artisti, dopo larappresentazione, e volle assolutamente dare a Carol una decina dimanifesti del circo, perché lei li aveva ammirati. Carol ne spedì qualcunoad Abby e qualcuno a Rindy, e a questa mandò anche un camaleonteverde dentro una scatola di cartone. Fu una serata indimenticabile perTherese e, a differenza di molte serate analoghe, le si impresse nellamente come tale mentre ancora durava. Forse era dovuto al sacchetto dipop-corn che si divisero, al circo, e al bacio che Carol le diede dietro undivisorio nella tenda degli acrobati. O, forse, dipendeva dal particolarefascino che Carol emanava – anche se Carol dava sempre per scontati iloro momenti belli – e che sembrava operare su tutto l’ambiente che lecircondava, oppure dal fatto che tutto andava alla perfezione, senzadelusioni o intoppi, proprio così come loro desideravano.

Therese si allontanò dal circo a testa china, immersa nei suoi pensieri."Mi domando se vorrò mai creare di nuovo qualcosa," disse.

"Perché quest’idea, ora?""Voglio dire... Che cosa stavo mai cercando di fare se non questo?

Sono felice."Carol le prese il braccio e glielo strinse, conficcandole il pollice con

tanta forza nella carne che Therese mandò un grido. Poi Carol levò losguardo a un cartello stradale e disse: "Il Nebraska. Penso che cidirigeremo lì."

"Che cosa succederà quando ritorneremo a New York? Non può esserela stessa cosa, vero?"

"Sì," rispose Carol. "Fino a che non ti stancherai di me."Therese rise. Udiva il lieve sbattere dell’estremità della sciarpa di

Carol nel vento.

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"Forse non vivremo insieme, ma sarà la stessa cosa."Non potevano vivere insieme con Rindy, Therese lo sapeva. Sognarlo

era inutile. Ma era più che sufficiente sentire Carol prometterle chesarebbe stato lo stesso.

Presso il confine tra il Nebraska e il Wyoming, si fermarono per cenarein un grande ristorante costruito come un casino di caccia in mezzo a unaforesta verde. Erano praticamente le sole persone nell’enorme sala dapranzo, e scelsero un tavolo vicino al camino. Distesero la mappa stradalee decisero di puntare direttamente verso Salt Lake City. Carol disse che sisarebbero forse fermate là per qualche giorno, perché era un postointeressante, e lei era stanca di guidare.

"Lusk," disse Therese, studiando la mappa. "Che nome dal suono sexy."Carol tornò a chinarsi sulla mappa e rise. "Dov’è?""Lungo il percorso."Carol levò il suo bicchiere di vino. "Château Neuf-du-Pape nel

Nebraska. A che cosa brindiamo?""A noi."Proprio come quella mattina a Waterloo, pensò Therese, un tempo

troppo assoluto e troppo perfetto per sembrare reale, sebbene fosse reale,e non la messa in scena di una commedia: i loro bicchieri di brandy sullamensola del camino, la fila di corna di cervo in alto, l’accendino di Carol,il fuoco stesso. Eppure a tratti lei si sentiva come un’attrice, ricordavasolo di quando in quando la sua identità con un senso di sorpresa, come sein quegli ultimi giorni non avesse fatto che recitare la parte di un’altrapersona, incredibilmente ed eccessivamente fortunata. Levò lo sguardo airami d’abete fissati alle travi del soffitto, guardò la coppia chechiacchierava sommessamente a un tavolo contro la parete, l’uomoseduto a un altro tavolo, che fumava lentamente una sigaretta. Ripensòall’uomo seduto a leggere il giornale nell’albergo di Waterloo. Non avevagli stessi occhi incolori e le stesse rughe profondamente incise ai latidella bocca? O era solo che questo momento di consapevolezza eraidentico a quell’altro momento?

Passarono la notte a Lusk, distante centotrenta chilometri.

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17"Signora H.F. Aird?" Il portiere guardò Carol, dopo che lei aveva firmatoil registro. "È la signora Carol Aird, lei?"

"Sì.""C’è un messaggio per lei." L’uomo si girò per prenderlo dal

casellario. "Un telegramma.""Grazie." Carol guardò Therese inarcando un poco un sopracciglio,

prima di aprirlo. "Dov’è l’Hotel Belvedere?"Il portiere le diede le indicazioni."Devo andare a ritirare un altro telegramma," spiegò Carol a Therese.

"Vuoi aspettarmi qui nel frattempo?""Da parte di chi?""Di Abby.""D’accordo. Sono cattive notizie?"C’era ancora perplessità nello sguardo di Carol. "Non lo so fino a che

non lo vedo. Abby dice solo che c’è un telegramma per me al Belvedere.""Intanto faccio portar su le valigie?""Be’, aspettiamo. L’auto è parcheggiata, ormai.""Perché non posso venire con te?""Ma certo, se vuoi. Andiamo a piedi. Sono soltanto un paio di isolati."Carol camminava in fretta. Il freddo era intenso. Therese guardava

intorno a sé la città piatta e dall’aspetto ordinato, rammentando che Carolaveva detto che Salt Lake City era la città più linda degli Stati Uniti.Come furono in vista dell’Hotel Belvedere, Carol d’improvviso la guardòe disse: "Scommetto che Abby ha avuto un’alzata d’ingegno e ha decisodi prendere un aereo e raggiungerci."

Al Belvedere, Therese comperò un giornale intanto che Carol sidirigeva al banco. Quando Therese si girò verso di lei, Carol stavaabbassando il telegramma dopo averlo letto. C’era un’espressioneinebetita sul suo volto. Prese ad avanzare lentamente verso Therese, e aTherese passò per la mente che Abby fosse morta, che quel secondotelegramma venisse dai parenti di Abby.

"Che cosa c’è?" domandò.

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"Niente. Ancora non lo so." Carol si guardò attorno e sbatté con forza iltelegramma contro le dita. "Ora devo fare una telefonata. Ci sarà daaspettare alcuni minuti, forse." Guardò l’orologio.

Erano le due meno un quarto. Il portiere dell’albergo disse che per lacomunicazione con il New Jersey ci volevano una ventina di minuti. Nelfrattempo, Carol aveva voglia di bere qualcosa. Trovarono un barnell’albergo.

"Che succede? Abby sta male?"Carol sorrise. "No. Dopo ti spiego.""Si tratta di Rindy?""No!" Carol finì il suo brandy.Therese passeggiò su e giù nell’atrio mentre Carol era nella cabina

telefonica. La vide assentire diverse volte, poi frugare alla ricercadell’accendino ma, nel tempo che Therese impiegò per arrivare là adaccenderle la sigaretta, lo aveva trovato e le fece cenno che nonoccorreva. Carol parlò per altri tre o quattro minuti, poi uscì e pagò ilconto.

"Che cosa c’è, Carol?"Carol rimase per qualche istante immobile a fissare la porta

dell’albergo. "Ora dobbiamo andare all’Hotel Temple Square."Là ritirarono un altro telegramma. Carol lo aprì, lo guardò, e lo

stracciò mentre si avviavano all’uscita."Non credo che ci fermeremo qui questa notte," disse. "Andiamo a

riprendere la macchina."Fecero ritorno all’albergo dove Carol aveva trovato il primo

telegramma. Therese ora taceva, ma sentiva che era accaduto qualcosaper cui Carol doveva ritornare immediatamente all’Est. Carol disse alportiere di annullare la loro prenotazione.

"Vorrei lasciare un recapito, nel caso arrivassero altri messaggi," disse."È il Brown Palace di Denver."

"Bene, signora.""La ringrazio molto. Vale per tutta la settimana prossima, almeno."In macchina, Carol disse: "Qual è la città più vicina, verso ovest?""Ovest?" Therese consultò la mappa. "Wendover. È il famoso tratto di

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cui parlavamo. Circa duecento chilometri.""Cristo!" proruppe improvvisamente Carol. Fermò la macchina e prese

la mappa per guardare."E Denver?" domandò Therese."Non voglio andare a Denver." Carol ripiegò la mappa e rimise in

moto. "Bene, ce la faremo, a ogni modo. Cara, accendimi una sigaretta,vuoi? E attenta al primo posto dove poter mangiare qualcosa."

Ancora non avevano pranzato, ed erano le tre passate. Avevano parlatodi quel tratto la sera prima, la strada diritta che da Salt Lake Cityattraversava il deserto. Benzina ne avevano molta, notò Therese, eprobabilmente la zona non era completamente deserta, ma Carol erastanca. Erano in viaggio dalle sei di quel mattino. Carol guidava a tuttavelocità. Di tanto in tanto premeva il pedale a tavoletta e così lo teneva alungo, prima di rallentare un po’. Therese la osservava preoccupata.Sentiva che stavano fuggendo da qualcosa.

"C’è niente dietro di noi?" domandò Carol."No." Sul sedile in mezzo a loro, Therese poteva scorgere parte del

telegramma che sporgeva dalla borsetta di Carol. "Riceverlo. Jacopo" eratutto quel che le riusciva di leggere. Ricordava che Jacopo era il nomedella scimmietta sistemata nel lunotto.

Arrivarono a una stazione di servizio con bar che sorgeva sola solettacome un porro sul paesaggio desolato. Poteva darsi che fossero le primepersone a fermarsi là da giorni. Carol la fissò attraverso l’incerata biancadel tavolo, poi si abbandonò contro la rigida spalliera della sedia. Primache potesse parlare, dalla cucina sul retro uscì un vecchio e le informòche non c’era altro che uova e pancetta, così ordinarono uova, pancetta ecaffè. Poi Carol si accese una sigaretta e si protese in avanti, fissando iltavolo.

"Sai che c’è di nuovo?" disse. "Harge ci ha fatto seguire da uninvestigatore fin da Chicago."

"Un investigatore? Perché?""Non riesci a intuirlo?" disse Carol quasi in un bisbiglio.Therese si addentò la lingua. Sì, poteva intuirlo. Harge aveva scoperto

che viaggiavano insieme. "Te l’ha detto Abby?"

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"Abby è venuta a saperlo." Le dita di Carol slittarono lungo la sigarettae la brace la scottò. Quando si tolse la sigaretta dalle labbra, quelloinferiore sanguinava.

Therese si guardò attorno. Il posto era deserto. "Ci sta seguendo?"domandò. "Viaggia con noi?"

"Forse sarà a Salt Lake City, ora. A controllare in tutti gli alberghi. Èuna faccenda molto sporca, tesoro mio. Mi dispiace, mi dispiace, midispiace." Si lasciò andare inquieta contro la spalliera. "Forse farei bene ametterti su un treno e a rimandarti a casa."

"Va bene... Se pensi che sia la cosa migliore.""Non devi rimanere coinvolta in questa storia. Lascia che seguano me

fino in Alaska, se vogliono. Non so che cos’abbiano appurato, finora. Nonmolto, credo."

Therese sedeva rigida sull’orlo della sua sedia. "Che cosa stafacendo?... Prende appunti su di noi?"

Il vecchio stava tornando, per portar loro due bicchieri d’acqua.Carol assentì. "Poi c’è il giochetto del registratore," disse, mentre

l’uomo si allontanava. "Non sono sicura che si spingano tanto in là. Nonso dire se Harge lo farebbe." L’angolo della bocca le tremava. Fissavauna macchia sulla logora tela cerata bianca. "Chissà se a Chicago hannoavuto il tempo per installarlo. È l’unico posto dove ci siamo fermate piùdi dieci ore. Quasi mi augurerei di sì. Sarebbe un’ironia tale. RicordiChicago?"

"Ma certo." Therese si sforzava di mantenere ferma la voce, ma era unafinzione, come fingere autocontrollo quando qualcosa che amavi ti venivadistrutto sotto gli occhi. Loro due avrebbero dovuto separarsi. "E aWaterloo?"

"Là siamo arrivate a ora tarda. Non sarebbe stato facile.""Carol, io ho visto un tizio... Non sono sicura, ma credo d’averlo visto

due volte.""Dove?""Nell’atrio, a Waterloo, la prima volta. Di mattina. Poi mi è sembrato

di vedere lo stesso uomo ieri sera, nel ristorante con il camino."Carol le fece dire tutto per filo e per segno su entrambe le volte,

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chiedendole di descrivere minuziosamente l’individuo. Non era faciledescriverlo. Ma ora lei stava lambiccandosi il cervello per estrarne finoall’ultimo particolare, fino al colore delle scarpe. Ed era strano epiuttosto terrificante riportare a galla quello che probabilmente era fruttodella sua fantasia per collegarlo a una situazione che invece era reale.Sentiva che avrebbe quasi voluto mentire a Carol, mentre le vedeva losguardo farsi sempre più intenso.

"Che cosa ne pensi?" domandò alla fine.Carol sospirò. "Che cosa se ne può pensare? Devi solo stare attenta per

vedere se ricompare una terza volta."Therese abbassò lo sguardo sul piatto. Mangiare era impossibile. "È

per Rindy, vero?""Sì." Carol posò la forchetta senza prendere neppure un boccone e

allungò la mano verso le sigarette. "Harge la vuole... tutta per sé. Forse,con questo, pensa di poterci riuscire."

"Solo perché stiamo viaggiando insieme?""Sì.""Dovrei proprio lasciarti.""Maledizione a lui," imprecò sottovoce Carol, fissando un angolo della

stanza.Therese aspettò. Ma che cosa c’era da aspettare? "Posso prendere un

autobus qualsiasi da qui, e poi un treno.""Vuoi andartene, tu?" domandò Carol."No, naturalmente. Penso solo che sia meglio.""Hai paura?""Paura? No." Sentì che gli occhi di Carol la valutavano con la stessa

intensità di quando, a Waterloo, lei le aveva detto d’amarla."Allora mi venga un accidenti se andrai. Ti voglio con me.""Dici sul serio?""Sì. Mangia quelle uova. Smettila di fare la sciocca." E Carol accennò

perfino un sorriso. "Vogliamo andare a Reno, come avevamo inprogramma?"

"Dove preferisci.""E prendiamocela con calma."

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Poco dopo, mentre erano di nuovo in strada, Therese ripeté: "Non sonoproprio sicura, sai, che la seconda volta fosse lo stesso uomo."

"Secondo me, lo sei," ribatté Carol. Poi, d’improvviso, lungo il trattodritto e a perdita d’occhio, fermò la macchina. Rimase per qualche istantein silenzio, fissando la strada. Poi lanciò uno sguardo a Therese. "Nonposso andare a Reno. È un po’ troppo buffo. Conosco un postomeraviglioso proprio a sud di Denver."

"Denver?""Denver," ripeté con fermezza Carol, e fece manovra per tornare

indietro.

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18Il mattino, giacquero a lungo l’una nelle braccia dell’altra dopo che ilsole aveva invaso la stanza. Sole che le scaldava, attraverso la finestradell’albergo, nella piccola località al cui nome non avevano neppurebadato. C’era neve sul terreno, all’esterno.

"Ci sarà la neve nell’Estes Park," disse Carol."Cos’è l’Estes Park?""Ti piacerà. Non è come Yellowstone. È aperto tutto l’anno.""Non sei preoccupata, vero, Carol?"Carol l’attirò più vicino a sé. "Mi comporto come se lo fossi?"Therese non lo era affatto. Il panico dei primi momenti era svanito.

Stava in guardia, ma non come lo era stata il pomeriggio precedente,subito dopo Salt Lake City. Carol la voleva con sé, e qualsiasi cosa fosseaccaduta l’avrebbero affrontata insieme, senza fuggire. Com’è maipossibile amare e avere paura?, pensava Therese. Le due cose nonandavano d’accordo. Com’era possibile avere paura, quando loro duediventavano di giorno in giorno più forti? E di notte in notte. Ogni notteera diversa, e ogni mattino. Insieme possedevano un miracolo.

La strada che s’inoltrava in Estes Park era in discesa. I mucchi di nevesi levavano sempre più alti, su entrambi i lati, poi cominciavano le luci,lungo gli abeti o ad arco al di sopra della strada. Era un villaggio di scurecase di tronchi, negozi e alberghi. C’era musica, e la gente passeggiavaper le strade illuminate con la testa levata verso l’alto, come se fosserotutti incantati.

"Mi piace davvero," disse Therese."Il che non significa che non devi fare attenzione alla presenza del

nostro uomo."Si portarono in camera il grammofono, e ascoltarono alcuni dischi che

avevano appena comperato, più qualche vecchio motivo portato da casa.Therese ascoltò un paio di volte Easy Living, e Carol, accoccolata sulbracciolo di una poltrona, la osservava a braccia conserte.

"Che razza di vacanza ti sto offrendo, vero?""Oh, Carol..." Therese si sforzò di sorridere. Era solo un momento di

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malumore di Carol, un breve momento, ma si sentiva impotente adisperderlo.

Carol ora guardava verso la finestra. "E perché non siamo andateaddirittura in Europa? In Svizzera. O non siamo venute qui in aereo, senon altro."

"A me non sarebbe piaciuto affatto." Therese guardò la camicia di pellescamosciata gialla che Carol aveva comperato per lei, e che era appesaalla spalliera di una sedia. Carol ne aveva mandata una verde a Rindy.Aveva comperato anche degli orecchini d’argento, un paio di libri e unabottiglia di Triple Sec. Fino a mezz’ora prima si erano sentite felici,passeggiando insieme per le strade. "È quell’ultimo whisky che haibevuto da basso," sentenziò. "Il whisky ti deprime."

"Dici?""Peggio del brandy.""Ho intenzione di portarti nel posto più bello che conosco al di qua di

Sun Valley," disse Carol."Perché non a Sun Valley?" Therese sapeva che a Carol piaceva sciare."Sun Valley non è il posto adatto," rispose in tono misterioso Carol.

"Quello che dico io è dalle parti di Colorado Springs."A Denver, Carol entrò in una gioielleria e vendette il suo anello di

fidanzamento con brillante. Therese ne fu un po’ turbata, ma Carol disseche quell’anello non aveva alcun significato per lei, e che del restodetestava i brillanti. Carol voleva fermarsi in un albergo a pochichilometri da Colorado Springs, dov’era già stata in passato, ma cambiòidea non appena vi arrivarono. Aveva un che di troppo mondano, disse,così andarono in un albergo che voltava le spalle alla città e guardavaverso le montagne. La loro stanza era lunga dall’uscio d’entrata alle porte-finestre quadrateche si affacciavano su un giardino e, al di là, sulle montagne innevate.C’erano chiazze di neve anche in giardino, strane piccole piramidi dipietra, una panchina bianca o una sedia, ma il giardino sembrava assurdoa paragone dello splendido paesaggio che lo circondava, la piatta conca

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che via via si elevava in intere file di monti, riempiendo l’orizzonte comeun mezzo mondo. La stanza aveva un mobilio biondo quasi come i capellidi Carol, e c’era una libreria essenziale come piaceva a lei, con alcunibuoni libri in mezzo a quelli di nessun valore, ma Therese sapeva che nonne avrebbe letto nessuno mentre era lì. Sopra la libreria era appeso unquadro raffigurante una donna con un cappello nero a larga tesa e unasciarpa rossa, e sulla parete accanto alla porta era fissata una pelle nonconciata, non una vera pelle ma un’imitazione che qualcuno avevaritagliato da un pezzo di camoscio marrone. Al di sopra, una piccolalanterna con una candela. Carol aveva preso anche la stanza accanto, cheaveva una porta di comunicazione, sebbene loro non se ne servisseroneppure per tenerci le valigie. Avevano in progetto di fermarsi unasettimana, o di più, se così avessero deciso.

Il mattino del secondo giorno, Therese ritornò da un giro di ispezionenel giardino dell’albergo e trovò Carol ferma presso il tavolino da notte.Carol, limitandosi a gettarle un’occhiata, si avvicinò poi a quello datoletta per guardare al di sotto, infine esaminò il lungo armadio a murodietro un pannello della parete.

"Non c’è niente," disse. "Ora non pensiamoci più."Therese sapeva che cosa Carol stesse cercando. "A questo non avevo

pensato," disse. "Ho la sensazione che siamo riuscite a seminarlo.""Salvo che a quest’ora sarà probabilmente arrivato a Denver," disse

con calma Carol. Sorrideva, ma storcendo un poco la bocca. "Eprobabilmente capiterà anche qui."

Era così, naturalmente. C’era perfino la lontana possibilità chel’investigatore le avesse viste quando erano tornate indietro,riattraversando Salt Lake City, e le avesse seguite. In ogni caso, sisarebbe informato nei vari alberghi. Lei sapeva che per questo Carolaveva lasciato il recapito di Denver, perché a Denver non avevanonessuna intenzione di andare. Therese si lasciò cadere in poltrona, eguardò Carol. Carol si prendeva il disturbo di cercare un eventualeregistratore, ma il suo atteggiamento era arrogante. Aveva perfino sfidatola sorte, venendo lì. E la spiegazione, la soluzione di quei fatticontraddittori stava proprio nella stessa Carol, nel suo lento, inquieto

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passo mentre andava fino alla porta, ora, e si voltava, nel portamentononcurante della testa, e nella linea nervosa delle sopracciglia, cheregistravano irritazione in un dato momento e che nell’istante successivole davano un’espressione serena. Therese contemplò poi la vasta stanza,l’alto soffitto, il grande letto quadrato, ambiente che, nonostante tutta lasua modernità, aveva in sé un che di vasto e di curiosamente antiquatoche lei associava con l’Ovest americano, proprio come le smisurate sellewestern che aveva visto da basso, nelle stalle. Una sorta di lindore,inoltre. Eppure, Carol cercava un registratore. Therese la guardò tornareverso di lei, ancora in pigiama e vestaglia. Provò l’impulso di correre dalei, di serrarla forte tra le braccia, di trascinarla con sé sul letto, e il fattodi resistervi la rese tesa e vigile, la riempì di un’euforia repressa maavventata.

Carol soffiò fuori il fumo verso l’alto. "Non me ne importa unaccidente. Spero che i giornali vengano a saperlo e che Harge si punga colveleno della sua stessa coda. Spero che sprechi anche cinquantamiladollari. Ti va, questo pomeriggio, di fare quella gita? Hai già parlato conla signora French?"

Avevano conosciuto la signora French la sera prima, lì in albergo. Leiera senza macchina, e Carol le aveva domandato se le facesse piacere fareuna gita con loro, quel giorno.

"Gliel’ho chiesto, sì," disse Therese. "Ha detto che sarebbe stata prontasubito dopo pranzo."

"Mettitela, la camicia di pelle scamosciata." Carol prese la faccia diTherese tra le mani, le premette le guance, la baciò. "Mettitela subito."

Era una gita di sei o sette ore fino alla miniera d’oro di Cripple Creek,al di là del Passo di Ute e giù per un monte. La signora French andò conloro, parlando per tutto il tempo. Era una donna sulla settantina, conl’accento del Maryland e il cornetto acustico, pronta a scendere dallamacchina e a inerpicarsi dappertutto, sebbene fosse poi necessarioaiutarla a ogni passo. Therese stava costantemente in ansia per lei, puressendo restia perfino a toccarla. Provava la sensazione che, se la signoraFrench fosse caduta, sarebbe andata in mille pezzi. Carol e la signoraFrench parlavano dello stato di Washington, che la French conosceva

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molto bene, dato che negli ultimi anni vi aveva vissuto con uno dei suoifigli. Carol le faceva qualche domanda, e la signora era subito prodiga diparticolari sui dieci anni passati a viaggiare dopo la morte del marito, esui suoi due figli, quello di Washington e quello che lavorava alleHawaii, per una società produttrice di ananas. E, ovviamente, la signoraFrench adorava Carol, e di certo l’avrebbero avuta con loro piuttostospesso. Erano quasi le undici di sera quando fecero ritorno in albergo.Carol invitò la signora French a cenare con loro al bar, ma la signoradisse d’essere troppo stanca per mandar giù qualcosa di diverso dai solitifiocchi di grano con latte caldo, che si sarebbe fatta servire in camera.

"Meno male," disse Therese, dopo che la French se n’era andata."Preferivo rimanere sola con te."

"Davvero, signorina Belivet? E come mai?" domandò Carol mentreapriva la porta del bar. "Farà bene a sedersi e a spiegarmene la ragione."

Ma al bar non rimasero sole per più di cinque minuti. Due uomini, uncerto Dave e un altro il cui nome Therese non sapeva né ci teneva asaperlo, si avvicinarono e chiesero di potersi unire a loro. Erano gli stessidue che la sera prima nella sala da gioco dell’albergo si erano avvicinatiper domandare a Carol e a lei se volevano giocare a ramino. Carol la seraprima aveva declinato l’invito. Ora disse: "Ma certo, si accomodino."Carol e Dave cominciarono una conversazione che suonava moltointeressante, ma Therese era seduta in modo che non le era possibilepartecipare davvero. E l’altro, accanto a Therese, voleva parlare ditutt’altro argomento, una gita a cavallo che aveva appena fatto intorno aSteamboat Springs. Finito di cenare, Therese aspettò che Carolaccennasse a voler andarsene, ma Carol era ancora immersa nellaconversazione. Therese aveva letto del particolare piacere che si puòricavare dal fatto che la persona amata risulti attraente anche agli occhi diqualcun altro. Lei proprio non lo condivideva. Carol la guardava di tantoin tanto, e strizzava l’occhio. Così Therese rimase seduta là per un’ora emezzo, e si sforzò di mostrarsi cortese, perché Carol voleva che lei lofosse.

Le persone che si univano a loro al bar e talvolta in sala da pranzo lairritavano, ma mai quanto la signora French, che andava in macchina con

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loro da qualche parte quasi ogni giorno. Un rabbioso risentimento, di cuiin realtà Therese si vergognava, sorgeva allora in lei perché qualcuno leimpediva di rimanere sola con Carol.

"Tesoro, hai mai pensato che un giorno anche tu avrai settantun anni?""No," rispose Therese.Ma c’erano altri giorni in cui si aggiravano sole tra quei monti,

prendendo la prima strada che vedevano. Una volta arrivarono in unalocalità che a loro piacque e vi passarono la notte, senza pigiama e senzaspazzolino da denti, senza passato e senza futuro, e la notte divenneun’altra delle isole nel tempo, sospesa in qualche punto del cuore o dellamemoria, intatta e assoluta. O forse, pensava Therese, non era altro chefelicità, una felicità completa che doveva essere piuttosto rara, così rarache ben poche persone riuscivano a conoscerla. Ma se era semplicefelicità, allora era andata al di là dei normali confini ed era diventataqualcos’altro, era diventata una specie di pressione eccessiva, al puntoche il peso di una tazzina di caffè tenuta in mano, la rapidità di un gattonell’attraversare il giardino sottostante, il cozzo silenzioso di due nuvolesembravano quasi più di quanto lei potesse sopportare. E, proprio comeun mese prima non aveva compreso il fenomeno della felicitàimprovvisa, ora non capiva lo stato in cui era, che sembrava un malesserepostumo. Era più spesso penoso che piacevole e, di conseguenza, leitemeva d’avere qualche pecca grave e unica. A volte era spaventata comese stesse camminando con la spina dorsale rotta. Se mai le venival’impulso di dirlo a Carol, le parole si dissolvevano prima che potessepronunciarle, per paura e per la solita sfiducia nelle proprie reazioni, perl’ansia che fossero reazioni diverse da quelle di chiunque altro, e che diconseguenza nemmeno Carol avrebbe potuto comprenderle.

La mattina, di solito si portavano fino a qualche località fra i monti elasciavano l’auto per potersi arrampicare su per qualche collina.Guidavano senza meta per le strade zigzaganti che erano come lineebianche tracciate col gesso per collegare un punto di una montagna a unpunto di un’altra montagna. Da lontano, si poteva vedere lo strato dellenuvole attorno ai picchi sporgenti che sembravano così fluttuare nellospazio, un po’ più vicini al cielo che alla terra. Il posto preferito di

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Therese era la carrozzabile che sovrastava Cripple Creek, dove la stradaaderiva d’improvviso all’orlo di una gigantesca depressione. Decine edecine di metri più in basso si stendeva il minuscolo disordine di unacittà mineraria abbandonata. Là, l’occhio e il cervello si giocavanoscherzi a vicenda, perché era impossibile mantenere un concetto stabiledelle proporzioni di laggiù, impossibile paragonarle secondo unaqualsiasi scala umana. La sua stessa mano, tenuta di fronte a sé, potevaapparire lillipuziana o stranamente grande. E la città occupava soltantouna frazione del grande avvallamento del terreno, proprio comeun’esperienza singola, un singolo evento banale, collocato in un certoincommensurabile territorio della mente. L’occhio, nuotando nellospazio, tornava a posarsi sul punto che sembrava una scatola difiammiferi schiacciata da un’auto: la confusione, opera della manodell’uomo, della piccola città.

Therese cercava sempre con gli occhi l’uomo dalle profonde pieghe ailati della bocca, mentre Carol no, mai. Carol non l’aveva più neppurenominato dal loro secondo giorno a Colorado Springs, e ormai ne eranopassati dieci. Dato che il ristorante dell’albergo era famoso, nuovepersone venivano ogni sera nella vasta sala da pranzo, e Therese siguardava puntualmente attorno, senza aspettarsi di vederlomaterialmente, ma per una sorta di precauzione diventata ormaiabitudine. Carol invece non prestava attenzione ad altri che a Walter, illoro cameriere, il quale si avvicinava sempre per sentire che specie dicocktail desiderassero quella sera. Molte persone, in compenso,guardavano Carol, perché generalmente era lei la donna più attraentedella sala. E Therese era talmente lusingata di stare con lei, cosìorgogliosa di lei, da non occuparsi d’altri che di Carol. Poi, mentreleggeva il menu, Carol schiacciava lentamente il piede a Therese sotto iltavolo, per farla sorridere.

"Che cosa ne pensi dell’Islanda in piena estate?" domandava peresempio Carol, perché si facevano un dovere di parlare di viaggi, se c’erasilenzio nell’istante in cui si sedevano a tavola.

"Devi sempre scegliere posti così gelidi? Quando lavorerò mai?""Non fare la .guastafeste. Dobbiamo invitarla, la signora French? Pensi

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che si scandalizzerà se ci teniamo per mano?"Una mattina, arrivarono tre lettere, da Rindy, da Abby e da Dannie. Era

la seconda lettera che Carol riceveva da Abby, la quale in precedenza nonaveva avuto altre notizie da dare, e Therese notò che Carol apriva perprima quella di Rindy. Dannie scriveva d’essere ancora in attesa delrisultato di due colloqui per motivi di lavoro. E riferiva d’avere saputo daPhil che Harkevy, in marzo, avrebbe realizzato le scene per il lavoroinglese intitolato The Faint Heart.

"Ascolta questo," disse Carol. "’Hai visto degli armadilli nel Colorado?Puoi mandarmene uno, perché il camaleonte si è perso. Papà e iol’abbiamo cercato dappertutto, in casa. Ma se mi mandi l’armadillo saràabbastanza grande perché non si perda.’ Poi, a capo: ’Ho preso lodevolein dettato ma solo sufficiente in aritmetica. La odio. Odio l’insegnante.Bene, adesso devo chiudere. Baci a te e ad Abby. Rindy. P.S. Grazie tanteper la camicia di pelle. Papà mi ha comperato una bicicletta con ruote dimisura normale, mentre a Natale diceva che ero troppo piccola. Non sonotroppo piccola. È una bella bici.’ Punto. A che serve? Harge riescesempre a superarmi." Carol posò la lettera e prese quella di Abby.

"Perché Rindy dice ’Baci a te e ad Abby’?" domandò Therese. "Credeche tu sia con Abby?"

"No." Il tagliacarte di legno di Carol si arrestò a metà della busta diAbby. "Probabilmente pensa che io le scriva," disse, e finì di tagliare labusta.

"Voglio dire, Harge non le avrà detto così, vero?""No, cara," rispose in tono preoccupato Carol, scorrendo la lettera di

Abby.Therese si alzò, attraversò la stanza e andò a fermarsi presso la

finestra, per guardare le montagne. Stava pensando che nel pomeriggiodoveva scrivere a Harkevy, per domandargli se in marzo c’era speranza dilavorare con il suo gruppo come assistente. Cominciò a comporrementalmente la lettera. Le montagne sembravano fissarla a loro voltacome maestosi leoni rossicci che la guardassero dall’alto. Due volte sentìridere Carol, che però non le lesse alcuna parte della lettera a voce alta.

"Notizie?" domandò Therese, quando l’altra ebbe finito.

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"No, nessuna."Carol le insegnava a guidare, ora, lungo le strade ai piedi delle

montagne, dove era ben raro che passasse una macchina. Thereseimparava più presto di quanto avesse mai imparato altro in precedenza e,dopo un paio di giorni, Carol la lasciò guidare anche a Colorado Springs.A Denver, Therese fece un esame e ottenne la patente. Carol disse che, selo desiderava, poteva guidare lei per metà del viaggio di ritorno a NewYork. Una sera, all’ora di cena, l’uomo era seduto da solo a un tavolo allasinistra e alle spalle di Carol. Therese si mandò di traverso qualcosa eposò la forchetta. Il cuore aveva preso a batterle come per aprirsi amartellate la via per uscirle dal petto. Come era arrivata a metà del pastosenza vederlo? Sollevò lo sguardo verso Carol e vide che questa laosservava, leggendole nel pensiero con i suoi occhi grigi che non eranopiù così calmi come qualche istante prima. Carol si era interrotta nel belmezzo di una frase.

"Una sigaretta?" disse Carol, offrendogliela e poi accendendogliela."Non sa che puoi riconoscerlo, vero?"

"No.""Bene, non farglielo capire." Carol le sorrise, accese una sigaretta per

sé, poi guardò nella direzione opposta rispetto all’investigatore. "Sta’calma," aggiunse, nello stesso tono.

Era facile a dirsi, facile essersi illusa di poterlo guardare la prossimavolta che l’avesse rivisto, ma a che scopo provarcisi, quando era statocome ricevere una palla di cannone in piena faccia?

"Niente Alaska al forno, stasera?" disse Carol, studiando il menu. "Oh,che peccato. Sai cosa prendiamo, allora?" Chiamò il cameriere. "Walter!"

Walter accorse sorridendo, ansioso di servirle, proprio come facevatutte le sere. "Sì, signora."

"Due Remy Martin, per favore, Walter," gli disse Carol.Il brandy rinfrancava poco o niente. L’investigatore non le guardava.

Leggeva un libro che aveva appoggiato a un portatovaglioli di metallo, e

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perfino ora Therese era in preda a un dubbio quasi forte come quelloprovato dopo che avevano lasciato Salt Lake City, un’incertezza che erain un certo senso più orribile di quel che sarebbe stata la certezza assolutache l’uomo era un investigatore.

"Dobbiamo passargli accanto, Carol?" domandò Therese. C’era unaporta alle sue spalle, che dava nel bar.

"Sì. Usciremo proprio da quella parte." Carol sollevava le sopraccigliamentre sorrideva, esattamente come avrebbe fatto in una sera qualsiasi."Non può farci niente. Ti aspetti che ci punti addosso una pistola?"

Therese la seguì, passando a meno di mezzo metro dall’uomo che, atesta bassa, leggeva il suo libro. Vide davanti a sé la persona di Carolchinarsi con grazia nel salutare la signora French, che sedeva sola a untavolo.

"Perché non è venuta a tenerci compagnia?" disse Carol, e Theresericordò che nel pomeriggio erano partite le due donne con le quali lasignora French sedeva di solito a tavola.

Carol si fermò perfino a scambiare due parole con la signora French, eTherese ne fu meravigliata ma dal canto suo non se la sentì di trattenersie proseguì, per aspettare Carol vicino agli ascensori.

Di sopra, Carol trovò il microfono fissato in un angolo sotto il tavolinoda notte. Carol prese le forbici e, usando tutt’e due le mani, tagliò il filoche spariva sotto la moquette.

"Pensi che siano stati quelli dell’albergo a farlo entrare?" domandòinorridita Therese.

"Probabilmente aveva un passe-partout." Carol strappò l’oggetto dasotto il tavolino e lo lasciò cadere a terra, nero scatolino con un codino dicavo elettrico. "Guardalo, sembra un sorcio," disse. "Un ritratto diHarge." D’improvviso si era fatta tutta rossa.

"Dove va a finire?""In qualche stanza dove tutto viene registrato. Probabilmente dall’altro

lato del corridoio. Maledizione a questi tappeti da parete a parete!"Con un calcio, Carol mandò l’oggetto verso il centro della stanza.Therese fissava la scatolina rettangolare, e se la figurava assorbire le

loro parole della sera prima. "Da quanto tempo sarà stato lì?"

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"Da quanto tempo pensi che lui si trovasse qui senza che tu lovedessi?"

"Da ieri al massimo." Ma, già nel dirlo, Therese sapeva di potersianche sbagliare. Non poteva avere visto fino all’ultimo ospite presentenell’albergo.

Carol stava scuotendo la testa. "E avrebbe impiegato quasi duesettimane per seguirci da Salt Lake City fin qui? No, ha semplicementedeciso di cenare con noi, questa sera." Carol si scostò dalla libreria conun bicchiere di cognac in mano. Il rossore le era passato. Ora sorridevaperfino, a Therese. "Un tipo rozzo, vero?" Sedette sul letto, assestò uncuscino dietro di sé e vi si appoggiò. "Bene, siamo rimaste qui abbastanzaa lungo, vero?"

"Quando vuoi che partiamo?""Domani, direi. In mattinata facciamo le valigie e partiamo subito

dopo pranzo. Che cosa ne dici?"Più tardi, scesero a prendere la macchina e fecero un giro, verso ovest e

col buio. Non andremo molto più a ovest, pensò Therese. Non riusciva afar tacere il panico che si agitava in ogni sua fibra, e che sentiva dovuto aqualcosa di già passato, a qualcosa che era avvenuto tanto tempo prima.Era inquieta, mentre Carol non lo era. Carol non si limitava a fingerefreddezza, lei veramente non aveva paura. L’uomo che cosa poteva maifare, in fin dei conti, diceva Carol, lei semplicemente non voleva sentirsispiata.

"Un’altra cosa," aggiunse Carol. "Cerca di scoprire che specie dimacchina ha."

Quella sera, mentre chine sulla mappa discutevano del loro percorsodell’indomani, chiacchierando in tono distaccato come due estranee,Therese si diceva che sicuramente quella notte non sarebbe stato come lanotte precedente. Ma quando, a letto, si diedero il bacio della buonanotte,avvertì l’immediato rilassarsi, il guizzo di reazione in entrambe, come sei loro corpi fossero di un materiale che, al solo contatto, desseimmediatamente vita al desiderio.

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19Therese non riuscì a scoprire che tipo di vettura avesse l’investigatore,perché le auto erano chiuse a chiave in garage separati e, sebbene dalsolarium si potessero tenere d’occhio le autorimesse, quel mattino lei nonlo vide uscire. Non lo videro neppure all’ora di pranzo.

La signora French, quando sentì che stavano per partire, volleassolutamente invitarle in camera sua per un cordiale. "Dovete accettareil bicchiere della staffa," disse a Carol. "E poi, non ho ancora neppure ivostri indirizzi!"

Therese ricordò che avevano promesso di scambiarsi bulbi di fiori.Rammentava una lunga conversazione riguardante i bulbi, un giorno inmacchina, che aveva cementato la loro amicizia. Carol fu estremamentepaziente fino alla fine. Nessuno avrebbe intuito, vedendola seduta sulsofà con il bicchierino che la signora French continuava a riempirle, cheavesse fretta di andarsene. La signora French le baciò entrambe sulleguance, nel dir loro: "Arrivederci."

Da Denver, presero una strada che andava verso il Nord e il Wyoming.Si fermarono per bere un caffè nel genere di locale che amavano, unmodesto ristorante con un bancone e un juke-box. Misero monetine neljuke-box, ma niente era più lo stesso di prima. Therese sapeva che nonsarebbe stato più lo stesso per il resto del viaggio, sebbene Carolcontinuasse a parlare d’andare a Washington, e forse su in Canada.Therese sentiva che l’obiettivo di Carol era New York.

Passarono la prima notte in un campeggio per turisti costruito come uncircolo di tende dei pellirosse. Mentre si svestivano, Carol guardò in suverso il soffitto dove i pali della tenda formavano una punta e, con fareannoiato, disse: "La briga che certi idioti si prendono." Chissà perché, aTherese questo sembrò istericamente buffo. Rise fino a che Carol se nestancò e minacciò di farle bere un intero bicchiere di brandy, se nonavesse smesso. E Therese stava ancora sorridendo, in piedi presso lafinestra con un brandy in mano, in attesa che Carol uscisse dalla doccia,quando vide un’auto portarsi fino alla tenda grande dell’ufficio efermarsi. Dopo qualche istante, l’uomo che era entrato nell’ufficio ne

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uscì e si guardò attorno entro l’area buia all’interno del cerchio di tende,e fu il suo passo furtivo ad attirare l’attenzione di lei. Ebbeimprovvisamente la certezza, senza vederne bene né il volto né lapersona, che fosse l’investigatore.

"Carol!" chiamò.Carol spinse la tendina da un lato, le lanciò un’occhiata e smise di

asciugarsi. "È...""Non lo so, ma penso di sì," disse lei, e vide la collera diffondersi

lentamente sulla faccia di Carol e irrigidirla. Lo shock la fece tornare dicolpo seria, come se si fosse appena resa conto di un insulto, a lei stessa oa Carol.

"Cristo!" mormorò Carol, e scaraventò l’asciugamano per terra. Infilòla vestaglia e ne legò la cintura. "Be’, che cosa sta facendo?"

"Penso che intenda fermarsi qui." Therese si spostò da un lato dellafinestra. "La sua auto è ancora davanti all’ufficio, a ogni modo. Sespegniamo la luce, potrò vedere molto meglio."

"Oh, no!" gemette Carol. "Non lo sopporto. Che noia," aggiunse conassoluta impazienza e disgusto.

E Therese sorrise, storcendo la faccia, e soffocò un nuovo, folleimpulso di ridere, perché Carol sarebbe andata su tutte le furie se leiavesse riso. Poi vide l’auto imboccare la porta di una tenda che fungevada garage dall’altro lato del cerchio. "Sì, si ferma qui. E ha una berlinanera a due porte."

Carol sedette sul letto con un sospiro. Sorrise a Therese, un fuggevolesorriso di stanchezza e di noia, di rassegnazione, d’impotenza e dicollera. "Fa’ la doccia. E poi rivestiti."

"Ma non so se è davvero lui.""Ed è proprio questo il peggio, tesoro."Therese fece una doccia, poi si distese vestita accanto a Carol. Carol

aveva spento la luce. Fumava sigarette al buio, senza mai dire niente finoa che, a un tratto, le toccò il braccio e disse: "Andiamo." Erano le tre emezzo quando lasciarono in macchina il campeggio. Avevano pagato ilconto in anticipo. Non c’era illuminazione di alcun genere e, a meno chel’investigatore non stesse sorvegliandole con la luce spenta, nessuno le

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aveva viste."Che cosa vuoi fare, tornare a dormire da qualche parte?" le domandò

Carol."No. E tu?""No. Vediamo quanta strada possiamo fare." Carol premeva il pedale

fino in fondo. La strada si presentava uniforme e libera fin dove arrivavala luce dei fari.

Spuntava l’alba, ormai, quando un agente della stradale le fermò pereccesso di velocità, e Carol dovette pagare una multa di venti dollari inuna città del Nebraska chiamata Central City. Costrette a seguire l’agentefino alla piccola località, persero una quarantina di chilometri, ma Carolsopportò tutto senza una parola, il che non era da lei, che in altreoccasioni aveva discusso con l’agente e l’aveva convinto a lasciarlaandare nonostante l’eccesso di velocità, e questo nel New Jersey, oltretutto.

"Irritante," commentò Carol quando risalirono in macchina, e fu la solacosa che disse, per ore.

Therese si offrì di guidare, ma Carol disse che voleva farlo lei. Lepiatte praterie del Nebraska presero a stendersi davanti a loro, gialle distoppie di frumento, con chiazze brune di terra nuda e pietra,ingannevolmente calde a vedersi sotto il pallido sole invernale. Dato cheora viaggiavano un poco più lente, Therese aveva la sensazioneangosciosa di non muoversi affatto, come se la terra sfuggisse via al disotto e loro rimanessero immobili. Teneva d’occhio la strada alle suespalle, temendo un’altra auto di pattuglia, la macchina dell’investigatoree la cosa informe e senza nome che, sentiva, le stava inseguendo daColorado Springs. Teneva d’occhio la terra e il cielo per quegli eventiprivi di significato ai quali insisteva ad attribuire importanza, l’avvoltoioche planava lentamente là in alto, la direzione di un groviglio di erbacceche, spinto dal vento, rimbalzava sopra un campo dissestato, e se da uncomignolo uscisse fumo oppure no. Verso le otto, una sonnolenzairresistibile le appesantì le palpebre e le ottenebrò la mente, per cui quasinon si sorprese nel vedere dietro la loro una macchina simile a quella cheaveva tenuto d’occhio: una berlina a due porte di colore scuro.

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"C’è un’auto come quella, dietro di noi," disse. "Ha la targa gialla."Carol per un minuto non disse niente, ma guardò nel retrovisore e

sbuffò, sporgendo le labbra. "Ne dubito. Se lo è, lui allora è più in gambadi quello che avevo pensato." Stava rallentando. "Se lo lascio passare,pensi di poterlo riconoscere?"

"Sì." Non lo avrebbe riconosciuto ovunque, a quel punto, sia pureintravedendolo appena?

Carol rallentò quasi fino a fermarsi e, presa la mappa stradale, laspiegò sul volante, guardandola. L’altra macchina si avvicinò,superandole, e c’era lui dentro.

"Sì," disse Therese. L’uomo non l’aveva neppure guardata.Carol tornò a premere il pedale. "Sei sicura, vero?""Sicurissima." Therese guardava ora il tachimetro spostarsi verso i

cento e superarli. "Che cosa hai intenzione di fare?""Parlargli."Carol rallentò via via che la distanza si accorciava. Affiancarono l’auto

dell’investigatore, e lui si girò a guardarle, la bocca larga e dirittaimmobile, gli occhi simili a rotonde macchie grigie, altrettantoinespressivi. Carol fece segno con la mano verso il basso. L’autodell’uomo rallentò.

"Abbassa il vetro dalla tua parte," disse Carol a Therese.L’auto dell’investigatore montò sopra il margine sabbioso della strada

e si fermò.Carol arrestò la sua con le ruote posteriori sulla carreggiata, e parlò,

sporgendosi oltre Therese. "Le piace la nostra compagnia o cosa?"L’uomo scese e chiuse la portiera. Circa tre metri separavano le due

vetture, e lui percorse una metà della distanza e si fermò. I suoi piccoliocchi spenti avevano cerchi scuri attorno alle iridi grigie, come quellifissi e inespressivi di una bambola. Non era giovane. La faccia apparivaprovata dai continui spostamenti attraverso climi diversi, e le ombre dellabarba lunga approfondivano le pieghe ai due lati della bocca.

"Faccio solo il mio mestiere, signora Aird.""Questo è chiaro. Gran brutto mestiere, vero?"L’investigatore batté una sigaretta sull’unghia del pollice e l’accese nel

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vento rabbioso con una lentezza che aveva qualcosa di teatrale. "Se nonaltro è quasi finito."

"Allora perché non ci lascia in pace?" disse Carol, la voce tesa quantoil braccio che la sorreggeva sul volante.

"Perché ho l’ordine di seguirvi in questo viaggio. Ma se lei sta pertornare a New York, non dovrò più farlo. Le consiglio di tornare, signoraAird. Allora, ci torna?"

"No, niente affatto.""Ho delle informazioni, stando alle quali direi che sia suo interesse

tornare e preoccuparsene.""Grazie," disse cinicamente Carol. "La ringrazio per avermelo detto.

Non è nei miei piani tornare, per adesso. Ma posso darle il mio itinerario,così potrà lasciarci in pace e rifarsi del sonno perduto."

Il detective la guardava con un sorriso falso e privo di significato, noncome una persona, ma come una macchina caricata e messa in moto."Penso che ritornerà a New York. Le sto dando un buon consiglio. C’è inpalio la sua bambina. Immagino che lo sappia, vero?"

"La mia bambina è mia!"Una piega gli sussultò nella guancia. "Un essere umano non è una

proprietà, signora Aird."Carol alzò la voce. "Ha intenzione di seguirci per tutto il resto del

viaggio?""Ha intenzione di ripartire per New York?""No.""Io penso che lo farà," disse lui, e si voltò per tornarsene lentamente

verso la sua macchina.Carol mise il piede sull’acceleratore. Cercò la mano di Therese e gliela

strinse per un attimo, per rassicurarla, poi l’auto schizzò in avanti.Therese sedeva ora con i gomiti sulle ginocchia e le mani premute sullafronte, cedendo a un senso di vergogna e di shock mai provato in vita sua,che aveva represso davanti all’investigatore.

"Carol!"Carol stava piangendo, in silenzio. Therese guardava ora la piega

all’ingiù delle labbra che non era affatto da Carol, ma era piuttosto la

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smorfia di una bambina infelice. Fissava incredula la lacrima cherotolava oltre lo zigomo di Carol.

"Dammi una sigaretta," disse Carol.Quando Therese gliela porse, accesa, lei si era già asciugata la lacrima,

e il momento era passato. Carol guidò per un minuto lentamente,aspirando boccate dalla sigaretta.

"Passa dietro e prendi la pistola," disse poi.Per un attimo Therese non si mosse.Carol le lanciò un’occhiata. "Vuoi?"Therese, in calzoni, scivolò agilmente verso il sedile posteriore e

sollevò la valigia blu scuro sul sedile. Fece scattare le chiusure e tiròfuori l’arma avvolta nel golfino.

"Devi solo passarla a me," disse Carol. "La voglio qui, nella tascalaterale." Allungò la destra dietro di sé, al di sopra della spalla, e Therese,dopo avervi inserito il bianco calcio dell’arma, strisciò di nuovo al suoposto sul sedile anteriore.

L’investigatore stava sempre seguendole, a un mezzo chilometro didistanza, dietro il carro tirato da un cavallo che era svoltato sullacarrozzabile da una stradina laterale. Carol stringeva ora la mano diTherese, guidando con la sinistra. Therese contemplava le dita coperte dilievi efelidi che le conficcavano nel palmo i polpastrelli forti e freddi.

"Voglio parlargli di nuovo," disse Carol, il piede premutosull’acceleratore. "Se vuoi scendere, ti lascio alla prima stazione diservizio o che so io e poi torno a prenderti."

"Non voglio lasciarti," dichiarò Therese. Carol intendeva farsi dare leregistrazioni dall’investigatore, e Therese ebbe per un attimo la visione diCarol ferita, di lui che estraeva una pistola con fulminea rapidità daesperto e faceva fuoco prima ancora che Carol potesse premere ilgrilletto. Ma queste cose non capitano, pensò poi, e strinse i denti,massaggiando intanto con le dita la mano di Carol.

"D’accordo. E sta’ tranquilla. Voglio solo parlargli." Carol sterzòimprovvisamente in una stradina che prendeva a sinistra. Il viottolosaliva in mezzo ai campi fino a svoltare per inoltrarsi fra i boschi. Carolguidava velocemente, sebbene il fondo fosse pessimo. "Ci segue, vero?"

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"Sì."C’era una fattoria, là in mezzo ai colli, e poi nient’altro che terra arida

e sassosa, e la strada che continuava a sparire al di là delle curve davantia loro. Dove il percorso aderiva al dorso di una collina, Carol, superatauna svolta, fermò con noncuranza l’auto quasi in mezzo alla strada.

Mise la mano nella tasca laterale e ne estrasse la pistola. Aprìqualcosa, nell’arma, e Therese vide i proiettili all’interno. Poi Carolguardò attraverso il parabrezza e abbassò in grembo le mani chereggevano la pistola. "Meglio di no, meglio di no," disse in fretta, e lasciòscivolare di nuovo l’arma dentro il portaoggetti della portiera. Poi rimisein moto, e parcheggiò meglio lungo il fianco della collina. "Resta inmacchina," disse a Therese, e scese.

Therese udì l’auto dell’investigatore. Carol si avviò lentamente versoquel suono, poi l’auto aggirò la curva, non rapidamente, ma i frenistridettero, e Carol si portò da un lato della strada. Therese aprìleggermente la portiera e si appoggiò al bordo inferiore del finestrino.

L’uomo scese dalla macchina. "Cos’altro c’è?" domandò, alzando lavoce nel vento.

"Lei che cosa pensa?" Carol gli si avvicinò. "Vorrei tutto quello che hae che riguarda me: nastri e quant’altro."

L’investigatore inarcò appena le sopracciglia al di sopra degli occhislavati. Addossato al paraurti anteriore della sua auto, sogghignava con labocca larga e sottile. Guardò Therese e poi di nuovo Carol. "Già tuttospedito. Non ho altro che pochi appunti. Su ore e luoghi."

"D’accordo, ci terrei ad averli.""Intende dire che vuole comperarli?""Non ho detto questo. Ho detto che ci terrei ad averli. Preferisce

venderli?""Non sono uno che si lascia comperare," disse lui."Questo per che cosa lo fa, se non per denaro?" domandò spazientita

Carol. "Perché non guadagnarne un po’ di più? Che cosa chiede per quelloche ha?"

Lui incrociò le braccia. "Le ho detto che ho spedito tutto. Sprecherebbeil suo denaro."

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"Non credo che abbia già spedito le registrazioni da Colorado Springs,"disse Carol.

"No?" domandò lui, sarcastico."No. Le darò la somma che chiede, per quelle."Lui squadrò Carol da capo a piedi, lanciò un’occhiata verso Therese, e

di nuovo stirò le labbra."Li prenda: nastri, registrazioni o quello che sono," ordinò Carol, e

l’uomo si mosse.Aggirò la sua auto per avvicinarsi al portabagagli, e Therese udì le

chiavi tintinnare mentre lui lo apriva. Scese a sua volta dalla macchina,incapace di rimanere seduta al suo posto. Si portò a qualche passo daCarol e si fermò. L’investigatore stava frugando dentro una grossavaligia. Quando si risollevò, il coperchio alzato del portabagagli glispinse via il cappello. Lui posò il piede sulla falda, per trattenerlo datoche c’era vento. In una mano aveva qualcosa, troppo piccolo perché sipotesse vederlo.

"Ce ne sono due," disse. "Credo che valgano sui cinquecento dollari.Varrebbero di più, se non ce ne fossero già altre a New York."

"È un bravo venditore, lei. Non le credo," disse Carol."Perché? Hanno fretta di averle, a New York." Raccattò il cappello da

terra e chiuse il portabagagli. "Ma hanno già abbastanza, ormai. Gliel’hodetto, signora Aird, che farebbe meglio a tornare a New York." Gettò lasigaretta a terra, schiacciandola poi con il piede. "Ritornerà a New York,ora?"

"Io non cambio idea," rispose Carol.L’investigatore alzò le spalle. "Non sto dalla parte di nessuno, io. Più

presto lei se ne torna a New York, più presto la piantiamo lì.""Possiamo piantarla lì subito. Dopo che mi avrà dato quei nastri, può

rimettersi in macchina e continuare ad andare sempre nella stessadirezione." L’investigatore aveva steso lentamente la mano a pugno,come quando si gioca a far indovinare e nel pugno potrebbe anche nonesserci niente. "È disposta a darmi cinquecento dollari, per questi?"domandò.

Carol guardò la mano, poi aprì la borsetta. Tirò fuori il portafogli, poi

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il libretto degli assegni."Preferisco i contanti," disse lui."Non li ho con me."Lui tornò ad alzare le spalle. "D’accordo. Accetterò un assegno."Carol lo riempì, appoggiandosi al paraurti dell’auto di lui.Ora che l’uomo si chinava, per osservare Carol, Therese riusciva a

scorgere qualcosa di piccolo e di nero nella sua mano. Si fece più vicina.L’uomo stava dettando il suo nome. Quando Carol gli diede l’assegno, luile lasciò cadere in mano due scatoline.

"Da quanto tempo ci stava alle costole?""Le ascolti e lo saprà.""Non sono qui per scherzare!" scattò Carol, e la voce le si ruppe.L’uomo sorrideva, piegando l’assegno. "Non dica che non l’avevo

avvertita. Quello che ha avuto da me non è tutto. C’è già parecchio a NewYork."

Carol richiuse la borsetta, poi si girò verso la macchina, senzanemmeno guardare Therese. Infine si arrestò e tornò a girarsi versol’investigatore. "Se hanno già tutto quello che vogliono, lei ormai puòlevarsi di torno, vero? Ho la sua promessa che lo farà?"

Lui, con la mano sulla portiera della sua auto, la osservava. "Sonoancora in servizio, signora Aird: lavoro ancora per la mia agenzia. Ameno che lei non voglia prendere un aereo per tornare a casa, ora. O perqualche altro posto. Deve seminarmi, in qualche modo. Dovrò pure direqualcosa in agenzia, visto che non ho più niente sugli ultimi giorni diColorado Springs. Qualcosa di un po’ più interessante."

"Oh, che se lo inventino loro, qualcosa di interessante!"Il sorriso dell’investigatore scoprì un poco i denti. Poi l’uomo risalì in

macchina, riaccese il motore, sporse la testa per guardare dietro di sé e amarcia indietro compì una rapida svolta, ripartendo in direzione dellacarrozzabile.

Il suono del motore svanì, alla fine. Carol si mosse lentamente versol’auto, salì, e rimase a fissare attraverso il parabrezza un’arida altura delterreno, qualche metro più avanti. Era pallida come se avesse avuto unosvenimento.

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Therese era accanto a lei. Le teneva un braccio intorno alle spalle,stringendo la spalla di stoffa del cappotto, e si sentiva inutile quantoun’estranea qualsiasi.

"Oh, penso che sia più che altro un bluff," disse all’improvviso Carol.Ma l’aveva resa grigia in faccia, le aveva sottratto l’energia dalla voce.

Carol aprì la mano e guardò le due scatoline rotonde. "Qui è un postobuono come un altro." Scese dall’auto, e Therese la seguì. Carol aprì unadelle scatoline e tirò fuori la bobina di nastro che sembrava di celluloide."Piccolo, vero? Immagino che bruci. Bruciamolo."

Therese accese un fiammifero al riparo dell’auto. Il nastro bruciava infretta e Therese lo lasciò cadere a terra, poi il vento spense la fiamma.Carol disse di non preoccuparsi, potevano gettarli tutti e due in un fiume.

"Che ore sono?" domandò."Mezzogiorno meno venti." Therese risalì in macchina e Carol mise

subito in moto, ripercorrendo il tratto fino alla carrozzabile."Devo telefonare ad Abby, a Omaha, e poi al mio avvocato."Therese consultò la carta. Omaha era la città più vicina, se avessero

piegato lievemente verso sud. Carol sembrava stanca, e Therese, nelsilenzio in cui si era chiusa, ne avvertiva la rabbia, non ancora placata. Lamacchina sussultò sopra un solco, e Therese udì il tonfo metallico dellalattina di birra che rotolava in qualche punto sotto il sedile anteriore,quella birra che non erano state in grado di aprire il primo giorno. Eraaffamata: lo era disperatamente, da ore.

"Vuoi che guidi un po’ io?""Ma sì," disse stancamente Carol, rilassandosi come se si arrendesse.

Si affrettò a rallentare.Therese, scivolando al posto di guida, si mise al volante. "E che ne

diresti di fermarci per fare colazione?""Non potrei mangiare.""O per bere qualcosa.""Lo faremo a Omaha."Therese fece salire il tachimetro fino ai cento e lo mantenne poco al di

sotto dei centodieci. La statale 30. Poi la 275, fino a Omaha, e la stradanon era delle migliori. "Non gli hai creduto su quelle registrazioni spedite

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a New York, vero?""Non parliamone!... Mi dà la nausea!"Therese serrò con forza il volante, poi deliberatamente si rilassò.

Percepiva come una nuvola nera sospesa sopra di loro, davanti a loro,nuvola che cominciava appena a rivelare i suoi orli e verso la qualestavano viaggiando. Ricordava la faccia dell’investigatore e l’espressionea stento leggibile che, ora se ne rendeva conto, era cattiva. Sì, eracattiveria quella che gli aveva visto nel sorriso, perfino mentre dichiaravadi non essere dalla parte di nessuno, e poteva avvertire in lui un desiderioin realtà personale di separarle, perché sapeva che erano insieme. Thereseaveva appena visto, ora, quello che aveva soltanto intuito, ossia che ilmondo intero era pronto a essere loro nemico, e d’improvviso quello chelei e Carol avevano, insieme, non sembrava più amore o qualcosa difelice ma un mostro che, una di qua, una di là, le tenesse in pugno.

"Sto pensando a quell’assegno," disse Carol.La frase cadde come un’altra pietra dentro di lei. "Credi che stiano

frugando la casa?" domandò."È possibile. Tutto è possibile.""Non credo che lo troverebbero. Era sotto il tappetino." Ma c’era la

lettera nel libro. Uno strano orgoglio le sollevò per un attimo lo spirito esubito svanì. Era una bella lettera. Avrebbe preferito che trovasseroquella piuttosto che l’assegno, sebbene quanto a valore incriminanteavessero lo stesso peso, e gli altri avrebbero fatto apparire sporchi l’una el’altro. La lettera che lei non aveva mai consegnato, l’assegno che nonaveva mai incassato. Certo era più probabile che trovassero la lettera.Therese non sapeva risolversi a parlare a Carol di quella lettera: se persemplice codardia o per il desiderio di risparmiare un nuovo problema aCarol, non sapeva dirlo. Vide un ponte, poco più avanti. "C’è un fiume,"disse. "Va bene qui?"

"Benissimo." Carol le porse le scatoline. Aveva rimesso nella scatolaanche il nastro mezzo bruciato.

Therese scese e le scagliò al di sopra del parapetto di ferro, senzaneppure guardare. Guardò invece il giovanotto in tuta che camminavalungo il lato opposto del ponte, odiando l’insensato antagonismo che

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provava nei suoi confronti.Carol telefonò da un albergo di Omaha. Abby non era in casa, e Carol

lasciò detto che avrebbe ritelefonato verso le sei di sera, ora in cui Abbydoveva rientrare. Quanto all’avvocato, Carol disse che era inutilechiamarlo subito, perché sarebbe stato a pranzo fin dopo le due, oralocale. Carol voleva darsi una rinfrescata e poi bere qualcosa.

Bevvero un old-fashioned nel bar dell’albergo, in completo silenzio.Therese ne chiese un secondo quando lo fece Carol, ma Carol disse cheavrebbe dovuto invece mangiare qualcosa. Il cameriere spiegò a Carolche non si servivano pasti al bar.

"Ha bisogno di mangiare qualcosa," ripeté con fermezza Carol."La sala da pranzo è dall’altra parte dell’atrio, signora, e c’è una tavola

calda...""Carol, posso aspettare," disse Therese."Vuole, per favore, portarmi il menu? La mia amica preferisce

mangiare qui," dichiarò Carol, rivolgendo un’occhiata al cameriere.Lui esitò, poi disse: "Sì, signora", e andò a prendere il menu.Mentre Therese mangiava uova strapazzate e salsiccia, Carol bevve il

suo terzo drink. Infine, disse in tono sconsolato: "Tesoro, posso chiedertidi perdonarmi?"

Il tono colpì Therese più dolorosamente della domanda. "Io ti amo,Carol."

"Ma lo vedi che cosa significa?""Sì." Ma il senso di disfatta, in macchina, era stato solo passeggero,

proprio come il momento attuale era soltanto una situazione. "Non vedoperché debba essere così per sempre. E non vedo come questo possadistruggere qualcosa," dichiarò, seria seria.

Carol si tolse la mano dalla faccia e si appoggiò all’indietro, e ora,nonostante la stanchezza, appariva come Therese se la immaginavasempre: gli occhi che potevano essere a un tempo teneri e duri quando lametteva alla prova, le intelligenti labbra rosse forti e morbide, sebbenequello superiore ora tremasse un poco.

"Tu sì?" domandò Therese, e si rese improvvisamente conto che erauna domanda tanto grande quanto quella che Carol le aveva fatto senza

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parole nella camera di Waterloo. Anzi, la stessa domanda."No. Penso che tu abbia ragione," rispose Carol. "Tu me lo fai

comprendere."Carol andò al telefono. Erano le tre. Therese si fece dare il conto, poi

rimase là in attesa, domandandosi quando quell’incubo sarebbe finito, sela parola rassicurante sarebbe venuta dal legale di Carol o da Abby, o sele cose sarebbero peggiorate prima di andar meglio. Carol rimase assentecirca mezz’ora.

"Il mio avvocato non ha sentito niente," riferì. "E io niente gli ho detto.Non posso. Dovrò scrivergli."

"Lo immaginavo.""Oh, lo immaginavi," disse Carol con il primo sorriso della giornata.

"Che ne dici di farci dare una camera qui? Non me la sento più diviaggiare."

Carol si fece mandare i cibi in camera. Si distesero entrambe per fareun sonnellino, ma quando Therese si svegliò, verso le cinque, Carol nonc’era. Therese si guardò attorno, notando i guanti neri di Carol sultavolino da toletta, i suoi mocassini bene accostati vicino alla poltrona.Mandò un sospiro tremulo, per nulla rinfrancata dal sonno. Aprì lafinestra e guardò giù. Era il settimo o l’ottavo piano, non ricordava bene.Un tram procedeva lentamente davanti all’albergo, la gente sulmarciapiede si muoveva in tutte le direzioni, e a lei passò per la mente dispiccare il salto. Poi fissò lo squallido, breve profilo di edifici grigi e suquello chiuse gli occhi. Infine si girò e nella stanza ora c’era Carol che,ferma presso la porta, la guardava.

"Dove sei stata?" domandò Therese."A scrivere quella maledetta lettera."Carol attraversò la stanza e prese Therese fra le braccia. Therese sentì

le unghie di Carol sul dorso, attraverso il golfino.Quando Carol andò a telefonare, Therese lasciò la stanza e

s’incamminò lungo il corridoio, verso gli ascensori. Scese nell’atrio e visi trattenne a leggere un articolo che parlava dei tonchi sullaCorngrower’s Gazette, e a domandarsi se Abby sapesse tutto su queiparassiti del grano. Teneva d’occhio l’orologio, e dopo venticinque

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minuti tornò di sopra.Carol era distesa sul letto e fumava. Therese aspettò che fosse lei a

parlare."Gioia, devo andare a New York," disse Carol.Therese ne era stata certa. Si portò ai piedi del letto. "Cos’altro ha

detto Abby?""Ha rivisto quel tale Bob Haversham." Carol si sollevò su un gomito.

"Ma lui ne sa certamente meno di me, a questo punto. Pare che nessunosappia niente, salvo che ci sono guai all’orizzonte. Non può succederemolto, fino a che non arrivo io. Ma devo essere là."

"Ma certo." Bob Haversham era l’amico di Abby che lavorava nelladitta di Harge, a Newark. Un semplice legame, un sottile legame, la solapersona che potesse sapere qualcosa di quello che Harge stava facendo, senell’ufficio di Harge poteva riconoscere un investigatore, o ascoltareparte di una telefonata. Un legame quasi inutile, Therese ne era convinta.

"Abby andrà a prendere quell’assegno," continuò Carol, sedendosi sulletto e allungando una mano verso i suoi mocassini.

"Ha la chiave?""Magari l’avesse. Dovrà farsela dare da Florence. Ma non ha

importanza. Le ho spiegato di dire a Florence che volevo farmi spedire unpaio di cose."

"Puoi dirle di prendere anche una lettera? Ho lasciato una lettera per tedentro un libro, in camera mia. Scusami se non te l’ho detto prima. Nonsapevo che avresti mandato là Abby."

Carol la guardò, accigliandosi. "C’è altro?""No. Mi dispiace di non avertelo detto prima."Carol sospirò e si alzò. "Oh, non preoccupiamoci più. Dubito che si

interesseranno della casa, ma dirò ad Abby della lettera, a ogni modo.Dov’è?"

"Nell’Oxford Book of English Verse. Penso d’averlo lasciato sopra ilcassettone." Osservò Carol gettare uno sguardo per la stanza, guardandotutto tranne lei.

"Non mi va di rimanere qui questa notte, tutto sommato," disse Carol.

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Mezz’ora dopo erano in viaggio, dirette verso est. Carol voleva arrivare aDes Moines in serata. Dopo un silenzio di più di un’ora, Carol fermòimprovvisamente la macchina lungo il margine della strada, chinò la testae disse: "Maledizione!"

Nel chiarore delle auto che passavano, Therese poteva vederle i cerchiscuri sotto gli occhi. Carol non aveva dormito affatto, la notte passata."Ritorniamo a quell’ultima città," disse Therese. "Mancano ancora più dicento chilometri per Des Moines. "

"Vuoi andare in Arizona?" domandò Carol, come se tutto quello cheoccorreva fosse fare manovra per voltare.

"Oh, Carol, perché parlarne?" D’improvviso, era stata presa da unsenso di disperazione. Le tremavano le mani, nell’accendere unasigaretta. La passò a Carol.

"Perché io voglio parlarne. Puoi prenderti altre tre settimane dilibertà?"

"Ma certo." Ma certo, ma certo. Che altro mai importava, in fondo, senon lo stare con Carol, ovunque? C’era lo spettacolo di Harkevy inmarzo. Harkevy l’avrebbe forse raccomandata per un incarico da qualchealtra parte, ma gli incarichi erano incerti, Carol no.

"Dovrò fermarmi a New York non più di una settimana, perché per ildivorzio è tutto stabilito, ormai. Fred, il mio legale, ha detto così, oggi. Equindi perché non dovremmo concederci qualche altra settimana inArizona? O nel New Mexico? Non voglio ciondolare per New York tuttoil resto dell’inverno." Carol guidava lentamente, ora. I suoi occhi eranodiversi. Si erano animati, come la voce.

"Ma certo che anche a me piacerebbe. Lì o altrove.""D’accordo. Proseguiamo fino a Des Moines. Ti andrebbe di guidare un

po’?"Si scambiarono i posti. Mancava poco a mezzanotte quando arrivarono

a Des Moines e trovarono una stanza in un albergo."A che scopo tu dovresti tornare a New York?" domandò Carol.

"Potresti tenerti l’auto e aspettarmi in qualche posto come Tucson oSanta Fe, e io potrei tornare in aereo."

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"E lasciarti?" Therese, che davanti allo specchio si stava spazzolando icapelli, si voltò.

Carol sorrise. "In che senso, lasciarmi?"Therese era stata colta di sorpresa, e ora, sebbene Carol stesse

fissandola attentamente, le vedeva un’espressione che la faceva sentiretagliata fuori, proprio come se Carol l’avesse spinta in un angolo dellasua mente per fare posto a qualcosa di più importante. "Lasciarti per ora,volevo dire." Therese tornò a girarsi verso lo specchio. "Sì, certo,potrebbe essere una buona idea. È molto più rapido, per te."

"Pensavo che tu preferissi fermarti in qualche parte dell’Ovest. A menoche tu non voglia fare qualcosa a New York, in quei pochi giorni." Il tonodi Carol era indifferente.

"No, no." La sgomentava l’idea delle giornate di gelo a Manhattan,quando Carol sarebbe stata troppo occupata per vederla. E pensavaall’investigatore. Se Carol avesse preso l’aereo, non sarebbe stataassillata dal pensiero che lui la pedinasse. Tentò di immaginare lasituazione, Carol che arrivava sola all’Est, per affrontare qualcosa cheancora non conosceva, qualcosa per cui era impossibile prepararsi.Immaginò se stessa a Santa Fe, in attesa di una telefonata, in attesa di unalettera di Carol. Ma essere a quasi tremila chilometri da Carol non eracosa da potersi immaginare facilmente. "Soltanto una settimana, Carol?"domandò, passandosi di nuovo il pettine nella scriminatura, gettando daun lato i lunghi capelli. Aveva acquistato peso, ma la faccia era piùscarna, notò all’improvviso, e le fece piacere. Sembrava più matura.

Nello specchio, vide Carol arrivarle alle spalle, e non vi era altrarisposta se non il piacere delle braccia di Carol che scivolavano intorno alei, che le rendeva impossibile pensare. Si sottrasse, in modo piùimprovviso di quanto avesse inteso fare, e rimase presso l’angolo dellatoletta a fissare Carol, disorientata per qualche istante dall’evasività diquello di cui stavano parlando, tempo e spazio, dal metro abbondante chele separava ora, e dai tremila chilometri. Diede ai capelli un altro colpo dispazzola. "Soltanto una settimana, più o meno?"

"È quello che ho detto," replicò Carol con un sorriso negli occhi, maTherese colse nella risposta la stessa durezza che si percepiva nella

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domanda, quasi stessero scambiandosi delle sfide. "Se non ti va di tenerela macchina, posso farla riportare all’Est."

"Non mi dispiace affatto tenerla.""E non preoccuparti per l’investigatore. Telegraferò a Harge che sono

in arrivo.""Di lui non mi preoccupo." Come può Carol essere così fredda, si

domandava Therese, e pensare a tutto tranne al fatto di doversi lasciare?Posò la spazzola sul tavolino.

"Therese, pensi forse che per me sarà un piacere?"E Therese pensò agli investigatori, al divorzio, all’ostilità, a tutto

quello che Carol doveva affrontare. Carol le fece una carezza, poi lepremette entrambe i palmi contro le guance, al punto da farle aprire labocca, come quella di un pesce, e lei dovette per forza sorridere. Thereserimase presso il tavolino a osservarla, seguendone ogni mossa delle manie dei piedi mentre si sfilava le calze e tornava a infilarsi i mocassini. Aquesto punto, pensava, non ci sono parole. Cos’altro avevano mai bisognodi spiegare, o di domandare, o di promettere? Non avevano bisognonemmeno di scrutarsi a vicenda negli occhi. Therese la guardò sollevareil ricevitore del telefono, poi si distese a faccia in giù sul letto, mentreCarol prenotava il suo posto sull’aereo per l’indomani: un solo biglietto,di sola andata, l’indomani mattina alle undici.

"Dove pensi di andare?" domandò Carol."Non lo so. Potrei anche ritornare a Sioux Falls.""Nel Sud Dakota?" Carol le sorrise. "Non preferiresti Santa Fe? Là fa

più caldo.""Aspetterò di vederla con te.""Non a Colorado Springs?""No!" Therese rise e si alzò. Si portò lo spazzolino da denti in bagno.

"Potrei perfino cercare lavoro da qualche parte, per una settimana.""Che genere di lavoro?""Uno qualsiasi. Sai, tanto per impedirmi di pensare a te.""Io voglio che pensi a me. Non un lavoro in un grande magazzino.""No." Ferma presso la porta del bagno, Therese osservò Carol finire di

spogliarsi e infilarsi la vestaglia.

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"Non ti preoccuperai di nuovo per il denaro, vero?"Therese sprofondò le mani nelle tasche della vestaglia e incrociò le

caviglie. "Se anche ne ho poco, non ha importanza. Comincerò apreoccuparmi quando non avrò più un centesimo."

"Domani ti darò un paio di centinaia di dollari per la macchina." Caroltirò il naso a Therese, nel passarle vicino. "E non devi servirti dell’autoper dare passaggi a persone estranee." Carol entrò nel bagno e aprì ladoccia.

Therese la seguì. "Credevo toccasse a me usarlo.""Lo uso io, ma ti lascerò entrare.""Oh, grazie." Therese si sfilò la vestaglia contemporaneamente a Carol."Be’?" disse Carol."Be’?" Therese si ficcò sotto la doccia."Ma che faccia tosta." Carol vi andò sotto a sua volta, e afferrò un

braccio a Therese, torcendoglielo dietro la schiena, ma Therese si limitò auna risatina.

Therese avrebbe voluto abbracciare Carol, baciarla, ma il suo bracciolibero, armeggiando in modo convulso, attirò la testa dell’altra verso lasua, sotto il getto d’acqua, e si udì il suono orribile di un piede cheslittava.

"Sta’ ferma, cadremo!" gridò Carol. "Per amor del cielo, possibile chedue persone non possano fare una doccia in pace?"

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20A Sioux Falls, Therese fermò la macchina davanti all’albergo dove eranostate in precedenza, il Warrior Hotel. Erano le nove e mezzo di sera.Therese stava pensando che Carol era arrivata a casa da circa un’ora. Leidoveva telefonarle a mezzanotte.

Prese una camera, fece portare di sopra le valigie, poi uscì per fare duepassi lungo il corso principale. C’era un cinema, e le venne in mente chenon aveva mai visto un film insieme a Carol. Entrò. Ma non eradell’umore adatto per seguire la trama, sebbene vi fosse una donna, nelfilm, che aveva la voce un po’ come quella di Carol, ben diversa dallepiatte voci nasali che lei udiva tutt’intorno a sé. Pensò a Carol, a più dimillecinquecento chilometri di distanza, ormai, pensò al fatto di doverdormire sola, quella notte, e uscì dal cinema, per riprendere avagabondare lungo il corso. C’era l’emporio dove Carol una mattinaaveva comperato fazzoletti di carta e dentifricio. E c’era l’angolo doveCarol aveva guardato in su e letto i nomi delle strade: Quinta e Nebraska.Therese comperò in quello stesso emporio un pacchetto di sigarette,ritornò verso l’albergo e sedette nell’atrio, a fumare, gustando la primasigaretta da quando aveva lasciato Carol, assaporando lo stato di chi èsolo, che aveva dimenticato. Ma era soltanto uno stato fisico. In realtà,non si sentiva affatto sola. Lesse per un poco alcuni giornali, poi tolsedalla borsetta le lettere di Dannie e di Phil che aveva ricevuto negli ultimigiorni di Colorado Springs e diede loro una scorsa. La lettera di Phildiceva: ... ho visto Richard solo soletto due sere fa al Palermo. Gli ho chiesto dite e ha detto che non ti aveva più scritto. Immagino ci sia stata unapiccola rottura, ma non ho insistito per saperne di più. Non eradell’umore per fare conversazione, e da un certo tempo non siamo piùtanto amici, come sai... Ho fatto le tue lodi a un angelo di nome FrancisPuckett disposto a investire cinquantamila dollari se in aprile arriverà unacerta commedia dalla Francia. Ti terrò informata, dato che per ora nonabbiamo neppure un regista... Dannie ti manda i suoi saluti affettuosi, ne

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sono certo. È probabile che presto parta per non so dove, ne ha tuttal’aria, e mi toccherà andare in cerca di un nuovo antro per svernare otrovarmi un compagno di stanza... Hai ricevuto i ritagli che ti ho speditosu Small Rain?

Saluti cari,

Phil La lettera di Dannie era breve: Cara Therese,

c’è una possibilità che io debba partire per la costa alla fine del meseper assumere un impiego in California. Devo decidere tra quello(lavorerei in laboratorio) e un’offerta di una ditta commerciale dimateriale chimico nel Maryland. Ma se potessi incontrarmi per un pococon te a Colorado o altrove, partirei qualche giorno prima. Accetteròprobabilmente il posto in Califonia, perché penso che offra prospettivemigliori. Vuoi farmi sapere dove sarai, perciò? Per me non fa differenza.Ci sono un sacco di modi per arrivare in California. Se alla tua amica nondispiace, sarebbe bello passare qualche giorno insieme da qualche parte.A ogni modo, sarò a New York fino alla fine di febbraio.

Con affetto,

Dannie Lei non gli aveva ancora risposto. L’indomani, non appena avesse trovatouna stanza in città, gli avrebbe mandato l’indirizzo. Quanto alla prossimadestinazione, però, doveva prima parlarne con Carol. E quando Carolsarebbe stata in grado di dirglielo? Si domandò che cosa Carol potesseavere già trovato quella sera nel New Jersey, e subito il coraggio lasciò ilposto allo sgomento. Si protese a prendere un giornale per guardare ladata: 15 febbraio. Ventinove giorni da quando era partita da New Yorkcon Carol. Così pochi, possibile?

Salita in camera, prenotò la chiamata per Carol, fece un bagno e

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indossò il pigiama. Poi il telefono squillò."Pronto," disse Carol, come se stesse aspettando da un pezzo. "Com’è

il nome di quell’albergo?""È il Warrior. Ma non ho intenzione di restarci.""Non hai dato passaggi a sconosciuti lungo la strada, vero?"Therese rise. La voce lenta di Carol vibrava in lei come se Carol stessa

la toccasse. "Che novità ci sono?" domandò."Stasera? Nessuna. La casa è gelida, e Florence non potrà essere qui

prima di dopodomani. C’è Abby. Vuoi salutarla?""Non dirmi che è lì con te.""No. È di sopra nella stanza verde, con la porta chiusa.""Non mi va di parlarle, in questo momento."Carol volle sapere tutto quello che aveva fatto, come fossero le strade e

se aveva addosso il pigiama giallo o quello azzurro. "Farò fatica adaddormentarmi, stanotte, senza di te."

"Sì." All’istante, dal nulla, Therese sentì le lacrime gonfiarle gli occhi."Non sai dire altro che sì?""Ti amo."Carol zufolò. Poi, silenzio. "Tesoro, Abby ha trovato l’assegno, ma

niente lettera. Non ha ricevuto il mio telegramma, ma la lettera non c’è, aogni modo."

"Il libro lo avete trovato?""Il libro sì, ma dentro non c’è niente."Therese si domandò se, tutto sommato, la lettera non potesse essere nel

suo appartamento. Ma le pareva di vederla, dentro il libro, a segnare lapagina. "Pensi che qualcuno abbia perquisito la casa?"

"No, posso escluderlo da svariate cose. Non stare più a preoccuparti,d’accordo?"

Qualche istante dopo, Therese s’infilava nel letto e spegneva la luce.Carol le aveva chiesto di telefonarle anche l’indomani sera. Per un poco,la voce di Carol le risuonò nelle orecchie. Poi, cominciò a serpeggiare inlei la malinconia. Giaceva supina con le braccia distese lungo i fianchi eun senso di vuoto tutt’intorno, come se fosse stesa là pronta per esserecalata nella fossa, e infine si addormentò.

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Il mattino dopo, Therese trovò una stanza che le piaceva in una casa diuna delle strade un po’ in salita, una grande camera con una finestra adarco piena di piante e dalle tende candide. C’erano un letto conbaldacchino e, a terra, un tappeto ovale, a uncinetto. La signora disse checostava sette dollari la settimana, ma Therese spiegò che non era sicura dirimanere un’intera settimana, perciò avrebbe pagato giorno per giorno.

"Il prezzo rimane lo stesso. Da dove viene?""Da New York.""Pensa di stabilirsi qui?""No. Sto solo aspettando che una persona venga a raggiungermi.""Uomo o donna?"Therese sorrise. "Una donna," disse. "C’è spazio in quei garage sul

retro? Ho con me l’auto."La signora disse che c’erano due garage liberi, sul retro, e che per

quelli non si faceva pagare, se la persona abitava da lei. Non era vecchia,ma era un po’ curva, e molto fragile d’aspetto. Si chiamava ElizabethCooper. Teneva pensionanti da quindici anni, raccontò, e tre di quelli coni quali aveva cominciato stavano ancora lì.

Quello stesso giorno, Therese fece la conoscenza di Dutch Huber edella moglie, che gestivano un piccolo ristorante vicino alla bibliotecapubblica. Lui era un tipo magrissimo sulla cinquantina, con occhi azzurripiccoli e indagatori. La moglie, Edna, era grassa, cucinava lei e parlavamolto meno del consorte. Dutch, anni prima, aveva lavorato per qualchetempo a New York. Le faceva domande su zone della città che lei nonconosceva affatto, mentre lei parlava di posti che Dutch non aveva maisentito nominare o aveva dimenticato, e la lenta, stentata conversazioneriusciva chissà perché a farli ridere entrambi. Dutch le domandò se leavrebbe fatto piacere andare con lui e la moglie alle corse motociclisticheche si sarebbero tenute il sabato poco fuori città, e Therese disse di sì.

Comperò cartoncino e colla e lavorò al primo dei modelli cheintendeva mostrare ad Harkevy una volta tornata a New York. Lo avevaquasi terminato quando uscì, verso le undici e mezzo, per telefonare aCarol dal Warrior.

Carol non c’era e non rispondeva nessuno. Therese ritentò fino all’una,

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poi se ne tornò dalla signora Cooper.Riuscì a parlare con Carol il mattino dopo, verso le dieci e mezzo.

Carol riferì d’avere discusso di tutto con il suo avvocato, il giorno prima,ma non c’era niente che lei o il legale potessero fare finché non fosserostati a conoscenza della mossa successiva di Harge. Carol non si dilungòmolto con lei, perché aveva un appuntamento per l’ora di pranzo, a NewYork, e prima una lettera da scrivere. Per la prima volta, sembrava inansia riguardo a quello che Harge stava facendo. Due volte aveva tentatodi telefonargli, senza riuscire a trovarlo. Ma era il suo tono sbrigativo chesoprattutto disturbava Therese.

"Non hai cambiato idea su qualcosa," azzardò Therese."Ma no, tesoro. Ho qui gente, domani sera. Mi mancherai."Therese inciampò sulla soglia dell’albergo, nell’uscire, investita

all’improvviso dalla prima, enorme ondata di solitudine. Lei che cosaavrebbe fatto, l’indomani sera? Avrebbe letto in biblioteca fino alle nove,ora di chiusura? Avrebbe lavorato a un altro scenario? Passò in rassegna inomi delle persone che, come Carol le aveva detto, sarebbero intervenutealla serata: Max e Clara Tibbett, la coppia che gestiva una serra più omeno dalle parti della casa di Carol e che Therese aveva avuto occasionedi conoscere, e Stanley McVeigh, l’uomo con cui era Carol la sera in cuierano andate a Chinatown. Carol non aveva nominato Abby. E non avevadetto a lei di chiamarla, l’indomani.

Continuò a camminare, e l’ultimo istante in cui aveva visto Carol letornò in mente come se stesse ripetendosi davanti ai suoi occhi. Carol chesalutava dal portello dell’aereo all’aeroporto di Des Moines, Carol giàpiccola e lontana, perché Therese aveva dovuto rimanere dietro larecinzione di fil di ferro ai margini del campo. La scaletta era già stataportata via, ma Therese si era detta che mancavano ancora alcuni secondialla chiusura del portello, e poi Carol era riapparsa, giusto il temposufficiente per fermarsi un attimo sull’apertura, cercare lei con gli occhi,e fare il gesto di buttarle un bacio. Ma era stato di un’importanza assurda,che fosse tornata indietro per farlo.

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Il sabato Therese andò alle corse motociclistiche, e accompagnò leiDutch e Edna perché l’auto di Carol era più grande. Dopo, la invitarono acena a casa loro, ma non accettò. Non era arrivata una lettera di Carol,quel giorno, e lei si era aspettata almeno due righe. La domenica ladepresse, e nemmeno il giro in macchina che fece nel pomeriggio lungo ilBig Sioux River e fino alle rapide di Dell bastò a cambiare la scena nellasua mente.

Il lunedì mattina lo passò in biblioteca a leggere lavori teatrali. Poi,verso le due, quando la ressa dell’ora di punta cominciava ormai adiradarsi nel locale di Dutch, vi entrò, prese un tè, e chiacchierò conDutch mentre cercava, sul juke-box, le canzoni che lei e Carol avevanoascoltato insieme. Aveva detto a Dutch che l’auto apparteneva all’amicache lei stava aspettando e, a poco a poco, le domande intermittenti diDutch la portarono a dirgli che Carol viveva nel New Jersey, cheprobabilmente sarebbe arrivata in aereo, e che voleva andare nel NewMexico.

"Chi, Carol?" disse Dutch, girandosi verso di lei mentre lustrava unbicchiere.

Subito Therese provò uno strano risentimento perché lui avevapronunciato quel nome, tanto che prese la risoluzione di non nominaremai più Carol con nessuna persona della città.

Martedì la lettera di Carol arrivò, nient’altro che un breve biglietto, madiceva che Fred, il legale, era più ottimista su tutto, che sembrava vifosse soltanto il divorzio di cui preoccuparsi e che probabilmente leisarebbe partita il 24 febbraio. Therese ricominciò a sorridere, nelleggerlo. Avrebbe voluto uscire a festeggiare con qualcuno, ma non c’eranessuno, per cui non le restava che fare una passeggiata, bere un drink insolitudine al bar del Warrior, e pensare a Carol di lì a cinque giorni. Nonle veniva in mente nessuno di cui avrebbe desiderato la compagnia, salvoforse Dannie. Oppure Stella Overton. Stella era simpatica, e sebbeneTherese non avrebbe potuto dirle niente di Carol – a chi mai poteva dirlo?– vederla ora le avrebbe fatto piacere. Aveva avuto l’intenzione dimandarle una cartolina, ma ancora non l’aveva fatto.

Scrisse a Carol quella sera tardi.

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La notizia è meravigliosa. Ho festeggiato con un solo daiquiri al Warrior.Non per eccesso di prudenza, ma sapevi che un drink fa l’effetto di trequando si è soli?... Amo questa città perché qui tutto mi ricorda te. So cheper te equivale a tante altre, ma non è questo il punto. Voglio dire, tu seiqui per quanto io possa fare in modo che tu lo sia, non, essendo presente... Carol scrisse: Non mi è mai piaciuta Florence. Lo dico come preludio. Pare cheFlorence abbia trovato la lettera che mi avevi scritto e l’abbia venduta aHarge, per una certa somma. È sempre colpa sua se Harge ha saputo dovestavamo andando, su questo non ho alcun dubbio. Non so che cosa iopossa aver lasciato in giro per casa o che cosa lei possa avere ascoltato,mi sembrava d’essere abbastanza prudente, ma se Harge si è preso ildisturbo di corromperla, e sono certissima che l’ha fatto, una ragione c’è.Hanno cominciato a sorvegliarci fin da Chicago, a ogni modo. Tesoromio, non immaginavo che la cosa si fosse spinta tanto in là. Per dartiun’idea dell’atmosfera: nessuno mi dice niente: le cose si scoprono così,all’improvviso. Se qualcuno è in possesso dei fatti, è Harge. Ho parlatocon lui per telefono, e rifiuta di dirmi qualcosa, il che naturalmente ècalcolato per indurmi a cedere terreno ancor prima che la lotta siacominciata. Non mi conoscono, nessuno di loro, se credono che lo farò.La lotta riguarda naturalmente Rindy e, sì, tesoro, temo che sarà feroce, eche il 24 non potrò partire. Questo mi ha detto Harge stamattina altelefono, quando ha tirato in ballo la lettera. Penso che la lettera debbaessere la sua arma più forte (la faccenda delle registrazioni è cominciatasolo a Colorado Springs, per quanto mi è dato immaginare), ed eccoperché me ne ha messa al corrente. Ma posso immaginare che specie dilettera sia, scritta addirittura prima che partissimo, e ci sarà un limite aquello che perfino Harge può leggervi. Harge mi sta semplicementeminacciando – in una forma tutta particolare, il silenzio – nell’illusioneche io faccia completamente marcia indietro per quel che riguarda Rindy.Me ne guarderò bene, per cui si arriverà a qualche specie di chiarimento,

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spero non in tribunale. Fred è preparato a tutto, a ogni modo. Èmeraviglioso, la sola persona che mi dica le cose come stanno, mapurtroppo è quello che sa meno di tutti.

Mi domandi se mi manchi. Penso alla tua voce, alle tue mani e ai tuoiocchi, quando li fissi nei miei. Ricordo il tuo coraggio che non avevosospettato, e che dà coraggio a me. Vuoi telefonarmi, tesoro mio? Nonvoglio essere io a farlo, se il tuo telefono è in anticamera. Chiamami,mettendo la telefonata in conto a me, verso le sette di sera,preferibilmente, che per te sono le sei. E Therese stava per chiamarla, quel giorno, quando arrivò untelegramma: Non telefonare per ora. Spiegherò in seguito. Tutto il mio amore, tesoro.

Carol La signora Cooper la osservò leggerlo, in anticamera. "È della suaamica?" domandò.

"Sì.""Spero non sia niente di grave." La signora Cooper aveva un certo

modo di scrutare le persone, e Therese sollevò deliberatamente la testa."No, arriverà presto," disse. "C’è stato un contrattempo."

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21Albert Kennedy, "Bert" per chi gli era simpatico, occupava una stanza sulretro della casa, ed era uno dei primi pensionanti della signora Cooper.Aveva quarantacinque anni, era di San Francisco, ma anche il piùnewyorkese tra quelli che Therese aveva conosciuto lì in città, e questosolo fatto la rendeva incline a evitarlo. Spesso l’aveva invitata ad andareal cinema con lui, ma lei aveva accettato una sola volta. Era irrequieta epreferiva andarsene in giro da sola, più che altro per guardare e riflettere,perché le giornate erano troppo fredde e ventose per poter disegnareall’aperto. E poi, a forza di guardare, a forza di aspettare, le scene che alprincipio le erano piaciute avevano finito per diventare stantie. Theresepassava quasi tutte le sere in biblioteca, seduta a uno dei lunghi tavoli acompulsare cinque o sei volumi, dopo di che faceva un lungo giro pertornare verso casa.

Ci tornava solo per uscire di nuovo, dopo un po’, irrigidendosi contro ilvento che soffiava da tutte le direzioni, o lasciando che la obbligasse asvoltare in strade che altrimenti non avrebbe percorso. Dietro le finestreilluminate, scorgeva a volte una ragazza seduta al pianoforte, a volte unuomo che rideva, altre ancora una donna che cuciva. Poi, ricordava di nonpoter nemmeno telefonare a Carol, confessava a se stessa di non sapereneppure che cosa stesse facendo Carol in quel momento, e si sentiva piùinane del vento. Sentiva che Carol non le diceva tutto nelle sue lettere,che non le diceva il peggio.

In biblioteca, sfogliava volumi che contenevano fotografiedell’Europa, marmoree fontane in Sicilia, rovine assolate in Grecia, e sidomandava se lei e Carol vi sarebbero davvero andate mai. Erano ancoratante le cose che non avevano fatto. C’era la prima traversatadell’Atlantico. C’erano semplicemente le mattine, mattine ovunque, incui lei, sollevando la testa dal guanciale, poteva vedere la faccia di Carol,e sapere che la giornata apparteneva a loro, e che niente le avrebbeseparate.

E c’era il bell’oggetto, che parlava a un tempo agli occhi e al cuore,nella buia vetrina di un negozio d’antiquario di una via dove lei non era

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mai stata. Therese lo fissava, con la sensazione che placasse, in lei, unasete dimenticata e senza nome. La superficie in porcellana era quasicompletamente coperta di piccole e vivide losanghe smaltate, blu reale,rosso intenso e verde, dai contorni in oro zecchino che rilucevano comeun ricamo in seta perfino sotto lo strato di polvere. Sull’orlo c’era unanello dorato, per infilarvi il dito. Era un piccolo candeliere. Chi l’avràfatto, si domandava Therese, e per chi?

Ritornò il mattino dopo e lo comperò per regalarlo a Carol.Quel mattino le era arrivata una lettera di Richard, inoltrata da

Colorado Springs. Therese sedette su una delle panchine di pietra nellastrada dove c’era la biblioteca, e l’aprì. Era su carta intestata della dittapaterna, la Semco Bombole di Gas. Il nome di Richard vi figurava, inalto, come direttore generale della filiale di Port Jefferson. Cara Therese,

devo ringraziare Dannie per avermi detto dove sei. Penserai che questalettera sia inutile e forse per te lo è. Forse sei ancora nella nebbia in cui titrovavi quando parlammo, quella sera nella caffetteria. Ma sento che ènecessario chiarire una cosa, e cioè che non provo più quello che provavofino a due settimane fa, che l’ultima lettera che ti ho scritto altro non erache un finale sforzo spasmodico, ma sapevo già mentre la scrivevo cheera inutile, sapevo che non avresti risposto e neppure desideravo cherispondessi. Sapevo, in quel momento, d’avere già smesso di amarti, eora l’emozione più forte che provo nei tuoi confronti è quella che già erapresente fin dal principio: disgusto. A disgustarmi, è questo tuoaggrapparti a quella donna escludendo chiunque altro, questa relazioneche a quest’ora, ne sono certo, è divenuta sordida e patologica. So chenon durerà, come ti dissi fin dal primo momento. Si può soltantodeplorare, e in seguito ne sarai disgustata tu stessa, in proporzione aquanto della tua vita ti sta facendo sprecare ora. È infondata e infantile,come vivere di fiori di loto o di qualche nauseabondo dolciume inveceche di pane e carne. Ho spesso ripensato alle tue domande di quel giornoin cui facevamo volare l’aquilone. Rimpiango di non avere agito allora,prima che fosse troppo tardi, perché allora ti amavo abbastanza per

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tentare di salvarti. Ora non più. La gente mi domanda ancora di te. Checosa ti aspetti che risponda? Intendo dire la verità. Soltanto in questomodo potrò liberarmene, e non sopporto più di portarmela dentro. Homandato a casa tua le poche cose che avevi lasciato da me. Il minimoricordo o contatto con te mi deprime, mi fa desiderare di non toccare néte né niente che ti riguardi. Ma io dico cose sensate, e moltoprobabilmente tu non capisci neppure una parola. Salvo forse queste: nonvoglio avere più niente a che fare con te.

Richard Therese rivide le sottili labbra di Richard tese in una linea diritta, comedovevano apparire mentre le scriveva quella lettera, una linea che tuttavianon annullava del tutto un piccolo rigonfio del labbro superiore; rivideper un attimo con chiarezza la faccia di lui, poi tutto svanì con un lievesussulto tanto attenuato e remoto, per lei, quanto il clamore della letterastessa. Si alzò, rimise il foglio nella busta e riprese il cammino. Siaugurava che Richard riuscisse a dimenticarla. Ma poteva soltantoimmaginarlo mentre parlava di lei agli altri con quello stranoatteggiamento di appassionata partecipazione che gli aveva visto a NewYork prima di partire. Lo immaginò nell’atto di dirlo a Phil mentres’incontravano una sera al Palermo, lo immaginò mentre lo diceva aiKelly. Lei non se ne sarebbe curata, qualsiasi cosa Richard dicesse.

Si domandò che cosa stesse facendo Carol in quel momento, alle diecidel mattino, le undici nel New Jersey. Ascoltava le accuse di qualcheestraneo? Pensava a lei, o non c’era tempo per questo?

Era una splendida giornata, fredda e quasi senza vento, vivida di sole.Poteva prendere la macchina e andare da qualche parte. Erano tre giorniche non usava l’auto. D’improvviso, si rese conto di non avere voglia difarlo. Il giorno in cui l’aveva presa e aveva viaggiato a più di centoall’ora lungo la strada diritta che portava alle rapide di Dell, esultantedopo una lettera di Carol, le sembrava lontanissimo.

Il signor Bowen, un altro dei pensionanti, era nella veranda antistantequando lei fece ritorno dalla signora Cooper. Se ne stava seduto al solecon una coperta avvolta intorno alle gambe e il cappello calato sugli

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occhi come se dormisse, ma le gridò: "Ehilà, salve! Come sta la miaragazza?"

Therese si fermò a chiacchierare un poco con lui, informandosi sullasua artrite e cercando di essere cortese come lo era sempre stata Carolcon la signora French. Trovarono qualcosa di cui ridere, e lei stava ancorasorridendo quando entrò nella sua stanza. Poi la vista del geranio fecedileguare il sorriso.

Annaffiò il geranio e lo spostò a un’estremità del davanzale, doveavrebbe avuto sole più a lungo. Perfino le foglie più tenere, in alto,avevano gli orli un po’ ingialliti. Carol l’aveva comperato per lei a DesMoines poco prima di prendere l’aereo. L’edera in vaso era già morta –l’uomo del negozio le aveva avvertite che era delicata, ma Carol l’avevavoluta ugualmente –, e Therese dubitava che il geranio potesse vivere.Eppure, nel bovindo, la collezione di piante della signora Cooperprosperava.

"Non faccio che camminare per la città," scrisse a Carol, "ma vorreipoter continuare ad andare in un’unica direzione – l’est – fino ad arrivareda te. Quando puoi venire, Carol? O dovrò venire io da te? Proprio nonsopporto più di starti lontana così a lungo..."

La risposta l’ebbe il mattino seguente. Un assegno svolazzò fuori dauna lettera di Carol e finì sul pavimento dell’anticamera della signoraCooper. Era un assegno di duecentocinquanta dollari. La lettera di Carol –le "l" e le "g" vergate alla meglio e pallide, il trattino delle "t" che siallungava sull’intera parola – diceva che le era impossibile venire entrole prossime due settimane, ammesso che... L’assegno era per lei, pertornare a New York in aereo e far riportare l’auto all’Est.

"Mi sentirei più tranquilla se tu prendessi l’aereo. Vieni, nonaspettare."

Carol aveva buttato giù la lettera in fretta, probabilmente rubando unmomento per poter scrivere, ma c’era anche una freddezza, nel tono, chelasciò sgomenta Therese. Uscì di casa e arrivò come un automa finoall’angolo per lasciar cadere ugualmente nella buca delle lettere quellache aveva scritto la sera prima, una busta pesante, con ben tre francobollidi posta aerea. Forse avrebbe rivisto Carol nel giro di dodici ore. Il

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pensiero non bastava a rassicurarla. Doveva partire quel mattino stesso?Nel pomeriggio? Che cosa avevano fatto a Carol? Si domandò se Carolsarebbe andata su tutte le furie nel caso lei avesse telefonato; se,facendolo, non avrebbe rischiato di far precipitare una crisi momentaneain una totale disfatta.

Era seduta a un bar da qualche parte, con caffè e succo d’aranciadavanti, quando si decise a guardare l’altra lettera che aveva in mano.Nell’angolo in alto a sinistra era appena possibile decifrare la bruttagrafia. Veniva dalla signora Robichek. Cara Therese,

grazie infinite per il delizioso cotechino arrivatomi il mese scorso. Seiuna cara, dolcissima ragazza, e sono contenta di avere l’occasione di dirtigrazie infinite volte. Sei stata tanto gentile a pensare a me mentre faceviquel lungo viaggio. Mi piacciono anche le belle cartoline, specialmentequella grande, da Sioux Falls. Com’è il Dakota? Ci sono montagne e cow-boy? Non ho mai avuto occasione di viaggiare, tranne che inPennsylvania. Sei una ragazza fortunata, così giovane, carina e gentile.Quanto a me, lavoro, e il magazzino è come sempre. Tutto è comesempre, ma fa più freddo. Vieni a trovarmi, al tuo ritorno. Ti preparerò unbuon pranzetto, non preso in rosticceria. Ancora grazie per il cotechino.Mi è bastato per diversi giorni, ed era davvero qualcosa di squisito e dispeciale.

Tanti affettuosi saluti,Ruby Robichek

Therese scivolò giù dallo sgabello, lasciò del denaro sul banco e uscì infretta. Fece di corsa tutta la strada fino al Warrior, prenotò la chiamata,poi aspettò con il ricevitore contro l’orecchio di sentir squillare iltelefono in casa di Carol. Non rispondeva nessuno. Lo lasciò squillareventi volte, e nessuno rispose. Pensò di chiamare Fred Haymes, il legaledi Carol, ma decise di lasciar perdere. Non se la sentiva nemmeno dichiamare Abby.

Quel giorno piovve, e Therese, distesa sul letto in camera sua, rimase a

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fissare il soffitto in attesa che si facessero le tre, ora in cui intendevaritelefonare. Verso mezzogiorno la signora Cooper le portò un vassoiocon uno spuntino. Era convinta che lei non si sentisse bene. Therese, però,non aveva nessuna voglia di mangiare, e non sapeva come sbarazzarsi diquel cibo.

Alle cinque, stava ancora tentando di mettersi in contatto con Carol.Finalmente gli squilli cessarono e ci fu della confusione lungo la linea, unpaio di centraliniste s’interrogarono a vicenda sulla chiamata, poi leprime parole che Therese udì da Carol furono: "Sì, maledizione!" Sorrise,e le braccia smisero di dolerle.

"Pronto?" disse in tono brusco Carol."Pronto?" La linea era pessima. "Ho avuto la lettera, quella con

l’assegno. Cos’è successo, Carol?... Cosa?"La voce dal tono angosciato di Carol ripeté attraverso le scariche: "La

linea dev’essere sorvegliata, Therese... Stai bene? Hai intenzione ditornare? Non posso parlare molto a lungo."

Therese aggrottava la fronte, senza parole. "Sì, penso di poter partireoggi stesso." Poi, tutto d’un fiato: "Che c’è, Carol? Proprio non ci resisto,a non sapere niente!"

"Therese!" Carol trascinò la parola attraverso tutte quelle di Therese,come a cancellarle. "Vuoi tornare a casa in modo che possa parlarti?"

A Therese sembrò di sentire anche un sospiro d’impazienza. "Ma devosaperlo ora. Puoi vedermi al mio ritorno?"

"Non so cosa dirti, Therese."Era così che loro due si parlavano? Erano quelle le espressioni che

usavano? "Ma puoi?""Non lo so," disse Carol.Un senso di gelo le corse lungo il braccio, fino nelle dita che reggevano

il ricevitore. Sentì che Carol la odiava. Perché era colpa sua, della suastupida distrazione riguardo alla lettera arrivata da Florence. Qualcosaera successo, e forse Carol non poteva né voleva rivederla. "È giàcominciata la faccenda in tribunale?"

"È finita. Ti ho scritto in proposito. Non posso continuare a parlare.Addio, Therese." Carol aspettò che lei rispondesse. "Devo proprio

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salutarti."Therese riappese lentamente il ricevitore.Ferma in mezzo all’atrio dell’albergo, fissò senza vederle le figure

attorno al banco della reception. Estrasse di tasca la lettera di Carol e larilesse, ma la voce di Carol le risuonava nell’orecchio, mentre diceva conimpazienza: "Vuoi tornare a casa in modo che possa parlarti?" Tolse dallabusta l’assegno e lo guardò, capovolto, poi lentamente lo stracciò. Negettò i pezzi dentro una sputacchiera d’ottone.

Ma le lacrime non vennero fino a che non rientrò e non rivide la suastanza, il letto a due piazze che si affossava nel centro, la pila dellelettere di Carol sul tavolino. Non poteva rimanere lì un’altra notte.

Avrebbe dormito in un albergo e, se l’indomani mattina la lettera di cuiaveva parlato Carol non fosse arrivata, sarebbe partita ugualmente.

Trascinò fuori dall’armadio a muro la valigia e l’aprì sul letto.L’angolo di un fazzoletto bianco piegato spuntava da una delle tascheinterne. Therese lo prese e se lo portò al naso, ripensando al mattino incui, a Des Moines, Carol lo aveva messo lì, con una goccia di profumodentro, e al commento che aveva fatto nel mettervelo, di cui lei avevariso. Rimase un po’ con una mano sulla spalliera di una sedia e l’altra,serrata a pugno, che si alzava e ricadeva senza motivo, e quello cheprovava era annebbiato e confuso come il tavolino e le lettere che fissavaaccigliata davanti a sé. Poi, d’improvviso, la sua mano si allungò versouna busta appoggiata sopra il tavolino, contro i libri. Fino a quelmomento non l’aveva notata, sebbene fosse lì in bella vista. La lacerò.Era quella, la lettera di cui Carol aveva parlato. Era una lunga lettera, el’inchiostro era di un blu slavato su alcuni fogli, nero su altri. Lesse laprima pagina, poi tornò a rileggerla.

Lunedì Tesoro mio,

non vado neppure in tribunale. Stamattina mi è stata data unadimostrazione privata di quello che Harge intendeva portare contro di me.Sì, hanno alcune conversazioni registrate: precisamente di Waterloo, esarebbe inutile tentare di affrontare i giudici con questo. Morirei di

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vergogna, strano a dirsi non per me stessa ma per la mia bambina, pernon dire che non voglio che tu venga trascinata in aula. È stato tuttomolto semplice, stamattina: mi sono arresa. La cosa importante, ora,dicono gli avvocati, è quello che intendo fare per il futuro. Da questodipende se potrò mai rivedere mia figlia, perché ora Harge ha la suacompleta custodia. La questione era se avrei smesso di vederti (e altrecome te, hanno detto!). La domanda non era posta in termini così chiari.C’erano una decina di facce che aprivano la bocca per esprimersi comenel giorno del giudizio universale, per ricordarmi i miei doveri, la miaposizione e il mio futuro (quale futuro hanno decretato, per me? Verrannoa farsene un’idea tra sei mesi?), e io ho promesso che avrei smesso divederti. Mi domando se potrai capirmi, Therese, dato che sei così giovanee non hai nemmeno avuto una madre che tenesse a te disperatamente. Perquesta promessa, mi concederanno la loro meravigliosa ricompensa, ilprivilegio di vedere mia figlia poche settimane l’anno.

Ore dopo...Abby è qui. Parliamo di te; ti manda il suo affetto come io ti mando il

mio. Abby. mi ricorda le cose che so già; che sei molto giovane e che miadori. Abby pensa che questa non dovrei spedirtela, ma parlarti quandoverrai. Abbiamo appena avuto una vera discussione in proposito. Io ledico che non ti conosce bene quanto me, e ora penso che sotto certiaspetti non mi conosca bene quanto te, e quegli aspetti sono gli statid’animo. Oggi non sono molto felice, gioia mia. Sto bevendo un whiskydopo l’altro, e tu, lo so, diresti che mi deprimono. Ma non ero preparata avivere questi giorni dopo le settimane passate con te. Erano settimanefelici, e tu lo capivi meglio di me, anche se tutto quello che abbiamoconosciuto è stato soltanto un inizio. Intendevo cercare di dirti, in questalettera, che il resto nemmeno lo conosci e forse mai lo conoscerai né sipresume che tu possa conoscerlo: che tu sia destinata a conoscerlo, vogliodire. Non abbiamo mai litigato, mai ci siamo rimbeccate, sapendo che pernoi non esisteva niente, in cielo o in terra, al di là dell’essere insieme. Sedavvero mi hai amato fino a questo punto, non lo so. Ma questo fa partedi tutto un insieme e noi non abbiamo conosciuto altro che un inizio. Ed èstato un periodo così breve. Per questa ragione, avrà radici meno

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profonde, in te. Dici d’amarmi così come sono e quando impreco. Io dicod’amarti sempre, la persona che sei e quella che diventerai. Lo direi intribunale, se significasse qualcosa per quelle persone o se potessecambiare qualcosa, perché non sono quelle, le parole che mi fanno paura.Intendo dire, tesoro mio, che questa lettera io te la manderò e penso checapirai perché lo faccio, e perché ieri ho detto agli avvocati che non tiavrei più rivista, e perché sono stata costretta a dirlo. Ti sottovaluterei, sepensassi che non capiresti e che preferiresti rinviare. Therese smise di leggere, si alzò e andò lentamente verso il tavolino. Sì,capiva perché Carol aveva mandato la lettera. Perché Carol amava più suafiglia che lei e, proprio per questo, gli avvocati erano stati in grado dipiegarla, di costringerla a fare esattamente quanto volevano che facesse.Therese non poteva immaginare Carol costretta a piegarsi. Eppure, erascritto lì, di suo pugno. Era una resa volontaria, Therese lo sapeva,altrimenti Carol non si sarebbe lasciata strappare la situazione di mano.Per un istante le balenò la fantastica percezione che Carol avesse dedicatosoltanto una frazione di se stessa a lei, Therese, e d’improvviso l’interomondo del mese trascorso s’incrinò e quasi minacciò di franare, comeuna tremenda bugia. L’istante successivo, Therese smise di crederlo.Tuttavia, il fatto restava: Carol aveva scelto sua figlia. Fissò la busta diRichard sul tavolino, e sentì tutte le parole che avrebbe voluto dirgli, chenon aveva mai detto, ribollire come un torrente dentro di lei. Che dirittoaveva di dirle chi doveva amare o come? Che cosa sapeva di lei? Checosa ne aveva mai saputo? Poi, su un altro foglio della lettera di Carol,lesse: ... esagerato e al tempo stesso minimizzato. Ma in un bacio e in quelloche un uomo e una donna fanno a letto, la differenza di piacere èimpalpabile. Un bacio, per esempio, non è da minimizzare, né il suovalore può essere giudicato da altri. Mi domando se questi uominiclassifichino il loro piacere in rapporto al fatto che le loro azioniproducano un figlio oppure no, e le considerino più piacevoli in casoaffermativo. È una questione di piacere, in fin dei conti, e a che scopo

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dibattere sul piacere di un gelato a paragone di quello di una partita difootball... o di un quartetto di Beethoven a paragone della Gioconda?Queste disquisizioni le lascio ai filosofi. Ma dal loro atteggiamento sicapiva che devo essere demente oppure cieca (e si coglieva una sorta dirammarico per il fatto che una donna attraente non sia disponibile, sipresume, nei confronti degli uomini). Qualcuno ha portato in campo"l’estetica", s’intende contro di me. Ho domandato se davvero volesserofare un dibattito su questo: ha suscitato l’unica risata dell’intera messa inscena. Ma il punto più importante non l’ho menzionato, né ci ha pensatoqualcuno di loro: ossia che il rapporto tra due uomini e due donne puòessere assoluto e perfetto, come non può mai esserlo tra uomo e donna, eforse alcune persone vogliono solo questo, come altre vogliono ilrapporto più mutevole e incerto che si verifica tra uomini e donne. È statodetto o perlomeno sottinteso, ieri, che la mia attuale linea di condotta miavrebbe portato negli abissi del vizio e della degenerazione. Sì, sto giàandando a fondo da quando mi hanno tolto te. È vero, se dovrò continuarea essere spiata, aggredita, senza mai possedere una persona abbastanza alungo, così che la conoscenza rimanga solo una cosa superficiale...Questa è degenerazione. O vivere contro le proprie tendenze, il che èdegenerazione per definizione.

Tesoro mio, riverso tutto questo su di te [le righe successive eranocancellate]. Gestirai indubbiamente il tuo futuro meglio di me. Fa’ che iosia per te un cattivo esempio. Se ora ti senti ferita al di là di quello chepensi di poter sopportare e se questo ti induce – ora, oppure un giorno – aodiarmi, ed è quello che ho detto ad Abby, allora non ne sarò spiacente.Sarò stata forse la sola persona che eri destinata a incontrare, come dicitu, e anche l’unica, e potrai gettarti tutto dietro le spalle. Se tuttavia nonlo farai, nonostante questo fallimento e l’attuale tristezza, saprò chequanto dicesti quel pomeriggio è vero: non è detto che debba essere così.Vorrei tanto parlare con te almeno una volta, al tuo ritorno, se lo vorrai, ameno che non pensi che ti sia impossibile.

Le tue piante prosperano sempre nella veranda sul retro. Le annaffioogni giorno...

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Therese non poté leggere altro. Al di là della porta sentì dei passiscendere lentamente le scale, farsi più spediti attraverso l’anticamera.Quando non si udirono più, aprì l’uscio e rimase un momento sullasoglia, lottando contro l’impulso di uscire da quella casa e abbandonaretutto dietro di sé. Poi percorse il corridoio fino alla porta della signoraCooper.

La signora Cooper rispose alla bussata, e Therese disse le parole che siera preparata, sull’andarsene quella sera stessa. Osservava intanto lafaccia della signora Cooper, la quale non l’ascoltava, ma si limitava areagire alla vista dell’espressione di lei, e d’improvviso la donna leapparve come il riflesso di se stessa, da cui non le era possibiledistogliersi.

"Bene, mi dispiace, signorina Belivet. Mi spiace che i suoi progettisiano finiti così," disse l’altra, mentre la sua faccia esprimeva soltantosorpresa e curiosità.

Poi Therese se ne tornò nella sua stanza e cominciò a preparare ibagagli, sistemando sul fondo della valigia i modelli di cartoncino piegatiin modo da rimanere appiattiti e poi i suoi libri. Dopo un momento, udì lasignora Cooper avvicinarsi lentamente alla sua porta, come se reggessequalcosa, e pensò che, se stava portandole un altro vassoio, si sarebbemessa a urlare. La signora Cooper bussò.

"Cara, dove devo inoltrarle la posta, in caso arrivassero altre lettere?"s’informò.

"Ancora non lo so. Le scriverò e glielo farò sapere." Therese, nelraddrizzarsi, aveva avvertito un capogiro e un senso di malessere.

"Non si metterà in viaggio per New York a quest’ora di notte, spero."Per la signora Cooper, dopo le sei di sera era "notte".

"No," disse Therese. "Farò solo un breve tratto di strada." Eraimpaziente di rimanere sola. Guardava la mano dell’affittacameregonfiare il grigio grembiule a scacchi al di sotto della vita, guardava levecchie scarpe da casa le cui suole si erano logorate e assottigliate suquei pavimenti, scarpe che avevano camminato su quegli stessi impiantitianni prima che arrivasse lei e che avrebbero ripercorso le loro stesseorme anni dopo che lei se n’era andata.

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"Bene, le raccomando di farmi sapere come vanno le cose," disse lasignora Cooper.

"Sì."In macchina, si diresse verso un albergo, uno diverso da quello dal

quale aveva sempre telefonato a Carol. Poi, irrequieta, uscì per unapasseggiata, evitando tutte le strade in cui era stata con Carol. Potreiarrivare addirittura in un’altra città, pensò, e si fermo, quasi tentata diritornare alla macchina. Poi ricominciò a camminare, incurante, in realtà,di dove si trovasse. Camminò fino a sentirsi infreddolita, e la bibliotecaera il posto più vicino dove poter entrare per scaldarsi. Passò davanti alristorantino di Dutch e gettò un’occhiata all’interno. Lui la scorse e, conil familiare movimento della testa, come se dovesse abbassarsi al di sottodi qualcosa per vederla attraverso la vetrina, le sorrise e le inviò un cennocon la mano. Automaticamente, lei glielo ricambiò, e d’improvvisoripensò alla sua stanza di New York, con l’abito ancora gettato sul divanoe l’angolo del tappeto rivoltato. Se soltanto potessi allungare una mano,ora, pensò, e lisciare quel tappeto. Si fermò a fissare giù per il viale nonmolto largo, con i tondeggianti lampioni. Una figura solitaria avanzavalungo il marciapiede verso di lei. Therese salì i gradini della biblioteca.

La signorina Graham, la bibliotecaria, la salutò come sempre, maTherese non entrò nella sala di lettura principale. C’erano altre due o trepersone, quella sera, il signore calvo, con le lenti cerchiate di nero, chespesso sedeva al tavolo di mezzo, e quante volte lei si era seduta in quellasala con una lettera di Carol in tasca? Con Carol seduta accanto. Salì lescale, oltrepassò la sala di storia e quella d’arte al primo piano, si portò alsecondo, dove in precedenza non era mai stata. C’era un’unica sala vastae dall’aspetto polveroso, con librerie a vetri tutt’intorno alle pareti, alcuniquadri a olio e busti di marmo su piedistalli.

Therese sedette a uno dei tavoli, e la sua persona dolorante si rilassò.Abbandonò la testa sulle braccia appoggiate al tavolo, improvvisamenteinerte e assonnata, ma già l’istante dopo respingeva la sedia e si alzava,in preda a un terrore che le causava un formicolio alla radice dei capelli.In un certo senso aveva finto, fino a quel momento, che Carol non fosseperduta, che una volta tornata a New York lei l’avrebbe rivista e tutto

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sarebbe tornato, sicuramente, come in passato. Si guardò nervosamenteattorno, come in cerca di una smentita, di un rimedio. Per un momento,provò l’impressione che il suo corpo stesse per andare in frantumi, opotesse scagliarsi attraverso la vetrata del lungo finestrone dall’altraparte della stanza. Fissò il pallido busto di Omero, dalle sopracciglia chesi inarcavano interrogative, lievemente sottolineate dalla polvere. Si giròverso la porta, e per la prima volta notò il quadro al di sopra dello stipite.

È soltanto simile, pensò, non è identico, non è proprio lo stesso; ma lasomiglianza l’aveva scossa nel più profondo del suo intimo, e andavaaumentando via via che lei lo guardava, finché capì che era proprio lostesso ritratto, solo molto più grande, e d’averlo visto molte volte nelcorridoio che portava all’aula di musica fino a che non era stato tolto,quando lei era ancora molto piccola: la donna sorridente nell’ornato abitodi corte, una mano levata poco al di sotto della gola, la testa arrogante inparte girata in là, come se il pittore l’avesse colta in movimento, così cheperfino i pendenti di perle sembravano muoversi. Conosceva quelleguance brevi e ben modellate, quelle turgide labbra coralline cheaccennavano un sorriso a uno degli angoli, quelle palpebre che sisocchiudevano beffarde, quella fronte forte, non molto alta, che perfinonel dipinto sembrava proiettarsi un poco al di sopra degli occhi vividi,occhi che sapevano già tutto, che comprendevano e ridevano al tempostesso. Era Carol. Nel lungo istante in cui non le fu possibile distoglierelo sguardo, la bocca sorrise, gli occhi la fissarono con una luce discherno, l’ultimo velo si sollevò per non rivelare altro che gongolantederisione, che splendida soddisfazione per il tradimento compiuto.

Tremante, trattenendo il respiro, Therese passò di corsa sotto il quadroe, sempre di corsa, scese le scale. Da basso, la signorina Graham le parlò,rivolgendole una domanda ansiosa, e Therese udì se stessa rispondere conun balbettio idiota, perché stava ancora boccheggiando, lottando perritrovare il respiro, mentre passava davanti alla signorina Graham eusciva a precipizio dall’edificio.

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22Verso la metà dell’isolato, aprì la porta di una caffetteria, ma stavanosuonando una delle canzoni che lei aveva udito quasi dappertutto conCarol, così lasciò che la porta si richiudesse e si rimise in cammino. Lamusica viveva, ma il mondo era morto. E la canzone sarebbe morta, ungiorno, ma come il mondo sarebbe tornato alla vita? Come avrebberitrovato il suo sale?

Camminò fino all’albergo. Nella sua stanza, bagnò d’acqua fredda unasalvietta da mettere sugli occhi. La stanza era gelida, così lei si tolse ilvestito e le scarpe e s’infilò nel letto.

Dall’esterno, una voce stridula, ovattata dalla distanza, gridò: "Ehi,Chicago Sun-Times!"

Poi il silenzio, e lei si domandò se dovesse cercare di addormentarsi,mentre la stanchezza già cominciava a cullarla sgradevolmente, comeuno stato di ubriachezza. Ora c’erano voci nel corridoio, che parlavano diuna valigia finita fuori posto, e lei si sentiva sopraffare da un senso diinutilità mentre giaceva là con la salvietta bagnata, che sapeva dimedicinale, sugli occhi gonfi. Le voci litigavano, e lei sentiva il coraggiovenirle a mancare, e poi la volontà, e in preda al panico cercava dipensare al mondo esterno, a Dannie e alla signora Robichek, a FrancesCotter della Pelican Press, alla signora Osborne, e al proprio monolocaledi New York, ma la sua mente rifiutava di passare in rassegna o dirinunciare, la sua mente era una cosa sola con il suo cuore, ora, e sirifiutava di rinunciare a Carol. Le facce si confondevano come le vociesterne. C’era anche il volto di suor Alicia, e quello di sua madre. C’eral’ultima camerata in cui aveva dormito in collegio. C’era il mattino incui, prestissimo, era uscita di soppiatto dal dormitorio ed era corsaattraverso il prato come un giovane animale ebbro di primavera, e avevavisto suor Alicia correre a sua volta follemente attraverso un campo, lescarpe bianche balenanti come anatroccoli tra l’erba alta, ed erano passatiminuti prima che lei si rendesse conto che suor Alicia stava rincorrendoun galletto scappato dal pollaio. C’era il momento in cui, in casa di certiamici di sua madre, lei nel prendere un pezzo di torta aveva fatto

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rovesciare il piatto a terra, e sua madre le aveva dato un tremendoschiaffo. Rivedeva il quadro nel corridoio della scuola, che ora respiravae si muoveva come Carol, beffardo, crudele e senza più alcun rapportocon lei, come se qualche diabolico proposito, da lungo tempopredestinato, fosse stato portato a compimento. Il corpo di Therese sitendeva per il terrore, e intanto la conversazione continuava ignara, nelcorridoio, arrivando alle sue orecchie con il suono secco e allarmante dighiaccio che si rompesse nel bel mezzo di uno stagno.

"Come sarebbe, l’hai fatto?""Non...""Se l’avessi fatto, la valigia sarebbe da basso nel deposito...""Oh, te l’ho detto...""Ma tu vuoi che io perda una valigia così tu non perderai il posto!"La sua mente annetteva significato alle frasi, una per una, come un

lento interprete che rimanesse indietro, e alla fine smarrisse il sensogenerale.

Si tirò su, sul letto, con la fine di un brutto sogno ancora in mente. Lastanza era quasi buia, le ombre negli angoli profonde e dense. Cercòl’interruttore della lampada e socchiuse gli occhi per difendersi dallaluce. Inserì una monetina nella radio sulla parete, e alzò quasi al massimoil volume sul primo suono che trovò. Era una voce d’uomo, e poicominciò la musica, un pezzo cadenzato, orientaleggiante, che era statotra le selezioni nel corso di musica della scuola. In a Persian Market,ricordò automaticamente, e ora quel ritmo ondeggiante che l’avevasempre fatta pensare al passo di un cammello la riportava nella piccolaaula, con le illustrazioni prese dalle opere di Verdi tutt’intorno allepareti, al di sopra dell’alto rivestimento in legno. L’aveva riascoltatooccasionalmente a New York, ma non l’aveva mai sentito con Carol, nonlo aveva ascoltato né ci aveva pensato da quando conosceva Carol, e orala musica era come un ponte librato attraverso il tempo, senza sfiorareniente. Prese dal tavolino accanto al letto l’aprilettere di Carol, iltagliacarte di legno finito non si sa come nella sua valigia mentrefacevano i bagagli, e ne serrò forte il manico, facendo scorrere il pollicelungo l’orlo, ma la sua realtà sembrava negare Carol invece di affermarla,

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la evocava meno del brano musicale che loro due non avevano mai uditoinsieme. Pensò a Carol con una punta di risentimento, Carol simile a unpunto distante di silenzio e di immobilità.

Poi Therese andò al lavabo per bagnarsi la faccia con l’acqua fredda.L’indomani, se ci fosse riuscita, si sarebbe trovata un lavoro. Era stataquella la sua idea nel fermarsi lì: lavorare per un paio di settimane, più omeno, non piangere nelle stanze d’albergo. Alla signora Cooper, per puracortesia, avrebbe mandato il nome dell’albergo come recapito. Eraun’altra delle cose che doveva fare, pur non avendone voglia. E varrà lapena scrivere di nuovo a Harkevy, si domandò, dopo il biglietto gentilema non molto esplicito che le aveva mandato a Sioux Falls? "... Sarò lietodi rivederla quando tornerà a New York, ma mi è impossibile prometterlequalcosa per questa primavera. Sarebbe bene che lei, al suo ritorno,andasse a parlare con il signor Ned Bernstein, il coproduttore. Potrà dirlemolto di più di quanto avviene negli studi di design di quanto possa fareio..." No, non gli avrebbe riscritto, in proposito.

Da basso, comperò una cartolina illustrata del lago Michigan e,deliberatamente, vi scrisse una frase allegra per la signora Robichek. Lesuonò falsa mentre la scriveva ma, nell’allontanarsi dalla cassetta dovel’aveva imbucata, divenne improvvisamente consapevole dell’energia delsuo corpo, dell’elasticità dei suoi alluci, della giovinezza del suo sangueche le accendeva le guance quando camminava più in fretta, e compresed’essere libera e fortunata a paragone della signora Robichek, e che quelche aveva scritto non era falso, visto che poteva benissimo permetterselo.Non era rattrappita, lei, né mezzo cieca e neppure afflitta dai reumatismi.Sostò presso la vetrina di un negozio e in fretta si diede un altro po’ dirossetto. Una folata di vento la obbligò a fermarsi per ritrovarel’equilibrio, ma nel gelo di quel vento poteva cogliere un sentore diprimavera, simile a un cuore caldo e giovane. L’indomani mattina, sisarebbe messa in cerca di un impiego. Doveva potercela fare a vivere coldenaro che le era rimasto, e mettere da parte quello che avrebbeguadagnato per ritornare a New York. Poteva farsi spedire dalla banca ilresto del suo denaro, naturalmente, ma non era questo che voleva. Volevadue settimane di lavoro in mezzo a gente che non conosceva, facendo il

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genere di lavoro che milioni d’altre persone svolgevano. Voleva potersimettere nei panni di qualcun altro.

Rispose a un’inserzione in cui si chiedeva un’impiegata in grado dioccuparsi dell’archivio e in possesso di un po’ di dattilografia, conl’invito a presentarsi di persona. Sembravano dell’idea che lei fosseadatta, e passò l’intera mattinata a prendere confidenza con gli schedari.Poi, uno dei capi arrivò dopo pranzo e disse di volere una ragazza chesapesse anche stenografare. A Therese, a scuola, avevano insegnato abattere a macchina, non a stenografare, per cui era esclusa.

Quel pomeriggio, riprese a scorrere le offerte d’impiego. Poi, siricordò del cartello sulla recinzione di un deposito di legname nonlontano dall’albergo. "Cercasi ragazza per lavori d’ufficio e d’inventario.Quaranta dollari la settimana." Se non richiedevano la stenografia, leipoteva candidarsi. Erano circa le tre quando svoltò nella strada ventosadove si trovava il deposito. Sollevò la testa e lasciò che il vento lescostasse i capelli dalla faccia. E si ricordò di Carol che diceva: "Mipiace vederti camminare. Quando ti vedo da lontano, ho l’impressioneche tu stia camminando sul palmo della mia mano e che sia alta quindicicentimetri." Poteva udire la voce morbida di Carol sotto il fruscio delvento, e subito s’irrigidì, per l’amarezza e lo sgomento. Prese allora acamminare più in fretta, facendo perfino alcuni passi di corsa, come perfuggire da quella melassa d’amore, odio e risentimento in cui la suamente d’improvviso annaspava.

C’era una casetta di legno che fungeva da ufficio, da un lato deldeposito. Vi entrò e parlò con un certo signor Zambrowski, un uomocalvo e lento, con una catena d’oro da orologio che a stento gli si tendevaattraverso l’addome. Prima che Therese accennasse alla stenografia, fului stesso a dichiarare di non averne bisogno. Disse che l’avrebbe messaalla prova per il resto del pomeriggio e l’indomani. Altre due ragazze sipresentarono per l’impiego il mattino dopo, e Zambrowski si annotò iloro nomi ma, prima di mezzogiorno, le disse che il posto era suo.

"Se non le dispiace essere qui alle otto del mattino," soggiunse."Tutt’altro." Quel mattino lei aveva preso servizio alle nove, ma

sarebbe stata lì anche alle quattro, se lui glielo avesse chiesto.

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Il suo orario andava dalle otto alle quattro e mezzo, e le sue mansioniconsistevano semplicemente nel confrontare le spedizioni dalle segherieal deposito con gli ordini ricevuti, e nello scrivere lettere di conferma.Dalla sua scrivania, là nell’ufficio, di legname non ne vedeva molto, mal’odore era nell’aria, fresco come se le seghe avessero appena messo anudo le bianche tavole di pino, e lei poteva udirle rimbalzare e veniresbatacchiate via via che i camion si fermavano al centro del deposito. Lepiaceva il lavoro, le piaceva il signor Zambrowski, e le piacevano itaglialegna e i camionisti che entravano nell’ufficio per scaldarsi le manivicino alla stufa. Uno dei taglialegna di nome Steve, un bel giovane conuna corta barba bionda, la invitò un paio di volte a fare colazione con luinella caffetteria in fondo alla strada. Le chiese anche di uscire con lui ilsabato sera, ma Therese ancora non se la sentiva di passare un’interaserata con lui o con altri. Una sera, Abby le telefonò.

"Sai che ho dovuto chiamare due volte il Sud Dakota per trovarti?" ledisse, irritata. "Che cosa ci fai, laggiù? Quando pensi di tornare?"

La voce di Abby le portò Carol vicino come se a parlare fosse la stessaCarol. Le riportò il senso di chiusura alla gola, e per qualche istante nonfu in grado di rispondere.

"Therese?""Carol è con te?""È nel Vermont. È stata male," la informò la voce rauca di Abby, e non

c’era sorriso nel tono."Troppo male per chiamarmi? Perché non me lo dici, Abby? Ora sta

meglio o peggio?""Meglio. Perché non hai provato a chiamare tu, per avere notizie?"Therese serrava con forza il ricevitore. Già, perché non l’aveva fatto?

Perché aveva pensato a un quadro, invece che a Carol. "Che cos’ha? È...""Ma che bella domanda. Carol te l’ha scritto quello che è successo,

no?""Sì."

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"Be’, ti aspetti che rimbalzi come una palla di gomma? O che tirincorra per tutta l’America? Che cosa pensi che sia, un giocare anascondino?"

Tutta la conversazione di quel giorno a pranzo si abbatté su Therese.Da come la vedeva Abby, l’intera faccenda era colpa sua. La lettera cheFlorence aveva trovato era soltanto l’errore marchiano definitivo.

"Quando torni?" domandò Abby."Tra una decina di giorni. A meno che Carol non voglia la macchina

prima.""Non le serve. Non sarà ancora a casa, fra dieci giorni."Therese si costrinse a dire: "Per quella lettera – quella che avevo

scritto –, sai se l’hanno trovata prima o dopo?""Prima o dopo di che cosa?""Che gli investigatori cominciassero a seguirci.""L’hanno trovata dopo," rispose Abby, con un sospiro.Therese strinse i denti. Ma non le importava di quello che Abby

pensava di lei, solo di quello che pensava Carol. "È nel Vermont... dove?""Non la chiamerei, se fossi in te.""Ma non sei in me, e io voglio chiamarla.""Non farlo. Dammí retta. Posso darle un messaggio, se vuoi, questo sì."

E seguì un gelido silenzio. "Carol vuole sapere se ti serve denaro e che neè dell’auto."

"Non mi serve denaro. L’auto sta benissimo." Doveva fare ancora unadomanda. "Che cosa sa Rindy di tutto questo?"

"Sa che cosa significa la parola ’divorzio’. E voleva rimanere conCarol, il che non rende certo le cose più facili per Carol, tra l’altro."

D’accordo, d’accordo, avrebbe voluto replicare Therese. Si sarebbeastenuta dal telefonare, dallo scrivere e dal mandare messaggi, per nondisturbare Carol, a meno che il messaggio non riguardasse la macchina.Tremava da capo a piedi, nel riagganciare il ricevitore. Eimmediatamente lo risollevò. "Qui è la stanza 611," disse. "Non vogliorispondere a nessun’altra chiamata interurbana: per nessuna ragione."

Guardò il tagliacarte di Carol sul tavolino da notte, e ora le ricordavaCarol, la persona in carne e ossa, Carol con le efelidi e un dente un po’

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scheggiato a un angolo. Doveva niente a Carol, a Carol come persona?Carol non aveva forse giocato con lei, come aveva detto Richard?Ricordò le parole di Carol: "Quando hai un marito e una bambina è un po’diverso." Fissava accigliata il tagliacarte, senza capire perché fossediventato d’improvviso un semplice tagliacarte, perché le fosse del tuttoindifferente il fatto di tenerlo o di buttarlo via.

Due giorni dopo, le arrivò una lettera di Abby in cui era incluso un suoassegno personale di cinquecentocinquanta dollari, di cui Abby le dicevadi "dimenticarsi completamente". Diceva inoltre d’avere parlato conCarol, e che a questa avrebbe fatto piacere avere sue notizie, e le daval’indirizzo di Carol. Era una lettera piuttosto fredda, ma il gestodell’assegno non era freddo. Non era stato sollecitato da Carol, Theresene era certa.

"Grazie per l’assegno," le rispose Therese. "È incredibilmente gentileda parte tua, ma non me ne servirò e non ne ho bisogno. Mi chiedi discrivere a Carol. Non credo di poterlo fare, né che dovrei." Dannie era seduto nell’atrio dell’albergo, un pomeriggio in cui lei rientròdal lavoro. Quasi non le riusciva di credere che fosse lui, il giovane dagliocchi scuri che si alzava sorridente dalla poltrona e veniva verso di lei.Poi, la vista dei morbidi capelli neri, un poco scompigliati dal bavero delcappotto rialzato, il largo sorriso simmetrico, le furono familiari come sesi fossero visti soltanto il giorno prima.

"Ciao, Therese," disse lui. "Sorpresa?""Eccome! Ci avevo rinunciato, ormai: non una parola, da te, da... due

settimane, almeno." Si era ricordata che il ventotto era il giorno in cui luiaveva detto che sarebbe partito da New York, e proprio quel giorno lei eraarrivata lì a Chicago.

"Io avevo quasi rinunciato a te," disse Dannie, ridendo. "Sono statotrattenuto, a New York, ma penso che sia stata una fortuna, perché hocercato di telefonarti e la tua padrona di casa mi ha dato il tuo indirizzo."Le dita di Dannie mantenevano la loro ferma stretta sul suo gomito.Stavano avviandosi lentamente verso gli ascensori. "Hai un aspetto

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meraviglioso, Therese. ""Dici? È che sono proprio contenta di vederti." C’era un ascensore

aperto davanti a loro. "Vuoi salire?""Andiamo invece a mangiare qualcosa. O è troppo presto? Io oggi non

ho neppure pranzato.""Non è troppo presto, allora."Andarono in un ristorante che Therese conosceva, specializzato in

costate con l’osso. Dannie ordinò perfino dei cocktail, sebbene di solitonon bevesse mai.

"Sei qui sola soletta?" domandò. "La tua padrona di casa di Sioux Fallsmi ha detto che eri rimasta sola."

"Carol non è potuta venire, alla fine.""Ah. E tu hai deciso di fermarti più a lungo?""Sì.""Fino a quando?""Fino ad adesso, praticamente. La settimana ventura torno a casa."Dannie ascoltava con i caldi occhi neri fissi sul volto di lei, senza dare

segno di sorpresa. "Perché non vai a ovest, invece che a est, e passi un po’di tempo in California? Ho appena avuto un posto a Oakland. Devo esserelà dopodomani."

"Che specie di posto?""Come ricercatore: proprio quello che io volevo. Ho ottenuto risultati

migliori di quello che pensavo, agli esami.""Sei stato il primo del corso?""Non lo so ma... ne dubito. Tu però non hai risposto alla mia

domanda.""Voglio tornare a New York, Dannie.""Ah." Sorrideva, guardandole i capelli, le labbra, e le passò per la

mente che Dannie non l’aveva mai vista truccata come ora. "Hai unaspetto più da adulta, così all’improvviso," disse lui. "Hai cambiatopettinatura, vero?"

"Un po’.""Non hai più quell’aria spaventata. E nemmeno così seria.""Questo mi fa piacere." Si sentiva intimidita da lui, e tuttavia lo sentiva

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vicino, di una vicinanza carica di qualcosa che lei non aveva mai provatocon Richard. Qualcosa che era ricco di suspense, e di cui godeva. Unpizzico di sale, pensava. Guardava la mano di Dannie sul tavolo, ilmuscolo forte che sporgeva al di sotto del pollice. Ne ricordava le manisulle sue spalle, quel giorno nella stanza di lui. Il ricordo era piacevole.

"Ti sono mancato un poco, vero, Terry?""Ma certo.""Hai mai pensato che potesse importarti qualcosa di me? Quanto

t’importava di Richard, per esempio?" domandò Dannie, con una nota disorpresa nella sua stessa voce, come se la domanda fosse bizzarra.

"Non lo so," disse subito lei."Ma non stai pensando ancora a Richard, vero?""No, e tu devi saperlo.""Chi è, allora? Carol?"Si sentì improvvisamente nuda, seduta là di fronte a lui. "Sì. Chi era.""Ma ora non più?"Therese era stupefatta che lui potesse dire quelle parole senza alcuna

sorpresa, senza atteggiamenti di sorta. "No. È... Non posso parlarne connessuno, Dannie," terminò, e la sua voce suonò profonda e tranquilla allesue stesse orecchie, come la voce di un’altra persona.

"Non vorresti dimenticare, visto che è passato?""Non lo so. Non so in che senso lo dici, esattamente.""Intendo dire, sei pentita?""No. Rifarei la stessa cosa? Sì.""Con qualcun’altra, vuoi dire, o con lei?""Con lei," disse Therese. Un angolo delle labbra le si sollevò in un

sorriso."Ma la fine è stata un fiasco.""Sì. Voglio dire che rivivrei tutto fino alla fine.""E stai ancora rivivendolo."Therese non rispondeva."Hai intenzione di rivederla? Ti dispiace se ti faccio tutte queste

domande?""Non mi dispiace," disse lei. "No, non ho intenzione di rivederla. Non

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voglio.""Ma qualcun altro?""Un’altra donna?" Therese scosse la testa. "No."Dannie la fissò e sorrise, lentamente. "È questo che conta. O meglio,

proprio questo fa sì che non conti.""Che cosa vuoi dire?""Voglio dire, sei così giovane, Therese. Cambierai. Dimenticherai."Lei non si sentiva giovane. "Richard ti ha detto qualcosa?" domandò."No. Penso che volesse farlo, una sera, ma l’ho interrotto prima ancora

che cominciasse."Therese sentì d’avere sulle labbra un sorriso amaro e fece un ultimo

tiro dalla sigaretta, ormai consumata, prima di spegnerla. "Spero chetrovi qualcuno disposto ad ascoltarlo. Ha bisogno di un pubblico."

"Si sente abbandonato. Il suo io ne soffre. Non credere mai che io siacome Richard. Io penso che ciascuno sia padrone della propria vita."

Qualcosa che Carol aveva detto una volta le tornò d’improvviso allamente: ogni adulto ha dei segreti. Detto con l’indifferenza con cui Caroldiceva qualsiasi cosa, stampato in modo indelebile nel suo cervello comel’indirizzo che aveva scritto sui talloncini da Frankenberg. Provòl’impulso di raccontare a Dannie tutto il resto, del quadro nellabiblioteca, del quadro nella scuola. E di Carol che non era un ritratto, mauna donna con una bambina e un marito, con le efelidi sulle mani el’abitudine di imprecare e di immalinconirsi nei momenti più inaspettati,con la pessima abitudine di fare sempre e solo quello che voleva. Unadonna che, a New York, aveva sopportato molto più di lei – Therese – nelDakota. Guardò gli occhi di Dannie, il mento con la lieve fessura.Comprendeva d’essere stata fino a quel momento sotto una specie diincantesimo che le impediva di vedere chiunque al mondo al di là diCarol.

"Ora a che cosa stai pensando?" domandò lui."A quello che hai detto una volta a New York, sull’usare le cose e poi

gettarle via.""Questo, ti ha fatto?"Therese sorrise. "Lo farò io."

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"Poi trova qualcuno che non vorrai gettar via.""Qualcuno che non si logori," disse Therese."Mi scriverai?""Ma certo.""Scrivimi fra tre mesi.""Tre mesi?" Ma, improvvisamente, lei capì che cosa Dannie intendesse

dire. "E non prima?""No." Ora la fissava intensamente. "È un intervallo ragionevole, vero?""Sì. D’accordo. È una promessa.""Promettimi un’altra cosa: di prenderti una giornata di libertà, domani,

così potrai stare con me. Ho tempo fino alle nove di domani sera.""Non posso, Dannie. C’è del lavoro da fare... E devo anche avvertire

che me ne vado, tra l’altro, la settimana prossima." Non erano proprioquelle le ragioni, lei lo sapeva. E forse lo capiva anche Dannie,guardandola. Non voleva passare l’intera giornata con lui; sarebbe statatroppo intensa, lui le avrebbe rammentato troppo se stessa, e lei ancoranon era pronta.

Dannie capitò al deposito il giorno seguente, a mezzogiorno. Avevanointeso fare colazione insieme, invece passeggiarono e parlarono perl’intera ora sul lungolago. Quella sera alle nove, Dannie prese un aereodiretto a ovest.

Otto giorni dopo, lei si mise in viaggio per New York. Intendevaallontanarsi dalla casa della signora Osborne nel più breve tempopossibile. Intendeva farsi viva con alcune delle persone dalle quali erafuggita, l’autunno passato. E ce ne sarebbero state altre, persone nuove.Sarebbe andata alla scuola serale, quella primavera. E voleva cambiarecompletamente il suo guardaroba. Tutto quello che possedeva ora, gliabiti che ricordava nel suo armadio di New York, le sembravanogiovanili, come indumenti che le fossero appartenuti anni prima. AChicago, si era guardata attorno, nei negozi, e aveva desiderato vestiti cheancora non poteva comperare. Tutto quello che poteva permettersi, perora, era un diverso taglio di capelli.

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23Therese entrò nel suo monolocale, e la prima cosa che notò fu chel’angolo del tappeto era tornato a posto. Ma quanto piccola e tragicaappariva la stanza. E tuttavia sua: la radiolina sullo scaffale della libreria,i cuscini sul divano letto, personali quanto una firma da lei scritta tantotempo prima e dimenticata. Come i due o tre modellini appesi alle paretiche ora evitava deliberatamente di guardare.

Andò in banca, prelevò un centinaio dei suoi ultimi duecento dollari ecomperò un vestito nero e un paio di scarpe.

L’indomani avrebbe telefonato ad Abby e preso accordi riguardoall’auto di Carol, ma quel giorno no.

Quello stesso pomeriggio, fissò un appuntamento con Ned Bernstein, ilcoproduttore della commedia inglese per la quale Harkevy doveva fare lescene. Portò con sé tre dei modelli che aveva fatto all’Ovest e anche lefotografie di Small Rain, per mostrarglieli. Un incarico di apprendista conHarkevy, se lo avesse ottenuto, non le avrebbe reso abbastanza perviverci, ma c’erano altre fonti, a ogni modo, diverse dai grandimagazzini. C’era la televisione, per esempio.

Ned Bernstein esaminò quei lavori con aria indifferente. Therese dissedi non avere ancora parlato con Harkevy, e gli domandò se sapessequalcosa della possibilità che assumesse altri aiutanti. Bernstein disse chela cosa dipendeva da Harkevy ma, per quanto ne sapeva lui, di assistentinon gliene servivano altri. Né gli risultava che qualche altro scenografoavesse bisogno di qualcuno, al momento. E Therese pensò al vestito dasessanta dollari. E ai cento dollari che le rimanevano sul conto corrente.E d’avere detto alla signora Osborne che poteva mostrare il piccoloalloggio quando voleva, perché lei intendeva trasferirsi. Dove, ancora nonne aveva la più pallida idea. Si alzò per andarsene, e ringraziòugualmente Bemstein per avere dato un’occhiata ai suoi lavori. Lo fececon un sorriso.

"Che ne pensa della televisione?" domandò Bernstein. "Ha già provatoa cominciare da lì? È molto più facile entrarvi."

"Più tardi andrò appunto a parlare con qualcuno alla Dumont."

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Donohue le aveva dato un paio di nomi, lo scorso gennaio. Bernsteingliene diede altri.

Poi, telefonò allo studio di Harkevy. Harkevy le disse che stava peruscire, ma di lasciare pure i suoi modellini allo studio, in giornata, e lui liavrebbe esaminati l’indomani mattina.

"A proposito, domani alle cinque ci sarà un cocktail-party perGenevieve Cranell, al St Regis. Se le va di farci una capatina," disseHarkevy, con il suo accento marcato che dava alla sua voce morbida unaprecisione matematica. "Se non altro saremo sicuri di vederci, domani.Può venire?"

"Sì, molto volentieri. Dove, al St Regis?"Lui lesse dall’invito. Suite D, dalle cinque alle sette. "Io sarò là per le

sei."Uscì dalla cabina telefonica felice come se Harkevy l’avesse appena

presa in società con lui. Percorse a piedi i dodici isolati fino allo studio elasciò i modellini a un giovanotto, uno diverso da quello che aveva vistoin gennaio. Harkevy li cambiava spesso, i suoi assistenti. Gettò intorno asé un’occhiata reverenziale, nella stanza da lavoro di lui, prima dirichiudere la porta. Forse presto l’avrebbe chiamata a lavorare lì. Forse,lo avrebbe saputo l’indomani stesso.

Entrò in un emporio, a Broadway, e telefonò ad Abby nel New Jersey.La voce di Abby era adesso completamente diversa da come era suonata aChicago. Carol starà di certo molto meglio, pensò Therese. Ma non chiesedi Carol. Telefonava solo per prendere accordi per l’auto.

"Posso venire io a prenderla, se vuoi," disse Abby. "Ma perché nonparli addirittura con Carol? So che le farebbe piacere sentirti." Abbystava letteralmente facendosi in quattro.

"Be’..." Therese non aveva voglia di telefonarle. Ma di che cosa avevapaura? Della voce di Carol? Della stessa Carol? "Va bene. Riporteròl’auto a Carol, a meno che lei non abbia piacere che lo faccia. In tal caso,ti richiamerò."

"Quando? Questo pomeriggio?""Sì. Tra pochi minuti."Therese andò fino alla porta dell’emporio e rimase per alcuni istanti a

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fissare la pubblicità delle Camel con l’enorme faccione che mandavafuori anelli di fumo simili a gigantesche ciambelle, i tassisti che con ariatorva manovravano come squali nel bailamme del traffico, il familiaremiscuglio di insegne di ristoranti e di bar, di tendoni, di scalinid’ingresso e di finestre, tutta la confusione bruno-rossastra della stradalaterale che era simile a centinaia d’altre strade di New York. Ricordavad’essere passata, una volta, per una delle vie nei paraggi dell’OttantesimaOvest, con le facciate di mattoni scuri, pullulante di umanità, di viteumane che a volte cominciavano e a volte terminavano là, e ricordava ilsenso di oppressione che le aveva dato, e come si fosse affrettata apercorrerla per arrivare al viale principale. Questo solo due o tre mesiprima. Ora lo stesso genere di strada la riempiva di tensione e dieccitazione, le faceva desiderare di immergervisi a capofitto, lungo quelmarciapiede con tutte le insegne e le entrate dei cinema e la fiumana digente che procedeva a spintoni. Si girò e tornò verso le cabinetelefoniche.

Un momento dopo, udì la voce di Carol."Quando sei arrivata, Therese?"Avvertì il breve tremolio di uno shock nell’udire quella voce, poi più

niente. "Ieri.""Come stai? Hai sempre lo stesso aspetto?" C’era qualcosa di represso

in Carol, come se potesse esserci qualcuno con lei, ma Therese era certache fosse sola.

"Non proprio. E tu?"Carol aspettò, poi: "Sembri cambiata.""Lo sono.""Ti rivedrò? O non vuoi? Una volta." La voce era di Carol, ma le parole

non erano le sue. Erano parole caute, incerte. "Facciamo per questopomeriggio? Sei in macchina?"

"Devo vedere un paio di persone, questo pomeriggio. Non ci saràtempo." Quando mai si era rifiutata di vedere Carol, quando Caroldesiderava vederla? "Va bene se ti porto la macchina domani?"

"No, posso venire a prenderla io. Non sono un’invalida. Si ècomportata bene, l’auto?"

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"È in ottime condizioni," assicurò Therese. "Neppure un graffio.""E tu?" domandò Carol, ma Therese non diede risposta. "Vuoi che ci

vediamo domani? Hai tempo, nel pomeriggio?"Rimasero d’accordo di incontrarsi al bar della Ritz Tower, nella

Cinquantasettesima, per le quattro e mezzo, e riagganciarono. Carol era in ritardo di un quarto d’ora. Therese l’aspettò seduta a untavolino da dove poteva vedere le porte a vetri che immettevano nel bar.Vide finalmente Carol spingere una delle porte, e la tensione si ruppe, inlei, con un lieve e sordo dolore. Carol indossava la stessa pelliccia, lestesse scarpe di camoscio nero che portava il giorno in cui Theresel’aveva vista per la prima volta, ma ora la sciarpa su cui posava la testabionda e bene eretta era rossa. Therese, come Carol la scorse, le vide ilvolto un po’ smagrito alterarsi per la sorpresa e accennare un sorriso.

"Ciao," disse Therese."Quasi non ti riconoscevo." E Carol rimase un momento in piedi vicino

al tavolo, a fissarla, prima di sedersi. "Sei stata cara a venire.""Non dirlo."Si avvicinò il cameriere, e Carol ordinò un tè. Lo stesso fece Therese,

meccanicamente."Mi odi, Therese?" domandò Carol."No." Therese avvertiva lievemente il profumo di Carol, la cui

familiare dolcezza le era stranamente estranea, ora, perché non evocavapiù quello che aveva evocato un tempo. Posò la bustina di fiammiferi cheaveva strapazzato fino a quel momento. "Come posso odiarti, Carol?"

"Pensavo che ti fosse possibile. Per un poco l’avrai fatto, no?" disseCarol, come se stesse constatando un fatto.

"Odiarti? No." Non proprio, avrebbe potuto aggiungere lei, ma sapevache gli occhi di Carol stavano leggendoglielo in faccia.

"E ora... Ora sei come cresciuta all’improvviso, con capelli da adulta evestiti da adulta."

Therese. fissò lo sguardo in quegli occhi grigi che adesso erano più serie piuttosto tristi, anche, nonostante l’atteggiamento fiero del capo, poi lo

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distolse, incapace di sondarli. E ancora bella, pensò con un’improvvisafitta di rimpianto. "Ho imparato alcune cose." disse.

"Quali?""Che io..." Therese s’interruppe, i pensieri d’improvviso ostruiti dal

ricordo del ritratto a Sioux Falls."Sai, hai un aspetto splendido," disse Carol. "Sei venuta fuori tutto

d’un colpo. Questo, succede, stando lontano da me?""No," rispose subito Therese. Fissava accigliata il tè che non

desiderava. L’espressione di Carol – "Venuta fuori" – le aveva richiamatol’idea della nascita, cosa che la metteva in imbarazzo. Sì, era nata daquando aveva lasciato Carol. Era nata nell’istante in cui aveva visto ilquadro in biblioteca, e il suo grido soffocato era stato come il primovagito di un infante, che viene trascinato nel mondo contro la sua volontà.Guardò Carol. "C’era un quadro nella biblioteca di Sioux Falls," disse.Poi ne parlò a Carol, semplicemente e senza emozionarsi, come se sitrattasse di una storia capitata a qualcun altro.

E Carol ascoltava, senza mai staccare gli occhi da lei. Carol laosservava come avrebbe potuto osservare da lontano qualcuno che non lefosse possibile aiutare. "Strano," disse tranquillamente alla fine. "Strano esconvolgente."

"Sì." Therese sapeva che Carol aveva capito. Gliela leggeva negliocchi, la comprensione, e le sorrise, ma Carol non ricambiò il sorriso. Lastava ancora fissando. "A che cosa stai pensando?" domandò Therese.

Carol prese una sigaretta. "Lo crederesti? A quel giorno daFrankenberg."

Therese sorrise di nuovo. "Mi sembrò talmente meraviglioso vedertivenire verso di me. Perché proprio da me?"

Carol fece una pausa. "Per una ragione quanto mai banale. Perché eri lasola commessa un po’ meno invasata delle altre. Non avevi neppure ilgrembiule, ricordo."

Therese scoppiò a ridere. Carol si limitò a sorridere, ma d’improvvisosembrava tornata se stessa, com’era stata a Colorado Springs, quandoancora non era successo niente. Tutt’a un tratto, Therese si ricordò delcandeliere che aveva nella borsetta. "Ti ho comperato questo," disse.

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"L’ho trovato a Sioux Falls."Si era limitata ad avvolgervi intorno un po’ di carta velina. Carol lo

scartò lì sul tavolo."È delizioso," disse. "Proprio come te.""Grazie. A me sembrò che fosse come te." Therese guardava le mani di

Carol, il pollice e la punta del medio posati attorno alla base delcandeliere, proprio come lei aveva immaginato le dita di Carol suipiattini delle tazze di caffè nel Colorado, a Chicago e in altri luoghidimenticati. Chiuse istintivamente gli occhi.

"Ti amo," disse Carol.Therese li riaprì, ma non sollevò lo sguardo."So che non sei più la stessa, riguardo a me. Vero?"Therese provò l’impulso di negarlo, ma come poteva? Non era più la

stessa. "Non lo so, Carol.""È la stessa cosa." La voce di Carol era sommessa, in attesa, la voce di

chi aspetta una conferma o una smentita.Therese fissava i triangoli di pane tostato sul piatto in mezzo a loro.

Pensava a Rindy. Ancora non aveva osato domandare di lei. "Hai vistoRindy?"

Carol sospirò. Therese la vide ritirare la mano dal candeliere. "Sì,domenica scorsa, per circa un’ora. Immagino che possa venire a trovarmiun paio di pomeriggi l’anno. Una volta ogni morte di papa. L’ho persa,completamente."

"Credevo avessi detto alcune settimane l’anno.""Be’, è successo dell’altro, in privato, fra Harge e me. Ho rifiutato di

fare un sacco di promesse che lui mi chiedeva di fare. E ci si è messa dimezzo anche la famiglia. Mi sono rifiutata di vivere in base a un elencodi sciocche promesse che loro avevano messo assieme come un elenco dimisfatti, anche se questo voleva dire che avrebbero tenuto Rindy lontanada me come se io fossi un orco. E questo significava, in effetti. Hargeaveva detto tutto agli avvocati: anche quel poco che già non sapevano. "

"Dio," bisbigliò Therese. Poteva immaginare che cosa volesse dire,Rindy in visita un pomeriggio, accompagnata da una vigile governanteche in precedenza era stata messa in guardia contro Carol, avvertita di

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non perdere di vista la bambina, probabilmente, e ben presto Rindy tuttoquesto l’avrebbe capito. Che piacere vi sarebbe stato mai in quelle visite?Harge... Therese non voleva pronunciare quel nome. "Perfino il tribunaleè stato più benevolo," disse.

"Per la verità, non avevo promesso molto in tribunale, mi rifiutai anchelà."

Therese sorrise un poco suo malgrado, perché era contenta che Carolavesse rifiutato, che Carol non avesse rinunciato al suo orgoglio.

"Ma non era un’aula di tribunale, capisci, era solo una discussioneintorno a un tavolo. Sai come avevano fatto quella registrazione aWaterloo? Avevano infilato un microfono a punta nella parete,probabilmente poco dopo che noi eravamo arrivate là."

"Un microfono a punta?""Ricordo d’avere sentito martellare. Stavano praticando un foro,

evidentemente. Credo sia stato quando avevamo appena finito di usare ladoccia. Non te ne ricordi?"

"No."Carol sorrise. "Un aggeggino a punta per captare i suoni, capisci? Lui

aveva la stanza proprio accanto alla nostra."Therese non ricordava i colpi di martello, ma la violenza di tutto

l’insieme le tornò, rovinosa, distruttiva..."È tutto passato, ormai," disse Carol. "Sai, quasi preferirei non

rivederla affatto, Rindy. Non intendo chiedere di vederla, se lei smetteràdi voler vedere me. Lascerò che sia lei a decidere."

"Non posso immaginare che non desideri vederti."Carol aggrottò la fronte. "C’è modo di prevedere quello che può farle

Harge?"Therese rimase in silenzio. Nel distogliere lo sguardo da Carol, si trovò

a guardare un orologio. Erano le cinque e trentacinque. Pensò che, sevoleva andare a quel cocktail, doveva essere là prima delle sei. Si eravestita apposta, inaugurando l’abito nero con una sciarpa bianca, lescarpe nuove, e guanti nuovi neri. Ripensò d’improvviso ai guanti di lanaverde che le aveva regalato suor Alicia. Erano ancora in fondo al suobaule, avvolti nella carta velina ingiallita? Voleva gettarli via.

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"Si riesce a superare tutto," disse Carol."Sì.""Harge e io stiamo vendendo la casa, e ho trovato un appartamento in

Madison Avenue. E anche un impiego, che tu lo creda o no. Lavoreròcome compratrice in una ditta di mobili nella Quarta Avenue. Qualchemio antenato doveva essere un falegname." Guardò Therese. "A ognimodo, mi darà da vivere, e mi piacerà. L’appartamento è molto grande:grande abbastanza per due. Speravo potesse farti piacere venirci a viverecon me, ma temo che non verrai."

A Therese il cuore diede un balzo, esattamente come il giorno in cuiCarol le aveva telefonato al negozio. Qualcosa reagì in lei suo malgrado,rendendola all’istante felice e orgogliosa. Era orgogliosa che Carolavesse il coraggio di fare cose del genere, di dire cose del genere, disapere che a Carol il coraggio non sarebbe mai venuto meno. Ricordava ilcoraggio di Carol nell’affrontare l’investigatore lungo quella strada dicampagna. Therese deglutì, cercando di inghiottire il battito del suocuore. Carol non l’aveva neppure guardata. Stava sfregando avanti eindietro nel portacenere il mozzicone della sigaretta. Vivere con Carol?Un tempo questo era stato impossibile, ed era stato quel che leidesiderava più di tutto al mondo. Vivere con lei e dividere tutto con lei,estate e inverno, passeggiare e leggere insieme, viaggiare insieme. E letornarono in mente i giorni di risentimento verso Carol, quando avevaimmaginato Carol chiederglielo, e se stessa rispondere di no.

"Verresti?"Therese sentiva di reggersi in equilibrio su una lama. Il risentimento

era scomparso, ora. Non restava altro che la decisione, una linea sottilesospesa nell’aria, con niente ai due lati a spingerla o a trattenerla. Ma dauno dei lati, Carol, e dall’altro un vuoto punto di domanda. Da uno deilati, Carol, e sarebbe stato diverso, ora, perché erano entrambe diverse.Sarebbe stato un mondo ignoto quanto lo era stato quello appena passatoquando, al principio, lei vi era entrata. Solo che, ora, non c’erano piùostacoli. Therese pensò al profumo di Carol che quel giorno non le dicevaniente. Un vuoto da riempire, avrebbe detto Carol.

"Allora?" disse sorridendo Carol, impaziente.

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"No," rispose Therese. "No, non credo proprio." Perché mi tradiresti dinuovo. Questo aveva pensato a Sioux Falls, questo aveva inteso scrivere odire. Ma Carol non l’aveva tradita. Carol l’amava più di quanto amasse lasua bambina. Questo faceva parte della ragione per la quale non avevafatto promesse. Giocava d’azzardo ora come aveva giocato d’azzardosull’ottenere tutto dall’investigatore quel giorno lungo quella strada, eanche allora aveva perso. E ora lei vedeva la faccia di Carol cambiare,vedeva i piccoli segni dello stupore e dello shock cosi sottili che forsesoltanto lei al mondo avrebbe potuto notarli, e per un attimo le fuimpossibile pensare.

"È la tua decisione, questa," disse Carol."Sì."Carol fissava il suo accendino sul tavolo. "Quand’è così..."Therese la guardava, desiderando ancora tendere le mani, toccarle i

capelli e stringerli fra le dita. Non l’aveva udita, Carol, l’indecisionenella sua voce? Desiderò improvvisamente di scappare via, di precipitarsifuori del locale e lungo il marciapiede. Erano le sei meno un quarto."Questo pomeriggio devo andare a un cocktail-party. È importante, acausa di un possibile incarico. Ci sarà Harkevy, là." Harkevy le avrebbeofferto un lavoro, ne era certa. Gli aveva telefonato a mezzogiorno, aproposito dei modellini che gli aveva lasciato allo studio. Gli eranopiaciuti tutti. "Ieri ho avuto un incarico televisivo, anche."

Carol sollevò la testa, sorridendole. "Il mio piccolo personaggioimportante. Ora sì hai l’aria di poter fare qualcosa di buono. Ma lo saiche perfino la tua voce è cambiata?"

"Davvero?" Therese esitò, trovando sempre più difficile rimanerseneseduta lì. "Carol, puoi venire anche tu a quel party, se ti fa piacere. È unricevimento in grande, in ben due stanze di un hotel... Per dare ilbenvenuto a quella che sarà la protagonista nella commedia di Harkevy.So che non avrebbero niente in contrario, se portassi qualcuno." Ma nonsapeva bene perché glielo stesse chiedendo, perché Carol potessedesiderare di andare a un cocktail-party, se già ne aveva poca voglia lei.

Carol scosse la testa. "No, grazie, tesoro. È meglio che tu vada, allora,e da sola. Io, tra l’altro, ho un appuntamento di qui a poco all’Elysée."

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Therese raccolse in grembo la borsetta e i guanti. Guardò le mani diCarol, dal dorso spruzzato di pallide efelidi – l’anello matrimoniale nonc’era più, ora –, poi gli occhi. Sentiva che non l’avrebbe rivista più. Traun paio di minuti, forse meno, si sarebbero separate sul marciapiedeesterno. "L’auto è qui fuori. Qui davanti, ma un po’ a sinistra. E qui cisono le chiavi."

"Lo so, l’ho vista.""Hai intenzione di fermarti?" domandò Therese. "Pagherò io il conto.""Al conto, penserò io," disse Carol. "Vai, tu, se devi andare."Therese si alzò. Non poteva lasciare Carol seduta là al tavolino dove

c’erano le loro due tazze, con la cenere delle loro sigarette davanti a sé."Non rimanere. Esci con me."

Carol guardò in su con un’espressione di interrogativa sorpresa. "Vabene," disse. "Ci sono un paio di cose tue, là a casa. Devo... "

"Non ha importanza," la interruppe Therese."E i tuoi fiori. Le tue piante." Carol stava pagando il conto che il

cameriere le aveva portato. "Che cosa ne è stato dei fiori che ti avevodato?"

"I fiori che mi avevi dato... sono morti."Gli occhi di Carol incontrarono per un attimo i suoi, e Therese distolse

lo sguardo.Si separarono sul marciapiede, all’angolo fra Park Avenue e la

Cinquantasettesima. Therese attraversò il viale di corsa, appena in tempoprima che il verde scatenasse alle sue spalle un branco di macchine, chele impedirono in parte di vedere Carol quando si voltò, dal marciapiedeopposto. Carol stava incamminandosi lentamente, oltrepassando l’entratadella Ritz Tower e proseguendo. Ed è così che deve essere, pensòTherese: non indugiando in una stretta di mano, non gettando occhiatedietro di sé. Poi, nel vedere Carol toccare la maniglia della portieradell’auto, si ricordò della lattina di birra ancora sotto il sedile anteriore,ne ricordò il rumore metallico quando aveva imboccato la rampa che dalLincoln Tunnel immetteva in New York. Aveva pensato, in quelmomento, che doveva toglierla di là prima di restituire la macchina aCarol, ma poi se ne era dimenticata. Therese affrettò il passo verso

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l’hotel. Stava già riversandosi gente fuori delle due porte che davano sulcorridoio, e un cameriere aveva difficoltà a spingere il suo carrello disecchielli di ghiaccio dentro la suite. I due ambienti erano rumorosi, eTherese non vedeva né Bernstein né Harkevy da nessuna parte. Nonconosceva nessuno, neanche un’anima. Salvo una faccia, un tale con ilquale aveva parlato mesi prima, chissà dove, a proposito di un incaricoche poi era sfumato. Therese si girò, e un signore le mise in mano unbicchiere da bibita.

"Mademoiselle," disse con un inchino, "stava cercando uno di questi?""Oh, grazie." Ma non rimase con lo sconosciuto. Le era sembrato di

scorgere Bernstein in un angolo."È un’attrice, lei?" domandò quello stesso signore, spingendosi con lei

attraverso la calca."No. Una scenografa."Era proprio Bernstein, e Therese, insinuandosi tra due gruppi di

persone, gli arrivò accanto. Bernstein le porse la mano grassoccia ecordiale, alzandosi dal radiatore dove si era seduto.

"Signorina Belivet!" presentò a gran voce. "La signora Crawford, laconsulente del trucco..."

"Non parliamo di bottega!" protestò con voce stridula la signoraCrawford.

"I signori Stevens e Fenelon," continuò Bernstein, e via a pronunciarenomi, finché Therese si ritrovò a rivolgere cenni a una decina di personee a dire "Piacere" a una buona metà. "E Ivor... Ivor!" chiamò Bernstein.

Era comparso Harkevy, una figura snella con un viso magro e i baffetti,che le sorrideva e le porgeva la mano. "Salve, mi fa tanto piacererivederla. Sì, i suoi lavori mi piacciono, lo vedo che è in ansia." EHarkevy rise un poco.

"Abbastanza da trovarmi un posticino?" domandò lei."Vuole sapere," disse lui, sorridendo. "Sì, glielo troviamo un posticino.

Venga al mio studio domani verso le undici. È libera?"

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"Sì.""Venga a raggiungermi, tra un po’. Ora devo salutare quelle persone

che stanno per andarsene." E si allontanò.Therese appoggiò il bicchiere sull’orlo di un tavolo e frugò nella borsa

per prendere una sigaretta. Era fatta! Guardò verso la porta. Una biondacon i capelli pettinati all’insù e vividi occhi di un azzurro intenso eraappena entrata nella stanza e stava provocando intorno a sé moltaanimazione. Aveva movimenti rapidi e sicuri mentre si voltava a salutarepersone, a stringere mani, e all’improvviso Therese si rese conto che eraGenevieve Cranell, l’attrice inglese che doveva interpretare laprotagonista. Appariva diversa dalle poche foto in cui Therese l’avevavista. Aveva il genere di faccia che va vista in azione per essere attraente.

"Salve, salve!" gridò alla fine nel gettare uno sguardo tutt’intorno, eTherese vide quello sguardo indugiare su di lei per un istante, mentreavvertiva uno shock vagamente simile a quello che aveva provato nelvedere Carol per la prima volta; negli occhi azzurri dell’attrice c’era lostesso, identico lampo d’interesse che aveva scintillato nei suoi quandoaveva scorto Carol. E adesso era lei che continuava a guardare, ed eral’altra a fissare oltre e a voltarsi in là.

Therese contemplò il bicchiere che ora aveva in mano, e sentì un caloreimprovviso alla faccia e nei polpastrelli, una sorta di interna vampata chenon nasceva tutta dal suo sangue e neppure dai suoi pensieri. Sapeva,prima ancora che le presentassero, che quella donna era come Carol. Edera bella. E non assomigliava affatto al ritratto nella biblioteca. Theresesorrise, nel sorseggiare il suo drink. Ne ingollò un lungo sorso, perrinfrancarsi.

"Un fiore, signora?" Un cameriere le tendeva un vassoio pieno diorchidee bianche.

"Oh, grazie." Therese ne prese una. Ebbe qualche difficoltà con lospillo, e qualcuno – Fenelon o Stevens – le venne in aiuto. "Grazie,"ripeté lei.

Genevieve Cranell stava venendo verso di lei, seguita da Bernstein.L’attrice salutò l’uomo che era accanto a Therese come se lo conoscessebenissimo.

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"Lei conosce la signorina Cranell?" domandò Bernstein a Therese.Therese guardò l’attrice. "Mi chiamo Therese Belivet." Strinse la mano

che l’altra le porgeva."Piacere. E così lei rappresenta il settore scenografico.""No. Solo una parte." Poteva ancora sentire la stretta, dopo che l’altra

le aveva lasciato la mano. Si sentiva eccitata, tremendamente estupidamente eccitata.

"Proprio nessuno penserà a portarmi qualcosa da bere?" domandò laCranell a quelli che l’attorniavano.

Bernstein si affrettò a provvedere. Poi, finì di presentare all’attricequelli che aveva intorno e che ancora lei non conosceva. Therese la sentìdire a qualcuno d’essere appena scesa dall’aereo e che i suoi bagaglierano ammucchiati nell’atrio e la vide, nel dirlo, lanciare un paio diocchiate verso di lei al di sopra delle spalle degli uomini. Thereseprovava un’eccitante attrazione per quella nuca ben scolpita, per quelnaso che terminava, impertinente, all’insù, unico tratto sbarazzino nelclassico ovale del volto. Le labbra erano piuttosto sottili. Era a un tempoestremamente vigile e di una calma imperturbabile. Eppure Thereseaveva la sensazione che Genevieve Cranell non si sarebbe più rivolta alei, lì al party, per la semplice ragione che probabilmente desideravafarlo.

Si avvicinò a una console e si specchiò, per vedere se capelli e rossettoerano ancora in ordine.

"Therese," disse una voce vicino a lei. "Le piace lo champagne?"Therese si girò e vide Genevieve Cranell. "Ma certo.""Bene, allora venga su alla 619, tra qualche minuto. È la mia suite. Più

tardi avremo un party fra pochi intimi.""Mi sento molto onorata," assicurò Therese."Perciò non sprechi la sua sete con quei beveraggi. Dove ha preso

quell’amore di vestito?""Da Bonwit... Una spesa pazza."Genevieve Cranell rise. Indossava un vestito di lana blu che faceva

pensare davvero a una spesa pazza. "Sembra così giovane. Non ledispiace, spero, se le domando quanti anni ha."

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"Ne ho ventuno."L’altra roteò gli occhi. "Incredibile. Esiste davvero qualcuno che ha

ancora ventun anni?"La gente stava osservando l’attrice. Therese era lusingata,

tremendamente lusingata, e sentirsi adulare interferiva con quello cheprovava, o avrebbe potuto provare, per Genevieve Cranell.

La Cranell le offrì una sigaretta. "Per un poco, l’avevo quasi credutauna minorenne."

"È un crimine?"L’attrice, gli occhi azzurri ridenti, si limitò a guardarla al di sopra

della fiamma dell’accendino. Poi, mentre l’altra girava la testa peraccendere la propria sigaretta, Therese capì d’improvviso che GenevieveCranell non avrebbe mai significato niente per lei, niente al di là di quellamezz’ora al cocktail-party, che l’agitazione che ora provava non sarebbecontinuata, né sarebbe stata evocata in nessun altro luogo o momento.Che cosa glielo diceva? Therese fissò la linea tesa del biondosopracciglio mentre il primo fumo si levava dalla sigaretta, ma non vitrovò la risposta. E, d’improvviso, un senso di tragedia, quasi dirimpianto, s’impadronì di lei.

"È di New York?" domandò la Cranell."Vivy!"Nuove persone appena entrate dalla porta circondarono Genevieve

Cranell e la trascinarono via. Therese sorrise di nuovo e finì il suo drink,sentendo diffondersi in lei il primo, rasserenante calore dello scotch.Parlò con un tale che aveva incontrato brevemente il giorno primanell’ufficio di Bernstein, e con un altro che non conosceva affatto, eintanto guardava la porta aperta dall’altro lato della stanza, la porta cheera un rettangolo vuoto, al momento, e pensava a Carol. Sarebbe statotipico di Carol venire lì, nonostante tutto, per rivolgerle ancora una voltail suo invito. O meglio, tipico della vecchia Carol, ma non di questa.Carol a quest’ora doveva essere al suo appuntamento al bar dell’Elysée.Con Abby? Con Stanley McVeigh? Therese distolse lo sguardodall’entrata, come se temesse che Carol potesse apparire, e lei dovesseripeterle il suo rifiuto. Accettò un altro whisky, e sentì il vuoto dentro di

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sé riempirsi a poco a poco nel rendersi conto che, se avesse voluto,avrebbe potuto vedere Genevieve Cranell molto spesso e, pur nonrimanendone mai coinvolta, sentirsi amata.

Uno degli uomini accanto a lei domandò: "Chi aveva curato lascenografia per The Lost Messiah, Therese? Se lo ricorda?"

"Blanchard?" rispose automaticamente, perché stava ancora pensando aGenevieve Cranell, con un senso di ripugnanza, di vergogna, per quelloche le era appena accaduto, e si rendeva conto che era impensabile.Ascoltava la conversazione riguardante Blanchard, vi prendeva parte,perfino, ma la sua coscienza si era arrestata in un groviglio in cui unadecina di fili si intrecciavano e si annodavano. Uno era Carol. Uno eraGenevieve Cranell. Uno ne usciva, protendendosi all’infinito, ma la suamente era sempre imprigionata all’incrocio. Si chinò ad accettare delfuoco per la sua sigaretta e, sentendosi sprofondare un po’ più a fondo nelgroviglio, si aggrappò al filo di Dannie. Ma il solido filo nero nonconduceva da nessuna parte. Sapeva, come se ora una voce profeticastesse parlando, che non sarebbe andata oltre con Dannie. E la solitudinesi abbatté di nuovo sopra di lei come un vento impetuoso, misteriosocome il velo di lacrime che d’improvviso le copriva gli occhi, tropposottile per essere notato, ne era certa, mentre sollevava la testa e guardavadi nuovo verso la porta.

"Non si dimentichi." Genevieve Cranell era accanto a lei, e le battevasul braccio. "Alla 619. Stiamo per trasferirci di sopra." Fece perallontanarsi, poi tornò indietro. "Viene su anche lei? Anche Harkevy stasalendo."

Therese scosse la testa. "Grazie, ma... credevo di poter venire, poi misono ricordata che sono attesa altrove."

L’altra la guardò, interrogativa. "Che c’è, Therese? È successoqualcosa?"

"No, no." Sorrise, avviandosi verso la porta. "Grazie dell’invito. Cirivedremo, senza dubbio."

"Senza dubbio," confermò l’attrice.Therese entrò nella stanza accanto e prese il suo soprabito dalla pila sul

letto. Si affrettò lungo il corridoio verso le scale, oltre le persone che

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stavano aspettando l’ascensore, tra cui Genevieve Cranell, e Therese nonsi curò che l’attrice la vedesse o meno mentre lei si precipitava giù perl’ampio scalone come se stesse fuggendo da qualcosa. Sorrideva tra sé.L’aria era fresca e dolce sulla sua fronte, frusciava come un lieve rumored’ali oltre le sue orecchie, e lei aveva l’impressione di volare attraversole strade e su per i marciapiedi. Verso Carol. E forse Carol lo sapeva inquel momento, perché già in passato Carol aveva saputo cose del genere.Attraversò un’altra strada, ed ecco là il tendone d’ingresso dell’Elysée.

Nell’atrio il capocameriere le disse qualcosa, lei gli rispose: "Cercouna persona", e proseguì verso la porta del bar.

Si arrestò sulla soglia, passando in rassegna le persone ai tavolini nellasala dove un pianoforte suonava. Le luci erano basse, e Therese non lavide, dapprima, mezzo nascosta nell’ombra contro la parete opposta, erivolta verso di lei. Neppure Carol la vide. Un uomo le sedeva di fronte,Therese non sapeva chi fosse. Carol levò lentamente una mano a spingereindietro i capelli, da un lato e poi dall’altro, e Therese sorrise perché quelgesto era Carol, ed era Carol che lei amava e avrebbe sempre amato. Oh,in un modo diverso, ora, perché lei era una persona diversa, ed era comeincontrare Carol da capo, ma era ancora Carol e nessun’altra. Sarebbestata Carol in un migliaio di città, in un migliaio di case, in terre stranieredove sarebbero andate insieme, in paradiso e all’inferno. Therese aspettò,poi, come fece per avanzare nella sala, Carol la vide. Parve fissarlaincredula per un istante, mentre Therese ne osservava il lento sorrisoallargarsi, prima che il suo braccio si alzasse all’improvviso, che la suamano si agitasse in un rapido, entusiastico saluto che Therese non avevamai visto prima. Therese mosse verso di lei.

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POSTFAZIONEEbbi l’ispirazione per questo libro nel 1948, quando vivevo a New York.Avevo appena terminato Sconosciuti in treno [Strangers on a Train], chesarebbe stato pubblicato nel 1949. Si avvicinava Natale, ero vagamentedepressa nonché a corto di denaro, e per guadagnare qualcosa accettai unposto di commessa in un grande magazzino di Manhattan per il periodonoto come "corsa agli acquisti natalizi", che durava circa un mese. Pensodi aver resistito due settimane e mezzo.

Al magazzino mi assegnarono al reparto giocattoli, nel mio caso ilbanco delle bambole. C’erano molti tipi di bambole, costose e di pocoprezzo, con capelli veri o artificiali, e dimensioni e vestiti erano dellamassima importanza. Bimbette il cui nasino arrivava sì e no al ripianodella vetrina del banco, cercavano di farsi largo con mamma o papà, ocon entrambi, abbagliate dalla mostra di bambole nuove di zecca chepiangevano, aprivano e chiudevano gli occhi, a volte si reggevano in piedie, naturalmente, amavano cambiarsi d’abito. Era davvero un pigia-pigia,e io e le altre quattro o cinque commesse addette al lungo bancone nonpotevamo sederci un istante dalle otto e mezzo del mattino finoall’intervallo di pranzo. E quand’anche? Il pomeriggio era la stessa cosa.

Una mattina, in quel caos di baccano e di vendite, comparve unabionda signora in pelliccia. Avanzava verso il banco con espressioneincerta – doveva comperare una bambola o qualcos’altro? – e mi pare chebattesse con aria assente un paio di guanti contro il palmo dell’altramano. Forse la notai perché era sola, o perché una pelliccia di visone erauna rarità, e perché era piuttosto bionda e sembrava emanare luce. Con lostesso fare pensoso, acquistò una bambola, una delle due o tre che leavevo mostrato, e io scrissi il suo nome e indirizzo su una ricevuta,perché la bambola doveva essere consegnata in uno stato vicino. Era unavendita di routine, la signora pagò e se ne andò. Ma io mi sentivo strana ecome stordita, prossima a svenire, e tuttavia al tempo stessoinsolitamente esaltata, come se avessi avuto una visione.

Come al solito, dopo il lavoro me ne tornai nel mio appartamento, dovevivevo sola. Quella sera buttai giù un’idea, una trama: una storia

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sull’elegante e bionda signora in pelliccia. Riempii circa otto pagine,scritte a mano, del quaderno che usavo allora. Era l’intera storia di ThePrice of Salt, come Carol s’intitolava in origine. Fluiva dalla mia pennacome dal nulla: inizio, svolgimento e fine. Mi prese un paio d’ore, forsemeno.

Il mattino seguente mi sentivo ancora più strana, e mi resi contod’avere la febbre. Doveva essere una domenica, perché ricordo d’averepreso la metropolitana, in tarda mattinata. (A quei tempi si lavorava ilsabato mattina, e l’intero sabato durante il periodo natalizio.) Ricordo chemi sentivo mancare, sul treno, appesa a una maniglia. L’amica con cuiavevo appuntamento possedeva cognizioni mediche, e io dissi di sentirmimale, e d’avere notato una vescichetta sull’addome, mentre quel mattinofacevo la doccia. La mia amica diede un’occhiata alla bolla e sentenziò:"Varicella." Disgraziatamente, non l’avevo avuta da bambina, pur avendofatto tutte le altre malattie infantili. Da adulti, non è piacevole, dato cheper un paio di giorni la febbre sale a trentanove e, quel che è peggio,faccia, torso, braccia e perfino orecchie e narici si ricoprono di pustoleche prudono e si rompono. Guai a grattarsele nel sonno, o ti rimangonobuchi e cicatrici. Per un mese te ne vai in giro tutta macchiolinesanguinanti, visibili sulla faccia, con l’aspetto di chi sia stato investito dauna scarica di pallini di fucile ad aria compressa.

Mi toccò avvertire il reparto del magazzino, il lunedì, che non potevotornare al lavoro. Una di quelle bimbette col moccio al naso dovevaavermi attaccato il germe, ma in un certo senso anche il germe di unlibro: la febbre è stimolante per l’immaginazione. Non cominciai ascriverlo immediatamente, il libro. Preferivo lasciar cuocere le idee afuoco lento, per settimane. Tra l’altro, quando Sconosciuti in treno vennepubblicato e, poco dopo, venduto ad Alfred Hitchcock che voleva farneun film [Delitto per delitto, N.d.T.], i miei editori nonché il mio agentenon facevano che ripetermi di scrivere un altro libro dello stesso genere,"Così consoliderai la tua fama di..." Di che? Sconosciuti in treno era statopubblicato da Harper & Bros, come si chiamava allora la casa editrice,come "romanzo di suspense", per cui dalla sera alla mattina ero diventataun’autrice di ’gialli", sebbene Sconosciuti, a parer mio, non rientrasse in

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alcuna categoria: era semplicemente un romanzo con una storiainteressante. Se avessi scritto un romanzo su un rapporto fra lesbiche, miavrebbero etichettata come scrittrice di libri per lesbiche? Non era daescludere, anche se in vita mia potevo non essere mai più ispirata ascrivere un libro su quell’argomento. Decisi, perciò, di presentarlo sottouno pseudonimo. Nel 1951, l’avevo ormai terminato. Non potevo certolasciarlo da parte per dieci mesi e scrivere qualcos’altro, solo perché, permotivi commerciali, sarebbe stato saggio sfornare un altro "giallo".

La Harper & Bros respinse The Price of Salt, così fui obbligata acercarmi un altro editore americano: con mio rincrescimento, poiché midispiaceva molto cambiare casa editrice. Quando The Price of Saltapparve in edizione rilegata, nel 1952, ebbe alcune recensioni serie e ditutto rispetto. Ma il vero successo venne un anno dopo con l’edizioneeconomica, che vendette quasi un milione di copie ed ebbe sicuramenteun numero di lettori anche maggiore. Le lettere degli ammiratoriarrivavano indirizzate a Claire Morgan, presso la casa editricedell’edizione in brossura. Ricordo che, per mesi e mesi, almeno un paiodi volte la settimana ricevevo una busta contenente da dieci a quindicilettere. A molte rispondevo, ma non potevo rispondere a tutte senza unalettera standardizzata, che non riuscii mai a formulare.

Nel mio romanzo, la giovane protagonista, Therese, potrà ancheapparire una timida "violetta", ma quelli erano tempi in cui i bar dei gayerano una porta buia in qualche recesso di Manhattan, e chi voleva andarein un certo bar scendeva dalla metropolitana una stazione prima o dopoquella voluta, per tema che lo sospettassero d’essere omosessuale.L’interesse di The Price of Salt stava nel fatto che i due personaggiprincipali arrivavano a un lieto fine, o almeno al tentativo di avere unfuturo insieme. In precedenza, nei romanzi americani gli omosessuali,maschi e femmine, avevano dovuto pagare il fio della loro deviazione coltagliarsi le vene, con l’annegarsi in una piscina, oppure col passareall’eterosessualità (così veniva affermato), o col precipitare – soli,infelici e messi al bando – in una depressione che equivaleva a un infernosulla terra. Molte delle lettere che ricevevo recavano messaggi tipo: "Ilsuo è il primo libro del genere a lieto fine! Non tutti ci suicidiamo, e

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molti di noi se la passano bene." Altre dicevano: "Grazie d’avere scrittouna storia così. È un po’ come la mia storia personale..." E ancora: "Hodiciott’anni e vivo in una piccola città. Soffro la solitudine perché non honessuno con cui parlare..." A volte, nel rispondere, suggerivo alloscrivente di trasferirsi in una città più grande, dove vi sarebbe stata lapossibilità di conoscere più persone. Da quel che ricordo, a scrivermierano uomini e donne in numero equivalente, cosa che consideravo dibuon auspicio per il mio libro. E in effetti lo fu. Le lettere continuaronoad arrivare per anni, sia pure in numero minore, e tuttora accade, una odue volte l’anno, che un lettore mi scriva. Non ho più affrontatol’argomento nei miei libri. Il mio romanzo successivo fu The Blunderer.Preferisco evitarle, le etichette. Sono gli editori americani ad amarle.

24 maggio 1989