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REPUBBLICA ITALIANA Sent. n. 196/2017
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LOMBARDIA
Composta dai Magistrati:
Silvano Di Salvo Presidente
Luisa Motolese Consigliere
Eugenio Madeo I Referendario estensore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di responsabilità iscritto al n. G28823 del registro di segreteria ad istanza della
Procura regionale per la Lombardia contro il Sig. D. F., nato a Omissis (Omissis) il Omissis
e residente in Omissis (Omissis), Omissis, C.F. Omissis, rappresentato e difeso dall’Avv.
Paolo Gianolio, con elezione di domicilio presso il suo studio in Mantova, via Acerbi, n. 27.
VISTO il D.Lgs. n. 26 agosto 2016, n. 174.
VISTO l’atto introduttivo.
LETTI gli atti e i documenti di causa.
UDITI, nella pubblica udienza del 5 dicembre 2017, il I Referendario relatore Eugenio
Madeo, il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Laura Monfeli
e l’Avvocato Paolo Gianolio per il D. F..
Ritenuto in
FATTO
Con atto di citazione depositato in data 22 maggio 2017, la Procura regionale presso
questa Sezione ha convenuto in giudizio il Dott. D. F. per ivi sentirlo condannare al
pagamento, in favore dell’Azienda Ospedaliera (Omissis), della somma capitale pari ad
euro 180.000,00, oltre rivalutazione, interessi e spese di giudizio.
In particolare, dall’atto di citazione emerge quanto segue: la Procura regionale, a
seguito del rapporto sui sinistri (definiti con onere risarcitorio a carico dell’Azienda) per gli
anni 2012, 2013, 2014 e 2015 comunicato dall’Azienda Ospedaliera con nota n. (Omissis)
del (Omissis) (all. n. 1 del fascicolo della Procura), chiedeva “… la documentazione
relativa al sinistro occorso alla sig.ra (Omissis), in data (Omissis), importo
complessivamente liquidato pari a euro 360.000,00” (all. n. 2 del fascicolo della Procura).
Successivamente, l’Azienda ospedaliera trasmetteva la documentazione richiesta
come da nota n. (Omissis) del (Omissis) (all. n. 3 del fascicolo della Procura).
In esito alla menzionata istruttoria la Procura precisa che si veniva a conoscenza “… di
una fattispecie di danno erariale relativo ad un gravissimo caso di malpractice medica
addebitabile al dott. (Omissis) e al dott. D. F., i quali, in qualità di medici chirurghi
nell’intervento chirurgico volto a sanare una “frattura scomposta collo chirurgico omero
sinistro” eseguito in data (Omissis), sulla paziente (Omissis), presso la struttura di
Ortopedia del presidio di (Omissis) dell’Azienda Ospedaliera “(Omissis)”, le cagionavano
“una lacerazione e il conseguente strappamento dell’arteria ascellare”, con colpa grave
consistita in “una erronea manovra chirurgica durante la mobilizzazione della spalla
necessaria per la protesizzazione”.
Ancora, il Requirente precisa che “a seguito delle gravi lesioni riportate la sig.ra
(Omissis) chiedeva all’Azienda Ospedaliera il risarcimento dei danni subiti …” e che
“l’Azienda Ospedaliera, istruita la pratica e valutati gli esiti delle relazioni medico legali in
atti, liquidava, pertanto, per il risarcimento dei danni a favore della sig.ra (Omissis)
l’importo complessivamente pari a euro 360.000,00 …”.
Da ultimo, sempre il Pubblico Ministero ha inteso precisare che, essendo deceduto il
Dott. (Omissis) in data (Omissis), “questa Procura, pertanto, concentra la presente
contestazione di responsabilità per danno erariale indiretto unicamente sulla condotta del
dott. D. F. e per un importo pari a euro 180.000,00 dovendosi scomputare dal totale
dell’importo da risarcire la quota di danno (pari al 50%) addebitabile al chirurgo
((Omissis)) deceduto”.
Al termine della richiamata attività istruttoria la Procura erariale, ritenendo sussistenti
tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa, notificava all’odierno
convenuto specifico invito a dedurre (all.ti nn. 4 e 5 del fascicolo della Procura).
Sempre la Procura riferisce poi che il (Omissis) ha presentato deduzioni difensive,
chiedendo di essere anche sentito personalmente (all. n. 6 del fascicolo della Procura).
In data 9 maggio 2017 il (Omissis) veniva sentito, come richiesto, in audizione
personale (all. n. 7 del fascicolo della Procura).
Tanto precisato, non reputando le argomentazioni difensive idonee a superare
l’addebito di responsabilità sulla base delle evidenze istruttorie, la Procura ritiene esser
stata raggiunta la piena prova della responsabilità amministrativa in capo al convenuto.
Al riguardo il Requirente precisa nell’atto di citazione che il caso di specie configura
una tipica ipotesi di danno erariale indiretto “… all’Azienda Ospedaliera “(Omissis)”
di(Omissis) ed ammontante complessivamente ad euro 360.000,00 … ovvero pari
all’importo complessivamente liquidato a titolo di risarcimento in via transattiva in favore
della sig.ra (Omissis), in conseguenza delle gravi lesioni riportate a seguito della condotta
negligente dei chirurghi che eseguirono l’intervento dell’(Omissis) ”.
In sintesi, secondo la Procura, la condotta illecita contestata all’odierno convenuto
consisterebbe nel fatto che questi “”… in qualità di medico chirurgo nell’intervento
chirurgico dell’(Omissis) volta a sanare una “frattura scomposta collo chirurgico omero
sinistro”, sulla paziente (Omissis), le cagionava “una lacerazione e il conseguente
strappamento dell’arteria ascellare”, con colpa grave consistita in “una erronea manovra
chirurgica durante la mobilizzazione della spalla necessaria per la protesizzazione””.
Da ultimo, per quanto riguarda la sussistenza in capo al (Omissis) dell’elemento
soggettivo della colpa grave, la Procura precisa che “… lo stesso risulta essere
pienamente provato sulla base della consulenza medico legale … del 29.6.2011 …” ed in
particolare nell’affermazione in cui si dichiara che “la lesione dell’arteria ascellare sinistra
è infatti da strappamento … il che rende ragione della sua causa: una erronea manovra
chirurgica durante la mobilizzazione della spalla necessaria per la protesizzazione. La
manovra, che è erronea per eccesso di mobilizzazione delle componenti della spalla, ha
provocato una abnorme trazione sulla arteria ascellare e l’ha lacerata provocandone lo
strappamento. Non vi è alcun elemento di giudizio che possa far ritenere che la lesione
sia “scusabile”, nel senso che: a. l’intervento non comportava la soluzione di problemi
tecnici di speciale difficoltà ex art. 2236 cc. trattandosi di intervento standardizzato e
senz’altro alla portata di un chirurgo di medie capacità che si cimenta in dette fattispecie.
B. la sussistenza del nesso di causalità tra l’intervento e lesione ascellare rinvia quindi ad
una presunzione di “colpa” fino a prova contraria. Prova che non può essere fornita,
perché l’aspetto radiologico ed il referto operatorio non delineano alcun inconveniente
prima della lesione arteriosa, che possa avere reso non altrimenti evitabile la lesione
stesa; e che tutti gli elementi di giudizio indicano che la lesione arteriosa è dovuta ad una
errata manovra chirurgica”.
Sul punto viene poi precisato che “circa … l’intensità della colpa da qualificarsi come
grave, è sufficiente osservare come la condotta gravemente colposa dell’odierno
convenuto è, dunque, integrata dal concorso causale nell’errata e imperita manovra
chirurgica … ciò sotto il decisivo profilo non solo dell’esecuzione materiale della condotta
dannosa ma anche sulla base dei compiti e delle responsabilità che gravano sulla figura
del c.d. “altro chirurgo”, quale membro di assoluta preminenza nell’equipe impegnata
nell’atto medico.
Infine, il Requirente, con riferimento al nesso di causalità esistente fra la condotta in
contestazione e la grave lesione arrecata alla paziente, ha evidenziato che la relazione
medico legale dei consulenti ha confermato “la sussistenza di un nesso di causalità tra
intervento e lesione ascellare …”.
In seguito, il Requirente ha inteso confutare le argomentazioni difensive mosse in sede
di deduzioni difensive dal convenuto.
In particolare, con riferimento all’eccepita violazione del diritto di difesa è stato
rappresentato che “… la violazione del diritto di difesa può ipotizzarsi solo rispetto ad un
processo e mai rispetto ad un contratto, poiché solo nel primo ci si può difendere,
potendosi nel secondo soltanto negoziare”.
Ancora, circa l’argomentazione difensiva secondo la quale “… l’errore esecutivo non
sarebbe addebitabile al convenuto che non ha materialmente eseguito l’operazione,
considerato, peraltro, che l’errore si sarebbe verificato quando il convenuto aveva ormai
abbandonato la sala operatoria”, il Requirente ha inteso invece precisare che tale
affermazione è priva di qualsiasi supporto probatorio e che “… le risultanze della cartella
clinica … non impugnata dal convenuto depongono chiaramente in senso contrario”.
Ad ogni modo per il Requirente “il convenuto è … corresponsabile del danno per aver
partecipato, con ruolo preminente, quale chirurgo, all’equipe sanitaria che ha realizzato
l’atto medico. Egli risponde per la sua partecipazione all’equipe, giacché l’equipe è
formata in modo da assicurare la migliore riuscita dell’atto medico, sottoponendo l’attività
di ciascun membro, e, soprattutto dei chirurghi, al vigile controllo nell’interesse del
paziente da parte degli altri membri dell’equipe, ciascuno secondo le proprie
competenze”.
In data 14 novembre 2017 si è costituito il D. F. eccependo preliminarmente la
violazione del diritto di difesa, in quanto la difesa di quest’ultimo pur “… consapevole della
differenza, invocata da Procuratore, tra procedimento che ha portato alla transazione e
l’ambito processuale in cui si colloca la presente vertenza … ma, ciononostante, ritiene
che, proprio in proiezione del possibile giudizio di responsabilità il diritto di difesa …
debba, necessariamente, essere garantito nella fase della transazione. Questo anche
nell’ottica del principio … di buon andamento posto che le ragioni dei soggetti interessati,
qualora ritenute fondate, potrebbero, anche, offrire alle Aziende ulteriori elementi valutativi
sulla sussistenza degli estremi per addivenire alla transazione”.
A conforto di quanto affermato, la difesa del convenuto ha inteso precisare inoltre che
“… la L. n. 24/2017 … all’art. 13 … così dispone: le strutture sanitarie e sociosanitarie di
cui all’articolo 7, comma 1, e le imprese di assicurazione che prestano la copertura
assicurativa nei confronti dei soggetti di cui all'articolo 10, commi 1 e 2, comunicano
all'esercente la professione sanitaria l'instaurazione del giudizio promosso nei loro
confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell'atto
introduttivo, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di
ricevimento contenente copia dell’atto introduttivo del giudizio. Le strutture sanitarie e
sociosanitarie e le imprese di assicurazione entro dieci giorni comunicano all'esercente la
professione sanitaria, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con
avviso di ricevimento, l'avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con invito a
prendervi parte. L’omissione, la tardività o l'incompletezza delle comunicazioni di cui al
presente comma preclude l'ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità
amministrativa di cui all'articolo 9”.
A tal proposito, il difensore, pur riconoscendo il fatto che “… la sopra riportata
normativa è sopravvenuta ai fatti oggetto della presente controversia …”, ha comunque
affermato che “… si può, ciononostante, fondatamente, ritenere che la stessa sia
applicabile, in deroga all’art. 11 delle Preleggi, con portata retroattiva in quanto
rispondente ad un criterio di ragionevolezza e di maggiore giustizia da ritenersi valido,
stante la sua conformità a diritti di rango costituzionale (quale quello di difesa), anche
nella vigenza della precedente (e silente sul punto) L. n. 189/2012 (c.d. “Legge
Balduzzi”)”, richiamando anche a tal proposito la sentenza della Corte di Cassazione -
Sezione Penale n. 16140/2017.
Nel merito, la difesa ha evidenziato innanzitutto che:
- “come si evince dalla lettura della scheda descrittiva dell’intervento chirurgico allegata
alla cartella clinica della Sig.ra Cadeo, il medico chirurgo preposto all’operazione e
che ha eseguito l’intervento era il Dott. Mazzei (identificato quale “primo chirurgo”)
mentre il convenuto figurava come chirurgo di supporto (identificato come “altro
chirurgo”);
- … l’operazione chirurgica è iniziata alle ore 8,50 ed è terminata alle ore 10,50;
- … il convenuto, nella sua predetta qualità di assistente al primo chirurgo, ha seguito,
con funzione di supporto al collega, le fasi iniziale e centrale dell’intervento (fino, cioè,
alla avvenuta riduzione dell’endoprotesi nella cavità glenoidea) e, in seguito (quando,
cioè, residuava solo la fase meramente conclusiva, di saturazione, dello stesso
intervento) è uscito dalla sala operatoria per dedicarsi alle attività di pronto soccorso e
di ambulatorio ortopedico per le quali, nello stesso giorno, era di turno;
- … più in particolare, il convenuto è uscito dalla sala operatoria alle ore 10,00 momento
fino al quale il decorso dell’intervento era del tutto regolare posto che la manovra
chirurgica che ha determinato la contestata lacerazione e il conseguente
strappamento dell’arteria ascellare è, infatti, avvenuta nello spazio temporale
intercorso tra le ore 10,00 (orario in cui il convenuto è uscito dalla sala operatoria) e le
ore 10,50 (orario in cui l’intervento si è concluso)”.
Tali affermazioni sarebbero, ad avviso del difensore, documentate dal fatto che il
convenuto ha prodotto:
- “copia dei referti delle prestazioni rese in pronto soccorso e in ambulatorio dallo
stesso convenuto nella data dell’intervento ((Omissis));
- dichiarazioni scritte a firma degli operatori presenti in sala operatoria (dell’anestesista,
Dott. (Omissis), della strumentista, Sig.ra (Omissis), del gessista, Sig. (Omissis)) da
cui emerge che l’evento avverso si è verificato nella fase conclusiva dell’intervento
“successivamente all’uscita dalla sala operatoria del Dott. D. F.”;
- dichiarazione scritta della gessista, Sig.ra (Omissis), in servizio, nello stesso giorno,
presso la sala gessi e pronto soccorso che attesta la presenza e l’operatività del Dott.
D. F. presso detti reparti a partire dalle ore 10,00”.
Ancora, la difesa ha poi affermato che “… non è, obiettivamente, possibile ascrivere
una responsabilità per l’esecuzione diretta di una condotta non commessa anche facendo
riferimento al ruolo di “altro chirurgo” del convenuto”.
In ordine poi alla circostanza rilevata dal Requirente secondo cui “… la responsabilità
dello stesso convenuto consegue, in ogni caso, alla “sua partecipazione all’equipe
sanitaria che ha realizzato l’atto medico” ed infine sostiene che l’assenza del convenuto,
in quel momento, dalla sala operatoria non gioverebbe, comunque, alla difesa ma anzi
darebbe luogo ad un maggior grado di colpa del convenuto che era tenuto, infatti, a non
abbandonare la sala operatoria per recarsi a svolgere “un semplice servizio
ambulatoriale”, il difensore ha inteso precisare che qualora le stesse siano da interpretarsi
come ulteriori ipotesi di responsabilità a carico dell’odierno convenuto allora si eccepisce
l’inammissibilità dell’atto di citazione “… alla luce del disposto dell’art. 87 del D. Lgs. n.
174/2016 in ragione della non corrispondenza tra l’esposizione dei fatti e degli elementi di
diritto costituenti la ragione della domanda come esposti in sede di invito a dedurre … e i
fatti e gli elementi su cui reggerebbe l’atto di citazione …”.
Da ultimo, il difensore del convenuto, nel ribadire di aver documentato l’effettiva
assenza di quest’ultimo dalla sala operatoria al momento in cui si verificava “l’errore
chirurgico”, ha comunque precisato i motivi per i quali il D. F. era in quel giorno di turno al
pronto soccorso, ovvero che “… presso l’Ospedale di (Omissis) erano in organico solo
due medici ortopedici (il convenuto ed il Dott. (Omissis) ) e che, conseguentemente, i
medici in questione erano assegnati, alternativamente, a coprire, giornalmente, i turni del
pronto soccorso ortopedico e dell’ambulatorio cd. revisionale. In questo contesto nel caso
di interventi chirurgici complessi entrambi i medici presenziavano in sala operatoria per
seguire le fasi più delicate degli interventi stessi, superate le quali il medico con la
qualifica di “altro chirurgo” che corrispondeva con quello assegnato, nello stesso giorno, al
turno presso il pronto soccorso e gli ambulatori si recava in detti reparti per visitare i
pazienti in attesa. Questo era il sistema organizzativo del plesso ospedaliero di Asola;
sistema che, anche qualora venga ritenuto discutibile, non può, di certo, essere imputato
a scelte o a comportamenti del convenuto”.
In sintesi, quindi, la difesa chiede:
- in via pregiudiziale, di dichiarare inammissibile l’atto di citazione;
- nel merito, di escludere qualsivoglia responsabilità del D. F.;
- in via istruttoria, di accogliere la prova per testi dei soggetti analiticamente indicati nella
memoria difensiva sulla base di specifici capitoli di prova anch’essi precisamente
individuati.
Nell’udienza ha preso inizialmente la parola il Pubblico Ministero, che si è anzitutto
soffermato sull’eccezione preliminare, sollevata dalla difesa del convenuto, circa la nullità
dell’atto di citazione come conseguenza del dedotto ampliamento dell’oggetto della
contestazione rispetto all’invito a dedurre, con particolare riguardo al tema dell’assenza
del convenuto dalla sala operatoria. A tal proposito è stato precisato dal P.M. che tale
eccezione è assolutamente infondata, sia perché l’atto di citazione è del tutto
sovrapponibile all’invito a dedurre, sia perché l’argomento relativo all’assenza del
convenuto è stato avanzato dallo stesso difensore, su cui poi la Procura ha controdedotto.
Nel merito, il Requirente ha poi evidenziato che la cartella clinica da cui risulta invece la
presenza del convenuto per tutta la durata dell’intervento è un atto pubblico dotato di fede
privilegiata, che non è mai stato contestato dallo stesso convenuto nelle forme di legge.
Inoltre, è stato precisato che le dichiarazioni del personale medico presente durante
l’operazione sono postume e che le prestazioni rese dal D. F. nel pronto soccorso non
recano l’orario di riferimento ma solo la data. Ad ogni modo, ha precisato il Pubblico
Ministero, se il convenuto si fosse realmente allontanato dalla sala operatoria, sarebbe
comunque responsabile in ragione di una evidente condotta omissiva, trattandosi di un
intervento c.d. complesso, che necessitava della presenza continua dei due chirurghi. Per
quanto, infine, attiene l’eccezione sulla violazione del diritto di difesa del convenuto, il
Requirente ha inteso, in particolare, evidenziare che la legge n. 24 del 2017 (c.d. legge
Gelli) non può certo avere portata retroattiva e che il principio di diritto enunciato nella
sentenza della Cassazione - Sezione Penale n. 16140/2017 (sempre richiamata nella
memoria difensiva del convenuto), ovvero l’applicazione della norma più favorevole in
base al principio c.d. del favor rei, può trovare ingresso solo nel sistema penalistico. In
conclusione, la Procura si è quindi anche opposta alla richiesta di ammissione di prova
testimoniale, avanzata dal difensore del convenuto, precisando poi che nel caso di specie
non risulta nemmeno necessaria la disposizione di una C.T.U., essendo già ampiamente
evidenti i profili di grave colpa medica del predetto.
Ha preso poi la Parola l’Avv. Paolo Gianolio per il D. F., ripercorrendo in concreto i
passaggi salienti della propria memoria difensiva, soffermandosi, in particolare,
sull’eccezione di nullità dell’atto di citazione, qualora il thema decidendum, nel caso di
specie, dovesse vertere sull’allontanamento dalla sala operatoria del proprio assistito.
Ancora, il difensore ha poi messo in evidenza i problemi organizzativi esistenti all’epoca
dei fatti in causa presso l’Azienda Ospedaliera, precisando in proposito che questi non
possono certo ricadere sul D. F.. Infine, sulla violazione del diritto di difesa del convenuto,
il difensore ha inteso sottolineare come in concreto il D. F. non fosse stato mai reso edotto
della pretesa giudiziale e procedura di composizione della lite durante l’iter transattivo
della vicenda oggi in trattazione.
In sede di replica, il Pubblico Ministero ha evidenziato che, diversamente da quanto
affermato dal difensore, dall’all. n. 5 alla stessa memoria difensiva, si evince
inequivocabilmente che il D. F. aveva conoscenza della vicenda di cui è causa già a far
data dal 2010. In sede di replica, il Requirente ha ribadito la particolare intensità del valore
probatorio della menzionata cartella clinica, ed è stato autorizzato a depositare il testo
scritto della requisitoria formulata in udienza.
Tutto ciò premesso, la causa è stata assunta in decisione.
Ritenuto in
DIRITTO
Preliminarmente, il Collegio deve scrutinare l’eccezione, formulata dalla difesa del
Ferrarini, di inammissibilità dell’atto di citazione per la dedotta difformità tra il contenuto di
questo e l’invito a dedurre con riguardo al petitum (in particolare, si contesta il fatto che la
Procura abbia argomentato solo nell’atto di citazione in ordine all’eventuale
allontanamento dalla sala operatoria del (Omissis)).
A tal proposito, il Collegio rileva che la Corte Costituzionale, in più occasioni, ha avuto
modo di chiarire che l’istituto dell’invito a dedurre attiene ad una fase che precede quella
destinata all’accertamento delle responsabilità, suscettibile, alternativamente, di condurre
all'instaurazione del giudizio ovvero all'archiviazione (sent. n. 415/1995, n. 163/1997 e n.
513/2002).
Da tale impostazione non si discosta la pressoché unanime giurisprudenza di questa
Corte, che ha qualificato l’invito a dedurre come “atto procedimentale preprocessuale che
assolve alla duplice funzione di consentire all'invitato di svolgere le proprie argomentazioni
al fine di evitare la citazione in giudizio e di garantire nel contempo la massima possibile
completezza istruttoria. Entrambe queste funzioni confluiscono nell’ulteriore scopo finale
che è quello del perseguimento della giustizia ed anche non disgiunto da esigenze di
economia processuale” (cfr. SS.RR. sent. n. 7/98/QM).
L’invito, quindi mira a stimolare l’esercizio del diritto di difesa su fatti specifici e concreti
ritenuti dalla Procura contabile causativi di danno erariale e, in definitiva, ad incentivare
l'acquisizione di ulteriori elementi, se del caso anche di carattere esimente, in vista delle
conclusive determinazioni che il medesimo Organo è chiamato ad assumere.
Dunque, l’invito a dedurre – in quanto preordinato all’arricchimento degli elementi di
conoscenza utilizzabili dal Pubblico Ministero per l’assunzione delle determinazioni di
competenza – attiene ad una fase del procedimento avente natura preprocessuale, sicché
l’effettiva proposizione dell’azione di responsabilità è del tutto eventuale e la conseguente
assunzione della veste di parte del convenuto è subordinata, perciò, alla proposizione del
relativo giudizio.
Da ciò, deriva che è assolutamente fisiologico che gli elementi raccolti fino all’emissione
dell’invito a dedurre possano non coincidere, per difetto, con gli elementi disponibili al
momento dell’esercizio dell’azione: dopo la contestazione dell’addebito, o per iniziativa
autonoma o dando seguito ad una esigenza di approfondimento generata dalle deduzioni
fornite dall’invitato (come nel caso di specie); pertanto, il Pubblico Ministero è pienamente
legittimato a proseguire nelle attività di indagine. Anzi, in una prospettiva di maggiore
valorizzazione della neutralità che connota l’esercizio delle pubbliche funzioni –
caratteristica che impone che le iniziative intraprese dal P.M. siano sempre consone alla
funzione esercitata e che preclude la proposizione di azioni la cui fondatezza non sia stata
prudentemente vagliata – la prosecuzione dello sforzo istruttorio fino al momento di
emissione dell’atto di citazione appare doverosa quando emergano fatti destinati ad
incidere significativamente sul promovendo giudizio.
È, quindi, del tutto ammissibile che la valutazione del compendio documentale,
arricchito in conseguenza dell’esercizio della facoltà di dedurre e/o degli approfondimenti
istruttori ulteriori promossi dall’Organo requirente, conduca ad una parziale rimodulazione
della contestazione iniziale.
Sulla base di quanto finora detto, nel caso di specie non risulta rinvenibile un’effettiva
divaricazione tra quanto contestato in sede preprocessuale e quanto imputato al
convenuto con l’atto di citazione, tale da non consentire all’odierno convenuto un efficace
esercizio del proprio diritto di difesa.
In particolare, proprio nel tener conto, ai sensi dell’art. 87 del c.g.c., “degli ulteriori
elementi di conoscenza acquisiti a seguito delle controdeduzioni” (consistenti, nella
fattispecie, nella circostanza – dedotta e valorizzata a fini difensivi - che il convenuto si
sarebbe allontanato dalla sala operatoria prima della completa e definitiva conclusione
dell’intervento chirurgico), la prospettazione attorea risulta aver rispettato, nella
utilizzazione dell’arricchimento del corredo probatorio realizzatosi nella fase
preprocessuale, il principio del contraddittorio e il diritto di difesa del convenuto, peraltro
ritenendo, all’esito del doveroso esame valutativo delle deduzioni difensive, inidonei i
predetti, ulteriori elementi di conoscenza introdotti dall’intimato, a scriminare la
responsabilità del D. F. in ordine a quei medesimi “elementi essenziali” del fatto, già
“esplicitati nell’atto di citazione”, cui fa riferimento la predetta norma codicistica, ferma
restando, come meglio si vedrà appresso, ogni motivata valutazione del Collegio – in
punto di esame del nesso di causalità tra fatto dannoso e condotta contestata – sulla
rilevanza, la fondatezza e la sufficienza del sostegno probatorio che eventualmente
sorreggono il predetto, ulteriore “elemento di conoscenza” dedotto dalla parte privata.
Di conseguenza, tale eccezione deve essere rigettata.
Ancora, sempre preliminarmente, il Collegio deve scrutinare l’eccezione relativa alla
violazione del diritto di difesa avanzata dalla difesa del convenuto con riferimento alla
composizione stragiudiziale della lite che ha dato luogo alla transazione e al relativo
esborso reputato causativo del danno che la Procura attrice addebita al convenuto stesso.
Sul punto è opportuno innanzitutto evidenziare l’infondatezza delle affermazioni della
difesa del D. F. circa l’inopponibilità a quest’ultima sia dell’atto di transazione, sia delle
risultanze istruttorie poste alla base dello stesso non essendo stata quest’ultima mai
notiziata. Infatti, il Collegio osserva al riguardo che è piena l’autonomia del giudizio di
responsabilità amministrativo - contabile rispetto al contenzioso in sede civile, in quanto
sia il riconoscimento giustiziale del diritto al risarcimento del danno, sia la transazione tra
l’Amministrazione e il terzo sia, infine, il pagamento a questo effettuato, costituiscono mero
presupposto per l’azione risarcitoria in favore dell’Amministrazione.
In questo senso si è ripetutamente espressa la giurisprudenza della Corte dei conti, la
quale ha, fra l’altro, affermato che l’accertamento avvenuto in via transattiva non fa stato
nel giudizio di responsabilità amministrativa e che il giudice contabile può avvalersene ai
fini della formulazione, anche sulla base della documentazione acquisita in quella sede, di
un suo autonomo convincimento, rispetto all’an ed al quantum della pretesa risarcitoria
azionata dal Pubblico Ministero contabile (cfr. Sez. Sicilia, n. 1201/2012, Sez. Lombardia,
n.63/2012).
Inoltre, il Collegio non ritiene accoglibile la specifica istanza rivolta dalla difesa con
riguardo all’applicazione retroattiva al caso in esame di quanto disposto dall’art. 13 della
legge n. 24/2017, da cui discenderebbe la declaratoria di inammissibilità dell’azione
erariale. Ciò in quanto è da escludersi l’applicabilità con effetti retroattivi della richiamata
disposizione.
Detta inapplicabilità è dettata da ragioni formali, in assenza di una espressa previsione
di efficacia retroattiva della norma, e da ragioni sostanziali, in quanto ne deriverebbe una
ingiustificata sterilizzazione di tutte le azioni risarcitorie in cui le Aziende Ospedaliere non
hanno seguito, in assoluta buona fede, una procedura all’epoca non prevista e non
richiesta né da previsioni di legge, né tantomeno regolamentari, utilizzando comunque,
nella gestione del “sinistro” in argomento, procedimenti legittimi e del tutto compatibili,
come costantemente riconosciuto in casi analoghi dalla giurisprudenza di questa Corte,
con le norme primarie e costituzionali dell’ordinamento.
A ciò si aggiunga, infine, il fatto che, come validamente già precisato dal Requirente in
udienza, la sentenza della Suprema Corte di Cassazione – IV Sezione Penale - n.
16140/2017 (richiamata nella memoria difensiva del convenuto), ha enunciato un principio
di diritto che può trovare la sua corretta collocazione esclusivamente in sede penale,
ovvero l’applicazione della norma più favorevole in base al principio c.d. del favor rei.
Ancora, sempre preliminarmente, il Collegio ritiene che la richiesta di disporre la prova
testimoniale per testi, avanzata dal convenuto, non può essere accolta. Ciò perché il
materiale sin qui acquisito in fascicolo è difatti più che sufficiente per ricostruire, ai fini che
qui rilevano, e come più approfonditamente sarà in seguito precisato, sia il quadro
generale, sia la riferibilità causale, ed arrivare ad una documentata valutazione della
fattispecie in esame.
Nel merito, il Collegio deve accertare la sussistenza degli elementi essenziali costitutivi
della responsabilità amministrativa del convenuto, come disciplinati dalla vigente
normativa in materia.
A tal proposito, il Collegio precisa che, nella fattispecie in esame, si verte in tema di
danno cosiddetto indiretto; tema che si collega alla responsabilità assunta dalla pubblica
Amministrazione verso terzi ed alla problematica dei rapporti tra azione civile di danno ed
azione di responsabilità amministrativa.
Il Collegio è chiamato dunque a valutare se nella condotta dell’odierno convenuto siano
ravvisabili tutti gli elementi integranti la responsabilità amministrativa e, segnatamente, il
danno erariale, il rapporto di servizio, il nesso di causalità tra la condotta tenuta e il danno
subito dall'ente e l’elemento soggettivo della colpa grave.
Con riguardo al primo dei richiamati presupposti, nella presente fattispecie sussistono
tutti i requisiti del danno rilevante ai fini della responsabilità amministrativa, in quanto il
pregiudizio, oltre ad essere certo, attuale ed effettivo è anche definitivo, avendo l’Azienda
Ospedaliera “(Omissis)” già provveduto all’erogazione della somma di euro 360.000,00
(cfr. all. 3, doc.ti nn. 1a, 2 e 3 del fascicolo della Procura).
Altrettanto indubbia appare anche la sussistenza di un rapporto di servizio intercorrente
tra il convenuto e l’Azienda Ospedaliera.
Rimangono, dunque, da esaminare i residui presupposti, costituiti dal nesso di causalità
tra il danno subito dall’Azienda Ospedaliera e la condotta tenuta dall’odierno convenuto e
dalla connotazione dell’elemento soggettivo.
Il Collegio, al riguardo, ritiene utile soffermarsi brevemente sui recenti orientamenti della
giurisprudenza, soprattutto con riferimento al rapporto di causalità.
La valutazione della sussistenza del nesso causale fra evento dannoso e condotta
antigiuridica nei casi di responsabilità medica si è oggi assestata sul criterio, condiviso da
questo Collegio, secondo cui assume rilevanza “l’alto o elevato grado di credibilità
razionale” o “probabilità logica” (cfr. Sez. App. Sicilia 6 dicembre 2007, n. 303; Sez.
Toscana 31 agosto 2007, n. 802 e Sez. Lazio 12 gennaio 2010, n. 36) ovvero, come
richiamato dalla giurisprudenza penale, la “probabilità prossima alla certezza” (cfr. Cass.
pen., SS.UU. n. 30328 del 10 luglio 2002).
Il nesso causale, in altri termini, sussiste qualora, a seguito di un giudizio condotto sulla
base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica universale o
statistica emerga che, ipotizzandosi come realizzata dall’operatore sanitario la condotta
doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe
verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
Spetta all’organo giudicante fare applicazione di tale criterio al caso concreto, così che,
esclusa l’interferenza di fattori alternativi, la pronuncia sarà di addebito ove, all'esito del
ragionamento probatorio, risulti “processualmente certa” la conclusione che la condotta del
medico sia stata condizione necessaria dell'evento lesivo con “alto o elevato grado di
credibilità razionale o probabilità logica” (Cass. Pen., SS.UU., n. 30328 del 2002 cit.).
Alla luce dei richiamati principi, occorre ora passare all’esame della fattispecie concreta
sottoposta all’attenzione di questo Collegio e valutare gli elementi probatori offerti dalla
Procura attrice a sostegno dell’affermazione di responsabilità del convenuto.
Sul punto deve innanzitutto rilevarsi che, nel caso di specie, non è contestata dal
convenuto la materiale sussistenza dell’errore chirurgico in se, ma sostanzialmente il fatto
che “… il medico chirurgo preposto all’operazione e che ha eseguito l’intervento era il Dott.
(Omissis) (identificato quale “primo chirurgo”) mentre il convenuto figurava come chirurgo
di supporto (identificato come “altro chirurgo”)” e che “il convenuto è uscito dalla sala
operatoria alle ore 10,00 momento fino al quale il decorso dell’intervento era del tutto
regolare posto che la manovra chirurgica che ha determinato la contestata lacerazione e il
conseguente strappamento dell’arteria ascellare è, infatti, avvenuta nello spazio temporale
intercorso tra le ore 10,00 (orario in cui il convenuto è uscito dalla sala operatoria) e le ore
10,50 (orario in cui l’intervento si è concluso)” (cfr. pag.ne 9 e 10 della memoria difensiva).
In sintesi quindi la difesa del convenuto declina sotto un duplice profilo l’insussistenza, a
suo avviso, del nesso di causalità nel caso di specie, ovvero sia perché il D. F. era il c.d.
“altro chirurgo” all’interno dell’équipe, sia in quanto, nel momento in cui veniva effettuata
l’errata manovra chirurgica, questi non si sarebbe trovato fisicamente presente nella sala
operatoria.
Tanto precisato, il Collegio deve rilevare, con riferimento specifico alla prima
affermazione della difesa del convenuto, che la Suprema Corte di Cassazione ha avuto
modo di affermare più volte che “incombe sui medici che svolgono attività di gruppo un
dovere generico di reciproco controllo, a prescindere dal ruolo rivestito all’interno
dell’equipe” (cfr. sentenza Cass. Sez IV penale, n. 24036 del 2 marzo 2004 e n. 22579 del
6 aprile 2005).
Sempre la Corte di Cassazione ha, invero, ormai da diverso tempo precisato che “… in
tema di colpa professionale, l’intera equipe chirurgica è tenuta ad osservare gli obblighi
derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, e tra tali
obblighi rientra anche quello di porre rimedio agli errori di altro medico, pur specialista, se
questi siano rilevabili ed emendabili con l’ausilio di comuni conoscenze scientifiche del
professionista medio …” (cfr. cit. sentenza Cass. IV sez. penale, n. 22579 del 6 aprile
2005).
Pertanto, i medici che svolgono attività di gruppo, come nel caso di specie, hanno,
quindi, un dovere generico di reciproco controllo, a prescindere dal ruolo rivestito
all’interno dell’équipe. Tale ruolo, come detto, di reciproco controllo, naturalmente, risulta
di tutta evidenza nella dinamica esistente in sala operatoria fra il “primo chirurgo” ed il c.d.
“altro chirurgo”. Infatti, quest’ultimo, qualora ritenga che la manovra chirurgica, posta in
essere dal “primo chirurgo”, esecutore materiale dell’intervento, sia erronea, è tenuto a
segnalare prontamente il proprio dissenso, cercando quindi, perlomeno, di impedire
l’evento lesivo o, comunque, di evitare che lo stesso conduca a più gravi conseguenze di
quelle già eventualmente provocate.
Passando ora al secondo profilo evidenziato dal difensore, ovvero, la materiale assenza
del convenuto all’interno della sala operatoria al momento dell’esecuzione dell’errata e
dannosa manovra ortopedica, deve innanzitutto rilevarsi in proposito che, se pur è vero,
come affermato nella menzionata sentenza della Corte di Cassazione che “… l’anticipato
scioglimento dell’equipe chirurgica per cause giustificate o dalla semplicità delle residue
attività da compiere o dall’impellente necessità di uno dei componenti dell’equipe di
prestare la propria opera professionale per la cura indilazionabile di altro o altri pazienti, o
– a maggior ragione – per il concorso di entrambe le cause, ben può esonerare da
responsabilità colposa il medico allontanandosi, che non era quindi presente nel momento
in cui … è stato eseguito un maldestro intervento … che ha causato conseguenze colpose
per il paziente …” (cfr. cit. sentenza Cass. IV sez. penale, n. 22579 del 6 aprile 2005), è
altrettanto vero che la cartella clinica e il “registro operatorio” (che ne forma parte
integrante – cfr. circolare del Ministero della Sanità n. 900.2/2.7/190 del 14 marzo 1996, in
materia di «Registro operatorio»), sono da qualificarsi atti pubblici, dotati di certezza
legale, che implicano, per il giudice, un vincolo di verità in ordine a quanto dagli stessi
risulta, salvo che la parte che via abbia interesse proponga una querela di falso mirante a
porre in questione la veridicità dei fatti descritti (ex plurimis, cfr. Cass. pen., SS.UU.
7958/1992; sez V, 42719/2011).
Tra i principali “fatti” la cui descrizione nella cartella clinica è assistita da fede
privilegiata nei sensi suesposti, rientra, per quel che qui rileva, la composizione,
nominativa e numerica, dell’équipe che ha eseguito un intervento operatorio, e ciò sia per
quanto concerne l’originaria composizione del predetto gruppo di lavoro, sia per quanto
concerne eventuali modifiche di tale composizione nel corso dell’intervento.
Ora, a prescindere da ogni valutazione in ordine alle ragioni che avrebbero indotto il
convenuto ad assentarsi dalla sala operatoria prima della completa esecuzione
dell’intervento di che trattasi, onde poter poi eventualmente accertare se queste possano
considerarsi scriminanti dell’ipotesi di responsabilità oggi in scrutinio (sulla base dei
parametri indicati dalla Suprema Corte di Cassazione e sopra menzionati), deve
innanzitutto verificarsi se l’allontanamento del Dott. D. F. dalla sala operatoria – che,
secondo quanto da questi affermato, si sarebbe verificato anteriormente al frangente
dell’effettuazione dell’erronea manovra chirurgica – possa ritenersi utilmente provato in
atti.
In proposito, deve innanzitutto evidenziarsi che dalla cartella clinica relativa
all’intervento in esame nulla risulta in ordine all’allontanamento dalla sala operatoria del
Dott. D. F..
Anzi, il verbale operatorio in atti (all. n. 3 all’atto di cit., pag. 6) riporta con precisione
nominativi e ruolo funzionale delle 8 persone che componevano, nella circostanza,
l’équipe operatoria (n. 1 primo chirurgo, n. 1 altro chirurgo - dott. D. F., n. 1 anestesista, n.
1 strumentista e n. 4 infermieri), senza alcuna indicazione di variazioni o mutamenti
dell’équipe medesima nel corso dell’intervento, che nel predetto atto pubblico viene riferito
come durato dalle ore (Omissis) alle ore (Omissis) del giorno (Omissis).
Peraltro, i dati riportati nel documento risultano convalidati dai responsabili pochi minuti
dopo la conclusione dell’intervento (cfr. annotazioni in calce al documento in questione).
Tali constatazioni risultano già di per sé dirimenti, in quanto, come già innanzi
osservato, la cartella clinica può ritenersi atto pubblico avente fede privilegiata, il cui valore
probatorio è quindi contrastabile solo con querela di falso, sicché, in assenza di tale
specifico strumento giuridico di contestazione della veridicità della cartella clinica, deve
ritenersi che la composizione dell’équipe chirurgica non sia mutata nel corso dell’intera
durata dell’intervento e che, dunque, il convenuto abbia preso parte a tutte le fasi
operatorie, ivi inclusa quella nel corso della quale, per inescusabile negligenza, sia stato
arrecato alla paziente il danno vascolare (lesione da strappamento dell’arteria ascellare),
peraltro descritto proprio nel verbale operatorio di che trattasi.
Ciò premesso, deve essere altresì osservato che la giurisdizione in ordine agli incidenti
di falso appartiene all’autorità giudiziaria ordinaria (cfr. artt. 14 e 105 c.g.c.), e che la parte
che intenda far valere nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile risultanze
eventualmente difformi da quelle asseverate da un atto assistito da fede privilegiata ex art.
2700 cod. civ., “deve provare che sia stata già proposta la querela di falso o domandare la
prefissione di un termine entro cui possa proporla innanzi al tribunale ordinario
competente” (art. 105 cit., comma 1).
Non possono, dunque, essere di ausilio alla formazione di un convincimento di senso
contrario a quanto evincibile dalla suddetta cartella clinica (e, in particolare, nel verbale
dell’intervento operatorio), i documenti depositati dal difensore, ovvero le postume
identiche dichiarazioni (sono tutte sottoscritte in data (Omissis)) degli altri operatori
presenti in sala operatoria o della gessista Sig.ra (Omissis) (all.ti 1 e 2 del fascicolo della
difesa), difettando, sulla relativa cognizione, la giurisdizione di questa Corte.
Analogamente, non possono fornire un valido contributo in tal senso e in questa sede le
copie dei referti delle prestazioni rese in pronto soccorso ed in ambulatorio dal convenuto;
peraltro, a prescindere da ogni altra considerazione, se pur effettivamente risulta che le
stesse sono state eseguite il giorno dell’intervento ((Omissis)), non appare riportata, nei
relativi referti e certificazioni, alcuna indicazione univocamente riferibile agli effettivi orari di
svolgimento delle suindicate prestazioni mediche, tale da poter palesare una possibile
concomitanza oraria con quanto invece dichiarato nella cartella clinica, e da poter,
dunque, far ipotizzare, con eventuali conseguenze rilevanti nel presente giudizio, un
contrasto tra atti parimenti assistiti da fede privilegiata.
Allo stesso modo, a miglior illustrazione di quanto già innanzi affermato, deve ritenersi
– anche alla luce della riserva di giurisdizione delineata dagli artt. 14 e 105 del c.g.c. –
ultronea e non accoglibile la richiesta di ammissione di prova testimoniale formulata dal
convenuto, in quanto la carenza di giurisdizione di questa Corte in ordine alla cognizione
degli incidenti di falso attrae la preclusione a disporre ed espletare, al riguardo, in questa
sede, qualsiasi attività istruttoria (inclusa l’eventuale assunzione di prove testimoniali)
suscettibile di invadere, in subiecta materia, competenze di altro ordine giudiziario
Di conseguenza, il Collegio deve rilevare che, allo stato degli atti, non risulta utilmente
smentita la partecipazione del convenuto all’intera procedura chirurgica, ivi incluse, nel
senso collaborativo e compartecipativo già innanzi precisato, le manovre che
determinarono lo strappamento dell’arteria ascellare della paziente, con conseguente
gravissimo danno arrecato alla stessa, come in atti.
Occorre, dunque, ora esaminare funditus l’ulteriore elemento della configurabilità o
meno, nel predetto atto operatorio, di una condotta gravemente colposa del convenuto.
In proposito si rammenta che, in materia di responsabilità medica, l’orientamento della
Suprema Corte, risulta espresso nelle recenti sentenze (Sez. III° n. 24791/2008 e n.
8826/2007) in cui, in conformità a precedente giurisprudenza, si afferma: “La
responsabilità del medico in ordine al danno subito dal paziente presuppone la violazione
dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra cui il dovere di diligenza da
valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata; tale diligenza non è
quella del buon padre di famiglia ma quella del debitore qualificato ai sensi dell’art.1176
c.c., comma 2, che comporta il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche
obbiettivamente connesse all'esercizio della professione ... con impiego delle energie e dei
mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell'attività
esercitata, volto all'adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento
dell'interesse creditorio, nonché ad evitare possibili eventi dannosi”.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che il medico e l’ente sanitario
sono contrattualmente impegnati al risultato dovuto (cfr. Cass. n. 9471 del 19 maggio
2004), quello cioè conseguibile secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione
alle condizioni del paziente, alla abilità tecnica del primo e alla capacità tecnico-
organizzativa del secondo (cfr. Cass., n. 589 del 22 dicembre 1999 e n. 103 dell’8 gennaio
1999). Il normale esito della prestazione dipende allora da una pluralità di fattori, quali il
tipo di patologia, le condizioni generali del paziente, lo stato della tecnica e delle
conoscenze scientifiche (stato dell’arte), l’organizzazione dei mezzi adeguati per il
raggiungimento degli obiettivi in condizioni di normalità, ecc..
Di conseguenza, la diligenza del professionista, o la difficoltà di un intervento, vanno
valutate in concreto, rapportandole al livello di specializzazione del professionista e alle
strutture tecniche a sua disposizione, sicché il medesimo deve, da un canto, valutare con
prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza professionale, ricorrendo anche
all'ausilio di un consulto (se la situazione non è così urgente da sconsigliarlo), e, dall’altro,
deve adottare tutte le misure volte ad ovviare alle carenze strutturali ed organizzative
incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell'intervento, e laddove ciò non sia
possibile, deve informare il paziente, eventualmente consigliandogli, se manca
l’urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea (cfr. Cass. n. 12273 del 5
luglio 2004, n. 11316 del 21 luglio 2003 e n. 6318 del 16 maggio 2000).
Tale orientamento della giurisprudenza civile in ordine al contenuto dell’obbligazione
professionale del sanitario ed al grado di diligenza, trova ulteriore corollario nella
posizione della giurisprudenza di questa Corte, altrettanto univoca nel definire, nel più
specifico ambito della responsabilità amministrativa in campo medico, il concetto di colpa
grave.
Significative appaiono, in proposito, le affermazioni – alle quali questo Collegio ritiene di
aderire – secondo cui (Sez. III° n. 662/2005) “Ai fini dell’individuazione del grado di
colpevolezza, il Giudice contabile non può e non deve valutare il rapporto in contestazione
alla stregua di immutabili canoni prefissati, non rinvenibili peraltro in alcuna norma dettata
al riguardo; egli deve invece prefigurare, nel concreto, l'insieme dei doveri connessi
all'esercizio delle funzioni cui l'agente è preposto, attraverso un'indagine che tenga conto
dell'organizzazione amministrativa nel suo complesso e delle finalità da perseguire, alla
luce di parametri di riferimento da porsi come limite negativo di tollerabilità, potendosi
ritenere realizzata una ipotesi di colpa grave ove la condotta posta in essere se ne discosti
notevolmente. In definitiva, con particolare riferimento alle attività materiali, quale appunto
quella tipicamente sanitaria, la condotta può essere valutata come gravemente colposa
allorché il comportamento sia stato del tutto anomalo e inadeguato, tale cioè da costituire
una devianza macroscopica dai canoni di diligenza e perizia tecnica e da collocarsi in
posizione di sostanziale estraneità rispetto al più elementare modello di attività volta alla
realizzazione degli interessi cui i pubblici operatori sono preposti. Ne consegue che, per
configurare un'ipotesi di responsabilità a carico di un medico, non basta che il
comportamento appaia riprovevole in quanto non rispondente in tutto alle regole della
scienza e dell'esperienza, ma è necessario che il sanitario, usando la dovuta diligenza, sia
stato in condizione di prevedere e prevenire l'evento verificatosi: perché quindi possa
parlarsi di colpa grave occorre accertare che si siano verificati errori non scusabili per la
loro grossolanità o l'assenza delle cognizioni fondamentali attinenti alla professione, ov-
vero abbia difettato quel minimo di perizia tecnica che non deve mai mancare in chi eser-
cita la professione medica, oppure vi sia stata ogni altra imprudenza che dimostri
superficialità e disinteresse per i beni primari affidati alle cure di tali prestatori d'opera”.
Tanto premesso, pur a voler accogliere la tesi del convenuto per la quale l’incauta
manovra lesiva venne materialmente posta in essere esclusivamente dal “primo chirurgo”,
il Collegio deve effettivamente rilevare la grave imperizia del Dott. D. F. nel non essere
intervenuto prontamente al momento dell’esecuzione di tale atto operatorio, cercando
perlomeno di limitare i danni conseguenti alla stessa, ovvero di soccorrere la paziente con
suturazione e rimedi chirurgici maggiormente idonei, rispetto a quelli utilizzati, a consentire
il recupero della vascolarizzazione e della funzionalità dell’arto interessato.
Di conseguenza, con tutte le precisazioni innanzi esposte, rebus sic stantibus, il
Collegio rileva che da tutta la documentazione in atti risultano concordi e sufficienti
elementi idonei a provare l’elemento soggettivo della colpa grave in capo al Dott. D. F..
Pertanto per tutte le ragioni sopra esposte l’ipotesi di danno erariale avanzata dalla
Procura deve ritenersi fondata nei sensi innanzi precisati.
Accertata, quindi, la responsabilità del Dott. D. F. nella verificazione del danno, deve
ora essere scrutinato l’apporto concausale alla verificazione dell’evento dannoso (che,
nella sua definitiva e drammatica evoluzione, ha dato luogo all’esborso transattivo) degli
altri soggetti che vi hanno contribuito a vario titolo.
Innanzitutto, il Collegio concorda con la Procura sull’imputazione pari al 50% del danno
complessivo (€ 180.000,00) al Dott. (Omissis) (Omissis) nelle more dell’avvio dell’azione
di responsabilità) nella sua qualità di primo chirurgo dell’équipe medica che ha operato la
Sig.ra (Omissis).
Indubbiamente, va altresì riconosciuta un’autonoma efficienza causale alla condotta del
personale medico e paramedico, non individuato dal Requirente, che ha determinato
quella che i (Omissis) (materiali estensori di un parere medico-legale sul caso di specie,
valorizzato nell’atto di citazione della Procura - cfr. all. n. 3 doc. n. 4, e che, in parte qua,
attese la coerenza logica e la correttezza delle valutazioni ivi esposte sulla base della
documentazione disponibile, viene condiviso dal Collegio) hanno definito come “scadente
gestione della paziente nel post-operatorio” (cfr. pag. 9 della menzionata relazione).
In particolare, tale colpevole condotta, sempre secondo i due medici estensori della
suddetta relazione, va individuata nella:
- “mancata richiesta di esecuzione precoce di una consulenza di chirurgia vascolare,
che avrebbe dovuto essere tassativa essendo stata eseguita una legatura arteriosa
(si tratta peraltro del ramo arterioso principale dell’arto superiore, da cui dipende tutta
l’irrogazione dell’arto stesso). In seguito ad una valutazione chirurgico-vascolare
precoce, cioè subito dopo l’intervento, sarebbe potuta emergere l’inadeguatezza
della legatura e sarebbe quindi stato possibile porvi rimedio.
- Carente controllo delle condizioni dell’arto con chiare ed evidenti difformità tra quanto
riportato nel diario clinico ed il decorso che ha avuto la situazione clinica” (cfr. pag.ne
9 e 10 del parere medico-legale).
Questi, hanno, quindi, evidenziato che:
a) “l’intervento chirurgico con legatura dell’arteria ascellare si è concluso alle ore
(Omissis) dell’(Omissis) ed i primi problemi riscontrati alla mano sn, stando alla
descrizione della cartella clinica, risalgono alle ore (Omissis) del (Omissis).
b) All’ecocolordoppler delle ore 13,15 circa è descritto assenza di flusso arterioso ed
alla successiva visita di chirurgia vascolare eseguita a (Omissis) prima delle ore 17
è stato constatato un arto superiore sinistro in gangrena avanzata con totale deficit
neurologico e con iniziali bolle necrotiche della cute, tale da indurre fin da subito la
prospettiva di amputazione dell’arto.
c) Tale quadro clinico di gangrena avanzata non è compatibile con una occlusione
arteriosa avvenuta poche ore prima (cioè nella mattinata del (Omissis), ma
rappresenta l’esito di una ostruzione arteriosa in atto già da molto tempo, come
minimo risalente alla serata-nottata tra il (Omissis) ed il (Omissis).
d) Addirittura, la paziente è stata inviata a (Omissis) senza documentazione sanitaria e
alla richiesta dei sanitari (Omissis) di avere notizie documentali, è stato risposto da
(Omissis) che non si poteva inviare la cartella clinica per “direttive interne”. In tutta
franchezza, non siamo in grado di cogliere quali direttive interne potessero
costituire ostacolo alla trasmissione di documenti che erano necessari per prendere
la decisione di amputare o meno l’arto!”.
Di conseguenza, sulla base delle considerazioni sopra esposte, il Collegio ritiene che
sia da addebitare al personale medico e paramedico responsabile delle colpevoli condotte
post-operatorie sopra descritte una quota equitativamente quantificabile nel 25% del
danno complessivo in trattazione (€ 80.000,00). Tale quota di danno dovrà restare a carico
della collettività, stante la mancata evocazione in giudizio dei presunti responsabili.
In definitiva, quindi, anche alla stregua delle suddette considerazioni in ordine alla
valutazione delle corresponsabilità, il danno arrecato all’Azienda Ospedaliera “(Omissis)”
di (Omissis), può essere equitativamente determinato come riferibile alla condotta del
convenuto nella percentuale del 25% del danno complessivo (€ 80.000,00), tenuto conto
della misura dell’apporto causale, come fin qui specificato, di altri soggetti coinvolti a vario
titolo nella vicenda in esame.
Peraltro, in ordine alla quantificazione definitiva del danno addebitabile al convenuto, il
Collegio rileva di dover comunque tener debitamente conto sia del fatto che
indubbiamente il ruolo del D. F. nel gruppo di lavoro non era verticistico (svolgendo egli la
funzione di “altro chirurgo”), sia della circostanza che, comunque, nella cartella clinica era
stata chiaramente riportata la descrizione del trauma vascolare riportato dalla paziente,
sicché erano state correttamente e tempestivamente fornite al personale medico e
paramedico competente per il decorso post-operatorio, chiare indicazioni sulla presenza
della lesione dell’arteria ascellare nonché sulla legatura della stessa, che avrebbero
richiesto un ben più elevato livello di vigilanza e di monitoraggio della regolarità della
vascolarizzazione dell’arto della paziente interessato da detto trauma operatorio, al fine di
prevenire quelle gravissime complicazioni, poi rapidamente e derivativamente insorte, con
tutta la drammaticità risultante in atti (amputazione dell’arto).
Pertanto, il Collegio ritiene di dover definitivamente quantificare il danno causato dalla
condotta gravemente imperita del Dott. D. F. in euro 50.000.00 (euro cinquantamila//00);
importo da intendersi comprensivo di rivalutazione monetaria, oltre interessi calcolati a
decorrere dalla data di deposito della sentenza e sino al saldo effettivo.
La condanna alle spese segue la soccombenza.
P. Q. M.
La Corte, definitivamente pronunciando, respinta e disattesa, rebus sic stantibus, ogni
altra istanza, richiesta, eccezione e deduzione, condanna il Dott. D. F. al risarcimento, in
favore dell’Azienda Ospedaliera “(Omissis)” di (Omissis), della somma complessiva di
euro 50.000,00 (cinquantamila//00); importo da intendersi comprensivo di rivalutazione
monetaria, oltre interessi calcolati a decorrere dalla data di deposito della sentenza e sino
al saldo effettivo.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in euro
402,93 (quattrocentodue/93).
Così deciso in Milano, nella camera di consiglio del 5 dicembre 2017.
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Eugenio Madeo Silvano Di Salvo
Depositata in Segreteria il
IL DIRIGENTE
Il Collegio, ravvisati gli estremi per l’applicazione dell’art. 52 del D.Lgs. 30.6.2003, n.196,
DISPONE
ai sensi dell’art.52, d.lgs. n.196 del 2003, che in caso di diffusione della sentenza in
qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti
elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, si omettano le generalità e gli altri
dati identificativi del convenuto e di altri soggetti nominativamente indicati in sentenza.
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Eugenio Madeo Silvano Di Salvo