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Guglielmo Orlandi appunti di Dialettologia italiana tratti dal corso di Dialettologia italiana del prof. Alberto Zamboni presso la facoltà di Lettere dell'Università di Padova nell’anno accademico 1989/1990

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Guglielmo Orlandi

appunti di Dialettologia italiana

tratti dal corso di Dialettologia italiana del prof. Alberto Zamboni presso la facoltà di Lettere dell 'Università di Padova nell’anno accademico 1989/1990

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martedì 13 novembre 1989

Presentazione

Il dialetto non è una realtà specifica ed univoca, un privilegio che l'Italia non condivida con altri Paesi. È legato al concetto di varietà e variazione linguistica (due aspetti di una stessa realtà). L'esperienza centrale dell'uomo è questa possibilità espressiva:

Gli animali non parlano (ma ci sono vari indirizzi di studio che cercano di scoprirlo: il

linguaggio del pensiero è ragionamento e conoscenza, doppiamente articolato). La realtà dei fatti è complicata: l'uomo parla, ma lo strumento che usa per questo non è univoco né immutabile (a livello di tempo, spazio, struttura della società). Esistono dei modelli comuni di riferimento (= lingua), ma all'interno di questi vi sono molte sottovarietà che riguardano l'ambito d'uso: diverse scelte di comportamento linguistico a seconda della situazione o mu-tamento di scelta in seguito a spostamento geografico. Vi sono poi lingue estinte per fatti storici o lingue nate da poco, per evoluzione da lingue precedenti o per incontro, sovrappo-sizione e selezione di diverse esperienze linguistiche. E ancora, lingue artificiali create a ta-volino (che non vengono però parlate perché non sono mai L1).

L'uomo non si esprime in modo fondamentalmente identico nel tempo e nello spazio. La variazione di una lingua è la potenzialità di cambiamento, sia che si realizzi sia che lo possa (eventualmente) fare. I sistemi linguistici sono sempre esposti alla variazione, non sono statici. I casi di staticità si verificano eccezionalmente. In genere il grado di dinami-smo è molto forte (specie nelle società storicamente molto agitate, con molti movimenti di popolazione...). Del resto le comunità organizzate possono "migliorarsi", progredire solo con la comunicazione.

Anche molti animali hanno società organizzate, ma la loro comunicazione è chiusa, condizionata biologicamente (un'ape, un ragno, si comportano da sempre e si comporteran-no sempre nello stesso modo) mentre il linguaggio umano è progressivo perché è un fatto creativo.

Fra le varietà di una lingua troviamo delle varietà particolari, che storicamente (secon-do cioè la communis opinio) e scientificamente, si chiamano dialetti. L'oggetto di osserva-zione non è lo stesso dal punto di vista scientifico e storico: cambia lo spirito e il metodo. La scienza formula delle ipotesi e teorie che cerca di supportare e convalidare con l'osser-vazione dei fatti e la ricerca oggettiva.

Il concetto di dialetto è complesso e contraddittorio, perché indica come referente una varietà linguistica che non può essere còlta da un punto di vista univoco, in quanto non è comprensibile solo attraverso lo strumento linguistico proprio: è infatti un fatto storico e sociale, e non si può prescindere da quelle limitazioni che caratterizzano la storia dell'uo-mo. Il dialetto non è scindibile dalla realtà del soggetto che lo produce. Bisogna riferirsi a costanti specifiche, storiche e sociali in cui è inserito.

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mercoledì 14 novembre 1989

Nozione di dialetto

Come identificazione specifica del concetto di varietà linguistica caratteristica di ogni lingua è la variabilità associata alla varietà di fatto (tempo, luogo e sociale). La lingua è le-gata anche a fatti individuali.

Variabilità: dato incontestabile dell'uomo. Varietà linguistica su cui si basa la dialetto-logia: che studia i modi con cui si manifesta la varietà.

Origine: la dialettologia italiana nasce nella seconda metà dell'Ottocento. Nel 1873 Graziadio Isaia Ascoli pubblicò il primo volume della rivista Archivio Glottologico Italia-no (AGI) che conteneva i famosi Saggi Ladini: analisi classica dei dialetti neolatini (base storica nel latino), che lui chiamava ladini, i dialetti che sono ancora parlati nel Cantone dei Grigioni, nelle Dolomiti centrali (val Badia, Gardena, Fassa), nel Cadore e nel Friuli.

Vi sono poi altri lavori accanto a quello di Ascoli. In questi anni Ascoli, che aveva ope-rato nel campo della fonologia indoeuropea, prendeva in esame parlate non più morte, ma viventi, applicando i criteri di analisi e confronto utilizzati in lingue morte, trasmesse filo-logicamente come il sanscrito, ecc.

Friedrich Diez, fondatore della linguistica romanza, aveva applicato il criterio di con-fronto, di comparazione negli anni 1850/60, codificando il metodo applicato al latino e ciò che si intende per linguistica romanza (grammatica storica delle lingue romanze: spagnolo, portoghese, rumeno, provenzale, italiano, francese). Ne classifica sei.

Ascoli applica una derivazione di questo metodo su parlate che non sono lingue, ma dialetti. È un metodo comparativo: mezzo valido. Egli dimostra l'unitarietà delle parlate in base a indici di corrispondenza, determinando una certa autonomia di questo ramo rivalu-tando i dialetti. Scopo della dialettologia è occuparsi di parlate vive, con materiali reperiti in modo originale e diretto di parlate che hanno un rango sociologico-culturale secondario, sottoposte culturalmente al ramo principale o sottoposte sistematicamente.

Diacronicamente non sono sistemi autonomi. Hanno in sé caratteri della lingua origina-le. Ascoli si occupò di lingue vive e con materiali reperiti per l'occasione: materiali di "pri-ma". Definì la loro autonomia e disse che quel sistema di comparazione poteva essere ap-plicato a qualsiasi dialetto d'Italia. Le situazioni storiche e attuali non sono paragonabili, però in tutti questi paesi esiste una lingua: quella del paese (in realtà, se per nazione inten-diamo comunità di individui che hanno in comune lingua, storia, struttura, non possiamo dire lingua di nazione per l'Italia). Ma il territorio è venato anche da tante varietà che sono locali, più che sociali. La situazione dell'Italia è però diversa da quella della Francia, ecc.

Lo stato che ha una situazione abnorme di diversificazione è l'Italia. Essa presenta per ragioni storiche il grado più complicato di evoluzione e più difforme. Il mondo neolatino è diviso in settori che linguisticamente si comportano diversamente: alcuni di questi confini tagliano l'Italia. Il più importante è il crinale appenninico o la linea gotica. La prima grande separazione di comodo è la separazione tra Italia centrale e meridionale. Ma linguistica-mente il vero taglio è tra nord e centrosud. Non vi sono tagli così netti in altri paesi neolati-ni. La Francia oppone due dialetti: francese - provenzale, ma che fanno parte dello stesso nucleo della latinità. La Romanìa: tre o quattro lingue, rumeno di Romania e altre entità di-sperse. Già all'interno della Romania si dimostrano queste differenze. Anche in Germania

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vi sono differenze forti, a metà tra la Francia e l'Italia. Si instaura un diverso rapporto tra lingua e dialetto (come entità subordinate).

Diverso è il grado di bilinguismo e diglossia. Situazione storica: uno dei motivi più im-portanti che muove allo studio è la filologia, che si occupa di testi, ovvero manifestazioni scritte (in ciò si oppone alla dialettologia italiana). Nella dialettologia occorreva andare sul posto. La filologia si occupa di ciò che è scritto e con intenti letterari. I testi sono antichi. Si cerca di ricomporre il patrimonio storico-culturale di un paese. Quando gli studiosi guarda-no i testi, essi si accorgono che questi non sono scritti in una lingua uniforme e comune.

In Italia la grammatica nel medioevo è il latino. In seguito si scrive nella lingua del luogo, in lingua volgare, del popolo. Questi documenti sono scritti in dialetti, non in italia-no. Solo Dante si era posto il problema di unificare l'Italia politicamente, culturalmente e linguisticamente: voleva una sola lingua che fosse aulica, illustre e curiale. Ma quando pas-sa alla pratica scrivendo la Commedia non pensa di scrivere in una lingua che sarà da mo-dello per i posteri. Lui voleva scriverla, o credeva di scrivere, in una lingua umile, non illu-stre. Dante è il primo dialettologo.

Nel De Vulgari eloquentia egli distingue i vari dialetti, ma non perché avesse interessi dialettologici. Fa solo un rassegna letteraria regionale (14 distinzioni). “Sono caratteristiche municipali che devono essere escluse dall'ideale di lingua italiana”, dice lui. All'origine non esiste un italiano, ma solo dialetti studiati come tali filologicamente. Questi dialetti italiani sono dei sistemi notevolmente autonomi, notevoli dal punto di vista storico.

L'Italia ha avuto fenomeni di vita municipale molto protratti nel tempo. Molti dialetti italiani sono come lingue non solo per la loro autonomia storica, ma anche letteraria.

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lunedì 20 novembre 1989 (da registrazione magnetica)

Definizione di lingua e di dialetto

Nel momento in cui la dialettologia arriva a certi livelli diventa autonoma. I lavori di

Ascoli rappresentano dei momenti molto importanti. Nascono i problemi dei rapporti delle società dei parlanti. Le società dei parlanti sono società complesse dal punto di vista lingui-stico.

Lato sociologico della dialettologia

Definizione di dialetto nel senso di varietà linguistica. Italia - Francia - Germania 1° grado - distacco dalla lingua standard 2° grado - giudizio sociale con cui vengono recepite e adoperate Non è possibile dare le definizioni di lingua e di dialetto. Non esistono criteri linguistici

per identificare una definizione di questo genere. Esiste una varietà con prestigio e una sen-za prestigio (che sta sotto). L'unica definizione univoca è di intendere il dialetto come va-rietà linguistica. Allora qualsiasi tipo linguistico è un dialetto. Vi sono società abbastanza omogenee in cui la distinzione tra la lingua e i dialetti è relativamente bassa, dal punto di vista linguistico. In questa situazione i dialetti sono pure varietà della lingua. Sono vernaco-li (forme familiari di linguaggio, forme informali).

L1: Lingua superiore = standard letterario L2: Varietà colloquiale

Le due varietà sono intercomprensibili. Nelle società di questo tipo esiste una diglossia.

Ferguson ha fissato alcuni criteri. Diglossia: identifica la condizione in cui esistono due registri. La società araba per e-

sempio o il greco attuale. Succede che esiste una lingua di livello elevato (arabo coranico) come punto di riferimento (L1). Al di sotto ogni Paese ha il suo arabo corrente, tutti diversi tra di loro, spesso non sono intercomprensibili (L2). L'arabo volgare tende ad assimilare la fascia di L.

La complicazione della diglossia porta al bilinguismo. Per l'italiano ad esempio l'Alto Adige è regione bilingue, dove sono presenti a pari livello socioculturale il gruppo italiano e quello tedesco. Le due lingue convivono sullo stesso piano di parità.

C'è anche il gruppo ladino, che però non è paragonabile al tedesco, né all'italiano. Ma ci sono anche società plurilingui. Nell'area bilingue si ha anche una situazione di diglossia:

- tedesco letterario con tedesco parlato - italiano letterario con italiano parlato

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La popolazione parla dialetti bavaresi e altri dialetti tedeschi. Anche una zona limitata come Bolzano comprende molteplici aspetti linguistici. Per l'italiano non esistono dialetti locali, ma caso mai importati. Sono situazioni di bilinguismo con diglossie. Le parlate re-gionali e locali come il veneto, il lombardo, ecc. non sono varianti dell'italiano (toscano standardizzato), ma sono varietà diverse per ragioni storiche. Sono infatti evoluzioni del la-tino parlato. Ognuna di queste ha tratti morfologici, sintattici, ecc. completamente diversi dall'italiano.

Dove sono presenti, questi strumenti di comunicazione non servono per i messaggi ge-nerali, ma per il livello colloquiale. Non è vero che i dialetti sono corruzioni della lingua. Sono invece varietà autonome. Qualcuna ha avuto dignità di lingua autonoma. Ha avuto manifestazioni letterarie. Non c'è dialetto italiano che non abbia espresso una letteratura propria.

Il dialetto in Italia, a seconda delle regioni può essere adoperato anche in ambiti dove l'interscambio lingua-dialetto è forte. Sono regioni con dialettica linguistica vivace, in cui vige una macrodiglossia. Ci sono regioni in cui lo scambio è molto più rigido, cioè poco interscambio lingua-dialetto, in cui vige lo stato di microdiglossia. Dietro a queste defini-zioni c'è una realtà molto complessa.

Rappresentano gli estremi di una scala con numerosi gradini interni. L'italiano identifi-

ca una forma idealizzata (l'italiano standard, che si insegna a scuola). La lingua scritta e quella parlata sono cose diverse. Chi scrive tende a fare una cosa che non fa quando parla. E questo aspetto è l'italiano:

l'italiano di Dante e l'italiano colloquiale colloquiale dei più colti e quello dei meno colti

L'italiano usato normale è diverso a seconda delle regioni in cui si parla. Mentre quello

scritto diverge poco (da una regione all'altra). I registri linguistici sono quattro.

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martedì 21 novembre 1989

Rapporto lingua-dialetto (anche se sono entità difficilmente definite)

Questo rapporto non è affatto univoco. Esso si stabilisce in modo molto diverso in base

alla struttura e al livello costitutivo. Possono esserci società con storia particolare in cui l'o-pera di penetrazione e unificazione linguistica si è perpetuata per secoli all'interno della so-cietà. Si possono confrontare per esempio due aree romanze: Italia e Francia. La situazione medievale è paragonabile. Sono società con origine non uniforme, linguisticamente.

Francia medievale: vi sono due entità linguistiche: francico e occitanico (a sud). Esse danno origine a due entità letterarie: il provenzale e il carolingio (epica al nord, poesia al sud). Sono due entità non standardizzate, con manifestazioni culturali diverse. Ci sono poi entità specifiche: i dialetti antichi medievali, sia per il ramo francico sia per quello occitani-co o provenzale.

In fase moderna i linguisti hanno definito una terza varietà nell'ambito galloromanzo (Francia - Svizzera francofona). È stato Ascoli che ha identificato in corrispondenza del ba-cino del Rodano il francoprovenzale, che corrisponde all'espansione del regno francobur-gundo. Però, il francoprovenzale è un dialetto creato a tavolino, che non ha dignità lettera-ria. Nella storia successe che l'occitanico crollò come entità politico-culturale perché colo-nizzato dal nord (persecuzioni albigesi, crollo politico del sud).

In epoca moderna la Francia diventa paese monolingue con una caratteristica però di diglossia. Questo viene poi accelerato dalla caratteristica della monarchia francese. La Francia è il primo esempio, in Europa, di monarchia centralizzatrice che elimina i poteri lo-cali: stacco dei nobili dai feudi e sviluppo di una città centrale (Parigi) simbolo di questo potere.

Già nel 1539 l'editto di Villers-Cotterets stabiliva che la lingua ufficiale dovesse essere il francese con valenza parigina (la varietà dell'Île de France è anche oggi la base dello standard francese). Le condizioni della Francia sono di microdiglossia, perché lo scambio linguistico è ristretto. Manca una koiné regionale (L2 è solo locale). L'occitanico nell'Otto-cento viene resuscitato (Mistral): forme intermedie di cultura locale. Ora il francese nazio-nale è ufficiale. Al di sotto esistono parlate locali che hanno usi ristrettissimi: patois che non sono veri e propri dialetti. L'occitanico, in origine lingua letteraria, divenne dialetto lo-cale e perse il suo vigore iniziale.

L'Italia nel medioevo è un coacervo di varietà locali con distanze strutturali molto forti. I linguisti hanno sottolineato che l'Italoromània costituisce una sorta di Romània in miniatu-ra. Vi sono cioè varietà romanze molto differenti tra di loro.

Vi sono quindi già all'origine parlate differenti:

- Italia del nord - Italia del centrosud

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Questa distinzione non basta, perché per esempio nel centrosud vi sono tre o quattro differenze regionali importanti: toscano, mediano, meridionale (come il napoletano), meri-dionale assoluto e insulare (Salento e Sicilia).

La Sardegna ha un gruppo linguistico separato dalla Romània. Corsica: L1 = francese, L2 = dialetto còrso che sta tra il sardo e il toscano. C'è stata un'evoluzione storica che ha contrastato il processo di unificazione linguistica.

L'unificazione dell'Ottocento e i processi di unificazione politica e culturale di un paese povero, non ha eliminato il fatto che l'Italia sia un paese dialettofono. La sua lingua nazio-nale è l'italiano toscano. Ma ciò che è avvenuto culturalmente non è avvenuto economica-mente e socialmente. Il toscano di Dante e Boccaccio è stato favorito in quel momento dalla centralità politica economica di Firenze.

Nell'Ottocento perciò esiste una lingua letteraria per una classe ristretta,

quella culturalmente elevata, ma la lingua non è praticata o scritta comunemente.

C'è poi una forte distinzione fra uso scritto e parlato. C'è una forte esistenza dialettale e di koiné dialettale. Ciò non esiste in Francia, dove non vi sono poeti dialettali. Questo com-porta l'esistenza della questione della lingua. Il francese e l'inglese però non sono fondati sulla varietà trecentesca della parlata, ma su un'evoluzione della lingua. In questi paesi la lingua medievale è difficilmente capibile. In Italia invece un uomo di cultura può tradurre un testo medievale (più simile alla forma moderna) e ciò perché quella lingua è stata la no-stra base linguistica.

Una società omogenea ed equilibrata deve avere una varietà linguistica che non si stac-chi troppo dalla lingua centrale. L'Italia pratica una lingua che nella sua varietà fondamen-tale non ha niente a che fare. Nessuno parla l'italiano toscano.

Il Macchiavelli e il Guicciardini vollero proporre una lingua fiorentina moderna, che non ebbe successo. Vinse la disputa il Bembo (con il fiorentino illustre). Ebbero successo le proposte del Manzoni - nell'Ottocento - e dell'Ascoli. Il Manzoni scrisse il suo romanzo che ha sullo sfondo la contrapposizione tra Francia e Italia. Desideroso di un'Italia unita, di-ce: la Francia ha una lingua di tutti, anche degIi strati più bassi; l'Italia no, ha una lingua ac-cessibile solo ai letterati. Bisogna trovare una lingua che sia lingua di tutti i giorni e lingua letteraria.

Quando si verifica l'unificazione d'Italia, il ministro Broglio dà incarico al Manzoni di fare proposte per l'educazione linguistica nelle scuole. Qual'è la forma dell'italiano su cui l'Italia deve conformarsi? Manzoni dice: vogliamo una lingua vicina ad una varietà parlata. Finora non c'è. Il modello deve essere il fiorentino (NB: non quello del Trecento, ma quello contemporaneo, quello colto dei fiorentini) spogliato dei suoi tratti municipali: il fiorentino dei ceti colti.

Ascoli rispose nel proemio del 1873 - nel primo numero dell'AGI - con altre idee. Egli, ammiratore della cultura germanica, disse che non si poteva buttare una tradizione lingui-stica di secoli. Ma il programma del Manzoni era anche politico. Ascoli dice che la sua po-sizione è antistorica. L'eterogeneità dell'Italia si poteva eliminare diffondendo la cultura il più possibile. Il fiorentino in più non è più il centro dell'Italia, anzi era in decadenza. Le cit-tà potevano essere semmai Roma e Milano. In più si poteva ricadere in un nuovo municipa-lismo. Per esempio: il dizionario della lingua italiana di Giorgini e Broglio: novo (perché

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l'uso del fiorentino corrente ha abolito i dittonghi storici: i dittonghi sono un'evoluzione re-golare del latino). Ascoli dice: non possiamo buttare uo perché bisognerebbe eliminare una tradizione linguistica.

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mercoledì 22 gennaio 1990

Confini dialettali Fatto fondamentale da considerare è quello dei confini dialettali. In genere hanno una

valenza politica. I dialetti sono individualità storiche, sociali. Come si definiscono? Una buona parte dei casi non risponde ad una tipologia rigidamente scaglionata. Nel

caso di una catena di montagne è possibile che da una parte si parli una lingua, dall'altra u-n'altra. Perché all'interno di una grande comunità ciò non avviene. Per esempio il veneto.

Identificano un tipo astratto, ma nascondono una realtà ben più complessa (sottotipi e subdialetti regionali) e al di sotto ancora di questi sottotipi, altri sottotipi che distinguono i grossi centri. Quali sono i confini tra questi sottotipi? Sul piano storico è difficile distingue-re un limite di passaggio da un modo linguistico ad un altro. Non si può per esempio stabili-re con precisione quando è cessato il latino e quando è iniziato l'italiano.

Schema della lingua madre

Le disposizioni del Concilio di Tours (813) stabilirono la funzione delle lingue roman-

ze. Quel Concilio segnò la percezione ufficiale di una nuova realtà linguistica: la fine di una diglossia e l'inizio di un bilinguismo. Accanto al latino ufficiale si sviluppa una grande serie di L2 di latino, cioè parlate riservate agli usi colloquiali. Quando un Concilio stabilisce che quell'L2 deve essere considerato come autonomo, significa che non vale la diglossia.

Sul piano verticale succede lo stesso: vi sono casi in cui c'è un confine netto (distanza enorme e blocchi geografici). Esempio, la Germania è un'area caratterizzata da uno scarto tra l'area settentrionale e quella centromeridionale. Il tedesco deriva dall'evoluzione fatta da Lutero (sua traduzione della Bibbia) e si fonda su varietà meridionali con correzioni. Ma la Germania è divisa da una linea orizzontale: l'area centrosud (alto tedesca) e l'area setten-trionale (basso tedesca). Alto per la Germania è il sud, perché montagnoso, basso è il nord, perché pianeggiante. Il consonantismo del sud è pf, ts, ks e il consonantismo del nord è p, t, k. Inglese ten, tedesco zehn.

Il moderno olandese e fiammingo: qui si parlano dialetti simili, che per alcuni sono det-ti dialetti tedeschi e quelli più a ovest sono dialetti olandesi. C'è una situazione di continuum, il passaggio tra le due varietà è cioè breve, quasi insensibile. Non sono due va-rietà linguistiche completamente estranee o opposte. Le varietà linguistiche locali sfumano con pochi lineamenti l'una sull'altra. Usando indici linguistici sono lingue, usando indici culturali sono dialetti.

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(x e y sono due varietà nettamente distinte)

Tra x e y c'è uno sfumare insensibile, linguisticamente non contrassegnabile da scarti

netti. Gli indici possono essere o culturali o di altro tipo. Altra contrapposizione è tra due linguisti: Ascoli e i romanisti francesi Paul Meyer e Gaston Paris, educati in una scuola po-sitivista. I romanisti presero in considerazione tutta la Romània continua, area dove il latino ha avuto continuità storica. La Romània desicta (separata) è la Romanìa. La Romània per-duta è l'Africa, dove c'è stata la vincita dell'arabo. La Romània continua è la nostra.

Meyer e Paris dicevano: se prendiamo due varietà estreme - per esempio il rumeno e il portoghese - esse si connotano diverse e distinte. Perché spesso tra di loro si vede che si può passare in maniera quasi insensibile. Per esempio tra il piemontese e il provenzale vi è una zona intermedia in cui non si distingue bene né il piemontese, né il provenzale.

I due stabilirono una conclusione drastica: non esistono confini dialettali, ma esiste una Romània continua. Ci possono essere confini relativi ai singoli fenomeni. L'atlante lin-guistico tedesco volle controllare le varietà linguistiche tedesche e vide che le linee orizzon-tali tra il consonantismo del sud e del nord in qualche parte corre omogeneamente, ma vici-no al Reno la linea si spezza in tante sottolinee: il cosiddetto ventaglio renano:

Ciò significa che in una linea si distingue una sola differenza, ma non le altre, cioè sono

dialetti misti. Perciò prendendo i fenomeni nella loro globalità - e non fenomeno per fe-nomeno - non si può stabilire una linea precisa. Ascoli dice che le distinzioni dialettali si devono fare, sulla base dell'occorrenza contemporanea, su un certo numero di tratti caratte-ristici (esito per esempio della i breve del latino ecc.). Lui non crede di trovare tratti origi-nali, cioè assolutamente diversi. I tratti possono essere comuni, ma quello che deve diversi-ficare e basta ad identificare il tipo linguistico è la diversa composizione.

Lingue miste: franche, pidgin e creole (cioè forme linguistiche nate in casi di espan-sione coloniale). Nel caso degli schiavi le lingue originarie sono andate perdute. Sono for-me semplificate su base europea. Creoli francesi, creoli inglesi, ecc. per la loro lessicologia. Molte di queste varietà linguistiche franche sono diventate lingua madre e diventano pi-dgin. Pidgin è una forma linguistica istituita a scopo economico e di commercio. Sono for-me intermedie, stabilite per specifiche finalità commerciali, ecc. Nel momento in cui queste

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lingue assurgono a un livello superiore diventano lingue madre e quindi pidgin. La morfo-logia è del luogo.

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lunedì 27 novembre 1989 (da registrazione magnetica)

Classificazione dei dialetti italiani

- Possibilità - Criteri - Limiti dei criteri - Tipi di classificazione Considerazioni generali:

- concetto di dialetto come varietà di uno standard - dialetto come varietà specifica

Prendiamo in esame i dialetti in quanto entità specifiche, come continuazioni ininterrot-

te, con tutte le variazioni del latino parlato. Sono varietà neolatine. Nella loro essenza fon-damentale sono punti finali di una evoluzione rettilinea dall'età antica fino ai nostri giorni. Continuazione autonoma del latino.

Livello del latino:

- che tipo di latino continuano? - che rapporto c'è?

Si dice che le lingue romanze (dialetti) sono continuazioni del latino, ma non del latino

letterario. Il latino parlato doveva essere distante rispetto alla norma codificata. I testi di Cesare, di Cicerone, ecc. non rispecchiano la lingua parlata. Non conosciamo qual'era il la-tino parlato tutti i giorni. Molte parole latine si sono evocate per via comparativa. Ci sono nelle lingue romanze parole che risalgono al latino. È più facile che un elemento venga per-duto per strada, che non acquisito. Il latino è una lingua che ha secoli di vita. Lo conoscia-mo male nella sua fase arcaica. Prima del II/III secolo a. C. non abbiamo una documenta-zione consistente. Il latino arcaico ha caratteristiche molto diverse dal latino classico, che rappresenta una forte evoluzione. Plauto - in epoca arcaica - è senza modelli letterari. La commedia in sé porta elementi volgari. È evidente che nell'epoca aurea c'era senz'altro una diglossia: il latino scritto doveva essere diverso dal latino parlato.

1° problema: espansione enorme del latino (da lingua di pastori a lingua di tutti, nel set-

tore occidentale). Il latino è il risultato dell'espansione geografica. Il processo dura secoli. In sostanza

quando parliamo del latino volgare dobbiamo considerare il parlato dei romani, dei provin-ciali, ecc.

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Sottintendiamo il latino colloquiale e abbastanza tardo (epoca imperiale). Sappiamo che nei primi secoli dell'impero sono testimoniate forti mutazioni. Abbiamo testi non letterari che forniscono i volgarismi latini. Quattro epigrafi sono documenti ufficiali e non ufficiali con testi occasionali. Come le iscrizioni pompeiane. Pompei ci rappresenta una realtà viva e pietrificata. I reperti archeologici sono pieni di iscrizioni occasionali, che ci trasmettono forme latine molto lontane. Nel momento in cui s'impone il cristianesimo, continuano ad avere larghi documenti privati. Questi documenti sono largamente infiltrati da volgarismi.

C'è un forte stacco - un cambio di cultura - con l'avvento del cristianesimo. C'è una ri-voluzione linguistica. Rallentando i controlli emergono dei fatti. I testi scritti sono molto lontani dal latino classico.

Come schematizzare le grandi differenze linguistiche tra il latino e il neolatino? Il lati-no classico è una lingua che ha ancora una struttura riconoscibile, conserva ancora abba-stanza bene i tratti delle lingue indoeuropee:

- Soggetto Oggetto Verbo (a sinistra) - morfologia casuale - fonologia arcaica Le lingue romanze - oggi - sono lingue:

- con costruzione a destra (Sogg Ver Ogg) - senza morfologia casuale - fonologia evoluta Queste sono idealizzazioni dei dati. Il sistema vocalico del latino sembra conservare un

principio di tipo quantitativo. Le vocali si distinguono in due serie: brevi: ĭ, ĕ, ă, ŏ, ŭ, lunghe: ī, ē, ā, ō, ū,

più i dittonghi (sequenze vocaliche) ai, au, ecc. Una vocale può essere breve o lunga in qualsiasi contesto. Questo fa sì che il latino ab-

bia forte rilevanza di ordine morfologico: rosă, rosā. Lo schema quantitativo è stato soppiantato dallo schema qualitativo. Vuol dire che

quel tratto correlativo che caratterizza il vocalismo è andato perduto. Non esistono più vo-cali brevi che si oppongono a vocali lunghe nel latino parlato.

Si è sostituito il sistema basato sul timbro (o qualità): ī, ĭ, ē, ĕ, ā, ă, ŏ, ō, ŭ, ū, in cui le differenze di quantità sono cadute, si sono affermate delle differenze di timbro. La a (breve e lunga) latina è diventata a nel romanzo, ū > u, ī > i. Le vocali medie lunghe erano asso-ciate a una pronuncia chiusa: ē > e chiusa, ō > o chiusa. Le vocali medie brevi avevano as-sociato un timbro aperto: ĕ > e aperta, ŏ > o aperta. Il latino parlato dovrebbe avere 7 tim-bri distintivi.

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martedì 28 novembre 1989 In latino, al tratto quantitativo era associato (si pensa) quello di tensione o rilassamento: - tensione: innalzamento della lingua, quindi chiusura - rilassamento: abbassamento della lingua, quindi apertura Questo spiega perché le vocali mantengono i loro timbri fondamentali. La i rilassata

(timbro intermedio) si viene a confondere con e. L’esito vocalico latino è diverso a seconda delle condizioni sillabiche. In termini neo-

grammatici questa condizione era stata vista in maniera imperfetta; meglio in termini strut-turalistici e ancor meglio con le nuove teorie, teoricamente e descrittivamente. Si pensa che gli esiti siano legati alla consistenza e struttura della sillaba.

Struttura sillabica aperta e chiusa: CV e CVC e più o meno occorrenza dell’accento. Sono più importanti le sillabe accentate = CV (- V:). Sillaba aperta con apice accentuale. La vocale (e sillaba) è più forte delle altre e contrassegnata con caratteri di prominenza anche quantitativamente: è più lunga (questo anche secondo principi di isocronia, tempo di durata: come peso, una sillaba di questo genere equivale a una sillaba chiusa, vale 2).

Le vocali in posizione forte allungata subiscono un processo di allungamento che in al-cuni di essi producono fenomeni di superficie.

i u ei/e o/ou

j/ ò/wò a

i = massima chiusura, anteriore u = massima chiusura, posteriore con arrotondamento, labiale a, i, u sono vocali estreme, restano più o meno le stesse All’interno delle lingue e dialetti romanzi abbiamo l’anteriorizzazione di a tonica aper-

ta: si palatalizza e passa a e (Francia), a: > ae > e aperta. Questo c’è in molti dialetti italia-ni. In realtà i segni più interessati dal fenomeno di allungamento, e quindi della dittonga-zione, sono gli intermedi e in particolare i mediobassi, e aperta e o aperta, che danno origi-ne a iè, uò (in sillaba libera). È molto discussa però l’origine dei dittonghi. C’è una teoria che parla di condizionamenti metafonetici, un’altra parla di condizionamenti naturali.

Gli elementi chiusi danno origine a dittonghi veri molto limitatamente nella Romània (non accade né in latino arcaico né in toscano): e, o > ei, ou. In linea di massima le gram-matiche storiche tradizionali citano i 7 elementi con i 2 dittonghi: es. PES, PEDIS, accusa-tivo PEDEM, viene poi generalizzato come caso unico (vi sono casi marginali in cui si con-tinua il nominativo latino).

Toscano pjede, dittongo originario che poi viene modificato ed evoluto diversamente o retratto (si torna ad è) o viene chiuso: piede, come in veneto pjè. In veneziano c’è stato l’arretramento dell’accento: PEDEM > pìe; SEX > veneziano sìe.

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Idem per BONUS: il veneto ha restituito quasi sempre esiti chiusi. In toscano è stato e-liminato il dittongo. Focolare non è dittongo, perché non è sillaba tonica, idem per PE-DEM. La dittongazione non scatta se la sillaba è chiusa:

- [ε] festa, ferro non è dittongato, ma in spagnolo sì - [O] forte, non è dittongato, ma in spagnolo sì Inoltre esiti dei dittonghi latini verso monottonghi: AE > e, AU > o. Sono sottoposti a

monottongazione, diventano vocale unica: AE già in epoca arcaica diventa e, AU talora e-volve, talora no. AU ha una storia complicata. C’è la dittongazione arcaica neolatina che lo fa diventare una o. Altrimenti subisce un’ulteriore dittongazione posteriore (quando si è già perso il sistema quantitativo) e diventa o aperta: AURU(M) > it. òro (o aperta). Questa se-conda trasformazione però non è generale. Molte aree neolatine conservano au o lo risol-vono, modificano tardi o lo restituiscono (questo è legato alle condizioni generali del voca-lismo).

Un’ulteriore differenziazione da fare, in termini non di latino volgare, ma di grammati-ca storica già evoluta delle lingue neolatine: opposizione fondamentate fra condizioni forti e deboli. Le forti sono date principalmente da condizionamenti sillabici (cfr. sopra), occor-renza di sillaba aperta e concorrenza dell’accento, ma in genere la condizione primaria, anche se non unica, è l’occorrenza dell’accento: forti le toniche e generalmente deboli le a-tone. Si parla delle vocali atone, ma è generalizzazione strumentale, in quanto non esistono sillabe senza accento, né manifestazioni senza tratti sovrasegmentali (ne esistono solo di più o meno accentate).

Atono = debole (l’etimologia vorrebbe dire senza tono). Circa le sillabe: il discorso è semplice se le parole hanno una sola sillaba o il segmento consta di due sillabe (forte, oppo-sta a debole). Il discorso si fa complesso se il numero delle sillabe è maggiore di due. Si in-staura la necessità di controllare le sillabe con gerarchie più o meno deboli. Una sola è forte (ma non è proprio vero). Per esempio CVCVCV: è più complicato il tipo CVCVCV che gli altri due, CVCVCV e CVCVCV. In CVCVCV la prima vocale (e sillaba) porta l’accento: subito dopo un massimo di altezza, c’è un massimo di depressione. La sillaba finale sarà pronunciata intermedia. In molte lingue romanze scatta il fenomeno e all’estremo si ha una sincope, cioè cancellazione sillabica.

L’italiano ha effetti meno distruttivi, sistemi morfofonematici più semplici. Se le sillabe sono deboli non restano così, cioè se sono aperte sono sottoposte a chiusura. Certi condi-zionamenti valgono in sillaba tonica, ma non aperta: còlle-collìna. C’è gerarchia di debo-lezza che privilegia certe sillabe. In sillaba atona le opposizioni o ~ ò, e ~ è si neutralizzano. Ancora di più in sequenze di più di tre sillabe: telèfonámelo, questa parola è strutturata con accenti secondari.

L’occorrenza dell’accento ha conseguenze fonologiche, nell’evoluzione dei termini, specifiche. Vi è una serie di parlate romanze (cosa mai considerata, o male) con evoluzioni piuttosto drastiche. Il nostro punto di riferimento è quello del toscano. Molte di queste va-rietà enfatizzano in modo drastico le conseguenze morfofonematiche. Dove c’è peso di ac-cento con vocale chiusa ci possono essere proprio distruzioni. Particolari effetti di debolez-za generalizzata: importante la sillaba finale, ma anche l’iniziale (che risente di particolari condizioni a seconda che la parola sia presa nel contesto isolato o in catena e sequenza).

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Nelle sillabe finali ci sono delle lingue che tendono a conservare le vocali finali ed altre che tendono ad eliminarle. Il toscano dimostra il primo tipo. Così l’italiano, che ha parole che finiscono in vocale o particolari fenomeni come il troncamento (ma è limitato), struttura sil-labica aperta, tipo linguistico con uscite consonantiche e nessi consonantici. Il francese è speculare al toscano. In mezzo, varietà che in parte eliminano, in parte no.

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mercoledì 29 novembre 1989 Lo schema tradizionale è insufficiente a scopi descrittivi e quantitativi. Serve per il la-

tino volgare o protoneolatino, ma in termini molto approssimativi: non prende in esame le possibili opzioni evolutive in ordine ai diversi trattamenti, non solo a livello degli elementi segmentali, ma anche riguardo alle entità teorico-descrittive costituite dall’importante livel-lo superiore della sillaba (cfr. ieri, posizioni topiche, accentata iniziale e finale e in ordine a diversità di trattamento) per i dialetti.

Fatto importante: a seconda dell’incidenza dell’accento e del trattamento delle vocali atone, specie finali, si determinano particolari conseguenze nelle vocali toniche, forti. Vi sono delle aree (partizioni dialettali) dove la differenza fra sillabe forti e deboli è relativa-mente contenuta. Il toscano è un tipo di questo genere (conserva il vocalismo debole anche se lo sottopone a fenomeni di induzione, non grosse sincopi né cadute di vocali finali; strut-tura sillabica tendenzialmente aperta).

Per contrasto, altri tipi romanzi e italiani si comportano diversamente. All’estremo op-posto del toscano c’è il francese (diversità di trattamento fra sillabe forti e deboli, accentua-ta caduta del vocalismo debole e del vocalismo finale). Il corollario dice che all’interno di questi dialetti a trattamento radicale, la sillaba forte viene ad assumere spesso una rilevanza particolare, quindi per una serie di implicazioni è possibile che si sviluppi il tratto della quantità vocalica, il quale assume degli specifici valori di pertinenza.

In linea di massima, nella prima fase di sviluppo neolatino, il tratto di lunghezza-brevità è un correlato della posizione, ma se si determinano altre condizioni (per es. caduta di vocale finale) questo tratto può diventare pertinente. Si nota infatti ricostruttivamente che le parlate di tipo francese e di tipo cisalpino tendono a sviluppare tutte, nella loro prima fa-se, il contrasto tra vocali forti e deboli sottoforma di lunghe e brevi. Attualmente c’è solo una varietà romanza che ha evoluto stabilmente e organicamente, mantenendo largamente questo tratto: il friulano (anche per questo tratto molti parlano di lingua e non di dialetto). Per esempio infatti:

ā ~ ă pa:s ‘pace’ ~ pas ‘passo’ ē ~ ĕ pe:s ‘peso’ ~ pes ‘pesce’ ī ~ ĭ mi:l ‘miele’ ~ mil ‘mille’

Le vocali brevi e rilassate sono un po’ più aperte nella pronuncia, mentre le vocali lun-

ghe e tese sono chiuse. La sillaba forte, tonica e aperta, si allunga e la sillaba chiusa in posi-zione debole resta chiusa. Finché si ha una struttura del tipo associato mi:le-mil(l)e, anche ipotizzando poi l’unificazione delle vocali in seguito ai processi di dittongamento, il fatto che ci sia da una parte la lunga e dall’altra la breve non cambia. Se le vocali finali cadono, il fatto diventa più pertinente.

In tutti gli altri sistemi - primo il francese - questo è retrocesso. Ci sono dei relitti in Ita-lia settentrionale, nei dialetti ladini e nel francese, di questo fatto, ma l’opposizione non è più vitale. L’importanza di questo è che nel neolatino, in un suo settore, si restaura una op-posizione lunga versus breve che però è completamente diversa qualitativamente da quella latina. Quella romanza è legata all’accento, alle diversità di trattamento forte/debole della

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sillaba, ma è possibile solo in quell’ambito, mentre quella latina era puramente quantitativa e la si poteva avere in qualsiasi contesto (cfr. ROSĀ ablativo, ROSĂ nominativo). È legata a tutt’altre condizioni prosodiche e struttura della parola. Però qualcuno (erroneamente) di-ce che in certi tipi di varietà romanze si ha una opposizione quantità/qualità come nel lati-no.

Tornando al consonantismo: in quello neolatino notiamo due tendenze fondamentali, che poi si riducono a una sola: tendenza alla semplificazione sillabica e assimilativa [armo-nizzazione dei punti articolatori: gli incontri consonantici (nessi) sono semplificati. NB - si parla di nessi consonantici primari, poi nelle lingue romanze, specie di tipo francese, se ne reinstaurano molti di nuovi, ma secondari]:

occlusiva + occlusiva pt, kt, ks PT come nesso primario latino è conservato soltanto nel rumeno, il quale unifica PT e

KT sotto pt. L’italiano assimila: OCTO > otto. Il francese palatalizza: huit. Lo spagnolo pa-latalizza completamente: ocho. Il portoghese segue l’esito francese: oito. I dialetti italiani settentrionali hanno il primo esito (veneto, toscano) o il terzo (lombardo). Le strutture silla-biche vengono quindi tendenzialmente semplificate ed aperte. Ci sono altre semplificazioni, per esempio nasale + continua, che attraverso la fase di nasalizzazione passa a continua: ns > s, MENSE(M) > mese > me:se.

Dove non ci sono questi fenomeni, ma sequenze consonante + vocale, la semplifica-zione provoca fenomeni come la palatalizzazione, fenomeno centrale nel tardo latino e nei dialetti romanzi:

o, u sono vocali posteriori, in genere non hanno influenza sulle consonanti a si comporta (con qualche eccezione) come le vocali posteriori e, i sono vocali anteriori, tendono ad anteriorizzare la pronuncia della consonante

verso l’articolazione palatale. L’influenza è specifica. Le consonanti interessate sono le occlusive: p, b - t, d - k, g. Le labiali però non hanno

grandi problemi quando sono seguite da queste consonanti anteriori, in Italia. Analogamen-te le dentali. Per le velari c’è un grosso problema: già in epoca tardolatina le sequenze di questo tipo subiscono un processo di anteriorizzazione. L’esito finale è infatti te, ti, dZe, dZi. Le parlate romanze che conservano o restituiscono l’articolazione velare sono solo il sardo (quello nuorese-logudorese) e in parte il dalmatico.

Altre lingue romanze hanno portato avanti il fenomeno fino a una fase di affricata den-tale tse, tsi, dze, dzi. I dialetti italiani settentrionali e altre parlate hanno addirittura deaffri-cato, riducendole a spiranti, sibilanti se, si, ze, zi. Il tipo veneziano è a quest’ultima fase di sviluppo (cena > sena, gente > zente). Il veneziano si è espanso per prestigio. Ma alcune parti del veneto hanno sviluppato l’interdentale e, i, e, i, specie le varietà rustiche. Nel-lo spagnolo standard l’interdentale è frequentissima.

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lunedì 4 dicembre 1989 (da registrazione magnetica)

Il consonantismo cosiddetto latino volgare rispetto alla struttura consonantica del latino

classico si caratterizza per questi grandi fenomeni di assimilazione e di semplificazione del-la sillaba. Questo non significa che le lingue neolatine attuali rispecchino una certa struttura consonantica. Ci sono state delle evoluzioni posteriori, le quali hanno ricomplicato il qua-dro originario in maniera tale che le lingue romanze si dispongono lungo un asse che ha due punti estremi. Una può essere individuata nel tipo toscano che privilegia strutture sillabiche semplici, quindi consonante più vocale e anche strutture consonantiche semplici. Evita il più possibile scontri consonantici. Esercita forti costrizioni sulla possibilità di creare gruppi di questo genere. Non sono possibili per esempio in toscano, e quindi in italiano, gruppi di occlusiva più occlusiva (a meno che non sia la stessa):

dt non è ammesso tt è ammesso st è ammesso con restrizioni Il fatto che il toscano privilegi una struttura sillabica, fa sì per esempio che le parole e-

scano in vocale. Non sono ammesse uscite consonantiche. L’altro estremo è rappresentato dal francese, il quale ricrea dei gruppi consonantici

molto complessi. Se si confronta il livello grafico del francese con il livello fonico si note-ranno delle differenze abissali. Lo scritto ricalca ancora lo stadio del francese a livello me-dievale trecentesco, mentre il parlato rappresenta l’ulteriore evoluzione fonica.

All’interno di questo quadro i processi fondamentali sono quelli di armonizzazione consonantica, per cui abbiamo larghi fenomeni di palatalizzazione e di assibilazione. Cioè gli influssi potenti sono quelli rappresentati dalle vocali anteriori e, i che tendono a palata-lizzare le consonanti e dalla cosiddetta semivocale o semiconsonante jod, che in realtà è una approssimante palatale (è una consonante dal punto di vista articolatorio), che tende a mo-dificare il punto di articolazione delle consonanti che la precedono, con cui forma gruppo. Per cui i nessi kj, tj, dj, ecc. subiscono modificazioni. Soprattutto subiscono modificazioni i nessi kj > t∫, tj > ts, dando origine a delle affricate.

Il complesso del cosiddetto italoromanzo rappresenta una sorta di area neolatina com-pleta, in cui sono presenti più o meno tutte le tendenze evolutive di tutti i principali tipi neolatini. Il problema che si presenta è un discorso che si trova sulle grammatiche storiche (cfr. Lausberg, Linguistica romanza). È il discorso fondamentale che riguarda il trattamento delle consonanti a seconda della posizione in cui vengono a trovarsi.

Uno dei fenomeni fondamentali riguarda il trattamento delle consonanti in posizione in-tervocalica, o, in termini tecnici, le consonanti tra sonoranti. Termine che indica tutti quegli elementi fonologici che non sono soltanto le vocali, ma sono anche determinate consonanti, che però siano dotate di uno specifico formante vocalico. Termine meno tecnico, ma più diffuso, è sonante. Sono le liquide e le nasali. Laddove ci troviamo di fronte a una sequenza consonante più un certo tipo di vocale, avremo una certa conseguenza. E quando la conso-nante si trova a cadere tra due elementi sonori, scatta il fenomeno di assimilazione, per cui

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la consonante tende ad essere sonorizzata: se non è già sonora, la consonante tende ad adattarsi alle caratteristiche articolatorie del contorno vocalico.

L’articolazione vocalica ha due caratteristiche fondamentali: la sonorità e la continuità. Mentre non tutte le consonanti sono continue. Anzi, un largo settore delle consonanti viene prodotto attraverso un blocco del canale fonoarticolatorio. Sono i cosiddetti stop: le occlu-sive e le affricate. Quando una consonante si trova inserita in un ambiente vocalico, s’innesca un meccanismo naturale per cui questa consonante tende ad assimilarsi. Una con-sonante tende ad adattarsi alle caratteristiche di continuità e di sonorità. Questo processo in origine interessa tutto il latino a livello volgare. Solo che in alcuni settori esso va tanto a-vanti da produrre una vera e propria rivoluzione fonologica. In altre zone viene bloccato. Quando parliamo di questo processo usiamo due termini: lenizione e sonorizzazione.

Lenizione significa rilassato. Indica una particolare articolazione in cui gli organi arti-colatori sono in posizione di relativo rilassamento. In genere tutte le articolazioni sonore, articolazioni consonantiche in cui compaia anche il concorso della voce, sono leni. Cioè non sono particolarmente tese, ma una parte dell’energia va spesa per la produzione della voce e quindi resta minore energia per produrre il rumore consonantico.

Sonorizzazione allude alla presenza o assenza di sonorità. La Romània, intesa come spazio generale in cui si parlano idiomi neolatini, si divide in due settori (questo non viene detto nei libri):

- un settore in cui c’è la sonorizzazione-lenizione - un settore in cui non c’è la sonorizzazione-lenizione Questo problema s’intende solo a livello fonologico, non fonetico. Di solito questo cri-

terio viene scelto per identificare le grandi partizioni all’interno dell’area romanza. Soprat-tutto questo rappresenta la distinzione fondamentale. Questa distinzione, geograficamente, si accompagna alla nozione di ovest verso est. Si parla di Romània occidentale e Romània orientale. La Romània occidentale sarebbe quella interessata dal fenomeno. Quella orientale non è interessata. Possiamo intendere occidentale in buona parte corretto:

Iberoromania (portoghese, spagnolo, catalano) OCCIDENTALE Galloromania (provenzale e francese)

Italoromania (è zona spaccata tra ovest e est)

Balcanoromania (rumeno e dalmatico) ORIENTALE Ovest (dialetti galloromanzi, piemontese, lombar- Italoromania do, emiliano-romagnolo e veneto) Est (centrosud e isole) Questo punto è importante perché si introducono due entità, che nei manuali romanzi

vengono identificate come lingue, piuttosto che come dialetti:

- il ladino sta con l’Italia del nord, il sardo sta con l’Italia del sud, fonologicamente.

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Questo rappresenta una bipartizione che tutti i manuali continuano ad adoperare in modo corretto. Anche se essa dovrebbe essere sottoclassificata in ulteriori sottopartizioni, in rela-zione degli indici strutturali che nelle varie zone avvengono in un certo modo.

Prendiamo i casi più semplici, quelli delle occlusive sorde (p, t, k) e del loro trattamento nelle situazioni di ambiente sonoro, in particolare tra vocali. Succede che queste consonanti poste tra due elementi sonori tendono a diventare continue e sonore. Quando abbiamo que-sta serie realizzata in questo modo abbiamo le sonore leni:

p > b > > v t > d > k > g >

Dal punto di vista fonologico s’intendono ancora come varianti dell’elemento sordo. E

questo è il punto critico, che tutti i dialetti neolatini hanno raggiunto nel corso della loro storia. Alcuni sono rimasti fermi, alcuni sono retrocessi, cioè hanno restituito una pronuncia sorda, altri hanno completamente sonorizzato e addirittura in certi casi hanno spirantizzato. Cioè non soltanto a livello di occlusiva, ma anche di continua:

da p si arriva a v da t si arriva a d e a da k si arriva a g e a

Prendiamo il termine latino parlato *SAPERE (il segno * indica che è una forma rico-

struita). In origine il latino conosceva SAPĔRE (della III coniugazione) nel senso di ‘aver gusto’ e poi nel senso di ‘avere conoscenza’. Il verbo latino che corrisponde al nostro sape-re è SCIRE. Ma la maggior parte delle aree romanze ha spostato il senso e ha inserito il verbo nella seconda coniugazione. Questo verbo è esattamente riflesso dal toscano sapere. Non c’è quasi nessuna differenza. Stessa fonologia. Stesso significato. Se prendiamo fran-cese o spagnolo o italiano settentrionale corrispondenti, noi vediamo che le cose stanno in termini diversi. Non cambia la semantica, non cambia la morfologia, cambia la fonologia, cambia l’aspetto fonetico:

- francese: savoir - spagnolo: saver - veneto: saver - toscano: sapere

Legge fonetica: tutti i suoni che sono in quella condizione si sono trasformati in quel

modo. Infatti all’italiano sapone corrisponde un francese savon, un settentrionale savon o saon. Questo tranne certe eccezioni. Se noi troviamo in dialetto veneto la parola preparar, questo è un italianismo, non può essere un’evoluzione dal latino. La b spagnola intervocali-ca è una spirante bilabiale. Lo spagnolo non ha b. Non ha il corrispondente del labiodentale v, come nel francese, italiano e altri. La grafia spagnola ha due grafemi, i quali non indivi-duano come in italiano due fonemi distinti, ma b e v identificano la stessa realtà fonica. Il fonema è uno solo ed è una bilabiale. E ha due realizzazioni (due allofoni):

b = occlusivo b > = continuo

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L’occlusiva è quella della posizione forte, cioè iniziale postconsonantica e debole è in-vece la bilabiale. Gli spagnoli provano una grandissima difficoltà a pronunciare la v. Gli italiani faticano a pronunciare la . Nel francese e nel veneto v è senz’altro il fonema v. E quindi v del veneto saver è esattamente identificabile con l’elemento dell’aggettivo vero. Però molti dialetti sono a situazioni un po’ diverse. Per esempio lo stesso toscano (fiorenti-no) non pronuncia un elemento intervocalico esattamente in quel modo, ma provoca la spi-rantizzazione (base della gorgia toscana). In realtà i toscani non aspirano, ma spirantizza-no tutte le consonanti occlusive sorde. Questo succede solo in contesto intervocalico.

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martedì 5 dicembre 1989

Tratto fonetico-fonologico che serve come discrimine, confine classificatorio all’inter-no della Romània, separando due grandi tendenze. Questo porta al problema di confine dia-lettale, che si fonda sul concetto basilare di isoglossa, mutuato sui termini della geografia. Adattamento in questo caso non del tutto preciso, in quanto esso rinchiude e delimita l’area in cui si realizza un determinato fenomeno linguistico. Questa linea separa due aree conti-gue caratterizzate da diversi fenomeni linguistici. Il sistema tradizionale, di ascendenza ne-ogrammatica e poi continuato nello strutturalismo e tendenze moderne (generative), si basa sulla preminenza, se non teorica, di fatto, a livello fonologico.

La maggior parte di queste linee, che tracciano confini linguistici di fatto, sono delle i-sofone, determinano cioè l’occorrenza di un fenomeno fonologico contro la mancanza di esso. Queste linee si possono poi tracciare anche per gli altri livelli di descrizione linguisti-ca (fenomeni di carattere morfologico, tratti sintattici e ancora meglio fenomeni di carattere lessicale). Infatti la tradizionale struttura degli strumenti dialettologici di descrizione e ana-lisi viene basata su fonetica e lessico. Morfologia e sintassi restano più a margine, fino alle rivalutazioni odierne. Questo risale alle teorizzazioni ottocentesche della disciplina, quando Diez, che fonda la linguistica romanza e la teorizza, la individua (come ancor oggi in so-stanza è praticata) in base a due strutture fondamentali per lo studio e la classificazione del-le lingue romanze:

1) grammatica storica (in senso neogrammatico) 2) dizionario etimologico Grammatica storica: repertorio che analizza, descrive, identifica i mutamenti crono-

logici da una base x all’esito attuale. La sua base è essenzialmente fonologica. Dizionario etimologico: raccolta del lessico in chiave storica (che risale al latino, diret-

tamente o indirettamente a sostrati precedenti diversi, ad adstrati e superstrati posteriori). Oggi si ricorre agli epigoni di questa opera, per esempio Meyer-Lübke, Lausberg, Rohlfs.

Quando si va ad affrontare una varietà dialettale, che è soprattutto spaziale ed areale, bisogna delimitare aree specifiche. In base a questo e alle connessioni di tratti che possiamo istituire (convergenze di isoglosse-isofone), possiamo identificare delle aree. Questa è la prima fase, quella della ricognizione dell’esistente, a cui poi segue il tentativo di classifica-zione su base interna delle realtà dialettali. Si parte da realtà già predisposte, nel nostro caso sappiamo che certe realtà dialettali esistono, ma si tratterà di verificare in che cosa consista l’identità e la separatezza di quelle realtà e quanto si estendano oggettivamente sul terreno. Il problema si pone in via del tutto metodologico quando si va a indagare un territorio di cui non si sa niente: si raccoglie sul territorio il materiale e poi si costruisce la classificazione.

Il discorso non è assolutamente semplice, per motivi per esempio di carattere intrinse-co. Le tradizionali operazioni neogrammatiche di grammatica storica e definizione areale di isoglosse sono di carattere atomistico e asistematico, in quanto prendono in considerazione un fenomeno fonologico isolato e lo proiettano sull’asse del tempo.

Tipicamente neogrammatica è l’analisi dell’esito del nesso latino k + vocale anteriore (e, i), cioè palatalizzazione. La grammatica storica dice che ci sono rare eccezioni nella

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Romània alla palatalizzazione (solo due settori, cioè dalmatico e parti più conservative del sardo). Il processo porta generalmente a un‘affricata (avanzamento di articolazione, cioè armonizzazione articolatoria e la consonante velare si adatta alle vocali seguenti). Sappia-mo però che anche dove è avvenuto questo fenomeno le cose non sono rimaste uguali, ci sono diversi gradi di questa palatale, che a volte è semplicemente [t∫], in altri casi è un’affricata di tipo avanzato [ty] = ć, in altri abbiamo un’occlusiva palatale [y] = ś.

Non tutte le aree raggiunte dalla palatalizzazione lo hanno poi mantenuto. Molti hanno ulteriormente evoluto l’articolazione: l’affricata da palatale è passata a dentale in certe par-ti, in altre si è avuta deaffricazione che ha prodotto la sibilante costrittiva t∫ > ts > s. CENA > t∫ena in toscano, tsena in italiano settentrionale, sena in veneziano. Stessa trafila ha com-piuto il francese. QUINQUE > KINKUE in latino volgare, > t∫inkwe in toscano e sẽk in francese. Il veneto e altre (spagnolo) ha l’opzione di passare da affricata a interdentale [].

Le isoglosse separano tutte queste forme. Per ogni luogo si riporta la forma basilettale. Questa non tiene conto della rilevanza fonematica dei fenomeni fonetici descritti, cioè del fatto che questi fenomeni rilevati e trasposti sulla carta appartengono al livello dei fonemi (cioè sistema linguistico) o a quello delle varianti (allofoni). Inoltre questo fenomeno di tra-sposizione non tiene conto del sistema generale fonologico di ogni singolo dialetto. Sono registrazioni di singoli punti dalle quali bisogna ricostruire il sistema generale. Ma questo non è sempre possibile da fare, con questi metodi tradizionali di rappresentazione. Un rilie-vo non va fatto dando delle liste casuali di parole, ma liste studiate per ricavare una griglia fondamentale di opposizioni fonologiche distintive da cui ricavare le varianti, studiando an-che il livello di variabilità. Le realtà dialettali non sono omogenee, in ogni realtà di parlanti c’è questo e non coincide con le linee di confine rappresentate dalle isoglosse.

C’è una grande opposizione che definisce due parti della Romània. Una istituisce la fo-nologizzazione [fonologizzare = rendere sistematico] della sonorizzazione delle consonanti sorde (lenizione), l’altra sviluppa sotto vari aspetti questi fenomeni o fenomeni affini quali-tativamente che non sono fonologizzati. Questa linea immaginaria che divide è una fascia di isoglosse, perché è elemento di separazione che risulta dalla concorrenza e talora con-cordanza di molti fatti di questo fenomeno.

Per esempio abbiamo la lenizione: da *SAPĒRE si passa a saver (spagnolo), savoir (francese). Questo interessa, oltre alla labiale, anche la t, la k e le fricative. Il latino RŎTA > toscano ruota (il toscano moderno perde il dittongo, si sviluppa poi la gorgia, per cui si ha l’odierno roa).

I dialetti centromeridionali e il rumeno si comportano più o meno così, salvo il fatto che c’è la variazione consonantica che porta a una certa sonorizzazione al sud. Le aree a le-nizione fonologizzata portano la t a sonora che può essere occlusiva o fricativa, per esempio nel veneziano moderno roda. In altre zone, fase di fricazione, passa a zero, cioè rua. La le-nizione totale avviene in genere nel francese. Italiano coda, veneto coa, francese quelle. La-tino FŎCU > toscano fuoco, veneto fogo-fògo, francese feu, spagnolo fuego. Latino AMI-CUS > toscano amico, veneto amigo, spagnolo amigo, francese ami.

Se avesse senso parlare fino in fondo di confine linguistico occorrerebbe partire dal presupposto che tutti quanti questi tratti corressero lungo lo stesso percorso. Questo avviene nella maggior parte dei casi, ma anche casi di aberranza, cioè l’isoglossa corre in maniera diversa. Anche per questi tratti di questo fenomeno romanzo si possono dare casi del gene-re. Ci sono determinati settori di variabilità che per esempio interessano il toscano: p, t, k (a

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parte la gorgia) dovrebbero restare uguali. Ma abbiamo in italiano (di base toscana) parole come strada < STRATA (versus ruota), ago < ACUS (versus amico), riva < RIPA (versus sapere).

In parte sono eccezioni giustificabili su base areale: aco, ripa sono ben noti in Toscana. Ago e riva sono esiti subregionali all’interno della Toscana, che essendo poi passati attra-verso Firenze, sono diventati base dell’italiano. Ma all’interno della regola toscana, questi costituiscono un’eccezione, perché questa è una regola settentrionale. Grossa discussio-ne sul perché certi settori della Toscana abbiano assunto un certo stock di parole “nordi-che”, più che centromeridionali.

Una regola insomma non è categorica, è variabile, vale per la maggior parte dei casi. Questi esiti (strada, ruota) sono canonici e lessicalizzati (regola variabile) dal punto di vista storico. Ha senso parlare di regola variabile più che altro nel piano sincronico-sociologico (diversità a livello di stili). I dialetti meridionali, a parte il toscano, innescano in origine una semisonorizzazione in fase intervocalica che realizza regolarmente delle consonanti leni semisonore. Questo fenomeno non è fonologizzato (si distingue bene, cioè sorda in posi-zione forte, sonora tra sonanti).

La sonorizzazione avviene al sud in molti contesti, e viene categorizzata per il lessico, per esempio l’opposizione v ~ b che al sud non è molto visibile e ci sono delle forme lessi-calizzate di betacismo:

a vecchia contesto originario intervocalico

e bbecchie contesto originariamente forte (ILLAS rafforza la consonante) In molti casi questo è lessicalizzato: cioè una parola che cominciava per v può essere

stabilmente resa con b e viceversa. Boto (voto), vestia (bestia), boce (voce). Questi esempi ci sono anche nel toscano antico.

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mercoledì 6 dicembre 1989 Nelle grammatiche generalmente il consonantismo è presentato in maniera neogramma-

tica, quindi in maniera atomistica. Nuova luce su fenomeni visti dal punto di vista struttura-listico, non schematico, ma esplicativo e chiarificatore di determinati fatti, che a prima vista possono sembrare complessi. In realtà con trafila diacronica si possono identificare aree ben precise e tendenze particolari. Nel consonantismo il problema dell’opposizione tra aree di lenizione fonologizzata e aree di variazione consonantica è in effetti un tratto fondamentale dal punto di vista della fonologia e sotto vari aspetti è il tratto fondamentale. Abbiamo visto ieri esempi di occorrenza (connessione con la gorgia toscana e altri). È importante chiarire il quadro fonologico fonematico del problema per vedere come, fra queste aree, una ha por-tato fino in fondo una ristrutturazione del consonantismo, l’altra è ancora in fase storica “fluttuante”.

Vedi, per chiarimenti, certi esiti di gorgia e il raddoppiamento fonosintattico: due aspet-ti di una stessa realtà. Vedi condizioni base in cui si manifestano questi fenomeni e si inne-scano (poi continuano o sono bloccati). Il fenomeno riguarda la condizione in cui la conso-nante viene a trovarsi: sonora, tra sonanti o sonoranti. Importante precisare che in origine, secondo le premesse di stampo neogrammatico, uno stesso fenomeno deve sempre verifi-carsi negli stessi contesti (valido al 90%), queste condizioni devono valere senza riguardo a limitazioni di natura morfologica o morfosintattica. Sembrerebbe inizialmente implicito che quel fenomeno avvenisse all’interno della parola e quindi che l’elemento base fosse la paro-la, ma questo non è vero. Non prendiamo come base la parola in senso morfologico, ma fo-nologico, quindi anche quei gruppi (sintagmi) dominati da una stessa configurazione proso-dica - che ricadono cioè sotto lo stesso accento - e in genere dobbiamo prendere in esame qualsiasi fenomeno di natura sintagmatica: *SAPĒRE, base latino volgare, elemento fono-logico esposto a questo fenomeno.

Oltre a questo dobbiamo osservare anche il crearsi di contesti simili, essendo che questi fenomeni nascono nella lingua parlata, cioè da fatti sintagmatici, non paradigmatici. Un contesto simile ci è dato anche dalla sequenza degli elementi pronominali (che poi diventa-no articoli) più il nome: ILLA FEMINA. Sequenza italiana, cioè la donna (l’articolo è ca-tegoria nuova nelle lingue romanze, nasce morfologicamente dall’adattamento di un ele-mento che in latino era pronome e aggettivo dimostrativo, deittico poi defunzionalizzato). Nel caso del femminile, una sequenza di questo tipo determina una particolare situazione sintagmatica, di unione delle due forme linguistiche e una stretta connessione di pronuncia per cui f in questo caso si trova in posizione intervocalica. Mentre in *SAPĒRE, parola a se stante, il fatto è paradigmatico, qui è sintagmatico, esposto a delle variazioni, perché FE-MINA in realtà può comparire da solo, per esempio all’inizio di parola o in un contesto di-verso, per esempio il plurale generalizzato (N-A) ILLAS FEMINAS comporta non più po-sizione intervocalica, ma forte.

I fatti sintagmatici danno origine ad alternarsi di queste posizioni intervocaliche e forti, iniziali e postconsonantiche. In questi casi i possibili sviluppi sono due. In effetti agli inizi delle lingue romanze succede che gli sviluppi, dal punto di vista neogrammatico, rispondo-no organicamente in modo diverso a seconda dei contesti, creando delle condizioni di di-sparità, variabilità all’interno della grammatica. Una f, spirante bilabiale sorda, in posizione

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intersonante tende a convertirsi in v, sonora, mentre in posizione forte tende a restare intat-ta. Queste condizioni di base spiegano il fenomeno delle variazioni consonantiche: a vec-chia > e bbecchie, a femmina > a vimmina.

Come rispondono le parlate neolatine di fronte a questo problema? Le centromeridiona-li più o meno non rispondono, cioè restano a livello di variazione, continuando ad ammette-re nella loro grammatica variazioni di questo tipo. Con una sola consistente eccezione, quella che riguarda l’alternanza v/b in cui gli esiti tendono a essere parificati, ma non più su base fonetica, ma o per blocchi lessicali (ad alcuni termini viene regolarmente assegnato v, indipendentemente dalla loro origine etimologica, ad altri b) oppure per regolarizzazione: o si sceglie sempre uno, o sempre l’altro, a prescindere dalla condizione. Certi termini toscani arcaici (boce, boto) rispondono a una categorizzazione di questo tipo.

Invece in tutto il settore della Romània occidentale (un po’ meno la Spagna) viene fatta una grande opera di regolarizzazione per cui il filtro esercitato dai parlanti stabilisce una diversità di trattamento fra la posizione all’interno di parola e quella iniziale o falsamente iniziale. Nel primo caso il fenomeno viene portato fino in fondo, vedi il tipo amico, ruota, fuoco, sonorizzati fino in fondo (con vari gradini: dalla consonante sonora alla spirantizza-zione completa che porta alla sua sparizione, vedi saer, roda, fogo). Possono esserci varian-ti di intensità lenitiva per cui roda può in certi dialetti alternarsi con rua e saver con saer. In questi casi, queste entità fonologiche v, d, g non vengono sentite come varianti di un corri-spondente sordo. Questo è anche il caso del francese, che ha però una forza lenitiva mag-giore, per cui c’è l’eliminazione di questi elementi consonantici portati a zero con spirantiz-zazione che indica debolezza articolatoria.

Dove invece abbiamo contesti fonosintattici, tutte queste parlate romanze operano un restauro della forma originaria, favorito dall’alternanza, in quanto una f iniziale è esposta a passare a v in contesto fonosintattico, ma è sempre recuperabile come tale in contesto forte.

Alternanze determinate dal contesto sono anche t - d, k - g e altre. La restituzione viene fatta sulla base della forma non toccata dalla modificazione, cioè si generalizzano i contesti forti, cioè si trattano i contesti deboli come se fossero forti e quindi si restituisce sempre un’unica forma all’iniziale, che serve per usare la posizione iniziale a fini demarcativi (e posizione di spicco!), cioè serve da segmentazione. Questa è la distinzione di tipo fonologi-co, portare all’interno di parola il processo fino alle sue estreme conseguenze, bloccarlo nell’altro caso. Ci sono poi altre complicazioni, comunque.

Un ultimo esempio per dimostrare l’importanza di questo discorso (riflessi su italiano standard e letterario) è il raddoppiamento fonosintattico, insieme alla gorgia.

a) CASA iniziale assoluta b) ILLA CASA contesto sintagma debole

c) AD CASAM condizione forte extra (sintagma preposizionale) a) kasa: toscano e dialetti meridionali Si dice nelle grammatiche storiche che la sibilante è sorda al centrosud. In realtà è solo

parzialmente vero. Questo è il risultato piuttosto di una retrocessione da una semisonora. Al nord scatta la lenizione, abbiamo quindi la pronuncia kaza. Questo è il tratto interregionale per eccellenza in cui l’italiano non è unitario. Anche in Toscana però, in un certo gruppo di

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lessemi, si è imposta questa pronuncia, vedi per esempio fuso ~ fuzo, chiese ~ chieze e si dice spòza, ròza piuttosto che con la sorda. Qui la Toscana è incerta. La compresenza dei due elementi nello stesso contesto induce i grammatici a dire che in italiano esiste l’opposi-zione fonologica /s/ ~ /z/. Siccome non è prevedibile la loro distribuzione, non si possono trattare come varianti.

Nell’Italia meridionale la pronuncia è più radicale. È potenzialmente sempre sorda, e-ventualmente sonorizzata dove scattino fenomeni di variazione consonantica, ma non c’è alternanza sorda/sonora, ma una sola pronuncia.

b) La sequenza, fonologicamente unitaria, indebolisce la k, (ILLA inoltre è un clitico e

si appoggia accentualmente alla parola a cui si riferisce). Clitico: nella teoria grammaticale moderna è termine marcato. Nella teoria sintattica indica esplicitamenete il pronome: lo so, el vien. Si può poi mutare il termine nel senso di cui sopra. Avremo la ‘asa, con h spirante velare, forte, poi indebolita in spirante continua laringale (il suono passa attraverso la glot-tide ristretta). Negli stili rapidi del toscano si passa a zero (varianti).

c) Caso topico: AD CASAM, con assimilazione dei due elementi, si arriva ad una con-

sonante forte, geminata a‘kkasa. Lo stesso elemento sistematico ha quindi diversa realizza-zione a seconda del contesto. Questa regola dovrebbe valere anche nello standard, ma è i-nosservata, essendo sintagmatica, in quanto proviene da fenomeni di variazione consonan-tica. Vengono così interessati elementi consonantici in contesto sintagmatico ben preciso, che altrimenti sono iniziali di parola.

L’italiano viene insegnato come standard scritto, non esiste modello standard orale

adottato generalmente e non ci si abitua ad osservare questo. L’italiano scritto però nota la consonante doppia solo all’interno di parola e il parlante settentrionale non se ne accorge. Il raddoppiamento è regola parzialmente viva, produttiva (cioè si ha in particolari condizioni fonosintattiche), in parte è morta, lessicalizzata. Si produce in occasione di sintagmi prepo-sizionali in cui la preposizione aveva accento forte (a, tra, fra, da), non di: di domani, di ‘a-sa. Questi contesti sono forti.

Regola viva: nel contesto sintagmatico in cui ci sia parola tronca, la consonante che se-

gue è raddoppiata: kan’to’bbene, arri’vo’ssubito. Le geminate ricorrono sempre prima o dopo la vocale accentata. La vocale finale accentata è extrabreve e per la legge di isocronia, deve essere seguita da consonante lunga, mentre la vocale lunga ammette come sequenza solo consonante breve. È la legge della sillaba italiana: V#CC. Questo spiega perché co-gnac ha il diminutivo cognacchino, caffè ha caffettino.

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lunedì 11 dicembre 1989 (da registrazione magnetica)

Ancora confini dialettali

Il metodo più usato per rappresentarli sono le isoglosse. Ci sono coloro che privilegiano

il continuum dialettale, tendono a negare l’esistenza di confini dialettali e all’estremo ten-dono a negare i dialetti - come coscienza sociale. Non ci sarebbe un numero sufficiente di criteri oggettivi per opporre un dialetto a un altro. Secondo questi studiosi si andrebbe da un estremo all’altro, passando attraverso una serie impercettibile di mutamenti. Posizione e-stremista. All’idea di un continuum, propagandata da un settore degli studi romanistici e dialettologici, si oppone l’idea del tipo linguistico, più o meno secondo la definizione che ne ha dato Ascoli, per cui si potevano identificare come tipo linguistico autonomo quelle parlate che si fondassero su un certo numero di tratti, combinati in modo particolare. Il ten-tativo di stabilire i limiti di estensione dei singoli dialetti attraverso la definizione dei confi-ni di alcuni tratti fondamentali presi come termini di osservazione, risale a un secolo fa.

Questo nasce in ambiente neogrammatico di ideologia linguistica fortemente condizio-nata dall’idea di omogeneità, delle varietà linguistiche (le leggi fondamentali dei neogram-matici sono più princìpi euristici). Prima fra tutte il principio della ineccepibilità delle leggi fonetiche fondamentali di ogni ricerca di grammatica storica. Secondo loro le regole di svi-luppo a livello fonetico valevano “ciecamente e senza eccezione all’interno dello stesso dia-letto”, dentro la stessa compagine linguistica. Questo postula una omogeneità di quest’area, il che non è sempre vero. La ricerca dialettologica sul campo ha per molti versi smentito e modificato questo.

Tra i fondatori della dialettologia moderna in senso geolinguistico c’è Ascoli, poi i te-deschi Wreds, Henker. Questi, partendo dai postulati neogrammatici, vogliono controllare l’effettiva collocazione sul terreno dei confini fonetici dell’area tedesca. Questa cosa si sa-peva da alcuni decenni. L’aveva teorizzata Grimm e altri indoeuropeisti l’avevano perfe-zionata. È rimasta poi come esempio tipico di legge fonetica: si tratta della Lautverschie-bung o rotazione consonantica che tiene identificati due grandi momenti, prima e seconda. La prima separa tutto il complesso germanico dalle altre lingue indeuropee, a livello di esiti strutturali sistematici del consonantismo. La seconda è intragermanica, separa un’area ger-manica dalle altre, e cioè l’alto tedesco dal basso tedesco. L’alto tedesco è l’elemento inno-vativo, il basso tedesco conserva la situazione delle altre lingue germaniche. Le corrispon-denze elementari sono queste:

- ad una serie di occlusive germaniche (per esempio p, t, k) conservate nel basso tede-

sco corrispondono nell’alto tedesco delle affricate pf, ts, kh o in posizione debole delle fri-cative f, s, h. Per cui si ha l’inglese pound, il tedesco pfund

“ “ ten “ zehn “ “ make “ machen Questi neogrammatici dialettologi andarono a verificare sul terreno la congruenza di

questi fatti, dove e come si muovesse questa linea. Fu fatta un’inchiesta attraverso un que-stionario scritto, mandato a maestri, pastori [...] e fu rilevato materiale sui luoghi con rete

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abbastanza fitta di inchieste, e si chiedeva quale forma fosse in uso e attraverso l’opposi-zione di queste forme rilevare quale fosse il confine. L’esito è ormai canonico. Si voleva trovare una coerenza nei confini, cioè nei fenomeni, data l’omogeneità (supposta), i punti che appartengono a un certo dialetto si pensava condividessero tutte le caratteristiche di questo dialetto e i punti di un altro, le caratteristiche dell’altro per cui si doveva facilmente tracciare una linea di confine a divisione delle varietà.

La realtà è assai più complicata. I controesempi poi trovati modificarono questa situa-zione, ma non la smontarono totalmente. Il contributo specifico apportato dalla verifica sul terreno delle ipotesi neogrammatiche, per quanto riguarda il territorio tedesco, è che si po-teva tracciare un confine dialettale omogeneo lungo gran parte del percorso.

Corre in senso est-ovest. Parte a contatto con parlate slave e a est tocca parlate germa-niche (olandese e fiammingo) e di tipo romanzo (francoprovenzale). Vedi Chambers, la li-nea continua a pagina 140 (territorio di parlata tedesca). Questa linea corre molto in alto - altezza di Berlino. Questa è l’espansione moderna. Durante il medioevo la linea correva molto più in basso, ma poi il tipo linguistico meridionale si è espanso verso nord, gradual-mente. Questa linea è chiamata di Beurach dal fatto che è nel punto topico, attraverso un sobborgo di Düsseldorf che si chiama così. Questa linea separa in fase moderna la Germa-nia linguisticamente settentrionale da quella linguisticamente meridionale.

Benché nei manuali sia rappresentata come linea unica, presenta dei problemi. Andan-do a vedere i singoli esiti delle singole isoglosse si notano piccoli spostamenti (per esempio p, t, k, in cui la linea che presenta la demarcazione fra i due esiti di p non è la stessa che presenta la demarcazione degli esiti di t e così via). Sono comunque molto vicine, ma non sovrapponibili. Non c’è completa isonomia a livello dei fenomeni. Questo si amplia quando a ovest, zona Reno, le linee hanno andamento diverso, progressivamente divergente, senza logica. Ognuno dei singoli tratti traccia un suo confine distinto che diverge moltissimo da-gli altri. Questa zona è chiamata ventaglio renano. È di confine con olandese, fiammingo, francese: dove i fenomeni di contatto e mistilinguismo fanno sempre saltare ogni ipotesi di omogeneità linguistica (lo si è spesso verificato), mentre a est, zona di confine con gli slavi, ci sono stati fattori storici (immigrazione dall’Hochdeutsch), dove c’è omogeneità linguisti-ca. Nel ventaglio vediamo che queste aree sono di dialetto inconsistente o incoerente: ve ne sono alcune per esempio con forme con la p, ma per esempio z invece che đ o s, per cui si dice dorp invece che dorf, ma si dice das e dat. Se fossero coerenti dovremmo avere p/t e f/s, esiti distinti delle lauvterschiebung.

Ogni volta che si fa geografia linguistica, si constata la presenza di zone focali (fuoco: varietà caratterizzante) e zone di confine con tipi per definizione misti, in cui sono compre-senti tipi diversi. Vedi Chambers, cartina pagina 143, andamento isoglosse intorno a villag-gi tedeschi in zona di confine: complicazione dove si incrociano est/ovest e nord/sud. Que-ste sono linee ideali che si tracciano sul terreno per separare fenomeni linguistici: isoglosse (termine mutuato dalle scienze naturali). Ascoli aveva parlato di isofona più o meno in que-sto senso. Trattandosi per la maggior parte dei fenomeni osservati, di fatti fonetici, si parla spesso di isofona, particolare tipo di isoglossa. Queste sono linee confinarie in senso pro-prio, non si tratta tanto di unire punti che hanno un certo fenomeno, ma di delimitare l’area formata dai punti caratterizzanti un certo fenomeno.

Chambers: dove ci sono dialettologi anglosassoni che accanto al metodo dell’isoglossa usano quello dell’eteroglossa: invece che rappresentare la distinzione fra due aree tramite

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un’unica linea, questa distinzione è rappresentata da due linee, dove si uniscono cioè effet-tivamente tutti i punti in cui finisce un certo fenomeno e quelli in cui inizia un altro feno-meno. Linea di confine spezzata, con una fine e un principio. L’isoglossa normale è traccia-ta in mezzo ai punti discordanti.

Di queste isoglosse esistono diversi tipi a seconda del livello linguistico che si prende in osservazione. Ne abbiamo diverse a livello fonologico, isofone, ma anche queste variano molto. Posso descrivere tramite atlante dialettale delle semplici diversità di pronuncia (li-vello allofonico). Per esempio in Italia abbiamo in molti dialetti un uso in cui nelle sibilanti si oppone la realizzazione apicodentale a una lievemente palatalizzante s, ∫ (romanisti s, ś). Abbiamo una isoglossa di pronuncia o di allofonia. Posso poi avere (le più frequenti riportate dagli atlanti dialettali, specie quelli tradizionali) delle isoglosse, isofone di livello fonetico, che danno delle diversità di fonotipi. Per esempio, sempre in Italia, ci sono zone in cui il nesso intervocalico latino GL produce una laterale palatale [Y] opposta ad altre. Poi ci possono essere isoglosse a livello fonematico, che di solito gli atlanti dialettali non rappre-sentano. Per esempio il veneto, in relazione a fenomeni con esiti del latino C + E, I si com-porta in tre modi diversi:

- affricate ts (zinque) - interdentale (θinque) - sibilante s (venez. sinque) L’atlante dà risposta a livello 1, 2 a seconda della precisione, soprattutto a livello fone-

tico. Non dà mai risposta sulle relazioni sistematiche di queste occorrenze foniche. Se la desse, dovrebbe in questo caso suddividere il territorio veneto in due settori: o tra quello che conserva l’affricata e altri che non la conservano, o meglio dovrebbe separare l’area che mantiene la distinzione di esiti fra latino K e S + E, I. Laddove c’è interdentale, questa di-stinzione di esiti viene mantenuta, perché si dice ento (sostantivo) e sento (verbo), ma l’area veneziana distrugge questa opposizione: sento vale per tutti e due. Se un atlante fosse costruito in modo fonetico dovrebbe dare conto di queste distinzioni sistematiche di esiti:

allofonico

livelli fonetico fonematico

Questi dialetti hanno un elemento in più del veneziano. Ci sono isoglosse di livello

morfologico che toccano particolari punti della morfologia. Per esempio l’area veneta, tratto di opposizione della desinenza prima plurale: moderno

-emo, -em, arcaico -on (zone marginali), contrasto veneto-friulano. Poi ci sono isoglosse a livello sintattico, livello poco studiato dal punto di vista geolinguistico. Non si sono ancora fatti atlanti linguistici di questo tipo. Ci sono isoglosse poi di livello lessicale e semantico a cui si aggiungono quelle di tipo culturale nel senso antropologico del termine.

Questi fatti, all’interno della dottrina ‘worten und sachen’ vanno strettamente uniti a fatti linguistici. Cambia spesso il tipo materiale e cambia il nome con cui questo viene desi-gnato (ma si dà anche l’inverso). Queste isoglosse descrivono bene questa dialettica del ter-

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ritorio, dialettica della presenza di determinate parole, significati, fatti di cultura materiale che le parole individuano.

La ricerca dialettologica italiana per la stragrande maggioranza è fonetica e ancora di più lessicale.

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martedì 12 dicembre 1989

Sempre problemi di confini dialettali

Molto spazio ai metodi euristici basati sull’intuizione, osservazione e classificazione più che a teorie nel senso tecnico. Il Chambers elenca alcuni casi classici di isoglosse e loro convergenza. Il compito fondamentale del dialettologo è di individuare le varietà dialettali, identificandone i confini di espansione, l’area.

Si è già visto il caso della Germania, dove è importante il concetto di fascio. Le iso-glosse, soprattutto a questo fine, diventano importanti dove mostrano tendenza a concorrere (cooccorrere), cioè a fare percorsi, o perlomeno largamente vicini, e in sostanza a identifi-care zone specifiche. In questo caso si determina un fascio di caratteristiche primarie (fono-logiche, morfologiche, lessicali = culturali). Quanto è maggiore la concorrenza o cooccor-renza, tanto più siamo autorizzati a parlare di fascio e a identificare in esso un confine fra due varietà contrapposte. Il discorso è assimilabile alle scatole cinesi. Abbiamo un’area ge-nerale, all’interno della quale identifichiamo alcune grandi divisioni e, dentro queste, altre sottodivisioni con procedimento progressivamente analitico, identifichiamo varietà estreme arealmente ridotte. Abbiamo questa grande area delle lingue romanze, tutte caratterizzate da un capostipite comune latino, del quale condividono alcune caratteristiche. All’interno pos-siamo distinguere un’area linguistica neolatina, la Romània occidentale dalla orientale e all’interno della Romània occidentale distinguiamo per esempio la Galloromània (francese e appendici), l’Iberoromània (spagnolo e portoghese), l’Italoromània (italiano e appendici). All’interno di questo facciamo suddivisioni ulteriori che ci danno partizione linguistica e dialettale delle singole zone. Il procedimento passa attraverso il raffinamento dei tratti lin-guistici esaminando i loro confini, cioè delle isoglosse. Distingueremo isoglosse generali e isoglosse particolari.

Nel settore romanzo, i grandi esempi in cui si possono invocare questi fasci sono essen-zialmente due (marcano forti differenziazioni dialettali tipologiche): il più importante è quello conosciuto come linea La Spezia-Rimini (definizione del romanista Rohlfs). È il fa-scio di isoglosse che marca non soltanto la partizione fondamentale dell’Italia del nord da quella del centrosud, isole comprese, ma è molto più in generale la linea confinaria che marca la separazione tra le due grandi aree della Romània, occidentale e orientale-meridionale. Nel senso che i dialetti dell’Italia settentrionale (compreso il ladino: in questo caso il problema se sia tipo linguistico autonomo o meno è molto compenetrato da fattori politico-culturali) fanno parte della Romània occidentale.

Hanno una neolatinità con caratteristiche piuttosto simili a quelle del francese, proven-zale e della Romània iberica. Per contrasto il centrosud esprime una neolatinità con caratte-ristiche affini a quella del rumeno e dei resti della balcanicità in generale. L’unico resto co-nosciuto di questa area è il dalmatico, estinto. Conosciamo il romanzo e il neolatino orien-tale nei relitti, nei prestiti, nella toponomastica, rimasti nelle lingue sovrappostesi (vedi l’albanese, molto compenetrato di elementi romanzi al punto che a volte è difficile distin-guere quali di essi provengano dal latino, dal veneziano, o dal neolatino). Questa linea, me-glio definita da Pellegrini, in realtà comincia un po’ sotto La Spezia e cala sensibilmente sotto Rimini (Senigallia). Controesempi sollevati da questa schematizzazione e classifica-

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zione: il confine amministrativo attuale fra Romagna-Marche non è assolutamente un con-fine linguistico.

La parte nord delle Marche è dal punto di vista dialettale, un’appendice della Romània occidentale e da secoli è esposta agli scontri tra modello linguistico del nord e del centro-sud. Due correnti linguistiche che hanno creato una dinamica interessante. Vi sono lì molti dialetti di transizione (vedi Urbino e zona circostante: complessa, la conformazione geogra-fica del terreno impedisce grossi fenomeni di sistemazione sociologica). Caso mai ci sono lì grossi fenomeni di separazione, diffrazione, nei secoli. Questa zona mostra come non si possa ragionare in termini di confine rigidamente istituito, in quanto le isoglosse tendono a dividersi e ricostituirsi, sovrapporsi. Questa cartina fa vedere una realtà molto simile a quel-la del ventaglio renano, si potrebbe parlare di ventaglio romagnolo.

Andando a vedere in particolare questi dialetti, si trovano fenomeni di commistione e-sterna molto complicati, la compresenza e intersezione di regole settentrionali e meridionali crea tipi di transizione molto complicati, molto esposti all’evoluzione e alla variabilità an-che dal punto di vista semplicemente geografico, scarsamente omogenei al loro interno, scarsamente coerenti (nel senso inglese), variabili e molto differenziati. Questa linea, che in sostanza corre lungo il crinale appenninico, rappresenta un grande confine, e nelle sue linee centrali (meno sventagliate che gli estremi) aiutata da conformazioni orografiche (separa-zione e differenziazione demografica, culturale e linguistica nella storia). Separa in modo netto delle grosse realtà linguistiche (per quanto vi siano anche qui dialetti grigi, fatti da so-vrapposizioni, ma questo è più l’eccezione che altro).

Il crinale divide il dialetto di tipo emiliano-romagnolo dal tipo toscano (sono molto di-versi). C’è molta più differenza e diversità strutturale tra questi due che tra francese e pro-venzale. Questi due dialetti introducono due sistemi linguistici diversissimi, anche se socio-logicamente si parla di dialetti. Data la forte differenziazione storico-culturale dell’Italia, questi passaggi sono poi accompagnati da osservabili differenze di carattere culturale: a cominciare dal paesaggio (naturale, tipo di coltivazione dei campi, ecc.) vedi Chambers: tiene molto conto di queste differenze culturali che vengono ad associarsi a quelle di tipo linguistico-dialettale. Vedi esempi: realtà o antiche (distrutte da processi di unificazione) o in fase di incipiente differenziazione storica, vedi Inghilterra (realtà locali forti, ma oppres-se sempre di più), Usa (troppo giovane per avere alle spalle grosse differenze, per quanto vi siano alcune zone con labili differenze fonologiche a cui sono associate situazioni culturali specifiche: ci sono termini toponomastici più cooccorrenti di altri, diversi a seconda dei tratti dialettali degli abitanti - si parla di prima rivoluzione Usa). Questi esempi sono inte-ressanti per quella realtà, per quanto insignificanti per noi.

L’altro fascio di isoglosse che identifica i confini nella Romània (pag. 147) è designato dall’area galloromanza con le sue suddivisioni. Da questo punto di vista quest’area assomi-glia a quella tedesca - una grande linea più o meno orizzontale. Qui linguisticamente ab-biamo due grandi aree: francese al centronord e occitanica al sud.

Nel fenomeno italiano c’è una costante storica, perché la linea La Spezia-Rimini (me-glio Massa Carrara-Senigallia) è una linea importante dal punto di vista storico. È un confi-ne, che rappresenta le due grandi fasi della romanizzazione, non semplicemente linguistica, ma storico-politica del territorio italiano: infatti il primo grande assetto dello stato romano è rappresentato dalla linea dell’Appennino. A nord c’era la Gallia cisalpina, perché tutta, ma è meglio dire gran parte della pianura padana era abitata da popolazioni galliche, che ave-

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vano ricoperto altre popolazioni locali. Molte di queste erano affini ai galli, altre no, vedi il Veneto: popolazione che discende dai veneti provenienti dal centro Europa, parlante una lingua a se stante, indoeuropea [conosciuta da iscrizioni di Este e del Cadore] non assimila-bile al gallico. Inoltre i liguri e i reti non sono stati colonizzati dai galli. Queste regioni ven-gono sottomesse e inserite nello stato molto dopo, ecco perché anche tutta questa distinzio-ne. La Francia è a metà tra situazione italiana e tedesca.

Abbiamo anche qui ragioni storiche precise: l’espansione latina comincia dal sud, dalla Provenza (non è più il nome amministrativo attuale) che era una provincia, e prima dei ro-mani c’erano stati i greci (Nizza e Marsiglia). Il centronord è acquisito solo con le guerre di Cesare, ma il motivo di questa distinzione è più tardo. La distinzione medievale era diversa da oggi, perché si è verificata nella fase postmedievale di una parte del territorio a spese dell’altro. In Germania si è verificata l’espansione del sud verso il nord. In Francia il nord verso il sud. Prima la linea di distinzione era sopra la Loira. Il territorio del sud oggi è mol-to più ristretto (inoltre la Francia è fortemente dialettizzata). Il nord si impone, col francico, come modello culturale e politico di Parigi (dialetto dell’Île de France). Il sud perde capaci-tà politico-economica-culturale. Questo culmina con la crociata contro gli albigesi (opposi-zione politica mascherata da quella religiosa: questi si opponevano alla centralità politi-ca). Permane la statura culturale, comunque distinguiamo fra tipo francese (grande lettera-tura medievale epica, vedi Orlando) e provenzale (poesia lirica).

Il confine attuale deriva da un fascio di isoglosse che identifica tratti linguistici contra-stanti. Il più importante è quello della palatalizzazione di ca e ga, sia iniziali che in posizio-ne interna: ca, ga > kia, gia > tSa, dZa > Sa, Za: ‘cantare’ > chanter. In fase medievale ch rappresentava l’affricata palatale [tS] che si è evoluta in fricativa palatale [S]. Gran parte dei territori del centronord sono di palatalizzazione francica, al sud no, dove ci sono forme si-mili a quelle norditaliane, per cui avremo forme con ka, ga.

Poi ci sono fenomeni concorrenti di palatalizzazione (a tonica > e al nord, e resta tale al sud) e altri fatti morfologici e sintattici. La carta di pagina 147 si basa su un fascio di iso-glosse che costituiscono solo una parte di questa complessa divisione linguistica. Questi sono esempi di suddivisione del territorio romanzo dal punto di vista dialettale in grandi a-ree sulla base di concorrenza di isoglosse.

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mercoledì 13 dicembre 1989 Varianti ed opzioni in materia di rappresentazione dei confini dialettali. Dimensione

importante della variabilità, è generabile di qualsiasi fenomeno linguistico e in particolar modo nella dialettologia. Non si danno in linea di massima società monolingui, che casomai sono delle eccezioni. Qualcuno sostiene che ne esistano e siano state osservate, ma per altri questo è discutibile. C’è da fare una distinzione importante per questo concetto: variabilità si può usare nel senso di variazione di registri all’interno di uno stesso sistema di riferimen-to (in società linguisticamente evolute i parlanti hanno vari registri espressivi a disposizio-ne).

Per esempio una società diglottica si articola in due varietà, alta-formale, bassa-colloquiale. Questo è il grado estremo di semplificazione, in realtà si osservano storicamen-te fatti più complessi di articolazione linguistica (anche astraendo da fatti di bilinguismo, cioè compresenza di sistemi diversi) anche all’interno di uno stesso punto di riferimento. Per esempio l’Italia propone (secondo schematizzazioni più accolte) spesso articolazioni di almeno quattro livelli:

1. alto standard letterario (che però è standardizzato più a livello di scrittura

che di parlato, e comunque con limitazione) 2. popolare-regionale: una L2 diglottica con connotati colloquiali 3. dialetto regionale (concetto discusso; non in tutte le parti d’Italia si trova) 4. dialetto locale (patois)

Logicamente questa schematizzazione non esaurisce la complessità dei fatti linguistici,

specialmente il trapasso da un livello all’altro. Si adatta comunque alla realtà di molte re-gioni italiane. Se andiamo a rappresentare dei confini dialettali in base al criterio delle iso-glosse, quali realtà linguistiche percepiremo? In genere la descrizione dialettale di questo tipo privilegia il livello 4, estremo. Parte da quello che è ritenuto il dialetto puro esente da italianismi e generalizzazioni regionali. Se in realtà volessimo rappresentare questo su una carta e percepire l’esatta articolazione linguistica dei singoli punti e aree dovremmo traccia-re i confini anche per 1, 2, 3. Ponendo che 1 sia uguale dappertutto, non possono certo es-serlo 2 e 3. Quindi un’isoglossa privilegia solo una parte del repertorio, quello dialettale specifico.

Il discorso, teoricamente, sarebbe facilmente risolvibile, facendo delle rappresentazioni cartografiche a livello 4, poi 3, poi 2, distinguere cioè fra le isoglosse. Però questo diventa complicato quando si prende in esame la variabilità interna ai vari registri. Coloro che negli ultimi 20 anni hanno proposto un approccio dialettologico sociolonguistico basato sulla va-riabilità sociolinguistica (ragionando in termini di continuum dialettale più che di scale di differenziazione), hanno còlto questa difficoltà e hanno tentato di fornire dei modelli più o meno fortunati, complessi, realizzabili di questa realtà. Infatti il sistema delle isoglosse, li-nea di separazione tra i punti con fatti diversi, non è solo limitativo in ordine al tipo di regi-stro che viene privilegiato, ma anche per il fatto che le ricerche sul campo si rivolgono a un campione molto basso di informatori, per fare le inchieste. Il risultato finale dipende: se il ricercatore è attento, e il questionario è molto accurato e capillare (tenendo conto di diversi-

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tà di sesso, fasce d’età, campi di esperienza e competenza) e tenta di rilevare tutti gli aspetti del lessico (quindi diversi mestieri). Ma anche con questi campionamenti, la base dell’inchiesta dialettale tradizionale resta bassa. Spesso gli informatori sono 2 o 3 e scelti in modo arbitrario. Gli scarti verificabili non risultano grandissimi se si sceglie adeguatamente l’informatore. Avremo così una inchiesta HIFI, con rapporto largamente favorevole rispetto alla competenza media del luogo e questo ha fatto sì che nonostante le critiche di principio, si continui così.

Il fatto però più complicato, studiato da fattori di approccio linguistico più sociolingui-stico, è questo: quando si fa un’isoglossa che deve appunto identificare la presenza/assen-za/divergenza di fatti linguistici, questo viene ottenuto sottoponendo all’interlocutore un questionario con parole chiave, che rivelino questi fatti, a loro volta campionate, scelte in modo da fornire il quadro il più possibile esteso (parole lunghe, brevi; in posizione iniziale, interna, finale; parole più o meno frequenti). Questo per ragioni pratiche: è impossibile in-dagare tutto l’uso linguistico di tutti i luoghi.

Poi si fanno le generalizzazioni, che hanno quindi i loro limiti, in quanto diamo per as-sodato che un fenomeno si ritrovi sempre regolarmente. In realtà, in termini di variabilità ci sono due possibilità di divergenza: una è legata alle singole parole. Posso per esempio avere in un lessico mille parole con questi elementi di cui cerco la resa. La generalizzazione dirà che l’esito è sempre uguale, poi c’è il problema della varietà di registri: presuppongo che il parlante in qualsiasi sua manifestazione realizzi sempre univocamente quel fenomeno o non lo realizzi. Questo non è vero. Il tasso di variabilità per definizione è difficilmente accerta-bile a priori. Ci sono realtà linguistiche molto bloccate ed omogenee in cui il parlante si comporta quasi sempre allo stesso modo, ma ce ne sono altre in cui i modi sono molti. Lo-gicamente questo avviene specialmente nelle zone di confine, perché c’è molta dinamica linguistica, scambio: qui le isoglosse infatti non riescono a marcare dei confini. Il Chambers esemplifica questo con esempi tratti dalla dialettologia inglese. A pagina 169 e seguenti si parla di zone di transizione tra u e a del Middle English e loro esiti moderni. Lo standard inglese, RP, realizza questo come [V] ed [æ] con parecchie incongruenze a livello lessicale, spesso le evoluzioni non sono state omogenee e ci sono esiti diversi con molte varianti dia-lettali. Standard: cut [kVt], ma ci sono anche altre realizzazioni, simili alla nostra a centrale. Push è [pUS]. Questo deriva dal fatto che la u medievale non si è sempre evoluta. Dove una volta c’erano i dialetti gli esiti divergono.

Il caso del ventaglio renano è plateale: vi sono certi dialetti che non hanno applicato la regola, altri sì. In un territorio con bassi tassi di variabilità l’isoglossa rende bene la realtà linguistica del posto, i fatti di turbamento sono pochi (contatti linguistici...). I fatti di confu-sione linguistica sono dovuti a fenomeni di contatto, reale (di parlanti) o di sistemi (sovra-pressione di fenomeni trasmessi per via colta, per esempio l’italiano vizio, vezzo, angustia, angoscia: la reintroduzione dal latino nella forma originaria convive con un normale esito per via popolare. Nelle lingue storiche, fortemente stratificate culturalmente, troviamo spes-so allotropi o doppioni etimologici, con due esiti lessicali e poi differenze semantiche). Do-ve si ha una società con tasso di variabilità alto e stratificazione da parte dei registri, l’isoglossa non è molto adatta a rendere bene le distinzione dei dialetti.

Sono stati inventati strumenti più adeguati per analizzare queste zone spesso grigie e di sovrapposizione. Le regole si applicano in maniera meno categorica qui. Parliamo di lingua in senso storico e sociale, di usi linguistici, quindi fenomeni con altissimo tasso di esplosio-

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ne alla variabilità, non di fatti matematici. La linguistica della norma, della competenza nel senso di Chomsky, è fortemente controbattuta da questa linguistica della realizzazione con-creta, della parola, soggetta a una serie ampia di condizionamenti individuali e sociali. Ap-procci interessati a questa dialettologia sociolinguistica sono soprattutto proposti nei lavori di Trumper che si occupa di dialettologia italiana. Ha proposto modelli sociolinguistici an-che per la variazione diacronica e all’interno di questi modelli ha proposto, per le zone gri-gie con variabilità, il concetto di linee di isonomia, strumento teorico e metodico per sosti-tuire l’inettitudine del tradizionale confine isoglossico a rappresentare i fatti. Significa linee che uniscono tutti quei punti in cui si notano identici scarti di variazione rispetto alla regola base.

Riepilogando, ogni apparato che affronta la realtà dei dialetti risente in modo certo e forte delle condizioni reali di tipo storico e in un secondo momento sociolinguistico, quindi ogni proposta di metodo, prima ancora che di teoria, di classificare e rappresentare i dialetti, non può prescindere dalla natura di questa entità. Guardando Francia, Germania (come i-dentità linguistica, quindi oltre il confine politico) e Italia, si vede che la realtà della prima è ben diversa dalle altre.

Da molto tempo la centralità e unificazione linguistica ha fatto prevalere una varietà, e la variante unica è il francese colloquiale, parlato dall’uso corrente che accetta anche nella conversazione colta forme che lo scritto non riflette, censurate dalla scuola. Manca al fran-cese la dimensione sovraregionale del dialetto, tipica in Italia. Fra le varietà di lingua e il dialetto locale, patois, non c’è nulla. Non a caso i nemici più decisi del concetto di confine dialettale sono francesi: fra questi i famosi Gaston Paris e Paul Meyer. Essi ebbero una po-lemica con Ascoli a proposito della definizione di dialetto. I positivisti sostenevano l’inesistenza reale di questo, che era solo una creazione artificiale. Avevano questa idea di naturalismo positivista, per cui la natura si contrappone secondo questi due termini: natura-le, innaturale. Questo perché la loro osservazione è ristretta al punto linguistico, il problema dei confini in cui si parla un singolo dialetto. Sopra questo c’è già la lingua, senza fasi in-termedie.

Per contrasto, la dialettologia di Ascoli, molto connotata in senso tipologico e indirizza-ta alla definizione di entità dialettali e loro confini, nasce in una realtà storicamente e socio-logicamente diversa come quella italiana, dove abbiamo dialetti locali, ma anche entità di riferimento regionali. Questo prima di tutto per ragione storica. Qui i dialetti sono molto più vivi che in Francia. È mancata l’unificazione politico-culturale forte. Poi perché ci sono for-ti differenziazioni originarie fra i dialetti, dovute al problema del sostrato o tipo di latinità originaria parlata in quella regione. Già i tipi di latino erano molti diversi e quando si ha la grande differenziazione dialettale medievale, è da qui che nascono i primi tentativi di vol-garizzazione. Le prime manifestazioni letterarie regionali e locali tendono a restare impor-tanti anche quando il toscano tende a diventare la lingua di intercomunicazione fra i colti in Italia. Abbiamo cioè processi di riaggregazione regionale delle diversità locali che la Fran-cia non ha. Questo spiega l’insistenza di due visioni, quella microdialettale basata sul con-cetto di microdiglossia, con assoluta prevalenza della lingua sul dialetto, mentre c’è quella basata su fatti macrodialettali e macrodiglossia, in cui prevale l’esistenza, in buona parte delle regioni, di diversi livelli dialettali e forte dialettica dialetto/lingua, con forte presenza del dialetto anche in settori che dovrebbero essere di pertinenza della lingua letteraria. Forte presenza insomma di tipi dialettali.

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lunedì 8 gennaio 1990 (da registrazione magnetica)

La prima storia della dialettologia italiana è di Graziadio Isaia Ascoli (dopo il 1873)

pubblicata nell’Archivio Glottologico Italiano, che conteneva i famosi Saggi Ladini. È la prima grande classificazione dei dialetti italiani. Dopo Ascoli c’è Giulio Bertoni (1916) stampato da Hoepli. L’altro classico è quello di Clemente Merlo (1920-30).

Queste classificazioni sono strettamente legate al concetto di italiano, perché si parla di Italia dialettale. Data la complessità della situazione, non pochi studiosi hanno preferito so-stituire al termine italiano, che ha un suo aspetto letterario inconfondibile e indica uno stan-dard ben preciso, il concetto di “italoromanzo”. Prendiamo tutta l’articolazione della Ro-mània e distinguiamo delle aree che siano caratterizzate da fattori di autonomia e originalità del fondo latino. Quando fu fatta la prima classificazione delle lingue romanze, che è quella di Diez, in realtà il discorso era molto più semplice. Siamo nella seconda metà dell’800, a-gli albori della disciplina come tale.

Diez identificò come lingue romanze, degne di essere considerate tipologicamente in modo distinto, quelle che avessero un forte riflesso storico e letterario. Quindi le lingue ro-manze erano quelle che avevano una storia e una letteratura: portoghese, spagnolo, proven-zale, catalano (c’era e non c’era), francese, italiano e rumeno. Se però si approfondiscono le valutazioni linguistiche, i punti di vista possono cambiare (come infatti sono cambiati). Gli studiosi che sono venuti dopo hanno sostituito all’originario concetto di x romanzo, 5 o 6 tipi, un’articolazione molto più complicata che è arrivata a comprendere anche 10 o 12 tipi.

In questa nuova articolazione l’italiano come lingua standard diventa la punta di un grande iceberg che in modo molto complesso si organizza intorno ad esso, per cui il concet-to di italoromanzo significherebbe l’insieme di quelle varietà linguistiche e dialettali che si raccordano in modo più o meno diretto con l’italiano. Questa è un’etichetta di carattere più generale che permette di comprendere sotto di sé tutta quella grande varietà di parlate, mol-te delle quali sono distanti dal tipo italiano. L’articolazione interna è una articolazione mol-to complessa. Le altre aree dialettali romanze non sono così complicate, quindi hanno la possibilità di una identificazione più diretta. Mentre quando si parla di italiano, mettere sot-to questa etichetta delle realtà dialettali diversissime, comporta delle grosse difficoltà a li-vello classificatorio, analitico e ideologico.

La definizione storica del concetto di italiano o italoromanzo, che sono due termini non esattamente sovrapponibili, è uno dei momenti più controversi della classificazione genera-le degli idiomi neolatini. La ragione fondamentale di questa difficoltà è stata vista corretta-mente nella speciale articolazione linguistica dell’Italia. È stato detto che l’Italia forma all’interno della Romània una Romània per conto suo, in cui sono presenti dei tipi contra-stanti tra di loro. Se partiamo dall’ipotesi che esista un italoromanzo, dobbiamo ammettere una serie ineguagliabile di varietà e di sottodialetti. Possiamo tornare a un punto di media-zione (compromesso) identificando tutte quelle varietà che si sono sviluppate avendo come punto di riferimento culturale l’italiano. Sono dialetti italiani tutti quelli che hanno l’italiano come lingua tetto. S’intende la lingua di riferimento culturale. Prendiamo il caso del confi-ne friulano. Ci sono delle varietà slovene nello stato italiano, che hanno per lingua tetto la lingua italiana. In alto Adige la lingua tetto resta il tedesco, ma per ragioni politiche anche l’italiano. Se mettiamo a confronto due varietà estreme, il discorso diventa molto difficile.

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Saltando una serie di passaggi, noi possiamo giustificare il legame di varietà, che altrimenti, messe bruscamente a confronto, non sarebbero compatibili.

In altri termini se prendiamo una varietà settentrionale, da sola, e una varietà meridio-nale, da sola, possiamo trovare altre varietà romanze che hanno maggior somiglianza con il galloromanzo, soprattutto con il provenzale. Storicamente tra i dialetti settentrionali italiani e il provenzale intercorrono differenze limitate. La situazione è complicata dal fatto che le varietà marginali di questo italoromanzo sono ancora più discusse all’interno della letteratu-ra scientifica. Infatti la romanistica tradizionale considera queste varietà come separate dall’italiano, cioè come lingue autonome. I punti di crisi riguardano le entità marginali: te-desco e sloveno.

Consideriamo l’altro luogo dell’Italia che comprende le varietà francoprovenzali e pro-venzali (il Piemonte alpino). In senso lato fanno parte del sistema galloromanzo. Dopo ci sono le varietà costituite dal sardo e dal ladino. Nella carta del Pellegrini non si accetta l’idea dell’unità ladina o retoromanza, che unirebbe le entità dialettali del Friuli, del ladino dolomitico e del romancio dei Grigioni (l’Engadina e alcune zone vicine). Il grigionese comprende il silvano e l’engadinese. Devono essere considerati di tipo italoromanzo o de-vono essere considerati un tipo linguistico a parte? La romanistica internazionale opta per l’esistenza di un tipo ladino, che questo complesso dialettale debba essere considerato un tipo romanzo a parte e quindi separato dall’italiano. Come molta romanistica, sostiene che anche il sardo debba essere considerato a parte, come entità linguistica per sue caratteristi-che. Sono varietà marginali (periferiche) e questo non è privo di importanza ai fini della classificazione, perché introduce un motivo storico preciso, che sta alla base di determinate ideologizzazioni. Si tratta di entità geografiche che risultano periferiche rispetto al nucleo italiano e che sono state isolate come il sardo (che cioè hanno subìto poco l’influenza dell’italiano).

Lo stesso discorso può essere fatto per le lingue friulane ladine, perché esse sono state sotto l’influenza del mondo tedesco. Anche il friulano fino al Quattrocento non era che una dipendenza feudale del mondo germanico. I patriarchi aquileiesi erano di provenienza ger-manica ed erano dipendenti da Bamberga, grande diocesi germanica. I signori friulani erano di origine tedesca. Il popolo era friulano, ma la classe dirigente era tedesca. Fino a quando subentra Venezia. La zona dolomitica è tedesca fino al medioevo. I Grigioni oggi non costi-tuiscono più una entità romanza unitaria, ma sono isole sopravvissute all’entrata del tedesco che ha soppiantato in molte zone la parlata locale. Lo stesso è successo in Alto Adige: una volta erano di parlata neolatina. In qualche parte il neolatino si è estinto nel Settecento. In sostanza il motivo è un motivo culturale. Non è vero che un dialetto ladino sia più distante dal toscano di quanto sia per esempio distante l’emiliano o il lombardo, o se lo è lo è di po-co. È la valutazione storica della gente che è diversa, gli uni si sentono orientati verso un certo mondo, gli altri si sentono orientati verso un certo altro. Di conseguenza cambia an-che il giudizio sulla lingua, sulla varietà che si parla. Ci sono molti casi estremi di varietà diverse che vengono sentite dai loro parlanti come la stessa lingua e di varietà assolutamen-te affini poco differenziate che vengono sentite dai parlanti come due lingue diverse. Quin-di qui c’è una valutazione di ordine culturale. Questo spiega anche l’ambientamento di altre realtà che in questa carta geografica linguistica non sono considerate, quindi non facenti parte degli attuali confini linguistici d’Italia.

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Un altro punto minore di discussione riguarda una piccola serie di dialetti che sono or-mai pressocché estinti, che si parlano in Istria meridionale. Si fa riferimento ai dialetti stori-ci che sono parlati vicino a Pola, che è quasi completamente slavizzata. In ogni caso il dia-letto arcaico non è più conosciuto fin dall’Ottocento. Questi dialetti arcaici sono stati defi-niti da Antonio Ive istrioti, che vuole distinguere da istriano. Gli studiosi antitaliani di scuola slava chiamano questi dialetti istroromanzi, sostenendo che fanno parte del diasi-stema autonomo, diverso dall’italiano. In realtà questi dialetti sono simili ai dialetti veneti arcaici. Hanno una individualità molto minore del ladino.

Viceversa rientrano pienamente nel diasistema italiano, il ticinese (Svizzera) che è una sezione autonoma all’interno del dialetto lombardo. E in questo caso riconoscono come lin-gua tetto l’italiano. Il tipo italiano comprende anche certe piccole zone dei grigioni, che non sono romance, ma sono simili al ticinese, sempre di base lombarda. Come italiano all’estero è rimasto il tipo istriano-triestino in Jugoslavia, sulla bocca di pochi. Poi c’è qualche varietà ligure in Francia. Il ligure arrivava a Nizza e pare anche a Monaco. Il dialetto monegasco era di tipo ligure.

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martedì 9 gennaio 1990 Entità periferiche di discussa classificazione, per esempio il dalmatico, varietà romanza

estinta (ultimo parlante, nell’isola di Veglia [Krk], morto agli inizi del secolo). Mal docu-mentato nel corso della storia. Molti romanisti sono d’accordo nel considerarla una varietà romanza a parte, non legata direttamente all’italiano perché è direttamente collegata geo-graficamente all’Italia e anche culturalmente. Queste varietà periferiche mostrano problemi sia dal punto di vista della loro disposizione geografica sia vicende storiche. È una storia complicata.

Si intende una valenza tecnica del termine periferico: perifericità di storia in tutti i suoi connotati, fuori dal circuito delle grandi comunicazioni che portano le innovazioni e inne-scano importanti processi linguistici che stanno alla base delle grandi lingue di cultura (processi di convergenza). Quando dentro un’area molto variegata se ne distingue una di prestigio, standard, tutte le altre automaticamente diventano rivolte verso di essa, prendono da lei ispirazione e più o meno velocemente tendono a conformarsi. Chi è fuori da questi processi ha storia particolare e tende a subire l’influenza dei processi esterni e tende a muo-versi in modo poco organico fra l’adesione al centro e quella ad altre periferie. Dal punto di vista sociolinguistico questo significa mancanza di aggregazione, di unificazione politico-sociale, quindi coesistenza di momenti di conservazione e tendenze centrifughe. Assenza di una condizione sociolinguistica stabile.

È importante osservare che la critica e il pensiero linguistico si sono spesso avvalsi di queste caratteristiche come base, strumento di classificazione, senza distinguere tra caratte-ristiche intrinseche dei vari sistemi osservati e caratteristiche dettate da particolari condi-zioni storiche. Qualsiasi classificazione (ma alcune classificazioni sono ideologicamente più marcate da questo punto di vista) consiste in un dosaggio di elementi linguistici ed e-xtralinguistici. Questo può essere fatto con la corretta interpretazione dei dati storici, altre volte no, e ne escono delle classificazioni molto sbilanciate. Il problema per queste entità particolari (ladino, friulano, sardo) comporta una forte incidenza di questi elementi extra-linguistici che tendono ad essere fortemente ideologizzati. Tutto questo sottolinea il fatto che nei manuali di romanistica ci sono notevoli mutamenti di prospettiva nel tempo e anche discordanze in opere contemporanee in quanto sono diversi i punti da cui si parte.

Per esempio Diez, con la Grammatica delle lingue romanze (prima edizione 1869), i-dentificava sei varietà specifiche che corrispondono più o meno alle sei grandi lingue stori-che e letterarie: spagnolo, portoghese, provenzale, francese, italiano, rumeno (detto anche valacco, dalla regione meridionale). Il criterio è quello di identificare varietà che si fondino su salda tradizione letteraria o per lo meno storica (vedi il rumeno, separato presto dal resto della Romània per influenze slave e ungheresi). I romani abbandonarono la Romania (Da-cia) molto presto e anche i territori balcanici. Il rumeno non ha un medioevo come qui, è stato restituito ai valori della cultura occidentale piuttosto tardi. Letterariamente è attestato dall’Ottocento in poi.

Già Meyer-Lübke, secondo grande esempio di grammatica storica (neogrammatica), nella sua Grammatica delle lingue romanze (terza edizione 1920) ne ammetteva nove. Il

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tentativo più recente di grammatica storica è di Lausberg (1971) che arriva a dieci e il ma-nuale francese arriva a dodici. È una grossa introduzione alle lingue romanze, distinguendo qui necessariamente fra lingue maggiori e lingue minori, per motivi intrinseci ed estrinseci (lingue con grande storia letteraria).

Queste diverse cifre riflettono diversità di approccio ideologico. A questo proposito Monteverdi, autore di un manuale introduttivo alle lingue romanze del 1952, obietta giu-stamente che o si sceglie un sistema tipo quello di Diez che fa uso coerente di riferimenti extralinguistici (mette in forte rilievo la presenza di una continuità storica di una letteratura) o i confini cominciano ad essere indefinibili perché le lingue considerate romanze possono essere aumentate a volontà e non si può più parlare di lingue nel senso funzionale del ter-mine, quanto si deve parlare di sistemi di dialetti (che sono insiemi correlati in modo siste-matico). Questo è corretto. Meglio quindi parlare di spazio o dominio linguistico, concetto meno rigido di quello di lingua in quanto si possono inserire, aggregare parecchie varietà anche relativamente distanti e di difficile classificazione. Egli è tra i primi a parlare di do-minio spaziolinguistico italoromanzo, in cui possono trovare spazio queste entità correlate (mentre altri tenderebbero a costituirle in gruppi linguistici minori). Nella visione di Mon-teverdi l’italoromanzo sarebbe correlato nelle grandi sottodivisioni: ladino, alto italiano, ita-liano vero e proprio (cioè centromeridionale, isole comprese)

Altra classificazione importante è quella di Tagliavini, Origini romanze, quella di Renzi e le posizioni di Cortelazzo (vari articoli). Queste posizioni ricalcano la visione ide-ologica di Monteverdi. Con qualche semplificazione concedono meno rilevanza tipologica all’italiano settentrionale per cui resta una tripartizione: italiano, sardo, ladino.

Con una certa tendenza ad associare al dominio il dalmatico, che viene visto come una sorta di ponte verso il balcanoromanzo, rappresentato soprattutto dal rumeno. Il dalmatico presenterebbe delle caratteristiche che lo legano all’Italia e altre che lo avvicinano alla Bal-cania, ma (nota bene) il dalmatico, per quel poco che si conosce, non ha i tipici tratti del balcanico, quelli caratterizzanti la lega linguistica balcanica.

Lega: fascio di convergenze, affinità tipologiche fra lingue geneticamente diverse. Per esempio nella penisola balcanica: lingue slave, albanese e greco, rumeno in tre tipi. Fra le caratteristiche comuni, per esempio, c’è l’articolo posposto e mancanza d’infinito. Interes-sante dal punto di vista linguistico e ideologico il concetto tedesco di lingua ponte, che ha caratteristiche di passaggio fra un tipo e un altro, in quanto è ai margini dei grandi sistemi. Convergono criteri linguistici e geografici, ma questo concetto oggi è abbastanza abbando-nato. Non esistono criteri formali abbastanza definiti per metterlo in pratica.

Guardando criticamente queste proposte classificatorie che riguardano l’area romanza in genere e quella italoromanza in particolare, il tentativo più pertinente per originalità e precisione resta quello di Ascoli, ottocentesco (vedi l’Italia dialettale nell’A.G.I.). Il suo criterio è molto importante e non superato, ancora centrale da quel punto di vista. La sua precisione ideologica è stata ben sottolineata da Corrado Grassi nel suo contributo storico-ideologico alla storia della classificazione romanza e dei dialetti romanzi, comparso in ope-ra miscellanea del 1980, Per la storia e classificazione dei dialetti italiani (da leggere), Atti del convegno, Pisa, Giardini, 1980, in cui c’è il contributo anche di Zamboni e di Corte-lazzo.

Nel suo contributo Grassi mette a confronto la situazione ideologico-linguistica di stampo dell’area francese, quella dell’area tedesca e quella dell’area italiana e spiega come

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mai la dialettologia italiana creata da Ascoli ha questa visione storico-sociologica fin dall’inizio. Inizialmente in realtà non si percepiva come sociologica e la si definiva storica e sostratistica.

Una delle idee particolari di Ascoli, che sta alla base di qualsiasi discorso sui dialetti i-taliani, non può prescindere dalla grande varietà di questi dialetti rispetto alla situazione e-sterna e dalle motivazioni storiche che stanno alla base di queste varietà. La principale di queste motivazioni riguarda la grande varietà della latinizzazione in Italia, che si sovrappo-ne a lingue molto diverse fra loro (questa varietà grande non si riscontra infatti nelle aree latinizzate più tardi, quelle delle province). La problematica del sostrato, del tipo cioè di la-tinizzazione che sta alla base delle singole espressioni regionali italiane, non può essere tra-scurata in una corretta dialettologia. Da questo punto di vista Ascoli aveva adottato un crite-rio assai limpido per affrontare il problema classificatorio: si prende la varietà fondamenta-le, letteraria, per esempio l’italiano lingua standard e koiné, basata sul toscano (per una par-ticolarità storica il toscano, all’interno dei dialetti italiani, si presenta come particolarmente aberrante e caratteristico). L’italiano quindi si fonda su un tipo dialettale molto specificato. Fra l’altro il toscano, per una serie di fattori interni, risulterebbe fra le varietà romanze e ita-liane come la meno distante dalla base latina.

Anni dopo, Clemente Merlo, grande sistematizzatore della dialettologia italiana, por-tando all’estremo certe idee sostratistiche tentò di codificare la situazione dialettale italiana secondo una triade di sostrato, parlando quindi di Italia gallica, latina (etrusca) e semitica. La schematizzazione è un po’ brusca. La sua idea è che al nord il latino si sarebbe sovrap-posto a popolazioni di lingua gallica (ma non si crede più alle spie celtiche di Ascoli, cioè le abitudini articolatorie del sostrato gallico). Al centrosud a popolazioni sannitiche (dialetti oscoumbri) e in mezzo c’è l’oasi etrusca dove il latino si sarebbe conservato più puro, dan-do origine al toscano e di qui all’italiano.

Ascoli aveva stabilito di classificare i dialetti italiani in base al criterio di distanza (dal toscano): avrebbe messo insieme quei dialetti che divergevano in modo identico dal tosca-no, considerato addirittura “un grado intermedio tra il tipo latino e quello romanzo”. È con-siderato qualcosa di più alto del tipo neolatino. Questo grado è intermedio in quanto il to-scano è “limpida continuazione del solo latino volgare“ senza cioè evidenti influssi “sostra-tistici”. Su questa base Ascoli distingue in maniera semplice le varietà italiane in quattro gruppi distinti da lettere (A-B-C-D) cominciando dalle varietà più distanti dal toscano:

A - Dialetti che dipendono in maggior o minor parte da sistemi neolatini non peculiari

all’Italia, cioè fondamentalmente estranei all’italiano, marginali, che non hanno mai avuto entità politica e sociale definita, non si sono mai costituiti come koiné e orbitano intorno all’italiano. Sono:

il francoprovenzale e provenzale del Piemonte (valli alpine a occidente). Fran-

coprovenzale è etichetta inventata da lui, cioè dialetti francesi del bacino del Rodano con caratteristiche ponte tra francese in senso proprio e provenzale in senso proprio.

Ladino. Nota bene: non c’è il sardo!

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B - Dialetti che si distaccano dal sistema italiano vero e proprio, ma pur non entrano a far parte di alcun sistema neolatino estraneo all’Italia. Non si possono collegare né all’uno né all’altro sistema. Sono i dialetti galloitalici del nord (ligure, piemontese, lombardo ed emiliano, sardo). Nota bene: manca il veneto!

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mercoledì 10 gennaio 1990 Il criterio di Ascoli è meno arbitrario di altri. È a metà tra storia, linguistica e sociolin-

guistica. È relativamente omogeneo e comparabile. Molti altri criteri successivi, che si di-chiaravano oggettivi, non essendo però legati a premesse teoriche specifiche, a gerarchie linguistiche specifiche, si rivelarono meno chiari e contestuati. È la sua una classificazione tipologica più che genetica (vedi il discorso del sardo che appartiene a neolatinità diversa dalla galloitalica), ma li mette sullo stesso piano e nello stesso gruppo. Il discorso non è un raffronto diretto tra due varietà, ma un riferimento alla varietà centrale, rispetto alla quale si misurano determinate distanze (in modo empirico).

C - Nel gruppo C vengono collocati quei dialetti che si scostano più o meno dal tipo

schiettamente italiano o toscano, ma pur possono entrare a formare col toscano uno speciale sistema di dialetti neolatini. Qui c’è una compatibilità tipologica. Questo speciale sistema, i dialetti neolatini che costituiscono il nerbo dei dialetti di questo gruppo è composto dai dia-letti veneti, centromeridionali, collegando a questi anche i dialetti còrsi e quelli di tipo sici-liano.

D - Toscano e linguaggio letterario degli italiani. Esso è preso come punto di riferi-

mento per le sue caratterizzazioni specifiche genealogiche e tipologiche e quindi è unico nel gruppo. La visione è come un sole attorno al quale, a diversa distanza, orbitano vari pianeti.

In questa proposta vi sono molte cose interessanti da discutere, poi corrette in parte giu-

stamente dalle classificazioni posteriori, cercando di evidenziare dei motivi di convergenza che Ascoli metteva in secondo piano, e in parte no, perché il problema delle classificazioni è sempre un terreno scivoloso e privilegiare contro Ascoli certi punti di vista comporta il peggioramento di determinati punti di coerenza suoi.

Nella proposta ascoliana le collocazioni critiche e interessanti, oltre a quelle già dette: il ladino è nettamente separato dall’italiano e collocato nel settore più distante e considerato non italiano, come per esempio il provenzale; il sardo, ritenuto dalla maggior parte dei ro-manisti come autonomo, è invece considerato più affine all’italiano; il veneto, di grande importanza culturale (base del dialetto di Venezia e quindi di sua espansione coloniale) è separato dal resto dei dialetti galloitalici, in quanto manca di alcune caratteristiche tipiche di questo gruppo. Specie il veneto centrale (Padova e Venezia) che diverge poco dal tosca-no (mentre Treviso e Belluno sono già divergenti). Fra i dialetti settentrionali, è appunto particolare, cioè non conosce i fenomeni di anteriorizzazione di ū > ü (vocali turbate o mi-ste che in termini fonetici sono le anteriori arrotondate, e sono œ, ø > ü; u > ö) tipici di tutta l’Italia settentrionale. La ü è il prodotto storico di ū neolatina. Questo tratto unisce da que-sto punto di vista questa parte dell’Italia settentrionale al francese.

Ascoli identificava in questo un’acutissima spia celtica, cioè lo riteneva uno dei tratti fondamentali per identificare sotto queste parlate un sostrato celtico, cioè un neolatino pro-veniente dalla latinizzazione di popolazioni originariamente celtiche, che cambiando lingua avevano portato con sé delle abitudini articolatorie sistematiche. Ma oggi non si pensa più così, per quanto ci siano delle concordanze storiche abbastanza importanti, cioè il veneto ha

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un sostrato storico di altro tipo: quello celtico è solo marginale. Le popolazioni antiche qui erano i veneti indeuropei, che parlavano una lingua solo affine al celtico e al latino. Analogamente non presenta una spia dell’anteriorizzazione di a tonica che passa a e (è, é) in altre zone dell’Italia settentrionale e regolarmente in Francia (casomai la presenta solo marginalmente). Inoltre in altre zone c’è la tipica evoluzione del nesso KT che passa a [t∫] o a [it] con palatalizzazione: vedi lombardo noc e francese nuit.

Questi fenomeni sono chiaramente visibili nelle carte attraverso le isoglosse. Il com-plesso veneto quindi non è aggregabile a quelli piemontesi, lombardi, liguri, emiliano-romagnoli, per esempio per i grandi fenomeni di separazione legati alla ristrutturazione del consonantismo, cioè lenizione e fonologizzazione della lenizione, staccandosi dal toscano e dai dialetti centromeridionali. Sottolineando queste caratteristiche di divergenza, Ascoli po-ne il veneto nel settore C, occupato dai dialetti relativamente vicini all’italotoscano. Del re-sto il vocalismo del veneto, fatta salva la distribuzione, è molto simile a quello toscano e dialetti centromeridionali (specie per il veneto centrale), mentre quello dei dialetti galloitai-ci è radicalmente diverso. In questo senso sempre con questa visione tipologica il veneto viene appaiato a tipi dialettali molto diversi geneticamente (dialetti centromeridionali e sici-liano).

Ascoli qui valorizza i fattori di somiglianza (sempre nella relativa vicinanza al tosca-no). Questo comporta degli stacchi forti, perché Ascoli sottolinea la centralità tipologica dei dialetti piuttosto che le sue manifestazioni marginali. Questo tipo di mentalità gli permette di concepire dei dialetti come entità separate tipologicamente e di contrapporsi al discorso della linguistica francese che voleva negare l’esistenza di confini dialettali zonali. Dal pun-to di vista geografico il veneto e il ladino friulano sono entità legate. Il Veneto confina geo-graficamente con il Friuli e le zone ladine centrali (che in parte sono comprese amministra-tivamente in esso) del Trentino e Alto Adige, cioè il cadorino, il comelicano, l’ampezzano, il livinallongo, vale a dire val Badia, val Gardena, massiccio del Sella e val di Fassa.

I fenomeni che caratterizzano dal punto di vista dialettale la fascia di contatto fra area veneta e le altre: in certe zone il distacco è molto netto (in provincia di Bolzano, per esem-pio, lo spartiacque bacino del Piave/Adige segna il confine linguistico: per ragioni sociolin-guistiche da una parte c’è una lingua che si distanzia in modo netto dal veneto), sul bordo friulano non esiste però un punto dove si possa dire nettamente che c’è un confine (vedi per esempio la zona agordina, basso Cadore e confine Veneto-Friuli da Portogruaro a Pordeno-ne). Invece c’è sempre una fascia grigia dove i due fenomeni si intersecano e si sovrappon-gono (dette anche anfizone, zone di contatto): si cominciano a perdere le caratteristiche ve-nete e assumere alcune caratteristiche friulane.

Non esistono quindi confini, ma fasce di confini, di trapasso, tipiche fasce di continuum dialettale dove si scala in modo più o meno sensibile da una varietà all’altra in un degradare di caratteristiche. Bisogna inoltrarsi ancora nella regione per dieci, venti chilometri per ave-re uno stacco netto. Dal punto di vista della classificazione ascoliana, questa è una realtà molto critica, in quanto il veneto e il friulano distano per lui di due gradini (Friuli = A, Ve-neto = C), ma questo continuum dialettale di alcune zone esigerebbe che la classificazione fosse fatta ponendo le due varietà nella stessa sezione. Evidentemente quella ascoliana è una visione che non pone l’occhio sul continuum (cioè sui fenomeni di trapasso da varietà a varietà), ma valorizza al massimo grado il principio tipologico, cioè prende il tipo dialettale centrale e lo contrappone ad un altro tipo dialettale centrale. A questo livello il problema

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dei confini diventa logicamente secondario, per cui le zone grigie hanno la stessa tipologia dell’anfizona (termine da lui inventato) → qui suppliranno altre indicazioni, e il confine dialettale si stabilirà non più dal punto di vista strettamente linguistico, ma anche con fattori culturali → per esempio il confine veneto giunge fin dove i parlanti si sentono tali e idem per il Friuli.

Circa i dialetti italiani, sempre da questo punto di vista, i tentativi posteriori di classifi-cazione sono interessanti, ma nessuno così coerente come la proposta di Ascoli. È tipico di questi ultimi trenta-quarant’anni (perché la prima metà del secolo nelle sue proposte man-tiene più o meno la stessa rete di riferimento e non si allontana molto da Ascoli; cambiano alcune modalità di proposta ma il nucleo resta uguale, cfr. Bertoni 1916, Merlo 1920; ca-somai qui la critica si sposta su alcuni dialetti marginali: dialetti istriani, posizione del ladi-no rispetto all’italiano, ecc.) l’idea, la moda di trovare criteri oggettivi per una più corretta classificazione della realtà dialettale italiana.

Molti si sono ingenuamente ed esageratamente entusiasmati per i metodi ispirati ai cri-teri statistici, che però sono negativi perché spesso utilizzati da umanisti, persone incompe-tenti scientificamente e nelle scienze matematiche. Entusiasmo molto sproporzionato, in quanto alle spalle di questo mancano spesso delle teorie precise a cui le statistiche devono essere subordinate e alle quali devono servire: si deve sapere che tipo di fenomeno devono descrivere e a che cosa devono condurre. Le scoperte casuali sono rare e comunque sarebbe assurdo pensare in questi termini, bisogna avere un’idea di ciò che si cerca, un modello che espliciti questo. I criteri matematici e numerici sono impiegati largamente in linguistica, dialettologia, ecc. Non esiste tuttora un modello che espliciti tutte le gerarchie possibili, quindi non si possono avere risposte del tutto ‘oggettive’ con questi metodi. Nella classifi-cazione ci sono stati tentativi che hanno avuto una certa fortuna di quantificare in base a una lista di tratti di distanze fra un dialetto e l’altro.

I primi tentativi furono fatti da Muljacic per le lingue romanze e poi ripresi da Pelle-grini nel 1970 per i dialetti italiani. Quest’ultimo lavoro risente di questa debolezza teorica di base, ma è interessante dal punto di vista tecnico, dell’analisi del materiale messo a con-fronto in base appunto a una lista (si tratta di circa 30 tratti linguistici a livello di fonologia, morfologia, sintassi; non del lessico perché è impossibile una seria quantificazione).

Questi tentativi rispondevano ad una metodologia statistica molto approssimativa. Era-no basati su un criterio binaristico. Si dà per esempio una lista dei tratti, si pone un + ai dia-letti che presentano quel tratto, un - se non c’è, ± nel caso di dialetti misti o incoerenti, con fattori di discordanza (o sono stati raggiunti parzialmente da un fenomeno e hanno delle di-stinzioni lessicali, una parte ce l’ha e una no, o presentano un fenomeno separato in via si-stematica per cui una struttura sillabica ce l’ha, un’altra no...). Si fa la somma di questi ele-menti costruendo una matrice a due dimensioni che separano i due dialetti.

Il problema è innanzitutto di campionatura (una serie rilevante di dialetti, rappresenta-tivi sia per tipologia che per numero, in modo da redigere una lista sufficientemente esau-stiva per le caratteristiche). A seconda del tipo di campionatura i risultati possono essere di-versissimi. Il tentativo di Pellegrini è condizionato da una precisa impostazione ideologica → vuole dimostrare che il tipo ladino non è così diverso e aberrante dall’italiano come la manualistica corrente ammette. Prendendo dei dialetti altoitaliani e analizzandoli si rivelano molto simili, tutto sommato al ladino, e se prendiamo un tipo ladino e il lucano, tipo ben ca-

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ratterizzato, vedremo che rispetto al toscano intercorrono rispettivamente le stesse differen-ze, più o meno, in termini numerici.

Per esempio nella griglia dei dialetti proposti, Pellegrini pone appunto il lucano meri-dionale, molto eccentrico rispetto all’italiano, e il cadorino, ma di discussa catalogazione (perché ha molti influssi veneti sulla base ladina, c’è una forma detta semiladino; gli influs-si variano in percentuale da zona a zona) e un dialetto nettamente ladino (fassano). Indice di distanza: il dialetto lucano risulta il più contrastante con l’italiano, con 39; il sardo con 33; il friulano 26; il fassano 21, il cadorino 19 (il cadorino, logicamente se preso in una sua va-rietà parzialmente venetizzata di riflesso, è più vicino all’italiano [vedi il discorso di Asco-li]). Raffrontando questa tabella con quella di Ascoli vediamo tutto un po’ rovesciato: le contiguità che si salvano sono solo quelle di italiano-cadorino e lucano-sardo. Tutti gli altri tipi occuperebbero posizioni diverse da quelle di Ascoli:

A - friulano e fassano B - sardo C - lucano-cadorino D - toscano

Come è stato però osservato, questo metodo ha dei limiti legati alla natura dei tratti e

alla loro gerarchia, che non hanno impedito l’esistenza di tentativi recenti (dialettometria) di riprendere in base a una metodologia statistica più raffinata (criterio di calcolo algoritmi-co) l’idea di stabilire la classificazione in base a distanze oggettivamente misurabili mate-maticamente. Questa corrente, inventata in Francia, è proseguita soprattutto da un romani-sta austriaco, Goebl. Questi tentativi in realtà non hanno raggiunto risultati incisivi, né por-tato a novità eclatanti.

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lunedì 15 gennaio 1990 (da registrazione magnetica)

Tentativi di stabilire su base numerica le differenze dialettali Per le lingue romanze in generale, la metodica proposta da Muliacic e ripresa da Pelle-

grini comporta un rimescolamento della “costellazione ascoliana”, cioè l’idea di partire da “un sole” attorno a cui ruotano diversi pianeti, ma non comporta il mutamento dell’idea fondamentale, anche se non è privo di importanza che certe entità vengano poste in una cer-ta distanza piuttosto che in un’altra. Interviene qui un fattore ideologico, cioè tentativi di dimostrare che certe entità, che appaiono distanti dal centro in certe teorie, sono in realtà vicine e viceversa. Da questo punto di vista le cose sono molto relative. Valutando qualita-tivamente bisogna riconoscere (Cortelazzo 1980) che questo metodo quantitativo ha dei li-miti evidenti scientificamente, soprattutto riguardo alla natura dei tratti e loro gerarchia. Non esiste infatti un quadro univoco, un modello teorico indiscutibile da costituire punti di riferimento per la discussione. Questo criterio è stato riproposto in modo più raffinato sotto il nome di dialettometria. Ma i risultati non sono sconvolgenti.

Molti dialettologi, non volendo o non sapendo capire di che cosa si tratti, hanno detto che non è interessante, non dà grossi risultati, ma scontati. Valutazione numerica, che pre-tende di essere oggettiva, non si adatta tanto al giudizio classificatorio, che non può pre-scindere da considerazioni di carattere ideologico.

Ascoli aveva ideato un meccanismo tutto sommato accettabile, dovendo muoversi all’interno di un compromesso di fatti, teoria e metodo, per quanto certe posizioni risultino criticabili oggi come ieri. Egli aveva proprio cercato di escogitare un’entità il più possibile oggettiva, ben rendendosi conto che mettendo insieme una serie di tratti neogrammatici po-teva riuscire esplicativo fino ad un certo punto e per ovviare alle debolezze di questo meto-do inutilmente descrittivo, aveva elaborato questa idea di tipo, che è buona più dal punto di vista metodologico, del concetto operativo, che teorico. È un concetto adoperabile, a diffe-renza di altre strutture molto più ricche teoricamente e descrittivamente, ma in realtà poco maneggevoli. Era contro la posizione rigidamente positivistica di Paul Meyer e Gaston Par-tis. Aveva cercato di identificare questo concetto di tipo e famiglia dialettale “mercé un de-terminato complesso di caratteri che viene a distinguerla dagli altri tipi”. Esplicitamente e-gli aggiungeva che questi caratteri non sono necessariamente esclusivi, bensì originalmente combinati. Cioè x y z è identificato alla presenza unica solo di quel tipo di un certo caratte-re. Questi caratteri possono appartenere anche ad altri tipi. È la mistura originale che identi-fica per esempio certi caratteri del ladino, che possono ritrovarsi anche in italiano, ma è la compresenza simultanea di quel certo gruppo di caratteri a distinguere tra loro le varietà.

La linguistica dell’Ottocento è soprattutto storica. Ascoli non è un linguista storico. Il suo punto di partenza e arrivo è il tipo, non la diacronia. Il suo principio comporta sì un fondamento di valutazione soggettiva, e in realtà qualsiasi premessa lo è, perché qualsiasi modello ha caratteristiche soggettive, è una griglia di cui ci serviamo per comprendere la realtà, descriverla e interpretarla. Però oggettivamente questo criterio è sincronico, non dia-cronico, perché infatti egli parla di caratteri combinati, cioè parte dai dialetti esistenti ed è in base a questi che coglie le differenziazioni. In un secondo tempo c’è una premessa stori-

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ca (come questi caratteri si sono venuti a costituire) che egli introduce quando parla di so-strato. Ma questo è un punto di vista già diverso.

Contro questo principio non sono mancate critiche specialmente in chiave storica. È molto interessante vedere che la linguistica italiana, da questo punto di vista non è innova-tiva, non c’è progresso nella teorizzazione linguistica, anzi è piuttosto un regresso (i pro-gressi casomai sono dal punto di vista critico e della documentazione storica). I manuali non lo dicono mai. Carlo Battisti (austroungarico, aveva però già scritto i suoi lavori contro la pretesa di unità ladina) è prosecutore di Ascoli solo fino a un certo punto. Contro Ascoli c’è un suo lavoro del 1947, premessa a un lavoro specifico di dialettologia ladina di Corti-na. In questo lavoro, che riveste anche un notevole interesse metodico-programmatico, egli attacca quelli che secondo lui sono i punti deboli della teoria di Ascoli.

Primo fra tutti quello della soggettività (cavallo di battaglia dei positivisti). Dice Batti-sti: “quando Ascoli parla di caratteri dirimenti, cioè decisivi per stabilire l’attribuzione di un complesso dialettale all’uno o all’altro gruppo, come fa a decidere con quali criteri, che un carattere è dirimente o no?”

La seconda critica, altro punto forte della linguistica tedesca e moderna perché Ascoli è esclusivamente preoccupato dell’attualità, della situazione in atto del dialetto, nel momento storico in cui è còlto (attuale in senso tecnico) come vivo, percepito e studiato. Sopravvalu-ta i risultati desumibili dall’osservazione del dialetto e quindi svaluta il dato storico, non tiene nel dovuto conto del processo, delle frasi storiche attraverso cui un dialetto si è forma-to. Per capire bene queste critiche di Battisti nota bene la sua cultura linguistica, ideologica e tecnica. Il Positivismo si traduce concretamente in storicismo molto accentuato (questa è la tradizione di molta linguistica italiana perché la situazione curiosa che si viene a formare e domina tra fine Ottocento e prima metà Novecento è l’inserimento dell’idealismo crocia-no su tessuto positivista; molta cultura italiana deriva dalla sovrapposizione dei due ele-menti, che però non è positiva, spesso è pseudocultura, sulla quale si pretende di fare sem-pre un corretto ragionamento storico e scientifico). Questo punto di vista porta a privilegia-re la storia, sulla scia di ciò che Croce diceva, cioè che non si può considerare scientifica-mente un oggetto di studio se non se ne fa la storia... a dispetto di quelle che sono le caratte-ristiche intrinseche, funzionali, ecc. Da questo punto di vista tutti gli atteggiamenti di carat-tere strutturalistico sono stati .....

Battisti diceva che per capire come un dialetto vada esattamente considerato bisogna interessarsi della storia, i gradini attraverso cui il dialetto è passato. Egli si era incoraggiato a dire questo, proprio per i suoi interessi per le parlate ladine. Era interessato a dimostrare come questo tipo linguistico non avesse nessuna autonomia storica all’interno della Romà-nia, perché molte, se non tutte le caratteristiche segnalate da Ascoli, si ritrovavano anche in altri tipi dialettali. Per esempio nei dialetti del nord Italia in fase medievale si trovano tutte quelle caratteristiche oggi riscontrabili nel ladino, per questo punto di vista il ladino non co-stituisce affatto una tipologia, costituisce solo un resto attardato di una serie di fenomeni che in queste fasce marginali si sono conservate, mentre in altre zone della Romània sono recedute, scomparse per innovazioni. Da questo punto di vista il ladino può essere conside-rato una realtà negativo-passiva, insieme di conservazione di elementi arcaici e no, come dice Ascoli e la linguistica tedesca...

Se si parte dall’uno o dall’altro punto di vista si hanno risultati molto diversi: se si prende in esame la questione tipologica sul piano sincronico → si troverà diverso il tipo

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gardenese dal veneto o lombardo. Se ci si fonda e si dà maggiore importanza al processo storico, si dirà che vi sono molti punti di convergenza e non vi sono caratteristiche tali da considerare questi due tipi dialettali in contrasto. Da questo punto di vista ci si trova di fronte a una grossa difficoltà, in quanto non sembra esistano dei criteri tali per cui si possa convincere i critici che uno dei due punti di vista è quello scientificamente esatto in modo inoppugnabile, per cui alcuni partono da un punto di vista, altri da quello opposto. Pochi fattori di conciliazione, l’unico invocato è esterno, e in fondo nasce dalla visione ascoliana dei dialetti e dall’ambiente specifico italiano, storico e sociolinguistico che ha ispirato que-sti. Abbiamo una serie di parlate sistematicamente divergenti che si rapportano, in positivo o in negativo con una di quelle parlate che nei secoli ha assunto molto prestigio e supera poi le altre. La realtà dell’italoromanzo da questo punto di vista è poliglottica, sempre com-battuta fra almeno due punti di riferimento, ma che attraverso procedimenti di complicazio-ne nei secoli, assumono maggiore complessità. Si parla di lingua, riferimento alto, e dialet-to, riferimento basso. Tra i due ci sono delle relazioni storiche e sistematiche molto com-plesse, cioè di solito il livello basso non è variante del primo, ma è tutt’altro. Il piemonte-se non è variante del toscano.

Una società di tipo poliglottico non si distingue tanto per caratteristiche intrinseche dei livelli linguistici, ma per le sue opzioni in materia di strumenti di comunicazione sovraloca-le o sovraregionale, il che dà delle conseguenze che dal punto di vista storico possono dare esiti contrastanti. Vedi per esempio due parlate romanze ritenute appartenenti a sistemi di-versi dall’italoromanzo o comunque differenziati come friulano e sardo, diversi fra loro sia dal punto di vista geografico, che tipologico e intrinseco. Non hanno relazioni storiche. So-no entrambe zone isolate, la prima contrasta con varietà come il tedesco e lo slavo. Inoltre il friulano per molto tempo, fino al XV secolo, ha orbitato nella cultura e nel mondo tedesco. Secondo molti esperti, queste due costituiscono lingue e culture oggettivamente minori, di limitata circolazione.

Nonostante quindi le contestazioni di coscienza nazionale ed etnica. Una nazione è l’insieme di caratteri coerenti di lingua, tradizione storica, costumi. Da questo punto di vista l’Italia è certo insieme di nazioni. In queste società ci sono fattori di affermazioni della pro-pria personalità anche linguistica. Si percepiscono nella loro alterità da punti di vista storici, linguistici, culturali e non solo a livello ristretto di individui. Nonostante questo, friulani e sardi riconoscono che la loro lingua guida è l’italiano e non contestano in linea di massima l’appartenenza amministrativa e politica all’Italia. Per altre realtà è diverso, come il ladino dolomitico nelle varietà gardenese e badiotto (c’è poi fassano e livinallongo → annesso con guerre di indipendenza) → la lunga consuetudine conservata per molto tempo col tedesco (queste sono appendici del Tirolo) → sono molto legati ad esso. Qui il punto di riferimento è duplice (anche storicamente, nei secoli passati, Chiesa → italiano; scuola, burocrazia → tedesco). Queste sono società che vivono sotto un doppio tetto.

La forma sociolinguistica prevalente per queste popolazioni qual’è? Lo stesso problema si pone per i Grigioni (non c’entra con l’italiano) per i quali si è inventato uno standard let-terario. Per questo molti preferiscono accostare il dato storico al principio culturale e rece-pendo quelle categorie sociolinguistiche klossiane (anni ’50), dicono che in ultima analisi l’unico elemento coagulante dei linguaggi (che permette la classificazione sociolinguistica) è criterio estrinseco, quello della lingua di cui si riconosce la supremazia.

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martedì 16 gennaio 1990

Criteri estrinseci per appoggiare una varietà linguistica Si arriva a conclusioni un po’ rigide. Kramer confronta la situazione italiana con quel-

la tedesca. Quando si parla di lingua base la scelta delle lingue di riferimento è fatta con cri-teri politici e culturali in senso lato, non linguistici, se non c’è una rottura netta nel conti-nuum linguistico. Il punto di riferimento di Kramer è questo: il basso tedesco (settentriona-le) è una varietà molto vicina storicamente all’olandese. C’è continuum perfetto tra basso tedesco e olandese: i dialetti sono identici dal punto di vista del tipo, però gli uni si ritengo-no dialetti del tedesco, gli altri dell’olandese. Tedesco e olandese, per quanto simili, sono ben diversamente standardizzati.

La situazione italiana è rapportabile a questo fino a un certo punto, volendo prendere in esame l’ambito dialettale italiano che Kramer ha in mente quando fa questi confronti → a-rea ladina o retoromanza. Lui parteggia per la posizione italiana, che non vede nel ladino fenomeni di particolare autonomia storica, piuttosto che per quella germanica, che lo vede come nettamente a parte. Però (come già osservato con Ascoli) se si va dall’area veneta e trentina verso il Friuli non esistono punti con stacco dialettale netto: si passa attraverso zo-ne con fenomeni di continuum (aree grigie). Queste aree intermedie sono il Cadore (basso) e l’agordino, che fanno da cuscinetto. Però non è del tutto vero che qui non esista interru-zione del continuum. C’è qui un fatto sociologico importante perché alcune di queste zone, soprattutto cuscinetto, sono caratterizzazioni del doppio dialetto (importante per l’artico-lazione di bilinguismo e diglossia) e ci sono delle zone monodialettali. In queste zone esiste il dialetto locale, nettamente ladino o una varietà di esso, non necessariamente omogenea dal punto di vista storico, può essere già parzialmente inquinata da altri apporti, e un dialet-to più elevato, di comunicazione sovralocale di tipo veneto, eventualmente trentino più a ovest.

In Cadore il veneto è conosciuto nelle sue varietà. Ma andando in val Gardena e Badia (più influenzati dal tedesco) si vede che qui sono monodialettali e conoscono il ladino loca-le (più in Badia che in Gardena) e/o più l’italiano e/o il tedesco. Ma non c’è il doppio dialetto: qui il veneto, per esempio, non è capito. Questo può essere, più in grande, adattato al problema del friulano. Tra Veneto e Friuli c’è una fascia dove i due sistemi si sovrappon-gono, poi c’è un’area in Friuli dove il veneto storicamente è stato dialetto di prestigio (Udi-ne, per esempio, il ceto borghese, e più basso, parlava veneto; lungo la costa le varietà di veneto coloniale si sono storicamente imposte in modo quasi definito, accanto e a volte so-pra il registro locale). Al nord il veneto è arrivato con minore capacità di presa.

Quindi il doppio dialetto in certe zone non è mai esistito. Questo criterio, sociolingui-sticamente, permette di stabilire delle rotture del continuum dialettale. Troviamo un confine netto da questo punto di vista. Zone in cui il doppio dialetto esiste, più orientate verso l’Italia come punto di riferimento. Le zone monodialettali lo sono. Discorso di tipo cultura-le con implicazioni linguistiche. I parlanti percepiscono o no la loro parlata come facente parte dell’italiano. La terminologia introdotta da Kloss negli anni ’60 (socio-linguistica) ri-presa poi da Muliacic e Kramer, è interessante in quanto permette di precisare determinate

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realtà linguistiche e dialettali altrimenti vaghe ed equivoche. Le distinzioni fondamentali introdotte da Kloss sono:

a) ausbausprache → lingua per elaborazione b) abstandsprache → lingua per distanziazione

a) corrisponde al concetto di standard. Tutte le lingue letterarie, nazionali, si sono costi-

tuite per elaborazione. b) tipo linguistico o sistema di isoglosse. Le distinzioni di questo genere consentono di evitare la semplice giustapposizione di

termini imprecisi come lingua e dialetto. Infatti sprache in tedesco in realtà non è la stessa cosa che lingua, perché noi intendiamo qualcosa di codificato, mentre il tedesco indica semplicemente varietà linguistica oppure meglio idioma. Nel corso delle distinzioni dialet-tali il tedesco usa spesso parole quali kultur dialekt oppure halbsprache, che letteralmente significa mezza lingua. Sono tutte definizioni impressionistiche e non facilmente confronta-bili. Facendo riferimento alla distinzione di Kloss possiamo distinguere fra varietà e alter-nanti all’interno della nozione generica di dialetto.

Varietà: realizzazioni di una ausbausprache standard già formata. Varietà in riferimen-to allo standard, che implicano precise affinità morfologiche. Ci si riferisce cioè a una tipo-logia piuttosto coerente.

Alternanti: riferimento ad abstandsprache. Sono elaborazioni note nel territorio di una lingua per distanziazione e sono caratterizzazioni piuttosto da sensibili differenze sul piano morfologico. Indicano rispetto allo standard entità tipologicamente coerenti.

Da questo punto di vista, prendendo in esame un’entità come l’italiano settentrionale

(considerato per comodità univoco) lo caratterizzeremo come un’alternante dell’italiano (varietà di esso è per esempio il dialetto toscano, vernacolo, vicino alla base italiana e senza differenze morfologiche significative). L’italiano settentrionale si realizza attraverso varian-ti morfologicamente diverse. Da questo punto di vista l’italiano settentrionale potrebbe ave-re una posizione più radicale. In quest’ottica sociolinguistica si parla per esempio per l’occitanico (moderno provenzale, parlata locale) di schein dialektsierte abstandsprache, cioè un tipo linguistico autonomo, sistema di isoglosse non standardizzate. Non c’è koiné; “in apparenza (nel senso che si mostra) dialettizzato” (cioè si mostra attraverso manifesta-zioni dialettali).

L’italiano settentrionale è a questo livello, e lo è a maggior ragione quanto più esistono dei fattori politici e culturali di etnicismo locale, come autocoscienza culturale e linguistica. Tutte le entità settentrionali hanno alle loro spalle letterature regionali, tradizioni culturali e altre manifestazioni. Queste idee e alcune correzioni di tipo sociolinguistico sono quelle che stanno alla base dell’ultimo consistente tentativo di isolare, definire e classificare l’italoro-manzo. Si tratta di idee comuniste. Non esistono cioè classificazioni in cui coerentemente e organicamente si faccia riferimento solo a un fatto linguistico o solo a un fatto culturale.

L’ultimo tentativo per l’italoromanzo è quello di Pellegrini, I cinque sistemi linguistici dell’italiano romanzo (1973). È importante dal punto di vista ideologico perché per certi

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aspetti rovescia la classificazione corrente e ha avuto nel 1977 la carta dei dialetti italiani. Per certi altri lascia immutata l’ideologia tradizionale.

Una classificazione molto simile a quella di Pellegrini era stata fatta prima dall’italia-nista danese Tageby nel 1962, che però non è stata seguita dall’importante strumento della carta. Queste sono le 5 varietà per Pellegrini:

1. Italia superiore o settentrionale o cisalpina. Vengono qui collocati tutti i tradizionali

dialetti galloitalici, e viene considerato qui anche il ligure, oltre a piemontese, lombardo, emiliano-romagnolo, veneto, con le sue appendici storiche e tipologiche (trentino, Istria). Viene fatto qui rientrare il ladino dolomitico o centrale (gruppi Sella, cioè Livinallongo, Badia, Gardena, Fassa, Cadore con Comelico e Cortina), mentre ricorda che la scuola tede-sca lo mette a parte. Concepiti come sottosistema marginale e arcaico del cisalpino. Sistemi che conservano e sviluppano tendenze altrove abbandonate e coperte dall’innovazione.

2. Friulano inteso come provvisto di individualità storica e sistematica, sia rispetto all’italiano settentrionale, sia rispetto al resto del ladino. Qui si ha il rovesciamento del principio retoromanzo. Critica all’unità ladina e principio ascoliano.

3. Italiano centromeridionale con i suoi sottosistemi. Qui c’è (purtroppo) una grossa semplificazione. Si lascia da parte la Toscana. Fanno parte di questo gruppo 3 grossi siste-mi non omogenei al loro interno: Italia mediana (qui non si sa se prevalga il lato linguistico o geografico), cioè Lazio, Umbria, Marche e parte dell’Abruzzo. Fra i meridionali, il tipo napoletano e il siciliano (tipico anche della Calabria meridionale e il Salento). Una classifi-cazione più aggiornata dovrebbe dare a quest’ultimo tipo maggiore autonomia in quanto molto diverso dal resto del meridionale (dialetti pugliesi: Foggia, Bari, parte Lucania...).

4. Sardo e còrso (soprattutto in chiave storica, perché poi ha avuto influenze dal tosca-no). Il sardo è percepito come appartato per le sue caratteristiche arcaiche, conservative.

5. Toscano, in particolare il fiorentino, che costituisce base etnica dell’italiano. Da so-lo sia per la sua individualità sia per la sua egemonia storica, perché lingua eletta. Curioso che lo standard italiano non sia il risultato di una larga convergenza dialettale, ma l’espres-sione di una ristretta variante locale.

Fattori di novità: rottura della presunta unità ladina (anche altri lo dicono) più sul pia-

no storico. Questi modificano la situazione dell’Italia del nord, ma lasciano intatta la situa-zione del resto d’Italia. Infatti il toscano, per ragioni più culturali che linguistiche, viene considerato a parte, mentre nella sua realtà linguistica è centromeridionale (forza della tra-dizione ascoliana e sue classificazioni solo parzialmente smentite).

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mercoledì 17 gennaio 1990

Il diasistema

Un sistema per leggere la variegata e complessa situazione italiana, italoromanza, può

essere lo spesso invocato ma non ben definito termine di diasistema, coniato da Weinrich (USA) autore di un libro, Languages in contact, cioè teoria dell’interferenza linguistica. Questo concetto era originariamente indirizzato a rappresentare i tratti sistematici di società in cui fossero presenti fatti di interferenza generalizzata (bilinguismo e diglossia). Nasce cioè in valenza e ottica chiaramente sociolinguistica. In seguito è stato ripreso in modo an-che abbastanza arbitrario in chiave non tanto sociolinguistica ma sistematica.

Per diasistema s’intende supersistema, sistema di sistemi. Usato con questo significato per adattarsi alla situazione italoromanza, dovrebbe semplicemente significare un sistema molto generale, capace di rappresentare i tratti sistematici comuni di tutti i sistemi specifici che formano il dominio generale. Volendo dimostrare cioè l’esistenza di un italoromanzo generale (diasistema) dobbiamo ipotizzare questo diasistema molto generico. Qualche lin-guista interessato allo storicismo (Devoto) giudicava illusorio un tale discorso. Può darsi che questo non sia altro che una riedizione in termini moderni del principio ascoliano. A-scoli aveva trovato una formula molto semplice →

Parlare di diasistema può essere più o meno la stessa cosa. Con strumenti analitici de-scrittivi più raffinati si raggiunge più o meno lo stesso, salvando i criteri di distanza molto generali ed evitando il pericolo di classificazioni troppo minuziose e non chiare. Tutto que-sto non risolve il problema teorico di dare una collocazione e definizione conclusa di questo complesso ambito italoromanzo, che resta entità intuitiva, con criterio analitico di tipo euri-stico, scarsamente formalizzato. Questo non toglie che non esistano dei criteri abbastanza generali e generalizzati per poter creare delle divisioni dell’area romanza italiana in aree successive.

L’indizio fondamentale è sempre di carattere fonologico (non ci si discosta mai, nella dialettologia, da determinate impostazioni originarie, anche se oggi si dà maggior spazio anche agli altri livelli). Gli indizi fondamentali si distribuiscono fra il vocalismo e il conso-nantismo, ma quello più generale di tutti, più stabile e delineabile, riguarda il consonanti-smo. Il vocalismo, all’interno dell’italoromanzo presenta una serie di divergenze difficili da giudicare (a parte la maggioranza dell’Italia con un tipo fonologico vocalico, ci sono 4/5 si-stemi marginali difficilmente interpretabili come formazioni storiche e rapporto sistemati-co). Il tratto consonantico è molto importante.

L’indizio fondamentale è dato dal trattamento neolatino del consonantismo in posizione intervocalica, debole, tra sonanti. Esso separa una zona a lenizione e/o sonorizzazione (non sono proprio la stessa cosa, ma si accompagnano) dall’iberoromania fino a tutta l’Italia ci-salpina, da un’altra zona priva di questo tratto (centrosud d’Italia fino al balcanico). Da vari indizi possiamo pensare che questo indizio interessasse anche la Romània perduta balcanica e probabilmente il neolatino d’Africa (resti neolatini si deducono dalla toponomastica e dai prestiti latini nel berbero, lingua direttamente influenzata dal latino prima dell’arabo...). Dopo gli studi di Weinrich (1969), teorico della variazione, e di Lausberg (Introduzione

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alla linguistica romanza), l’affermazione prima fatta va precisata dal punto di vista tecnico e bisogna distinguere in:

1. area che lenisce e sonorizza tra sonanti (consonanti in posizione intersonantica) e

successivamente rifonologizza (questa è la correzione da fare) la posizione iniziale di paro-la, restituendo, salvo relitti ed eccezioni, la consonante originaria. Generalizzando si po-trebbe dire restituendo la sorda iniziale (caso più importante).

2. area che non sonorizza tra sonanti, fonologicamente, nel senso che dal punto di vista

fonetico, come inizio di questo processo, avviene un fenomeno di lenizione e sonorizzazio-ne, perlomeno allo stadio iniziale, che però non si completa, e non rifonologizza l’inizio di parola (cioè non subisce processo di ristrutturazione all’antico) mantenendo uno stato di variazione. Se colleghiamo questo tratto con quello strutturalmente affine del trattamento delle consonanti geminate originariamente, osserveremo questa coerenza di comportamen-to, cioè che nella prima zona le consonanti sono semplificate (le originarie doppie vengono scempiate) nella seconda in genere no (ci sono soluzioni diverse). NB: si parla in genere di geminate, ma dal punto di vista fonetico e fonematico lo status di questi elementi è ridotto e discusso: sono due consonanti in connessione o una consonante forte? Poi c’è la questione strutturale: i due tratti sonorizzano e no, i trattamenti delle geminate sono fortemente con-nessi. C’è una grossa discussione riguardo la loro cronologia relativa, le relazioni sistemati-che e loro evoluzione. Per alcuni prima avviene un processo e provoca l’altro, per altri il contrario. Martinet dice: le geminate tendono per ragioni di economia articolatoria a scem-piarsi e ridursi a consonante unica. Dal punto di vista funzionalista questa consonante unica va a collidere con quella unica già esistente nel sistema. Per esempio fatto ~ fato, [tt] ~ [t]: se avviene scempiamento, quasi si distrugge l’opposizione, il che ha conseguenze gravi sul sistema. Si innesca un processo di salvaguardia del sistema, una catena di spinta per cui, scempiandosi le geminate, le semplici tendono a spostarsi in avanti e trasformarsi in sonore, e l’opposizione precedente si trasforma in opposizione sorda ~ sonora: [t] ~ [d] (se questo va a collidere con qualcosa di già esistente, si trasforma successivamente in qualcos’altro).

L’interpretazione corrente in realtà è contraria (giustificata da premesse teoriche, ma

anche osservabili di fatto): sono le consonanti semplici che in determinate condizioni ten-dono a spostarsi, agevolate da situazioni concrete e ubbidendo a principi di fonologia natu-rale. Consonanti semplici in ambiente sonoro tendono ad assimilare, sonorizzare. Se l’opposizione si realizzava come [tt] ~ [t], allora poi si trasforma in [tt] ~ [đ], la geminazio-ne diventa tratto ridondante e si apre la strada alla sua semplificazione.

Importante è il fatto sistematico, indiscutibile, quale che sia la soluzione poi scelta per cui lenizione, sonorizzazione e trattamento delle geminate sono due processi storicamente e sistematicamente molto legati. Questo fatto, due processi con due soluzioni:

- lenire/non lenire - degeminare/non degeminare

porta a quattro soluzioni. Infatti, osservando la Romània, possiamo quadripartirla e vedere che l’italoromanzo non si stabilisce in maniera uguale in tutte le quattro soluzioni, ma viene

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compreso in una zona più ristretta. Abbiamo una subarea che sonorizza (in senso generale, cioè anche lenisce) e rifonologizza e degemina senza residui fenomeni di variazione conso-nantica. Essa comprende più o meno tutto il galloromanzo (non completamente) e l’italiano settentrionale (fatte salve alcune zone particolari) col ladino, sia nella versione estesa, che in quella ristretta.

L’altra subarea sonorizza e rifonologizza e degemina con residui fenomeni di variazio-ne che riguardano però le consonanti sonore, allo stadio finale del processo di sonorizza-zione. Queste sono l’iberoromanzo (soprattutto lo spagnolo, molto meno il portoghese, il catalano si comporta più come il galloromanzo) e soprattutto alcune aree dell’Italia setten-trionale, specialmente il Veneto (non però il veneziano, che si è rifatto a parte e presenta una situazione abnorme), ma quello centrale (Pd, Vi, Ro) e settentrionale. Non a caso il ve-neto e lo spagnolo sono sistemi caratterizzati da interdentali (il veneziano, appunto, non le ha e forse non le ha mai avute) e da continue sonore (come presenza di foni, poi la colloca-zione fonematica varia). Sonore in posizione debole si realizzano come continue F, G, B.

Ascoli, descrittivamente aveva già notato questo e lo segnala citando un esempio ber-gamasco (nel suo lavoro di classificazione dell’Italia dialettale) per caratterizzare il fatto classificatorio. Determinati dialetti lombardi, ma anche altri dialetti settentrionali hanno queste caratteristiche (ma in modo meno evidente del veneto) a proposito della realizzazio-ne del fonema /v/, fricativa labiodentale sonora. Questo è un tratto costitutivo molto sem-plice di molti dialetti. Questo fonema, che è debolmente fricativo, in posizione debole (tra sonanti vocali) rivela la sua debolezza, per cui il processo di rilassamento articolatorio può portare a zero. Vedi il veneziano saon e altre varietà venete che invece hanno savon.

Ascoli nota a livello di fonologia lessicale che il /v/ bergamasco va a zero all’interno di parola: caà ‘cavare’, fàa ‘fava’. [La base latina presenta V e B → sono esempi pan-italiani, questa caratteristica è identica dappertutto]. Viceversa quando ci sono fatti di morfologia, il bergamasco può ugualmente essere interessato da questo fenomeno. Ascoli porta come e-sempio:

ol # vì ‘il vino’ dove /v/ in posizione forte si conserva de # vì > øì dove /v/ in posizione debole va a zero

Questo significa che quando si hanno queste sonore il processo fonologico scatta anche

in presenza di confine morfologico, quindi la parola può realizzarsi in due varianti. Queste sono le condivisioni tipiche dei dialetti meridionali. Questo riguarda sempre le consonanti sonore, mai le sorde.

La TERZA subarea è quella che non sonorizza fonologicamente, ma evolve comunque il consonantismo interno senza riguardo alla posizione sintattica (quindi conservando fatti sistematici di variazione: vedi esempio precedente) e al tempo stesso senza degeminare. In questo segmento “C” è compresa tutta l’Italia centromeridionale, insieme col sardo e il còr-so. Ma sono diverse le tipologie, tecniche, con cui questo fenomeno avviene.

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lunedì 22 gennaio 1990 (da registrazione magnetica)

Tutta l’Italia centromeridionale, insieme col sardo, sta entro questo riquadro (C). Dal

punto di vista areale è quello che ha la maggioranza. Però questa segmentazione che è fon-damentalmente esatta, al suo interno invece si manifesta in modi molto dissimili. Questo non ci autorizza a ipotizzare un tipo dialettale omogeneo centromeridionale e insulare. Ci sono due grosse alternative con cui si realizza questa non sonorizzazione fonologica con mantenimenti di fatti di variazione. L’alternativa più caratteristica è quella del toscano. Questa è una delle due ragioni per cui il toscano viene classificato a parte. Considerato co-me sistema a se stante. Ma non tutto il toscano è interessato a questa caratteristica, che è la gorgia. Per quanto riguarda le sonore, il toscano non ha grandi parti di variazione, ne ha soltanto di marginali. I fatti di variazione interessano soprattutto le sorde p, t, k (sonore: b, d, g).

La gorgia

Le occlusive sorde in posizione debole, cioè tra sonanti, vengono spirantizzate.

All’inizio è ph, th, kh e consiste in un’articolazione con un’appendice di aspirazione, ma in realtà finisce col dar luogo a una continua, Ø, θ, Χ, bilabiale, dentale, velare. Dove si rea-lizza questo processo i foni non sono fortemenente fricativi, qualche volta sono approssi-manti. Addirittura si può arrivare al grado zero. Ci sono diversi dialetti toscani in cui si dice amìo, anziché amixo. La variazione consiste nel fatto che a seconda del contesto si possono avere tre esiti:

1 - normale (in posizione iniziale o non debole) casa [‘kasa] come in casa 2 - debole (in posizione debole) di casa [di ‘hasa] (si ha la spirantizzazione) 3 - rafforzato (in posizione di rafforzamento) a casa [a k‘kasa] (raddoppiamento fonosintattico) Questo fenomeno riguarda l’area fiorentina e da lì c’è stata una certa estensione. Per fa-

re un esempio anche una p intervocalica dovrebbe pronunciarsi Φ (come pepe) oppure t (come stato) con raggiungimento di grado zero.

Nessun altro complesso dialettale italiano segue questa strada. L’area C si ispira ai ca-noni classici della variazione che prevedono questo fenomeno a livello delle consonanti so-nore. Per cui la bilabiale si realizzerà alternativamente come b in posizione forte e come v come fricativa in posizione debole. Naturalmente questi sono i due estremi. In mezzo ci possono essere tanti casi diversi: la debole può realizzarsi come fricativa bilabiale di tipo β o un’approssimante posteriore del tipo w.

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b b β, w

v d

d F

g g γ

I casi più importanti riguardano la labiale e la dentale. Questo fono è assolutamente im-

portante dal punto di vista diasistematico: [β] viene modificata in tutta l’area neolatina, non sfugge a un processo di evoluzione da nessuna parte. Questa in posizione debole passa sempre a [v]. In genere le sonore tendono a fare questo. In alcune aree questo viene fonolo-gizzato. Nelle aree della Romània occidentale abbiamo esiti ormai definiti. Il verbo latino HABERE presenta una v dappertutto. In tutta l’area neolatina le consonanti sonore sono sensibili al contesto, cioè sono esposte a variazioni. L’esempio classico è quello di B che viene spirantizzato dappertutto in posizione debole. Non esistono parlate neolatine che non modifichino quello stato di cose. Se noi troviamo una b occlusiva intervocalica, ci sono due strade per spiegarla: o c’è un processo di reazione fonologica oppure è una parola colta. Ma in genere la soluzione è quella. Solo che alcune aree fanno questo all’interno della parola e all’inizio, quando c’è una posizione topica, ripristinano le condizioni anteriori.

Altre aree come i dialetti italiani centromeridionali invece instaurano una condizione di variazione. Vuol dire che appare il fono permesso dal contesto in qualsiasi condizione, sia all’interno della parola che in confine morfologico. Se la condizione non è debole appare la variante forte, cioè l’occlusiva. Se il contesto è debole apparirà la variante debole, cioè la spirante. Questo spiega il paradigma di tipo napoletano:

- a vecchia < ILLA VETULA (condizione debole) - e bbecchie < ILLAS VETULAS (condizione forte)

La grammatica tradizionale chiama fenomeni del genere betacismo. Il betacismo con-

siste cioè nell’avere b dove ci si aspetterebbe v. Dal punto di vista etimologico, non dal punto di vista delle leggi fonetiche. I dialetti centromeridionali sono un grande caos da que-sto punto di vista, perché alcuni conservano regolare la variazione, altri hanno modificato questo quadro. Riguardo a b e v molti dialetti hanno operato una sorta di regolarizzazione analogica. Quindi ci sono dei dialetti che hanno instaurato sempre b in qualsiasi condizione, altri che mettono sempre v in qualsiasi posizione. Alcuni generalizzano una delle due va-rianti, altri tendono a generalizzare l’altra. Altri si dividono senza nessun criterio. Sono scelte per blocchi lessicali. In modo del tutto incoerente per quanto riguarda l’origine stori-ca. Troviamo boce per voce o boto per voto. O varva per barba. I dialetti marginali del sud, quelli che tendono a discostarsi dai dialetti napoletani, adottano delle soluzioni ancor più

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complicate: i dialetti salentini, calabresi, lucani. Sono reazioni quasi istintive, anche se ob-bediscono a una logica specifica. Per cui troviamo che le sonore leni, cioè le sonore spiran-tizzate, vengono riportate a delle sorde:

- β, δ, γ

p, t, k - Ù, Ú, Û

questo succede all’interno di parola. Esempi:

- sàpatu ‘sabato’, c’è una b etimologica - nitu ‘nido’, dove etimologicamente c’è una d - pete ‘piede’

Caratteristico è l’esito della dentale. Può arrivare a zero, può essere sostituita da una

specie di l, può diventare una specie di retroflessa. Può passare a una r posteriore (rotaci-smo) come maronna (per Madonna). E non solo in posizione intervocalica. Però i dialetti che invece reagiscono contro questo indebolimento hanno questa forma di rafforzamento che riporta delle vere e proprie sorde. Il curioso è che lo fanno all’interno di parola. Nella solita posizione della iniziale questi dialetti rispettano invece la variazione e la rispettano secondo le leggi naturali. Per cui in molti dialetti ci sono forme di questo genere:

- a vimmina (f sonorizzata in v) - o zole (s sorda diventa s sonora)

È un sistema molto complicato. Il processo riguarda la diversità di trattamento delle so-

nore in relazione alla loro posizione: forte o debole. AREA D (la quarta), che interessa la subarea romanza che non lenisce e che restituisce

lo stadio originario, ma al tempo stesso degemina. Quest’area è costituita dal balcano-romanzo in senso lato. Ci sta dentro il rumeno e anche il dalmatico. Il consonantismo di queste parlate è abbastanza vicino a quello toscano. Le consonanti sorde originarie latine sono mantenute, si trovano tali e quali, in realtà sono restituite allo stato originario. Però, diversamente dal toscano, nel rumeno e nel dalmatico non ci sono più le geminate.

Osservazioni generali con riguardo al settore C Il riflesso più noto di questo stato di cose è la condizione della sibilante s in posizione

intervocalica, l’originaria s sorda. Se consideriamo il territorio italoromanzo vedremo che la realizzazione delle sibilanti si conforma alle premesse che abbiamo schematizzato finora.

La sibilante si realizza regolarmente sorda nel centrosud: casa (sorda), fuso (sorda). A nord troveremo caza (sonora) ecc. In posizione iniziale invece a nord è sempre s sorda, mentre a sud possiamo avere realizzazione sonora se all’iniziale...

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Comunque il nord ha sempre la sonora, mentre un meridionale dirà sempre s sorda. La Toscana qui occupa una posizione intermedia. Per una serie di complicazioni storiche in Toscana è penetrata anche la pronuncia sonora, ma in modo disordinato. Oggi a Firenze la moda settentrionale sta prendendo piede. Bisogna ammettere una opposizione fonologica s ~ z: fuso ~ fuzo (sostantivo ~ verbo), inglese ~ ingleze.

La sonora doppia [zz] non esiste. Qualcuno pretende che esista la [z] come doppia. In-vece non esiste né in italiano, né in toscano.

Tutta l’Italia è compresa tra A e C, con qualche ricorso di B. Non c’è più D.

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lezione della dott.ssa Gianna Marcato martedì 23 gennaio 1990

Problema della variazione nella lingua, genesi dell’analisi dialettologica

È trattata all’interno di correnti diverse (per esempio il metodo storico comparativo). Significati diversi della variazione all’interno dei vari approcci teorico-metodologici. Per esempio morfologia: participio → vediamo come se ne occupa la dialettologia storica, la geografia linguistica, la dialettologia sociologica, per cogliere lo spessore del fenomeno “dialetto”. Questa analisi non è semplice.

In un testo linguistico (di qualsiasi tipo) anche la minima variazione dà informazioni molto importanti riguardo al modello cui si riferisce (per esempio c’è tutto l’ambito delle presupposizioni, della conoscenza enciclopedica che uno può o meno avere. “Il re di Fran-cia è calvo” → bisogna, per dire se la frase è giusta o no, vedere quali sono le conoscenze dell’interlocutore e il grado di verità → c’è il re? è calvo?).

Se per esempio dico “desìo”, questa parola si connota come non casuale ed è facile ca-pire che ci si rifà a un modello letterario. Questa scelta linguistica ha fornito un’informa-zione precisa → Dante. Però dal punto di vista socioculturale l’interlocutore può non co-gliere assolutamente la provenienza della parola → è cambiato il background culturale di molti: da questo per esempio si capisce anche come il linguaggio letterario di un certo tipo non sia più possibile: perché la scuola non diffonde più una certa tipologia di testi. → pri-ma, persone che anche non sapevano l’italiano, avevano questo patrimonio di riferimento.

Possibilità della lingua → tutte le informazioni che la lingua ci dà come forma poi ci portano a una descrizione sociale del gruppo parlante. Il modo in cui uno parla fa sì che questa persona comunichi molto di più di ciò che consciamente vuole. Per esempio, il parti-cipio in -esto. “Se ghesse podesto studiare, garìa vuo caro”. Informa sul livello d’istruzione (NB - una persona può essere molto colta antropologicamente, ma in una zona in cui il mo-do di parlare è investito di certi valori, usare una forma o l’altra discrimina positivamente o negativamente). Possibilità della lingua: si va da un punto A, la dialettologia analizza solo tecnicamente il fenomeno fino ad An, analisi in chiave di significato culturale. La frase in-forma che è contadino, anziano... Questi sono risultati di ricerca empirica: un semplice par-ticipio quindi assume molti valori.

Il dialetto, nota bene, è nato come lingua orale, escluso dai testi della cultura ufficiale. La cultura scritta ha le sue difese (censure) e si potrebbe pensare che la cultura orale non abbia la sua grammatica, invece c’è → i giudizi della comunità sui parlanti. La lingua co-munque è controllata e passa il suo significato dentro il gioco delle forme. Poi subentrano su queste i vari significati culturali, psicologici. Per esempio, POSĬTUS > posto in toscano. In termini di leggi fonetiche → cade la ĭ. La forma romanza deriva dall’accusativo latino, u > o.

Regola: alcune forme come POSĬTUS, QUAESĪTUS, VISĬTUS, fanno regolarmente in toscano → posto, chiesto, visto. Certe forme di derivazione si mantengono intatte in tutte le parole. Se la lingua però funzionasse solo secondo questo tipo di regolarità, avremmo lin-gue prevedibilissime in diacronia. Invece succede che per analogia il participio passato for-te -sto si estende ad altre forme verbali che non dovrebbero presentarsi tali. Può cioè acca-

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dere che una microregola precisa e giustificata sia rigorosa nel funzionamento, nel passag-gio latino-italiano, ma succede anche che nel volgare non sia più base latina, si hanno erro-ri, cioè deviazioni dalla regola. Per esempio anche il participio mosto non sarebbe prove-niente da MOSĬTUS, ma da MOVĒRE, quindi forme ingiustificate. La dialettologia storica mette anche in evidenza come il dialetto sia derivato dal latino e dall’intersezione con altre regole trasversali che hanno forgiato un nuovo codice con diverse regolarità. Questa varia-zione, importante all’interno dell’approccio storico comparativo, fa capire che non solo la forma, ma anche la frequenza d’uso di una parola può diventare una regolarità nella forma-zione a scapito della regola solo di forma. Questo metterà poi in crisi la linguistica storico comparativa. Per esempio, vediamo come opera questa legge:

→ per via colta: platea

PLATEA → piazza → per analogia: pieve/plebe

PLENU → pieno PLACERE → piacere (PL > pi) PLUS → più

IŬGU, CRŬCE, NŬCE, GŬLA, PŬTEU = Ŭ > ó HABEAM, RABIA, CAVEA = VJ > bbi

In quest’ultimo esempio lo jod semivocalico retroreagisce sulla consonante e fa diven-

tare la v una b. Di fronte al latino classico - scritto - aveva questi fenomeni distinti, quando è diventato romanzo l’influsso di questo jod è stato tale da trasformare i nessi e la b in v. Anche oggi il confine in dialetto tra v e b è labile. Questo passaggio è fluido e continua-mente in atto. Quindi essendoci distanza articolatoria minima, nell’oralità non si distingue più. Questo fenomeno è globale. Due esiti diversi diventano i: la controprova è il toscano → allora in fase intermedia quelle 3 parole avevano la stessa forma. La parola PLUVIA, che troviamo attestata in latino darebbe PIOBBIA secondo la regola precedente. Ma questa non esiste nemmeno in qualche varietà romanza dell’italiano. Abbiamo infatti pioggia. E allora da cosa deriva? Si fa il passaggio inverso, prendendo una forma che abbia [dZ]. La derivazione è dalla forma latina *PLOIA. Il problema però è che non si trova attestata da nessuna parte. La regola non spiega mai il 100%.

La variazione in linguistica è determinabile e ci dà delle informazioni a seconda del metodo con cui la analizzo. Il risultato precedente del metodo storico comparativo lascia aperti molti problemi. Fra *piobbia, pioggia e *PLOIA, PLUVIA, questo cosa suggerisce? Le informazioni che ho da queste sfasature, fanno capire che anche se non la trovo nei testi scritti deve esserci stata una forma usata così. Ma non trovo nemmeno attestato il perché una forma PLUVIA poi viene abbandonata per *PLOIA. Entrano in gioco regole, meccani-smi, fattori extralinguistici che mutano la lingua al di fuori della nostra prevedibilità. Il di-scorso quindi anche dei vari italiani, registri, neologismi del dialetto è questo, il fatto di ve-dere che si creano nell’uso linguistico regolarità che vanno al di fuori di quelle previste. Questo è oggetto di studio del mutamento e di chi si occupa in termini di uso, non solo co-me codice.

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mercoledì 21 marzo 1990 Nella subarea D non abbiamo il fenomeno della sonorizzazione. Si ha poi il processo di

degeminazione: è un comportamento abnorme. Si realizza così uno strano compromesso fra le tendenze di semplificazione delle consonanti geminate di una parte dell’area romanza e dall’altra la tendenza a non modificare ulteriormente la situazione fonetica. Per esempio il rumeno in parte si comporta come l’Italia centrale e in parte come il francese. Tipologica-mente, in riferimento alla fonetica il rumeno e il dalmatico hanno dei comportamenti ab-normi.

Trattamento della s in posizione intervocalica o debole

Si hanno due contapposizioni nel territorio italoromanzo. Nel sud è sempre sorda: [s]

anche nel centro. Nel nord è sempre sonora: [z] con eccezioni dove ci sono frontiere morfo-logiche. All’inizio di parola s in tutta l’Italia è sorda, se è seguita da consonante sorda è sorda, come in spedirei. Se è seguita da consonante sonora è sonora, come in sbagliare.

La Toscana, e Firenze, ha una posizione intermedia. La prevalenza e la tendenza è per la sorda, ma ci sono molti casi con la sonora. In Toscana si dice inglese, ma franceze. Que-sta è una contraddizione notevole. Così si ha fuso (arnese per filare la lana) e fuzo (partici-pio passato di fondere). Il fiorentino e il toscano hanno molte parole che accolgono il mo-dello settentrionale della sonorizzazione. Il fiorentino ha ago, spada, strada, lago, riva, do-ve etimologicamente vi è [k] di ACO, [t] di SPATA, [p] di RIPA.

Altra questione. In italiano qualsiasi consonante ammette la geminata, a parte la s sono-ra [z]. L’Italia è compresa quasi totalmente tra la subarea A e quella C con qualche apparte-nenza a B (per es. il Veneto). A è il tipo settentrionale. C quello meridionale.

Altra caratteristica è il trattamento delle palatali neolatine, cioè i riflussi delle velari o-riginali seguite da e, i: K, G + e, i. L’evoluzione fondamentale è nelle palatali [tS], [dZ]. Questo effetto è mantenuto nel settore C.

Nell’Italia settentrionale con i tipi A, B la situazione è diversa, perché le affricate pala-tali latine si sono evolute nelle affricate dentali [ts], [dz]. Però molte zone hanno ancora og-gi le palatali affricate c, g (Lombardia e aree alpine). In più si ha nel Veneto s, z. E ancora [T], [F]. Nell’area C, che in genere ha la [tS] e la [dZ], ci sono sottogruppi che conservano la situazione latina (il sardo mantiene le velari: cane, gatto). Il toscano ha la forma [tS], [dZ]. Il sardo probabilmente ha all’inizio portato le velari in velari palatali: chie, ghie, e poi si è fermato. Ora si ha solo la velare. L’italiano sostanzialmente è un insieme di varietà che si colloca in A e in C, con le variazioni in B, perciò non si può risalire a una unicità di base a parte il latino.

Questa classificazione ci mostra come la base neolatina sia fortemente scissa nelle sue origini. Ci sono semmai fattori posteriori di avvicinamento. Nell’Italia settentrionale ha sempre prevalso la continuità e il collegamento con il resto della penisola. Nel mezzogiorno infatti le innovazioni di Firenze sono state accolte al nord. Così le parlate del nord non si sono allontanate. Condizioni complicate di esistenza ci sono anche nell’area C (per es. il sardo). Il tratto più difficoltoso per un discorso unitario è rappresentato dal vocalismo, per-

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ché si nota che tra Italia centrosettentrionale e meridionale ci sono forti diversità e a volte contraddizione. Il sistema toscano è quello più semplice:

i u i u

e o e o è ò a

a in posizione tonica in posizione atona

Esiste una sola vocale bassa a. Non esistono vocali del tipo œ. Non esistono fenomerni

metafonetici. Nel toscano e quindi nell’italiano standard la metafonia non è un processo o-perante. Il resto dell’Italia non segue in blocco questo sistema: il veneto per es. sì, il lom-bardo no, e così via. I dialetti centromeridionali non sono tutti uguali. Il romanesco segue questo sistema. Le differenze sono al sud, dove vi è la metafonia e dei sistemi alternativi veri e propri: il sardo e parte del lucano, il secondo è il siciliano.

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lunedì 26 marzo 1990 (da registrazione magnetica)

La bipartizione fondamentale per l’Italia, sotto la quale abbiamo costretto le varietà ita-

liane, funziona bene in riferimento a determinati indici fonologici molto importanti, che so-no quelli relativi ai fattori dei processi di lenizione e sonorizzazione. Ma non funziona per quanto riguarda il settore del vocalismo, perché se all’interno del settore settentrionale tro-viamo una situazione abbastanza omogenea, nel centromeridionale le cose si complicano parecchio. Per un motivo molto semplice: che il sistema toscano a 7 elementi tonici va bene per un certo settore dell’Italia centrale, nell’Italia meridionale comincia già a subire delle variazioni notevoli e poi si trasforma, viene sostituito da sistemi diversi in zone marginali. Non ci occupiamo qui delle varianti di tipo campano, di quelle pugliesi e non prendiamo in considerazione importanti fenomeni come la metafonia. Ci limitiamo a introdurre quelli che sono i sistemi vocalici distinti da quello toscano.

I due sistemi meridionali che fanno da contrappunto fondamentale al sistema toscano sono:

- il sardo, che comprende tutta la Sardegna, la Corsica meridionale e l’area tra la Luca-

nia meridionale e la Calabria settentrionale (lucano-calabro), chiamata quest’ultima zona Lausberg, noto romanista tedesco che ha esplorato quest’area mettendo in evidenza questo particolare vocalismo. Questi esiti vocalici storici sono importanti perché spesso sono as-sunti come indice specifico della originalità del tipo linguistico in questione, all’interno dei dialetti romanzi. Si tratta di un vocalismo di carattere timbrico, nel senso che i timbri origi-nari si fondono, invece di differenziarsi come è avvenuto nel vocalismo toscano:

ī ĭ ē ĕ a ŏ ō ŭ ū ▼ ▼ ▼ ▼ ▼ i e a o u ← sistema sardo a 5 vocali Nel sardo e nelle altre aree suddette abbiamo la fusione dei timbri. PILUS e FINIS

hanno lo stesso esito. Non c’è nel sardo differenziazione fonologica tra vocale media aperta e vocale intermedia chiusa. Cioè E ~ e, O ~ o non c’è nel sardo. Le vocali aperte e chiuse esistono, però sono condizionate. Cioè occorrono in un certo contesto. Poi intervengono fat-tori metafonetici, nel senso che vocali che vengono dopo possono aprire o chiudere, soprat-tutto chiudere. Ma il condizionamento principale dovrebbe essere il contesto sillabico, nel senso che si dovrebbe avere vocale tendenzialmente aperta in sillaba chiusa e tendenzial-mente chiusa in sillaba aperta. L’importante è che questo è un sistema vocalico radicalmen-te diverso da quello toscano. Il sistema toscano funziona così:

ī ĭ ē ĕ a ŏ ō ŭ ū ▼ ▼ ▼ ▼ ▼ ▼ ▼ i e E a O o u ← sistema vocalico toscano a 7 elementi in posizione tonica

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Quindi si tratta di una differenziazione vocalica piuttosto importante. La tipologia del sardo è piuttosto abnorme. Lo stesso dicasi dell’altro grande sistema vocalico, ancor più importante dal punto di vista della sua espansione geografica e anche dell’incidenza demo-grafica: il siciliano, che comprende la Sicilia, la Calabria meridionale e il Salento (Puglia meridionale).

Perché è importante questo vocalismo? Esso individua alcune aree italiane che non sa-remmo portati a differenziare internamente. Mentre la Sicilia è compattamente legata a que-sta caratteristica e fattori di differenziazioni interne si mostrano nelle altre due aree che ab-biamo introdotto, cioè la Calabria meridionale e il Salento. Intanto la Calabria, come regio-ne, non è affatto unitaria dal punto di vista dialettale e non lo è neppure dal punto di vista culturale. La Calabria meridionale è quella che correntemente viene definita la Calabria greca, la Calabria centrosettentrionale è la Calabria latina. E il Salento, come parte meri-dionale delle Puglie, mostra un dialetto che è molto diverso da quello pugliese. Siamo nelle province di Taranto, Brindisi e Lecce. Ma dal punto di vista dialettale, solo la provincia di Lecce è salentina, mentre Taranto e Brindisi sono in parte pugliesizzate.

Che cosa rappresentano queste aree di importante dal punto di vista storico? Che sono aree storicamente di forte presenza greca. Oggi il numero delle colonie greche in queste a-ree è molto ridotto. La maggior parte di queste colonie esisteva ed esiste tuttora nel Salento. Ce n’erano numerose nella Calabria. Ci sono ancora alcuni paesi dove si parla il grico. Al-cuni nomi sono chiaramente di fattura greca. In Sicilia invece colonie greche non ne esisto-no. Però storicamente c’è sempre stata una forte presenza greca. Qui c’è una grossa polemi-ca in corso, che ha visto contrapporsi studiosi tedeschi e studiosi italiani. Alcuni hanno vo-luto sostenere con vari argomenti che la grecità di queste aree sia una grecità ininterrotta. Cioè in sostanza il greco che si è mantenuto fino all’epoca moderna è un diretto continuato-re del greco importato dalla colonizzazione antica. Queste zone costituiscono quello che in antico si chiamava Magna Grecia. Magna perché era più grande, in tutti i sensi, della ma-drepatria. Più ampia, più estesa, economicamente più ricca, culturalmente più viva. Quindi alcuni sostengono che in realtà questi dialetti moderni continuano la colonizzazione antica. La presenza del greco parlato ci sarebbe sempre stata. Invece altri sostengono che questi dialetti greci sono da reimpianto bizantino. Sono di epoca bizantina. Non è vero cioè che la latinità della Magna Grecia si sia conservata a lungo ininterrottamente. Sia pur durando a lungo, il greco si è mantenuto molto, però secondo questi studiosi a un certo punto sarebbe caduto e questi territori sarebbero stati latinizzati. In epoca medievale bizantina, ci sarebbe stato un reimpianto di elementi greci e le colonie moderne dovrebbero la loro presenza a questa ricolonizzazione.

Per quanto riguarda la Sicilia il discorso è più complicato, perché sappiamo per certo che la presenza greca è forte soprattutto nella parte orientale dell’isola, nelle province di Messina, Catania, Siracusa. La presenza greca è forte fino ai secoli dell’alto medioevo. La situazione siciliana è complicata poi da una altro fatto di cui invece la Calabria e il Salento hanno risentito molto meno. È complicata dalla conquista degli arabi. In Sicilia gli arabi si sono impiantati e ci sono stati per parecchio tempo. Sono stati poi soppiantati da un ritorno europeo, però non sono stati immediatamente distrutti. L’arabo ha avuto una vita molto lunga un Sicilia. Certe zone della Sicilia centrale sono state profondissimamente arabizzate. Lo dimostra la toponomastica. Altro problema! Data questa forte presenza medievale, greca da un lato e araba dall’altro, in Sicilia, alcuni sostengono che il latino sia stato soppiantato

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del tutto e che di conseguenza il siciliano moderno, che esiste da secoli, sarebbe una reim-portazione. Teniamo presente anche il fatto importante che in Sicilia c’erano molte colonie galloitaliche, abitate da colonizzatori che venivano dall’area ligure-piemontese. Si tratta di dialetti ormai sicilianizzati.

Per quanto riguarda il vocalismo in particolare, il lavoro più importante degli ultimi an-ni è quello di Franco Fanciullo, che ha scritto un saggio in cui propone di spiegare l’origine di questo vocalismo non come evoluzione autonoma del latino locale, ma sotto una chiave sociolinguistica. Cioè le caratteristiche di questo vocalismo deriverebbero dal contrasto, da un fenomeno di bilinguismo diffuso e quindi dalla sovrapposizione del siste-ma originario neolatino sul sistema greco. In sostanza il vocalismo siciliano dovrebbe la sua origine a un diffuso bilinguismo neolatino-greco. Il vocalismo siciliano, compresa Calabria e Salento, fa questi raggruppamenti:

ī ĭ ē ĕ a ŏ ō ŭ ū ▼ ▼ ▼ ▼ ▼ i e a o u ← sistema a 5 vocali

costituisce una via di mezzo tra il vocalismo toscano e il vocalismo della zona Lausberg. Si fondono le vocali alte, tutte. Quindi l’esito finale è lo stesso identico del sardo, a 5 vocali, ma con diversa matrice storica.

Riprendiamo il discorso sull’Italia cisalpina, quando si diceva che essa sembra presen-

tare delle caratteristiche di omogeneità abbastanza diffuse. Riguardano fondamentalmente il complesso dei dialetti galloitalici:

- il piemontese - il ligure con diversi gradi! - il lombardo - l’emiliano-romagnolo

A questi dialetti possiamo aggiungere il trentino cosiddetto lombardo e anche il ladino

centrale. Divergono due varietà dialettali in oriente:

- il veneto - il friulano

Il veneto, nel contesto dei dialetti settentrionali, è un dialetto molto strano, perché man-

ca di tanti comportamenti che sono specifici dei dialetti settentrionali: nella struttura della parola e nel vocalismo. Mentre in realtà è piuttosto affine agli altri dialetti settentrionali nel consonantismo. Il veneto non si distacca da questo punto di vista dal toscano. Il vocalismo del veneto è uguale a quello toscano. La struttura della parola è molto simile a quella del to-scano. Specie di quelli centrali (padovano).

Che cosa caratterizza il vocalismo dei dialetti settentrionali? È difficile dirlo. Si può di-re che nell’Italia settentrionale l’evoluzione del vocalismo ha seguito una certa strada che poi è stata riportata indietro. Le caratteristiche essenzialissime dei dialetti del nord sono la

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debolezza degli elementi atoni, quindi la forte prevalenza degli elementi tonici sugli ele-menti atoni, e quindi accentuati fenomeni di sincope e di apocope. E i fenomeni di ditton-gazione.

Altre caratteristiche gallo-italiche che la dialettologia riteneva tipiche di questi dialetti e addebitava al sostrato celtico sono l’avanzamento di a tonico: A > E e l’anteriorizzazione di u: U > ü e ancora: Ŏ > œ.

Tutti questi fenomeni sono stati in parte bloccati dal fatto che sull’italiano settentriona-le si esercita l’influsso del toscano. L’unico complesso dialettale che si è veramente svilup-pato a fondo è il friulano, che presenta un sistema vocalico assolutamente originale.

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martedì 27 marzo 1990

Il friulano La caratteristica del friulano è data dall’originalità del sistema vocalico da esso svilup-

pato. Esso sviluppa determinate tendenze dell’Italia cisalpina (tendenze neolatine). Nel friu-lano non ci sono state alcune caratteristiche dei dialetti lombardi, emiliani, piemontesi, ecc., soprattutto le caratteristiche che avevano spinto già Ascoli a parlare di spie celtiche prove-nienti dal sostrato, soprattutto nei fenomeni di anteriorizzazione delle vocali miste o turba-te: œ, 2, y, ä, ü. Queste caratteristiche non ci sono nel friulano.

L’originalità del friulano riguarda: - l’opposizione tra posizione forte e debole, fonologizzando gli esiti delle due posizioni.

Opposizione di quantità: vocale lunga a vocale breve. Sarebbe più corretto: forti a brevi. - forti: in genere si realizzano come lunghe o tese con timbro chiuso - deboli: brevi, perlopiù rilassate con timbro aperto Esempi: pa:s ‘pace’ ~ pas ‘passo’ pe:s (< PĒNSUM) ‘peso’ ~ pEs (< PĬSCEM) ‘pesce’ I fenomeni fonologici sono: NS > S > PĒSUM, in posizione tonica di sillaba aperta svi-

luppa una lunghezza neolatina. Una volta caduta la vocale finale abbiamo l’esito superficia-le PĒS. Tra PĒS (> pe:s) e PĔS (> pEs) c’è solo distinzione fonologica perché il contesto è identico.

Questo è successo in tanti dialetti dell’Italia settentrionale in fase medievale, ma poi processi vari li hanno oscurati, così alcuni li conservano ancora in minima parte. La risi-stemazione del vocalismo friulano si attua anche con l’evoluzione delle vocali medie, quel-le che in italiano sono caratterizzate dalla differenza di grado di apertura: pEsca ~ pesca. C’è stata evoluzione di dittongo e riduzione di questo:

MĔLLI(M) > mi:l ‘miele’ ~ MĪLLE > mil ‘mille’ l semplice ~ l geminata dittongo ~ vocale semplice

che risolve le condizioni forti di un’antica Ĕ breve. Base latina MĔLE, PĔDE, cioè vocale breve tonica in sillaba aperta, che in italiano dittonga in miele, piede. In friulano il dittongo viene risolto in una i lunga, che si oppone alla i breve.

Anche gli esiti di Ŏ sono uguali. CŎRE > it. cuore, dittongo risolto in friulano con un innalzamento totale (u lunga), [‘ku:r]. Il friulano è l’unico sistema quantitatitvo rimasto ca-ratterizzato in questo modo. Gli altri sono andati soggetto a rifacimenti. Su questo si basano i romanisti e i dialettologi per attribuirgli autonomia nella Romània.

Passiamo alla morfologia e sintassi (che hanno ripreso importanza negli ultimi tempi). Le concezioni storicistiche e neogrammatiche concedono grande importanza a due fatti:

1) fonologia → neogrammatico 2) lessico → impostazione dialettologica areale fine ‘800 grazie a Bartoli.

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Alcuni tratti morfologici che dividono il territorio italoromanzo: 1) formazione del plurale (soprattutto maschile). Secondo le possibilità offerte dal lati-

no i plurali sono di 2 tipi, in -s (sigmatici) o in -i (vocalici). In italiano canto - canti, cane - cani. Il femminile è più discusso.

Però in altre aree romanze la condizione è diversa. Il francese e lo spagnolo hanno plu-rali diversi:

it. amico - amici sp. amigo - amigos fr. cheval - chevaux

La Romània (insieme delle parlate neolatine) si dispone in modo caratteristico. Un set-

tore usa la i (settore orientale), uno usa la s (settore occidentale). L’Italia si divide. Il friula-no usa la s. Il ladino usa la s. La situazione delle parlate è complicata dal fatto che in esse coesistono entrambi i plurali (sia sigmatici che vocalici). Il lavoro più interesssante è quello di Benincà e Vanelli del 1978. Ci sono altre parti in cui il plurale è in s (sardo). Il lucano meridionale ha plurali in o, che si spiegano da un precedente os con la caduta della s. Ma soprattutto la Lucania meridionale e Calabria settentrionale conservano la s anche nella flessione verbale e non solo nominale. Sono dialetti che non ammettono una vocale finale, quindi c’è il fenomeno di anaptissi o appoggio vocalico. La s verbale si trova in tutti i dia-letti ladini e settentrionali. Nella declinazione della forma interrogativa del veneto la s ri-mane come relitto: gastu? ‘hai?’, sastu? ‘sai?’. Analoga alla forma usata da Dante: ce fa-stu?. C’è l’inversione interrogativa, forma fossile perché la forma interrogativa odierna pre-senta queste forme: ti ga(s), la s è sparita in tempi recenti, ti sa. Il trevigiano la mostra me-glio. Il veneziano usa la desinenza in -s (poi sparita) nei verbi brevi ga, sa, da, forme mono-sillabiche dove la s è sparita. Canti, magni, verbi lunghi: desinenza in i. Il padovano ha te ghè, te sè, che derivano dalla monottongazione di ai anteriori (gai, sai). Trevigiano e bellu-nese hanno forme del tipo ga, sa, e anche del tipo canta, come seconda persona te canta, te magna, anche qui la -s è caduta.

Per concludere? L’italoromanzo è complicato perché mentre le aree estreme fanno scel-te omogenee, l’italiano ha compresenze di esiti.

Tratto sintattico importante: i clitici Il nord è diverso dal centrosud. Con un’appendice: soprattutto i clitici soggetto sono

stati sviluppati dal fiorentino (in fase moderna). Nelle parlate settentrionali e nel fiorentino come nel francese o provenzale e ladino, sviluppano una doppia serie di pronomi personali:

1 - tonica forte 2 - atona debole, che accompagna il verbo obbligatoriamente

Tutte le parlate romanze sviluppano una doppia serie di pronomi (forti e deboli): lo fac-cio io, lo fai tu, lo fa lui, dove io, tu e lui rappresentano il pronome forte in posizione finale.

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mercoledì 28 marzo 1990 Concludo il discorso sulla tripartizione dell’Italia e dello spazio italoromanzo. Ci sono

problemi di carattere storico-culturale sull’articolazione dialettale italiana. Diasistema: si-stema complessivo di uno spazio linguistico preso in esame.

La carta di Pellegrini dal punto di vista cartografico è la più importante. Si intitola i 5 sistemi linguistici dell’italoromanzo (1973), che si propone di sostituire la classificazione ascoliana o tradizionale. Questo tentativo rimane in parte riuscito, in parte no. Tiene in maggior conto dell’Ascoli il problema del continuum dialettale. Insiste sul fatto che deter-minate aree non sono separate in modo brusco e netto. Questo tentativo, generato in Francia dal Gilliéron, fondatore degli atlanti linguistici, è un tentativo di geolinguistica. C’è l’idea di prendere un modello di riferimento (Toscana) e di classificare gli altri dialetti in base alle discordanze con il modello.

Ciò ha fatto Ascoli: in una rappresentazione cartografica ciò non può avvenire. Però l’eredità ascoliana non è negata fino in fondo, perché Pellegrini continua a prendere come punto di riferimento quello toscano, contraddistinto nella carta dal colore verde. I sistemi sono 5:

1 - settentrionale (cisalpino) 2 - friulano 3 - centromeridionale 4 - sardo e corso 5 - toscano

In questa distinzione si nota: il complesso settentrionale viene ritenuto unitario anche con il veneto, l’istrioto, il ligu-

re. Viene data autonomia al friulano. E il ladino? Il Pellegrini nega il postulato ascoliano che il dialetto ladino costituisca il resto moderno di un’antica unità linguistica autonoma. Non si sa dove stia l’area dei grigioni. Per l’area meridionale si ha un’incertezza e una con-traddizione che riguarda il toscano, ritenuto autonomo, quando anche altre regioni potreb-bero esserlo. Una delle più grandi differenze all’interno dell’area centromeridionale che si nota nel viola è quella del sistema vocalico. Sono soluzioni il più possibile semplificate e di compromesso. La rappresentazione cartografica evidenzia una serie di diversità e sfumatu-re. Non esistono gerarchie tali che possano identificare dei tipi generali. Perciò una rappre-sentazione di queste zone lascia molte interpretazioni.

Isoglosse: segnano sul territorio il confine e l’espansione dei singoli tratti linguistici, che sono prevalentemente fonologici e in minor misura morfologici e sintattici. Lo studio sintattico è solo all’inizio. La prima isoglossa o meglio fascia di isoglosse è quella che divi-de l’Italia settentrionale dall’Italia centromeridionale.

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lunedì 2 aprile 1990 (da registrazione magnetica)

Si richiamano qui le opposizioni tra una linguistica esterna e interna. Questo punto di

vista è stato reimpostato anche a livello storico e usato soprattutto dai tedeschi. Con storia della linguistica interna intenderemo lo studio dell’evoluzione del sistema in quanto tale. Con storia della linguistica esterna intenderemo lo studio dell’evoluzione del sistema in re-lazione ai fattori esterni che l’hanno condizionato. Questo non esclude la necessità di ulte-riori distinzioni e definizioni.

Una distinzione abbastanza corretta è quella tra intralinguistico, interlinguistico ed e-xtralinguistico, che coglie meglio una determinata differenziazione di aspetti che non ap-partengono unicamente al sistema in quanto tale. Quindi intralinguistico in riferimento a ciò che avviene all’interno del sistema, extralinguistico a ciò che avviene fuori, in riferi-mento ai condizionamenti esterni. Interlinguistico che riguarda i condizionamenti reciproci dei sistemi. È quel livello e quella definizione che introduce in modo più corretto le crea-zioni indotte, non tanto da fattori esterni, quanto da fattori legati alla lingua e ai parlanti. Quindi introduce in modo più corretto il punto di vista sociolinguistico. Che è poi l’ottica nella quale oggi si considerano soprattutto i fatti di evoluzione.

Perché questo discorso? Perché chiaramente i tentativi che si fanno di carattere classifi-catorio partono ovviamente dalla constatazione di un qualchecosa che esiste, ma questo qualcosa che esiste risponde in qualche modo a una specie di astrazione. Qual’è la realtà dialettale che noi prendiamo? È la realtà dei singoli patois o è la realtà dialettale, complessa e articolata? E se ci riferiamo a quello che abbiamo detto sull’inesistenza delle società mo-nolingui dobbiamo convenire che questo costituisce un problema. Se noi parliamo della re-altà dialettale di tipo specifico, cioè legata al vernacolo locale, avremo un certo quadro. E di solito, quando andiamo a fare le classificazioni, questo è il quadro che viene privilegiato, cioè quello che garantisce il massimo di semplicità e il massimo di contrasto, cioè il mas-simo di differenziazione.

Se però prendiamo in esame la realtà linguistica di una certa area, cioè la sua complessa stratificazione linguistica, il quadro cambia. Perché in questa prospettiva non esiste soltanto il livello, lo studio del patois, cioè del dialetto puro e semplice, ma esiste tutta un’altra stra-tificazione che è più difficile introdurre in un quadro classificatorio, perché a un certo punto progressivamente lungo un continuum di progresso verso forme sempre più spinte di koiné, chiaramente sposta a ogni gradino i punti di riferimento. Per cui la tradizionale classifica-zione per isoglosse nella carta di Pellegrini non è stata superata. Perché tecnicamente è dif-ficile trovare dei sistemi rappresentativi che possano dar contro nella stratificazione locale e non puramente dei confini di espansione di un determinato fenomeno. Basta ricordare che il discorso dei 5 sistemi dell’italoromanzo proposto da Pellegrini va di pari passo ed è com-piuto negli stessi anni su cui Pellegrini ripropone il suo schema di stratificazione della real-tà dialettale in 3, 4, 5 livelli.

E quindi è chiaro che una classificazione dialettale complessa deve tener presente e una prospettiva e l’altra. In una chiave storica, che per i dialetti italiani non può essere messa da parte, il discorso si fa ancora più complicato perché l’attuale configurazione delle realtà dialettali in parte corrisponde a determinate premesse storiche, in parte non corrisponde, perché nel frattempo sono intervenuti dei fattori sociolinguistici o di altro genere che hanno

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introdotto all’interno di queste immagini dei fattori di coerenza o per lo meno che hanno delle configurazioni territoriali molto difficili da definire. In certe zone, dove in presenza di certi fenomeni ci si aspetterebbe anche un certo altro contorno di fenomeni, succede che a volte troviamo questi motivi di concordanza, a volte invece non li troviamo.

In termini più semplici, se noi guardiamo la carta dialettale di Pellegrini, vediamo che in questo spazio geografico si trovano vicine l’una all’altra delle varietà storiche abbastanza coerenti e definite, e delle varietà storiche diverse dovute a dei fatti posteriori di modifica-zione o di avvicinamento. E quindi il quadro che ne risulta non è per definizione un quadro coerente o per lo meno un quadro leggibile in modo limpido e privo di contraddizioni. Si potrebbero fare molti esempi a cominciare da fattori classici. Questi fattori possono essere fattori geografici. La presenza di ostacoli naturali: fiumi o montagne. A volte vediamo che esistono certi confini. E molte volte vediamo che determinati fattori di perturbamento intro-dotti posteriormente dall’uomo hanno modificato sul terreno determinati confini geografici, che non corrispondono più ai confini linguistici.

Un caso classico si ha in certe zone del Veneto, per es. nell’area di Jesolo, in quell’area che proprio ha il Piave come confine che separa determinate aree dialettali. La zona jesola-na si trova oggi a sud del Piave, eppure è ancora interessata per lo meno nella sua varietà rustica. Nelle varietà rustiche il dialetto locale (fino al bordo della laguna di Venezia) è ca-ratterizzato da tratti rustici e non veneziani. È regolare in quest’area la presenza delle inter-dentali. Nelle campagne o nella periferia lo standard dialettale risente ancora di una certa situazione, che a sud del Piave non si presenta più. Ma il discorso cambia se teniamo pre-sente che il confine, che il limite geografico attuale risponde a una modificazione storica. Risponde cioè a una deviazione fatta dai veneziani nel ‘600 quando il vecchio percorso del Piave fu spostato verso nord. In realtà il Piave storico usciva a sud di Jesolo. L’attuale foce è una canalizzazione moderna che porta il vecchio nome di Cava Zuccherina dal nome del Provveditore Zuccarini che condusse i lavori. Questo è un piccolo esempio che mostra co-me la situazione attuale sia camuffata da fatti esterni. Come per esempio si pensa che lo stacco dei dialetti alpini dal lombardo sia dovuto al fatto che la diocesi di Koira nel IX se-colo fu tolta a Milano e fu attribuita al mondo tedesco. Quindi un settore che gravitava a sud fu invece portato a gravitare verso nord, esposto alla germanizzazione. Da un punto di vista sociolinguistico, cioè che comporta più che fatti storici, come guerre, lavori pubblici, catastrofi naturali, casi di questo genere si possono cogliere e sono estremamente istruttivi. Per far capire che quando parliamo di determinati dialetti è abbastanza restrittivo il riferi-mento alla loro individualità vernacolare, ma spesso bisogna tener presente anche quella che è la loro espansione di tipo sovradialettale.

In Italia troviamo due casi storici importanti. Uno è rappresentato dal veneziano e uno dal dialetto di Roma.

Se prendiamo il dialetto di Venezia come entità vernacolare, siamo in presenza di una entità molto ristretta dal punto di vista dell’espansione tipologica. Perché il dialetto di Ve-nezia non supera i confini lagunari. Anzi la parte nord della laguna, da cui ci vengono do-cumenti antichi molto interessanti (Lio Mazor) di atti medievali processuali, in cui sono contenute le testimonianze vive dei locali, che sono rese in vernacolo, che è piuttosto diver-so dal veneziano odierno. Se identifichiamo il veneziano come dialetto, vediamo che questo dialetto arriva al massimo in terraferma. E poi lo si trova nelle isole della laguna e nell’estuario. Ma se già ci allontaniamo un po’ da Venezia, si cominciano a trovare tipi dia-

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lettali molto simili, ma diversi. Al di fuori di quest’area non si potrebbe parlare di venezia-no in senso stretto. Si potrebbe parlare di due isole linguistiche che sono molto importanti storicamente, che sono Grado e Marano Lagunare. Queste due località hanno un dialetto di tipo veneto (veneziano). Se invece vediamo le cose dal punto di vista della storia, le cose cambiano. Perché il veneziano come lingua della Serenissima ha esercitato un influsso mol-to potente sui complessi dialettali che la contornano. Ma soprattutto il veneziano ha avuto una grandissima funzione e ha lasciato tracce storiche ben precise come lingua di comuni-cazione nell’ambiente adriatico. Quindi là dove non si parlava veneto, nell’area friulana, i-striana, dalmata, il veneziano si è imposto come lingua di prestigio, nel medioevo. E ha da-to origine al formarsi di varietà specifiche che sono appunto il veneto del Friuli, dell’Istria e il veneto della Dalmazia. Addirittura il veneto di Grecia. Sono tutte forme di dialetto colo-niale, diverse dalla base.

Un altro caso importante è rappresentato dal dialetto di Roma. Anche qui diversamente dal veneziano, con dei processi storici molto diversi, ci troviamo di fronte a dei fatti interes-santi di evoluzione di cambio linguistico. Il dialetto di Roma nel medioevo è un vernacolo di tipo centromeridionale.

Nel medioevo Roma non è affatto una città importante. È la sede del papato, ma per il resto non è assolutamente una città che sia importante dal punto di vista politico, economi-co e delle comunicazioni. È poco più che un villaggio isolato. Prima del 1000, e fino a quell’epoca, Roma ha addirittura rischiato di scomparire e di diventare una grande rovina. Ma nel medioevo ricomincia la sua ascesa, anche se non è assolutamente da paragonarsi al-le grandi realtà urbane dell’Italia.

I documenti che possediamo del romanesco medievale ci mostrano un dialetto di tipo centromeridionale. Uno è la famosa Cronaca di un anonimo romano che è conosciuta so-prattutto per l’estrapolazione degli episodi relativi a Cola Di Rienzo. È comunque un dialet-to molto lontano da quello di oggi. Nel momento in cui Roma diventa una città importante, cioè quando il papato assume una funzione politica (dal 1400 in poi), si creano le condizio-ni per un cambio di lingua. Fatto sta che il dialetto di Roma come lo conosciamo dal ‘600 in poi è ormai molto diverso da quello che si parlava a Roma nel medioevo. Ed è diverso in direzione di una certa toscanizzazione. Ancora oggi se confrontiamo il dialetto romano e quello toscano, vediamo che non sono poi molto diversi l’uno dall’altro.

Ora questo, dal punto di vista della rappresentazione interna, ha delle conseguenze ab-bastanza specifiche. Perché da parecchi punti di vista il dialetto di Roma costituisce una sorta di isola all’interno della sua area. Ci sono molti dialetti centrali, ma anche situati a nord di Roma, tra l’Umbria e le Marche, che conservano caratteristiche dialettali specifiche che il dialetto romano non ha più. Basta uscire da Roma, che a livello dei colli Albani e del Lazio meridionale si collocano delle caratteristiche dialettali che sono ormai nettamente meridionali. Il modello urbano del dialetto di Roma sta rifacendo nei secoli quello che più o meno ha fatto il veneziano. Quando cambiano i dialetti all’interno di Roma, il modello di riferimento è il dialetto di Roma, così come per una larghissima area dell’Italia meridionale il modello di riferimento è Napoli.

E quindi ancora una volta lo stacco non è tra il patois locale e l’italiano, ma è per il pa-tois locale e i gradi di avvicinamento dell’area dialettale attraverso i quali si esce progressi-vamente dal dialetto e si va verso la lingua dello stato. Ci sono dei precisi indici che mo-strano questo. Per es. l’isoglossa n. 20 nella carta del Pellegrini è l’isoglossa che mostra il

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confine che separa l’occorrenza di determinati fatti di enclisi. È il confine tra il tipo pàtre-mo e màtreta che oggi è percepito come nettamente meridionale, ma che in realtà dal punto di vista storico era anche un tipo centrale, sempre a livello di patois o di vernacolo. Questa isoglossa ha un decorso abbastanza curioso, nel senso che non si confà all’andamento delle altre isoglosse che tendono piuttosto a tagliare l’Italia in senso orizzontale. Questa isoglossa ha un andamentro verticaleggiante, da nord a sud. Ha il suo vertice nord-est ad Ancona e il vertice sud-ovest a Roma. In realtà la zona di partenza è a sud di Ancona, dove cominciano i dialetti meridionali, e l’area di arrivo non è Roma, ma è a sud della città, nella zona dei colli Albani. Ma in che cosa consiste l’incoerenza di questa linea? Consiste nel fatto che es-sa rappresenta uno stato di regresso di un fenomeno linguistico, che nei secoli precedenti e nel medioevo era avanzato molto più a nord.

In realtà noi sappiamo che fenomeni di enclisi di questo genere si trovano anche a nord di questa linea, cioè nell’area che ormai globalmente è estranea al fenomeno stesso. Ci sono addirittura dei dialetti toscani meridionali che conservano fatti di questo genere. Sono gli ultimi relitti, ormai esposti alla completa sparizione di un fenomeno che in precedenza ca-ratterizzava generalmente un’area dialettale che oggi ha perso. Ma questo fatto ci mostra come, quando noi radunando insieme le isoglosse principali tentiamo di caratterizzare delle aree dialettali, quindi di tracciare con un criterio neogrammatico quelli che sono i confini dei dialetti, dobbiamo compiere una serie di semplificazioni che tagliano determinati fatti storici che invece sono importanti per una corretta classificazione e dell’area e delle entità dialettali, che in realtà devono essere tenuti presenti.

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martedì 3 aprile 1990

Contatto di parlanti in condizioni di ineguaglianza Una certa situazione dialettale odierna si spiega solo se consideriamo questi elementi

sociolinguistici. Se ci sono condizioni di uguaglianza linguistica si tratta di condizioni rare destinate a modificarsi nel tempo. La storia della lingua è sempre stata caratterizzata dalla lotta tra lingua di prestigio e lingua del popolo. Certe posizioni tipiche della dialettologia storica:

questione del sostrato (inaugurata da Ascoli e prima di lui proposta dal Cattaneo).

Ascoli parlava di sostrato come imposizioni etniche, cioè ciò che esce dallo scontro di due unità linguistiche, latino lingua dominante e lingua di base. Dopo un lungo periodo di bilinguismo la lingua di base scompare, ma si modifica anche la lingua dominante. La nuova lingua ha una forma per così dire inquinata. Per le fasi antiche è difficile sapere gli esatti avvenimenti. Il Merlo ha proseguito e istituzionalizzato il metodo dell’Ascoli.

latino e lingua dell’Italia antica. La conclusione: i dialetti dell’Italia moderna sono l’eco del latino impiantatosi sulle

lingue dei popoli sottomessi. Le lingue vengono poi mantenute e sfociano negli esiti delle lingue romanze. L’Ascoli notando il fenomeno di ū > y conclude che questa è una caratteri-stica propria delle lingue celtiche, mantenuta nel neolatino e infine nei dialetti odierni. Altro fenomeno è a > E.

Il Merlo non completò questo quadro e propose di riassumere tutto il complesso dialet-tale italiano in 3 zone, 3 grosse entità:

1 - gallica: Italia settentrionale con sostrato celtico, con le caratteristiche fonologiche che si ritrovano tali e quali nei dialetti odierni. 2 - sannita: il latino si è piantato su popolazioni italiche che parlavano dialetti osco-umbri. Esempio: il nesso nd > nn, questo esito presente nell’oscoumbro si è conservato trasformando nd in nn. 3 - etrusca: è il massimo contrasto, lingua non indeuropea, molto diversa dal latino. Questa lingua quindi ha assunto il latino originario in maniera più pura, senza contami-narlo. Per questo, secondo Merlo il toscano conserva la fase neolatina più vicina al lati-no classico.

La teoria della fine dell’800 sulle lingue romanze è stata formulata in base a questi

principi. Si consideravano le aree romanizzate, i popoli romanizzati e il tempo di romaniz-zazione (una lingua più arcaica o già più evoluta). Si può rovesciare il discorso: se noi u-niamo il dato etnico antico a quello moderno, se ha una relazione biunivoca si riconosce un fatto linguistico e lo si riferisce a un nome. Si ha il nome e si riconosce il fatto linguistico.

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Siciliano 1) Presenza greca, arrivo degli arabi dopo. Avrebbero secondo quest’ipotesi distrutto il

latino, i processi di riappropriazione della Sicilia avrebbero rieducato al latino popolare che parlavano greco e arabo (?).

2) La situazione attuale del siciliano dipende dal contrasto tra il latino e il greco delle colonie. Due lingue in origine diffuse in vaste aree e profondamente. Ci sono ipotesi di di-stribuzione dialettale storica che si basano su elementi particolari: gorgia toscana, l’aspira-zione (sostrato etrusco?).

I dialetti siciliani vengono tradizionalmenmte divisi in due settori: uno orientale e uno occidentale. Il tratto linguistico caratterizzante è un effetto metafonetico (presenza-assenza o diverso grado di influsso). Secondo alcuni questo fatto è dovuto a principi di sostrato molto più antichi di quello greco o arabo, cioè il sostrato dei siculi (a est) e dei sicani (a o-vest). Dei sicani non si ha nulla. Dei siculi si hanno testimonianze epigrafiche. Non si può attribuire un fenomeno moderno così forte come la metafonesi ad elementi così labili. Spes-so si spiega la metafonesi diffusa in aree vaste del sud, insieme ad altri fenomeni di vocali-smo, con l’influsso dell’espansione germanica. I longobardi si espansero nel sud, a parte le aree bizantine. Molti fenomeni linguistici si espandono là dove ci fu l’espansione longobar-da e non dove c’erano i greci. Ma fare di queste osservazioni una certezza non si può, per-ché noi conosciamo bene il greco, ma malissimo il longobardo.

Ci sono fenomeni di età più recente controllabili dai fatti storici. Esempio: veneziano e romanesco. Ma se vediamo le condizioni linguistiche attuali dell’Italia [...] dialetti dell’area alpina che sono stati a contatto con lingue di prestigio. Nel nostro caso con il veneziano. Ha subìto un forte influsso veneziano il Cadore. Dal XV secolo la presenza veneziana, che prima era solo economica e ora è anche politica. Il patrimonio di Aquileia da tedesco ritor-na ad essere italiano. Alcune aree dialettali vengono toccate in superficie dal veneziano, al-tre più profondamente.

I dialetti del Cadore hanno molte caratteristiche del ladino dolomitico (-s finale, ecc.) e altre del tipo dell’Italia settentrionale (le parole che escono in consonante nel tipo cisalpino: si verifica l’apocope, cioè la caduta della vocale finale tranne a). Nell’area cadorina sono state sostituite le vocali finali o con u o con o. Perciò la struttura fonologica di questi dialet-ti è curiosa. Questo è un fatto di reazione che dipende da un contatto sociale svantaggioso. Il dialetto del posto è sentito come inferiore, quello veneziano come modello da imitare. Si scade spesso nell’ipercorrettismo. Un discorso del genere potrebbe essere detto per l’altra area settentrionale che mostra la vocale u: il ligure. Ma perché c’è questo fenomeno che si mostra solo come u? Nel medioevo c’è stata una restituzione dell’elemento finale.

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mercoledì 4 aprile 1990 Un fenomeno caratteristico dell’area cadorina evidenzia un adeguamento ai modelli

linguistici più prestigiosi. Dal punto di vista dei confronti del contatto questo dà origine a fenomeni strani: ci sono tratti coerenti e tratti contrastanti che rompono il continuum ideo-logico. I dialetti cadorini per esempio mostrano la restituzione dell’elemento vocalico fina-le, quando i dialetti veneti fanno cadere la vocale finale tranne la -a. Sono frequenti i finali in -s. È un fenomeno che si spiega con una sorta di retrocessione dovuta a motivi esterni. Il tratto nell’Italia nord-dialettale mostra casi numerosi. Quelle entità dialettali (piccole) ten-denti a essere sopraffatte da modelli di prestigio superiore. Sono fenomeni di colonizzazio-ne linguistica ai quali le entità rispondono in modo diverso: o lasciandosi sopraffare o in-fluenzando a loro volta la lingua principale. Tuttle ha studiato questo fenomeno in una zo-na italiana: egli fa vedere come progredisce il recupero del vocalismo finale o l’abbandono dell’apocope nel territorio trevigiano-bellunese. Quest’area è caratterizzata da un dialetto di tipo settentrionale che doveva avere quindi il fenomeno dell’apocope. Invece solo l’area feltrino-bellunese fino al Piave ha questa struttura. Oggi è il Piave che fa da confine. A est i dialetti apocopati, a ovest quelli non apocopati. Nel medioevo, per influsso del modello ve-neziano, l’area più vicina a Venezia è stata progressivamente cambiata attraverso gradini che interessano i foni prima e poi il lessico. È stata restituita la forma non apocopante. Il trevigiano ha avuto nel medioevo una storia di prestigio letterario. Treviso città segue oggi il modello veneziano con un’unica eccezione: fradel con apocope finale. I dialetti dei centri minori sono invece più conservati.

Un principio di sostanza fonetica dispone i vari foni in scala. Ci sono alcuni foni (i so-nori) che sono subito vinti, altri più forti. La m (labiale nasale) fa da confine [...] Il venezia-no apocopa dopo p, r, n, ma non dopo m. Se abbiamo un dialetto che apocopa dopo la m siamo sicuri che questo dialetto apocopa dopo ogni consonante.

Altre entità dialettali colonizzate vengono riguadagnate al modello veneziano bloccan-do il processo di apocope in altre condizioni, cioè non secondo quella dell’intensità.

Il dialetto veneto originario (il bisiacco) parlato nell’area di Monfalcone, nell’entroter-ra. Oggi si parla un dialetto coloniale di tipo triestino. Ci sono cioè due strati che sono an-che difficili da distinguere. Questo dialetto è stato interessato da fenomeni di abbandono dell’apocope. La restituzione delle vocali finali è avvenuta in base ad altre strade: il vocali-smo è stato restituito in blocco nel caso che la finale fosse una sonora, o meglio semisono-ra, perché con l’apocope si ha la desonorizzazione delle consonanti finali. Nel caso che la consonante finale sia sorda allora l’apocope non è avvenuta o la consonante non è stata cor-retta. Eccezione sono i foni finali j, w intesi come foni vocalici che si realizzano come i, u. Nei dialetti istrioti, dialetti originari dell’Istria [...] Anch’essi sono soggetti a fenomeni di restituzione. Abbiamo un condizionale di tipo testuale, in questo caso non lessicale. Dove c’è un contesto finale consonantico forte allora abbiamo la restituzione della finale: buto, turro, veneto bote, tore. Contesto consonantico forte, contesto consonantico debole. La forma originaria era bot, tor. La restituzione è per la o.

Vi sono alcune aree linguistiche dette anfizone (concetto di derivazione ascoliana: quelle circostanti il ladino vero e proprio che mostravano caratteri un po’ diversi dal ladi-no). Oggi il concetto è diverso: l’anfizona non è solo un’area marginale rispetto a un centro,

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bensì come un’area di trapasso da un centro a un altro. Essa mostra carattere di trapasso, è una zona di incertezza sistematica con caratteri sia di un centro ...

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lunedì 9 aprile 1990 (da registrazione magnetica)

Disposizione delle singole varietà dialettali come prodotto di un processo di correzione

dovuto a motivi sociolinguistici, = contatto linguistico, ma non sporadico. Cioè compresen-za di elementi parlanti, scambio linguistico.

Si è detto che determinati esiti fonetici dei dialetti cadorini dovrebbero spiegarsi come un processo di adeguamento. L’ipercorrettismo è una norma diffusa nel mondo dei parlanti. Ma su scala storica costituiscono un veicolo di cambiamento linguistico, dopo un po’ di-ventano norma. Vedi l’Appendix Probi (III secolo d. C.), che è una lista di idiotismi parlati dalla gente. Da un lato viene generalizzato il dittongo iè, dall’altro èi, da un lato uò, dall’altro òu. Nel friulano ceil (cielo), cour (cuore), crous (croce) c’è una distinzione di esi-ti. Lenizioni generali:

- le aree di forte sovrapposizione storica danno origine a dei sistemi dialettali comples-

si. Si chiamano anteriori, perché la struttura grammaticale mostra una serie di sovrapposi-zioni e di incoerenze. Rispetto alla zona centrale conservano elementi arcaici. C’è un di-scorso che unifica il punto sociolinguistico con il criterio areale geolinguistico. Questo stes-so esito è condiviso dai resti di friulano che rimangono a est del territorio centrale. Molte di queste zone sono state venetizzate. Espansione coloniale del veneziano. A est il vero friula-no non c’è più. Il dialetto di Trieste e di Muggia era un dialetto friulano. Viene detto terge-stino per distinguerlo dal triestino. Il tergestino mostra queste caratteristiche, che si trovano nell’area concordiese. Ci sono concordanze lessicali che vengono chiamate con lo stesso nome nell’area concordiese e tergestina.

Friuli centrale Aree marginali andare = lâ < *ALLARE zî < IRE sole = sorèli < SOLICULUM o SOLUCULUM Ci troviamo di fronte a una concezione di tipo geolinguistico, due aree spezzate rispetto

a un centro:

│ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ │ │ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ │ │ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ │ centro │ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ │ │ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ │ │ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ │

prima c’era un collegamento: │ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ │‗‗‗‗‗‗___│ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ │ │ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ ⁄ │

poi il centro si è sparso a sud, spezzando l’area. Esiste nell’estrema varietà dialettale un sistema di riferimento che deve risultare da un

insieme di convergenze generali. Questo sistema di riferimento lo possiamo identificare con

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un termine linguistico tipo koiné o con un’etichetta linguistica diasistema-tipo. Da questo punto di vista la classificazione in 4-5 sistemi di pellegrini è abbastanza vera. Ma dev’esse-re modificata in alcuni aspetti. Dobbiamo dare una serie di punti di riferimento. Ci basta il-lustrare alcuni macrofenomeni del testo di Pellegrini: area nordorientale.

Definiamo il tipo linguistico di quest’area, che è il friulano. Viene distinto dal Pellegri-ni per fatti intrinseci e per fatti storici. I dialetti vicini (veneto e ladino) vengono considerati dal Pellegrini come sottoparte del sistema. Dovendo schematizzare il friulano dobbiamo considerare le caratteristiche cosiddette ladine:

1 - Conservazione dei nessi consonantici con l = kl, pl, fl, bl, (gl). 2 - Conservazione di -s finale (con funzione morfologica). Ma a volte conservano la -s

latina, a volte la estendono anche dove non c’era: nella flessione nominale e nel plurale. Ma c’è anche il plurale vocalico (con -i).

3 - Palatalizzazione dei nessi latini ca, ga, > cia, gia. Ha conservato anche la fase in-termedia: chia, ghia.

4 - Ristrutturazione del vocalismo e distinzione (sistema oppositivo) delle vocali brevi e lunghe (in sede tonica).

5 - Conservazione del nesso latino R+j (in posizione interna): panarie < PANARIA, mentre in toscano c’è aia < AREA.

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martedì 10 aprile 1990

Friulano

Connotazione di caratteri morfologici. Conseguenze morfologiche della conservazione

di -s finale (formante del plurale). Importanza sia nella flessione nominale che in quella verbale, nel friulano e in altri dialetti ladini, della -s formante del plurale, sia dei nomi ma-schili che femminili, in concorrenza con il plurale in -i (che sono tipici dell’italiano). Hanno il plurale in -i soprattutto i nomi che terminano in -l, che tramite la palatalizzazione, e suc-cessiva soluzione di -l, hanno permesso il mantenimento superficiale di -i. Oppure persisto-no in modo coperto e la -i, pur cadendo, ha palatalizzato la consonante d’uscita. Quindi si creano dei paradigmi di nomi che si distinguono tramite una consonante e una consonante palatalizzata: [s] ~ [S], [n] ~ [<].

Il fatto più importante nel friulano riguarda la coniugazione e flessione del verbo e il fenomeno di conservazione che il friulano dimostra rispetto alla genericità degli altri dialet-ti settentrionali. Il friulano contrasta nettamente con il contesto veneto (innovato). La terza persona singolare e la terza persona plurale sono distinte, mentre il veneto e altri dialetti settentrionali hanno unificato le due forme (attraverso evoluzioni fonetiche) che vengono distinte con mezzi sintattici o morfosintattici. I mezzi sintattici possono essere lineari (in base all’accordo degli elementi dell’enunciato) con la presenza di determinate formanti (cli-tici) che rappresentano il peso della flessione (più che le desinenze vere e proprie): al fevèle ‘parla’ ~ a fevèlin ‘ parlano’.

Il friulano sviluppa una serie di pronomi clitici in funzione di soggetto, quindi è caratte-rizzato dal soggetto obbligatorio anche quando esso deve essere vuoto (cioè non referenzia-le). Anche quando si dice piove per esempio. L’italiano dice parla e parlano e l’espressione del soggetto è affidata alla morfologia verbale. I tratti flessivi si incaricano di questa fun-zione. Il friulano deve esprimere il suo soggetto clitico che però è diverso a seconda che si tratti del singolare o del plurale. La morfologia vede:

- fevèle, 3 persona singolare, che continua il latino FABELLAT. - fevèlin, 3 persona plurale, è problematico, ma è forse la riduzione fonetica in atonia di

un FABELLANT latino. Il veneto risponde con il tipo PARABOLARE (quello di prima era il tipo FAVELLA-

RE, temi classici della romanistica tradizionale: FABULARE, spagnolo, portoghese, PA-RABOLARE, francese, italiano). Nelle forme verbali el parla ~ i parla non c’è distinzione morfologica. I clitici si caricano della funzione morfologica-sintattica, nel senso che di-scriminano le due forme, anche nell’ipotesi che manchi un contesto:

- el, forma debole di ILLE - i, forma debole di ILLI Le forme forti sarebbero il tipo lu e lori, rispettivamente da *ILLUI e *ILLORUM. Si

suppone che nel latino tardo volgare si sia avuto una contrazione flessiva a 3 livelli. Soprat-

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tutto nel settore dei pronomi dove ci sono esiti chiarissimi. Forse anche nei nomi (declina-zione a 3 casi) con modalità complesse. In genere si crea un nominativo e un accusativo (casi diretti) e un obliquo (caso indiretto) che copia il genitivo e il dativo. Come forma fo-nica il singolare continua le forme del dativo e il plurale quelle del genitivo. Per esempio: rumeno vulpi, singolare (dativo), vulpilor, plurale (genitivo).

Il friulano conserva la distinzione morfologica tra terza singolare e plurale, che il vene-to non ha. Morfologicamente il friulano ha anche un’altra caratteristica degna di nota. La prima persona plurale è caratterizzata da una consonante nasale (che entra nella famiglia delle varianti morfematiche note), però ha un vocalismo particolare: fevelìn, con i tonica! dove -in è uguale sia alla prima che alla terza persona, però a fevèlin (i atona), o fevelìn (i tonica): -in tonico = -iamo (parliamo), -in atono = -ano (parlano).

Non ci sono dialetti settentrionali che hanno questa caratteristica morfematica. Le ca-ratteristiche correnti sono: -émo (-om, veneto arcaico), -en (apocope), -on, -uma (pie-montese). Queste varianti sono tutte con nasale, base unica ma non facile a spiegarsi.

Altra caratteristica è il condizionale in -és: laudarés ‘loderei’. Sincronicamente non ri-corre in altri dialetti. In veneto, -ia è l’esito morfologizzato di HABEBAM e -ave è l’esito morfologizzato di HABUI.

Nel campo della morfologia lessicale il friulano si caratterizza dal punto di vista della suffissazione (derivati suffissati) per la presenza di alcuni suffissi caratteristici. I più carat-teristici che formano diminutivi e derivativi sono -ùt ‘-utto’ e ìt ‘-itto’. Questo esiste anche in altri dialetti, ma in modo non così massiccio.

Clitici: usati soprattutto in funzione soggetto dal friulano, in genere obbligatori in de-

terminate condizioni. Questi comportamenti sono tali sia a livello sincronico (interlinguisti-co), ma sono anche importanti a livello diacronico, perché la situazione attuale non è l’esito lineare di un’evoluzione storica, ma deriva da una grafia piuttosto complicata, che non si è realizzata in tutte le aree con la stessa intensità e tempi. L’area settentrionale è caratterizza-ta dalla fonologizzazione e dalla sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione inter-vocalica (anche il friulano) e caratterizzata da vocalismi che nei dialetti tipicamente galloi-talici (con il sostrato celtico) presentano le vocali anteriori del tipo e, u, forte incidenza dell’apocope (tranne il veneto) e da altri fenomeni marginali.

Sistema centromeridionale, come lo definisce Pellegrini, per due ragioni pratiche:

1. per schematizzare un discorso. Non è molto facile descriverlo in un sistema uni-co.

2. per i fenomeni tipici. S’intende per quest’area tutto ciò che va dagli Appennini fino alle isole (escluso il to-

scano e il sardo), con vari strati: (fasce da nord verso sud) Area mediana = Lazio, Umbria, Marche e parte degli Abruzzi e area (molto articolata)

meridionale, che fa capo a due entità generali: napoletana, pugliese. Poi l’area di trapasso lucana (zona Lausberg) e Calabria settentrionale. Poi la fascia estrema meridionale = punta e tacco dell’Italia e Sicilia (tacco = Salento, denominazione storica, è la Puglia di og-gi) e Calabria centrale. La caratteristica fondamentale di quest’area, e anche del sardo e to-scano, è il consonantismo, che Weinrich aveva chiamato variazione, cioè:

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1 - la sonorizzazione o lenizione delle consonanti interne in posizione intervocalica,

non è stata fonologizzata con varie conseguenze (betacismo, ecc.) 2 - vocalismo = per la maggioranza di tipo toscano però poi, verso sud, dà origine a ca-

ratteristiche aberranti che identificano vari vocalismi. Soprattutto le varianti di quello della zona Lausberg (affine al sardo), Lucania e Calabria settentrionale e poi quello salentino-siciliano. Fino alla Calabria settentrionale (senza la parte estrema, Salento, Calabria meri-dionale e Sicilia) vige la regola fondamentale di indebolimento delle vocali atone e finali, per cui c’è la tendenza a ridurre queste a elementi indistinti (questo sempre in relazione a processi prosodici).

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mercoledì 11 aprile 1990

Dialetti centromeridionali

Area salentina, calabrese meridionale e siciliana e occasionalmente aree centromeridio-

nali: ll > dd cacuminali, capelli > capiddi. Soluzione della laterale geminata in una dentale sonora cacuminale. Sono foni apicali che si pronunciano in modo postalveolare, perché l’apice della lingua è lievemente invertito verso la parte posteriore, ripiegata all’indietro, lievemente innalzati, e la zona d’appoggio è più ampia delle comuni apicali.

Anche nella morfologia bisogna osservare che in certe zone compaiono continuatori di IPSE (pronome) > isso (napoletano). In sardo è base della forma di articolo. I plurali che fi-niscono etimologicamente in -ora, che si trovano anche nel toscano in epoca medievale: tempora, plurale di tempo. Diffusione dell’enclisi di elementi morfologici, soprattutto ag-gettivi possessivi: sora-ma ‘mia sorella’. Forme di condizionale del tipo cantara < CAN-TAVERAM. Fatti a metà strada tra morfologia e lessico: stare (al posto di essere), tenere (al posto di avere). Anche lo spagnolo distingue estar ~ ser, tener ~ haber. Molti concludo-no che è l’influenza dello spagnolo sul sud d’Italia (molto discusso).

I due sistemi che abbiamo meno considerato sono il toscano e il sardo.

Sardo È un complesso dialettale molto interessante, perché richiamato come scontro ideologi-

co all’interno dell’italoromanzo. Molti fatti sono di conservazione. Con il sardo classifi-chiamo anche il còrso (dialetti della Corsica, che sono indubitabilmente italiani). L’opinio-ne corrente tende a collocare i dialetti còrsi nella sezione mediana dell’Italia, cioè affini al toscano. Questo è vero per i dialetti còrsi che sono stati influenzati direttamente dal tosca-no. Per aspetti storici i dialetti còrsi si dividono verticalmente, per condizioni geomorfiche (la Corsica è percorsa da una spina dorsale di montagna). I dialetti dell’est sono più affini al toscano, per influssi che arrivano dal medioevo e questo riguarda anche una parte della Sar-degna settentrionale. L’area di nordest, la Gallura, presenta un dialetto sardo piuttosto an-nacquato, conformato a modelli toscani. A differenza del còrso, che presenta una distinzio-ne verticale, il sardo è a fasce di diseguale spessore ed evoluzione:

1 - centromeridionale 2 - centrosettentrionale 3 - settentrionale

Il sassarese è il più evoluto, il gallurese il più desardizzato, il logudorese il più conser-

vativo, il campinadese il più innovativo. Tratti caratterizzanti del sardo: 1 - vocalismo: mantenimento dei timbri. Le due I latine (Ĭ, Ī) invece di differenziarsi

convergono in un unico timbro i. Gli elementi con differenze metafonetiche, cioè le e e le o appaiono aperte o chiuse in base al condizionamento contestuale.

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2 - conservazione: le velari latine K, G si conservano anche di fronte alle palatali e, i. Nel sardo logudorese si ha nuke ‘noce’, kimige ‘cimice’, gelare ‘gelare’ (dove g = gh),

tutto ciò di fronte a entrambi i timbri anteriori e, i. L’unico complesso romanzo (estinto) che ha fenomeni simili è il dalmatico (più restrittivo, solo davanti a i). Il Guarnerio aveva avanzato l’ipotesi che il sardo è più fenomeno di blocco che di conservazione e in un certo senso una retrocessione.

Nel caso del consonantismo il sardo mostra di essere un dialetto che ha esattamenete un regime di variazione consonantica fatta in modo organico e sviluppato. In posizione inter-vocalica gli elementi sardi sono sonorizzati. Kimige non è kimiche, ma c diventa g sonoro spirantizzato: kimiγe. Ma non sono fonologizzati, γ = ‘gli’, spirantizzato debole, la b inter-vocalica è v, ecc.

In fase antica vengono conservati i nessi con e, poi vengono conservate la -S e -T finali latine. Soprattutto nella flessione verbale e in quella nominale: CANTAS, CANTAT nei dialetti di tipo centromeridionale tendono a non avere consonanti finali. Cioè struttura di ti-po sillabico, CV, con sillaba aperta in posizione finale. Anche il sardo si orienta in questo modo, chiusura da elementi vocalici. Stesso caso nei dialetti lucano-settentrionali, che man-tengono la -S e -T finali latine, però in alcuni casi sono chiusi da un elemento ∂ (schwa). Di solito il sardo chiude con una -a:

[‘kantaza] [kantaFa] TEMPUS > tempusu

Plurali: muru > muros, femena > femenas. L’articolo determinativo è IPSE (non continua ILLE = il, lo, la, ecc.) > so, su, sa, sas!

Sadomu ‘la casa’, lat. NEMO ‘nessuno’, sardo nemos. Interessante nella fonetica l’evolu-zione dei nessi con semivocale: QU, GU [kw, gw] vengono labializzati e ridotti a conso-nante labiale p, b → caso prevalente, EQUA > ebba, LINGUA > limba, QUATTUOR > battoro.

Arcaismi anche nella coniugazione verbale. Abbiamo dei congiuntivi e condizionali: aret, fekerat, che sono limitati al sardo medievale, ben documentato. Poi arcaismi lessicali (nemo) che sono conservati nel sardo. Vocalismo particolare e un consonantismo piuttosto evoluto, conservazioni particolari, nessi consonantici evoluti e morfologia caratterizzata. Il sardo è un buon campo per dimostrare che quando si parla di conservazione, si intende un principio strutturale.

Toscano Il toscano mostra caratteristiche che lo inquadrano nei dialetti centromeridionali. Rap-

presenta, all’interno della Romània, il tipo neolatino meno evoluto, più vicino allo stadio del latino. Mostra un vocalismo tipico, poco evoluto, limitato nelle evoluzioni di tipo toni-co, cioè le dittongazioni sono limitate. Riguardano le vocali aperte, le toniche e le vocali medie e > jE, o > wo. Fanno parte del toscano antico, perché quello moderno ha restaurato

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una situazione di monottongo. L’italiano ha nei dialetti pochi riscontri dei dittonghi jE e wo. È una delle uniche lingue romanze in cui il dittongo non si trova nei dialetti quasi da nessu-na parte.

Nel toscano mancano fenomeni diffusi di metafonia. Ci sono relitti ricostruibili. I fe-nomeni metafonetici caratterizzano tutta l’area dialettale italiana. Il toscano, per il conso-nantismo interno, è un tipo dialettale con variazione consonantica. Però sviluppa la gorgia, cioè spirantizza gli elementi sordi. Dal punto di vista morfologico ci sono 2 caratteristiche importanti: -iamo, -ei (condizionale). Si attribuisce al toscano l’opposizione cantai ~ ho cantato. L’opposizione è piuttosto aspettuale:

ho cantato = perfetto, denota azione chiusa, trasformata in uno stato. cantai = passato remoto, non si percepisce il fatto di compiuto o incompiuto. Azione

lontana, ha funzione dell’aoristo greco, funzione dell’indefinito. Chiusura di a > e davanti a r: canterò (italiano) ~ cantarò (dialetti), margherita ~ mar-

garita. Provoca l’innalzamento di a in e. Anche di fronte a nasale o a suoni complicati (= anafonesi), come in famiglia, dove c’è

i breve di fronte a Y, ma anche in lungo (italiano) ~ longo (dialetti), fungo ~ fongo. Questo in vicinanza di nasale o palatale. È passato all’italiano letterario, ma è rarità nel dialetto.

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lunedì 23 aprile 1990 (da registrazione magnetica)

Fonologia dei dialetti italiani: metafonesi

Andrea Calabrese, Metaphony in Salentino (Rivista di Grammatica generativa, M. 9-

10, pp. 3-140), 1984. G. Rohlfs, Grammatiche storiche della lingua italiana e dei suoi dialetti, Einaudi,

1966-1969. P. Tekavcic, Grammatica storica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 1972. Bertoni, L’Italia dialettale LRL: Lexicon der Romanistischen linguistic. Questo volume manca di un lavoro che

tratti tutti i problemi dell’area romanza per cui il fenomeno viene trattato. C’è una notevole trattazione in Vignuzzi, che riguarda i dialetti meridionali. La carta di Pellegrini non lo considera, lo richiama secondariamente per delimitare il confine tra i dialetti siciliani orien-tali e occidentali. Si tratta di un fenomeno di assimilazione. C’è una vocale finale (il feno-meno riguarda le vocali) di solito atona (in italiano) che reagisce sulla vocale tonica. Il pun-to di riferimento sono le vocali accentate (vocalismo tonico). Di solito il limite è delimitato morfologicamente. Il suono che influisce dev’essere all’interno della parola.

La metafonesi è simile alla variazione consonantica. Se ricorre un certo suono avremo una modificazione della vocale tonica. Mutamento condizionato in contrapposizione dei mutamenti non condizionati. La metafonesi è direttamente collegata al problema della dit-tongazione. Uno dei grandi filoni s’ispira a questo principio come punto di partenza. Aspet-to generale del fenomeno: è un principio di armonizzazione che funziona secondo i criteri neolatini di tipo regressivo, nel senso che l’elemento che viene dopo influenza quello che viene prima. Non esistono casi di metafonia progressiva. Funzioni in esatta specularità in un altro fenomeno: armonia vocalica. I morfemi grammaticali dell’ungherese hanno uno scheletro consonantico e una vocale: [C V C]. Il timbro di questa vocale è governato dalla vocale della radice. È la vocale radicale il centro che stabilisce che cosa verrà dopo. Questo principio non va inteso come una caratteristica limitata, ma in un senso molto generale. Nell’ambito delle lingue neolatine è un fatto generale. Quasi tutti gli ambiti sono interessati da fenomeni metafonetici. Per l’italiano si può cavarne fuori solo il toscano. Nel dominio romanzo sfugge alla metafonesi lo spagnolo. Gli altri domini ce l’hanno. Il veneto centrale è per definizione metafonetico. Il veneziano non è metafonetico.

Altri ambiti diversi da quello romanzo sono interessati da questo fenomeno: è il germa-nico medievale. Nel tedesco il fenomeno metafonetico è detto umlaut. Queste vocali non esistono in inglese. Il termine è stato inventato dai fratelli Grimm. L’inglese per ragioni in-terne ha trasformato i contesti metafonetici in contesti apofonici: foot > feet, ō > ö > ē. L’inglese non conserva più le vocali labializzate anteriori. Nelle lingue germaniche l’elemento metafonizzante è una vocale alta: i, u.

Perché il toscano non ha questo fenomeno? Non si sa! Forse perché è di sostrato etru-sco, che non contemplava. Ci sono due tipi di metafonesi:

- nord - centromeridionale

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La metafonesi settentrionale è una metafonesi da -i, che agisce sulla radicale tonica modificandone il timbro. Agisce sulla ī e sulla i secondaria. È sia galloitalica che veneta. Si trova in tutti i dialetti galloitalici, nel ladino e nei dialetti non galloitalici: urbano tosi ≠ ru-stico tusi. Il friulano si dimostra renitente a questo fatto.

La metafonesi centromeridionale è di 2 tipi, a 2 livelli. È interessata da entrambe le vo-cali alte i, u:

1 - napoletana (del tipo napoletano) 2 - ciociaresco

arpinate sabina La prima genera un dittongo, la seconda non lo genera.

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martedì 24 aprile 1990 Il principio di armonizzazione vocalica doveva essere presente già nel latino volgare e

valeva per le vocali medie (è, é, ò, ó) escludendo le vocali alte (i,u) che non sono sensibili alle forme di chiusura. Nel latino parlato il primo innesco del processo metafonetico era già operante. Schürr, romanista svizzero, dice che la dittongazione romanza ie, uo avrebbe un’origine di carattere metafonetico. Ma questa teoria è discussa. Il Lüdke distingue 3 momenti:

1 - Apertura: grado di apertura della vocale tonica colpita dal fenomeno. Si distingue un

processo di chiusura o innalzamento (della lingua verso il palato), l’altra tendenza è quella della dittongazione. Quindi:

+ chiusura (innalzamento) apertura - dittongazione 2 - Posizione dell’elemento che provoca rispetto a quello che subisce. Anche qui si di-

stinguono 2 tipi di armonizzazione: + contatto, - distanza. 3 - Numero dei gradi di apertura coinvolti nel percorso, per esempio il grado di chiusu-

ra è il primo, ma vi sono casi di seconda apertura. I tipi di metafonia sono 6 e sono dovuti dalla combinazione di questi 3 elementi. I 2 tipi

prevalenti sono:

1) 1+ 2- 3+, cioè chiusura - distanza - 1 grado 2) 1- 2- 3+, cioè dittongazione - distanza - 1 grado

Tutto sommato la maggiore distinzione è tra la chiusura (prevalente nell’Italia setten-

trionale) e la dittongazione (prevalente nell’Italia meridionale). L’Italia del sud alterna anzi l’1 e il 2.

Vocali medio basse, cioè aperte: 1 - è, ò per effetto metafonetico (a prescindere dal condizionamento) si ha iè, wò (= dit-

tongazione) e e, o (= chiusura). Ci sono dialetti che in presenza di un processo metafonetico danno i dittonghi (iè, uò) e altri che chiudono in e, o. Tutti questi movimenti hanno inci-denze morfologiche perché la metafonia colpisce l’elemento finale. Per esempio in sardo, portoghese, napoletano avremmo differenze tra il maschile e il femminile. La metafonia dit-tongante è tipica del napoletano. La troviamo anche nel padovano antico. La metafonia di chiusura è tipica dell’area sabina, ciociara o arpinate e del sardo. Il secondo tipo oppone un maschile béllo a un femminile bèlla.

Vocali medio alte:

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2 - e, o dappertutto queste tendono a essere chiuse (i, u), questo avviene in tutto il terri-

torio nazionale. 3 - a, lasciamo stare per ora. 4 - ** i, u, non esiste. Il Rohlfs distingue la metafonia dalla propagazione, trattandosi di un fenomeno condi-

zionato. Si tratta di un fenomeno durevole. È tardivo per certi versi. C’è una scala di impli-cazione perché ci sono alcuni elementi coinvolti prima e altri dopo. Per esempio il coinvol-gimento di a è più recente.

Tecnicamente la metafonia consiste nell’anticipazione del grado di apertura della voca-le atona seguente. Per lo più la finale che colpisce la tonica. È un effetto eco. Questa vocale seguente è sempre di apertura minore della tonica. Cioè una vocale alta, o anteriore i o po-steriore u. I e u non agiscono con la stessa incidenza. La vocale che esercita un effetto maggiore è i. U ha una effetto minore. Questo al nord, infatti al nord in genere la metafonia è data da i.

Al sud la metafonia con u è maggiore. L’anticipazione riguarda il grado di apertura, non riguarda la vocale in quanto tale. In molti casi la variazione prodotta dalla metafonia è solo fonologica. Per esempio tra il plurale e il singolare la differenza è nella vocale della radice. In altri casi ci sono processi molto spinti di riduzione del vocalismo finale: i dialetti napoletani riducono a vocali indistinte le vocali atone fino a cambiare il timbro vocalico. Nei dialetti in cui la metafonia è irrilevante si pensa che nel plurale prevalessero le forme in -s finale e non -i. In Italia settentrionale per esempio: e, o vocali medioalte basiche. Ligure antico e veneto centrale -minti, plurale di -mento. Tutte le formazioni in -mento danno il plurale in -minti: momento > muminti. Piemontese settentrionale singolare mes, plurale mis. Il piemontese è un dialetto galloromanzo fortemente apocopante, perciò cade la vocale fina-le. Quello che era un processo metafonetico diventa solo apofonico. Milanese quest > quist, kuel > kuil.

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mercoledì 2 maggio 1990 Quèst, quist, quèl, quil. Il fattore metafonetico si collega ad altri fattori condizionati,

provocando turbamenti. Questo ha la e chiusa (è neolatino), nel plurale é > i, *quisti, con i morfologica caduta. Caso analogo nel padovano di Ruzante e dialetti centrali veneti. Nei dialetti urbani il fenomeno è quasi sconosciuto. Rustico: pero > piri, l’etimologia dà la vo-cale chiusa, altri dialetti veneti la rispettano. Scatta inoltre un’altra regola che introduce e-lementi di condizionamento. È categorica in vicentino, ma non in padovano. Il dialetto ur-bano ha pèro - péri, cancellazione della regola. Casi interessanti e più radicali del fenomeno si hanno nel bolognese. Troviamo relazioni del tipo: mais - mis, molto differenziato a livel-lo superficiale, apocope finale. MENSE(M) > latino volgare mese, NS > S nel latino parla-to. Si innesta ora la regola per cui le vocali toniche in sillaba aperta tendono ad allungarsi (isocronismo sillabico, le sillabe hanno più o meno la stessa durata), mēse. Nei dialetti set-tentrionali s intervocalica viene sonorizzata (z), → mēze. Questa è la forma protoromanza. I dialetti poco innovativi conservano più o meno questa forma. Per esempio Padova, Venezia hanno mēze. Questa caratteristica fonetica non ha rilevanza fonologica. I dialetti con strut-tura prosodica diversa sono quelli galloitalici e specialmente romagnoli: c’è posizione di forte contrasto tra sillaba tonica e atona e produce conseguenze: ē tende a dittongarsi in ei (come nelle lingue germaniche). A questo punto c’è confusione di movimenti non facilmen-te ricostruibili. In certi casi si determina definitivamente un dittongo di tipo ei → *meize, altrove questo dittongo torna indietro, per influenza di forme con e interna o esterna al si-stema (motivi sociolinguistici).

Molti dialetti raggiungono lo stadio (vedi sopra) poi attuano l’apocope meiz, che fissa delle condizioni definitive rendendo non più recuperabili i processi. A questo punto o ei si monottonga in ii > i, oppure il dittongo si potenzia nel contrasto fra i due elementi: e, i sono molto vicini. Allora e si apre > a (e > E > a). Questo fenomeno, e > a, è comune anche da solo in condizione di sillaba chiusa. Per esempio secco in bolognese > sac.

Questo interessa molti dialetti settentrionali, ma non compattamente (la maggior parte dei vocalismi regionali è stata rifatta su modello toscano). Anche i dialetti ladini hanno, per il plurale, mēze > *mēzi > mīz. L’apocope è alla fine, perché se la vocale finale fosse ca-duta prima non ci sarebbe stata metafonesi. Si potrebbe discutere se prima dell’effetto metafonicamente non si abbia la dittongazione e il plurale presupponga meglio un meiz in cui il dittongo non si è aperto per influsso metafonetico.

Circa i dialetti veneti, ricordiamo che questo tipo di metafonia che interessa le vocali di tipo chiuso riguarda quelli centrali: pavano storico e oggi Padova, Vicenza e Rovigo. Sem-pre ristretta oggi ai dialetti rustici (squalifica sociolinguisticamente). Qui abbiamo regolar-mente plurale del tipo mizi, pili, in Ruzante caviggi (singolare cavelo). L’italiano antico per i plurali palatalizza la consonante. Ci sono dialetti che la applicano sempre. In toscano que-sto è limitato a laterali, nasali, vibranti. Nel veneto bellunese ci sono pochi esempi di meta-fonia. Il veneziano non ce l’ha, ma ci sono sue varietà, come il dialetto di Grado e Marano lagunare, che la presentano regolarmente. (Ora questi dialetti sono sopraffatti dalle varietà di veneto istriani) → misi - pili - timpi.

Tutto questo discorso vale anche per o chiusa medioalta. Sempre per azione di i. Avre-mo forme di emiliano antico noiusi, coluri (singolare noios, color), romagnolo antico mu-

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rus ‘amorosi’, singolare moros. Veneto pavano lóvo - luvi, toso - tusi, loro - luri, fior - fiuri. Non sono dialetti apocopati e bloccano questi fenomeni a livello morfofonologico. Facile qui passare a paradigma normalizzato. Il bolognese ci dà un paradigma complesso: fiaur - plurale fiūr (c’è r), neolatino fiōre > fioure > fiour. Questa forma c’è in molti dialetti italia-ni. Il singolare ou si può chiudere (fiur) oppure differenziarsi, aprirsi, e diventare au (a ve-lare) → fiaur, plurale fiore + i > fiūr. Anche qui si potrebbe verificare la dittongazione che poi si chiude per metafonesi.

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lunedì 7 maggio 1990 (da registrazione magnetica)

I casi che avevamo finora esemplificato riguardavano le vocali chiuse e, o. Si tratta di

ipotizzare soprattutto la metafonesi da i e da u. Si tratta di vocali medioalte, e quindi un grado di chiusura, e si arriva alla vocale chiusa.

I problemi piuttosto interessanti si presentano quando arriviamo alle vocali di livello in-feriore, per quanto riguarda l’apertura, cioè alle vocali mediobasse è, ò e soprattutto alla vocale bassa a. Scatta una serie di fenomeni che in parte comportano il meccanismo classi-co della chiusura di uno o qualche volta più di un grado, ma che altre volte invece compor-tano fenomeni più complicati. Cioè fenomeni di eco vera e propria nel senso che la vocale metafonizzante non si limita a modificare il grado di apertura della vocale metafonizzata, ma si ricopia accanto ad essa.

Questione delle vocali mediobasse è, ò, i Di solito l’eco più frequente in questi casi è la generazione di un dittongo. Cioè le voca-

li toniche mediobasse è, ò, per influsso di i, tendono a dittongarsi. I casi classici non sono più molti, nel senso che molti dialetti che storicamente mostravano questa caratteristica l’hanno poi eliminata. Il pavano classico mostra degli esiti specifici:

pe - piè ‘piedi’

belo - bieggi (usieggi, martieggi), dove la doppia g è una forma grafica ello - elli > egli > eji mostra un processo di questo genere, cioè la -l finale seguita da una -i provoca una palatalizzazione per cui si ha egli, che poi diventa una approssi-mante palatale: eji. Questa j interna può essere rafforzata dal punto di vista fonetico e dare origine a una g: maia > magia (tipico del veneziano di città).

Nel padovano moderno abbiamo una forma abbastanza forte di questo tipo, è una spe-

cie di prepalatale. Si deve considerare che in tutti i dialetti veneti le forme che escono in -l e che propongono un plurale -i, hanno dato questa palatalizzazione: l + i > palatalizzazione. Il termine per cavallo può essere:

- veneto che conserva la -l = cavalo - veneziano = cavao (con lenizione di -l) - un altro veneto = caval

Il plurale con -i ci dà, in tutte, la forma cavai, che non è cavali, non deriva dalla regola

veneziana per cui la -l viene mangiata, ma è un esito di questo processo: cavagli > cavali > cavai.

Nei dialetti che hanno cavali, siamo di fronte a un processo di analogia. Questa è aper-ta, viene scissa in un dittongo dalla -i finale, per cui diventa una iè: elli > iè. Paradigmi fo-netici di questo tipo li abbiamo in diversi dialetti elimiani: v(e)dèl - vdiè > *vdiei. Gli esiti

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qui sono esattamente quelli del veneto, cioè siamo in presenza di una doppia l, quindi di un proceso di palatalizzazione e quindi resta una sola i, che viene apocopata e resta iè.

Nel bolognese abbiamo ulteriori evoluzioni vocaliche, per cui a un singolare bēl si ha un plurale bī (cioè un dittongo ritratto < iè). Esiti di chiusura normale, cioè di un grado: pie-montese martèl - martéi. La metafonizzazione qui è possibile a 2 livelli, perché il livello superficiale non ce lo lascia vedere. Può essere metafonizzazione a distanza, da una forma precedente martegli - martelli, questa -i nasce da una g anteriore. Questa chiusura può esse-re dovuta allo stadio elli o egli oppure può essere una realizzazione più recente, a contatto, che provoca la chiusura, come nell’ampezzano -àis > -èi. Questo è un fenomeno di armo-nizzazione a contatto. Ma a livello di vocali semiaperte si possono avere tanti altri casi, più disordinati e poco trasparenti.

In forme arcaiche di dialetti, galloitalici occidentali, lombardo e piemontese, possiamo avere dei casi in cui oltre a -i la metafonia è esercitata anche da -u. Questo è caratteristico del lombardo-ticinese fiöl - fiòla (< figliolo). Sono pochi che conservano figlio: solo il friu-lano e il veneziano (fio - fiói). La differenza di esito vocalico si deve spiegare per influsso metafonetico. Invece il piemontese propone casi un po’ diversi: gross - gröss(i). Qui si par-la di anteriorizzazione.

Che cosa possiamo aspettarci rispetto ad a, che è la vocale più bassa e quindi è la voca-le meno attaccabile. Possiamo avere dei fenomeni di chiusura e quindi una a metafonizzata produrrebbe una è e poi e. Oppure potremmo avere dei fenomeni di propagazione, che pro-ducono una specie di dittongo: a > è > e, a > ai > è.

Il panorama dialettale storico in Italia presenta molti casi di questo genere, soprattutto in tempi antichi e in dialetti conservativi:

- nel genovese antico: graind, cristiain - nel piemontese antico: main, cain - nel ligure moderno: kan - kèn, man - mèn - dialetti arcaici dell’Istria: kan - kèn, kèin, pan - pèn, pèin

Casi di questo genere sono molto diffusi nei dialetti veneti settentrionali e nel ladino.

Come giustifichiamo le forme arcaiche di genovese e di piemontese rispetto a queste forme più moderne? Questa [E] del plurale può nascere da 2 vie:

- o dal primo processo di chiusura: kani > kèni > kèn

- o dal secondo processo: kani > kain > kèn Qui c’è un settore particolare che esige una risposta particolare. La maggior parte di

questi avvengono in vicinanza di nasali. Qualche volta in vicinanza o di laterale o di vibran-te. Nel veneto e ladino è normale -on > -ói, -an > -ái. Come si spiega? Una forma -on + -i > -oñi > -oñ è un normale processo di palatalizzazione che colpisce tutte le consonanti, ma non le colpisce tutte in modo indiscriminato nello stesso tempo. C’è una scala, per cui le consonanti particolari, che sono anche sonanti, cioè le nasali, le laterali e le vibranti, sono le più esposte, soprattutto le nasali e le laterali. Poi la -i cade e resta un esito -oñ, che in certi dialetti è rimasto tale. Abbiamo delle opposizioni di tipo:

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- singolare -on, plurale -oñ - singolare -an, plurale -añ

Una palatale di questo tipo può facilmente scindersi in due elementi: -ñ > -in. Questo

riguarda anche altre consonanti, come -š > -is, cioè un elemento vocalico palatale e una s. Come mai dal latino ŌSTIUM, > toscano uscio, si ha come esito il francese huis? Anche qui siamo nel caso di una di quelle consonanti continue che sono in alto nella scala conso-nantica e che quindi possono essere facilmente soggette a questi processi di palatalizzazio-ne, ma il processo tocca anche le consonanti di tipo occlusivo, cioè quelle che sono più du-ramente intaccabili fino in fondo. Come si spiega il friulano -laip ‘truogolo’ e in certe for-me di veneto lèbo < lat. ALVEUM (catino) > veneziano albio. Come si spiega questa retro-flessione della vocale e la formazione di questo dittongo che poi viene monottongato in queste forme venete del settentrione, se non tramite una palatalizzazione della b originaria e poi una risoluzione di i + consonante? Allora da questo punto di vista le forme genovesi del tipo cristiain e graind derivano da un processo di palatalizzazione per cui viene fuori [...] E questo processo con la caduta poi di -i sviluppa un grain. E quindi cristian, plurale cristiañi > cristiañ > cristiain.

Ora il dubbio è se attribuire queste forme di chiusura al processo di origine primaria, cioè a > è, oppure a fattori di conclusione finale di processi di questo tipo che hanno pro-dotto un dittongo secondario e quindi un ulteriore processo di monottongazione. Il piemon-tese ci propone gat - ghèt, camp - chèmp, il lombardo settentrionale nas - nès, il romagnolo fat - fèt. Nel vegliotto abbiamo per la parola ‘cane’ kuan - kin. Etimologicamente non ci si discosta dalla regola romanza cane - cani. Il singolare presenta questa caratteristica, svilup-po di a tonica che viene velarizzata. Al plurale, prima che avvenisse questo processo di ve-larizzazione, la -i tira avanti la e, quindi abbiamo kèni e poi è divenuta -i:

cane → kani > kèni > kin.

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martedì 8 maggio 1990 Il centrosud rispetto al nord rivela un quadro più complesso. In linea di principio gli e-

lementi metafonizzanti sono i, u (vocali alte). Al nord la metafonia viene da i (vocale pala-tale alta anteriore). In rari casi viene da u. L’area centromeridionale si rivela più complica-ta. Sono molte quelle che hanno metafonia da i e da u. Ci sono 2 tipi di strutture metafoniz-zanti, dette metafonesi di tipo napoletano e metafonesi di tipo ciociaro o arpinate. La prima è di tipo dittongante. La seconda produce avvicinamento e quindi innalzamento della vocale metafonizzante. Cioè la prima metafonizza sia da i che da u, la seconda da i:

marchigiano kjav. o kjäv. o kjev. ‘chiave’ abruzzese ken. ‘cane’

Le vocali finali si riducono a una vocale indistinta fino a giungere a un’apocope. La a

tonica libera viene anteriorizzata a e. Questo è un fenomeno diffuso nelle lingue romanze, è un fenomeno spontaneo, libero o non condizionato. Il plurale prevede *kèni > kin. In Cam-pania si ha ès.n., ‘asino’, la a passa a e. La . finale in origine era una u. Questi dialetti di-stingono la finale u - o, as.n(a) femminile o as.n., jèng., ‘bianco’, si ha la sonorizzazione delle sorde dopo la nasale. Femminile janga. Bl > bj > j. Lazio meridionale frat., frEt..

Il Lazio ha una situazione dialettale particolare paragonabile a quella delle Marche. Il dialetto urbano di Roma merita una trattazione a parte. Il dialetto romano, dal ‘600 in poi, diventa norma regionale. Fuori da Roma si hanno già dialetti con tratti meridionali e cen-tromeridionali. Perciò quando si parla di Lazio meridionale si parla di dialetti tra la ciocia-ria e il froninonese di tipo meridionale. Sono zone che gravitano su Napoli piuttosto che su Roma. Tutti questi esempi riguardano la a. Le differenze iniziano con le vocali medie, so-prattutto quelle aperte è, ò. La metafonia napoletana che comporta dittongazione è diffusa in Campania, Puglia, Abruzzo e Lucania: determinata area che nella fase moderna non ha questo fenomeno, anticamente ce l’aveva. Romanesco antico viecchia - vecchia è una u o-riginaria che ha provocato la metafonia. Pugliese antico dienti, -i che metafonizza. Siciliano bjeddu - bèdda (d palatale). In queste situazioni i dittonghi così generati hanno varie forma-zioni fonetiche. Nei dialettti meridionali i dittonghi sono discendenti del tipo ie, ia, i.

Questi esempi ci dimostrano tutte le tendenze esistenti. Il secondo elemento del ditton-go o si annulla creando un elemento indistinto oppure si rafforza diventando un elemento estremo del trapezio vocalico. Per esempio a Caltanissetta si ha cilu ‘cielo’, dove la i è il processo di riduzione del dittongo. Castrovillari ha firru, la i come esito finale è lo stesso dei dialetti friulani che hanno la ī, come in cīl, dove in italiano si ha invece un dittongo. In questi casi la metafonia arpinate produce effetti semplici, si limita a chiudere la vocale inte-ressata.

Dal Lazio meridionale avremo il maschile conténtu. Il maschile che ha la -u finale ha il femminile contènta. Il marchigiano orientale ha pède - pédi, il cosentino béllu - bèlla. Nel primo e terzo caso si ha metafonesi da -u per il genere, nel secondo caso si ha metafonesi da -i per il plurale. Questo tipo ciociaresco si trova nell’Umbria meridionale. L’Umbria set-tentrionale ha compromessi con il settentrione. Si ha in Campania, localmente in Abruzzo. L’Abruzzo è maggiormente caratterizzato dalla metafonia di tipo napoletano. Per quanto

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riguarda la . la situazione è la stessa: romanesco antico buonu - bona, forte - fuorti. Condi-zionamento da -u al maschile, da -i al plurale. Sono forme che troviamo nella vita di Cola di Rienzo. Calabrese settentrionale gruossu - gròssa. Da notare che il condizionamento è sia in sillaba aperta che in sillaba chiusa. Questi dittonghi sono discendenti úo, ú., úa, úe > ū > u. Abbiamo bunu, murtu. In calabrese abbiamo nuv ‘nuovo’.

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mercoledi 9 maggio 1990 Ò, esiti dittongati e loro evoluzioni. Dittonghi discendenti ùo, invece di uò. Si ha uo

oppure ue oppure monottongazione di tipo u. Alcuni dialetti antichi mostrano evoluzioni di tipo romanistico come il dittongo uo > ue, romanesco antico bueno, napoletano cuerpo, pu-gliese fueco. Vi sono anche casi di dialetti moderni, pugliese puescu, laziale fueco. Il dit-tongo antico uo si risolve in Spagna in ue, in area castigliana bueno, cuerpo, fuego e altri. Verosimilmente il cambiamento timbrico dipende dai dittonghi discendenti, da o > è si pas-sa attraverso una fase œ, cioè all’anteriorizzazione. La vocale o si anteriorizza in œ e poi si delabializza in è. Esiti simili sono tipici del friulano. Là dove si abbia una posizione asilla-bica chiusa: cu:r ‘cuore’, ŏ > û. Se la posizione è chiusa l’esito è ua, cuarp ‘corpo’, fuait ‘festa’. Nelle aree con metafonia di tipo ciociaresco si ha la chiusura: laziale meridionale novu - nova. La chiusura è dovuta all’influsso metafonetico di -u.

Questo modello di metafonia è quello che interessa il sardo e il portoghese. È il model-lo base di sviluppo maschile ~ femminile. Vocali medioalte chiuse i, u non hanno influssi da -i, -u. E, o > i, u, ci si può alzare solo di un grado e raggiungere i, u, limiti estremi della scala. Campano antico quistu - questa (metafonia da -i), napoletano moderno mes. - mis.. La forma metafonetica indica differenze di numero e di genere. Questo avviene in quelle parole in cui tutte le vocali finali hanno un timbro indistinto. In questi casi è il timbro voca-lico interno che distingue il genere o il numero. NB: poiché la vocale finale è indistinta so-no quelle mediane che dicono il genere e il numero: sing. sikk - plur. sekka. In napoletano il suffisso latino -ĔLLU > masch. -iello, femm. -ella. Le aree non urbane hanno dato degli sviluppi drastici: a Pozzuoli, pais. - pois.. La i in posizione tonica e in sillaba aperta subi-sce la dittongazione: abruzzese peil. - pail. - poil., pugliese meis..

Questi sono i classici casi in cui la metafonesi originaria stabilisce il criterio di flessio-ne interna: marchigiano antico multu, campano antico (masch.) amurusu, (femm.) amorosa. Sono anche questi fenomeni di flessione interna: masch. russ., femm. rossa.

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lunedì 14 maggio 1990 (da registrazione magnetica)

Accusativo preposizionale

L’argomento è di carattere sintattico. Parlando di fonologia abbiamo dato larga premi-

nenza a fatti settentrionali, mentre l’argomento di oggi ha preminenza in direzione meridio-nale. Si tratta del cosiddetto accusativo preposizionale, per cui l’oggetto è marcato, intro-dotto dalla preposizione a.

Nelle lingue romanze i rapporti sintattici sono governati dalle preposizioni. Per defini-zione queste preposizioni interessano tutti i casi che siano al di fuori del soggetto e dell’oggetto. Vi sono dei casi di limitazione di questo assoluto per quanto riguarda l’oggetto in determinate aree. Di solito si parla della condizione semantica fondamentale che governa questa caratteristica. Ed è che l’oggetto sia fortemente individualizzato dal punto di vista semantico. Soprattutto sia personalizzato. È il tipo:

- ho visto a Pietro - ti ho salutato a te - a me non mi vogliono

Al sud il problema è stato ampiamente esaminato. La norma italiana prevederebbe la

cancellazione di questa particella prepositiva. Questo è perfettamente normale nello spagnolo e molto meno nel portoghese. Si trova ancora nelle lingue romanze meridionali. Il termine esatto in questione è marcatura differenziale dell’oggetto. Mentre in spagnolo la situazione è identica ai dialetti meridionali, in rumeno l’elemento marcatore è pe, cioè il continuatore di un antico per. Le lingue romanze meridionali marcano differenzialmente l’oggetto e alcuni romanisti hanno intravisto una netta distinzione con le caratteristiche del-le lingue romanze settentrionali. Le lingue romanze settentrionali sono lingue che storica-mente hanno scelto la strada sintattica della marcatura del soggetto. L’esempio tipico è quello del francese e della sua declinazione bicasuale storica, declinazione in cui il caso marcato morfologicamente è il soggetto. Questa caratteristica morfologica comprendeva tutto il galloromanzo, quindi anche il provenzale, e anche l’area ladina e l’area dell’italiano settentrionale. Quindi è un chiaro tratto di contrapposizione storica. Tra il nord della Romà-nia e il sud della Romània, che ancora una volta taglia ltalia come abbiamo visto fare con tanti altri tratti: lenizione, ecc. In più la distribuzione del fenomeno nei dialetti meridionali propone alcuni casi caratteristici, che non ho trovato altrove. Casi che sono del tipo:

- beato a lui - povero a lui - a tia

Queste posizioni sono speciali nel senso che non sono normalmente degli oggetti. Sono

funzioni molto particolari che sono di fatto assimilate a quelle dell’oggetto. Casi di questo genere si trovano anche in qualche varietà settentrionale, sia dialettale che di italiano regio-nale. Per quanto riguarda i dialetti italiani l’elezione è quella centrale (in parte), quella me-

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ridionale (tutta) e l’insulare. I contesti in cui esso compare sono contesti nella direzione che abbiamo visto finora. Da questo punto di vista l’ambito linguistico più adatto per esemplifi-care è lo spagnolo:

- tener una criada enferma - tener a una criada enferma

sono due modi con significato diverso. Il primo corrisponde all’italiano avere abitualmente. Il secondo esprime una personalizzazione dell’avvenimento, cioè occasionalmente:

- tiene tres hijos ‘ha tre figli’ - mantiene a tre hijos - el director busca un empleado ‘cerca un impiegato’

In questo caso non c’è marcatura perché l’oggetto è indefinito. Può però esistere anche

la frase: el director busca a un empleado, significa che il direttore cerca non un impiegato qualsiasi, ma una persona ben determinata. Vi sono delle predeterminazioni di ordine se-mantico che vengono esplicitate dall’uso della marcatura. Il Rohlfs cita:

- a Ruggeri Lauria siciliano antico - chiama a Petru calabrese - facette trasì a Maria pugliese - cercheno proprio a tene romanesco - salùtame a pàtrete abruzzese - se vedo a vo, … umbro - chiamà a uno marchigiano - ho visto a tuo babbo toscano (isola d’Elba) - conoscu a Batista còrso

Questo è il quadro delle lingue romanze periferiche, che sono caratterizzate dalla mar-

catura differenziale dell’oggetto, che interessa elementi che siano altamente qualificati nel senso della determinatezza e dell’animatezza. Oltre all’occitanico, anche il romancio dell’Engadina ha fenomeni di questo genere. Invece le aree che sembrano estranee a questo fenomeno, come l’italiano settentrionale e il francese, sono caratterizzate da casi di ricor-renza (il francese del Belgio e il francese della Svizzera) da fatti di questo genere unica-mente in relazione a pronomi personali, cioè: a te non ti vogliamo. Anche nel francese po-polare sembra siano diffusi.

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martedì 15 maggio 1990

Premesse teorico pratiche La statistica più completa fatta, ci mostra che le cooccorrenze di questo fatto sono rego-

lari in certi contesti (lo spagnolo antico è diverso da quello moderno che tende a generaliz-zare i fenomeni):

abbiamo sempre la marcatura dell’oggetto davanti a pronomi tonici e davanti a nome proprio quasi sempre davanti ad altri referenti personali (nomi animati)

Inizia qui la fase declinante. Meno frequentemente i nomi compaiono al plurale perché

questo genere è più indeterminato del singolare. Si notano poi molti casi in cui l’oggetto marcato non occupa la sua posizione naturale o basica (cioè postverbale e a contatto con il verbo) SVO.

A + OG è un’ottima strategia per diminuire l’ambiguità: hacen parear oro al cobre ‘fanno sembrare oro il rame’. L’italiano non disambigua. Si passa da un metallo (rame) ad un altro. L’oggetto è al cobre, predicato dell’oggetto è oro. Al marca l’oggetto preciso e specifico evitando l’ambiguità che confonde il predicativo dell’oggetto dal complemento oggetto vero e proprio. Le lingue dalla Spagna all’India, indeuropee e non, funzionano con questo criterio: cioè si prendono delle preposizioni che corrispondono all’italiano a e per. Si scelgono queste per una scala di transitività: a e per sono agli apici della transitività: ho comperato questi fiori per (a) Paola. In italiano per. Nei dialetti siciliani si sceglie da. Nei dialetti umbri si sceglie ta. Nel guascone si usa en o a. Nello spagnolo peruviano onde.

Fattori sintattici e semantici (posizioni non naturali e necessità di individuazione) de-terminano la marcatura dell’oggetto che ha avuto varie evoluzioni nelle lingue. Causa pri-maria è l’insufficienza dei segnali che identificano l’oggetto nel senso di situazione di va-ghezza o indeterminatezza in cui una lingua che segnala le relazioni sintattiche si viene a trovare quando l’effetto di questi segnali è neutralizzato da categorie di ordine diverso. Come quelle tematiche e focali (sono quelle che rispondono alle categorie che fanno topica-lizzare, piazzare in determinate posizioni, l’elemento su cui si focalizza l’attenzione). Spes-so il fenomeno capita con i pronomi che di per sé non creano ambiguità, quindi in questi casi è questione di posizioni.

Alcuni di coloro che si sono occupati di questo fenomeno hanno sottolineato certi com-portamenti che distinguono i complessi linguistici toccati dal fenomeno e quelli che non so-no toccati. Il linguista Körner nel 1981 ha messo in evidenza un altro fatto che distingue l’area cisalpina da quella centrosud.

I sistemi linguistici che non hanno il fenomeno di marcatura hanno il partitivo: ho com-prato del pane. L’area centrosud in genere ignora il partitivo. Lo stesso nello spagnolo mo-derno (quello antico lo conosceva: si sviluppa un fenomeno e retrocede l’altro), che non usa il partitivo. Le lingue che non hanno il partitivo usano il pronome partitivo: ne ho compra-to un po’. Lo spagnolo può dire: ne ho comprato un po’ di quello. Le zone di sovrapposi-zione sono catalano-provenzale, sardo ed engadinese. Per Körner questo comportamento

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differente delle lingue è dovuto ad una strategia delle frasi. L’italiano e il francese con il partitivo marcano l’impossibilità che la frase sia passivizzata, perché l’oggetto è indefinito. Una marcatura di oggetti con a, con le sue identificazioni, si presta ad una trasformazione di questo genere. Un oggetto indefinito non diviene soggetto, perché quest’ultimo tende ad essere bene individualizzato. Non si può dire del pane è stato comprato, ma si può dire è stato comprato del pane, perché del pane, pur avendo la funzione di soggetto è in posizione naturale di complemento oggetto (SVO). Per es. X ha visto (verbo attivo) Mario, Mario è stato visto (verbo passivo) da X (= deve essere marcato). Se il soggetto è senza complemen-to d’agente la marcatura è su Mario, se c’è il complemento d’agente la marcatura è sul complemento d’agente. Predicati esistenziali del tipo: c’è del pane sulla credenza. Il sog-getto anche in questi casi occupa il posto postverbale. Tendenzialmente un elemento non definito non occupa il primo posto nella frase: questa è una strategia comunicativa della frase.

Da una parte ci sono lingue (come il francese) che marcano il soggetto, dall’altra lingue che marcano il complemento oggetto. I dialetti meridionali hanno dei casi di marcatura in contesti particolari che le grammatiche storiche non spiegano bene. Rohlfs li raccoglie e li identifica. In italiano meridionale è normale dire beato a lui, in napoletano pover’a isso. Questo tipo di frase può trovarsi anche fuori dai confini dialettali meridionali.

Pronomi di tipo interrogativo indefinito. Salentino: acci critava e acci chiagneva ‘chi gridava e chi piangeva’, acci tene arte tene parte ‘chi ha arte ha mestiere’. Rohlfs cita un esempio dal còrso: a cchi ghjè pinatu ‘un more tunda ‘chi è fatto a punta non muore tondo’. Il sardo ha a ccu ha accattari sale? ‘chi ha comprato sale?’. Il napoletano a cchi vo’ ac-qua?. Il siciliano ha generalizzato come pronome soggetto il ccu.

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mercoledì 16 maggio 1990

A si trova spesso davanti a un pronome che ha la funzione di soggetto. I contesti che

fanno scattare questo sono:

esclamazioni del tipo beato lui! paragoni con sottinteso il verbo andare: andò come una pecora. Il contesto come

seguito da pronome o nome è quello più frequente di marcatura apostrofe del tipo ehi tu! ehi voi!

Questi contesti sono del tipo extrasintattici e rientrano nel vocativo. Vi sono poi i pro-

nomi interrogativi indefiniti del tipo chi? che cosa?, eccetera. Ci sono dei fenomeni che aiutano a capire la genesi del fenomeno. Nei dialetti settentrionali: evoluzione dei pronomi soggetto, i cosiddetti clitici, fase medievale e fase moderna. Bibliografia Vanelli 1987, I pronomi soggetto nei dialetti settentrionali dal medioevo ad oggi. Questo fenomeno è com-parabile a quello di marcatura. Accusativo preposizionale e sovrapposizione relativa tra l’accusativo preposizionale e il soggetto nullo. Il fenomeno divide a nord i dialetti setten-trionali più il francese, che hanno o un nome o un pronome e al sud i dialetti che vanno d’accordo con il sardo e lo spagnolo, che hanno indifferentemente nome o pronome (ma non deve esserci per forza il pronome). Nel medioevo i pronomi soggetto continuano il no-minativo latino EGO > eo, eu, e’, TU > tu. La fase moderna ha generalizzato le forme obli-que ed esattamente il dativo MIHI > mi, TIBI > ti, sono tutti soggetti (mi digo). Lui, lu sono innovazioni del latino volgare, loro al plurale continua il genere ILLORUM. Non è detto che nella fase medievale ci siano state solo le forme sopra riportate. La Vanelli riporta in-fatti testi dal:

bergamasco antico: Zoan e mi stam in gia dol ‘Giovanni ed io stiamo in grande

dolore’ veneziano antico: tu aures abiu questiun o eo o ti ‘tu avresti avuto questione o io

o tu’ milanese antico: farand ti quel peccas ‘tacendo tu quel peccato’

Questi contesti hanno pronomi soggetto in forma obliqua, cosa che contrasta con la re-

gola antica. Tu ed eo sono della regola, mi e ti no. L’ipotesi fatta dalla Vanelli è che questi pronomi sono obliqui e legati a contesti sintattici particolari, cioè la posizione diversa o ab-norme rispetto a quella richiesta dal caso nominativo. La posizione soggetto attesa è la pri-ma. Nei nostri esempi invece abbiamo pronomi soggetto di verbi non finiti (farand) e che perciò non hanno flessione. Il soggetto del gerundio potrebbe essere io, tu, eccetera.

Altro caso: i pronomi soggetto con verbo sottinteso, secondo caso, come per esempio nelle esclamazioni. Infine il caso di pronomi soggetto accompagnati da un altro soggetto congiunto con verbo unico. Spesso in questi casi il pronome soggetto non occupa la prima posizione, bensì è in posizione postverbale. In questi casi l’obliquo funziona come una spe-cie di caso neutralizzato introdotto in certi contesti sintattici. Il francese antico ha degli e-sempi simili a quelli dei dialetti settentrionali: moi et ton père fumes molt prest cosin. Nelle

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lingue moderne, per esempio l’inglese, con I come pronome soggetto, ci sono differenze di comportamento se il pronome è posposto al verbo: it’s me, who’s there? Me! ‘Chi c’è là? Io’. In italiano anche tu ed io, ma io e te. Ora si sta diffondendo il te. Si dice come me: in questo caso io cede il posto a me.

Nella frase non interrogativa si ha SVO. Nella frase interrogativa si ha inversione VSO?. Se ci sono pronomi interrogativi questi vanno al primo posto, ma così facendo con-servano le caratteristiche che hanno nel posto normale in cui nascono (cioè postverbale). Perciò il tipo chi è marcato con a quando ricopre la funzione di soggetto e non di oggetto. All’interno dell’Italia si vedono distinte zone che sviluppano fenomeni diversi ma comple-mentari. Si vede per esempio che:

hanno in fase medievale la caratteristica declinazione bicasuale ove viene

marcato il soggetto e non l’oggetto come del resto il francese accusativo preposizionale, marcato è l’oggetto

Il latino marca sia il soggetto che l’oggetto con l’uso dei casi: questo è il sistema più ef-

ficiente perché permette una certa varietà di posizioni. Il sistema CM ha anch’esso una cer-ta mobilità e possibilità di posizione. Il più labile e meno efficiente è il settentrionale che si conserva solo in alcuni dialetti. L’italiano che non marca né il soggetto né l’oggetto è il si-stema che non permette alcuna mobilità.

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Bibliografia dei principali strumenti di consultazione 1. Bibliografie linguistiche R. A. HALL Jr., Bibliografia della linguistica italiana. Firenze, Sansoni, 1958.

R. A. HALL Jr., Bibliografia della linguistica italiana. Primo supplemento decennale

(1956-1966), Firenze, Sansoni, 1969.

R. A. HALL Jr., Bibliografia della linguistica italiana. Secondo supplemento

decennale (1966-1976), Pisa, Giardini, 1980.

R. A. HALL Jr., Bibliografia della linguistica italiana. Terzo supplemento decennale

(1976-1986), Pisa, Giardini, 1988.

A. M. ARNUZZO - G. MARCATO, Lingue e dialetti italiani. Contributo alla

bibliografia della lingua e dei dialetti italiani per gli anni 1967-71, Pisa,

Pacini, 1976.

O. PARLANGELI, Saggio di una bibliografia dialettale italiana (1955-1962), Italia

dialettale 25 (1962), pp. 113-136; 26 (1963), pp. 151-2116; 27 (1964), pp. 250-286.

2. Dizionari storici VOCABOLARIO DEGLI ACCADEMICI DELLA CRUSCA, Firenze, Tipografia

galileiana, 1863-

N. TOMMASEO - B. BELLINI, Dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1929.

S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, Totino, UTET, 1961.

3. Dizionari etimologici VEI = A. PRATI, Vocabolario etimologico italiano, Torino, Garzanti, 1951.

DEI = C. BATTISTI - G. ALESSIO, Dizionario etimologico italiano, Firenze,

Barbera, 1950-1957.

DELI = M. CORTELAZZO - P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana,

Bologna, Zanichelli, 1979-1988.

LEI = M. PFISTER, Lessico etimologico italiano, Wiesbaden, Reichert, 1984-

REW = W. MEYER LÜBKE, Romanisches Etymologisches Wörterbuch,

Heidelberg, Winter, 1935.

110

FEW = W. von WARTBURG, Französisches Etymologisches Wörterbuch,

Bonn/Basel, Klopp/Zbinden, 1928-1966 (+ supplementi successivi).

4. Grammatiche storiche G. ROHLFS, Grammatiche storiche della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino,

Einaudi, 1966-1969.

P. TEKAVČIČ, Grammatica storica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 1972.

5. Atlanti linguistici AIS = K. JABERG - J. JUD, Sprach- und Sachatlas Italians und der Südechweiz,

Zefingen, Ringier, 1928-1940.

(si usano come strumenti di consultazione dell’AIS: Der Sprachatlas als Forschungin

strument, Halle, Niemeyer, 1929 (ora anche in traduzione italiana).

ALI = Atlante linguistico italiano (pubblicato un solo volume di saggio sulla

Sardegna a cura di B. Terracini).

ALM = Atlante linguistico mediterraneo (pubblicato un solo volume di saggio).

ALEIC = G. BOTTIGLIONI, Atlante linguistico etnografico italiano della Corsica,

Pisa, 1933-1939.

ASLEF = G. B. PELLEGRINI, Atlante storico linguistico etnografico friulano,

Università di Padova/Università di Udine, 1972-1986.

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Indice

Presentazione 2

Nozione di dialetto 3

Definizione di lingua e di dialetto 5

Rapporto lingua-dialetto 7

Confini dialettali 10

Classificazione dei dialetti italiani 13

Ancora confini dialettali 30

Sempre problemi di confini dialettali 34

Tentativi di stabilire su base numerica le differenze dialettali 51

Criteri estrinseci per appoggiare una varietà linguistica 54

Il diasistema 57

La gorgia 60

Osservazioni generali con riguardo al settore C 62

Problema della variazione nella lingua, genesi dell’analisi dialettologica 64

Trattamento della s in posizione intervocalica o debole 66

Il friulano 72

Tratto sintattico importante: i clitici 73

Contatto di parlanti in condizioni di ineguaglianza 79

Siciliano 80

Friulano 85

Dialetti centromeridionali 88

Sardo 88

Toscano 89

Fonologia dei dialetti italiani: metafonesi 91

112

Questione delle vocali mediobasse è, ò, i 97

Accusativo preposizionale 103

Premesse teorico pratiche 105

Bibliografia dei principali strumenti di consultazione 109

Indice 111