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1. Un grande scenario gastronomico
Bologna, 18 ottobre 1786. Salii sulla torre, chiedendo ristoro all’aria
pura. Che meraviglioso panorama! A nord si vedono i colli presso
Padova, più in là le alpi svizzere, tirolesi, friulane, insomma l’intera
catena settentrionale, che oggi però era coperta di nebbia. Verso
ponente un orizzonte sconfinato, in cui spiccano solo le torri di
Modena. Verso levante una pianura uniforme fino al mare Adriatico,
che al levar del sole diventa visibile. Verso sud le colline
preappenniniche, coltivate e coperte di verde fino alle cime, popolate
di chiese, di palazzi, di ville.
Benvenuti nel grande teatro della salumeria italiana. La pianura Padana descritta da Goethe durante il suo Grand
Tour in Italia evoca l'immagine di una grande tavola. Fra l'Adriatico, il Po e l'Appennino, questo immenso
giacimento alimentare unico al mondo si è formato grazie
ad una straordinaria varietà di ambienti e microclimi: il mare, la pianura, la collina, la montagna, la valle, il
fiume. Accanto a queste vocazioni naturali, una storia millenaria ha poi conferito alla cucina padana quella
ricchezza di sapori dovuta alle influenze dei vari popoli insediatisi nella nostra penisola (Celti, Etruschi, Greci,
Romani, Longobardi, Franchi) a cui si sono aggiunti gli apporti delle dominazioni successive: austriache,
francesi, e dello Stato pontificio a Bologna e in Romagna. Eppure, non si spiega la gastronomia emiliano-romagnola
senza le città, culle della norcineria specializzata che, con le sue invenzioni, ha reso celebri i grandi centri lungo la via Emilia e i tanti borghi
medievali della pianura e dell'Appennino. Così è nata e si è sviluppata la straordinaria qualità della nostra cucina che ancora oggi, nell'era della
globalizzazione, rende il made in Italy alimentare tanto apprezzato nel mondo.
Terrasanta del maiale, l'Emilia Romagna è anche il regno della pasta all'uovo e ripiena (tortelli, ravioli e cappelletti), del formaggio parmigiano reggiano, di vini
prestigiosi come l'albana, il sangiovese, il lambrusco. Qui, in questa miniera di prodotti tipici e grande area di scambi gastronomici, i salumi portano i nomi di
città e paesi: prosciutto di Parma, prosciutto e zampone di Modena, mortadella di Bologna, salame piacentino, culatello di Zibello, Salama da sugo di Ferrara,
Golfetta di Lavezzola. Poche sono le zone al mondo dove esiste una tale attenzione al cibo e ai modi di consumarlo. E non è un caso se oggi dall'Emilia
Romagna proviene il maggior numero di salumi protetti dai marchi Dop e Igp riconosciuti dall'Unione europea.
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Anche la moderna industria alimentare ha le radici in questo panorama di sapori dove arte, natura e cucina, fin dai tempi di Goethe, esercitano un'attrattiva
turistica di prim'ordine.
Veduta aerea di Lavezzola – In alto a sinistra lo stabilimento della Golfera Spa
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2. La Golfera Spa fra innovazione
e tradizione
Prendete ora una carta stradale e
considerate il territorio compreso tra Bologna, Ferrara e Ravenna. Al centro di
quel triangolo si trova Lavezzola, un antico paese della bassa Romagna nel comune di
Conselice, rinomato per la sagra della porchetta e del tortellino. Siamo a pochi
chilometri dalle Valli di Comacchio e dall'Oasi naturalistica di Campotto e Argenta, una
zona umida situata nel Parco del Delta del Po. Qui ha sede la Golfera Spa di Alvaro
Zavaglia, il salumificio famoso per il Golfetta, che da mezzo secolo produce insaccati di
qualità, oggi esortati in Europa e nel mondo. Questo lembo di padania orientale è una
terra strappata alle acque attraverso un
secolare lavoro di bonifica. Qui, fra villaggi e campagne, la storia
alimentare ha le sue radici nei fiumi e nelle strade: il Sillaro, una sorta di confine gastronomico ad ovest del quale non si usava cucinare il castrato, piatto tipico
romagnolo; il Reno, antico alveo del Po di Primaro, che per secoli ha funzionato come vera e propria "autostrada del sale" che univa l'Adriatico alle città padane;
la via Bastia, costruita dagli Estensi per collegare Ferrara alla Romagna e un tempo costellata di osterie.
La Golfera opera in un territorio che conserva un legame segreto fra i sapori antichi e il paesaggio. E' una pianura intessuta di cittadine, seminata di campanili
e minuscole borgate retaggio di una secolare tradizione rurale. Lungo le trame nitide dei suoi canali sopravvivono ancora le vecchie boarie e le antiche ville
signorili alle quali facevano capo le vaste tenute agricole di un tempo. Da queste parti, la memoria del
salume si è tramandata per secoli sulla base di una
suinicoltura tipicamente contadina. La zona è parte di uno spazio alimentare più ampio e cioè di quella
Romagna mezzadrile che, dalla collina alla bassa pianura, ha creato una salumeria diffusa che annovera
prodotti tipici come la coppa e il salame romagnolo, il ciavarro folivese, il bell'è cott, i ciccioli (grasul).
Sul tronco di questa tradizione la Golfera ha sviluppato le sue produzioni innovative bene espresse nel motto
aziendale "i nuovi salumi dal sapore antico", che riassume quella ricca varietà di prodotti di alta gamma che fanno di questo
stabilimento una Italia in miniatura della salumeria. Si tratta di insaccati nuovi nei parametri nutrizionali ma antichi nel gusto, nel profumo e nel sapore, nuovi nella
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tecnologia e nell’attenzione alla massima salubrità del prodotto e antichi nella sapienza e nella cultura con cui vengono preparati. Tutto questo per portare sul
piatto del consumatore il Bel paese nella sua massima espressione di qualità, servizio, innovazione e rispetto della tradizione.
Raccontare la storia
della Golfera significa dunque
rivisitare la storia di un territorio dal
punto di vista alimentare, per
capire il passato e il presente del
mangiar bene attraverso paesi, città, luoghi, ambienti e protagonisti. Il nostro percorso approderà infine allo stabilimento lavezzolese per raccontare l’avventura
della qualità alimentare attraverso la filiera della norcineria moderna, dove il gusto del viaggio nel tempo e nello spazio è il viaggio nel gusto per la buona
tavola.
3. La carne che viene dai boschi
Suillum pecus donatum ab natura dicunt ad epulandum. (Dicono che il suino ci sia stato dato dalla natura per godere la vita). (Varrone)
Il nostro itinerario nella storia della salumeria non può che cominciare dallo squisito mammifero
artiodattile domesticato circa 8000 anni fa nel Medio oriente e che prende il nome da Maia, la dea greca
madre di Ermes, a cui l'animale veniva offerto in sacrificio nel mese di maggio. L’animale, che in Cina
rappresenta il dodicesimo segno zodiacale, si ritrova nella mitologia dei popoli nordici e figura persino nel
mito della fondazione di Roma: Virgilio racconta
nell’Eneide che fu una scrofa ad indicare ad Enea il punto in cui avrebbe
dovuto edificare una nuova città. Al Medioevo risale invece il maiale cristianizzato, posto cioè sotto la protezione di Sant’Antonio, la
cui immagine è stata poi immortalata nelle stalle di tutte le case contadine. Il suo culto, legato al maiale, ha avuto origine dagli impacchi di lardo che i monaci
antoniani, fin dal XI secolo, praticavano ai malati di erpes zoster, la malattia che ha poi preso il nome di fuoco di Sant’Antonio.
Che cosa distingue il maiale dalle altre specie da allevamento è presto detto: la sua totale, esclusiva vocazione alla carne. E' pur vero che buoi, mucche, cavalli,
pecore, capre e pollame, durante il loro ciclo vitale offrono all'uomo un più ampio
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repertorio di risorse: energia muscolare per il lavoro e il trasporto, latte, lana, formaggio, uova. Il maiale invece, inutile da vivo ma preziosissimo da morto,
riscatta la sua monovalenza carnea con una varietà enciclopedica di prodotti e di sapori: "Da nessun altro animale - scriveva Plinio il Vecchio - si trae maggior
materia per la ghiottoneria: la carne di maiale ha quasi 50 sapori diversi, mentre
per gli altri animali il sapore è unico". Affermare che del maiale non si butta via niente, in fondo è un altro modo per dire che si apprezza proprio tutto.
Dunque, nessuno meglio del suino "incarna" - è proprio il caso di dire - la nostra
tradizione alimentare le cui origini risalgono ai Celti, agli Etruschi, ai Romani, e poi ai
Longobardi e ai Franchi. A quei tempi la pianura Padana era un mondo di selve dove
suini molto simili ai cinghiali venivano condotti al pascolo dai porcari. Nel II secolo
a. C. lo storico romano Polibio così la descriveva:
Vi si trova una grande quantità di grano, a seconda
dei luoghi (...). Le terre coltivate a miglio e panico
rendono in maniera veramente straordinaria. Per la
quantità di ghiande prodotte nelle foreste di querce
della piana basta considerare che sul numero
complessivo dei suini macellati in Italia per il
consumo domestico e l'approvigionamento dei
militari, il contributo più consistente viene da questa
pianura. [Polibio, Storie].
Nella montagna come in pianura, le radici
della suinicoltura e della salumeria risalgono alle foreste glandifere del Medioevo, epoca in cui il maiale rappresentava di gran lunga la principale risorsa carnea e il
valore delle superfici boschive si misurava in base ai suini che potevano nutrire. Questo habitat, per secoli risorsa economica primaria, accomunava l’Emilia e la
Romagna, territori che hanno peraltro sviluppato due tradizioni gastronomiche differenti. A riguardo, la carne costituisce un importante marcatore di cultura. La
frattura alimentare tra Longobardia e Romania, che correva lungo un confine mobile tra il Sillaro e il Panaro, ha visto la preponderanza dei suini nelle province
emiliane e, a oriente, la persistenza della pastorizia. Da un lato il regno del lardo
e dello strutto, dall’altro la terra del castrato ma anche dell’olio, se solo si considera che fino al XVIII secolo gli ulivi abbondavano in Romagna e a Bologna.
Due culture alimentari, dunque: in Emilia quella di impronta nordica (retaggio celtico-longobardo), in Romagna quella di ascendenza mediterranea (retaggio
romanico-bizantino). Si può dunque affermare che se in Emilia il maiale è un re, in Romagna è un principe che per secoli ha condiviso la tavola con la pecora.
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4. Tra Sillaro e Santerno: il maiale nel paese dei ranocchi
"Fra il Po e l' monte / e la marina e l'Reno”: così Dante Alighieri delineava i confini
della Romagna medievale, quando la bassa pianura era ancora una vasta palude dove i torrenti appenninici riversavano le loro acque torbide. Qui sorgeva Caput
Silicis, l’odierna Conselice. Fin dal XI secolo questa località era il porto vallivo di Imola sulla grande area deltizia del Po. Su questo territorio si estendeva una rete
di autostrade liquide costellata da scali commerciali (San Biagio, Argenta, Portomaggiore, Consandolo e altri), tappe intermedie per il traffico del sale
proveniente da Cervia e da Comacchio e diretto alle città padane, dove costituiva una derrata indispensabile alla sussistenza alimentare.
La diocesi di Imola concesse in enfiteusi ai conselicesi la bassa pianura attraversata dalla via Selice e dal Canale dei Molini, compresa tra i fumi Sillaro,
Santerno, e l’antica via Salara (oggi via San Vitale). In questa estremità nord-occidentale della Romagna, la natura selvatica e gli spazi incolti, per secoli hanno
dominato l’ambiente e il paesaggio. Lo sfruttamento dei boschi, dei prati e delle paludi costituiva il perno di una economia silvo-pastorale dove il pascolo brado del
bestiame, insieme alla pesca e
alla caccia, costituiva la principale risorsa alimentare. Che vi fosse
grande abbondanza di suini da ingrassare nelle selve lo si evince
dagli antichi Statuti di Conselice, riconosciuti da Borso d’Este nel
1460, che stabilivano una pena di cinque soldi a chi avesse lasciato
pascolare senza custodia verri e scrofe, animali allora molto simili
ai cinghiali, agili, magri e dal manto scuro. Il divieto vigeva da
giugno a ottobre, proprio per evitare che i maiali, onnivori e
insaziabili, danneggiassero i pochi
campi coltivati a frumento, orzo e avena. I controlli erano affidati ai
saltuari, pubblici ufficiali che avevano il compito di vigilare sul
corretto sfruttamento dei boschi. Gli Statuti del Castrum Consilicis
prescrivevano altresì ai macellai (beccai) l’obbligo di far visitare gli
animali prima di ucciderli (una sorta di controllo di qualità ante
litteram) e vendere la carne al prezzo fissato dal municipio.
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Buona parte di quei suini finivano comunque a Imola dove, come in tutte le città medievali, il consumo carneo era particolarmente elevato. Nel XIII secolo, mentre
a Bologna i salaroli inventavano la mortadella, a Imola, la corporazione dei beccai era fra le più potenti e numerose. I macellai esercitavano all’epoca un notevole
peso economico e perfino politico nelle frequenti lotte tra fazioni avverse, se non
altro per la loro dimestichezza con gli strumenti da taglio. All’epoca, per assicurare il rifornimento carneo alle città, come nel caso di Ravenna, i beccai
detenevano diritti sulle selve dove l’allevamento suino open air era interrotto dai brevi periodi di stabulazione invernale. Come raccomandava Piero De Crescenzi,
agronomo bolognese del XIV secolo, in quei mesi “si deono dar loro ghiande e castagne e somiglianti cose, o le fave e l’orzo, o l’grano: imperocché queste cose
non solamente ingrassano ma danno dilettevole sapore alle carni”. Una peculiarità dell’agro conselicese stava nel fatto che per quasi nove secoli,
pastori e allevatori hanno retto una economia fondata sulla carne grazie al diritto di compascuo (jus pascendi). Era questa una consuetudine di remote origini,
sancita negli Statuti del 1460, che dava ai conselicesi l’esclusiva del libero pascolo dei bestiami sui prati e sulle valli dopo la prima falciatura dei fieni e degli strami.
Questo uso civico, all’epoca diffuso soprattutto nella montagna, a Conselice rappresentava un caso unico nei territori della Romagna estense, al punto da
plasmare nel profondo la cultura materiale e la mentalità delle genti di questo territorio anfibio, avvolto nelle nebbie, nella pace selvaggia di vasti acquitrini, e
passato alla storia come il paese dei ranocchi. La memoria del maiale affonda le
radici in questo Medioevo fuori tempo massimo, protrattosi fino al secolo dei lumi.
5. Dai boschi alle porcilaie. Suini e pecore nella bassa
Romagna
Dal regno di Diana a quello di Demetra, dal bosco al campo coltivato,
l’eden suinicolo a cielo aperto ha ceduto gradualmente il passo alle
anguste porcilaie delle case coloniche.
La metamorfosi suina ha seguito quella ambientale e il maiale silvestre si è
trasformato in quello casereccio. Va comunque sottolineato che già a
partire dal Cinquecento il regime stabulare si era affermato nelle città
dove albergatori e locandieri allevavano i suini con scarti di cucina e
sottoprodotti di alcune lavorazioni industriali come i mulini, i caseifici e le distillerie.
L’allevamento al chiuso delle porcilaie, dapprima incorporate nelle case coloniche poi costruite in locali separati, è documentato nel conselicese all’inizio
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dell’Ottocento: "Li porcini - si legge in una inchiesta agraria del 1824 - sono semplicemente quelli che si allevano dai coloni per uso delle loro famiglie e di
quelle dé padroni”. Il tramonto della suinicoltura silvestre ebbe inizio con la rivoluzione agricola del Settecento quando le bonifiche e i disboscamenti
rendevano disponibili nuove terre coltivabili, mentre le paludi e i boschi residui
venivano per lo più utilizzate come riserve di caccia per i nobili. Si diffondeva la mezzadria e cominciava l’ascesa inarrestabile del bestiame da lavoro. Nuove
colture come il gelso, il mais, il riso e la canapa cambiavano il volto del paesaggio agrario.
Nell’Ottocento, quando a Conselice già imperava la risicoltura, esplodeva il conflitto fra la nuova economia agricola e l’antico regime silvo-pastorale. Nel 1886
i conti Massari, proprietari dei due terzi del territorio comunale, riuscirono finalmente ad affrancare le loro terre dal gravame del compascuo. Ciò accadde
dopo annose liti giudiziarie con il Municipio che fino all’ultimo aveva difeso quell’antico diritto comunitario. Nello stesso anno, proprio per risarcire la
comunità si fondava l’Opera Pia Jus Pascendi dotandola peraltro di un consistente patrimonio fondiario.
I grandi possidenti consideravano l’eccessiva presenza di bestiame all’aria aperta un intralcio all’agricoltura moderna. E qui entrava di nuovo in scena il maiale,
nella parte di imputato numero uno, primo grande escluso dal diritto di pascolo. Del resto anche l’autorevole agronomo bolognese Carlo Berti Pichat riteneva che il
grufolare dei suini danneggiasse i prati rendendoli meno produttivi.
Ad ogni modo, le trasformazioni ambientali ed economiche del XIX secolo, se da un lato cancellavano i boschi, tuttavia lasciavano intatte vaste aree prative e
vallive, superfici incolte (ma non improduttive) che continuavano ad occupare quasi la metà del territorio comunale. Su questi consistenti residui dell’antica
arcadia conselicese, legati al cattivo assetto idraulico del territorio, il maiale doveva poi subire la concorrenza di un intruso molto ingombrante: la pecora. Le
greggi transumanti provenienti dall'alto Frignano e dirette nella bassa ravennate e ferrarese, non erano peraltro una novità poiché il fenomeno risaliva almeno al
Cinquecento, da quando cioè la pastorizia era diventata un’attività specializzata. Il problema stava soprattutto nella quantità: se gli ovini autoctoni si limitavano a
qualche centinaio, erano invece diverse migliaia i capi forestieri che pascolavano in loco da settembre a febbraio. Dietro il pagamento di un canone, i proprietari
terrieri accoglievano i pastori di buon grado: l’esercito dei lanuti favoriva la concimazione dei terreni e impediva di fatto il libero pascolo del bestiame locale.
Insidiato dalla pecora e senza più boschi, il popolo suino si ridimensionava. Nel
1815 Conselice era ancora fra i comuni più suinicoli della bassa Romagna, con quasi un migliaio di capi, un patrimonio assai superiore a quello della vicina e
ricca Massa Lombarda e consistente anche rispetto ai 1800 maiali di Lugo, sede di un fiorente mercato e con un territorio di gran lunga più esteso. Ma nei decenni
successivi il patrimonio subì una drastica riduzione. Dalle statistiche pastorali sappiamo che tra il 1868 e 1886 i maiali toccavano appena le 600 unità. Questo
dato trova conferma nell’inchiesta agraria del 1879 che a Conselice censiva 590 maiali, 466 pecore e 807 famiglie contadine. Non tanto diversa era la situazione
nel territorio di Alfonsine, dove io capi suini raggiungevano le 450 unità. Per molti mezzadri, dunque, la pecora rappresentava un apporto significativo al
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sostentamento familiare. Oltre al latte e al formaggio, gli ovini fornivano la materia prima per l’industria domestica della filatura. Attraverso il bestiame
passava poi la divisione di genere del lavoro: agli uomini spettava la cura dei buoi e il lavoro nei campi, alle donne quella di maiali, pecore e polli, accanto alla
filatura e alla cura dell’orto. Ma i suini e in primo luogo le poche scrofe, erano di
casa soprattutto fra i 350 possidenti censiti dall’inchiesta agraria, quasi tutti proprietari di fondi inferiori ai 50 ettari, fra i quali numerosi coltivatori di piccoli
poderi. Questa scarsità di maiali va certamente ricondotta sia alle frequenti epidemie
epizootiche, indotte anche dagli animali forestieri, sia alle inondazioni a cui la zona era particolarmente esposta. Eppure, a ben vedere, essa era il sintomo di
un’agricoltura povera in cui le risorse alimentari non tenevano il passo ad una popolazione crescente. Come tutta la bassa romagnola (Alfonsine, Lugo) e il
ferrarese (Argenta, Filo), Conselice restava un paese in bilico fra l’antico e il moderno: mentre cresceva a dismisura l’esercito dei braccianti e scomparivano i
pastori di professione, persistevano pur sempre mestieri tradizionali come il vallarolo, il cannarolo e il pescatore. E ancora agli inizi del Novecento la canna
palustre rappresentava una delle voci principali dell’ export locale. Nonostante tutto, l’allevamento restava una risorsa primaria. Basta esaminare i
bilanci comunali dell'epoca per scoprire che, prima ancora dell’imposta sulla famiglia (il cosiddetto focatico), la tassa sul bestiame costituiva l’entrata più
cospicua per le casse municipali: i suini contribuivano con una lira per capo, con
3,50 lire i buoi, 3 lire i cavalli, una lira i muli, 60 centesimi le pecore. Di maiali se ne trovavano anche in paese, secondo una usanza che risaliva al
Medioevo. Nel 1860, ad esempio, la spaziosa porcilaia di Casa del vento occupava il centro di Conselice. Quell’edificio che ospitava due botteghe e un caffè gestiti da
un pizzicagnolo, fu ben presto demolito per fare posto all’attuale piazza del paese ma anche per esigenze igieniche compatibili con il nuovo assetto urbanistico
postunitario. Gli animali di bassa corte, infatti, si trovavano proprio di fronte al pozzo artesiano perforato nel 1856 per fronteggiare la tragica emergenza del
colera, che a Conselice aveva causato 200 decessi. Quella fonte, divenuta subito un monumento alla salute pubblica, non poteva certo sopportare la vicinanza agli
“immondi animali”, e nel 1867, il regolamento sanitario comunale vietava l’allevamento di maiali nel centro cittadino.
“Sant’Antoni us inamurè d’un pòrz”, recita un detto romagnolo. Infatti, proprio in occasione delle tradizionali fiere annuali di Sant’Antonio e dei mercati settimanali,
i maiali tornavano in paese per essere venduti. Gli animali furono però confinati in
aree riservate per motivi igienici e di pubblico decoro, come si legge in un provvedimento municipale del 1874:
Il traffico dei maiali che si fa ogni domenica sulla pubblica via Selice, la Giunta municipale non lo
ritiene più tollerabile siccome la zona, molto frequentata da forestieri, trovasi a contatto tutti gli
altri merciai ambulanti che numerosi accorrono nei giorni festivi. Onde rimuovere tale
inconveniente che offende non solo la decenza ma anche la sanità pubblica, la Giunta ha
deliberato che da ora in avanti il traffico dei maiali dovrà farsi nella via nova, e precisamente nella
spianata vicino al canale, rimanendo assolutamente proibito d’esercitare tale traffico in altra
località del paese.
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Nella bassa romagnola, come in tutta la pianura padana, la storia del maiale è strettamente legata ai mercati del bestiame che, soprattutto dopo l'Unità d'Italia,
ebbero una notevole incidenza sulla politica urbanistica. I municipi allestirono infatti aree urbane ad hoc per i fori boari, spesso ubicati vicino al pubblico
macello. Fiere e mercati settimanali si tenevano in siti periferici di circa un ettaro
delimitati da pioppi e siepi, con porticati e un grande cancello di entrata. In questi luoghi della memoria e dello scambio, batteva il cuore di una economia paesana
ancora fortemente in simbiosi con la campagna. In essi si incontravano mezzadri, piccoli proprietari, fattori, sensali, commercianti, pizzicagnoli e i buoni affari si
concludevano con un banchetto nelle osterie del paese. Alla fine del secolo, con i venti della modernizzazione, fu proprio l’espansione dei commerci a restituire un
luminoso futuro ai protetti di Sant’Antonio.
6. Tempi moderni: il maiale alla riscossa
Lo sviluppo dei mercati dopo l’Unità d’Italia contribuì alla ripresa in grande stile
della suinicoltura all’inizio del nuovo secolo. Nuove infrastrutture viarie
incrementarono gli scambi su più ampio raggio. Nel 1866 fu abolito il pedaggio al ponte della Bastia - poi ricostruito in cemento armato nel 1910 - che collegava le
province di Ravenna e Ferrara lungo la statale adriatica. Nel 1889 fu inaugurata la ferrovia, con due tratte - la Lugo-Lavezzola e la Ferrara-Ravenna-Rimini - che
collegavano il conselicese alle grandi città padane. Con il declino della risicoltura e le bonifiche, altri terreni furono destinati alle coltivazioni asciutte: grano, mais e
soprattutto la barbabietola, nuova coltura del secolo. Il Novecento portava le biciclette, l’energia elettrica e i grandi zuccherifici: anche per lo squisito
quadrupede cominciavano i tempi moderni. Nelle campagne ravennati, gli agronomi e gli ingegneri della Cattedra ambulante di agricoltura introducevano
nuove tecniche agronomiche e zootecniche, compresa la moderna suinicoltura, che aveva esordito alla fine del Settecento in Inghilterra e in Francia. Ora sul
banco degli imputati c’èra la pecora, rea di diffondere malattie infettive d’ogni sorta. Per La Romagna agricola e zootecnica, organo della Cattedra, “l’immondo
animale” si era invece trasformato in
una macchina meravigliosa che dal nulla sa trarre qualche cosa e rinnova questo miracolo tutti i
giorni a vantaggio delle popolazioni che si nutrono delle sue carni; per mezzo della sua potenza
assimilatrice trasforma in carne e in grasso alimenti di scarso valore commerciale, sottoprodotti
delle industrie, i residui della fattoria, le acque grasse, i grani e le radici avariate in una certa
misura: tutto è buono per l’alimentazione del maiale. I denari spesi per esso sono resi con frutto
anzi con usura.
Prodigi del metabolismo suino. E certamente un buon rimedio per alleviare il
pauperismo che affliggeva le campagne sovrappopolate della bassa Romagna. La rivoluzione zootecnica riguardava anzitutto la qualità. Nella seconda metà
dell’Ottocento si introducevano nella pianura Padana i primi verri riproduttori
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inglesi, suscitando non pochi contrasti fra i puristi delle razze locali e i fautori del meticciato suino.
Dalla celebre mora romagnola - detta anche bruna o castagnona, con le sottospecie rimininese, faentina e forlivese - si passava al maiale perfetto: il
meticcio Yorkshire-Romagnolo, detto
anche “fumato”, che in venti mesi poteva raggiungere anche i 400 chili.
Ma per arrivare a tanto occorreva seguire il decalogo del buon
allevatore. A riguardo, gli agronomi della Cattedra ambulante
prescrivevano una dieta differenziata. Non bastavano più i classici avanzi di
cucina e crusca in inverno e in primavera: in estate, il maiale
andava nutrito con barbabietole, patate, zucche, bucce di cocomero, farina di fava e di orzo, e molta farina di
mais. Per prevenire le patologie suine e ottenere carni di qualità, i ricoveri dovevano osservare standard igienici adeguati: porcili spaziosi, illuminati, areati e
regolarmente puliti. Non solo: in primavera si consigliava di tenere l’animale all’aria aperta, restituendogli così un poco dell’antica libertà. Case coloniche, ville
padronali, boarie: il maiale era di casa ovunque nei luoghi classici della memoria
rurale. Inoltre, non erano rari i braccianti che ne possedevano uno, anche se allevato più miseramente e il cui utile tuttavia bastava sì e no a sopperire al fitto
della casa. La suinicoltura celebrava così la sua belle epoque. Animali più prolifici non
potevano che innescare un boom "demografico" senza precedenti. Le statistiche dell'epoca registrano in Italia un raddoppio dei capi tra il 1881 e il 1908. Nel
ravennate, dove il maiale rappresentava il 20 per cento del patrimonio zootecnico, all’inizio del secolo il rapporto suino/ettaro era due volte il valore
nazionale. Secondo il Catasto agrario del 1930, nel ventennio 1910.1930 la provincia di Ravenna registrava una diminuzione del 50 per cento degli ovini e un
incremento del 76 per cento dei maiali - pari a circa 26.000 capi in più - che negli anni Trenta si attestavano attorno alle 60.000 unità, pari al 35 per cento del
patrimonio zootecnico provinciale. Il boom risultava particolarmente accentuato nella pianura interna (in misura
minore nella zona costiera) mentre nella collina, specialmente a Brisighella e a
Riolo Terme, il popolo suino, già assai consistente, restava invece pressoché stazionario. Ma furono proprio i comuni della bassa lughese a registrare la grande
avanzata con una crescita del 140 per cento. Anche a Conselice, dove nel 1929 si contavano circa 1500 maiali, la suinicoltura era decollata all'inizio del secolo se si
pensa che già nel 1914 il patrimonio contava quasi 2000 capi, un dato a cui fa riscontro il gettito della tassa comunale sul bestiame che passava dalle 13.800
lire nel 1904 alle 34.700 nel 1914. L'autoconsumo non era più la destinazione esclusiva del maiale: le fonti dell’epoca
attestano che circa un quarto dei capi veniva infatti smerciato nei fori boari di Bologna e di Lugo. Nell’area padana, gli aumenti salariali e il decollo della
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moderna industria alimentare determinavano infatti una crescente domanda di carne suina, se si pensa che nel 1911 la provincia di Modena deteneva il primato
nazionale del consumo con 16,5 kg pro capite annui. Inoltre, è in questo periodo che si affermavano due diversi modelli di
allevamento. In Emilia la suinicoltura si sviluppava integrandosi con l’industria
casearia, un cui sottoprodotto, il siero di latte in particolare, era destinato all’alimentazione degli animali. La comune origine del prosciutto di Parma e del
formaggio grana nasceva infatti dai casari allevatori di Modena, Reggio e Parma. Negli anni Trenta i caseifici del parmense ingrassavano in media 70-80 maiali
l'anno. Venti anni dopo il numero saliva a 160-170. Per soddisfare la crescente richiesta dei casari, gran parte dei suinetti arrivavano però dalla Romagna dove la
suinicultura, in assenza di caseifici, era incentrata sull’allevamento domestico, molto fiorente nell’alta pianura dove più radicata era la tradizione contadina.
Ed è stata infatti la presenza capillare della mezzadria a fare di Faenza la capitale del maiale romagnolo: oltre la metà dei mezzadri della provincia ravennate
risultavano infatti concentrati nel territorio della città manfreda. Ad accentuare questo primato suinicolo intervennero i nuovi patti colonici di inizio secolo, che
consentirono la possibilità di ingrassare i maiale con l’uso dei pascoli dei fondi, di allevare scrofe anche senza l’autorizzazione del proprietario e di lasciare tutti i
guadagni ricavati ai coloni. Il maiale finiva così per rappresentare il grande coefficiente del miglioramento economico delle campagne.
7. Lavezzola. Una via della carne tra la Romagna e Ferrara Il dinamismo commerciale innescato dalla ferrovia si fece sentire soprattutto a
Lavezzola, aggregata al comune di Conselice dal 1814. Per capire che cosa ha che fare questa località
con la carne è però necessario fare un salto indietro nel tempo. Le origini di questa località (dove oggi ha
sede la Golfera) risalgono al 1443, anno in cui Leonello d’Este concesse il territorio ai Lavezzoli,
marchesi di Ferrara, che avviarono al bonifica del territorio. Sul piccolo feudo di appena mille ettari, che
passò ai Bentivoglio nel XVII secolo, scorreva il fiume
Santerno costeggiato dalla via Bastia, una importante arteria commerciale che dai tempi collegava Ferrara a
Lugo, la capitale della Romagna estense (Romandiola) già allora sede di un fiorente mercato
del bestiame. Questa strada, fatta costruire da Niccolò III nel 1440, attraversava boschi, pascoli,
paludi, e prendeva il nome dalla Bastia dello Zaniolo, una fortezza estense sul Po di Primaro. Già allora era
questa una vera e propria via della carne, se si pensa che la Romagna e il Bolognese fornivano suini in quantità a Ferrara, dove le famose ricette di
Cristoforo Messisbugo (celebre quella della mortadella) trionfavano alla mensa
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della corte estense. All’epoca, la centralità della carne nell’alimentazione corrispondeva, se non altro, al primato dell’esercito nella vita politica: le frequenti
imprese militari obbligavano i principi estensi a sfamare adeguatamente interi contingenti militari. Sulla tavola del soldato il
maiale non era secondo a nessuno: nel
1472, fra le provviste inviate alla Bastia dello Zaniolo, figurano 400 pesi di carne
salata, per lo più insaccati, accanto a derrate di legumi, come i fagioli e la cicerchia.
Se poi dalla cucina militare passiamo a quella monastica, la carne porcina cedeva il
suo primato al pesce e ai pollami (soprattutto oche e tacchini), ma non
scompariva affatto, come ad esempio nel menu seicentesco degli abati di San
Giovanni Evangelista, a San Biagio d’Argenta, dove figurano il salame, il lardo,
la salsiccia, la lonza; delizie suine che sembrano incrinare i sacri dettami dell’antica
Regola benedettina. Da queste parti, è facile immaginare quanto fosse diffuso all’epoca il
maiale in tavola. Ma lo sappiamo per certo
da un turista francese, Roland de la Platierre (erudito e ministro di Luigi XVI), che nel
1776, sostando ad Argenta, annotava nel suo diario di viaggio che “il vino rosso è migliore di quello bianco e oltre alla
carne, solo di maiale, si mangiano unicamente uova e formaggio”. La produzione e il commercio delle carni fiorirono anche grazie agli speciali
privilegi concessi ai Lavezzoli: essi infatti, nel loro feudo potevano importare bestiame e da quello esportarlo senza pagare dazi e gabelle, contribuendo così al
fabbisogno cittadino. Per favorire il popolamento della zona, analoghe franchigie consentirono di aprire nella villa fornaci e beccherie. Annesse a queste ultime,
inoltre, a partire dal Quattrocento, si affermava la civiltà alimentare delle osterie: dislocate lungo la via Bastia, da Lugo al Po di Primaro se ne incontrava una ogni
due chilometri circa. Per molti secoli questa arteria commerciale, postale e militare, funzionava anche
come “autostrada” per le greggi transumanti provenienti dall’alto Appennino
modenese. La presenza dei pastori da settembre ad aprile - e non pochi di loro, col tempo, si trasferirono nelle nostre zone - ha dato significativi apporti alla
gastronomia locale: la carne ovina, in primis il castrato,tipicamente romagnolo (pressoché sconosciuto in Emilia) e poi i formaggi, come ad esempio il pecorino,
la forma “dura” e “passa” da pastore, in vendita nelle pizzicherie lavezzolesi dell’epoca. Lavezzola, porta d’ingresso della Romagna estense, approdava così
all’Ottocento con la sua peculiare vicenda storica. Dopo l’Unità d’Italia, diventava rapidamente una località rinomata per il suo mercato settimanale del bestiame,
per lo più bovino, che doveva la sua fortuna all’antica via della carne e il suo buon nome ad un ceto di mediatori intraprendenti ed affidabili. Nel 1881, allorché la
La mortadella: una ricetta di Cristoforo da Messisbugo. "A fare mortadelle di carne / Prima bisogna pigliare le budelle o bondole di porco, e ben lavate a più lavature senza tirarli il grasso che gli resta, a destrigale con sale farina, e vino, fregale colle mani, e sbattile molto bene, e lavale a più lavature di vino, e poi struccale da detto vino, e ponile in un vaso con libra una di sale, e
mescolale con detto sale, e poi lasciale così per quattro giorni. Poi piglia la carne netta da quelle pellegate, che gli sono per dentro, e accompagna la magra con la grassa si che stia bene a giudicio di chi le vuole fare, e pesta benissimo il tutto dopoi appesale,e per ogni libre venticinque di carne gettali dentro in due, o tre volte, oncie dieci di sale, e onco una di pevere ammacato, e cori quattro di porco, milze sei, levesini quattro e una pennola di figato, ogni cosa di porco, e questo dico per peso di robba che averai con queste quattro sorti insieme, il che serà liquido da sè, e fa u buco nella carne pesta col pugno, e gettali detta compositione dentro, e poi rimescola ogni cosa insieme per spacio d'un, ora spumegiando, e poi aggiungeli un bicchiero di vino nero puro, per peso della prima carne, in più volte sempre spumegiando, e lasciala stare così impastata per spacio di due, o tre giorni che non importa" [Libro novo nel quale si insegna a far d'ogni sorta di vivande, Venezia, 1557, c. 102v].
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piazza del paese non riusciva più a contenere quel gran numero di bestie, il Municipio allestiva un macello pubblico e un nuovo foro boario, che già agli inizi
del nuovo secolo fu però necessario trasferire altrove.
8. Il salume e il villaggio
"I Lardaruoli (...) è questo un mestiere molto utile ed assai comodo nelle
città, perchè nello stesso tempo si può far ricorso a loro per molti
prodotti, chiedendo salami, prosciutti, lingue di bue, strutto, lardo di
porco, formaggio piacentino, rabiole del monferrato, ricotte fresche ,
sardelle, acciughe, caviale, pollami e anche uccelli". (Tommaso Garzoni
da Bagnacavallo, La piazza universale di tutte le professioni del mondo,
1585).
Contadini, boari, agricoltori, fattori, macellai, commercianti, sensali, ufficiali
sanitari, veterinari: varie e innumerevoli erano le figure sociali che ruotavano
attorno al maiale. Sebbene incentrata sull'autoconsumo, nell'Ottocento l’economia suina funzionava anche attraverso numerosi esercizi commerciali e artigianali.
All'epoca, la produzione e la vendita di salumi non erano ancora attività particolarmente specializzate. Beccherie, osterie, locande, pizzicherie, forni,
salsamenterie erano spesso gestite da un medesimo proprietario e accorpate in una unica sede.
Questi esercizi, inoltre, possedevano una connotazione sociale ben precisa: vendere salumi rappresentava una tipica vocazione di quella borghesia rurale, per
lo più liberale e repubblicana, che dopo l’Unità d'Italia troviamo alla guida del Municipio. A Conselice tenevano bottega le famiglie benestanti e influenti del
paese, come Gaudenzio Farné, che fu anche sindaco, e poi i Foresti, i Negri, i Piatesi, gli Olivieri; mentre a Lavezzola va ricordato Daniele Farnè, già titolare
della farmacia. Il nostro viaggio in questi luoghi della salumeria paesana ottocentesca ci porta di
nuovo alla Bastia, sosta obbligata lungo i traffici dal Ferrarese alla Romagna, dove
si attraversava il Reno sopra il vecchio ponte di legno. Zona calda, la Bastia: gendarmi e briganti l'un contro l'altro armati, mulini rapinati, incendi. Per i
seguaci del mitico Stefano Pelloni (alias il Passatore) - oggi emblema di tanti ristoranti romagnoli - valeva il detto nomen omen: ecco allora i vari Falcone,
Fiele, Spaccateste, Matto, Scortichino, Rogna. E in quella nomenclatura non mancavano gli onori al porco se è vero che in una trattoria di Lavezzola fu
arrestato perfino un certo Lonza. Nomi forti, insomma, come i sapori della cucina di Paolo Guasoni, un lavezzolese che nel 1852, gestiva proprio sul Reno un ristoro
con annessi macelleria e forno. La carne suina era la delizia dei pizzicagnoli, ossia venditori di cibi speziati,
“pizzicanti”; artigiani che la trasformavano in insaccati e la vendevano al dettaglio accanto ad altri generi alimentari come il formaggio, il burro, l'olio, il baccalà, le
aringhe, le salacche. A metà Ottocento, nel comune di Conselice si contavano una dozzina di botteghe: 6 a Lavezzola, 2 a San Patrizio, 4 a Conselice. Non poche,
se si considera che in queste piccole borgate rurali abitava appena un terzo della
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popolazione. Restavano aperte dall'alba alle 11 e nelle ultime due ore del giorno, orario che corrispondeva agli estremi della giornata lavorativa. Nel vicino
ferrarese - Argenta, Consadolo, Boccaleone, Ospital Monacale - gli esercenti potevano vendere la carne suina fresca e salata, previa autorizzazione
municipale, anche in piazza su baracche ambulanti allestite in occasione delle
feste patronali. Ciò che oggi sappiamo di quelle botteghe e degli annessi laboratori è in gran parte documentato dalla normativa municipale dell'epoca, che
affidava la vigilanza all'ufficiale sanitario. La beccheria doveva essere ampia e ben
ventilata, con il pavimento di pietra levigata, in leggero declivio e le pareti in
lastre di marmo. Vi si macellavano i maiali acquistati nei mercati locali o
allevati dagli stessi esercenti nei loro poderi. Il ciclo produttivo, benché
artigianale, non era tuttavia strettamente limitato al periodo
invernale. Per tenere fornite le botteghe, infatti, si uccideva l'animale anche in
settembre. Per lo stesso motivo si rendeva necessario conservare la carne
fresca tutto l'anno. Le moderne tecniche
di refrigerazione erano soltanto agli albori - la prima macchina frigorifera ad
aria fu brevettata nel 1851 negli Stati Uniti, nel 1862 quella ad ammoniaca - e
l'unico sistema consisteva nell'immagazzinare il ghiaccio invernale
in speciali costruzioni interrate e buie. Naturalmente, solo le famiglie più
facoltose possedevano questi enormi frigoriferi da cortile (ghiacciaie,
conserve) per i generi alimentari deperibili come la carne, la frutta e la verdura. E non poche macellerie ne possedevano una. Alla fine del secolo, tuttavia, i
municipi allestirono le prime ghiacciaie pubbliche gestite in appalto. A Conselice, una "montagnola della conserva" in piazza Pallavicini è documentata fino agli anni
Quaranta, nella quale macellai e pizzicagnoli potevano depositare le loro carni a
pagamento. Le conserve svolgevano poi una funzione essenziale anche sotto il profilo sanitario. In paese, il principale consumatore di ghiaccio era infatti
l'ospedale che lo impiegava a scopo terapeutico contro le febbri e le emoraggie, due patologie allora endemiche nella bassa pianura. Inoltre, non poca carne delle
conserve, quella magra e cruda, veniva somministrata come ricostituente agli ammalati, o utilizzata per la preparazione del brodo, un alimento ritenuto
terapeutico dalla medicina del tempo. Nel sistema alimentare del villaggio, la ghiacciaia era inserita in una rete di
strutture deputate alla produzione, alla vendita e al consumo che ruotavano attorno alla bottega. In proposito le carte d'archivio ci offrono preziose
Macellerie e pizzicherie nel regolamento di igiene del Comune di Conselice (1896) “ Nello stesso spaccio non si potranno tenere o vendere carni di buona qualità con quelle di bassa macelleria. “Gli spacciatori di carni hanno il dovere di apporre sulle carni, cartelli indicanti la diversa specie di animali macellati che vendono nonché il sesso. “Nella stagione estiva le carni degli spacci saranno coperte da panni nettissimi e saranno tenute in luoghi ben puliti, freschi areati e oscuri, al fine di impedire l’avvicinarsi e il depositarsi su di essi degli insetti. “I macellai e loro inservienti non debbono mostrasi in pubblico con le vesti intrise di sangue o altre materie”. “E’ vietata la vendita ambulante di carni”. “ Nella confezione di carni insaccate non si possono mescolare carni appartenenti a specie diverse d’animali, se tale mesco-lanza non sia stata approvata dall’autorità sanitaria. “L’intestina degli animali adoperati per l’insaccamento delle carni debbono essere sane, convenientemente lavate e disinfet-tate con una soluzione d’acido borico al 3% tenendovele un’ora. “La preparazione dello strutto dovrà farsi in recipienti ben stagnati e ed esclusivamente con grassi di maiali stati dichia-rati atti al consumo, resta quindi proibita qualsiasi mescolanza con altri grassi o con sostanze estranee ancorché non nocive. “La salagione dei lardi e prosciutti si deve fare col cloruro di sodio cristallizzato o con salamoia fresca; la conservazione sarà fatta in luoghi asciutti e ben ventilati. [Fonte: Archivio Storico comunale di Conselice]
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informazioni sulla vendita al dettaglio. Nel 1810, ad esempio, in un tariffario delle pizzicherie lavezzolesi figurano la lonza, la testa, il ginocchio, lo zampetto, lo
strutto, il lardo, la “panzetta” salata, lo spinale di porco, le ossa, le cottiche, la salsiccia fina e il cotechino cotto e crudo. Si tratta prevalentemente di parti crude,
usate nella cucina povera e popolare di un villaggio, già peraltro depauperato
dalle requisizioni di bestiame imposte dal governo napoleonico. Fra le voci in elenco mancavano, infatti, la
mortadella, il prosciutto e il salame, che invece compaiono
qualche decennio più tardi. Ma se immaginiamo di entrare nella
stessa salsamenteria mezzo secolo più tardi, troveremmo un
ben più squisito inventario di anatomia suina. I listini del
1876, ad esempio, offrivano al consumatore ben 35 articoli, in
prevalenza parti crude, compresi i tagli grassi - lardo,
strutto e sugna - mentre fra i salumi figurano la salsiccia
cruda e secca, il salame (anche
cotto), i cotechini, la mortadella, la coppa di testa, lo
zambudello (una specialità ferrarese) e il prosciutto
affettato e con osso. Quest’ultimo era il salume più
costoso: 4,20 lire al kg, davvero una carne d’elite se si pensa che
il salario giornaliero di una risaiola non superava i 60
centesimi, e non bastava nemmeno per acquistare un
chilo di orecchie, il taglio più a buon mercato nei negozi conselicesi (80 centesimi). Inoltre, nelle botteghe di
Lavezzola, maggiormente frequentata da acquirenti forestieri, i prezzi erano assai
più alti che nel resto del comune: il salame cotto, ad esempio, costava 40 centesimi in più rispetto a Conselice, lo strutto 1,75 lire in più, una lira il fegato,
50 centesimi la salsiccia secca.
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9. La fabbrica alimentare di Alfonso Zappi
Fra questi precursori della moderna salumeria, si distingueva Alfonso Zappi, un imprenditore nato a Massa Lombarda nel 1851. Scorrendo le carte dell’archivio
comunale di Conselice ci si imbatte in una figura poliedrica: nel 1878 Zappi figurava come gabellotto (spaccio di generi di monopolio di stato) nell'elenco degli
elettori commerciali ravennati; nel 1894 gestiva il ristorante della stazione ferroviaria di Lavezzola. Pizzicagnolo, macellaio e più tardi appaltatore del dazio
sul consumo per conto del Municipio, verso il 1880 avviò in Lavezzola un opificio di paste alimentari, conserve di pomodoro, insaccati di pura carne suina e speciali
confezioni di salumi in scatola. La ditta utilizzava impianti a vapore e ottenne importanti riconoscimenti: fu premiata nel 1888 all’esposizione emiliana e nel
1891 a quella di Genova. Con la produzione di carne in scatola, il salumificio Zappi operava dunque in una
dimensione più avanzata rispetto all'artigianato tradizionale, e in sintonia con il decollo della salsamenteria industriale nelle città padane. Siamo negli anni in cui
la rivoluzione dei trasporti inaugurava un'economia globale dove anche la
mortadella conobbe un nuovo exploit: Nel 1885 Bologna ne esportava 500.000 scatole: il “nuovo” prodotto era destinato a mercati europei, agli Stati Uniti e ai
paesi a più forte immigrazione italiana. Nei 15 anni successivi la carne suina lavorata registrava un incremento del 200 per cento. Le industrie salumaie
bolognesi parteciparono alle esposizioni universali di Filadelfia nel 1876, di Parigi
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nel 1878, mentre a Vienna, la Lanzarini ricevette nel 1873 la Medaglia Progresso per i salumi in scatola. Nei salumifici bolognesi facevano ingresso per la prima
volta gli impianti a vapore e le macchine utensili: trituratrici, raffinatrici, taglialardelli, insaccatrici, pestatrici. Il salume made in Padania sfidava le lunghe
distanze grazie alla tecnologia dell'inscatolamento (brevettata dal pasticciere
francese Francois Appert nel 1804) che rappresentava, insieme ai primi frigoriferi, la grande invenzione del secolo in fatto di conservazione alimentare: una vera e
propria rivoluzione per l'industria della carne affamata di nuovi e più vasti mercati. Eppure, nonostante le poche e intraprendenti realtà industriali di Bologna
e di Modena, la salumeria padana prosperava anzitutto attraverso una miriade di piccole botteghe artigianali. Basta pensare che in Italia, nel 1911, erano soltanto
3 le ditte con oltre 100 addetti, 44 quelle con oltre 10, mentre la media generale era di appena 4 unità. Il salumificio Zappi si colloca naturalmente in questa
dimensione, nondimeno può essere considerato l'iniziatore dell'industria salumaia locale.
10. I salumi, la fame e la tavola
"Tutto il male per noi sta qui: se c'è la colazione non c'è la cena; se
si rimedia un paio di scarpe, manca la camicia; si arriva a
comprare un sacco di polenta e manca l'olio. Insomma sempre
manca qualche cosa". Così scriveva agli inizi del secolo scorso
Alfredo Panzini in un romanzo dal titolo emblematico I martiri dello
stomaco. Può sembrare paradossale, ma il nostro viaggio
nella salumeria ci porta dritto nel paese della fame. Insomma, nulla
di più lontano dal regno di
cuccagna, tanto caro all'immaginario popolare, dove gli
asini si legano con le salsicce, i tetti sono di prosciutto e le spalle
di maiale circondano i campi di grano. Viene allora da chiedersi
quale ruolo avesse la carne, e in particolare quella suina,
nell'alimentazione dell'epoca. A riguardo, va detto che gli storici concordano sul fatto che nell'Ottocento il
consumo carneo abbia subito una netta riduzione rispetto i secoli precedenti. Nel
La consuetudine di aggiungere carni di asino e di montone negli insaccati suini è stata denunciata con la proverbiale ironia romagnola da Olindo Guerrini nei Sonetti Romagnoli:
"Me a dmand cossa ch'ui sia d'straurdineri Se int'è salam ui'era un tocch d'cavezza Oh bella! Int'è salam e in tla susezza E sumar l'è un artecul neceseri E av poss di me, ch'a so salsamenteri Che incù la piaza la si è tant'avezza Che la cheren e'd' porch i la disprezza S'un ié d'é brecce* e d'l'esan urdineri. Un ann ch'a si insachè piò sumaren Alora tott i dess ch'ai'in miteva E ch'ui faseva schiv i mi cudghen. E fatto sta, burdell, che s'an smiteva D'dei d'la cheren ligetima d'ninen Un paseva l'inveran ch'a faleva
“Mi chiedo che cosa ci sia di straordinario / se nel salame c’era un pezzo di cavezza / Oh, bella Nel salame e nella salsiccia / il somaro è un articolo necessario // E ve lo posso dire io che sono salsamentario / che oggi la piazza ci si è tanto abituata / che la carne di porco la disprezzano / se non c’è del montone e dell’asino
ordinario. // Un anno che insaccai più somarino / allora tutti dissero che non ne mettevo / e che gli facevano schifo i miei cotechini. // E fatto sta, ragazzi, che se non smettevo / di dargli della carne legittima di maiale / non passava l’inverno che fallivo”.
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1897 Lavoit, nel suo celebre manuale di salumeria sosteneva che dove i maiali scarseggiano la miseria abbonda:
Rispetto alla Francia, all'Inghilterra, alla Boemia e all'Ungheria, tra noi si allevano suini in men
vasta scala: onde vediamo verificarsi maggior mortalità nei lavoratori della gleba, in confronto alla
Francia, all'Inghilterra e alla Svizzera. La causa va ricercata per l'appunto in un minore consumo
di carne, ricorrendosi in quella vece all'alimentazione con farinacei, vegetali, granturco:
alimentazione insufficiente al lavoratore, cui accorcia l'esistenza o produce la pellagra, che può
dirsi una specialità delle nostre campagne. [A. Lavoit, Manuale del salumiere e dell’allevatore di
maiale, 1897]
A farne le spese fu in primo luogo la popolazione rurale più povera, afflitta da un
regime alimentare monotono e carente di proteine e vitamine. Il fabbisogno calorico giornaliero era fornito quasi interamente dal mais, attraverso la polenta,
il pane e le focacce di farina gialla. Questa forma di denutrizione generava un grave squilibrio alimentare, dovuto alla carenza di vitamina PP, responsabile della
pellagra. Questa patologia, il cosiddetto “mal della rosa”, era all'epoca piuttosto diffusa nella pianura padana e in particolare nel conselicese, la zona più colpita di
tutta la provincia ravennate. Nella famiglia contadina, comunque, cereali e legumi assicuravano il
sostentamento, seppure a malapena. La carne suina, fatta forse eccezione per il lardo, si mangiava di rado e in misura variabile da zona a zona. A Conselice, ad
esempio, la relazione sull'inchiesta agraria del 1879 non menziona la carne suina
nell'alimentazione del colono, che di solito la vendeva per acquistare sale, olio e vestiti. Nella stessa inchiesta, relativa al Ravennate, la carne porcina – come
quella bovina e ovina - occupa invece un posto ben preciso, seppure limitato, nel regime alimentare contadino:
Il colono ha per base della sua alimentazione farinacei (45% grano e 55% mais) ed i legumi.
Pochissima carne e meno ancora latticini; beve vino e il grano lo consuma sotto forma di pane e di
minestra; col frumentone fa polenta o focaccia e lo mescola al grano nella misura di 1/3 per
panificarlo. Tutto ciò si prepara e si cuoce in casa riesce alimento sostanzioso, benché pesante e
indigesto per chi non vi è avvezzo, anche a motivo del poco lievito e del poco sale che il contadino
vi mette, stante il prezzo esagerato di questa ultima vivanda. Pochissimo uso di riso fa la
campagna. Alla domenica e alle solennità ecclesiastiche il villico pone al fuoco un po’ di carne
bovina, o più spesso di pecora; in tutti gli altri giorni la minestra è d’olio o di lardo, acquosa molto
e che si rende più spessa aggiungendovi pane in quantità. Non v’ha contadino che non mangi
veruna minestra senza pane. All’epoca dei grandi lavori si ciba della carne di maiale, fin
dall’inverno preparata in salami e prosciutti. Ordinariamente i pasti sono tre. Al mattino alle sette
pane e focaccia inzuppati nella bevanda e insieme cipolla, a scalogna o a carne suina; a
mezzogiorno minestra d’olio e per pietanza come al mattino; o minestra in brodo e carne per
comparsa; in estate non infrequente una (….) analoga alla colazione, alla quale somiglia la cena,
se pure non la fa variare un po’ l’insalata. [Guglielmo Barberi, Delle condizioni economico-rurali
del circondario ravennate, 1880]
La relativa scarsità di maiali a Conselice era la spia evidente di una endemica
penuria alimentare. Per i martiri dello stomaco, il vero salvatore della tavola era dunque il ranocchio, ruota di scorta alimentare e riserva proteica peraltro
abbondante nelle vaste paludi del territorio. Come i più anziani ricordano, ancora negli anni Trenta bastava lasciare una padella in piazza per riempirla di ranocchi.
In questo regno di emergenze alimentari, nei mesi invernali anche il lardo faceva
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la sua parte nella minestra di legumi che le cucine economiche allestite dal municipio servivano ai braccianti rimasti senza lavoro.
Non vi è dubbio allora che il consumo di carne suina fosse indice di un relativo benessere. E' dopotutto al desco della piccola borghesia rurale e cittadina che si
riferisce l'inchiesta sanitaria del 1885:
E’ molto usata la carne fresca, cioè carne di bue, di vitello, di castrato, di pecora, di maiale, di
pollame, galline, pitti, capponi, anitre e di uccelli acquatici. Di carni salate si consumano solo
quelle dei maiali preparate dai pizzicagnoli, e di pesce, il baccalà, le aringhe, le salacche e le
anguille. [Archivio storico di Conselice, Questionario per l’inchiesta sulle condizioni igienico-
saniatrie dei comuni del Regno, Anno 1885]
Sulla tavola dell'artigiano e del professionista, infatti, gli insaccati erano cibo quotidiano. In Romagna, pane, vino e salumi a colazione rappresentavano un
pasto nutriente per l'artigiano che doveva affrontare una faticosa giornata di lavoro, una consuetudine alimentare che rivive nei versi di Olindo Guerrini:
E falignam e' dess: me am elz al sett
Che int'l'alzem icsè prest um ved la fam
E am bev un mezz d'tarbian cun du panett
Cun d'è parsott, d'la copa e d'è salam1.
I salumi e ancor più la carne bovina assumevano in qualche misura un funzione di status-symbol. La coppa, il salame e il prosciutto che gli agricoltori offrivano ai
braccianti come salario in natura, durante la falciatura e la trebbiatura, oltre che un necessario supporto alimentare alla fatica di quei lavori, nondimeno
rappresentavano anche una occasione per ostentare il proprio rango sociale. Medici, possidenti, funzionari, commercianti, artigiani: i protagonisti della vita
pubblica, per lo più liberali e repubblicani, inauguravano quell'alleanza di ferro fra gastronomia e politica che tanta fortuna ebbe poi nel Novecento. Il maiale non
mancava nel banchetto pubblico a
pagamento, con l'oratore di turno applaudito dai commensali, durante
i festeggiamenti degli anniversari risorgimentali e i comizi elettorali.
Alle tradizionali ricorrenze ecclesiastiche, che limitavano il
consumo carneo (sostituito con il pesce) più tardi si affiancava un
calendario laico, sempre più fitto, (nel 1890 esordiva il primo maggio,
e poi altre feste proletarie) dove la carne diveniva il perno di una
sociabilità tutta mondana, una cultura alimentare bene espressa
nel detto popolare che "l'erba u la
1 Il falegname disse: io mi alzo alle sette / che nell’alzarmi così presto mi vede la fame / e mi
bevo un mezzo di trebbiano con due panetti / con del prosciutto, della coppa e del salame. [Olindo
Guerrini, Sonetti Romagnoli]
Visita ad una pizzicheria di Ravenna. "Ogni anno sotto le feste pasquali è consuetudine dei negozianti di esporre ciò che di meglio anno e anche in questi giorni ammirammo parecchi negozi
che meritano una parola sincera di elogio. Molti i negozi specialmente di macelleria e pizzicheria ove fra verdure e fiori saltavan fuori tutte le produzioni bovine e suine che in questi giorni di Pasqua tutti, e ricchi e poveri consumano. Gli agnelli, le innocenti bestiole delle quali si fa una vera ecatombe nel giorno della resurrezione del Nazzareno, sgozzati e sanguinosi offrono al pubblico la vista delle loro tenere carni. Nei negozi di pizzicagnolo i pingui prosciutti, le untuose forme di cacio lagrimoso, i salami suscitano desideri gastronomici e i negozianti fanno a gara per esporre i prodotti più scelti e più belli. E qui a Ravenna la pizzicheria Motta erige sulla entrata della sua bella bottega due colonne di parmiggiano, un nuvolo di prosciutti, di salami, tutta robba bella e buona che invita a compra re. Il signor Donati in via Cavour, per la pasqua ha ornato il soffitto della sua elegante bottega con dei salami ..." [Cronaca. In giro per la città, in "Il Ravennate. Corriere di Romagna", 17 aprile 1892]
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ja da magnè al bes-ci".Seppur temporaneamente, in questi rituali collettivi il cibo si emancipava dalla pura e semplice necessità, per acquisire una dimensione
conviviale e di festa. Ma fu il maiale, prima e più del vitello, a rompere gli steccati sociali nella lunga marcia dalla scarsità all'abbondanza che prende avvio all'inizio
del nuovo secolo, quando i salumi divennero sempre più cibi di largo consumo. Gli
storici concordano infatti nel rilevare, in linea di massima, un certo miglioramento del regime alimentare in epoca giolittiana, legato soprattutto agli aumenti salariali
e alla maggiore produttività in agricoltura. Il boom della suinicoltura contadina in Romagna, che andava di pari passo con la progressiva scomparsa della pellagra,
era dunque la spia di una nuova prosperità, che in qualche modo toccava anche i ceti meno abbienti.
11. L’apoteosi del salame
Pur in una situazione di relativa povertà, la carne suina diviene il simbolo di una democrazia alimentare incipiente. Così, mentre l'era del prosciutto era ancora
lontana, fu il salame casereccio ad acquistare rapidamente una popolarità indiscussa. Succulento, facile da consumare e da trasportare. E perfino da
spedire. Nell’autunno del 1916, un contadino di Conselice così scriveva ai
famigliari dal fronte del Piave: Caro padre, mi fa piacere sentire che il maiale ha avuto quindici maialini e sono contento dell'uva
che mi dite che è molto bella. Vi dirò che il giorno 25 ho ricevuto il pacco, ma era tutto disfatto, la
ciambella era tutta in briciole, i formaggi erano tarlati. Il salame era buono ... non c'era altro che
il salame di buono.
Attraverso questa specialità tutta contadina che arrivava in
trincea intatta nonostante il lungo viaggio, il soldato assaporava anche il calore degli affetti familiari, il conforto
della casa natale da cui la guerra lo strappava forse per sempre. Va poi ricordato che, durante il conflitto, i
contadini sperimentarono un regime alimentare del tutto nuovo: la razione giornaliera dei soldati comprendeva
infatti 300 grammi di carne, un quantitativo impensabile
nella mensa dei rurali. Non mancavano poi la pasta, il riso, e cibi fino ad allora pressoché sconosciuti come lo zucchero
e il cioccolato. Gli insaccati rientravano in quelle nuove abitudini alimentari che si affermavano dopo la guerra,
favorite anche la ripresa economica degli anni Venti. E si trattava di un consumo non più esclusivamente legato al sostentamento
richiesto dalla giornata lavorativa: il salume, peraltro poco presente nei pasti principali (pranzo e cena) non compariva più soltanto nella colazione e nella
merenda del contadino, dell'operaio o dell'artigiano. Il salame, inseparabile dal vino, divenne il protagonista immancabile della convivialità e del tempo libero. Se
fin dall'inizio del secolo rappresentava la merenda preferita dei cacciatori che frequentavano le valli, dopo la guerra esso irrompeva nella festa popolare,
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prendendo parte alla grande tenzone dell’epoca: quella tra Quaresima e Carnevale. A Conselice, il carnevale di San Grugnone, una kermesse di stampo
smaccatamente anticlericale che si teneva volutamente in periodo quaresimale, nasceva nel 1919 come festa itinerante nelle campagne, dove i contadini
offrivano ai reduci di guerra lo squisito affettato e il bicchiere di trebbiano. Il
carnevale, ancora oggi la più popolare manifestazione folcloristica locale, invadeva poi le vie del paese con la tipica sfilata dei carri allegorici per concludersi
a tarda notte in teatro con la Festa del cartoccio (d'è scartòz): l’involucro conteneva il salame che i partecipanti dovevano portare con sé come requisito di
ammissione alla baldoria. Il più saporito dei salumi era anche il più ubiquo. E quale migliore alleato della
bicicletta? Il salame era immancabile nelle merende e nei pranzi al sacco durante le scampagnate e le lunghe gite su due ruote promosse dal dopolavoro negli anni
Trenta. Salame, salsiccia e vino continuavano a rappresentare la trinità gastronomica nel pasto del bracciante agricolo, di solito consumato lungo i fossi o
sotto un albero durante la pause di lavoro. Nella variante ai ferri, troviamo invece il salame crudo in graticola, insieme alla salsiccia e alla lonza presenti nella
gastronomia popolare delle feste politiche del secondo dopoguerra.
12. I salumifici lavezzolesi nel Novecento
L’opificio alimentare di Alfonso Zappi chiuse i battenti probabilmente dopo la
morte del titolare, avvenuta nel 1914. Di essa infatti, almeno allo stato attuale delle ricerche, non si ha più notizia nel panorama della salumeria locale del primo
dopoguerra. I Zappi figurano comunque fra le famiglie più note e influenti a Lavezzola fra le
due guerre. Negli anni Venti, attivi soprattutto nel settore vinicolo con uno stabilimento presso la stazione ferroviaria, li troviamo protagonisti nella vita
cittadina, fra i principali animatori dell’Unione Sportiva Lavezzolese. In questo circolo polisportivo iniziò la carriera Primo Ghini, un corridore lavezzolese che
partecipò al Giro d’Italia. Sulla pista ciclistica costruita a Lavezzola nel 1928, grazie anche al contributo della famiglia Zappi, gareggiarono campioni del pedale
come Binda, Guerra, Coppi e Girardengo. Ma ciò che qui importa sottolineare è
che i salumi trovarono nel ciclismo un nuovo veicolo promozionale. Salami, coppe e mortadelle diventavano simboli di vigoria fisica, tanto da figurare fra i premi in
palio per i vincitori di importanti gare ciclistiche organizzate dai lavezzolesi, come il Giro del Santerno e il Giro delle province romagnole.
Nel 1930, Antonio Zappi operava ancora nel settore delle carni con una macelleria ovina e bovina. Una beccheria di sola carne ovina era invece condotta da Angelo e
Valerio Leonelli, gestori della trattoria dell’Angelo, rinomata per il castrato ai ferri. Nello stesso periodo aprivano le salsamenterie di Giovanni ed Enrico Martelli, di
Augusto Castrucci e di Aurelio Corelli. La “materia prima” non mancava: allevare il maiale era un a pratica ormai
ampiamente diffusa: lo stesso mulino della Bastia, allora azionato ad olio
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combustibile, conduceva una porcilaia di circa 20 capi con i sottoprodotti della macinazione dei cereali. Il revival della carne giungeva in un periodo di rilevanti
cambiamenti sul piano economico: era in corso la Battaglia del grano, una campagna promossa dal governo per incrementare le rese dei raccolti; le valli del
Buonacquisto venivano finalmente bonificate grazie all’attivazione del Canale
Destra di Reno; il pomodoro, il tabacco e i frutteti irrompevano dell’agricoltura conselicese. Una campagna grande produttrice di bestiame, costituiva una risorsa
chiave per la Romagna, dove il consumo pro capite di carne superava il doppio della media nazionale.
Intanto, nel settore della macelleria suina, a Lavezzola si inserivano nuovi protagonisti: i fratelli Martini, i Ricci e i Rubbi. Questi ultimi, i fratelli Demetrio e
Giannetto, nel 1929 avviarono la Macelleria Artigianale, con sede in via Bastia, vicino alla stazione ferroviaria. Vi lavoravano cinque operai e i prodotti di allora,
tra cui anche la salama da sugo, si vendevano nel ferrarese (Ferrara, Argenta, Portomaggiore) dove il buon nome della ditta è rimasto fino agli anni Settanta.
Durante la seconda guerra, particolarmente devastante nella Bassa Romagna per l’asprezza dei combattimenti, una ecatombe si abbatteva sul patrimonio
zootecnico: nel conselicese andò infatti perduto ben l’80 per cento del bestiame e del pollame. Per qualche tempo la penuria di alimenti proteici portava alla ribalta
una salumeria d’emergenza: salami con dosi massicce di cotica, carni e insaccati ricavati da maiali morti.
A Lavezzola, dove la graticola era una istituzione, braccianti e contadini venuti ad
abitare in paese continuavano ad allevare il maiale in piccoli porcili adiacenti ai bassocomodi. In paese la famiglia Martini era particolarmente attiva in campo
suinicolo. Camillo Martini già da tempo conduceva un allevamento di circa 35 capi. Nel 1960 lo cedette al nipote Luciano, che lo ampliò aggiungendovi una
macelleria e un laboratorio di salumeria. L’esercizio non riuscì tuttavia a decollare. Luciano Martini decise allora di impiantare nel viale della stazione, presso il
vecchio mulino di famiglia, uno stabilimento per la raffinazione dei grassi animali derivati da sotto-prodotti di macellazione. L'opificio ebbe un notevole sviluppo:
l’Unigrà Spa, è oggi una azienda leader nel settore delle margarine in ambito europeo.
Nel dopoguerra anche la Macelleria Artigianale aveva ripreso l’attività. Senonché, essendo la macellazione e la norcineria arti tipicamente maschili, Demetrio Rubbi,
padre di un’unica figlia, rimase senza eredi a cui affidare la ditta. Così, nel 1950, Arnaldo e Giuseppe Martini acquisirono la macelleria che da allora prese il nome
di Salumificio Lavezzolese.
Il laboratorio artigianale trasformava la carne dei maiali, acquistati dai contadini della zona, nel più popolare e semplice degli insaccati: la salsiccia (fresca e secca)
ma produceva anche cotechini, salami e qualche mortadella. I prodotti giungevano sulle tavole attraverso la piccola distribuzione - salumerie, negozi di
generi alimentari, cooperative di consumo - un mercato che non andava oltre le provincia di Ferrara e Ravenna. Ma alla fine di quel decennio, il salumificio
cominciò tuttavia a risentire la concorrenza dei moderni stabilimenti avviati nel lughese e nel faentino.
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13. Dall’artigianato all’industria. Golfera: un nome,
un’impresa (1960-1997)
Frutta e maiali. La storia della salumeria lavezzolese ricominciava con Doriano Golfera, lughese, proveniente da una famiglia di imprenditori agricoli. Il padre,
Aurelio, fattore di una blasonata azienda agricola, la Verni & Rambelli, nel 1950 acquistava un’azienda di San Bernardino che operava nel commercio e nella
lavorazione della frutta. In quegli anni, nella bassa lughese decollava la frutticoltura e nel settore
agroalimentare cominciavano a diffondersi i primi impianti frigoriferi.
Aurelio aveva saputo istaurare un solido rapporto di fiducia con le banche e i coltivatori che conferivano la
frutta al suo magazzino. Favorito anche da tale circostanza, nel 1958 Doriano Golfera decideva di
avviare la sua attività in proprio come mediatore (sinsel). Era questo un mestiere fortemente legato alla
campagna, un mondo allora ancora ricco di uomini,
alberi e animali. Golfera faceva da intermediario a commerci di uva, frutta e bestiame. La sua attività
gravitava attorno al mercato di Lugo, cuore dell’economia romagnola la cui importanza non sfuggiva allo scrittore Guido
Piovene, che proprio in quegli anni, nel suo Viaggio in Italia, ricorda l’emporio lughese come “un mercato tra i più importanti d’Italia (…) che ebbe origine in una
colonia ebraica, e riempie il mercoledì tutte le piazze ed offre ogni specie di merce”.
Anche i suini erano all’ordine del giorno. I poderi lungo il basso corso del Santerno erano ancora
una grande riserva di maiali. I mezzadri possedevano in media uno o due capi, mentre i
coltivatori diretti riuscivano ad allevarne anche una decina, quanti più meno ne partoriva una
scrofa.Nella casa colonica l’arzdora allevava il
maiale nello stalletto con la tradizionale broda preparata con farine di cereali, avanzi di cucina,
scarti di frutta e di barbabietola. L’economia del maiale prosperava in una incessante circolazione fra città e campagna: scrofe
giovani, verri da riproduzione, magroni di 40-50 chili e suinetti affluivano al foro boario di Lugo che li ridistribuiva ai produttori. Attraverso i mediatori, i contadini
acquistavano i lattonzoli da chi ne possedeva in esubero. Ben inserito in questo mercato, Doriano Golfera intravide subito nella produzione di insaccati una
attività particolarmente redditizia, un settore nel quale avviare la propria carriera imprenditoriale.
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Il salumificio Golfera. Nel novembre del 1960, Aurelio Golfera acquistò il Salumificio Lavezzolese, che già da qualche mese Doriano gestiva in locazione. La
nuova proprietà in poco tempo rilanciava l’esercizio recuperando il prestigio della gestione Rubbi. Partecipava all’impresa lo zio paterno, un contadino esperto nella
pcarèja e che ora diventava norcinaio a tempo pieno mentre il nuovo titolare
curava gli acquisti e le vendite. La sua era una professione itinerante che spesso lo portava a visitare i tanti salumifici dell’Emilia Romagna. Così, nel 1964,
l'imprenditore lughese si mise al passo coi tempi e costruì un nuovo stabilimento, più moderno e igienico. Gli
affari andavano intanto a gonfie vele. Il valore delle carni
cresceva tanto da consentirgli di liquidare, un anno dopo, la
quota societaria dello zio che aveva deciso di ritirarsi.
Il comparto suinicolo cominciava intanto a cambiare.
Mentre le campagne romagnole si spopolavano la ditta acquistava i suini vivi dai primi piccoli allevamenti - di 70
ma anche 150 capi - che verso la metà degli anni Sessanta sorgevano un po’ ovunque. A Lavezzola i maiali pronti per la macellazione arrivavano dagli
allevatori di Zattaglia, nelle collina ravennate, e, attraverso mediatori di fiducia,
dai mercati di Lugo, Imola e Bologna. Gli acquisti si concentrarono poi in Emilia, una regione che produceva un quarto dei maiali italiani (quasi 2 milioni di capi nel
1975) e dove gli allevamenti raggiungevano anche i 1500 capi. La materia prima proveniva dalle colline modenesi, da Nonantola, Reggio Emilia, Mantova e anche
da Ravenna, dove i Ferruzzi avevano avviato un moderno allevamento a Porto Fuori. Presso lo stabilimento di via Selice avveniva anche la macellazione, poi
cessata nel 1984. La ditta produceva insaccati tradizionali: salami, salsicce, cotechini ma
soprattutto mortadelle. In quest’ultimo settore, core business dell’azienda, Golfera allargava il giro d’affari anche altrove.
Con un socio acquistò la Industria Salumi Faenza e cominciò a produrre una mortadella popolare e
dal prezzo competitivo mentre lo stabilimento di Lavezzola offriva invece un prodotto di alta
qualità, ben più caro di quello faentino. Golfera
cercava infatti di invertire la rotta rispetto ad un mercato che giocava soprattutto al ribasso: negli
anni Settanta era fra coloro che puntavano vendere a prezzi più elevati prodotti di qualità. E
così riabilitava il pistacchio nella mortadella, che era caduto in disuso dopo la guerra.
Il Salumificio Golfera Doriano (dal 1971) intanto cresceva: a più riprese la proprietà acquistò lotti di terreno per ingrandire lo stabilimento, che venne
adeguato alle normative della Cee. Da laboratorio artigianale l’opificio evolveva in una piccola industria: i 20 addetti nel 1977 salivano a 40 negli anni Novanta. Il
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tempi del salumificio lavezzolese erano ormai lontani. Il giro d’affari si era allargato su scala nazionale. I salumi arrivavano ai piccoli negozi come alle grandi
catene di supermercati. La Golfera aveva clienti anche in Sicilia, in Puglia, in Calabria e in Sardegna.
Sul finire degli anni Ottanta, il salumificio immetteva sul mercato un nuovo
salume, il Golfetta. Ma per ricostruire le vicende che hanno portato a questa innovazione è utile, a questo punto, fare un salto nel tempo e nello spazio. Il
nostro viaggio nella salumeria approda ora a Ferrara.
14. Breve escursione a Ferrara dove
il salume sposa … una tela Chi non gradisce il Porco da tutti reputato sia qual
Asino (Giulio Cesare Croce)
Ferrara è insieme aerea e cupida. Si ha l’impressione di
bere un liquore distillatissimo tra i fumi di una cucina
densa di sughi … famoso pane, lumache di cui i ferraresi
sono ghiotti; salama da sugo, che acquista la virtù di un
emblema. E’ una specie di provolone di carne di porco
insaccata. E qui come in tutta l’Emilia si parla di cibi con
gli stessi accenti dotti, che i maniaci dell’antiquariato
usano quando parlano di oggetti antichi. [Guido Piovene,
Viaggio in Italia, 1957].
Così Guido Piovene, che amava prendere il lettore per la gola, ci restituisce il fascino culinario della città estense. Parole che vanno dritto al palato. Nella
capitale della bicicletta e della pittura metafisica la passione per il salume è antica forse più della cattedrale e del Castello Estense. Qui, sulle rive del Po, un tempo
grande autostrada del sale, la carne suina trionfava con Cristoforo da Messisbugo, cuoco alla corte estense del Cinquecento, con i suoi succulenti inventari di
salcizzoni, zambudelli, frittelle di fegato di porco, tomaselle, cervellate. Non stupisce dunque che il medico modenese Ortensio Lando, dopo un tour godereccio
nell’Italia dell’epoca, esaltasse Ferrara come “unica maestra nel far salami”. Tanta
eccellenza non tardava ad alimentare una vera e propria epopea letteraria dai toni faceti. A Ferrara il maiale godeva di ottima stampa: ecco allora L’eccellenza e il
trionfo del porco di Giulio Cesare Croce (l’autore del celebre Bertoldo e Bertoldino), pubblicato proprio nel 1592 a Ferrara, al quale faceva eco, due secoli
dopo, La Salameide, il poema giocoso di Antonio Frizzi, che rendeva omaggio al più celebre salume ferrarese:
Del fegato di porco a poca carne
misto e col ferro pesto e sminuzzato
un succoso salame usa formare
la mia Ferrara, non altrove usato.
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Se ogni città padana ha il proprio monumento gastronomico, quello dei ferraresi è un insaccato al femminile, l’inimitabile salamina, una pietanza onorata nelle
ricette del celebre La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi. La specialità risale al Quattrocento e i principi d’Este ne fecero una
bandiera culinaria come pure un rimedio afrodisiaco. Ma anche un veicolo
diplomatico se si pensa alle aalame da sugo che i principi inviarono a Lorenzo de Medici, grande estimatore di quelle delizie. Trattata con vino e spezie, questo
salume dal sapore penetrante, si lascia stagionare per un anno. Piatto forte del tradizionale menu di Natale e Capodanno, si consuma dopo una lunga cottura con
l’immancabile contorno di puré di patate. E mentre Piovene scriveva, nel 1957, in
via Garibaldi apriva i battenti La Casa del Formaggio. Il suo titolare, Paolino
Inglesetti ha sempre professato una verità semplice e antica: “I salami sono
dei bambini che devi curare anche di notte”. Da ragazzo seguiva il padre
commerciante per le campagne ferraresi a vendere suinetti ai contadini; a chi non
poteva pagare i busgatin, chiedeva in cambio qualche tacchino e talvolta
cedeva due porcellini con l’impegno a
restituirne uno, una volta adulto. A 14 anni il suo primo impiego come garzone
in una salumeria. Era allora consuetudine che il cliente non vedesse
il bottegaio mentre gli affettava il salume: così finiva per acquistare anche una fetta scadente, quella tagliata per prima, il cosiddetto fondino e altri piccoli scarti.
Ma al salumiere ferrarese questo sistema non piaceva proprio. La Casa del Formaggio ambiva ad essere un negozio dove tutto si svolgeva alla luce del sole.
Con il salame, la mortadella e il pecorino Inglesetti vendeva così un valore aggiunto: la trasparenza. Via i fondi, i fondelli e le croste; via il banco che
separava venditore e cliente. Al suo posto, contenitori e frigoriferi a muro dove le squisitezze si offrivano in cassetti estraibili, con il cliente a fianco (e non più di
fronte). Insomma, una rivoluzione copernicana in salumeria dove la centralità del cliente si rivelò una strategia di marketing vincente che valse a Inglesetti la
nomea di orefice della mortadella. In pochi anni il negozio saliva al top della
salumeria cittadina e con un notevole volume d’affari. “Facevo pagare molto di più, è vero, ma alla fine riuscivo a vendere il doppio”, ricorda con orgoglio il
salumiere. La Casa del Formaggio vendeva 2000 prosciutti all’anno e tante mega-mortadelle da 140 chili. Ma seduceva soprattutto per le specialità regionali
calabresi, siciliane e sarde. Eppure, anche un negozio di questo calibro doveva stare al passo coi tempi. E
Inglesetti capì che negli anni Settanta il mercato stava cambiando. I consumatori cominciavano a diffidare dei salumi industriali e dei cibi standardizzati. Gli
inconvenienti e le contraddizioni dell’economia industriale alimentavano una diffusa sensibilità ecologica. In un clima di generale riscoperta della tradizione
Il trionfo del porco di Giulio Cesare Croce. “Il Porco è d’animo grande e invitto, e vuole essere più tosto vinto con umiltà e piacevolezza che per altro; e che ciò sia vero si vede che quando uno gli gratta si getta a terra, come morto, e se li caverebbe in tal dolcezza le budelle, il fegato, il core e ciò ch’egli ha nel corpo. (…) Dico così che il Porco e l’huomo insieme fanno un perpetuo moto, cosa che non credo si trovi in alcun altra cosa, perché il Porco si serve di quello che ha l’uomo e l’huomo mangia il porco, a tale che entrando e uscendo l’uno dell’altro causano un moto perpetuo (…) Hora diamo principio al quel trionfo grandissimo, a quella festa sublime, a quelle dignità, a quei premi, a quelle ghirlande, a quelli honori, a quelli aplausi, a quelle allegrezze, a quelle giocondità che merita questo
mobilissimo, gentilissimo, grassissimo, tondissimo, pesissimo, opulentissimo, mangiatissimo, animale da tutti tanto laudato, commendato, bramato, desiato, cercato, onorato riverito e essaltato”. [Giulio Cesare Croce, L'eccellenza e il trionfo del porco, Bologna, Pendragon, 2006, p. 63]
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contadina si diffondeva la voglia di sapori antichi, di cibi sani e naturali. Questa nostalgia per tradizione dilagava negli anni Ottanta con il boom delle sagre: in
Emilia Romagna, più che altrove, ancora oggi non c’è paese dove non si festeggia un cibo o una specialità legata al territorio. Nel frattempo si riscoprivano le razze
suine autoctone, come ad esempio la mora romagnola a cui Brisighella oggi
dedica una sagra. Per produrre salumi caserecci il salumiere ferrarese allestiva una norcineria in un
vecchio casale a Guarda Veneta in provincia di Rovigo, con caratteristiche idonee alla stagionatura naturale. Qui selezionava artigianalmente la carne per rifornire il
suo negozio sperimentando anche qualche nuovo prodotto che vendeva anche ad altri negozianti.
Al 1983 risale la sua collaborazione con la King Prosciutti di San Daniele del Friuli, una società di cui era stato cliente. Il suo lavoro consisteva nell’addestrare
gli addetti dei supermercati svizzeri, francesi e tedeschi alle tecniche di disossamento. L’operazione andava infatti eseguita quando il prosciutto giungeva
a destinazione, affinché mantenesse intatto il sapore tipico. La coscia suina salata e stagionata rispondeva facilmente alle esigenze dietetiche
e agli stili alimentari di vasti strati di consumatori. I produttori, dal canto loro, erano alla continua ricerca di prodotti nuovi. La competizione spingeva tutti a
cercare il prodotto che nessun altro aveva. Così, girando per l’Europa, il salumiere ferrarese concepiva l’idea del prosciutto
insaccato e disossato: nel marzo del 1984, l’Upica di Ferrara rilasciò a Paolino
Inglesetti il brevetto industriale dell’involucro di tela, poi presentato all'Expo di Milano. Si trattava di una confezione che rispettava tutte le garanzie igieniche e
che permetteva di insaccare 5 chili di salume senza usare cinque budella. Il brevetto così traccia il profilo di questa innovazione alimentare:
E' inoltre evidente come , l'estetica del salume e la sua migliore o peggiore presentazione
all'occhio del cliente, possa influire non poco sul suo successo di vendita. Il modello ornamentale
che qui si vuole descrivere è relativo a un insaccato a forma di prosciutto. Nessuna ha, fino ad
ora, pensato di sfruttare la forma classica del prosciutto per farne un insaccato. Esso potrà essere
fatto con le carni di ritaglio della lavorazione del prosciutto stesso o, al limite, anche con altri tipi
di carne. Rappresenta comunque indubbiamente un fatto nuovo immettere sul mercato un
insaccato a forma tipica di prosciutto e dal sapore che potrà ricordare o meno quello del
prosciutto. L'esecuzione di questo salume è resa possibile anche dal fatto di adoperare per
l'insaccatura una tela, sottile ma robusta, cucita su un fianco e dotata di un foro nella parte più
sottile della sagoma, ove infilare la carne tritata ed opportunamente condita. Questa tela,
sagomata nella desiderata forma di prosciutto, permette anche di evitare la legatura dell'insaccato
e la foratura per la traspirazione, poiché per sua natura, è robusta e permette lo scambio di aria
tra l'esterno e la carne insaccata.
A chi affidare l’invenzione? Fra i vari salumifici interpellati, la Golfera coglieva
subito l’occasione e prendeva in affitto il brevetto, a percentuale sul fatturato (royalty sulla produzione). E il contratto con la ditta lavezzolesi premia, col
tempo, l’inventiva del salumiere ferrarese
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15. Golfetta: come nasce un nuovo salume
Per trasformare l’idea in una vera e propria
realtà commerciale, determinate è stato il ruolo di Pier Mario Golfera, figlio di Doriano,
entrato in azienda nel 1988 dopo un periodo di formazione all’Ipsoa di Milano,
città nella quale il giovane imprenditore aveva stretto importanti relazioni d’affari.
Pier Mario Golfera portava nella ditta un rinnovato spirito imprenditoriale. Prodotto,
promozione, punto vendita, prezzo: le quattro “P” del marketing diventavano i
pilastri della nuova filosofia aziendale. Per battezzare il nuovo salume incaricava una
agenzia pubblicitaria milanese: la scelta cadeva su Golfetta, un termine orecchiabile,
sintesi fra “Golfera” e “fetta”. Con questo
nome entrava nella salumeria italiana un prodotto genuino, fatto con rifilature di
prosciutto fresco e di qualità. Il successo del Golfetta dopo il lancio attraverso la
grande distribuzione si consolidò in poco tempo grazie ad un prezioso riconoscimento. Nel 1990, ad appena un anno dal
lancio, il baby salume conquistò l’Oscar per l’innovazione e la creatività a Cibus 90, la vetrina più prestigiosa del made in Italy alimentare. E non è secondario
sottolineare che questa festa mondiale del gusto si teneva a Parma, terrasanta del prosciutto. Nel 1993, attraverso un contratto con Publitalia, il Golfetta
approdò anche alla Rai, con il suo primo spot pubblicitario. Con questo nuovo salume la ditta lavezzolese si affermava sul mercato italiano
ponendo le basi di un successo che dura ancora oggi. In Italia molti hanno cercato di imitarlo, tanto che la ditta ha dovuto intentare non poche cause legali
per impedire ad altri salumifici di continuare a produrlo.
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Nel frattempo, la sede in via Selice si rivelava inidonea all’espansione dell’azienda. Nel 1993 la ditta, denominata Golfera Lavezzola Spa, progettò
l’ampliamento e il trasferimento del salumificio. Acquistava dal comune di Conselice un’area di 20.000 metri situata lungo la Statale Adriatica, che il piano
regolatore aveva destinato ad area industriale. Nel 1989 la ditta produceva 5 quintali di Golfetta alla settimana; nel 1995 salivano a 150.
Nel 1993, purtroppo, l’improvvisa scomparsa di Pier Mario Golfera, che di fatto reggeva le sorti dell’impresa, fu una perdita irreparabile tanto da indurre il
fondatore dell’azienda a lasciare l’attività. Si arrivava così al 1997, anno in cui il salumificio, pur mantenendo il nome d’origine, passava alla RN di Zavaglia Alvaro
& C. S.a.s. Ma qui comincia un’altra storia. Prossima fermata: Rimini.
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16. Rimini, Carpegna, Lavezzola. Alvaro Zavaglia: storia di
un imprenditore (1932-1997)
Negli anni Trenta, periodo a cui risalgono i
ricordi di Alvaro Zavaglia, benché il turismo di massa fosse ancora lontano, Rimini
godeva già la fama di rinomata località balneare. Accanto alle celebri vestigia del
passato – il Ponte di Tiberio, l’Arco di Augusto, il Tempio Malatestiano - anche
l’entroterra riminese già offriva quelle attrattive che oggi compaiono nulle guide
turistiche: il Rubicone di Giulio Cesare, la rocca di San Leo, San Marino, la San Mauro
di Giovanni Pascoli, la Gradara di Paolo e Francesca, il borgo medievale di Verucchio. La storia d’Italia è passata anche da qui, nell’estremo limite della
Romagna dove la piada e i cassoni regnano incontrastati. Terra di transizioni
gastronomiche, il riminese: fra il mare e la collina, fra la Romagna e le Marche, fra la Padania e l’Italia centrale. Nel raggio di pochi chilometri si trovano le più
raffinate specialità del pesce adriatico e il paradiso culinario del Montefeltro. In un territorio dai mille volti e sapori anche la salumeria vanta due sicure eccellenze: il
prosciutto di Carpegna e quello di San Leo. Da queste parti la carne suina ha trovato espressione anche sul piano letterario e
pittorico. La porchetta, ad esempio, è stata onorata due secoli fa proprio dall’erudito riminese Luigi Nardi nel suo celebre Porcus Troianus, un tratattello
dedicato alle nozze di una nobile famiglia dove il maiale farcito rappresenta un auspicio di fecondità, e in cui l’autore attribuisce l’origine della porchetta ai Galli
un tempo insediati nella valle del Rubicone. Prima del Nardi, un’altro artista di Rimini, il pittore Nicola Levoli, aveva consacrato il prosciutto nelle sue squisite
nature morte. E, last but not least, Federico Fellini. La prosa magica di Tonino Guerra ci svela la passione del grande regista per la mortadella:
Pane fresco e mortadella era un incontro della mattina tra i più strepitosi. Illuminati dalla
mortadella un giorno io e Fellini ci troviamo nel caffè Canova di Piazza del Popolo a Roma e lui
vedendo le pignatelle rotonde del pane romano con la mortadella non poté resistere. Però dovette
fare i conti con il suo terrore di ingrassare, anche perché avevamo già fatto colazione. Allora
spacca la pignatella per darne una metà anche a me ma un rettangolino di grasso gli si appiccica
sulla schiena. Era l’unico uomo che poteva ingrassare anche dietro. [Tonino Guerra, in Graziano
Pozzetto, La cucina del Montefeltro, 1998].
L’infanzia di Alvaro Zavaglia, nato a Coriano di Rimini nel 1932, è stata un viaggio
proprio attraverso questo pezzo di Italia contadina. Imprenditore della moderna salumeria, egli si ritiene a buon diritto figlio d’arte. Il nonno e il padre erano
commercianti di vino e frutta che nel periodo invernale, quando veniva meno la consueta attività, si dedicavano alla norcineria contadina nelle campagne
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dell’entroterra riminese. Alvaro si aggregava spesso e con grande curiosità a quei tour da una famiglia all’altra.
Come la vendemmia e la trebbiatura, l’uccisione del baghén tra dicembre e
febbraio, da Sant’Andrea a
Sant'Antonio, costituiva un evento clou nel calendario rurale. La matànza era
una festa, un rito collettivo secolare al quale partecipavano i parenti, e anche i
vicini poveri ai quali si donava pur sempre qualcosa, perché il maiale c’era
chi l’aveva e chi no. Le case dei mezzadri (nelle stalle l’immancabile
quadro di Sant’Antonio con il maiale accanto) si trasformavano in piccoli salumifici che assicuravano alla famiglia il sostentamento per un anno. La letteratura
popolare riminese parla chiaro a riguardo:
Chi maza e’ baghen
l’inverni i’l pasa ben;
chi n’è po’ mazè
tott l’invern a tribulè;
Un quert ad baghen
un sach ad farena
par st’an a n’murema ad fema 2.
Alvaro Zavaglia ricorda molto bene quei tempi, quando il valore del maiale consisteva nella sua pesantezza. Erano allora ancora diffusi gli incroci fra le razze
suine locali e il capitale alimentare del maiale era costituito dal lardo: non a caso
in Romagna il norcinaio era detto appunto lardaròl. A riguardo Vittorio Tonelli in La festa del maiale grasso in Romagna ha riportato una eloquente testimonianza:
durante la macellazione davanti al maiale appeso si stava tutti col naso all’insù come allo
scoprimento di una lapide: la verità era svelata solo quando il grosso e lento coltello giungeva alla
cotica dorsale. Allora tutti a misurare lo spessore del lardo: chi con uno stecco, chi con le dita di
una mano chi con il metro della sarta. Se non c’erano almeno 10 centimetri di grasso si diceva che
era stato ucciso un modesto baganot e la notizia volava in tempo reale.
Il lardo veniva salato e stagionato su assi di legno nelle cantine buie e fresche.
Per non rimanerne sprovvisti si dava volentieri in cambio perfino il prosciutto. Accanto ai cereali e ai legumi, ai tagli grassi del maiale (lo strutto, la pancetta, la
sugna e i grascioli), il lardo era la colonna portante dell’alimentazione contadina, una pietanza e un condimento che fornivano il necessario apporto calorico alla
faticosa giornata dei rurali.
2 Chi uccide il maiale, l’inverno lo passa bene; chi non lo può ammazzare tutto l’inverno a
tribolare.
Un quarto di maiale, un sacco di farina, per quest’anno non moriamo di fame.
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Con la guerra, la famiglia di Primo Zavaglia dovette sfollare a San Marino. Quando tornò in città la casa era distrutta, mancava da mangiare e da coprirsi. Tutto
ricominciava da capo. Già a 13 anni Alvaro Zavaglia lavorava come barista e cameriere. Prestò servizio anche per gli inglesi presso il Grand Hotel di Rimini che
ospitava una grande cucina militare delle truppe alleate. In sintonia con la
tradizione familiare, nel 1948 iniziò l’attività di subagente per la Incas (Industria Nazionale Carni & Salumi), la ditta bolognese creatrice della prosciuttella, fra le
più importanti del nord-Italia. Collaborava con il rappresentate che vendeva in Romagna, con cui divideva la provvigione, curando le vendite presso i negozi al
dettaglio di Sant’Arcangelo, Riccione, Cattolica e altre località rivierasche. In pochi mesi riùscì a realizzare un buon fatturato e un anno dopo la Incas gli affidò
l’agenzia per le Marche. Nel frattempo metteva a frutto anche il poco tempo libero che gli restava frequentando i corsi di ragioneria alle scuole serali.
La sua professione aveva un nome ben preciso: “agente plurimandatario nel settore alimentare con prevalenza salumi”. Ogni lunedì partiva in treno da Rimini
diretto a Fano, Senigallia e Ancona e restava fuori tutta la settimana. Dalle sette del mattino alle nove di sera, la sua giornata trascorreva fra salumerie e spacci di
generi alimentari. Quei negozi aperti a tutte le ore chiedevano soprattutto mortadella mista, di suino e somaro o di suino e bovino. Al salumificio bolognese,
Alvaro ne faceva vendere molta. Cominciava così guadagnare bene e nel 1950, per agevolarsi nei continui spostamenti, acquistò la sua prima automobile, una
Cinquecento modello balestra corta. In poco tempo consolidava la sua attività di
rappresentante attraverso una rete di subagenti. I notevoli fatturati
permettevano di allargare il giro d'affari: nel 1952, a questa attività
di base affiancò il commercio in proprio nel settore del lardo e dello
strutto, un mercato alimentare ancora assai fiorente in quegli
anni.Nella filiera della carne si affermavano intanto le moderne
tecnologie di refrigerazione che consentivano la macellazione in
ogni periodo dell’anno. Ogni lunedì, acquistava le derrate suine alla borsa merci di Modena, la Wall Street della
zootecnia padana, ma anche a quella di Milano e presso i grandi macelli lombardi:
la Invernizzi, la Rondanini, la Locatelli e la Vismara. La sua era una vita da pendolare: faceva spola fra le città padane e Pesaro dove aveva affittato alcuni
magazzini frigoriferi per conservare il lardo prima dello smercio. In questo settore, Alvaro Zavaglia diventava in poco tempo il principale imprenditore della
regione Marche ma con una rete d’affari che si estendeva alla Toscana, all'Abruzzo, arrivando fino a Napoli dove il lardo paglierino, per il suo sapore
leggermente rancido, era molto usato nella preparazione dei pesti. E il lardo - Zavaglia ne smerciava fino a 4 mila quintali all’anno - ben presto
funzionava anche come moneta che aprì all’imprenditore il business dei prosciutti. Dai grossisti del Montefeltro, con 10 quintali di lardo ne otteneva in cambio 20 di
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prosciutto. Nel volgere di pochi anni, tuttavia, quel rapporto di scambio si invertiva. Alla fine degli anni Sessanta occorrevano due chili di lardo per
acquistarne uno di prosciutto. Troppi. Vi furono facoltosi commercianti che pur di scommettere sul futuro del tradizionale grasso suino, dissiparono ingenti
patrimoni. E c’era invece chi, come lui, capiva che i venti del mercato alimentare
stavano cambiando direzione. Così, nel 1957, sempre sulle borse merci di Milano e di Modena, abbandonava il lardo e cominciava ad acquistare cosce suine fresche
che mandava "a balia" nei prosciuttifici di Modena e Parma. Una volta stagionato vendeva il prodotto finito in Romagna e nelle Marche.
Ben presto veniva anche il tempo dei progetti familiari. Nel 1961
l'imprenditore riminese sposò Graziella Bonvini: dalla loro unione
sono nati Stefano, Emanuela, Andrea e Francesca. Oggi tre di loro lo
affiancano nella conduzione della Golfera Spa di Lavezzola, dove
ricoprono deleghe di rilievo. Intanto, non tardavano a maturare nuovi
progetti imprenditoriali. Nel 1963, insieme ad un industriale calzaturiero
marchigiano, Alvaro Zavaglia acquistò 24 ettari a Marina di Montemarciano, sulla
collina anconetana, da destinare a zona residenziale. L'investimento immobiliare ebbe una forte ricaduta economica sul territorio se si pensa che in quell’area
edificata oggi vi abitano circa duemila persone. Da quel progetto è sorto anche il ristorante Delle Rose, un centro di pubblico interesse con parco, piscina e campi
da tennis. La sua attività continuava tuttavia a svilupparsi prevalentemente nel campo della
salumeria. L’era della coscia suina salata e stagionata, un ciclo della nostra storia alimentare che dura tuttora, cominciava proprio allora. Il 1958 è unanimemente
considerato uno spartiacque nella storia del secondo dopoguerra: anno di esordio del miracolo economico italiano e, al tempo stesso, capolinea della società
contadina. Ma è anche l’anno in cui a Milano apriva i battenti il primo supermercato.
L’esodo dalle campagne valeva per gli uomini come per i maiali. Scompariva
l’autoconsumo. Si affermava
l’agricoltura meccanizzata mentre la zootecnia assumeva connotati di alta
specializzazione. Nel Bel Paese, tutto diventava intensivo con l’avvento
dell’abbondanza. Il prosciutto era fra gli ingredienti di una rivoluzione alimentare
che tra il 1955 e il 1970, a cominciare dai ceti medi e impiegatizi, portava sulle
tavole degli italiani la carne, la frutta, gli ortaggi e i biscotti, mentre il burro e l’olio sostituivano il lardo e lo strutto. Il
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consumo pro capite annuo di carne suina, per circa la metà riferito a salumi (prosciutti e insaccati) passava dai 5 kg del 1930 ai 9 del 1969, ai 13 nel 1973,
fino ai 21 nel 1980, cifra di poco inferiore al consumo di carne bovina. Era la stessa rivoluzione che portava davanti alle tavole anche gli apparecchi
televisivi, vere e proprie quinte colonne dell’industria
alimentare in territorio domestico. Una rivoluzione all’insegna del freddo, peraltro: nel 1965 una
famiglia italiana su due possedeva un frigorifero, il nuovo motore immobile dell’economia casalinga che
spodestava il focolare. Il prosciutto moderno è parte di questa storia. Le
macchine affettatrici, già affermatesi negli anni Venti, ne hanno rivoluzionato le modalità di
consumo, sempre più pratico e immediato. Ma la sua produzione scaturiva in primo luogo da una vera e propria metamorfosi del
maiale. Nella suinicoltura italiana, il variopinto universo delle specie autoctone cedeva il passo al monolitismo della razza nordeuropea, il federalismo suino del
Bel paese soccombeva al nuovo e squisito autocrate di nome Large White, una linea genetica con meno grassi e più carne, meno dorso e cosce più sviluppate.
L’industria alimentare tendeva tuttavia a delocalizzare i prodotti, ad allentare cioè il loro rapporto con il territorio. Ma non tutti gli imprenditori la pensavano allo
stesso modo. Per Alvaro Zavaglia, che
conosceva bene le vocazioni alimentari del territorio, la salumeria non poteva
prescindere dalla tradizione. Maturava così una svolta nella carriera
dell’imprenditore, che nel 1970 decideva di investire nella produzione di prosciutti. La
località prescelta fu Carpegna, un comune di 1500 abitanti, in provincia di Pesaro-
Urbino nel cuore del Parco Naturale del Sasso Simone. Siamo nel piccolo regno di una razza suina locale, il Brado delle
Terre del Montefeltro. In questa zona ricca di querceti, l’allevamento suino en plein air e la produzione
di prosciutti risalgono all’epoca romana, come attestano importanti scoperte archeologiche. Quella produzione doveva poi essere davvero fiorente nel
medioevo se si pensa che, già nel Quattrocento, i conti di Carpegna godevano
diritti sul sale di Cervia. E’ questa secolare norcineria, radicata nell’ambiente e nella cultura di una comunità
appenninica, che Alvaro Zavaglia ha trasformato in una industria rispettosa
delle tecniche tradizionali. Nel 1970 l’imprenditore fu tra i soci fondatori della
Carpegna Prosciutti Spa, dalle cui sale di stagionatura, a 750 metri sul livello del
mare, escono due capolavori delle mille Italie gastronomiche: il Ghianda di
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Carpegna, dal sapore robusto, e il prosciutto di San Leo, dal gusto più dolce e amabile. Per il lancio sul mercato del Prosciutto di Carpegna fu comunque
determinante la solida rete di rapporti commerciali tessuta in decenni di lavoro come rappresentante, attività che nel 1976, in armonia con le case mandatarie,
Zavaglia cedette subagenti.
Nel 1992, anno decisivo per salumeria italiana, la Comunità europea inaugurava l’era della Denominazione di Origine Protetta (Dop): nel 1994 anche il Carpegna
ottenne l’ambito riconoscimento. Il celebre salume feretrano, regolato da un preciso disciplinare di produzione, conseguiva così la patente di ambasciatore
della gastronomia italiana nel mondo e una solida posizione sul mercato alimentare: la Carpegna Prosciutti Spa è stata tra le prime aziende in Italia ad
esportare cosce suine stagionate negli Stati Uniti e in Giappone. E’ inoltre motivo di orgoglio, il fatto che il riconoscimento
della Dop abbia poi premiato l’impegno e la capacità imprenditoriale in termini di
ricadute durature sul territorio, dando un notevole impulso all'economia di una
piccola comunità montana, che ha assicurato una occupazione per numerose
famiglie. Zavaglia aveva assunto nel frattempo
importanti incarichi: dal 1980 al 1992 è
stato membro della Giunta dell’Associazione degli Industriali di
Pesaro e, nello stesso periodo, Presidente Italiano dei Prosciuttifici presso l’ASS.I.CA
(Associazione Industriali della Carne) per due mandati, durante i quali prese parte,
in qualità di delegato, a vari incontri di Commissioni Nazionali per la ricerca
genetica del suino magro. Nel giugno del 1997 l’imprenditore cedette le proprie
quote azionarie della Carpegna Prosciutti, una società che più tardi passerà alla Brendolan Prosciutti di San Daniele del Friuli. Le occasioni per un nuovo
investimento non mancavano. Una volta esaminate le diverse possibilità, tra l'agosto e il settembre del 1997, Zavaglia acquistava l’intero pacchetto azionario
della Golfera in Lavezzola S.p.a. Il 1° ottobre entrò in possesso della ditta. La
bassa Romagna aveva fame di nuovi investitori e l’evento fece notizia. L'azienda acquistata registrava evidenti segnali di crisi con conseguente perdita di
quote di mercato. Restyling aziendale, nuovo progetto di marketing, rinnovo di staff e standards produttivi: la nuova proprietà procedeva subito al risanamento,
che fu portato a termine in sei mesi. Nella primavera del 1998 non si registravano più perdite e alla fine di quell’anno il bilancio aziendale risultava in attivo. Per la
Golfera e il Golfetta cominciava una nuova stagione.
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17. La Golfera Spa dal 1997 a oggi: dieci anni di successi in
campo alimentare Un anno dopo
l'acquisizione della
Golfera, Alvaro Zavaglia ha così ha
riassunto la sua mission
imprenditoriale, in una intervista rilasciata ad
un periodico locale: Mio nonno e mio padre
hanno svolto attività di
norcini nell’entroterra
riminese. Ora i tempi sono
cambiati e la terza e
quarta gene razione della
nostra famiglia è stata
chiamata ad accettare la sfida ancora in questo lavoro, ma con la cultura di una imprenditoria
moderna. Una cultura che ha radici lontane e che proprio per questo non può prescindere da
strategie che puntano sull’alta qualità del prodotto: nutriente, igienico, sano, naturale.
Per dare spazio al progetto “qualità”, nel 1999, l’impresa ha investito 6 miliardi di vecchie lire per completare l’opificio e trasferire tutti i reparti produttivi in via
dell’Industria. Ad inaugurare la
nuova sede,
durante il Rendez vous Golfera
tenutosi il 25 maggio 2001,
erano presenti il Sindaco di
Conselice, il presidente della
provincia, l'Assessore
regionale e l'On. Gabriele Albonetti.
Il rapido sviluppo dell’azienda ha
reso necessaria,
nel 2003, una ulteriore spesa di 4 milioni di euro destinata a raddoppiare la capacità produttiva dello stabilimento. Sono così entrati in funzione moderni
impianti di lavorazione capaci di rispondere in modo flessibile alle esigenze del mercato globale, come ad esempio il sistema informatico di stagionatura. Questa
e altre innovazioni sono state attuate nel rispetto della tradizione e di tutte le
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esperienze passate in fatto di tecnologia produttiva; ma anche in conformità alle più rigorose normative di igiene e sicurezza come pure agli standard
internazionali. La ditta ha poi attivato un laboratorio di analisi e messo in funzione un moderno reparto di preaffettati in vaschetta e Rotolini.
Una volta entrata a regime, la nuova
Golfera ha aperto l’opificio al pubblico con la manifestazione Apertamente-
Gusto chiaro, promossa dalla Federalimentare nel novembre 2004
e patrocinata dal Comune di Conselice. E’ stata una occasione per
invitare i consumatori a scoprire i segreti della qualità: centinaia di
persone (visite guidate di scolaresche, istituti alberghieri,
associazione cuochi, cittadini) hanno così potuto conoscere dal vivo come
nasce il valore degli alimenti che ogni giorno il salumificio lavezzolese prepara per le nostre tavole.
Il 14 dicembre 2007 è una data da ricordare: a Imola, l’azienda ha festeggiato il suo primo compleanno storico in
occasione della Convention
Commerciale La Nuova Era Golfera 10 anni dopo alla quale hanno preso
parte oltre 60 agenti commerciali giunti da ogni parte d'Italia. Per
l'impresa è stata una occasione per mettere a punto le strategie di
mercato, compreso il lancio del Bresì, l'ultima squisita creatura del marchio
Golfera. Si è guardato al futuro con alle spalle una storia decennale che
ha visto in continua crescita i principali indicatori economici: il
fatturato (quadruplicato), gli investimenti, la diversificazione produttiva, le quote di mercato, la promozione, i punti vendita e l'occupazione.
Oggi lo stabilimento di Lavezzola è un ambiente giovane e dinamico dove 70
dipendenti trasformano la carne suina in un vasto repertorio di squisitezze: il Golfetta, il DolceMagro, la Golfella, mortadelle e salami di ogni specie. Il marchio
Golfera, noto a milioni di persone attraverso canali televisivi di Rai 1 e Canale 5, ha già una presenza capillare sul mercato italiano.
La passione per il salume ha creato prodotti innovativi di alta qualità. Questa filosofia è riuscita con successo a vendere il mangiar bene italiano nel mondo,
dove la nostra salumeria conserva un forte appeal, un richiamo legato ad un territorio e alle sue tradizioni che nell'era della globalizzazione si è rivelato un
vero toccasana per il nostro export. Grandi alleati della pasta, del vino e dei formaggi - cibi simbolo del made in Italy alimentare - i sapori Golfera sono molto
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apprezzati in Francia, Germania, Austria, Svizzera, Belgio e Svezia. Sono arrivati in Giappone e in India. Oggi bussano alle porte degli Stati Uniti.
Con queste considerazioni il nostro viaggio nella storia approda al presente per scoprire, attraverso la norcineria del ventunesimo secolo, dove e come nascono i
nuovi salumi dal sapore antico.
18. Suino? Si, ma pesante e italiano.
Raccontare la Golfera o l’avventura della buona tavola non fa differenza. In ogni
caso, significa offrire un resoconto sulla qualità alimentare alla cui origine c'è sempre una materia prima, vivente e in carne e ossa. E se volete farvi un'idea di
ciò che dalle macellerie arriva ogni giorno al nostro salumificio immaginate un quadrupede con queste caratteristiche: grande taglia, cute bianco-rosacea
ricoperta di setole bianche, struttura corporea compatta, sagoma cilindrica con il tronco profondo e largo, muscolatura abbondante, scheletro e arti robusti, linea
dorso-lombare dritta o appena arcuata, lombi larghi e carnosi, coda attaccata in alto. Questa serie di tratti somatici si può riassumere in tre parole: suino pesante
italiano. La filiera della nostra salumeria comincia da qui, dal maiale "bianco" che
tutti conosciamo, quello di linea genetica anglosassone: Large White, Landrace e loro in croci. Dunque non si tratta di razze autoctone e viene allora spontaneo
chiedersi: perchè suino italiano? Va subito detto che da almeno un secolo questo tipo di suino è di casa nel Bel Paese.
Col tempo è diventato un vero e proprio trofeo della nostra zootecnia che da qualche decennio (il consorzio del suino pesante italiano risale al 1985) ne ha
fatto un maiale su misura per la salumeria pregiata made in Italy. Quella Dop,
s'intende, perchè l’animale, risultato di una lunga storia di incroci agevolati dalla
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elevata prolificità, è stato inventato per produrre le cosce più blasonate del mondo: i prosciutti di Parma e di San Daniele. La tipicità di un prodotto si basa
sulla tipicità della materia prima e la geografia fa la differenza: perchè l'identità del bel paese non sta solo nel tricolore, nella musica di Verdi o nei celebri
monumenti delle nostre città d'arte, ma anche in una variopinta gastronomia,
dove la carne suina stagionata rappresenta una eccellenza unica nel business alimentare globale.
I circa 9 milioni di capi censiti nel 2006 provengono da allevamenti sparsi nell'area padana e in alcune regioni del centro Italia. Le regioni "abilitate" sono 11
ma 7 suini su 10 si trovano in Lombardia e in Emilia Romagna. Più precisamente, la terra santa del maiale è tutta nel quadrilatero fra Mantova (con oltre 2 milioni
di capi) Cremona, Modena e Parma. E non c'è da stupirsi perchè le quattro regine della suinicoltura italiana non a caso sono le province che vantano la più antica
tradizione nel settore. Si tratta di allevamenti in linea generale autosufficienti per le produzioni salumiere su scala nazionale.
Il nostro mammifero trascorre l'intera esistenza in stalle altamente specializzate, con tecnologie di allevamento attente al benessere animale, che dal 1999 la
Comunità europea tutela con un protocollo ad hoc, il trattato di Amsterdam. La ricerca avanzata ha dato vita a vere e proprie porcopoli dotate di strutture ben
coibentate e areate per garantire la giusta temperatura e l'eliminazione dei gas nocivi. Qui gli animali possono muoversi liberamente su pavimenti in materiali
idrorepellenti, termici e antisdrucciolevoli, condizione che favorisce una adeguato
sviluppo della muscolatura. Da qualche decennio si sono affermati sistemi a ciclo chiuso, che coprono tutte le fasi di vita del quadrupede: riproduzione, parto,
allattamento da scrofa, svezzamento, magronaggio, ingrasso, fino al maiale pronto per la macellazione. "Dalla culla alla tomba", ogni stagione della vita ha il
suo reparto ad hoc. Alla fine di questo percorso il nostro suino italiano si conquista anche un altro
titolo di eccellenza: quello di "pesante". E' questa una patente assolutamente indispensabile per muoversi nel circuito della salumeria Dop. Già, perchè non tutti
i maiali hanno la stazza ideale per dare prosciutti, salami e mortadelle. "Italiano" e "pesante" sono infatti legati a doppio filo. Anche da noi, certo, si allevano i
maiali magri, ma è soprattutto nel resto d'Europa che vengono macellati a pesi inferiori al quintale per essere venduti come tagli freschi. Questi capi sono però
inadatti alla produzione di salumi perchè la loro carne, perdendo molta acqua in fase di stagionatura, dà un prodotto troppo secco e salato. La creatura zootecnica
made in Italy è invece "pesante": l'aggettivo va preso alla lettera perchè il suino
viene macellato solo quando raggiunge i 160 chili e l'età di almeno nove mesi dalla marchiatura che generalmente si effettua 20 giorni dopo la nascita. Solo
così, infatti, la carne offre quei requisiti di maturità che fanno sognare il palato di milioni di consumatori. Attraverso la ricerca genetica è stato possibile ridurre i
depositi adiposi della carcassa modificando la proporzione fra parti grasse e parti magre. Questa caratteristica risulta poi ottimale sia per i processi di lavorazione
che per le attese del consumatore poiché non pregiudica affatto la leggerezza del prodotto finale. Nel suino pesante italiano, infatti, le masse muscolari sono ben
sviluppate mentre i grassi di copertura sono passati da 8 a 3 cm, quelli di struttura sono scesi dal 10 al 3 per cento.
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La crescita e l'ingrasso dipendono da un regime alimentare attento al benessere e alla salute animale, equilibrato, vario e ben integrato. La nutrizione, codificata nei
disciplinari dei salumi Dop, obbedisce a precise diete per ogni fase di vita dell'animale. L’alimentazione è vegetariana e basata su un'ampia gamma di
cereali: mais e soia anzitutto e poi orzo, avena, frumento e cruscami. Come da
tradizione, l’apporto proteico viene integrato con i sottoprodotti caseari, come il siero di latte e il latticello, a cui si aggiungono i piselli e altre leguminose, le
patate, le polpe di bietola, le farine di girasole e di sesamo. Questo regime alimentare ha permesso di ottenere carni suine con più grassi insaturi, la cui
percentuale sui grassi totali è passata dal 30 al 65 per cento, mentre il contenuto di colesterolo risulta analogo a quella delle carni bovine e ovine. Esse inoltre
contengono alte percentuali di sali minerali (ferro, zinco, selenio), vitamine (B1, B2, B12) e principi antiossidanti natura li (vitamina E e C), sostante utili sia per la
salute del consumatore, sia per prevenire irrancidimenti durante la lavorazione. L’alimentazione suina ha comunque compiuto un salto di qualità soprattutto dopo
il divieto di somministrazione di proteine derivate da mammiferi (e di antibiotici stimolatori della crescita) a tutti gli animali di allevamento, decretato dalla
Comunità europea nel 2001, per fronteggiare l’emergenza della Bse, la cosiddetta "mucca pazza". A riguardo, poi, va qui sottolineato che, in questi ultimi decenni,
la carne suina non è stata toccata dalle psicosi alimentari che di recente hanno colpito anche il settore avicolo in seguito all’influenza aviaria.
Trascorsi nove mesi, i suini sono pronti per la macellazione, un segmento della
filiera che comprende l'insieme di operazioni che vanno dal giorno precedente all'abbattimento (in modo soft, previo stordimento per evitare quell'inutile stress
che influirebbe negativamente sulla qualità della carne) alla refrigerazione e alla frollatura dei tagli ricavati dalle mezzene. Una volta accertato il loro ottimo stato
di salute, gli animali arrivano al macello con l'indelebile traccia della loro origine, un tatuaggio sulle cosce, e la documentazione “biografica” per ogni capo. Tutto il
ciclo è infatti controllato al punto da consentire, grazie anche ad una efficiente anagrafe suina, la completa tracciabilità del prodotto finale: da un prosciutto si
può risalire all'allevamento, fino alla madre del maiale. Anche le macellerie che riforniscono la Golfera obbediscono ad una precisa geografia: come prescritto nei
disciplinari Dop, esse operano soltanto nelle stesse regioni dove i suini pesanti nascono, crescono e ingrassano.
Il nostro suino si è conquistato una notevole reputazione anche in Europa. La tradizione suinicola del Bel Paese e la moderna cultura zootecnica hanno reso il
principe della cucina padana cittadino a pieno titolo del vecchio continente. E' pur
vero che soffre un po’ la concorrenza dei suini d'oltralpe, più a buon mercato, ma le sue quotazioni sono salite quando la Comunità europea, nel 1992, ha varato il
regolamento che protegge le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche dei prodotti agricoli e alimentari. Da allora "Dop" (Denominazione di origine
protetta) e "Igp" (Indicazione Geografica protetta) sono diventate sigle familiari nel nostro linguaggio gastronomico, che fanno la differenza poiché garantiscono la
qualità e la provenienza di ciò che mangiamo. Per applicare la normativa europea e fare della qualità la regola, l'Italia si è data un sistema di controllo e
certificazione di tutta la filiera suinicola attraverso appositi disciplinari. Nel 1997 i suinicultori, i macellatori e gli industriali della carne, tramite le rispettive
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associazioni, hanno istituito due organi gemelli preposti alla vigilanza sulle Dop: l'Istituto Parma Qualità (Ipq) e l'Istituto Nord-Est Qualità (Ineq). Dal 1997 ad
oggi la Golfera opera con successo in questo circuito di eccellenza agroalimentare.
19. Dove abita la qualità. Lo
stabilimento di Lavezzola
I carichi di carne arrivano su gomma allo
stabilimento di Lavezzola, situato in una zona industriale che dagli anni Novanta rappresenta
un polo trainante per lo sviluppo economico locale. La sede è ben servita dai collegamenti
stradali, in futuro più agevoli se si pensa al progetto per il nuovo tracciato della Statale
Adriatica. Il moderno salumificio di via dell'Industria, ben visibile a chi transita da
Lavezzola in treno, si può raggiungere in
mezz'ora dal porto di Ravenna, dai caselli autostradali di Imola, di Ferrara e di Lugo. Già a distanza lo stabilimento si
presenta al visitatore con i suoi parallelepipedi bianchi in conglomerato cementizio e strutture portanti che ricordano addirittura qualcosa di
commestibile: i pannelli a sandwich. Insaccati, mortadelle e altre delizie nascono in queste enormi scatole leggere. Quando vi arrivate, non avete ancora varcato i
cancelli che la percezione del gusto prelibato si annuncia dall'alto in poche parole: "i nuovi salumi dal sapore antico". Sotto questo slogan ordine e pulizia regnano
nelle aree verdi e nel vasto piazzale che accoglie fornitori, agenti e clienti. Qui, dove soltanto vent’anni fa era aperta campagna, il moderno non ha
cancellato l'antico. Anzi. Vicino allo stabilimento sorge un vecchio casolare contadino che la proprietà sta pensando di restaurare per esporvi i prodotti
dell’azienda, magari con un ristorantino e una sala convegni; tutto questo mantenendo però la qualità della casa colonica. La cittadella del salume si
estende per 38.000 mq: 3230 destinati agli impianti di lavorazione, 5800 a vari
reparti produttivi (stagionatura, celle frigorifere, stoccaggio), 570 agli uffici e i restanti adibiti ad area verde, piazzale e parcheggio. La buona performance
commerciale del marchio Golfera ha reso però necessaria una ulteriore espansione dei principali reparti, attualmente in fase di progettazione.
Negli interni ariosi dello stabilimento, dove, letteralmente, non vola una mosca le pulizie ordinarie impegnano parecchie ore al giorno. Sui pavimenti in resina
epossidica, un materiale che offre le migliori garanzie igieniche e pratiche, il via vai di arelle, giostre, vagonetti e transpallet elettrici scandisce le fasi di una
lavorazione che accoglie tutti i punti di forza della salumeria tradizionale.
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20. Fare salumi. La Golfera al lavoro
Tutti sappiamo quanto una materia prima di qualità sia indispensabile per
ottenere un prodotto eccellente. E' condizione necessaria. Ma non basta. A fare la differenza interviene la trasformazione, che possiamo paragonare a un viaggio più
o meno lungo e complesso dal crudo allo stagionato, in cui interagiscono i fattori materiali e immateriali della produzione: know how, professionalità, esperienza,
tempi, luoghi, tecnologie, organizzazione.
Per i consumatori è senz'altro familiare
una distinzione canonica ereditata dalla tradizione secolare della salumeria
italiana: quella fra il prodotto stagionato ottenuto cioè grazie ai processi fermentativi attivati da microrganismi, e il prodotto cotto, ottenuto attraverso
l'azione termica. Per i produttori questa differenza risulta ancor più decisiva, poiché comporta cicli di lavorazioni indipendenti. Questo vale naturalmente anche
per la Golfera dove le carni scelte di suino pesante italiano arrivano dai fornitori già predisposte a seguire i due percorsi in reparti distinti.
E' infatti la carne fresca ad essere destinata interamente
ai prodotti stagionati. Tagli di cosce, dette anche triti di
prosciutto, pancette scotennate, spalle disossate,
fondelli di lombo e altri tagli
magri (pànera o bardella): ogni settimana se ne lavorano
500 i quintali. Le maestranze, rigorosamente in
impermeabile e cuffia bianchi, effettuano le operazioni
attraverso macchinari in
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acciaio inossidabile. Dopo la triturazione in varie granulometrie e l'amalgama con
le giuste proporzioni di grasso e di magro, si procede alla concia con il sale, gli aromi, le spezie, il vino, gli starter (microrganismi che favoriscono un corretta
stagionatura) e additivi nel rispetto delle vigenti normative sanitarie CE. Entrano poi nell’impasto altre spezie secondo antiche ricette, che variano in base al tipo
di salume o alle richieste dei consumatori. Una volta insaccato - gli involucri vanno dalla tela per il Golfetta a budelli sintetici tipo Naturin per i salami di grossa
taglia fino ai budelli naturali per quelli di pezzatura media e piccola - il salume è destinato all'asciugatura, per poi passare al buio e al silenzio delle celle di
stagionatura. E' la prova del nove. Il momento clou. Nell'impasto carneo si scatena il complesso gioco biochimico affidato agli enzimi e ai germi che regolano
la fermentazione e dove tutto è stato predisposto per inibire l'azione dei
microrganismi indesiderati. Il periodo di "clausura" varia dai 15 agli 80 giorni, in rapporto al diametro del salume. Un sistema di stagionatura computerizzata
regola, secondo una precisa tempistica di “andata e sosta”, la temperatura e l'umidità nelle nuove celle polifunzionali. Il processo avviene in tre fasi:
l'asciugatura (7 giorni), la fase intermedia (7 giorni) e infine la stagionatura vera e propria (15-80 giorni). Il controllo dell’acidità viene effettuato attraverso
periodici esami del Ph. Il risultato finale si può riassumere in quattro parole: gusto, consistenza, colore e “dolcezza”. Così nascono un'ampia gamma di salami
e, con la sola carne di prosciutto, anche il prestigioso Golfetta.
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Ogni sei giorni, poi, gli addetti trasformano 250 quintali di carne refrigerata nel
salume cotto più famoso, la mortadella Igp (e altre), prodotta in varie versioni di cui una decisamente innovativa, il Golfella. Spalla, trippa, guanciali, e triti vari
(questi ultimi assenti nel prodotto Igp) vengono scongelati tramite macinazione,
fino alla temperatura di 0/-2 gradi, operazione che obbedisce ad esigenze sanitarie e tecniche. Si procede poi ad amalgamare il mix di carne e cubetti di
grasso con pepe, sale, antiossidanti e, in alcune mortadelle, il pistacchio. L’impasto contiene anche conservanti che garantiscono il salume dal punto di
vista sanitario.
Dopo l'insaccatura in involucro sintetico, si
passa alla stufatura ad aria secca a 85° C in
sale apposite, con durate che variano in
rapporto alle
dimensioni del salume. Per evitare il
raggrinzimento dell'involucro si
procede ad un graduale
raffreddamento, alternato a docciatura
con acqua fredda, fino a 5°C. Come vuole la
norcineria del secondo millennio, anche
queste ultime fasi sono regolate da un dispositivo automatico computerizzato che, grazie ad attenti controlli, consente una produzione a regola d'arte.
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Una parte della produzione, sia cotta che stagionata, passa alla preaffettatura, operazione che, per ottimizzare la conservazione dell’alimento, avviene in camere
sterili in atmosfera protetta, dette “camere bianche” (in classe 10 e 10.000). L’arte della fetta, in versione seriale e computerizzata, accompagna il prodotto dal
taglio alla confezione in involucri dal design fresco e accattivante - vaschette da
100 grammi e Rotolini da 80 - fino all’imballaggio e alla spedizione. Su richiesta sono inoltre disponibili buste neutre
e in diverse combinazioni di prodotto e di peso. Dalla materia prima al prodotto, fino alla confezione e alla
spedizione, tre imperativi categorici guidano l’intero percorso: sicurezza, igiene, qualità. Gia nella fase che
precede il ciclo produttivo, ad esempio, l'ufficio qualità sottopone la carne e il suo trattamento a vari controlli, oltre
a quello veterinario: la valutazione dei fornitori, l'igiene dei mezzi di trasporto, la rispondenza della merce acquistata a
precisi parametri relativi ai grassi, al ph e alla temperatura. Infine si effettua l'analisi microbiologica, poi ripetuta sul
prodotto finito. Dalla stalla alla tavola, la qualità Golfera e la tracciabilità di filiera dei suoi prodotti sono assicurate da sistemi di certificazione di processo come lo
standard Haccp, ovvero il Sistema di Punti Critici di Controllo (inventato dalla
Nasa nel 1971) recepito dalla legislazione italiana con il DLgs 155/1997, concernente l'autocontrollo igienico; l'Uni En Iso
9001:'00, l’'Ifs (International Food Standard), il Brc (Global Standar Food), sigle pressoché sconosciute ai consumatori e tuttavia garanzie indispensabili per
affermare i prodotti sul mercato, soprattutto quello estero. I prodigi di questa norcineria avanzata made in Lavezzola si lasciano subito
pregustare appena si mette piede alla Golfera, allorché si resta sorpresi davanti
alle fette di insaccati volanti raffigurate nei manifesti pubblicitari. Di fronte a questa curiosa metamorfosi alimentare ci si chiede che cosa sia successo a quei
170 chili di suino pesante per diventare salumi farfalla, tappeti volanti o mortadelle palloncino. Non si tratta di un ardito esperimento di ingegneria
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genetica ma di una lavorazione moderna e innovativa che sa coniugare tradizione e tecnologia. La Golfera non ha tolto niente. Anzi, con inventiva e alta
professionalità ci ha messo tutto del suo: il valore aggiunto della leggerezza.
La rintracciabilità. "La rintracciabilità di filiera è la possibilità di risalire da una singola confezione di prodotto allo stabilimento di produzione e confezionamento, alla materia prima utilizzata, a gli alimenti zootecnici utilizzati in stalla; ossia la capacità di documentare la storia di un prodotto, di seguirne tutti i passi attraverso un sistema di fasi produttive
concatenate, dall'origine delle carni fino alla loro trasformazione in prodotto finito. Il sistema rappresenta una garanzia per il consumatore. La filiera di produzione del Golfetta affettato è dotata di un sistema di rintracciabilità secondo la norma UNI 109 39:01 è in grado di garantire anche i controlli igienico-sanitari del prodotto lungo tutte le fasi di preparazione. Le aziende che partecipano alla Golfera affettato solo selezionate da Golfera e ispezionate periodicamente. La Golfera ha deciso di certificare la "Filiera del Golfetta affettato", sottoponendo il controllo di tutte le fasi ritenute critiche a un ente terzo indipendente e accreditato". [www.Golfera.it].
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21. I prodotti Golfera, ovvero la creatività in salumeria
La scoperta di una nuova pietanza contribuisce alla
felicità del genere umano più della scoperta di una
stella. (Anthelme Brillat-Savarine)
Il gastronauta che approda alla Golfera sa che ci sono mille squisite ragioni per
non rinunciare alla tentazione dei salumi. Questi alimenti, frutto dei ritmi lenti della società contadina, ancora oggi restano cibi popolari e di successo, in sintonia
con i moderni stili alimentari. Sovrani indiscussi della cosiddetta cucina da
frigorifero, sono di semplice e immediata preparazione poiché non richiedono trattamenti culinari e non hanno scarto. Dunque ideali per un pasto vario e
saporito, digeribile e nutriente. Per loro natura si prestano assai bene anche ai pasti più veloci sotto forma di panini o piatti freddi. Vantano poi una spiccata
vocazione alla convivialità e al buon umore. Si abbinano con disinvoltura ad una gran varietà di alimenti: dal classico binomio pane-vino al formaggio, agli svariati
companatici della tradizione padana (piadine, tigelle, crescentine, ecc.), dalle pizze ai piatti creativi degli chef. La pizza napoletana, in particolare, si è rivelata
un veicolo formidabile per i salumi (prosciutto crudo e cotto, salami piccanti, speck).
Il consumo di salumi fra i giovani italiani. I salumi non piacciono soltanto agli adulti, più legati alla tradizione. Una indagine condotta nel 2005 dall'Unione Nazionale Consumatori e dell'Istituto Valorizzazione Salumi Italiani (Ivsi), ha rivelato una sorprendente propensione dei giovani italiani per i salumi Dop. DA questa ricerca è emerso che il 98 % dei giovani fra i 24 e i 34 consuma abitualmente salumi. Il sondaggio ha evidenziato una graduatoria di preferenze che ve de ai primi posti il prosciutto crudo (90%) e cotto (87%); seguono il salame (60%), la bresaola (57%), lo speck (52%), la mortadella (50%). I salumi vengono consumati in pari misura durante i pasti domestici e fuori casa (gite, pic-nic, merende), spesso associati agli aperitivi. Profumo, sapore, stagionatura, praticità, portabilità, senso di appartenenza ad una cultura alimentare sono le caratteristi che più apprezzate. "I giovani considerano i salumi un cibo socializzante, pratico, che racchiude i sapori della tradizione
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Oggi che si è spezzato il tradizionale rapporto tra casa e cibo, si mangia
dappertutto. Ristoranti, pizzerie, fast food, pub: la carne suina stagionata
si consuma ovunque. Gli affettati
sono ospiti fissi e invitanti sul banco degli aperitivi nei bar. Per non parlare
poi delle aziende agrituristiche, dove prosciutto e insaccati, prodotti
artigianalmente, rappresentano un punto d'orgoglio dell'offerta
gastronomica. l successo della nostra norcineria è dovuto anche al fatto che le specialità italiane sono le più tutelate
d'Europa: a tutto il 2007 hanno ottenuto il riconoscimento Dop e Igp ben 28 prodotti di salumeria (altri sono in lista di attesa) che rappresentano il gruppo più
numeroso, pari al 33 per cento del patrimonio dei prodotti carnei protetti dall'Unione europea. E’ a questo mercato che la nostra industria salumaia destina
– sono dati forniti dall’Assica - l'80 per cento dell'export, che nel 2006 ha registrato un incremento del 9 per cento in valore monetario. Negli ultimi
decenni, poi, insieme alla materia prima, la qualità dei salumi è cambiata in modo tale da renderli adatti ai consumatori di ogni età e da offrire i principi nutritivi
necessari a un buono stato di salute. Una carne sempre più igienica ha inoltre
reso possibile prodotti meno salati. Oggi si possono gustare prodotti più digeribili perchè meno e diversamente
grassi, se si considera che il colesterolo ha subito drastiche riduzioni. Vitamine, antiossidanti, omega 3, iodio, hanno poi conferito ai salumi una valenza dietetica
e salutistica. "La nostra filosofia – si legge nel sito internet della Golfera Spa - che si ritrova in
tutti i prodotti, è quella di soddisfare le esigenze dietetiche e nutrizionali espresse dal consumatore, senza penalizzare i gusto, che per i salumi rimane l'attrattiva
fondamentale". Anche la Golfera ha raccolto le sfide dell'industria alimentare post-moderna che l'antropologo alimentare Giovanni Ballarini ha così delineato:
ma pur sempre un cibo trendy". [I salumi italiani incontrano i giovani, Food Meat, dicembre 2005].
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Per un'industria salumiera a cavallo tra
il XX e il XXI secolo, in modo analogo a
quanto avviene per l'industria
alimentare, divengono importanti i
seguenti aspetti: soddisfare tutte le
richieste dei consumatori, non solo di
tipo nutrizionale ma anche
extranutrizionale; fornire ai
consumatori alti livelli di sicurezza;
presentare alimenti che rispondano alle
nuove richieste di un sistema
alimentare sostenibile, soprattutto per
quanto riguarda il bilancio energetico di
tutta la filiera produttiva, l'impatto
ambientale ed il benessere animale;
dare una risposta alle richieste di tipo
sociale e di valori simbolici avanzata da
una parte sempre più vasta di
consumatori; comunicare al
consumatore le caratteristiche del
prodotto, in modo chiaro ed efficiente,
anche attraverso segni che possono trasformarsi in simboli. [Giovanni
Ballarini, Piccola grande storia della
grande salumeria, 2003]
In questo scenario la Golfera ha messo in campo la propria creatività alimentare. Nell’ultimo decennio, sempre attenta alle tendenze dei mercati, l’azienda ha ampliato
notevolmente la gamma dei prodotti, sia nuovi che tradizionali. Coniugare innovazione e tradizione: i due poli della nuova salumeria dal sapore antico,
marciano di pari passo. A prima vista la tradizione può apparire qualcosa di immutabile nel tempo, tramandato uguale a se stesso da una generazione
all'altra. A ben vedere, però, essa non è altro che la somma delle innovazioni che hanno avuto successo. La tradizione ci consegna un patrimonio di ricette,
tecniche, accorgimenti che solo una intelligente lavorazione industriale può mettere al servizio di milioni di consumatori. Del resto, proprio partendo dai tre
prodotti simbolo della tradizione - prosciutto, salame e mortadella - l'azienda ha sviluppato i suoi prodotti innovativi.
La spinta all'innovazione, fortemente sollecitata dalla competizione sui mercati, riguarda sia il miglioramento di un prodotto esistente sia la creazione di un nuovo
prodotto. Per inventare salumi occorre anzitutto la ricerca, un settore dove la
Golfera investe il 2,5-3 per cento del fatturato, una cifra notevole per una industria medio-piccola. L'impresa svolge attività di ricerca sia in ambito interno,
attraverso il laboratorio di analisi sia a livello esterno, tramite collaborazioni con centri universitari e altri istituti. Dal 2004 al 2008, si è avvalsa della consulenza
scientifica del Dipartimento di chimica degli alimenti dell'università di Ferrara e della Stazione Sperimentale di Parma. Si tratta di studi e sperimentazioni che
riguardano il profilo biochimico, medico e dietetico. Anche la salumeria made in Lavezzola segue lo slogan "prevenire con l'alimentazione piuttosto che curare con
i farmaci".
I salumi italiani Dop e Igp. La Denominazione di Origine Protetta (DOP) viene rilasciata in base ad una normativa europea. La produzione delle materie prime e la loro trasformazione fino a prodotto finito devono avere luogo nella regione di cui il prodotto porta il nome. Qualità e caratteristiche del prodotto devono essere essenzialmente o esclusivamente legate all’ambiente geografico del luogo d’origine. L’ambiente geografico comprende fattori naturali (clima, altitudine, suolo, acqua, vegetazione ecc.) e umani (conoscenze tecniche, pratiche consolidate). La produzione deve essere effettuata secondo il disciplinare che prevede controlli esercitati da organismi di tutela. Salumi DOP. Capocollo di Calabria, Coppa piacentina, Culatello di Zibello, Jambon de Bosses (Val d'Aosta), Lard d'Arnad (Val d'Aosta), Pancetta piacentina, Pancetta di Calabria, Prosciutto di Carpegna, Prosciutto di Modena, Prosciutto di Parma, Prosciutto San Daniele, Prosciutto Toscano, Prosciutto Veneto Berico-Euganeo, Salame Brianza, Salamino alla Cacciatora, Salame piacentino, Salame di Varzi, Salsiccia di Calabria, Sopressa vicentina, Sopresata di Calabria. Indicazione di Origine Protetta (IGP): il legame con il luogo d’origine contraddistingue il prodotto ma in misura meno stretta rispetto ai prodotti DOP. Infatti, basta che una sola delle fasi di produzione venga effettuata nella zona delimitata. Le materie prime, ad esempio, possono provenire anche da un’altra regione. Anche in questo caso sono previsti disciplinari di produzione con controlli esercitati da organismi di tutela. I controlli sono esercitati a più livelli: dal medico-veterinario ufficiale dello stabilimento; dal Ministero delle Risorse agricole, dall’ Associazione Industriali delle Carni. Salumi IGP. Bresaola della Valtellina, Lardo di Colonnata, Mortadella Bologna, Prosciutto di Norcia, Salame d'oca di Mortara,
Cotechino di Modena, Zampone di Modena.
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22. La salumeria del futuro compie 20 anni: il Golfetta
Golfetta e Golfera: una perfetta assonanza fra prodotto e produttore. Laureatosi
con l'Oscar in creatività nel 1990 ad appena un anno dal lancio commerciale, il
Golfetta può essere considerato a buon diritto un enfant prodige della salumeria italiana. Vanta, da un lato, due brevetti industriali che ne tutelano l'esclusività per
il tipo di rivestimento, la tela, e l'originalità della forma, quella del prosciutto, anche sotto il profilo tridimensionale; dall'altro, possiede due marchi depositati a
tutela del nome, che rivendicano la paternità della Golfera. Questo capostipite dei nuovi salumi dal sapore antico, ancora oggi resta unico e inconfondibile
nonostante i molti tentativi di imitazione. Eppure anche le cose ottime si possono (e si devono) migliorare. Perchè il successo di un prodotto è qualcosa che si
conquista ogni giorno. Così, Alvaro Zavaglia e i suoi figli lo hanno perfezionato e adattato alle nuove esigenze dei consumatori: ancora oggi il Golfetta resta il
prodotto "bandiera", il core business del marchio aziendale che recita da protagonista nello scenario mutevole del mercato alimentare.
Il nuovo salume racchiude tutta la filosofia alimentare della
Golfera ed è un tipico esempio
di prodotto innovativo nato dalla sintesi fra due prodotti
tradizionali come il salame e il prosciutto. La carne scelta di
suino pesante italiano è la stessa che gustiamo nei
prosciutti Dop di Parma e San Daniele. Una volta macinata,
conciata con sale, pepe, aromi e vino, insaccata in una tela di
cotone, essa viene stagionata per 40 giorni.
Il risultato è un insaccato nutriente, un concentrato di
leggerezza dove la percentuale
di grassi non supera il 12 per cento, un valore molto
contenuto ma sufficiente a dare alla fetta la fragranza e il sapore inconfondibili. Preparato con sale iodato anziché sale da cucina - è nota l'azione preventiva dello
iodio contro le patologie della tiroide – non contiene glutine, garantendo così i consumatori intolleranti a questa sostanza. Qualità e tracciabilità di filiera sono
certificati da Csqua (Centro per la Sicurezza e la Qualità Agroalimentare), un ente terzo indipendente e accreditato. Dieci anni fa la produzione non raggiungeva i
100 quintali alla settimana, oggi se ne producono 450. Per dire quanto sia facile trovare il Golfetta basta una cifra: settantacinquemila,
tanti sono in Italia i punti vendita dove lo si può acquistare, grazie ad una rete
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capillare di agenti. Passeggiando in un supermercato, spesso il Golfetta è il primo salume che si nota, anche da lontano: colpisce con il suo ovale roseo che invita
nel porto squisito del banco salumi, dove la sua originalità si identifica con sicurezza grazie al nome marchiato a fuoco. E’ disponile in varie forme: in tela di
cotone da 3 e da 4 kg, preaffettato in vaschette da 100 e Rotolini da 80 grammi.
che ne mantengono intatto aroma, gusto e consistenza; infine in formato mignon da 300 grammi, pratico da consumare e originale come idea regalo.
Prima ancora che al negozio o al supermercato, i consumatori lo hanno comunque conosciuto attraverso i programmi andati in onda su Rai 1 nel 2007 con spot
pubblicitari condotti da Carlo Conti e Antonella Clerici; e nel febbraio del 2008 su Canale 5 durante il celebre Striscia la
notizia, condotto da Ezio Greggio e Isabelle Hunzincker. E' il salume più esportato della Golfera. Fra i paesi europei il
Golfetta è particolarmente apprezzato dai consumatori svizzeri, francesi e tedeschi, cioè dei paesi dove la salumeria
italiana vanta un prestigio consolidato. Salume da frigorifero e da piatto, il Golfetta di regola va servito e
gustato freddo. E in compagnia. Gli chef lo consigliano sotto forma di spiedini con frutta, in versione carpaccio, arrotolato
in involtini con formaggio morbido o con verza, oppure nel più elaborato timballo di verdure. Ma è gustoso condito anche con olio di oliva e
aceto balsamico di Modena.
23. Il DolceMagro ovvero il
“piacerleggero”.
La salumeria è un mondo in continua
trasformazione. Per questo alla Golfera le tentazioni del palato non finiscono mai. La
notevole performance commerciale del Golfetta non poteva che aprire la strada ad
altre innovazioni. Ecco allora che dallo
stabilimento lavezzolese una nuova delizia si è aggiunta alla mappa dei sapori
italiani. Si chiama DolceMagro, la prima invenzione alimentare della "nuova era Golfera" lanciata nel 1999, una vera sorpresa per i consumatori più sensibili alle
nuove esigenze nutrizionali. Dal principio di leggerezza applicato al suino pesante italiano nasce così un salume dal sapore intenso e al tempo stesso delicato. Per la
sua alta qualità e l'indiscusso valore nutritivo si propone come alimento completo e alternativo ai salumi tradizionali. A volerlo classificare, una volta gustato lo si
direbbe un salame. Ma la differenza salta al palato, perchè questo "piacerleggero" affettato di pura carne suina si rivela un salame molto "sui generis". E' a base di
lombo con aggiunta di altri tagli magri, ma esclusa la spalla e la coscia. Anche le parti grasse, che, va sottolineato, non superano il 14 per cento, sono ricavate
IL GOLFETTA
Tabella nutrizionale (Valori medi per 100 g.).
K.cal: 238
Proteine: 32.
Carboidrati: 0,5.
Grassi: 12%.
Cloruro di sodio: 3,5
g,
Iodio: 0,100 mg.
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dall'area lombare. Ben riconoscibile per la sua forma ovale schiacciata, il DolceMagro presenta una caratteristica granulometria grossa (12-14 mm) e
richiede una stagionatura media, variabile dai 50 ai 60 giorni. Se ne producono 30 quintali alla settimana ed è
disponibile in vaschette e in Rotolini. Il salumificio lo
produce anche in versione piccante e affumicata. Golfetta, DolceMagro e Golfella: un tris di salumi magri che
gustati insieme regalano un’armonia di sapori che il lettore farebbe bene a non perdere. Molto versatile in cucina, il
DolceMagro si presta a vari abbinamenti. Lo chef lo consiglia con spinaci novelli, formaggio caprino e aceto di
lamponi; infilzato in spiedini in compagnia di olive marinate; arrotolato in cannoli con melanzane, mozzarella di bufala e pomodorini;
con fragole, scaglie di parmigiano e aceto balsamico di Modena; sotto forma di tartine, crepes e involtini.
24. Il fascino del prosciutto. Il San Valentino
Pane e prosciutto, panis et perna, erano di casa presso gli antichi romani, tanto
da lasciare tracce perfino nella toponomastica stradale della capitale,
come ad esempio la celebre via Panisperna. Già allora il prosciutto - dal
latino perexuctum (prosciugato) - aveva la sua terra d'elezione nella valle del Po
dove, come attestano gli scavi archeologici, la sua produzione viene
fatta risalire ai Celti e agli Etruschi. E ancora oggi, la maggior parte dei
prosciutti Dop italiani è prodotta nell’area padana (Parma, Modena, il
Friuli e il Veneto). Fino al XIX secolo il
prosciutto si gustava per lo più cucinato, consuetudine legata all’abbondante salatura della carne, dovuta a standards igienici assai inferiori a quella attuali. Il
consumo della fetta cruda è invece recente e risale agli anni Venti allorché nelle salumerie si diffondeva l’uso delle affettatrici.
La fortuna del “crudo” nell'ultimo cinquantennio è legata alla crescente domanda di alimenti digeribili, saporiti e nutrienti. Per rispondere a queste tendenze i
produttori hanno immesso nel mercato prosciutti più magri, con più sostanze antiossidanti (vitamina E) e grassi di tipo insaturo. Ma soprattutto più “dolci”,
poiché la carne, grazie alla sua elevata qualità, può essere conservata e stagionata con un minor contenuto di sale. Oggi, secondo i rapporti annuali
dell'Assica (Associazione industriali delle carni), i prosciutti, crudi e cotti, coprono
IL DOLCEMAGRO
Tabella nutrizionale
(Valori medi per 100
g.)
K.cal: 233.
Proteine: 27
Carboidrati: 0,5.
Grassi: 14.
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circa la metà della produzione nazionale di salumi (48 per cento). Il prosciutto crudo resta comunque il salume italiano più esportato, soprattutto in Francia,
Germania, Austria e Stati Uniti. La coscia suina stagionata è da sempre l'emblema commerciale della famiglia
Zavaglia, la cui storia imprenditoriale è legata al Prosciutto di Carpegna Dop. Dal
1997 la Golfera Spa ha pertanto sviluppato l'attività produttiva e commerciale anche nel settore dei prosciutti, un mercato nel quale l’imprenditore riminese
opera fin dal dopoguerra. Il più pregiato e stagionato fra i salumi arriva allo stabilimento e poi sulle nostre tavole dopo una moderna e accurata lavorazione.
Fra i sapori del marchio aziendale, accanto al Golfetta e al Dolcemagro, un posto di rilievo spetta al San Valentino, un “amore di prosciutto” ottenuto da una ricetta
di famiglia. Il salumificio di Lavezzola acquista le cosce fresche dai macelli
del circuito Dop (Parma e San Daniele) per poi stagionarle “a balia”
in un prosciuttificio abruzzese della valle del Sangro, a 630 msl. Di gusto
dolce e lavorato con l'artigianalità di un tempo, il San Valentino viene
disossato da fresco prima della stagionatura (12-14 mesi). Oltre a
questa specialità, l’azienda offre altri
prodotti ottenuti “a balia”: il Delizia (un Parma firmato Golfera) e il Cuor
di Fesa, un prosciutto dolce e affumicato.
L’azienda è attiva anche nel settore commerciale. In base a capitolati che regolano i rapporti con la casa produttrice,
la Golfera acquista e vende prosciutti di origine estera come il Super Mec e il Fior di Crudo. Presente anche sul mercato del prosciutto cotto, il salume più
consumato in Italia, la Golfera ne commercia quattro tipi, senza polifosfati né fonti di glutine: il Gardenia, dolce e delicato; il Rosmarì, con rosmarino, spezie ed
erbe aromatiche; il Praga e il Bracerì, un prodotto speziato e arrostito alla griglia. Pancette, coppe e bresaole completano l’assortimento offerto dal settore
commerciale.
25. La mortadella, un'anima antica dal sapore unico Nel Dna della Golfera c'è lo stesso salume che, in un suo romanzo, Edgar Allan
Poe elencava fra le provviste di una baleniera. Stiamo parlando della Bologna che ai tempi di Poe era già sbarcata negli Stati Uniti, guadagnandosi quella notorietà
che l'ha consacrata fra i cibi più universalmente apprezzati della gastronomia italiana.
Paragonato agli altri salumi, questo prodotto è certamente il più elaborato: non a caso il suo nome deriva dal latino mortarium, il mortaio usato per pestare le carni
insieme agli aromi, tra cui il mirto. Questa tecnica costituisce il tratto distintivo
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della mortadella, inventata dai lardaroli bolognesi nel XIV secolo. E non a caso la corporazione di questi artigiani della carne, grandi innovatori nel solco della
tradizione romana e longobarda, aveva come simbolo proprio il mortaio con il pestello. Durante il Rinascimento, la mortadella approdava nell'alta cucina con la
celebre ricetta dello scalco ducale estense Cristoforo Messisbugo. I primi
provvedimenti pubblici e i disciplinari di produzione a tutela dell'insaccato risalgono al Seicento. Ricetta e tecniche di
preparazione più simili a quelle moderne le ritroviamo invece codificate nelle
pagine dell'agronomo bolognese Vincenzo Tanara, nel trattato L'economia del cittadino in
villa. Già nel XVII secolo la Bologna era esportata in Europa. Letterati, musicisti, registi: la fortuna
della mortadella nella cultura italiana sembra non conoscere confini. Citata da Francesco Boccaccio
nel Decamerone, amata da Gioacchino Rossini e da Federico Fellini, portata nella cinematografia
da Mario Monicelli, la Bologna incarna un perfetto esempio di "bene culturale" di largo consumo.
Dopo il Prosciutto di Parma la mortadella è oggi il secondo salume tutelato più consumato d'Italia. Nel 1998 l'unione europea ne ha riconosciuto l'Indicazione
Geografica Protetta (Igp). L'areale di produzione comprende l'Emilia Romagna, il
Piemonte, la Lombardia, il Veneto, la Toscana, le Marche, il Lazio e la provincia di Trento. Pur fedeli ad una tradizione secolare, anche le mortadelle del XXI secolo
si sono alleggerite. Di fronte alle 350 chilocalorie per etto di una mortadella tradizionale oggi si producono mortadelle
che hanno circa 250 chilocalorie per etto e anche meno. Sotto il profilo energetico, un etto di
mortadella ha meno calorie di un piatto di pasta asciutta o del tonno in scatola sgocciolato e le
stesse calorie della mozzarella. [Giovanni Ballarini, Piccola storia della grande salumeria, 2003].
Il più rotondo dei salumi si sposa assai bene con i vini rossi
vivaci o frizzanti della pianura padana, come il Lambrusco e il Sorbara. Meraviglia poi la sua versatilità in cucina se si pensa
che un grande chef bolognese come Renato Gualandi, rifacendosi anche alla passione rossiniana per il salume, ha
ideato ben 79 ricette a base di mortadella.
Alla Golfera si producono mortadelle da mezzo secolo. Le signore della salumeria italiana escono dalle sale di stufatura e
docciatura, nelle versioni più disparate: Bologna Igp, Chiara Igp, La Reale, Mortadella di puro suino e infine Gioya, preparata con carne suina e
bovina. Per rispondere adeguatamente alle esigenze commerciali anche la pezzatura presenta una vasta gamma che va dal mezzo chilo al quintale. Quelle
con il pistacchio sono molto apprezzate al sud, specialmente in Sicilia. Tutte le mortadelle Golfera sono prive di polifosfati mentre le Igp non contengono lattosio
né fonti di glutine.
MORTADELLA
Tabella
nutrizionale (100g. di prodotto)
Acqua: 52,3%;
Proteine: 14,7%;
Lipidi: 28,1%
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26. Golfella, la mortadella del futuro
Riguardo ai salumi cosiddetti "dimagriti", la leggerezza si può rappresentare in
tanti modi. Un palloncino, ad esempio. Per dire che un cibo nutriente come la mortadella può far sognare anche un bambino. Per dire "meno calorie più
nutrizionalità". Anche l'evoluzione della mortadella va in questo senso. E a maggior ragione se si tratta di un nuovo
prodotto. Dal 2003, un salume brevettato come la Golfella è il vero nome del "gusto che ti vuole
bene", insaporito con piante aromatiche e ricavato dalle
migliori carni suine italiane. Ma ciò che in questo
prodotto fa la differenza è il 30 per cento di grassi in
meno e il maggior contenuto proteico rispetto alle
mortadelle tradizionali. Assenti il lattosio, i
caseinati e le fonti di glutine; parametri per i quali il salume ha ottenuto la certificazione di prodotto Csqua. Golfella stata inoltre progettata per ridurre al
minimo o eliminare quei piccoli sprechi (“sfridi” di affettatura) che si verificano in fase di vendita. L'equazione fra il mangiar bene e il mangiar sano è così servita.
27. L’insostenibile leggerezza del manzo: il Bresi’
Risulta fin qui evidente come la salumeria
del XXI secolo obbedisca ad una logica del più e del meno, dove al togliere deve pur
sempre corrispondere un valore aggiunto.
Da un lato, meno grassi, meno calorie, meno additivi, meno sodio,
meno conservanti: dall’altro più digeribilità,
più proteine, più vitamine e
antiossidanti. In definitiva più salute e
benessere. E il gusto non cambia. Nel 2007
questa filosofia alimentare ha creato il Bresì, l'ultima invenzione del marchio Golfera in ordine di tempo. In attesa di nuove sorprese alimentari, tuttora in fase
GOLFELLA
Tabella nutrizionale (100 g di prodotto).
Kcal 250.
Proteine: 17.
Carboidrati: 0,5.
Grassi: 20.
IL BRESÌ
Tabella
nutrizionale (100g di prodotto)
Kcal 165;
Proteine 29;
Carboidrati 1,
Grassi 5.
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sperimentale, questo salume ci accompagna davvero nell'empireo della leggerezza. Il Bresì, infatti, è preparato con carni di manzo fresche, selezionate e
macinate, stagionate e aromatizzate. Ideale per un pasto completo e digeribile, fornisce un alto apporto proteico. Arricchito con sale iodato, non contiene fonti di
glutine ed è privo di lattosio. Al banco salumeria lo si trova in formato da 2 kg,
pronto per essere affettato; ma è disponibile anche in vaschetta, nella linea preaffettati "gusto fresco" e nei Rotolini salvaspazio, l'ultima novità del packaging
Golfera. Ben si presta alla creatività in cucina, dove si può preparare in tanti modi: con olive all'arancio, con funghi porcini e grana, fantasia d'insalata. La lista
potrebbe continuare ma preferiamo lasciare il compito all'immaginazione gastronomica dei lettori.
28. Salami e altro. Una squisita geografia di tradizioni
La Golfera fa vivere ogni giorno l'antichissima tradizione del principe dei panini. In origine con salamen si indicavano genericamente tutti gli alimenti salati di carne e
di pesce. Il termine "Salame", inteso invece come insaccato di sola carne suina,
compare alla fine del Cinquecento in un’opera di Vincenzo Cervio e soltanto più tardi Vincenzo Tanara ne codificava la prima ricetta. Questo prodotto esalta una
caratteristica peculiare della salumeria, quella cioè di essere un'arte della combinazione, un po' come le tante variazioni sul tema dello stesso motivo
musicale. In primo luogo entrano in gioco alcuni elementi costanti: il sale, il pepe e parti anatomiche ben precise come la spalla, il lombo, la pancetta. Variabili,
invece, sono il tipo di macinatura (fine, media e grossa), i tempi di stagionatura (breve, media e lunga) e infine gli aromi, decisivi per conferire a un salame la sua
personalità. L'estrema varietà dei salami italiani è dovuta ai diversi ambienti e microclimi della nostra penisola, e alle innumerevoli tecniche di lavorazione
tramandate nei secoli. Siamo di fronte ad un ginepraio di tipologie che da regione a regione, da provincia a provincia, da zona a zona e da una città all'altra, sembra
perfino corrispondere alla varietà dei dialetti. Dal 1997, la Golfera ha ampliato di molto la gamma dei salami: per esigenze
legate all’esportazione oggi ne produce ben 16 specialità preparate con carne
suina di prima scelta. Una tale geografia di sapori ha trasformato lo stabilimento di Lavezzola in una sorta di Italia in miniatura della salumeria. Per questo
raccontare i suoi salami significa intraprendere un tour gastronomico nel Bel paese: da nord a sud, lungo le vie della carne e del vino.
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Salame Cacciatore (o Cacciatorino). Piccolo, asciutto, compatto, colore rosso rubino, gusto dolce e profumo delicato, peso variabile tra i 150 e i 200 grammi.
In pratica un salume nano. Ma con la Dop in tasca dal 2001. Spalla, lonza, coscia, lardo: ovvero il massimo della carne suina concentrata nel minimo spazio. Si
concia con vino rosso corposo e aglio. Il disciplinare prescrive anche piccole dosi di zucchero e di latte
magro. Dopo due settimane di stagionatura
questo capolavoro della norcineria è pronto per
essere gustato. La sua denominazione è
lombarda ma il salume si produce in molte regioni
italiane. I cacciatori del centro-nord usavano
portare nella bisaccia
l'insaccato come provvista: per questo è
sempre stato il salame pratico, portabile,
tascabile per eccellenza, ideale per merende e
spuntini veloci durante scampagnate ed
escursioni. Dicono che sia ottimo gustato con il pane
ferrarese o quello di segala; e naturalmente,
associato ad un buon vino rosso fermo come il
Bardolino, il Valpolicella,
il Refosco o il Sangiovese. Fra i piccoli della
salumeria la Golfera produce anche i
Bocconcini da 50-60 grammi, salamini di puro
suino dalla fetta compatta e dal gusto dolce, ottimi
per antipasti e snack.
Salamini italiani alla cacciatora DOP. "9.2 - La formazione dell'impasto avviene osservando i seguenti requisiti: 9.2.1 - I tagli sono macinati in tritacarne con stampi aventi fori dal diametro compreso tra i 3 e gli 8 mm (...) 9.2.5 - Il trito viene quindi utilizzato per la preparazione dell'impasto, mediante l'amalgama omogeneo della materia prima e degli altri ingredienti utilizzati. 9.3 - Nella formazione dell'impasto sono utilizzati i seguenti ingredienti: a) sale, inteso come cloruro di sodio; b) pepe, nero o bianco, introdotto a pezzi ovvero macinato; aglio
(inteso come infuso di aglio, ovvero in polvere, o macinato o schiacciato), con l'esclusione dell'impiego di aromi; e possono essere inoltre utilizzati: d) vino; e) zucchero, inteso come saccarosio e/o destrosio e/o lattosio e/o fruttosio, preferibilmente aggiunto nell'impasto nel limite dello 0,5%; f) latte magro in polvere o caseinati, preferibilmente aggiunti nell'impasto nel limite dell'1% per il latte e dello 0,5% per i caseinati; g) colture di avviamento alla fermentazione; h) nitrato di sodio e/o nitrato di potassio nel limite massimo di 95 ppm; l) acido ascorbico e suo sale sodico. 10.1 - Per l'insacco possono essere utilizzati budelli naturali o artificiali (...). 10.4 - Prima dell'utilizzazione, il budello può essere lavato con eventuale dissalatura in acqua e bagno in acqua acetificate (...) 10.6 - Con l'insacco, i salamini sono legati in filza, mediante l'utilizzazione di spago o l'impiego di clips metalliche ed il budello può essere bucherellato (...). 12.1 - I salamini dopo l'insacco, sono posti in appositi
locali dove ha luogo l'asciugamento 12.2 - L'asciugamento avviene a caldo, in ambienti condotti a temperature variabili tra i 18° ed i 25° C, dotati di apposito sistema di rilevazione della temperatura (...). 12.5 - Durante la fase di asciugamento non possono essere adottate tecniche che consentano una fermentazione accelerata (...). 13.1 - Dopo l'asciugamento, i salamini vengono stagionati in locali mantenuti a temperatura compre sa tra i 10° ed i 15°C. 13.2 - Nei locali di stagionatura deve essere assicurato un sufficiente ricambio dell'aria, anche mediante l'uso di appositi impianti. 13.3 - La stagionatura ha una durata minima di giorni 10, computati con l'aggiunta di 10 giorni alla data di produzione o di insacco, nei casi in cui questa operazione risulti differita rispetto a quella di impasto. Requisiti di conformità. 14.1 - 1) forma cilindrica; 2) diametro non superiore a mm 60, misurati a metà della lunghezza del cilindro; 3) lunghezza non superiore a mm 200, misurati lungo l'arco di curvatura del singolo salamino; 4) peso non superiore a gr. 350.; 5) consistenza compatta e non elastica; 6) la fetta si presenta compatta ed omogenea con assenza di frazioni aponeurotiche, di colore rosso rubino uniforme con granelli bianchi di grasso ben distribuiti; 7) il profumo è delicato e caratteristico; 8) il sapore è dolce e delicato, mai acido. 9) proteine totali: minimo 20%; 10 9 rapporto collegeno/proteine: max. 0,15; 11) rapporto acqua/proteine: max. 2,30; 12) rapporto grasso/proteine: max. 2,00; 13) pH: maggiore o uguale a 5,3". [Istituto Nord Est di Qualità-INEQ, Salamini italiani alla cacciatora. Denominazione di origine protetta. Sistema di controllo e schema di certificazione della Dop. Manuale N. 1, Adempimenti e procedure dei soggetti interessati al sistema di controllo, San Daniele del Friuli].
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Salame Milano. Dalle famose polpette immortalate nei Promessi Sposi ai formaggi tipici come il gongorzola e il Bel
Paese, la cucina lombarda deve la sua sorprendente ricchezza alle molteplici influenze delle regioni vicine:
Canton Ticino, Piemonte, Emilia, Veneto e Trentino. Ma anche la storia ha lasciato il segno: il risotto allo zafferano e
la cotoletta alla milanese, piatti simbolo della gastronomia ambrosiana, sono, rispettivamente, di origine spagnola e
austriaca. In questo panorama di seduzioni i salumi non sono secondi a nessuno. La capitale lombarda, del resto, era un tempo luogo assai rinomato di smercio dei
salami Brianza che in gran copia si vendevano in piazza del Duomo. E se Bologna vanta la sua Mortadella, Milano, fin dall'epoca degli Sforza e dei Visconti,
rispondeva con il suo celebre salame, preparato con vino e aglio e pronto al consumo dopo quattro mesi di stagionatura. Al taglio presenta l'inconfondibile
macinatura a “grana di riso” dal colore rosso rubino tenue. Ha un profumo deciso e armonico, un sapore dolce e delicato. Gli intenditori ne consigliano
l'abbinamento con vini rossi giovani come il Rignolino d'Asti o quello del
Monferrato Casalese.
Sopressa Veneta. La terra del carpaccio, della luganega trevigiana, della polenta e osei, è un carnevale di sapori famoso anche per la Sopressa, parola che
significa due cose in una: salata e pressata. E' una specialità che la Golfera produce in due versioni, con e senza aglio. Le sopresse costituiscono una famiglia
molto numerosa di salumi. La varietà più tipica è la sopressa vicentina Dop, ricavata da suini allevati nelle valli di Pasubio a castagne e patate. Nell’impasto
carneo, insaccata in budello gentile di bovino, troviamo la coscia, la coppa, la spalla, la pancetta, il guanciale e
il lombo. La sopressa vicentina si distingue per l'ampia varietà di aromi: cannella, chiodi di garofano, noce
moscata, rosmarino e aglio. Questi insaccati presentano un colore rosso rosaceo, un gusto dolce e
una grossa pezzatura variabile da 1 a 8 chili. Nella
tradizione veneta, dove costituisce un piatto buono per ogni occasione, si abbina con i sottaceti, il cavolo stufato, i crauti, la polenta
abbrustolita, le verze (capussi sofegai), le ravizze, e l'immancabile vino rosso.
Salame Campagnolo. Valle, pianura, collina, montagna, mare: la varietà di ambienti ha fatto della Romagna una
delle province gastronomiche più apprezzate del Bel paese. Dal Reno all’Adriatico il repertorio della salumeria annovera
il béll e còtt, la coppa romagnola, il ciavarro delle colline forlivesi e i ciccioli (grasùl). Lonza, salsiccia e mortadella
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formano la trinità gastronomica dei tradizionali cappelletti, mentre nel ragù di carne romagnolo, il tandem salsiccia e pancetta vince anche i palati più
schizzinosi. Nelle province di Bologna, Ravenna, Forlì e Rimini, il salame campagnolo, perla della norcineria romagnola è prodotto con carni tenere e
lardello. Macinatura grossa, profumo delicato, gusto dolce, colore rosso rubino
sono le sue caratteristiche inconfondibili. Si abbina con successo al Trebbiano e al Pignoletto dei colli imolesi.
Salame tipo Felino. Questa eccellenza della salumeria
padana non ha nulla a che fare con i gatti: Felino, non è altro che l'antica Felsinum etrusca, oggi una
cittadina del parmense in riva al torrente Baganza, dove il matrimonio fra norcineria e alta cultura ha dato al
salame perfino un museo. Il pregio di questo insaccato, preparato con coscia, coppa, spalla e sottospalla
conciate con aglio e vino bianco, è tutto nel sapore delicato, dolce e fragrante uniti ad una consistenza
morbida. Il Salame Felino è stato riconosciuto dal Ministero per le politiche agricole come "prodotto agroalimentare tradizionale" e attualmente aspira al
marchio Igp. Gli intenditori consigliano di tagliarlo sempre di sbieco a sessanta gradi in fette grosse quanto un grano di pepe. E' un classico ingrediente
dell'antipasto parmigiano: per gustarlo al meglio va
consumato preferibilmente con il pane casereccio o la torta fritta. Si associa armoniosamente con il
prosciutto di Parma e il Lambrusco.
Finocchiona. Tipico della regione Toscana - terra dell'arista, del lardo di colonnata, della fiorentina e di
un prosciutto Dop - questo salume dal sapore dolce ha avuto origine nel Medioevo, ai tempi in cui essendo il
pepe troppo costoso si pensò di aromatizzare il salame con il finocchio selvatico, un prodotto a buon mercato
ma efficace. Conciato con vino Chianti e semi di finocchio, questo salame richiede una lunga stagionatura. Presenta una
macinatura grossolana e una pezzatura consistente che può raggiungere anche i 4 chili. Si abbina con il Chianti ed è tra i migliori companatici del pane toscano.
Salame Fabriano. Ciarimboli, filetto all'urbinate, coniglio ripieno, formaggio di fossa e caciuni sono solo alcune fra le specialità culinarie marchigiane. Anche qui
l'alta cultura ha sposato la gastronomia: l'Accademia del Brodetto non è infatti una boutade, esiste davvero e ha sede a Porto
Recanati. La terra di Gioacchino Rossini e di Tonino Guerra, dove abbondano abili e raffinati artigiani, non
poteva che dare un contributo rilevante alla civiltà del salume. Insieme al ciauscolo e al prosciutto di
Carpegna, il Fabriano è un salume pregiato proveniente dall'alta valle dell'Esino, in provincia di
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Ancona. L'impasto di carne magra di suino denervata - coscia, spalla, lardo - è macinato a grana fine, con lardelli e cubetti, speziato con pepe in grani. La carne
si presenta compatta e di colore rosso scuro. Questo salame non ha lasciato indifferente Giuseppe Garibaldi che nel 1881 in una lettera ringraziava il sindaco
di Fabriano per lo squisito dono ricevuto.
Spianata Romana. Prosciutti e salsicce lucaniche erano
popolari già nell'antica Roma dove Marco Gavio Apicio, il cuoco più famoso dell'epoca, ingrassava i maiali con i
fichi secchi per ricavarne un fegato prelibato. Nei fasti culinari dell'Urbe troviamo poi l'immancabile porchetta, il
celebre porcus troianus, che si usava consumare durante i banchetti di nozze per propiziare la fertilità dei
matrimoni. Ancora oggi la tradizione salumaia laziale offre specialità di tutto riguardo. La Spianata romana,
detta anche mortadella romana (ma ben diversa da quella bolognese), è carne suina insaccata nel budello cieco di maiale, poi tenuta
sotto una pressa per una settimana tanto da acquisire la forma schiacciata, da cui prende il nome. L'impasto rosso scuro è a macina molto fine di carne magra di
prima scelta, con l'aggiunta di cubetti di lardo salati e pepati, aglio e vino. Ottima consumata con pane casereccio e vino dei colli romani.
Salame Abruzzese. Dall'Adriatico al Gran Sasso, da Campobasso a Giulianova - dove imperano lo zafferano e la
pasta alla carbonara - la norcineria dell'entroterra abruzzese ha prodotto la tipica eccellenza di un insaccato
dall'aroma speziato, preparato con carni di prima scelta macinata a grana fine. Quella di Gabriele d'Annunzio è una
terra che annovera fra i suoi sapori caratteristici anche la Ventricina Piccante, una specialità a lunga stagionatura
diffusa anche del Molise. Il nome richiama l'involucro, ricavato dallo stomaco o dalla vescica del maiale. Di grossa pezzatura è prodotta
con le parti grasse del suino. Viene aromatizzata con spezie, aglio e altri aromi, tra i quali spicca il peperoncino,
al quale deve il colore rosso vivo. Pare che le sue origini risalgano alle popolazioni albanesi, che in tempi remoti si
trasferirono in Abruzzo, circostanza che fa di questo
salume un tipico esempio di contaminazione gastronomica. Si consuma a fette o spalmata sul pane; si associa bene ai
vini rosati abruzzesi.
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Salame Napoli Piccante. Quando si dice Campania vengono
subito in mente la piazza margherita, la mozzarella di bufala, la
pummarola e le mele annurche eppure anche sotto il Vesuvio si e sviluppata l'arte dei salami. Il Napoli piccante è
uno squisito rappresentante della tradizione partenopea, insaporito con spezie e peperoncino, dal gusto deciso e
piccante. Dalla Golfera esce anche il Tipo Napoli, dal colore rosso acceso, con aglio, aromi e vino. Ha gusto dolce e una
tipica forma ad arco. Secondo la tradizione, veniva prodotto per la festa di Sant'Antonio, popolare anche a Napoli dove un
antico proverbio assicura che "A Sant'Antuono ogni puorco è bbuono". Insostituibile in tante ricette della cucina napoletana,
come nel gattò di patate o nel casatiello, si abbina felicemente con i vini rossi campani come il Taurasi di Avellino e l'Ischia
rosso.
Salame Ungherese. Le caratteristiche del salame ungherese - un misto di carne bovina e suina con grasso
di maiale, paprica, aglio, pepe e sale - sono l'impasto a
grana finissima e la leggera affumicatura. Ha un sapore deciso ma delicato. La tecnologia di produzione,
inventata in Italia, giunse in Ungheria nel XIX secolo, e contribuì a dare vita a due specialità di quel paese,
l'Hertz e il Pick: quest'ultimo diventò celebre in tutto il mondo.
Completano la rassegna dei salami Golfera, il
Salame Primizia, la tipica e gustosa salsiccia passita romagnola ideale per i
consumi fuori pasto, disponibile nella versione a ferro di cavallo e lunga, detta
anche Primizia Bagetta; il Salame Montanaro, insaccato di qualità realizzato
con fondelli, spalla, prosciutto, pancetta,
aromi naturali, vino, aglio.
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Zamponi & Cotechini. Modena rappresenta la meta ideale del nostro
tour nella gastronomia suina made in
Lavezzola. E' noto infatti che la città padana, dove il maiale è una
istituzione quanto la Ferrari, divide con Parma il ruolo di primatista nella
salumeria italiana. In questa provincia, celebre per un prosciutto
Dop, il detto secondo cui del maiale non si butta via niente ha trovato la sua più rigorosa applicazione. Cotenna
naturale di piede come involucro, cotenna macinata, muscolo di spalla, zuffi e magro di testa: sono gli ingredienti delle due specialità modenesi, ottenute da
parti anatomiche secondarie, un tempo utilizzati nella salumeria povera. Di origine cinquecentesca, lo zampone e il cotechino, battezzati nel nome della città,
sono stati insigniti del marchio Igp.
28. Biosalumi, biodelizie
Il progresso a volte
consiste nel tornare indietro
(Giuseppe Verdi)
In un mercato alimentare sempre più segmentato, fatto di
nicchie e percorso la nuove tendenze, si è fatta strada la
domanda di prodotti biologici. La biosalumeria presuppne, da un
lato, una speciale attenzione al benessere animale e comporta,
dall’altro, l'assenza di composti chimici di sintesi lungo tutta la
filiera produttiva: non sono ammessi farmaci durante l'allevamento né di additivi durante la lavorazione. Bioallevamenti e biosalumi, inoltre, sono regolati da
appositi disciplinari e costituiscono un comparto distinto dalla filiera Dop. Nel 2001 anche nel salumificio di Alvaro Zavaglia è cominciata l'era del
biosalume: si tratta di un altro valore aggiunto ad una gamma di prodotti sempre
più diversificata. Le Biodelizie di Golfera sono prodotti realizzati secondo le normative vigenti e i sistemi di controllo della Commissione di certificazione del
consorzio dei prodotti biologici, riconosciuti dal Ministero della Sanità. Prosciutto crudo e cotto, salame, mortadella, pollo: biologiche sono la carne e l'allevamento
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di provenienza, come pure gli aromi utilizzati nella concia (salvia, rosmarino, vino).
29. Verso il consumatore. La Golfera al mercato
In Italia, in
Europa nel mondo. Fino a pochi anni fa in Italia i
generi alimentari si acquistavano ancora in
larga misura attraverso la piccola distribuzione. Nel
2002, secondo i dati forniti dall'Assica, ben il
54 per cento dei consumatori italiani
comprava salumi tramite
i negozi al dettaglio. Anche nel nostro paese la
grande distribuzione organizzata (Gdo) ha
però registrato un forte sviluppo portandosi ai
livelli europei. Del resto, è in questo ambito commerciale - A&O, Billa, Bennet, Conad, Coop, Crai, Despar, Esselunga, Finiper, GS Carrefour, Lombardini, Pam,
Sigma, Smau-Auchan - che la Golfera realizza il 60 per cento del proprio fatturato (un altro 20 per cento proviene dal dettaglio e dall’ingrosso) attraverso una rete
di circa 70 agenti e capiarea che coprono anche il canale del normal trade. Immancabile è poi la partecipazione dell’azienda a Cibus, la vetrina del Made in
Italy alimentare che si tiene ogni due anni a Parma.
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ll’export arriva il 20 per cento del fatturato complessivo che nel 2007 ha superato
il 27 milioni di Euro. Sui mercati esteri la Golfera è presente con l’intera gamma dei prodotti aziendali. Come tutta l’industria salumaia del nostro paese, la ditta
esprime le migliori performance in Francia, Svizzera e Germania, paesi da cui proviene oltre la metà del fatturato estero. Si tratta di mercati dove la tradizione
gastronomica italiana riscuote un prestigio consolidato, particolarmente legato al richiamo turistico e culturale che il nostro paese esercita da secoli. In Francia, i
prodotti Golfera arrivano ai consumatori attraverso Leclerc Conad, GS Carrefour
mentre nel nord-est del paese si trovano anche nella piccola distribuzione. Fra le varie specialità, i salami sono i più richiesti dai francesi. I salumi dello
stabilimento lavezzolese si possono poi acquistare alla Grand Epicerie de Paris, la boutique alimentare più rinomata della capitale.
Va poi ricordato che, ogni due anni, Parigi ospita la Sial, la fiera internazionale del gusto a cui l’azienda partecipa da tempo. Molto presente in Germania, nelle
catene Kaufof e Karstadt, la Golfera è regolarmente presente all’Anuga di Colonia, il meeting biennale dei sapori più importante del paese. I nuovi salumi dal sapore
antico arrivano poi in Austria (Mercure), Belgio (Delhaize), Grecia (Delhaize), Inghilterra (Selfridges), Armenia (Sas). A questi paesi si è da poco aggiunta la
Svezia, dove, attraverso L’Ica, l’azienda ha proposto i suoi prodotti (molto apprezzati i Rotolini) attraverso il brand Bonvini, cognome legato alla famiglia
Zavaglia, con lo slogan "la passione italiana per il salume". In ambito extraeuropeo la Golfera Spa si è spinta fino al Giappone, dove i suoi salumi hanno
ottenuto un vivo apprezzamento a Food Ex 2008, la Fiera Internazionale
dell’Alimentazione di Tokio. Nell'ambito di accordi commerciali fra Italia e India, nel 2007, l’impresa ha poi avviato a Nuova Delhi la Golfera Food India, una
società di import-export di specialità alimentari italiane (salumi, formaggi, olio, vino, pasta). Oggi, infine, sono in corso le pratiche per ottenere l'autorizzazione
all'esportazione negli Stati Uniti.
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Il nuovo packaging. Supermercati, ipermercati, centri commerciali, salumerie,
piccole e medie botteghe alimentari di paese: eccoci alla distribuzione, l'ultimo anello della filiera dove gli alimenti si trovano a tu per tu con il consumatore. Dei
prodotti Golfera, in Italia e all'estero, circa il 90 per cento del venduto arriva all'acquirente tramite il banco salumi. La quota restante finisce invece nei carrelli
direttamente dal take away o dai murali del libero servizio dove i salumi condividono lo spazio con gli inseparabili formaggi.
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A questo punto entra in gioco quello speciale elemento di mediazione fra prodotto e acquirente che è la confezione. Nulla
di più familiare, intendiamoci, ma talmente importante ai fini commerciali che c'è addirittura chi ha sostenuto che è la
confezione a "fare" il prodotto. La veste del salume, il suo
packaging, serve non soltanto a proteggere e a conservare le caratteristiche organolettiche (sapore, aroma, colore,
consistenza) ma anche a comunicare l'identità del prodotto nel
modo più adeguato; a renderlo visibile in quel ginepraio di
offerte che popola il reparto salumeria. I grandi centri commerciali hanno fortemente condizionato l'evoluzione del
packaging in salumeria. Per questo, oltre a creare nuovi prodotti la Golfera ha cercato di innovare anche la confezione,
adattandola alle esigenze della distribuzione e del consumo. Così, dopo la tela del Golfetta e i preaffettati in vaschetta, nel
2006 il salumificio di Lavezzola ha presentato i Rotolini di Golfera, un packaging innovativo e brevettato all'insegna della
freschezza. Rispetto alle vaschette, la forma arrotolata di questa nuova confezione in atmosfera protetta consente un notevole risparmio di
spazio sia nel frigorifero che negli scaffali del supermercato, che possono così accogliere, nella stessa unità di
superficie, l'intera gamma dei
prodotti. I Rotolini presentano anche un valore simbolico che
consiste nell'evocare l'immagine del cartoccio di salume preparato
dal salumiere. Dentro l'involucro ecosostenibile - prodotto con
meno plastica - il salume rimane morbido e le fette staccate tra
loro. E dopo l'apertura la vaschetta può essere richiusa con
una linguetta salva freschezza e conservata stesa in frigorifero.
Epilogo. Breve elogio del salume
Questa avventura nel mondo dei sapori italiani è dunque arrivata alla sua naturale
destinazione: la tavola. Abbiamo raccontato salami, prosciutti, mortadelle e la passione di chi li produce, per scoprire che essi parlano di noi: ci ricordano da
dove veniamo invitandoci al piacere e alla convivialità. Ci fanno stare bene con noi stessi e con gli altri. A prima vista i salumi appaiono cibi umili e semplici. In
queste pagine li abbiamo interrogati ed essi si sono rivelati a noi come luoghi della memoria, simboli di una tradizione ma anche emblemi di un futuro che è già
cominciato. Beni culturali di largo consumo, insomma.
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Allora, buon appetito e ... distinti salumi.
P. S.
Avviso ai buongustai: presso il salumificio Golfera, ogni anno preparano le porchette per
la Sagra Lavezzolese, una kermesse di spettacolo, arte e tanta gastronomia, che dal
1983 si tiene ogni anno a maggio nella piazza del paese, sede dell’antico mercato del
bestiame, dove i suini interi farciti di spezie vengono arrostiti davanti ai visitatori prima di
far sognare il palato insieme ai tortellini del locale pastificio Bacchini (Surgital).
Lavezzola, 9 giugno 2008
Fausto Renzi
LA GOLFERA SPA IN CIFRE (2007)
La Golfera aderisce all'ASS.I.CA (Associazione Industriali Italiani della Carne)
a alla Confindustria di Ravenna
Organigramma
Alvaro Zavaglia (Presidente); Stefano Zavaglia (Amministratore delegato); Emanuela Zavaglia
(Qualità ricerca e sviluppo); Andrea Zavaglia (E.D.P. e controllo, vendite estero); Claudio
Marinelli (Direttore Produzione); Vittorio Bandini (Direttore Vendite Italia); Mario Giacometti
(Direttore Amministrazione)
Personale
Addetti alla produzione: 60
Addetti negli uffici commerciali, amministrativi, qualità e ricerca & sviluppo": 20
Collaboratori esteri: 5
Produzione
Salumi tradizionali: mortadelle Igp, salami, zamponi e cotechini Igp. Biosalumi.
Salumi nuovi: Golfetta (1989), DolceMagro (2001), Golfella (2003), Bresì (2007).
Prodotti stagionati: 60 t. settimana. Prodotti cotti: 25 t. settimana
70
Prosciutti crudi (10 ton. settimana)
Settore commerciale: prosciutti cotti, pancette, bresaole, coppe (5 ton. settimana)
Fatturato
27.000.000 di Euro. Export: 20 %
Dal 1997 al 2007 (in milioni di Euro)
1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
7,7 9,3 11 12,2 15,2 17,9 19,3 20,7 22,5 23,5 27,2
Distribuzione
70 % Gdo; 30 % normal trade. Punti vendita in Italia: 75.000
Agenti sul territorio nazionale: 60
Export
Svizzera, Francia, Germania, Austria, Belgio, Inghilterra, Svezia,
Grecia, Malta, Armenia, Giappone, India
Ricerca e sviluppo
Investimenti: 2,5-3 % sul fatturato
Slogan pubblicitari
"Nuovi salumi dal sapore antico" "Radici nella tradizione per guardare lontano"
"Vi presentiamo l'Italia del buon gusto un boccone alla volta"
"Benvenuti nell'Italia dei sapori" "Il gusto che non pesa"
"Scoprite con noi le meraviglie gastronomiche italiane"
"La passione italiana per il salume"
Investimenti pubblicitari. 1.000.000 di Euro (3,7% del fatturato)
Sito Internet www.Golfera.it