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CAP. 1 – LE FONTI DEL DIRITTO
Il sistema delle fonti di produzione del diritto del lavoro è comune agli altri rami del di-
ritto ed è dunque l’art.1 disp.prel.c.c. che individua tali fonti nelle leggi, nei regolamenti e
negli usi. Una peculiarità del diritto del lavoro è costituita dall’art. 20781 c.c. secondo il qua-
le gli usi, contrariamente alla regola generale sancita dall’art.8 disp.prel.c.c., prevalgono
sulle norme dispositive di legge se più favorevoli al prestatore di lavoro. L’efficacia degli usi
in questo caso è ovviamente dispositiva e quindi derogabile dall’autonomia privata indivi-
duale o collettiva.
Altra caratteristica peculiare del diritto del lavoro è l’autonomia collettiva, cioè il
potere di autoregolamento degli interessi dei gruppi o collettività professionali: è produttiva
non soltanto di effetti diretti e perciò rilevanti sul piano dell’autonomia negoziale ma altresì
di effetti indiretti rilevanti sul piano della formazione dell’ordinamento. Infatti le tecniche
della recezione, della consolidazione e dell’estensione dei contenuti della contrattazione col-
lettiva sono tipiche della legislazione del lavoro, la quale si caratterizza sotto questo aspetto
per la sua funzione ausiliaria della contrattazione collettiva; la legislazione del lavoro però
ha anche funzione di legislazione di sostegno dell’attività sindacale e dell’autonomia col-
lettiva.
Nell’evoluzione storica del diritto del lavoro italiano si possono distinguere tre fasi
storiche per gran parte sovrapposte: 1) la fase della prima legislazione sociale in cui le leggi
in materia di lavoro si presentano soprattutto come norme eccezionali rispetto al diritto pri-
vato comune; 2) la fase dell’incorporazione del diritto del lavoro nel sistema del diritto pri-
vato caratterizzata dall’inserzione della disciplina delle leggi e dei contratti collettivi nell’am-
bito della codificazione civile; 3) la fase della costituzionalizzazione del diritto del lavoro i cui
principi fondamentali vengono garantiti dalla Carta costituzionale. All’inizio del secolo scor-
so, la legislazione sociale si presentava in posizione eccezionale rispetto al sistema del dirit-
to comune, come risposta dell’ordinamento alla questione sociale sorta per effetto del pro-
cesso di industrializzazione. Il codice civile del 1865 d’altra parte non prevedeva una disci-
plina del contratto di lavoro ma soltanto quella della locazione delle opere e dei servizi; la
regolamentazione del lavoro industriale invece non era prevista dalla legge poiché si ritene-
va che in questo campo l’autonomia privata dovesse essere e restare sovrana. Tuttavia, in
seguito all’estendersi del processo di industrializzazione ed al parallelo aggravarsi della que-
stione sociale, lo Stato cominciò ad intervenire dappertutto in Europa, introducendo una
speciale legislazione che inizialmente si limitò a disciplinare alcuni aspetti particolarmente
gravosi delle condizioni di lavoro attraverso norme di ordine pubblico, e contestualmente
cadevano i divieti di organizzazione sindacale. In questo modo, di fronte al sistema del dirit-
to civile si veniva sviluppando tutta una serie di disposizioni di legge dettate in deroga ai
principi del Codice civile per proteggere il lavoratore in quanto contraente più debole nel
rapporto di lavoro (cd. legislazione sociale). Così, accanto allo sviluppo e alla diffusione
dei contratti collettivi, si veniva affermando una serie di regole che via via assumevano
particolari caratteristiche normative, anche perché si formavano in tempi brevi. In Italia, lo
sviluppo della prassi sindacale portò la giurisprudenza all’elaborazione delle norme concer-
nenti la disciplina del contratto di lavoro operaio; e ciò soprattutto in seguito alla istituzione
dei Collegi dei probiviri nel 1893: a tali collegi era demandata una funzione giurisdizionale
di decisione nelle controversie di lavoro tra operai e industriali qualora non si giungesse ad
un accordo tra le parti in sede di conciliazione.
Successivamente si apre la seconda fase del diritto del lavoro, caratterizzata da una ac-
cresciuta rilevanza giuridica del fenomeno sociale del lavoro dipendente, e dalla progressiva
incorporazione della disciplina lavoristica nel sistema del diritto privato, in posizione di dirit-
to speciale. Tuttavia, tale incorporazione del diritto del lavoro nel diritto privato non
ha fatto venir meno l’autonomia dei principi fondamentali propri del diritto del lavoro: in
particolare il principio della tutela del lavoratore come contraente debole viene
generalizzato e rafforzato sotto il profilo delle condizioni minime di trattamento e
dell’inderogabilità ed in-disponibilità delle stesse, mentre la tradizionale riduzione del
contratto di lavoro a puro rap-porto di scambio viene riaffermata ed accentuata dalla
subordinazione del lavoratore all’in-teresse dell’impresa e all’autorità dell’imprenditore. Il
passaggio fondamentale in questa fa-se è rappresentato dall’emanazione della prima legge
sull’impiego privato nel 1919: tale legge trovava la sua giustificazione in ragioni di
opportunità politica e sociale in quanto gli impiegati, scarsamente sindacalizzati, non
godevano della tutela dei contratti collettivi ma disponevano solamente di giudici di equità;
da qui la necessità dell’intervento legislativo, che recepì il materiale normativo raccolto dalle
Camere di Commercio, delegate dal Governo a raccogliere gli usi contrattuali idonei a
regolare il rapporto d’impiego. Un altro fenomeno rilevante in questa fase è quello della
contrattazione collettiva corporativa: il contratto collettivo corporativo era espressione
non dell’autonomia collettiva, bensì della competenza normativa dei sindacati nell’ambito
della categoria professionale, e come tale era dotato di efficacia generale ed inderogabile
dall’autonomia privata individuale. Col tempo la legislazio-ne corporativa mise fine alla
libertà sindacale e trasformò il contratto collettivo in atto nor-mativo dotato di efficacia erga
omnes e proveniente dal sindacato unico fascista, basato sul-la rappresentanza legale della
categoria professionale e sulla contribuzione obbligatoria dei singoli lavoratori e
imprenditori. Le eventuali controversie, giuridiche ed economiche, avreb-bero dovuto essere
decise con sentenze della Magistratura del Lavoro, appositamente istitu-ita presso le Corti
d’Appello.
Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana del 1948 inizia una nuova fase
nell’evoluzione storica del diritto del lavoro, il quale si vede attribuita una rilevanza costitu-
zionale: il carattere prevalente della normativa è sempre quello della protezione del lavora-
tore come soggetto contraente più debole, ma la differenza rispetto alle precedenti fasi sto-
riche è che la protezione del lavoratore è un principio non più in posizione eccezionale o
speciale. Gli esempi sono diversi: art.35 per il quale la Repubblica tutela il lavoro in tutte le
sue forme ed applicazioni; art.31 che, oltre a garantire l’uguaglianza di fronte alla legge
senza distinzione di condizioni personali e sociali, riconosce ai cittadini la pari dignità so-
ciale; art.32 che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che di fatto si frappongono
alla partecipazione dei lavoratori alla organizzazione della società; art.4 per cui la Repubbli-
ca in primo luogo riconosce il diritto al lavoro dei cittadini e si impegna a promuovere le
condizioni di piena occupazione che ne rendano effettivo il godimento e, in secondo luogo,
sancisce il dovere al lavoro come attività socialmente utile. Altre disposizioni sono più speci-
fiche: art.36 per la retribuzione proporzionata e sufficiente; art.37 per la parità retributiva
tra uomo e donna e tutela del lavoro minorile e femminile; art.38 sulla previdenza e sicurez-
za sociale; art.39 e 40 su sindacati, contratti collettivi e diritto di sciopero.
Mentre la contrattazione collettiva ha provveduto alla determinazione delle concrete
condizioni di lavoro sul piano salariale e normativo prima ed organizzativo e della libertà
sindacale poi, il ruolo della legislazione è rivolto prevalentemente al rafforzamento ed all’e-
stensione della tutela dei diritti riconosciuti al lavoratore dalla Costituzione, dal codice civile
e dagli stessi contratti collettivi. Se si guarda all’evoluzione del diritto del lavoro nel periodo
successivo all’emanazione della Costituzione, è possibile distinguere due linee di politica del
diritto. La prima fase è rivolta soprattutto all’integrazione della disciplina codicistica e
quindi al perfezionamento del sistema di tutela cd. minimale del lavoratore come soggetto
contrattualmente debole: esempi di questa prima fase sono le leggi sul collocamento, sugli
appalti di manodopera, sul contratto di lavoro a termine, sull’apprendistato, il lavoro dome-
stico e il lavoro a domicilio. Nella seconda fase ci si orienta verso una tutela più ampia del
lavoratore, considerato non più soltanto come contraente debole nell’ottica del rapporto di
scambio, ma anche nella sua duplice qualità di soggetto inserito in un rapporto di produzio-
ne e di soggetto appartenente ad una classe o categoria socialmente sottoprotetta: la tutela
non è più limitata quindi alle condizioni minime di trattamento, ma si estende alla dignità
sociale e alla persona del lavoratore, specificandosi anche come tutela contro le discrimina-
zioni e garanzia della parità di trattamento; esempi di questo tipo sono la disciplina dei
licenziamenti individuali e lo Statuto dei lavoratori del 1970.
Successivamente, a partire dal 1975 si può individuare una nuova fase della legislazio-
ne del lavoro. Si parla al riguardo di diritto del lavoro della crisi, ed è una fase caratteriz-
zata da interventi legislativi originali e peculiari quali ad esempio l’introduzione dei contratti
di lavoro con finalità formative o la disciplina delle riconversioni industriali. Tali interventi
avevano l’obiettivo prevalente di favorire la difesa e la crescita dei livelli di occupazione
prevedendo l’estensione delle forme di impiego flessibile della forza-lavoro e l’introduzione
di misure idonee ad ottenere una riduzione del tasso di inflazione attraverso il rallentamento
dei meccanismi di indicizzazione salariale. Aspetti caratteristici di tale fase storica sono la
crescente tendenza verso la deregolamentazione del mercato del lavoro (ossia l’esten-
sione dell’autonomia negoziale privata), e l’evoluzione della disciplina protettiva da rigida in
flessibile: in questa prospettiva la tutela dell’occupazione prevale sulla tutela della posizione
contrattuale debole del lavoratore e quest’ultima deve essere armonizzata con l’interesse
pubblico al contenimento dell’inflazione e con l’interesse dell’impresa allo svolgimento dei
processi di ristrutturazione produttiva e di innovazione tecnologica.
Gli interventi legislativi degli anni ’90 spingono verso nuovi modelli di governo delle re-
lazioni industriali ma anche verso flessibilizzazione e snellimento burocratico del mercato del
lavoro. Importante intervento di questo periodo è stato la riforma del pubblico impiego, con
l’obiettivo dell’unificazione normativa dei dipendenti pubblici e privati al fine di accrescere
l’efficienza dell’organizzazione amministrativa, sottoponendola alle norme del Codice civile e
delle leggi speciali. Inoltre, la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 in ottica di fe-
deralismo legislativo, attribuisce l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni inerenti i diritti civili e sociali, e la previdenza sociale alla competenza
esclusiva dello Stato, mentre affida alla competenza concorrente tra Stato e Regioni le ma-
terie dell’istruzione e formazione professionale, la tutela e sicurezza del lavoro, la previden-
za complementare e integrativa. Molta parte dell’attività legislativa di questo decennio è
stata inoltre influenzata dall’esigenza di adeguare l’ordinamento nazionale ai vincoli e agli
obiettivi derivanti dalla partecipazione all’UE: questo spiega come forti vincoli economici
in tema di inflazione, deficit di bilancio e debito pubblico abbiano fortemente condizionato le
politiche legislative soprattutto in materia di controllo della spesa sociale.
Per quanto riguarda il sistema delle fonti risultante dal Trattato istitutivo della CE, le
istituzioni comunitarie possono adottare regolamenti e direttive nelle materie di loro compe-
tenza: l’intensa produzione normativa comunitaria è dunque in grado di condizionare in mi-
sura rilevante l’evoluzione della legislazione interna del nostro Paese. Inoltre, al dialogo
sociale a livello comunitario è riconosciuto un ruolo determinante nello sviluppo delle politi-
che sociali: infatti, il Trattato istitutivo della CEE prevede una procedura obbligatoria di con-
sultazione tra la Commissione e le parti sociali, stabilendo che a fronte di interventi in mate-
ria di politica sociale queste ultime possano richiedere alla Commissione di sospendere per 9
mesi la sua azione, al fine di consentire loro la ricerca di un accordo. Per alcuni settori poi il
Consiglio può adottare direttive a maggioranza, nel rispetto della procedura di codecisione
con il Parlamento e la Commissione; invece per altri settori il Consiglio deve deliberare all’u-
nanimità, dopo aver solamente consultato il Parlamento. Restano comunque escluse dall’a-
zione comunitaria alcune materie di rilievo di politica sociale, quali le retribuzioni, il diritto di
associazione, i diritto di sciopero e di serrata.
Le fonti del diritto del lavoro
Il sistema delle fonti di produzione del diritto del lavoro in senso stretto presenta aspetti di
particolare complessità e problematicità, in ragione del concorso di una molteplicità di atti
che, se pur dotati di un diverso grado di efficacia, hanno tutti la forza giuridica di incidere
sulla regolamentazione concreta del rapporto di lavoro e di determinarla.
In via di prima approssimazione, le fonti che concorrono alla produzione del diritto del lavo-
ro possono essere suddivise nel modo che segue:
fonti sovranazionali;
fonti legislative;
fonti contrattuali;
usi.
LE FONTI SOVRANAZIONALI
Ricordato che a termini dell'art. 35, co. III, Cost., la Repubblica "promuove e favorisce gli
accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro",
occorre precisare che nel novero delle fonti sovranazionali od internazionali si distinguono
due livelli di produzione normativa:
il 1° relativo alla partecipazione dello Stato italiano alla Comunità internazionale;
il 2° riguarda invece la partecipazione dello Stato italiano alla CEE.
Con riferimento al 1°livello, oltre ai vari trattati internazionali stipulati anche dall'Italia, rive-
stono fondamentale importanza alcuni atti ad efficacia esterna emanati dall'O.I.L. (Organiz-
zazione Internazionale del Lavoro, deputata a favorire il progresso delle classi lavoratrici nel
mondo), e cioè:
le Convenzioni, strutturate in articoli, aventi natura di veri e propri atti normativi, che
assumono valore di norme interne se sono rese esecutive con legge dello Stato;
le Raccomandazioni, prive di valore impegnativo, con cui si auspica che gli Stati de-
stinatari si attivino per la risoluzione di un determinato problema.
Con riferimento al 2°livello, va ricordato che, a differenza delle norme del diritto internazio-
nale, quelle del diritto comunitario possono avere efficacia immediata e diretta all'interno
degli ordinamenti giuridici degli Stati membri: tali norme sono quelle contenute nei regola-
menti e nelle direttive comunitarie.
LE FONTI LEGISLATIVE
In materia di diritto del lavoro, le fonti legislative sono le seguenti:
la Costituzione, che si pone all'apice della gerarchia delle fonti;
le leggi ordinarie e gli altri atti aventi forza di legge, collocati in posizione subordina-
ta rispetto alla Costituzione;
i regolamenti di attuazione o di esecuzione degli atti summenzionati, emanati nella
forma del dPR dal Governo, ovvero dai ministri con proprio decreto, ovvero da altre
autorità ove ciò sia previsto. Tali regolamenti non possono modificare le leggi e gli
altri atti aventi forza di legge, né derogare ad essi.
La Costituzione. La nostra Carta costituzionale considera il rapporto di lavoro come il più im-
portante rapporto interprivato. Prova ne è che nella grande area delle garanzie costituzionali
attinenti ai rapporti tra privati, le garanzie relative al rapporto di lavoro sono di gran lunga
prevalenti. Il rilievo dato dalla Costituzione al lavoro si evince, innanzitutto, dall'art. 11 ai
sensi del quale L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Vengono, quindi,
dettati in altre norme costituzionali, altri principi fondamentali volti a rendere più concreta la
disposizione di cui all'art. 11. In realtà, è necessario distinguere in proposito le norme della
Costituzione sociale dalle norme della Costituzione economica. Infatti la tutela del soggetto
contraente debole rappresenta indubbiamente la finalità delle norme dettate dalla Costitu-
zione in materia di lavoro, ma non si tratta più di una finalità esclusiva: si aggiunge ad essa
la finalità ulteriore e più ampia della garanzia dei diritti sociali. Al tradizionale obiettivo della
tutela della posizione contrattuale debole si affianca perciò l'obiettivo della tutela della liber-
tà e dignità sociale del lavoratore. Gli articoli della Costituzione sociale che vengono in rilie-
vo sono:
l'art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità;
l'art. 3, che sancisce il principio dell'eguaglianza giuridica e, dunque, implicitamente,
il divieto, per il legislatore, di discriminazione fra lavoratori;
l'art. 4, che al co.I statuisce che La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al
lavoro, tipico diritto sociale, finalizzato all'eliminazione delle disuguaglianze sostan-
ziali; e al co.II sancisce il dovere di svolgere un'attività o una funzione che contribui-
scano al progresso materiale o spirituale delle società, dovere non sanzionabile pe-
nalmente stante l'inammissibilità nel nostro ordinamento del lavoro coatto.
Gli articoli della Costituzione economica relativi alla materia del lavoro sono:
l'art. 35 che dispone che la Repubblica tutela il lavoro, la formazione e l'elevazione
professionale dei lavoratori, promuove gli accordi e le organizzazioni internazionali
volti ad affermare i diritti dei lavoratori, riconosce la libertà di emigrazione;
l'art. 36 che enuncia il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata e suf-
ficiente nonché il diritto irrinunciabile al riposo settimanale ed alle ferie, ponendo al-
tresì il principio che la durata massima della giornata lavorativa deve essere stabilita
con legge;
l'art. 37 relativo al lavoro femminile ed al lavoro minorile che stabilisce, tra l'altro,
che alla donna lavoratrice spetta, a parità di lavoro, parità di retribuzione rispetto ai
lavoratori maschi;
l'art. 38 in cui è prefigurato l'intervento assistenziale nonché quello previdenziale a
favore dei lavoratori subordinati in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,
disoccupazione involontaria;
l'art. 39 che tratta della libertà sindacale, del sindacato riconosciuto e del contratto
collettivo;
l'art. 40 che regola il diritto di sciopero.
I codici. Nell'ambito delle leggi ordinarie, una posizione preminente quale fonte del diritto
del lavoro spetta al Codice Civile ed in particolare al suo libro V che reca l'intestazione "Del
lavoro". Tuttavia, non tutte le norme in esso contenute afferiscono alla materia del lavoro,
così come, per converso, molte norme appartenenti al diritto del lavoro sono contenute in
altri libri del codice.
Gli altri atti aventi forza di legge. Per legge deve intendersi anche ogni altro atto avente for-
za di legge, e quindi: i decreti legislativi e i decreti-legge.
Le leggi speciali. Numerosissime sono le leggi speciali volte a tutelare il lavoratore, non solo
in quanto contraente debole, ma anche nella sua qualità di soggetto che impegna la propria
persona in un rapporto di scambio quale è appunto il rapporto di lavoro. Nella più recente
legislazione si registra la tendenza a tutelare, oltre all'integrità fisica del lavoratore, anche
l'integrità morale dello stesso. Si citano qui soltanto alcune delle più importanti leggi specia-
li, e cioè:
L. 604/1966 sui licenziamenti individuali, modificata ed integrata dalla L. 108/1990;
L. 300/1970, nota come Statuto dei lavoratori;
L. 533/1973 sul processo del lavoro;
L. 223/1991 sui licenziamenti collettivi;
D.Lgs. 276/2003 attuativo della L. 30/2003 (cd “Riforma Biagi”).
LE FONTI CONTRATTUALI
Altra regolamentazione, che si aggiunge a quella generale, può essere rinvenuta:
nel contratto collettivo, ossia il contratto stipulato tra il sindacato dei lavoratori e
l'associazione sindacale degli imprenditori, al fine di stabilire il trattamento minimo
garantito e le condizioni di lavoro a cui dovranno uniformarsi i singoli contratti indivi-
duali;
e nel contratto individuale, consistente nell'accordo raggiunto direttamente tra singo-
lo lavoratore e singolo datore.
Il contratto collettivo viene stipulato a più livelli. Esso può essere:
confederale, quando viene stipulato tra le confederazioni nazionali che
rappresentano interi rami delle attività economiche, ed è relativo ad istituti di
generale applicazione;
nazionale di categoria che è stipulato tra le organizzazioni sindacali di categoria, det-
ta la disciplina generale delle condizioni minime di trattamento della forza-lavoro;
aziendale, è stipulato anche direttamente da parte del datore e, per i lavoratori, an-
che dal solo organismo sindacale aziendale, che detta la disciplina delle condizioni di
trattamento dei dipendenti all'interno dell'azienda.
Nelle ipotesi in cui i contratti di diverso livello predispongano discipline in contrasto fra loro,
il criterio risolutore del conflitto deve essere individuato nel criterio della specialità, ossia
nella preferenza accordata alla disciplina speciale rispetto a quella generale. Per quanto
con-cerne i rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale, essi sono strettamente
rego-lati nel nostro ordinamento dal meccanismo dell'inderogabilità in peius; è invece
possibile che il contratto individuale si discosti dal contratto collettivo derogandolo in melius.
GLI USI
L'uso è costituito da un comportamento costante ed uniforme nel tempo ("diuturnitas"), ac-
compagnato dalla convinzione della conformità al diritto e della necessità giuridica del com-
portamento stesso ("opinio iuris ac necessitatis"). Nella loro qualità di fonti del diritto del la-
voro, gli usi assumono una valenza peculiare: essi sono sempre dispositivi in quanto si ap-
plicano solo in mancanza di disposizioni di legge o di contratto collettivo e non possono de-
rogare la disciplina del contratto collettivo né prevalere su quella del contratto individuale.
Tuttavia, se più favorevoli al prestatore, prevalgono sulle norme dispositive di legge: è la
deroga contenuta nell'art. 2078 alla regola generale sancita dall'art. 8 preleggi.
Da tale categoria di usi - i c.d. usi normativi - va tenuta distinta quella degli usi azien-
dali, che esplicano la loro efficacia nell'ambito di una singola unità produttiva. Gli usi azien-
dali non hanno valore di norma inderogabile e possono essere esclusi dalle parti al momento
della stipulazione del contratto individuale.
CAP. 2 – IL LAVORO SUBORDINATO
PROFILI STORICI. Il rapporto di lavoro è regolato dagli artt. 2094ss. c.c. oltre che dalle leggi
speciali. Il legislatore ha collocato la disciplina del rapporto di lavoro nell’ambito della
disciplina dell’impresa posta dal Libro V: la ragione di tale sistemazione è da ricercare nella
prospettiva adottata dal Codice civile del 1942, secondo cui il rapporto di lavoro, anche
quando non sia inerente all’esercizio di un’impresa, viene tuttavia modellato sulle esigenze
tipiche di questa. Nello stesso Libro V infatti sono collocate le norme concernenti i rapporti di
lavoro che si svolgono al di fuori dell’impresa quali il lavoro autonomo o il lavoro domesti-co.
La normativa codicistica rappresenta la prima disciplina organica ed unitaria del rapporto di
lavoro che sia stata introdotta nell’ordinamento italiano: in passato il lavoro subordinato non
trovava una specifica regolamentazione né nel Codice di commercio del 1882 né nel Codice
civile del 1865. Questo disciplinava in generale la locazione delle opere, istituto nel quale
erano ricompresi sia il lavoro subordinato (locatio operarum) che il lavoro atono-mo (locatio
operis). Era locazione delle opere il contratto per cui una delle parti si obbligava a fare per
l’altra una cosa mediante la pattuita mercede, e vi erano tre principali specie di locazione di
opere e d’industria: quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio;
quella dei vetturini che si incaricano del trasporto delle persone o delle cose; e quella degli
imprenditori di opere ad appalto o a cottimo. Il lavoro subordinato veniva dun-que definito
“locazione della propria opera all’altrui servizio”. La disciplina del contratto di locazione delle
opere si occupava comunque quasi esclusivamente del lavoro autonomo o lo-catio operis,
nelle sue forme tipiche del trasporto e dell’appalto. L’unica norma specifica-mente riferibile
al lavoro subordinato era quella secondo cui nessuno può obbligare la pro-pria opera
all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa, anche se di fronte alla prassi
allora dominante dei contratti a tempo indeterminato, era concordemente am-messa la
stipulazione di tale tipo di contratto, giustificato come contratto sottoposto a dis-detta e
pertanto pur sempre a termine, anche se incerto.
La distinzione tra locatio operis e locatio operarum assunse rilievo al fine di stabilire la
diversa imputazione e ripartizione tra le parti dei rischi inerenti alla realizzazione della pre-
stazione lavorativa. Il primo di tali rischi, il rischio del lavoro, è quello incidente sull’utilità
prodotta dalla prestazione di lavoro, ossia l’alea che incide per sua natura sul risultato pro-
duttivo del lavoro e dipende dalla difficoltà tecnico-economica del risultato stesso. Il secon-
do rischio è quello dell’impossibilità o mancanza del lavoro sopravvenuta, e corrisponde
all’alea incidente sulla perdita totale o parziale del corrispettivo da parte del lavoratore: il ri-
schio dell’impossibilità di lavoro è sempre sopportato dal lavoratore, sia nella locatio operis
che nella locatio operarum, in virtù del principio secondo il quale il debitore è esonerato dall’
obbligo di eseguire la prestazione divenuta impossibile, ma perde il diritto alla contropresta-
zione; il rischio dell’utilità del lavoro è invece collegato concretamente alla variabilità econo-
mica del rendimento del lavoro ed è ripartito tra i contraenti in modo diverso nella locatio
operis e nella locatio operarum: nella prima è integralmente a carico del lavoratore autono-
mo il quale si obbliga a prestare l’opera finita qualunque sia il costo sopportato per ottenere
il futuro risultato; nell’altra il rischio del risultato è a carico dell’imprenditore, poiché il lavo-
ratore subordinato si obbliga a prestare le proprie energie di lavoro limitandosi a sopportare
soltanto il rischio della mancanza di lavoro.
Progressivamente si sviluppa la tendenza a sostituire la nozione di locatio operarum con
quella più moderna di contratto di lavoro subordinato. Tuttavia, era ancora assente una de-
finizione positiva della subordinazione. È stata la giurisprudenza ad utilizzare la nozione del
rapporto di servizio come criterio distintivo dell’obbligazione del lavoratore a sottoporsi alle
determinazioni dell’imprenditore per ciò che concerne sia l’organizzazione del lavoro sia la
disciplina aziendale: in questi termini la subordinazione tendeva ad identificarsi con il com-
portamento dovuto dal lavoratore in attuazione della propria obbligazione.
In una prospettiva analoga si pone anche la legge sul contratto di impiego privato n.
1825/1924: questa individuava il carattere specifico della subordinazione nell’attività profes-
sionale e nell’esercizio di mansioni di collaborazione cd. fiduciaria, ossia lo svolgimento
di funzioni continuative di amministrazione e di fiducia nell’azienda. Il Codice civile riprende
il concetto della collaborazione per precisare a sua volta quello della subordinazione:
l’art.2094 identifica la collaborazione come lo scopo o risultato tecnico-funzionale della pre-
stazione di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell’ imprenditore, resa dal lavoratore
in cambio della retribuzione.
ART.2094 – PRESTATORE DI LAVORO SUBORDINATO: è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga me-
diante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle
dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
Art.2095 – CATEGORIE: i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impie-
gati e operai.
QUALIFICAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO. Tale concetto di subordinazione tecnico-fun-
zionale è riaffermato in negativo dalla norma dell’art. 2222: nella definizione del contratto
d’opera infatti il legislatore ha messo in rilievo l’assenza del vincolo della subordinazione.
ART.2222 – CONTRATTO D’OPERA: una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera
o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del
committente.
La finalizzazione al risultato dell’opera finita è il connotato tipico che contraddi-
stingue la categoria dei contratti di lavoro autonomo. Tale categoria comprende oltre al con-
tratto d’opera previsto dall’art.2222 quale fattispecie generica e residuale, altre 4figure fon-
damentali individuate nel libro IV del c.c.: 1) l’appalto art.1655; 2) il trasporto art.1678; 3) il
deposito generico art.1776; 4) il mandato art.1703, e le sue sottospecie commissione spe-
dizione e agenzia. In tutte le ipotesi di lavoro autonomo la prestazione tende al risultato
dell’opera finita ossia al risultato economico dell’attività organizzata dal debitore stesso,
mentre nel lavoro subordinato il risultato è costituito dall’attività del debitore in sé stessa.
Carattere comune delle obbligazioni di lavoro autonomo è la coesistenza dell’ingerenza o di-
rezione del committente con l’esecuzione dell’opera a rischio del prestatore il quale è dun-
que obbligato al risultato della propria attività personale o organizzata: diversamente dal la-
voratore subordinato che è obbligato ad una mera attività alle dipendenze del datore, il la-
voratore autonomo può essere vincolato alla direzione ma non può essere alle dipendenze
del committente.
Nel contratto di lavoro subordinato, la causa del contratto è individuata dal legislato-
re nello scambio tra le obbligazioni del prestatore e del datore di lavoro, quindi tra la colla-
borazione e la retribuzione: l’elemento oggettivo è dunque rappresentato non dalla subordi-
nazione ma dalla collaborazione; la subordinazione invece è l’effetto giuridico essenziale del
contratto. Si può pertanto parlare da un lato di collaborazione del creditore come coopera-
zione all’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore del lavoro; e dall’altro di colla-
borazione del debitore come obbligo di conformare l’esecuzione della prestazione alle con-
crete e variabili esigenze dell’organizzazione produttiva.
Dalle disposizioni di legge si individua nella continuità o disponibilità nel tempo
della prestazione di lavoro verso il datore, l’elemento essenziale che individua il vincolo
della subordinazione tecnico-funzionale. La continuità qualifica la subordinazione come di-
pendenza dal controllo dell’imprenditore e si distingue dall’esecuzione continuata o
periodica della prestazione, ossia il semplice distribuirsi nel tempo dell’adempimento
dell’obbligazione. La disponibilità si identifica in concreto con la persistenza nel tempo
dell’obbligo primario di prestazione e degli obblighi secondari che lo integrano, e da essa
discende che il prestatore di lavoro subordinato resta obbligato, e quindi idealmente alle
dipendenze del datore di la-voro, anche durante le pause interruttive dell’esecuzione
(intervalli giornalieri, riposi, ferie).
In giurisprudenza la subordinazione si concretizza nell’eterodirezione ossia nella sot-
toposizione del prestatore al potere di direzione del datore di lavoro, mentre la collaborazio-
ne si concretizza nella disponibilità delle energie lavorative messe al servizio
dell’imprendito-re e rese in modo tale da inserire la relativa prestazione nell’organizzazione
aziendale. La giurisprudenza individua 4requisiti come elementi costitutivi del rapporto di
lavoro subordi-nato, ossia onerosità, collaborazione, continuità e subordinazione; l’oggetto
della prestazio-ne non è il risultato prodotto dal lavoratore ma l’applicazione delle energie
lavorative; la col-laborazione è intesa come inserzione del lavoratore nell’organizzazione
produttiva dell’im-presa; la continuità è la durata nel tempo del vincolo di disponibilità
funzionale del lavorato-re all’impresa; il rischio dell’attività lavorativa incide sul datore di
lavoro. Secondo la Cassa-zione, ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro subordinato ed
autonomo è fondamenta-le l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo,
organizzativo e disciplinare del dato-re di lavoro, che si estrinseca nell’emanazione di ordini
specifici, nell’attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione della prestazione e che deve
essere concretamente apprezzato con riferimento alla specificità dell’incarico conferito al
lavoratore. Da tale assoggettamento deri-va una limitazione dell’autonomia del lavoratore
ed il suo inserimento nell’organizzazione a-ziendale. Inoltre, in seguito all’evolversi dei
sistemi di organizzazione del lavoro, l’indice de-terminante è rappresentato dall’assunzione
per contratto dell’obbligazione di porre a dispo-sizione del datore di lavoro le proprie energie
lavorative e di impiegarle con continuità, fe-deltà e diligenza, secondo le direttive impartite
dal datore di lavoro e in funzione dei pro-grammi cui è destinata la prestazione di lavoro.
L’inserzione del prestatore nell’organizzazione aziendale è un indice presuntivo abba-
stanza certo della sussistenza della collaborazione, così come l’osservanza dell’orario di la-
voro e l’obbedienza alle direttive impartite dall’imprenditore lo sono della subordinazione;
tuttavia tale presunzione non ha valore assoluto. Ed in effetti, l’inserzione del prestatore di
lavoro nell’organizzazione aziendale si può avere nella forma di collaborazione
coordinata e continuativa anche nei rapporti di lavoro autonomo: e il c.p.c. ne dispone in
proposito l’ equiparazione al rapporto di lavoro subordinato, limitatamente alla disciplina
processuale e alla composizione stragiudiziale delle controversie, quando la prestazione
d’opera sia carat-terizzata da un’attività prevalentemente personale continuativa e
coordinata ma non subor-dinata. Ciò rappresenta evidentemente un elemento di atipicità
che l’autonomia delle parti può introdurre nei contratti di lavoro autonomo. Nella
prestazione d’opera coordinata e con-tinuativa il lavoratore non è vincolato a tenersi a
disposizione del committente, benché la sua attività sia collegata stabilmente al ciclo
produttivo e quindi inserita nell’azienda: il con-tratto di lavoro coordinato ma non
subordinato è definito parasubordinato, e soddisfa dunque un interesse dell’imprenditore
alla continuità sul piano della reiterazione nel tempo delle singole prestazioni di risultato, ma
non sul piano della programmazione o coordina-mento nello spazio e nel tempo dell’attività
e quindi della disponibilità del lavoratore.
Un rapporto di lavoro subordinato produce effetti diretti ed indiretti. Sono diretti gli
effetti che incidono sul contenuto del rapporto, ad es. le condizioni della prestazione e della
remunerazione del lavoro; sono invece indiretti gli effetti che incidono sui presupposti e sul-
le conseguenze della costituzione del rapporto di lavoro, e che danno luogo ad una serie di
situazioni soggettive esterne di rilevanza previdenziale, amministrativa e penale.
Tra i più importanti effetti indiretti derivanti dalla costituzione del rapporto di lavoro su-
bordinato vi è la costituzione obbligatoria del cd. rapporto di previdenza sociale, che in-
tercorre tra i due soggetti del rapporto di lavoro e gli enti previdenziali. Inizialmente, traen-
do spunto dalla norma del c.c. del 1865 che stabiliva la presunzione assoluta di colpa dell’
imprenditore nei confronti dei terzi per il fatto dei propri dipendenti, la dottrina aveva elabo-
rato una costruzione teorica in base alla quale anche il rischio degli infortuni sul lavoro do-
veva gravare necessariamente sull’imprenditore a titolo di responsabilità oggettiva. Tenuto
conto della scarsa efficacia pratica dello strumento della responsabilità oggettiva si è fatto
ricorso all’istituto dell’assicurazione obbligatoria, che ha realizzato di fatto la traslazione del
rischio professionale in capo ad un istituto assicurativo (dapprima privato, poi di diritto pub-
blico): in virtù di tale meccanismo l’imprenditore viene dunque esonerato dalla responsabili-
tà civile in cambio del versamento di un premio assicurativo che si aggiunge alla retribuzio-
ne (salario previdenziale). Il medesimo sistema assicurativo è stato in seguito utilizzato per
far fronte ad altre situazioni di bisogno collegabili alla posizione di sottoprotezione del lavo-
ratore nella società (rischio sociale), con contribuzione posta anche a carico dei lavoratori,
benché in misura minore. I contributi sono dunque posti a carico sia dell’imprenditore che
dei lavoratori, secondo la regola generale contenuta nell’art. 21151 c.c.; tuttavia la loro ri-
partizione è stabilita oggi in misura prevalente o esclusiva a carico del datore di lavoro. Inol-
tre, secondo l’art.2116 vige il principio dell’automaticità delle prestazioni, ossia le prestazio-
ni sono dovute dall’istituto assicuratore in tutti i casi in cui l’evento assicurato si verifichi, in-
dipendentemente dal concreto versamento dei contributi da parte dell’imprenditore. Fanno
eccezione le pensioni di vecchiaia, per le quali tale principio opera entro i limiti della prescri-
zione dell’obbligazione contributiva: per cui qualora, a causa del mancato versamento dei
contributi da parte del datore di lavoro, gli stessi siano prescritti ed il lavoratore non conse-
gua il diritto al trattamento previdenziale o ottenga un trattamento inferiore, questi ha dirit-
to al risarcimento del danno da parte del datore di lavoro.
Per quanto riguarda le pensioni di anzianità e vecchiaia, vige un sistema a ripartizio-
ne, in base al quale la copertura finanziaria per l’erogazione delle pensioni è assicurata dai
contributi dei lavoratori in servizio. Nel 1968 era stata introdotta la cd. pensione retributiva,
la cui misura era calcolata in percentuale alle retribuzioni corrisposte negli ultimi 5anni del
periodo lavorativo, poi esteso a 10: tale sistema tuttavia è entrato in crisi nel corso degli
anni soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione. Ciò ha condotto alla revisio-
ne dell’intera materia avvenuta nel 1995, sostituendo il sistema retributivo di calcolo dei
trattamenti pensionistici con un sistema cd. contributivo a ripartizione: tale sistema as-
sicura un trattamento pensionistico calcolato sull’ammontare dei contributi versati nel corso
della vita lavorativa, salvi alcuni correttivi che tendono ad assicurare una maggiore equità
sociale. Tale principio di solidarietà sociale oggi tende ad attribuire un trattamento previ-
denziale anche ai lavoratori autonomi e ai piccoli imprenditori: e a tale proposito si parla di
tendenza espansiva del diritto del lavoro, intendendo con ciò una tendenza sempre più am-
pia verso la protezione del lavoratore in generale, indipendentemente dall’esistenza o meno
di un rapporto di lavoro subordinato.
PRESTAZIONE DI LAVORO GRATUITA. Il contratto di lavoro è di regola un contratto oneroso a
prestazioni corrispettive (art. 1453 c.c.: nei contratti a prestazioni corrispettive, quando uno
dei contraenti non adempie, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione
del contratto). Tuttavia una prestazione di lavoro può essere ricondotta ad un contratto ca-
ratterizzato dall’intento di obbligarsi gratuitamente e finalizzato ad un interesse meritevole
di tutela ai sensi dell’art.1322 (autonomia contrattuale): di conseguenza, il contratto di la-
voro gratuito è lecito ma innominato e quindi si tratta di un contratto avente causa e natu-
ra diversa da quello previsto nel 2094c.c. La prestazione gratuita può dare luogo a forti so-
spetti di frode alla legge, ma è anche possibile che le prestazioni lavorative gratuite siano
rese in adempimento di doveri morali o sociali: in questi casi la prestazione a favore del be-
neficiario configura una sorta di obbligazione naturale finalizzata ad una collaborazione dalla
quale è assente il vincolo della subordinazione tecnico-funzionale. Al lavoro gratuito può es-
sere accostato anche il volontariato.
Anche il lavoro prestato nell’impresa familiare è assimilabile ad una prestazione gra-
tuita, in quanto la prestazione di lavoro non è dovuta in forza di un vincolo obbligatorio ma è
resa spontaneamente nell’adempimento di un dovere familiare. Tuttavia, l’art. 230bis in-
trodotto nel 1975 con la legge di riforma del diritto di famiglia, considera il lavoro prestato in
modo continuativo nell’ambito dell’impresa familiare come un rapporto di tipo associativo,
salvo che sia configurabile un diverso rapporto, cui corrisponde il diritto al mantenimento e
alla partecipazione agli utili dell’impresa in proporzione alla quantità e qualità del lavoro pre-
stato; inoltre, i familiari che collaborano nell’impresa hanno diritto di partecipare alle deci-
sioni inerenti alla stessa e a percepire una liquidazione in denaro alla cessazione della pre-
stazione o in caso di alienazione dell’azienda, nel qual caso spetta anche il diritto di prela-
zione.
Vi sono inoltre casi in cui un’obbligazione di fare finalizzata alla collaborazione nell’im-
presa viene inserita nello schema tipico dei contratti associativi: associazione in parteci-
pazione, società di persone, società cooperative, ed eccezionalmente società di capitale. Si-
mili rapporti di lavoro non sono riconducibili alla figura tipica del contratto di lavoro subordi-
nato in quanto è assente l’elemento causale dello scambio tra prestazione di lavoro e retri-
buzione; tuttavia, sotto il profilo economico presentano una situazione di sottoprotezione
sociale del prestatore di lavoro associato analoga a quella del lavoratore subordinato. Questi
rapporti sono qualificati sul piano causale dall’esercizio in comune di un’attività economica,
dalla comune assunzione del rischio di impresa e dal comune scopo di lucro, e hanno l’obiet-
tivo di cointeressare il lavoratore ai risultati dell’impresa. La figura del socio d’opera è di-
stinta da quella del socio lavoratore: in quest’ultimo caso, al conferimento di beni si aggiun-
ge una prestazione di lavoro in favore della società. L’obiettivo di cointeressare il lavoratore
ai risultati dell’impresa può essere perseguito anche utilizzando lo schema dell’associazione
in partecipazione, in cui la gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante mentre
l’associato partecipa agli utili dell’impresa verso il corrispettivo di un determinato apporto
che può anche consistere in una attività lavorativa prestata senza vincolo di subordinazione.
Nelle cooperative di produzione e lavoro la prestazione di lavoro viene svolta nell’
ambito di società cooperative costituite allo scopo di svolgere un’attività economica organiz-
zata per il mercato mediante l’utilizzazione del lavoro dei soci, i quali sono titolari del diritto
alle prestazioni mutualistiche, alla ripartizione degli utili ove previsto, e sono obbligati alla
prestazione in adempimento del patto sociale. Il socio lavoratore ha dunque in essere un
duplice rapporto con la cooperativa: uno associativo e l’altro di lavoro; in virtù dei quali il
socio lavoratore partecipa alla gestione e al rischio d’impresa e mette a disposizione della
cooperativa la propria capacità professionale.
CAP. 3 – LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO
AUTONOMIA PRIVATA. In relazione alla struttura del rapporto di lavoro, l’esecuzione del
contratto e il concreto adempimento delle obbligazioni che ne scaturiscono non è demanda-
ta all’autonomia negoziale dei contraenti, poiché la legge interviene per imporre direttamen-
te o indirettamente, attraverso il rinvio ai contratti collettivi, tutta una serie di precise limi-
tazioni al contenuto del contratto e ai comportamenti delle parti in esecuzione dello
stesso: ad esempio, per la determinazione della durata o del contenuto qualitativo della pre-
stazione o per la retribuzione. La disciplina regolatrice del rapporto di lavoro è una discipli-
na inderogabile che, però, non ha natura strettamente imperativa, potendo essere in ogni
momento derogata dall’autonomia privata ma soltanto con disposizioni di favore per il lavo-
ratore: la disciplina imperativa legale è infatti caratterizzata dall’unilateralità o flessibilità
verso l’alto che le deriva dalla validità dei patti più favorevoli al prestatore (inderogabilità
in peius); cosicché, le clausole volute dai contraenti in difformità dai precetti delle norme
imperative di legge sono dalle stesse sostituite di diritto, ai sensi dell’art. 1419 c.c. (“la nul-
lità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono so-
stituite di diritto da norme imperative”). Al meccanismo della sostituzione legale si affian-
ca inoltre quello della inserzione automatica (art. 1339) nel contratto dei precetti di leg-
ge.
In tema di annullamento del contratto, l’art. 21261 dispone che “la nullità o l’annulla-
mento del contratto di lavoro non produce effetti per il periodo in cui il rapporto ha avuto e-
secuzione” e sancisce quindi il principio dell’irretroattività delle vicende tendenti all’elimi-
nazione del negozio invalido: tale irretroattività, estesa anche alla nullità, comporta l’effica-
cia del regolamento di interessi determinato dal contratto invalido limitatamente al periodo
di esecuzione del rapporto.
ART.2126: la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in
cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa. Se
il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in
ogni caso diritto alla retribuzione.
Lo stesso art. 2126 esclude però la conservazione degli effetti del contratto invalido
quando si sia in presenza di nullità derivante da illiceità dell’oggetto o della causa: il con-
tratto relativo a prestazioni lavorative proibite da norme imperative di legge o contrarie all’
ordine pubblico o al buon costume sarà dunque assolutamente inefficace. Al di fuori di que-
sti casi, in tutte le altre ipotesi di annullamento e nullità previste dall’art. 1418 (mancanza di
elementi essenziali, illiceità della causa, illiceità dei motivi se determinanti,
indeterminazione dell’oggetto), l’invalidità sarà temporaneamente inefficace e dal rapporto
sorgeranno valide obbligazioni, dunque il prestatore sarà vincolato alla subordinazione e il
datore alla retribu-zione. La regola dell’inefficacia dell’invalidità è rafforzata dalla
esplicita disposizione del 21262 secondo cui, quando l’invalidità sia conseguenza della
violazione di norme protettive del lavoratore, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione.
L’art.8 della L. 20/05/1970 n. 300 Statuto dei lavoratori, prevede il divieto per il da-
tore di lavoro di raccogliere informazioni non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine
professionale del lavoratore (cd. indagini personali), non solo ai fini dell’assunzione ma
anche durante lo svolgimento del rapporto. Il divieto è sanzionato penalmente dall’art. 38
dello Statuto. Su questo filone anche l’art. 15 dello Statuto che vieta ogni discriminazione
nell’assunzione del lavoratore, sia essa di ordine sindacale, politico, razziale, religioso, di lin-
gua e di sesso, sanzionando anche in questo caso penalmente la violazione del divieto.
FORMAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO. La capacità di prestare lavoro e quindi la legittima-
zione soggettiva del prestatore alla titolarità del rapporto di lavoro, dipende dall’attitudine
fisiologica della persona all’esecuzione della prestazione. Dall’implicazione delle energie del
lavoratore nella prestazione deriva che soltanto le persone fisiche sono capaci di prestare il
proprio lavoro e di agire al riguardo ponendo in essere i relativi negozi. Inoltre, alla capacità
giuridica e di agire in materia di lavoro si applicano tutte le regole generalmente dettate per
la capacità delle persone fisiche, per l’incapacità legale e naturale ad agire. Il minore acqui-
sisce la capacità di stipulare il contratto di lavoro alla stessa età prevista dalle disposizioni
speciali in tema di capacità di prestare il proprio lavoro, età inferiore rispetto a quella fissata
per la capacità di agire in generale. L’età minima di ammissione al lavoro è fissata dalla leg-
ge 977/1967 (modificata dal d.lgs. 345/1999) al momento in cui il minore ha concluso il pe-
riodo di istruzione scolastica obbligatoria, comunque non inferiore ai 15 anni di età: ciò no-
nostante il minore, previa autorizzazione scritta della Direzione provinciale del lavoro e con il
consenso dei titolari della potestà parentale, può essere impiegato anche prima di questo
momento in attività culturali, artistiche, sportive, pubblicitarie e di spettacolo, fatto salvo
comunque l’obbligo scolastico. La speciale capacità in materia di lavoro subordinato implica
dunque la libertà di esercitare il mestiere o la professione e di scegliere l’occupazione prefe-
rita ed esclude chi esercita la potestà parentale sul minore dalla stipulazione del contratto e
dall’esercizio dei diritti e delle azioni che il minore ometta di esercitare.
Per quanto riguarda la figura del datore di lavoro, non sono previsti requisiti soggettivi
speciali e si applicano senza eccezioni le norme dettate per la capacità giuridica e di agire
della generalità dei soggetti, tanto persone fisiche che giuridiche, tanto private che pubbli-
che. Si tende tuttavia a differenziare in questo contesto la posizione legislativa dell’impren-
ditore da quella degli altri datori di lavoro, titolari di attività organizzate ai fini non lucrativi.
Questo perché si impongono una serie di obblighi e limiti soltanto al datore-imprenditore, in
ragione dell’articolazione di un complesso di particolari normative per la tutela individuale e
collettiva del lavoro subordinato alle dipendenze dell’impresa soprattutto media o grande.
Ciò che rileva non è comunque la persona dell’imprenditore, che difatti viene spersonalizza-
to: al lavoro subordinato si applica l’art.1330 in virtù del quale la proposta o l’accettazione
provenienti da un imprenditore restano ferme anche in caso di morte o sopravvenuta inca-
pacità prima della conclusione del contratto; lo stesso principio della continuità dell’impresa
è alla base dell’ art.2112 per il quale, in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavo-
ro continua con il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Per con-
tro, la spersonalizzazione è da ritenersi esclusa dal lato del lavoratore, in ragione della rile-
vanza essenziale della sua persona ai fini dell’esecuzione della prestazione e della
costituzio-ne stessa del rapporto di lavoro (intuitus personae).
Per quanto attiene al procedimento di formazione del contratto di lavoro, la fattispecie
non presenta particolarità rispetto alla normativa generale in tema di formazione del con-
tratto. Nel contratto di lavoro il problema che si presenta è quello di stabilire in quale mo-
mento può considerarsi intervenuto l’incontro delle volontà idoneo a perfezionarne la con-
clusione, ossia quando si verifichi la esatta corrispondenza fra la proposta e l’accettazione:
ciò avviene mediante l’adesione del lavoratore alla proposta del datore di lavoro e questa
circostanza vale ad accostare il contratto individuale di lavoro allo schema del contratto di
adesione (art. 1341, rapporti contrattuali cd. di massa). Ma, diversamente dal contratto di
adesione, nel contratto di lavoro la determinazione uniforme non è unilaterale bensì bilate-
rale: è infatti demandata all’autonomia collettiva mentre all’autonomia individuale compete
in via secondaria la determinazione di eventuali condizioni più favorevoli al lavoratore. Non
sono previste particolari modalità di manifestazione del consenso e vige il principio generale
della libertà della forma, e a tale regola fanno eccezione soltanto il contratto di arruola-
mento marittimo che deve essere concluso per atto pubblico, il contratto a tempo parziale,
per prestazioni di lavoro temporaneo ed il contratto di formazione e lavoro, per i quali è ri-
chiesta la forma scritta. Il datore di lavoro ha però l’obbligo di informare per iscritto il lavo-
ratore circa le principali condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro, in partico-
lare per ciò che concerne identità delle parti, luogo di lavoro, data di inizio del rapporto, du-
rata dell’eventuale prova, qualifica ed inquadramento del lavoratore, trattamento
economico e normativo. Tale obbligo può essere adempiuto, oltre che nell’eventuale
contratto scritto, nella lettera di assunzione o in altro documento da consegnare al
lavoratore entro 30giorni dall’assunzione. Per ciò che riguarda la manifestazione del
consenso, lo svolgimento della prestazione di lavoro può essere ritenuto comportamento
concludente ai fini della prova del contratto e ai fini dell’interpretazione del suo contenuto.
In genere, la proposta di un con-tratto di lavoro proviene dall’iniziativa del datore ed è
formulata o sulla base di condizioni prefissate da un contratto collettivo o per prassi oppure
sulla base di un’offerta che il pre-statore di lavoro spesso non è in condizione di contrattare.
Tra gli elementi accidentali del contratto ha notevole rilevanza il patto di prova, per la
cui validità sono previsti precisi requisiti formali: l’art. 20961 prevede la forma scritta ad
substantiam, dunque in mancanza il patto di prova deve considerarsi nullo e l’assunzione del
lavoratore va considerata definitiva. Poiché la prova è evidentemente uno strumento
predisposto più nell'interesse del datore che del prestatore di lavoro, la legge fissa il limite
massimo del periodo di prova a 6mesi, ma è di regola fissata dai contratti collettivi. La posi-
zione del lavoratore in prova è equiparata a quella derivante dall’ assunzione definitiva: così
ad esempio, in caso di recesso, al lavoratore spettano il t.f.r. e le ferie retribuite; e in caso di
assunzione definitiva, il servizio prestato durante la prova si computa ai fini dell’anzianità di
servizio.
Per quanto riguarda la formazione del consenso, i vizi della volontà che inficiano la
volontà dei contraenti e che sono causa di annullabilità del contratto hanno scarsa rilevanza
in materia lavoristica. Hanno rilievo sicuramente ridotto le ipotesi di violenza morale e dolo;
l’effettiva instaurazione del rapporto, anche soltanto per il periodo di prova, è infatti da rite-
nere incompatibile con la rilevanza dei vizi del consenso: nella misura in cui comporta una
volontaria esecuzione del contratto da parte del contraente legittimato ad agire per l’annul-
lamento, è da ravvisare un’ipotesi di convalida tacita del contratto. Per contro, essendo
piuttosto difficile configurare in concreto ipotesi di errore essenziale sull’ oggetto o, in gene-
rale, sul contenuto del contratto di lavoro, l’ipotesi principale resta quella che si verifichi un
errore essenziale e riconoscibile sulla persona del prestatore, essendo il rapporto di lavoro
configurabile come intuitus personae. Invece, nei casi in cui il contratto di lavoro sia un tipi-
co rapporto di serie, caratterizzato da una determinazione soltanto generica delle qualità ri-
levanti ai fini della selezione dei lavoratori da assumere, diventano piuttosto ristretti i mar-
gini della possibile rilevanza dell’errore essenziale.
Il problema della divergenza tra la volontà e la dichiarazione si presenta a proposi-
to della simulazione (art. 1414). Con riguardo al rapporto di lavoro tuttavia la prevalenza
del contratto effettivo dissimulato su quello apparente simulato può operare soltanto entro i
limiti posti dall’ordinamento all’autonomia privata sia in generale a tutela dell’interesse per-
seguito in concreto dalle parti, sia in particolare dalla disciplina imperativa del rapporto di
lavoro: troverà dunque applicazione la regola della nullità del contratto in frode alla
leg-ge tutte le volte che un intento fraudolento sia rinvenibile all’origine del contratto
dissimula-to.
CAP. 4 – LA PRESTAZIONE DI LAVORO
POTERE DIRETTIVO E POTERE DISCIPLINARE. L’obbligazione alla subordinazione vincola il lavo-
ratore a sottoporsi, nell’esecuzione dell’attività, alle direttive del datore, titolare non di una
semplice pretesa alla prestazione, ma anche di un potere direttivo sulla sua esecuzione.
L’art.2104 fissa i due requisiti caratteristici della subordinazione, ossia la diligenza e l’obbe-
dienza. La diligenza può differenziarsi secondo il tipo di lavoro e quindi di mansioni: i criteri
per la valutazione della diligenza sono l’interesse dell’impresa e l’interesse superiore della
produzione nazionale. Quest’ultima formulazione rinvia all’ideologia corporativa secondo cui
tutte le attività economiche professionali dovevano tendere ad un fine comune definito dalla
Carta del Lavoro come l’interesse superiore della nazione; tale disposizione è stata implicita-
mente abrogata per effetto della caduta dell’ordinamento corporativo. Per quanto riguarda
l’interesse dell’impresa, è possibile considerarlo in senso oggettivo, come istituzione, o in
senso soggettivo, come interesse dell’imprenditore: la formulazione prevalente individua
l’interesse dell’impresa con riferimento all’imprenditore, dunque in senso soggettivo come
specifico interesse dell’imprenditore all’esercizio della propria attività di organizzazione del
lavoro alle proprie dipendenze. L’obbedienza si manifesta nell’osservanza delle disposizioni
impartite per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro. Titolare del potere direttivo è l’im-
prenditore e il suo esercizio può essere demandato ai collaboratori.
ART. 2104 – DILIGENZA DEL PRESTATORE DI LAVORO: il prestatore di lavoro deve usare la diligenza ri-
chiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della
produzione nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del la-
voro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.
L’art. 2105 prevede a carico del prestatore di lavoro l’ulteriore obbligo di fedeltà a tu-
tela dell’ interesse dell’imprenditore alla competitività dell’impresa. Tale obbligo si sostanzia
nel divieto di svolgere attività in concorrenza con quella dell’impresa e nel divieto di divulga-
re o utilizzare a vantaggio proprio o altrui notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di
produzione, in modo da poter anche solo potenzialmente arrecare ad essa pregiudizio. L’art.
2125 ha previsto la possibilità di stipulare un patto di non concorrenza anche per un periodo
successivo alla cessazione del rapporto: 3anni in via generale, 5per i dirigenti, e si tratta di
limiti massimi di durata che si sostituiscono di diritto all’eventuale durata maggiore conve-
nuta dalle parti. In ogni caso però, è richiesta la forma scritta ad substantiam, deve essere
stabilito un corrispettivo e il vincolo deve essere delimitato anche con riferimento al luogo e
all’oggetto. Viceversa non costituisce concorrenza l’attività inventiva del lavoratore. Il RD
1127/1939 in tema di brevetti industriali stabilisce che, se l’attività inventiva è oggetto del
contratto di lavoro, i diritti derivanti dall’invenzione fatta dal lavoratore (cd. invenzione di
servizio) appartengono al datore; quando invece l’attività inventiva non sia oggetto del con-
tratto di lavoro, ma l’invenzione sia comunque fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di
un contratto di lavoro (cd. invenzione aziendale), i diritti derivanti dalla stessa spettano al
datore, ma il lavoratore ha diritto ad un equo premio proporzionato all’importanza di essa;
quando infine l’invenzione sia fatta indipendentemente dal rapporto di lavoro (cd. invenzio-
ne occasionale) ma rientra nel campo di attività dell’impresa, i diritti che ne derivano spet-
tano al prestatore, ma il datore di lavoro ha diritto di prelazione per l’uso della stessa o per
l’acquisto del brevetto ed il canone o il prezzo di acquisto sono fissati deducendo una som-
ma corrispondente agli aiuti che l’inventore abbia comunque ricevuti dal datore di lavoro.
ART. 2105 – OBBLIGO DI FEDELTÀ: il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o
di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi
di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
L’inosservanza delle disposizioni impartite dall’imprenditore può essere sanzionata me-
diante l’irrogazione di sanzioni disciplinari che l’imprenditore può applicare in proporzione
alla gravità dell’infrazione e in conformità delle norme dei contratti collettivi. In particolare,
le sanzioni previste dai contratti collettivi in relazione alle mancanze elencate dagli stessi so-
no il rimprovero verbale o scritto, la multa, la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, ed
il licenziamento.
Le norme (artt.1-13) dello Statuto del lavoratori, perseguendo l’obiettivo di tutelare la li-
bertà e la dignità del lavoratore, hanno introdotto una serie di limiti più o meno penetranti
all’esercizio dei poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro. Innanzitutto, l’art.7 dello
Statuto subordina l’esercizio del potere disciplinare alla pubblicazione di un regolamento o
codice disciplinare da portare a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo ac-
cessibile a tutti; inoltre, nessun provvedimento disciplinare può essere adottato nei confron-
ti del lavoratore senza che gli sia stato preventivamente contestato l’addebito e senza che
sia stato sentito a sua difesa. Sul piano dei limiti sostanziali la norma, restringendo la gam-
ma delle sanzioni disciplinari, ha escluso che le stesse possano comportare mutamenti defi-
nitivi del rapporto (retrocessione, trasferimento e simili), salvo il caso del licenziamento. Es-
sa ha previsto anche limiti massimi all’entità delle sanzioni irrogabili: 10giorni per la sospen-
sione; l’importo di 4ore della retribuzione base per la multa; inoltre i provvedimenti più gra-
vi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi 5giorni dal-
la contestazione scritta del fatto. Il lavoratore al quale sia stata comminata la sanzione ha
poi la facoltà di impugnarla entro 20giorni davanti ad un collegio di conciliazione ed arbi-
trato: questa comporta la sospensione del provvedimento sanzionatorio fino alla definizione
del giudizio. Infine, un importante limite sostanziale è rappresentato da quello posto alla ri-
levanza della cd. recidiva: non si può tener conto di una sanzione disciplinare decorsi 2anni
dalla sua applicazione.
L’art.2 dello Statuto consente l’impiego delle guardie giurate soltanto per scopi di sal-
vaguardia del patrimonio aziendale, vieta di adibire le guardie giurate a compiti di vigilanza
sull’attività lavorativa e ne interdisce l’accesso ai locali in cui si svolge l’attività lavorativa
durante l’orario di lavoro, fatte salve specifiche e motivate esigenze di salvaguardia dei beni
aziendali. Alla tutela del patrimonio aziendale sono finalizzate anche le visite personali di
controllo, consentite solo in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro, delle materie
prime e dei prodotti; le modalità della loro attuazione sono concordate con le rappresentan-
ze sindacali aziendali.
Per quanto riguarda il controllo funzionale sull’attività lavorativa, l’art.3 dispone che i
nominativi e le specifiche mansioni del personale addetto alla vigilanza sull’attività lavo-
rativa siano preventivamente comunicati ai lavoratori interessati. L’art.4 regola i controlli a
distanza vietando gli impianti audiovisivi ed altri apparecchi finalizzati esclusivamente alla
vigilanza a distanza sull’attività lavorativa: tali apparecchi sono consentiti solo nei casi giu-
stificati da obiettive esigenze organizzative e produttive o di sicurezza del lavoro anche se la
loro installazione è subordinata al previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali
nei casi in cui dagli impianti possa derivare il controllo anche sull’attività lavorativa.
L’art.5 disciplina gli accertamenti sanitari, in primo luogo quelli diretti a controllare la
giustificazione dell’assenza del lavoratore in caso di infermità. La norma ha vietato la prassi
di far controllare da un medico di fiducia del datore di lavoro lo stato di malattia giustificati-
vo dell’assenza dal lavoro ai sensi dell’art. 2110 e di sanzionare il prestatore nel caso in cui
non fosse riconosciuto temporaneamente inabile: il controllo può avvenire soltanto attraver-
so un accertamento medico effettuato da organismi pubblici su richiesta del datore di lavo-
ro. L’art. 53 prevede poi la facoltà di far controllare l’idoneità fisica del lavoratore da parte di
enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico. Il d.lgs. 626/1994 ha previsto che il
datore di lavoro debba nominare un medico competente per la sorveglianza sanitaria dei
lavoratori addetti a determinate lavorazioni considerate particolarmente rischiose; il medico
competente potrà essere dipendente di una struttura pubblica o privata convenzionata con
l’imprenditore, un libero professionista, o anche un dipendente del datore di lavoro; a tale
soggetto spetta anche il compito di effettuare gli accertamenti preventivi e periodici al fine
di valutare l’idoneità del lavoratore ad una specifica mansione; e contro l’accertamento di
inidoneità parziale o totale del la-voratore è ammesso ricorso all’organo di vigilanza territo-
rialmente competente.
MANSIONI E QUALIFICA. Le mansioni costituiscono l’insieme dei compiti e delle operazioni
che il lavoratore individualmente può essere chiamato a svolgere e che possono essere pre-
tesi dal datore di lavoro: sono quindi il criterio di determinazione qualitativa della prestazio-
ne lavorativa dedotta in contratto. Esse si identificano, dal punto di vista dell’organizzazione
del lavoro, con la posizione di lavoro e, dal punto di vista della struttura dell’obbligazione,
con l’oggetto della prestazione di lavoro. Le stesse mansioni possono essere individuate an-
che senza considerare direttamente l’attività complessiva che deve essere svolta, bensì indi-
cando quest’ultima per mezzo di una qualifica riferita al lavoratore addetto a quelle man-
sioni. Le diverse mansioni danno luogo a diverse prestazioni di lavoro, le quali possono pre-
sentare un diverso grado di complessità o di penosità: di qui l’esigenza di una differenziazio-
ne delle condizioni della prestazione e della retribuzione del lavoro, oltre ad un trattamento
salariale e normativo che il datore di lavoro è tenuto ad osservare; tale differenziazione è di
solito collegata alla diversa valutazione del contenuto professionale delle mansioni. Questa
valutazione non è arbitraria ma dipende dal mercato del lavoro.
L’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione,
la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato
assunto. Ma l’art. 2103 prevede che il lavoratore possa essere adibito non solo alle mansio-
ni di assunzione ma anche a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia suc-
cessivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, per
cui una analoga comunicazione della categoria e della qualifica si dovrà fare nelle ipotesi di
mutamento definitivo di mansioni. L’assegnazione delle mansioni è il presupposto per l’in-
quadramento individuale del prestatore di lavoro nel sistema di classificazione profes-
sionale: tale sistema si articola nelle categorie previste dall’art. 2095 (categorie legali) e
nelle qualifiche indicate dai contratti collettivi (categorie contrattuali).
L’art.2095 prevede una ripartizione dei lavoratori in dirigenti, quadri, impiegati ed ope-
rai, e prevede inoltre che le leggi speciali e i contratti collettivi, in relazione alla particolare
struttura dell’impresa, determinino i requisiti di appartenenza alle categorie indicate (cd. in-
quadramento collettivo). Per la categoria impiegatizia, e di riflesso per quella operaia, tali
requisiti sono tuttora fissati dall’art.1 della legge sull’impiego privato (RDL 1825/1924), le
cui norme si applicano in via sussidiaria alla contrattazione collettiva: questa infatti può de-
terminare i criteri di appartenenza alle categorie legali, stabilire direttamente i relativi trat-
tamenti economici e normativi con il solo limite della immodificabilità in peius dei trattamen-
ti legali, e può anche costituire e definire proprie categorie sia all’interno delle categorie le-
gali sia mediante l’accorpamento di qualifiche appartenenti a diverse categorie legali.
La distinzione tra impiegati ed operai è in realtà sfumata sul piano dell’organizza-
zione del lavoro, con la conseguenza che la sua concreta applicazione si presenta spesso
problematica. Il RDL 1825/1924 definisce impiegato colui che svolge al servizio dell’azienda,
quindi con vincolo di subordinazione, una attività professionale con funzioni di collaborazio-
ne tanto di concetto che di ordine, eccettuata pertanto ogni prestazione che sia semplice-
mente di manodopera. Oggi in realtà l’impiegato si trova spesso a svolgere un lavoro mec-
canizzato e ripetitivo simile a quello dell’operaio e l’operaio svolge un lavoro che può essere
notevolmente più intellettuale di quello di molti impiegati di bassa qualificazione: dunque la
distinzione tra manualità e intellettualità della prestazione non è attendibile. Anche per que-
sto motivo la distinzione tra categoria impiegatizia e categoria operaia è stata superata dalla
contrattazione collettiva, la quale ha realizzato un nuovo sistema di classificazione profes-
sionale non più fondato sulla separazione tra operai e impiegati, bensì sulla loro unificazione
normativa: il sistema dell’inquadramento unico infatti si articola su più livelli comuni ad
entrambe. Si ha una classificazione generalmente in 7 o 8 categorie corrispondenti ad al-
trettanti livelli retributivi: l’appartenenza a tali livelli è determinata in base alle definizioni o
declaratorie generali delle caratteristiche dell’attività prestata e all’elencazione o
esempli-ficazione dei diversi profili professionali specifici, e quindi delle mansioni o delle
professio-nalità comprese in ciascuna categoria. I livelli sono definiti in relazione alla
valutazione della professionalità e raggruppano un’ampia serie di specifici profili
professionali individuati sulla base delle caratteristiche professionali della prestazione
(abilità, conoscenza, esperienza) e non più sulla descrizione delle mansioni.
La categoria dei dirigenti è di formazione relativamente recente, perché in un primo
tempo i dirigenti vennero considerati impiegati con funzioni direttive. Attualmente, la con-
trattazione collettiva qualifica come dirigenti i lavoratori che ricoprono nell’azienda un ruolo
caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed e-
splicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli o-
biettivi dell’impresa. In realtà, la distinzione tra impiegati con funzioni direttive, e in partico-
lare quadri, e dirigenti può essere difficile: ciò spiega la scelta della contrattazione collettiva
di subordinare l’attribuzione della qualifica dirigenziale alla nomina da parte dell’imprendito-
re. La giurisprudenza infine sostiene che è dirigente colui che l’imprenditore ha preposto ad
un ramo autonomo dell’azienda, così lasciando intendere che caratteristica fondamentale
del rapporto di dirigenza sia il vincolo fiduciario con l’imprenditore.
La L.190/1985 riconosce la figura giuridica dei quadri intermedi: sono quadri i lavora-
tori che svolgono funzioni a carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello svi-
luppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa. Fino all’emanazione di questa legge il co-
dice civile distingueva i lavoratori esclusivamente in dirigenti amministrativi e tecnici, impie-
gati e operai; a partire dagli anni ’70 invece erano venute emergendo nelle realtà aziendali
nuove figure professionali collegate alle innovazioni tecnologiche. La L.190 tuttavia pur for-
nendo una definizione legislativa della figura professionale di quadro intermedio, rinvia alla
contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la determinazione dei requisiti di apparte-
nenza alla nuova categoria in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare strut-
tura organizzativa dell’impresa. Per quanto riguarda la disciplina del rapporto, la legge es-
tende alla nuova categoria le norme applicabili agli impiegati. La definizione della categoria
dei quadri intermedi ha in comune con quella dirigenti la rilevanza attribuita alle funzioni e
non alle mansioni svolte dal prestatore.
La prestazione di lavoro nel corso del tempo può subire modifiche unilaterali per volon-
tà del datore di lavoro: l’art. 2103 è stato successivamente novellato dall’art. 13 dello Sta-
tuto dei lavoratori, per cui il prestatore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato
assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acqui-
sito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzio-
ne della retribuzione. La mobilità verso il basso, che in precedenza era ammessa sia in
via unilaterale che per esigenze dell’impresa, ora è esclusa salvo alcune tassative eccezioni:
in presenza di esigenze straordinarie sopravvenute; nel caso delle lavoratrici madri le quali
devono essere adibite a mansioni non pregiudizievoli alla loro salute, ancorché inferiori a
quelle di appartenenza, con diritto peraltro alla conservazione della retribuzione di prove-
nienza; per l’accordo sindacale relativo alla procedura di licenziamento per riduzione di per-
sonale che preveda il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori esuberanti; per soprav-
venuta inabilità allo svolgimento delle mansioni di assegnazione per infortunio o malattia,
con diritto alla conservazione della retribuzione di provenienza. Nel caso di illegittima adibi-
zione a mansioni inferiori o dequalificazione, la giurisprudenza riconosce al lavoratore il di-
ritto al risarcimento del danno, sia patrimoniale sia non patrimoniale.
È invece ammessa senza riserve la mobilità orizzontale, ossia assegnare il lavoratore
a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Si può ritenere che il criterio dell’e-
quivalenza si ricolleghi al requisito dell’affinità tra le vecchie e le nuove mansioni, adoperato
in vigenza del vecchio art.2103: tuttavia, mentre l’affinità aveva riguardo esclusivo alle
mansioni oggettivamente considerate, il criterio dell’equivalenza può includere anche un ri-
ferimento soggettivo alla capacità professionale del lavoratore. In ogni caso, non basta che
due posizioni di lavoro siano retribuite in ugual misura per poter affermare che le rispettive
mansioni siano equivalenti.
Per quanto riguarda infine la mobilità verso l’alto, l’art. 2103 permette senza riserve
l’assegnazione a mansioni superiori, stabilendo che in questo caso il prestatore ha diritto al
trattamento corrispondente all’attività svolta e che l’assegnazione stessa diviene definitiva,
qualora non abbia avuto luogo per la sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla
conservazione del posto di lavoro, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi comunque
non superiore a 3mesi. Nelle ipotesi di assegnazione a mansioni di quadro intermedio o diri-
gente invece il diritto alla qualifica superiore matura dopo un periodo di almeno 3mesi di
svolgimento delle mansioni superiori o dopo quello più alto eventualmente fissato dai con-
tratti collettivi.
L’art.2103 novellato dallo Statuto disciplina anche il trasferimento del lavoratore ad
altra unità produttiva: questo può essere disposto dall’imprenditore soltanto per comprovate
ragioni tecniche o organizzative, che l’imprenditore ha l’onere di provare (art. 2697). Qualo-
ra il trasferimento sia disposto in assenza dei presupposti legali, è da considerarsi illegitti-
mo, il lavoratore può domandare in giudizio l’accertamento della nullità e rifiutarsi di ottem-
perare al provvedimento del datore. Per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive in
qualità di amministratori locali è richiesto il loro consenso espresso, nel caso in cui il trasfe-
rimento avvenga durante l’esercizio del mandato. È comunque vietato il trasferimento che
sia dettato da motivi di discriminazione sindacale, politica, religiosa, di razza o di sesso; infi-
ne è vietato il trasferimento non consensuale del lavoratore che assista con continuità un fa-
miliare disabile convivente.
AMBIENTE DI LAVORO. In Italia è stato introdotto un organico sistema di assicurazioni so-
ciali contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, in virtù del quale tutti i lavora-
tori addetti alle lavorazioni indicate come potenzialmente pericolose o nocive hanno il diritto
di essere assicurati contro gli eventi dannosi lesivi della attitudine psico-fisica al lavoro che
potrebbero derivare alla persona del lavoratore, indipendentemente dalla colpa dell’impren-
ditore o dello stesso lavoratore, dunque anche per caso fortuito. In questo sistema il datore
di lavoro è esonerato dalla responsabilità civile: tenuto a risarcire il lavoratore è l’ente assi-
curatore, con prestazioni che vanno da un’indennità per i periodi di sospensione del lavoro
causato dall’infortunio o malattia, fino al pagamento di una rendita nel caso in cui dall’even-
to lesivo sia derivata una inabilità permanente al lavoro.
L’art.2087 stabilisce che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa
le misure che, secondo la particolarità de lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, e pone a carico del
datore uno speciale ed autonomo obbligo di protezione della persona del lavoratore. Inol-
tre, l’art.9 dello Statuto attribuisce ai lavoratori il diritto di esercitare, a mezzo di proprie
rappresentanze, il controllo sull’applicazione in azienda delle norme per la prevenzione degli
infortuni e delle malattie professionali: il contenuto di tale diritto è innovativo in quanto si
può esplicare non solo attraverso il controllo delle condizioni di lavoro esistenti, ma anche
attraverso la promozione di nuove misure.
Il D.Lgs.626/1994 individua alcune specificazioni dell’obbligo di protezione: è prevista
la valutazione ed eliminazione dei rischi e la programmazione della prevenzione, attuata an-
che mediante il rispetto dei principi ergonomici nelle scelte attinenti all’ambiente di lavoro; è
imposto un uso ridotto di agenti chimici, fisici e biologici ed è resa obbligatoria l’informazio-
ne, formazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti sulle
questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro. Viene resa obbligatoria in
tutte le aziende la designazione di uno o più rappresentanti per la sicurezza, a seconda delle
dimensioni aziendali. Il rappresentante per la sicurezza, che non coincide con le rappresen-
tanze di cui all’art.9 dello Statuto, ha diritto alle informazioni relative all’ambiente di lavoro e
va consultato in ordine alla valutazione dei rischi, all’individuazione, programmazione, re-
alizzazione e verifica della prevenzione nell’azienda. Il D.Lgs.626 prevede inoltre a carico del
datore l’obbligo di effettuare una valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavo-
ratori, e di elaborare un piano di sicurezza ambientale.
Un’analoga esigenza di tutela della persona del prestatore di fronte all’organizzazione
del lavoro è alla base della disciplina limitativa della durata massima della prestazione
di lavoro. Nel contratto di lavoro subordinato la dimensione temporale funge da criterio di
de-terminazione quantitativa della prestazione lavorativa e di quella retributiva; l’orario di
lavo-ro funge inoltre da limite massimo di esigibilità della prestazione di lavoro da parte del
dato-re. La durata massima giornaliera e settimanale della prestazione è fissata dalla legge,
e so-lo entro tali limiti l’autonomia privata può disporne: gli artt.2107, 2108, 2109 dedicate
all’o-rario di lavoro, al lavoro straordinario e notturno e al periodo di riposo, impongono
infatti all’ autonomia di entrambi i contraenti tutta una serie di limiti massimi alla durata del
lavoro.
In base al R.D.L.692/1923 la durata massima normale del lavoro effettivo non poteva
essere superiore ad 8ore giornaliere o 48settimanali, una formulazione ambigua che ha fat-
to molto discutere in merito alla concorrenza o alternatività dei due limiti; per lavoro effetti-
vo si intende quello che richiede una applicazione assidua e continuativa del prestatore, al
netto quindi dei riposi intermedi e delle soste. Il lavoro straordinario, inteso come prolunga-
mento dell’orario normale di lavoro, poteva essere svolto soltanto previo accordo tra le par-
ti, non poteva superare i limiti massimi di 2ore giornaliere e 12 settimanali (questa volta i li-
miti sono concorrenti) e doveva essere ricompensato con una maggiorazione della retribu-
zione oraria nella misura minima del 10%. Ulteriore forma di variabilità dell’orario di lavoro
era data dalla previsione che nei lavori agricoli e negli altri lavori per i quali ricorrono neces-
sità imposte da esigenze tecniche o stagionali, i predetti limiti di 8 e 48ore potessero essere
superati, purché la durata media del lavoro non eccedesse i limiti stabiliti con provvedimen-
to ministeriale (orario multiperiodale). Era esplicitamente ammesso il lavoro notturno, men-
tre da tutti questi limiti erano esclusi gli impiegati di concetto con mansioni direttive.
La L.196/1997 ha modificato il preesistente limite delle 48ore settimanali previste co-
me orario massimo stabilendo che l’orario normale di lavoro è fissato in 40ore settimanali. Il
lavoro straordinario è ammesso in generale solo previo accordo delle parti, al prestatore
spetta una maggiorazione della retribuzione oraria non inferiore al 10% e la prestazione
straordinaria non può superare le 12ore settimanali. La contrattazione collettiva nazionale
può abbassare la soglia delle 40ore, e può riferire l’orario nomale alla durata media delle
prestazioni lavorative in un periodo non superiore ad 1anno. Nelle imprese industriali il ri-
corso al lavoro straordinario deve essere contenuto per un periodo non superiore a 250ore
annuali e a 80ore trimestrali. Inoltre, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, il lavo-
ro straordinario è consentito esclusivamente: in caso di eccezionali esigenze tecnico produt-
tive che non possono essere fronteggiate attraverso l’assunzione di altri lavoratori; nei casi
di forza maggiore o quando la cessazione del lavoro a orario normale costituisca pericolo per
le persone o per la produzione; nelle ipotesi di mostre, fiere e manifestazioni collegate all’
attività produttiva dell’impresa. L’introduzione del lavoro notturno, ossia un periodo di alme-
no 7ore consecutive di lavoro comprendenti l’intervallo fra la mezzanotte e le 5del mattino,
deve essere preceduta da una consultazione sindacale, mentre è demandato alla contratta-
zione collettiva il compito di disciplinare aspetti di rilievo dell’istituto, nel rispetto della salu-
te psico-fisica dei lavoratori.
Le pause di riposo hanno la funzione di tutelare la reintegrazione della personalità fi-
sica e morale del lavoratore, nella sua dimensione sociale e culturale. Oltre alle pause gior-
naliere ci sono le festività infrasettimanali, le pause settimanali e le pause di riposo annuali,
il cui diritto è sancito dall’art. 2109 ed espressamente garantito come diritto irrinunciabile
dall’art.36Cost. Il riposo feriale deve essere retribuito in misura normale come se fosse tem-
po lavorato e deve essere goduto dal lavoratore nell’ arco di un periodo di tempo continuati-
vo: all’imprenditore spetta tuttavia il potere di fissare il tempo di fruizione delle ferie. La du-
rata del periodo feriale è in genere fissata dai contratti collettivi in misura proporzionale all’
anzianità di servizio del dipendente e diversificata per ciascuna categoria di prestatori di
lavoro.
CAP. 5 – LA RETRIBUZIONE
L’OBBLIGAZIONE RETRIBUTIVA. La retribuzione è l'obbligazione fondamentale a cui il datore
di lavoro è tenuto nei confronti del prestatore. Può essere considerata il corrispettivo della
messa a disposizione delle energie lavorative, che però non risponde a criteri strettamente
economici essendo numerosi i fattori sociali e politico-sindacali che intervengono nella de-
terminazione del suo ammontare. Per l’esatto adempimento dell’obbligo della prestazione
retributiva, il datore di lavoro è sottoposto alle regole generali degli artt.1176 e 1182, ossia
comportamento secondo la normale diligenza del buon padre di famiglia e obbligo del risar-
cimento danni in caso di ritardo o inadempimento imputabile, mentre l’art.2099 stabilisce
che i tempi e le modalità del pagamento devono essere quelli in uso nel luogo dove viene
eseguito il lavoro. Il datore ha infine l’obbligo di accompagnare la corresponsione della re-
tribuzione con la consegna di un prospetto paga analitico delle diverse voci che la com-
pongono.
L’ammontare della retribuzione deve essere determinato commisurandolo al quan-
tum della prestazione lavorativa, dunque attraverso la misura del tempo lavorato eseguita
direttamente sulla base del tempo impiegato per l’erogazione della forza lavoro offerta dal
prestatore, oppure indirettamente sulla base del risultato produttivo ottenuto mediante l’e-
rogazione della stessa. L’art.2099 attribuisce in via primaria ai contratti collettivi la funzione
di stabilire la misura della prestazione dovuta dal datore di lavoro. Questa disposizione trova
riscontro nell’art.36Cost. che riconosce al lavoratore il diritto soggettivo alla retribuzione mi-
nima sufficiente, in particolare il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa. In virtù del requisito della proporzionalità la retribuzione de-
ve essere determinata secondo un criterio oggettivo di equivalenza alla quantità e qualità
del lavoro, per cui la sua determinazione dipende non soltanto dalla durata e dall'intensità
della prestazione, ma anche dal tipo di mansioni espletate e dalle loro caratteristiche intrin-
seche; la proporzionalità tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro deve essere conte-
nuta in ogni caso nei limiti necessari a garantire la sufficienza della retribuzione stessa, cioè
la misura minima della retribuzione deve andare oltre il minimo vitale o di sussistenza, rea-
lizzando in questo modo la garanzia di una retribuzione adeguata alle esigenze sociali. Il
principio della retribuzione minima sufficiente funge da limite all’autonomia contrattuale del-
le parti nella determinazione del contenuto del contratto di lavoro.
La giurisprudenza ha operato un raccordo tra l’art.361Cost. e l’art.20992, il quale dispo-
ne che, in mancanza di norme di contratti collettivi o di accordo individuale tra le parti, la
retribuzione sia determinata dal giudice, tenuto conto del parere delle associazioni profes-
sionali: in generale il contratto è nullo se il suo oggetto non è determinato, quindi la man-
canza dell’accordo tra le parti sulla retribuzione dovrebbe viziare di nullità l’intero contratto
con la conseguenza di rendere applicabile l’art.2126 per il periodo in cui il rapporto ha avuto
esecuzione; l’art.2099 invece deroga alla disposizione generale stabilendo che, nell’ipotesi
del contratto di lavoro, il difetto di un elemento essenziale qual è la retribuzione non sia
causa di nullità ma di integrazione della lacuna esistente nel contratto, del quale si dispone
comunque la conservazione.
LA STRUTTURA DELLA RETRIBUZIONE. L’art.2099 dice che ci sono due sistemi principali di re-
tribuzione: quella a tempo e quella a cottimo; la norma richiama inoltre alcuni sistemi se-
condari come la partecipazione agli utili o ai prodotti e la provvigione, ai quali corrisponde
una retribuzione in natura. La determinazione della retribuzione è affidata ai contratti collet-
tivi o agli accordi individuali se questi sono più favorevoli al prestatore, sempre nell’osser-
vanza dell’art.36Cost. È a tempo la retribuzione commisurata al tempo della prestazione
del lavoro; invece il cottimo considera il risultato del lavoro come criterio per la determina-
zione quantitativa della prestazione. Altro sistema è quello della partecipazione agli utili,
per cui il prestatore viene retribuito in tutto o in parte con una percentuale sugli utili conse-
guiti dall’imprenditore nell’esercizio della sua attività. Ancora, il sistema della partecipazione
ai prodotti dell’impresa che ha come parametro di riferimento, non gli utili, ma la produzio-
ne aziendale. In ultimo, la provvigione è una particolare forma di partecipazione ai prodot-
ti usata nel settore commerciale e degli affari: in questi casi la retribuzione è calcolata in
percentuale rispetto al volume di affari procurato all’imprenditore.
Nell’ambito della retribuzione a tempo, un’importante distinzione si opera tra la retri-
buzione oraria e quella mensile che corrisponde tradizionalmente alla distinzione tra operai
e impiegati: la prima è in genere chiamata salario, la seconda stipendio. La differenza non è
il temine di adempimento dell’ obbligazione retributiva, perché in entrambi i casi il termine
può essere la fine del mese o un periodo più breve. La differenza sta piuttosto nel fatto che
la retribuzione oraria è calcolata sulla base delle ore lavorate nel mese, mentre con la retri-
buzione mensile il datore si assume il rischio della mancata prestazione di lavoro entro il
mese. In entrambi i casi, sulla retribuzione normale, corrisposta come compenso per la pre-
stazione resa nell’orario normale di lavoro, si calcolano tutte le maggiorazioni per lavoro
straordinario, festivo e notturno. L’art.2108 dispone che in caso di prolungamento dell’orario
normale il prestatore sia compensato con un aumento, che in genere è fissato dai contratti
collettivi, ma la legge prevede che non possa essere comunque inferiore al 10% della retri-
buzione del lavoro ordinario: analoga maggiorazione è stabilita per il lavoro notturno non
compreso in regolari turni periodici, mentre l’eventuale lavoro festivo (sia domenicale che
infrasettimanale) va compensato con un’ulteriore retribuzione, che si aggiunge a quella nor-
male e con la maggiorazione prevista dai contratti collettivi. Infine, la mancata fruizione del
riposo feriale da parte del lavoratore è accompagnata dal diritto all’ulteriore retribuzione per
il lavoro prestato, che si aggiunge quindi a quella dovuta per le ferie.
I contratti collettivi o individuali possono prevedere elementi accessori della retribu-
zione consistenti in attribuzioni corrisposte in aggiunta alla paga base in maniera saltuaria o
continuativa. Ne fanno parte i superminimi, corrispondenti a quella parte della retribuzione
che supera i minimi tariffari previsti dai contratti collettivi, e che vengono assegnati indivi-
dualmente o collettivamente, di regola a livello aziendale. Vi rientrano anche le mensilità
supplementari, come la tredicesima o gratifica natalizia. Sono elementi accessori inoltre le
indennità previste dalla contrattazione collettiva per compensare l’esecuzione di lavori disa-
giati, gravosi o comunque considerati penosi rispetto allo standard normale della prestazio-
ne (cd. monetizzazione del rischio o disagio della prestazione). Inoltre, troviamo i premi col-
lettivi di produzione o di rendimento istituiti nell’intento di far partecipare il lavoratore, at-
traverso un’integrazione della retribuzione, ai benefici della produttività aziendale misurata
attraverso indicatori tecnici ed economici. Infine, i premi di presenza, rivolti a disincentivare
l’assenteismo. Un cenno a sé merita l'indennità di contingenza, istituto volto a correggere,
almeno in parte, la natura della retribuzione come credito di valuta e, quindi, ad adeguarne
il valore nominale a quello reale. Il sistema si è basato fin dall'origine sulla c.d. scala mobi-
le, meccanismo che comporta un adeguamento automatico del livello retributivo al costo
della vita attraverso il riferimento alle variazioni dei prezzi di particolari beni costituenti il
c.d. paniere. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Settanta, l'istituto della scala mobile è
entrato in crisi e dopo vari interventi legislativi è stato soppresso con il protocollo triangola-
re di intesa tra Governo e parti sociali del 31 luglio 1992.
Storicamente, la retribuzione a cottimo è stata la forma tipica della retribuzione del
lavoro autonomo. Nella fase di transizione dall’industria artigiana e domestica all’industria
manifatturiera, il cottimo si identifica con il compenso, commisurato al risultato, della loca-
zione d’opera. Successivamente la forma del cottimo viene utilizzata anche nel lavoro subor-
dinato non più per determinare il contenuto della prestazione lavorativa, ma per misurare la
retribuzione in proporzione ad un risultato predeterminato. Nel cottimo il rischio della pro-
duttività del lavoro resta a carico del datore per ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro
e il risultato della prestazione nel suo complesso; mentre viene parzialmente trasferito a ca-
rico del prestatore per ciò che riguarda la quantità della retribuzione. In realtà nella struttu-
ra della retribuzione il cottimo si configura come una maggiorazione (percentuale o utile di
cottimo) integrativa della retribuzione fissa (o minimo di paga base calcolato a tempo);
mentre la retribuzione a cottimo integrale o puro è di fatto limitata al lavoro a domicilio. Se-
condo l’art.2100 il prestatore deve essere necessariamente retribuito a cottimo tutte le volte
che: in conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è vincolato all’osservanza di un determi-
nato ritmo produttivo (catena di montaggio); oppure nelle lavorazioni ad economia di tempo
in cui la valutazione della sua prestazione sia fatta in base alle misurazioni dei tempi di lavo-
razione. L’art.2101 disciplina l’intervento del sindacato nella formazione delle tariffe di cotti-
mo, disponendo che i contratti collettivi possono stabilire che le tariffe non divengano defini-
tive se non dopo un periodo di esperimento e che possono essere sostituite soltanto se in-
tervengono mutamenti nelle condizioni di lavoro e in ragione degli stessi. Infine, l’imprendi-
tore ha l’obbligo di comunicare preventivamente ai prestatori di lavoro i dati riguardanti gli
elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguire e il relativo compenso
unitario (bolla di cottimo).
Non tutto ciò che il datore eroga al lavoratore fa parte della retribuzione: per l’art.2094
requisito indefettibile della nozione di retribuzione in senso stretto è l’obbligatorietà dell’
attribuzione mentre la continuità della corresponsione e la predeterminatezza
dell’ammonta-re fungono da indici presuntivi di tale obbligatorietà, distinguendola da tutte
le altre presta-zioni che presentano i caratteri della straordinarietà e dell’eventualità nella
corresponsione e nell’ammontare. In giurisprudenza, perché si abbia retribuzione occorre
che la prestazione sia dovuta al lavoratore in via necessaria e non eventuale, come
compenso di una specifi-ca attività di lavoro ordinario o straordinario. Nella definizione
legislativa della retribuzione vige il principio di onnicomprensività della retribuzione, per
il quale essa ricomprende non solo il compenso che costituisce il diretto corrispettivo della
prestazione lavorativa, ma anche tutti gli emolumenti che presentano carattere
continuativo, periodico o costante nel tempo. Tale principio non è privo di risvolti sul piano
pratico: primo fra tutti, quello dell'indi-viduazione delle erogazioni che possono essere prese
in considerazione per il calcolo di isti-tuti che assumono la retribuzione come base di
computo. La giurisprudenza era, in passato, nel senso della onnicomprensività della
retribuzione, sostenuta sulla base di una congerie di argomentazioni, delle quali la più
rilevante era quella dell'applicazione estensiva dell'art. 2121. Oggi, anche a causa della
modifica di tale articolo ad opera della L.297/1982, tale o-rientamento è mutato e prevale
quello per cui è da escludere che l'onnicomprensività valga oltre i casi richiamati
espressamente dalla legge e dai contratti collettivi. L’art.2120 ha pre-visto espressamente la
derogabilità della regola di onnicomprensività da parte dei contratti collettivi, evidenziando
la prevalenza dell’autonomia collettiva e il ruolo sussidiario della di-sciplina legale per ciò
che concerne la composizione e il livello della retribuzione.
Fino ad un’epoca recente il nostro ordinamento forniva ancora un’altra nozione di retri-
buzione, applicabile al rapporto contributivo previdenziale, al fine di determinare la base im-
ponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale. La L.153/1969 offri-
va una definizione molto più ampia della retribuzione a fini previdenziali, riferendosi a tutto
ciò che veniva corrisposto dal datore al prestatore in dipendenza del rapporto di lavoro. Il
D.Lgs.314/1997 riformula integralmente la L.153 e introduce una nuova definizione, non più
di retribuzione, ma di reddito da lavoro dipendente ai fini contributivi. Definisce inoltre come
redditi da lavoro dipendente a fini fiscali quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto
la prestazione di lavoro con qualsiasi qualifica alle dipendenze e sotto la direzione di altri,
compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme
della legislazione sul lavoro: il reddito da lavoro dipendente ai fini fiscali è costituito da tutte
le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti in relazione al rapporto di lavoro,
anche sotto forma di erogazioni liberali, al lordo di qualsiasi contributo e trattenuta.
SOSPENSIONE DEL RAPPORTO E RETRIBUZIONE. Al contratto di lavoro si applicano le norme ge-
nerali sui cd. rimedi sinallagmatici mediante i quali viene tutelato l’interesse di ciascun
contraente al puntuale e reciproco adempimento delle rispettive promesse e prestazioni: tra
queste, la risoluzione per inadempimento, per impossibilità sopravvenuta, per eccessiva
onerosità sopravvenuta. L’art.1460 ammette inoltre l’eccezione di inadempimento, di conse-
guenza si può arrivare alla sospensione delle rispettive obbligazioni quando il prestatore di
lavoro da un lato o il datore dall’altro, avendo ragione di temere che la controprestazione
non sarà adempiuta, ritengano di invocare l’eccezione di inadempimento, interrompendo au-
tomaticamente l’esecuzione del contratto. Ciò vale non solo nell’ipotesi di inadempimento
imputabile ma anche nell’ipotesi di impossibilità oggettiva sopravvenuta nonché in quella di
eccessiva onerosità sopravvenuta: tuttavia quest’ultima ipotesi deve ritenersi in concreto
assolutamente eccezionale. In realtà nel rapporto di lavoro si verificano normalmente impe-
dimenti temporanei tali da sospendere anziché estinguere l’obbligazione. Tuttavia, nel lavo-
ro subordinato come negli altri contratti di durata, la necessaria irrecuperabilità della presta-
zione impedita e la conseguente impossibilità dell’adempimento tardivo, comportano che
l’impossibilità sopravvenuta sia da ritenere definitiva. Così, all’ordinario effetto della risolu-
zione del contratto si accompagna necessariamente la liberazione di entrambe le parti dalle
rispettive obbligazioni. Invero, nel rapporto di lavoro, per quanto verificabili nella pratica, i
casi di impossibilità sopravvenuta solo marginalmente danno luogo alle normali conseguen-
ze della risoluzione del contratto.
Nel nostro ordinamento si è affermato progressivamente il principio della cd. traslazio-
ne sul datore del rischio dell’inattività del prestatore nei casi di impossibilità soprav-
venuta della prestazione per cause fortuite o di forza maggiore attinenti alla persona del la-
voratore. In effetti, mentre per la prestazione del datore, normalmente pecuniaria e comun-
que meramente patrimoniale, l’impossibilità è rigorosamente oggettiva e quindi eccezionale,
l’impossibilità della prestazione del lavoratore può essere determinata da un fatto non impu-
tabile al debitore ma comunque dipendente da un impedimento o da un’incapacità
personale dello stesso: considerando l’infungibilità soggettiva di tale prestazione, ciò
porterebbe all’e-stinzione dell’obbligazione per impossibilità oggettiva sopravvenuta con
esonero del lavora-tore dall’obbligo della prestazione e dalla responsabilità per
inadempimento, e comportereb-be anche la liberazione del datore dall’obbligazione
reciproca della retribuzione. Avviene in-vece il contrario e cioè che, proprio in virtù della
suddetta traslazione del rischio, il lavorato-re viene sollevato dagli effetti economici della
propria inattività, conservando in tutto o in parte il diritto alla retribuzione. Il principio di
traslazione del rischio è enunciato negli artt. 2110 e 2111 i quali dispongono espressamente
la sospensione del rapporto di lavoro nelle ipotesi di impossibilità temporanea relative alla
persona del lavoratore, ossia infortunio ma-lattia gravidanza puerperio e servizio militare. In
questi casi, da un lato il lavoratore ha di-ritto alla conservazione della retribuzione o
l’attribuzione in sua vece di un’indennità nella misura e per il tempo stabiliti dalle leggi
speciali, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità; e dall’altro ha diritto alla
sospensione della prestazione e alla conservazione del po-sto di lavoro con il conseguente
divieto di licenziamento per il periodo stabilito dalle medesi-me fonti. Questo periodo è
chiamato di irrecedibilità, o di comporto se siamo nel caso di malattia e infortunio. Infine, il
periodo di assenza dal lavoro per una delle cause suddette dev’essere computato
nell’anzianità di servizio del prestatore.
Per quanto riguarda in particolare la malattia del lavoratore, in seguito alla riforma
sanitaria attuata con L.833/1978, l’assistenza medica è generalizzata ed affidata al Servizio
sanitario nazionale mentre l’indennità di malattia è corrisposta dall’Inps e spetta solo agli
operai. Questi sono inoltre esclusi dalla copertura dell’indennità per i primi 3giorni di malat-
tia (carenza). Per quanto riguarda invece gli impiegati, le assenze per malattia vengono re-
tribuite integralmente, fin dal primo giorno, da datore di lavoro.
Altre cause di sospensione della prestazione per impossibilità temporanea del lavorato-
re sono riconducibili all’adempimento dei doveri costituzionali relativi alle funzioni pubbli-
che elettive e al servizio militare obbligatorio. I cittadini chiamati a ricoprire cariche pubbli-
che elettive hanno diritto a disporre del tempo necessario per l’espletamento de mandato,
fruendo di aspettative e permessi; i permessi sono previsti anche in favore dei lavoratori
impegnati nelle operazioni elettorali. Al servizio militare, regolato dall’art.2111 e dalle leg-
gi speciali, è stato successivamente equiparato il volontariato civile nei paesi in via di svilup-
po e il servizio civile compiuto dagli obiettori di coscienza in sostituzione del servizio milita-
re. Lo stato di tossicodipendenza accertato secondo le modalità previste, attribuisce al
lavoratore che intenda accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi
sanitari delle Asl o altre strutture equipollenti, il diritto ad un periodo, non retribuito e senza
decorrenza dell’anzianità, alla conservazione del posto di lavoro per la durata del trattamen-
to e comunque non superiore a 3anni. Infine, ai lavoratori sono riconosciuti 3giorni all’anno
di permesso retribuito in occasione di eventi particolari connessi alla vita familiare ed è loro
attribuito il diritto a permessi per la formazione continua.
LA MORA CREDENDI DEL DATORE. In seguito alla sentenza della Corte costituzionale che nel
1960 ha riconosciuto l’illiceità civile della serrata, in dottrina e in giurisprudenza si è affer-
mata la sua qualificazione giuridica in termini di mora del creditore, in quanto la fattispe-
cie concreta può essere accostata al rifiuto di accettare la prestazione da parte del creditore
di lavoro. L’art. 1217 nel disciplinare la mora credendi nelle obbligazioni di fare, dispone che
se la prestazione consiste in un fare, il creditore è costituito in mora mediante l’intimazione
di ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte sua necessari per renderla
possibile. Nel rapporto di lavoro questa attività di cooperazione consiste nella predisposizio-
ne dei mezzi necessari alla sua esecuzione, quindi locali, macchinari e strumenti di lavoro,
energie e materie prime. Per aversi costituzione in mora però la mancata cooperazione deve
essere ingiustificata, senza motivo legittimo: soltanto in questo caso il datore di lavoro non è
liberato dall’obbligo corrispettivo della retribuzione; se viceversa il rifiuto ha un motivo le-
gittimo (ad esempio, la prestazione offerta dal lavoratore è difforme da quella dovuta) la
mora creditoria è esclusa e la prestazione diviene impossibile, con conseguente perdita del
diritto alla retribuzione. L’art. 1207 precisa gli effetti della mora ponendo a carico del credi-
tore: l’impossibilità sopravvenuta della prestazione e il risarcimento dei danni derivanti dal
ritardo nell’adempimento, nonché le spese che ne conseguono.
Diverso è il caso di interruzione del lavoro o sospensione dell’attività aziendale dipen-
denti da fatti direttamente o indirettamente riconducibili all’organizzazione produttiva dell’
impresa e tali da determinare l’oggettiva impossibilità temporanea della prestazione lavora-
tiva (che si verifica di regola per cause di natura tecnico-funzionale). La legge sull’impiego
privato dice che, in caso di sospensione di lavoro per fatto dipendente dal principale, l’im-
piegato ha diritto alla retribuzione normale, affermando così il principio della traslazione del
rischio a carico del datore; nel caso degli operai invece l’impossibilità temporanea della pre-
stazione determina la sospensione del rapporto senza diritto del prestatore alla retribuzione.
Ovviamente, nel primo caso, la conservazione della retribuzione è subordinata alla volontà
dell’imprenditore, il quale può sempre liberarsi dal relativo obbligo optando per la risoluzio-
ne anziché per la sospensione del rapporto.
CAP. 6 – IL LAVORO DELLE DONNE E DEI MINORI
La tutela differenziata che l’art. 37 Cost. riconosce al lavoro delle donne e dei minori
va ricollegata alla loro specifica condizione di inferiorità socio-economica nonché
all’esigenza di una particolare attenzione all’integrità psico-fisica dei minori e a particolari
occasioni della vita delle donne. L’art. 37 ha anche introdotto il principio della tutela
paritaria, mirata a garantire ai minori e alle donne la parità di trattamento rispetto ai
lavoratori adulti di sesso maschile. È compito della legge ordinaria fissare il limite di età
minima per il lavoro dipen-dente mentre la legislazione speciale provvede alla tutela della
salute e dello sviluppo fisico e morale dei lavoratori più giovani; alla donna devono invece
essere garantite la condizioni di lavoro necessarie all’adempimento della sua essenziale
funzione familiare e alla protezio-ne della maternità; è riconosciuta inoltre alla donna
lavoratrice parità di diritti e in particola-re il diritto ad una eguale retribuzione a parità di
lavoro rispetto agli uomini; lo stesso diritto è riconosciuto anche ai minori rispetto ai
lavoratori maggiorenni.
La legge fissa l’età minima di ammissione al lavoro con riferimento al momento in cui
il minore concluda il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non prima dei 15 anni.
Fermi restando questi limiti, la tutela dei minori è incentrata poi sull’imposizione di limiti in
materia di orario di lavoro, sul divieto di lavoro notturno, sull’obbligo di riposi intermedi e
settimanali, di ferie annuali, e sulla predisposizione di un robusto apparato di sanzioni penali
e amministrative. Il principio generale è dunque che i bambini non possono essere adibiti al
lavoro, ma sono tuttavia previste delle eccezioni che riguardano attività lavorative di carat-
tere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario; per contro, esistono lavori cui è vietato adi-
bire anche gli adolescenti.
La L.903/1977 impone un deciso rafforzamento della tutela paritaria della donna,
innanzitutto con riguardo alla retribuzione ed estendendola poi in funzione della realizzazio-
ne della parità di diritti al complessivo trattamento della lavoratrice sia nell’accesso al lavoro
sia nello svolgimento e nell’estinzione del rapporto; e a tal fine la legge dispone il divieto di
ogni discriminazione nonché la nullità degli atti conseguenti. Sono tuttavia previste alcune
deroghe tassative: da un lato per le mansioni particolarmente pesanti individuate dalla con-
trattazione collettiva; dall’altra per quelle attività della moda, dell’arte e dello spettacolo,
nelle quali l’individuazione del sesso costituisca requisito essenziale della prestazione. A ga-
ranzia del rispetto di tale previsione, la L.903 prevede una tutela processuale particolarmen-
te incisiva quale l’esperibilità di un procedimento d’urgenza analogo a quello per la repres-
sione della condotta antisindacale, ma con l’attribuzione della titolarità dell’azione diretta-
mente in capo al lavoratore. La tutela antidiscriminatoria si estende anche all’aspetto retri-
butivo e dell’inquadramento professionale: la parità di trattamento retributivo è collegata al-
le prestazioni richieste e non a quelle concretamente eseguite, escludendo in tal modo defi-
nitivamente il controverso ricorso al parametro del rendimento del lavoro; la norma impone
inoltre che i sistemi di classificazione professionale adottino criteri comuni per uomini e don-
ne e vieta la discriminazione nell’attribuzione delle mansioni e delle qualifiche e nella pro-
gressione di carriera. La L.903 persegue poi l’obiettivo della parità di trattamento ai fini pre-
videnziali per ciò che concerne assegni familiari e pensione di reversibilità; la Corte Cost. ha
provveduto ad estendere la tutela contro i licenziamenti delle donne fino alla stessa età pre-
vista per il pensionamento degli uomini benché resti salvo il loro diritto al pensionamento ad
un’età inferiore. Altro obiettivo della L.903 è l’alleggerimento del costo del lavoro femminile
e la sua tendenziale parificazione a quello maschile, laddove estende al padre lavoratore al-
cuni diritti riconosciuti in precedenza esclusivamente alle lavoratrici madri.
Nell’ambito della tutela differenziata della capacità di lavoro si inquadrano le norme
contenute nella L.1204/1971 rivolte ad assicurare la tutela fisica ed economica delle lavo-
ratrici madri. Innanzitutto prevede il divieto di licenziamento della lavoratrice dal momento
di inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino; è altresì vietato
il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione di congedi parentali o per malattia
del bambino o il licenziamento del padre che fruisca del congedo di paternità, durante il pri-
mo anno di vita del bambino. Il licenziamento è invece consentito nell’ipotesi di giusta causa
dovuta a colpa grave della lavoratrice, nell’ipotesi di cessazione dell’attività dell’azienda, di
ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta, nel caso di scaden-
za del termine e di esito negativo della prova. La legge inoltre stabilisce una specifica limita-
zione alla capacità di lavoro della donna nel periodo della maternità: è infatti vietato adibire
la donna al lavoro nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi succes-
sivi, assicurando alla lavoratrice nel corso di tale periodo un trattamento economico pari all’
80% della retribuzione e posto a carico dell’Inps; la lavoratrice ha poi la facoltà di optare per
uno spostamento del periodo di astensione (1+4). È vietato infine adibire la donna al
trasporto e al sollevamento di pesi e in generale a lavori pericolosi, faticosi o insalubri, per
tutta la durata della gravidanza e fino a sette mesi dopo il parto. Allorché la donna svolga
abitualmente questo tipo di lavori, dovrà essere adibita ad altre mansioni anche in deroga
all’art. 2103 ma in ogni caso con la salvaguardia del precedente trattamento retributivo.
Il legislatore ha anche previsto un’articolata disciplina diretta a consentire la fruizione di
un ulteriore periodo di astensione dal lavoro in relazione alla condizione personale della la-
voratrice o del lavoratore e alle esigenze dei figli. In primo luogo è stato riconosciuto al pa-
dre lavoratore il congedo di paternità, ossia il diritto di astenersi dal lavoro nei primi tre
mesi dalla nascita del figlio nel caso di morte o grave infermità della madre, di abbandono
del bambino, o qualora ne abbia avuto l’affidamento esclusivo: in queste ipotesi si applicano
al padre le norme che prevedono la corresponsione di un’indennità pari all’80§% della retri-
buzione, il computo del periodo di astensione nell’anzianità di servizio, la tutela contro il li-
cenziamento fino al compimento di un anno di età del bambino. Entrambi i genitori hanno il
diritto ai congedi parentali entro i primi otto anni di età del bambino e consiste nell’asten-
sione facoltativa, per un periodo continuativo o frazionato, fino a 6mesi per la madre e 7per
il padre (10mesi nel caso vi sia un solo genitore), ma con un limite complessivo tra padre e
madre di 11mesi. Durante questi periodi il genitore ha diritto ad un’indennità pari al 30%
della retribuzione fino al terzo anno di età del bambino e per un periodo massimo comples-
sivo tra i genitori di 6mesi; oltre tale periodo e fino all’ottavo anno di età del bambino l’in-
dennità spetta solo nel caso in cui il reddito individuale dell’interessato sia inferiore a 2,5vol-
te l’importo de trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbliga-
toria. Durante le malattie del bambino di età inferiore a 8anni entrambi i genitori hanno il
diritto di astenersi alternativamente dal lavoro dietro presentazione di un certificato medico,
ma durante questi periodi non è dovuta alcuna indennità, soltanto una contribuzione figura-
tiva a fini pensionistici. Tutti i periodi di astensione facoltativa e per malattia del bambino
sono computati nell’anzianità di servizio.
La legge vieta infine l’adibizione della lavoratrice madre al lavoro notturno dal momento
dell’accertamento dello stato di gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bam-
bino; vige anche la non obbligatorietà del lavoro notturno per la lavoratrice madre di un fi-
glio di età inferiore a 3anni e per la lavoratrice o lavoratore che sia l’unico genitore affidata-
rio di un figlio convivente di età inferiore a 12anni.
LE PARI OPPORTUNITÀ. Un particolare rafforzamento della tutela paritaria della donna nel
lavoro si è avuto con la L.125/1991 intervenuta ad integrare la L.903 al fine di promuove-re
l’attuazione di azioni positive e di misure tese alla rimozione degli ostacoli che si frappon-
gono all’accesso della donna al mercato del lavoro. I programmi rivolti alle donne sono indi-
rizzati soprattutto al miglioramento della formazione professionale e scolastica e a favorire il
riequilibrio delle responsabilità familiari e professionali tra i sessi. Al fine di assicurare l’ef-
fettività dell’intera disciplina è stato istituito presso il Ministero del Lavoro il Comitato Na-
zionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento. La L.125 ha introdotto anche
importanti perfezionamento sostanziali e processuali alla tutela antidiscriminatoria già previ-
sta dalla L.903: innanzitutto, il divieto di discriminazione si estende alle forme di discrimina-
zione indiretta consistenti in ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di
criteri che svantaggino in modo maggiore i lavoratori di un determinato sesso. Sul piano
probatorio, l’onere della prova definitiva della non discriminazione ricade a carico del conve-
nuto, allorché il lavoratore o la lavoratrice ricorrente fornisca elementi di fatto, desumibili
anche da dati statistici, idonei a fondare la presunzione di una discriminazione per sesso.
Ove poi il comportamento discriminatorio abbia carattere collettivo, dunque non siano indi-
viduabili i lavoratori direttamente lesi, il ricorso al giudice può essere proposto dal consiglie-
re di parità istituito a livello regionale o nazionale. Infine, l’accertamento di comportamenti
discriminatori può causare la revoca dei benefici finanziari dei quali goda l’imprenditore o la
risoluzione di eventuali contratti di appalto con enti pubblici.
CAP. 7 – L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
I rapporti obbligatori possono risolversi per impossibilità sopravvenuta della pre-
stazione, definitiva o temporanea, ma comunque talmente prolungata nel tempo da poterla
assimilare alla definitiva con riguardo all’interesse delle parti. Per quanto interessa il con-
tratto di lavoro, la prestazione della retribuzione non può mai essere impossibile in quanto
obbligazione pecuniaria; d’altro canto la prestazione di lavoro è elastica e a contenuto da
determinare. Il caso di perimento di uno stabilimento in seguito ad alluvione potrebbe costi-
tuire una mera difficultas nel ricevere la prestazione potendo il lavoratore essere sempre
adibito ad altro stabilimento; ugualmente, l’inidoneità fisica o professionale del lavoratore a
certe mansioni non costituisce impossibilità di adempiere all’obbligazione di lavoro, perché il
lavoratore potrebbe essere adibito a mansioni diverse cui sia idoneo. Invero in questi casi
può non essere opportuno o economicamente conveniente proseguire nel rapporto; ma allo-
ra alla tutela di questo interesse sarà più funzionale lo strumento del recesso volontario che
non quello della risoluzione automatica ope legis.
Con la risoluzione consensuale il datore e il prestatore di lavoro pervengono di co-
mune accordo all’estinzione del rapporto. Tuttavia, man mano che la disciplina dei licenzia-
menti è diventata più restrittiva, tanto più vi è la possibilità che il mutuo consenso sia nient’
altro che uno strumento per aggirare i rigidi limiti legali e quindi è nullo in quanto costituisce
un negozio in frode alla legge.
Il recesso costituisce un atto o negozio unilaterale recettizio. Nel contratto di lavoro
occorre distinguere, in relazione agli interessi tutelati, fra il recesso del lavoratore e il reces-
so dell’imprenditore ossia fra dimissioni e licenziamento. L’art.2118 prevede che ciascuno
dei contraenti possa recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato con l’obbligo di
dare preavviso nella misura stabilita dalla contrattazione collettiva o in mancanza secondo
gli usi o l’equità; in caso contrario il recedente è tenuto a corrispondere all’altra parte un’in-
dennità di natura risarcitoria detta indennità di mancato preavviso, corrispondente all’impor-
to delle retribuzioni che sarebbero spettate per il periodo di preavviso. Il recesso di entram-
bi i contraenti dal contratto di lavoro può anche essere immediato, e dunque senza preavv-
iso o straordinario, sia nei rapporti a tempo indeterminato sia prima della scadenza del ter-
mine in quelli a tempo determinato, qualora si verifichi una causa che non consenta la pro-
secuzione anche provvisoria del rapporto: è questo il recesso per giusta causa (art.
2119). Tuttavia, in caso di dimissioni per giusta causa, e dunque nell’ipotesi che l’interruzio-
ne immediata del rapporto sia conseguenza di un fatto dipendente dal datore di lavoro, al
lavoratore spetta l’indennità di mancato preavviso a titolo risarcitorio.
IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE. Il potere di recesso del datore di lavoro, dunque il licen-
ziamento, è stato oggetto di vari interventi legislativi limitativi, così che la disciplina genera-
le del licenziamento nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato è oggi contenuta in una
serie di fonti legislative succedutesi nel tempo. Inizialmente, il potere di recesso del datore
di lavoro era sottoposto dalla L.604/1966 al vincolo formale della comunicazione scritta, e
al limite sostanziale del giustificato motivo o della giusta causa; in caso di licenziamento in-
giustificato era prevista una tutela obbligatoria cosicché il datore di lavoro era obbligato alla
riassunzione o in mancanza al pagamento di una penale a titolo di risarcimento. Tale disci-
plina era però applicabile solo ai datori di lavoro con più di 35 dipendenti e demandavano
l’accertamento della giustificazione del licenziamento non al giudice bensì alla valutazione
equitativa di un apposito collegio di conciliazione ed arbitrato. In seguito è intervenuto l’art.
18 della L.300/1970, ossia lo Statuto dei lavoratori, che ha segnato un salto di qualità dal
punto di vista della effettività della tutela del lavoratore contro il licenziamento illegittimo,
con la previsione della tutela reale consistente nella sanzione della reintegrazione nel posto
di lavoro e al risarcimento del danno: il suo campo di applicazione era limitato dall’art.35 al-
le unità produttive con più di 15dipendenti. È giunta infine la L.108/1990 a ridefinire il
campo di applicazione della tutela reale e dalla tutela obbligatoria e a sancire esplicitamente
il generale principio della giustificazione del licenziamento, cd. recesso vincolato.
Con la L.108/1990 il licenziamento ad nutum da regola è divenuto eccezione, aven-
do ormai assunto una funzione meramente residuale in quanto applicabile soltanto ai lavo-
ratori appartenenti ad un ristretto numero di categorie. Il fatto che questi siano stati esclusi
dalla tutela contro il licenziamento ingiustificato può essere spiegato in ragione dello specifi-
co contenuto della prestazione lavorativa, o della natura fiduciaria del rapporto di lavoro, o
del presunto venir meno dell’interesse del lavoratore alla stabilità del rapporto. Il recesso ad
nutum riguarda attualmente i lavoratori domestici e gli sportivi professionisti, i quali sono
esplicitamente esclusi dall’ambito di applicazione della tutela reale e obbligatoria; riguarda
anche i lavoratori in prova, che però vengono assoggettati alla disciplina limitativa dei licen-
ziamenti nel momento in cui l’assunzione diviene definitiva e in ogni caso decorsi 6mesi dall’
inizio del rapporto di lavoro. Il recesso ad nutum opera inoltre nei confronti dei lavoratori che
abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia, dunque coloro che abbiano com-piuto
65anni di età e che posseggono l’anzianità contributiva minima prevista dalla legge. Infine,
vi è l’ipotesi dei dirigenti, i quali sono esclusi dalla disciplina limitativa dei licenzia-menti in
base al testo della stessa legge che la dichiara espressamente applicabile solo a operai,
impiegati e quadri intermedi. In realtà, i dirigenti godono da tempo di una tutela di tipo
obbligatorio contro i licenziamenti, prevista dai contratti collettivi della categoria; questi
ultimi hanno infatti introdotto un obbligo di giustificazione del licenziamento del dirigente
nonché la possibilità di ricorrere ad un collegio arbitrale il quale, ove accerti l’insussistenza
della giustificazione, può condannare il datore di lavoro al pagamento di una indennità sup-
plementare avente natura risarcitoria che si aggiunge all’eventuale indennità di mancato
preavviso.
Il codice civile ha previsto dei periodi di limitazione temporale della facoltà di reces-
so del datore di lavoro durante i quali è escluso il licenziamento ad nutum e consentito solo
quello per giusta causa (art.2110): ciò accade nei casi in cui il prestatore, essendo nell’im-
possibilità di effettuare la prestazione per infortunio, malattia, gravidanza o puerperio, viene
a trovarsi in una condizione di bisogno; situazione analoga è prevista anche per le ipotesi
della chiamata e del richiamo alle armi, al lavoratore che ricopra funzioni pubbliche elettive
e ai lavoratori che godono dei congedi parentali per motivi di cura e formativi. L’eventuale
licenziamento privo di giusta causa che sia intervenuto nei periodi di sospensione del rap-
porto, purché formalmente e sostanzialmente valido, è semplicemente inefficace, cioè in
grado di produrre i suoi effetti alla scadenza di tali periodi; solo nei confronti delle lavoratrici
madri e dei lavoratori padri, nonché dei lavoratori che godono dei congedi di cura e formati-
vi, tale licenziamento è da considerarsi nullo.
La L.604/1966 formalizza il principio per cui, affinché il licenziamento sia legittimo,
deve necessariamente ricorrere una giusta causa o un giustificato motivo. La distinzione tra
le due figure del recesso ordinario e straordinario, e dunque della giusta causa e del giustifi-
cato motivo, comporta effetti differenti soltanto per ciò che concerne il preavviso, il quale
spetta solo al lavoratore licenziato per giustificato motivo. Il trattamento di fine rapporto in-
vece spetta oggi in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro. Le conseguenze che la
legge ricollega all’illegittimità del licenziamento per mancanza dei requisiti causali non sono
sempre le stesse: occorre infatti distinguere a seconda che al caso concreto sia applicabile
la tutela reale prevista dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori oppure la tutela obbligatoria
prevista dall’art.8 della L.604/1966. Nel primo caso la legge prevede l’annullabilità del licen-
ziamento intimato in assenza di giustificazione, mentre nel secondo caso il licenziamento
privo di giusta causa o di giustificato motivo, ancorché illegittimo, non è dalla legge qualifi-
cato come annullabile ma soltanto illecito e pertanto espone ugualmente il datore di lavoro
a conseguenze sanzionatorie.
La nozione di giusta causa contenuta nell’art.2119 è stata formulata prima di quella di
giustificato motivo, che si fa risalire alla L.604/1966 e che distingue un giustificato motivo
soggettivo ed uno oggettivo: il primo si realizza quando il prestatore di lavoro incorre in un
notevole inadempimento degli obblighi contrattuali; per la determinazione di tale nozione si
fa di solito riferimento alla norma generale che richiede, perché si abbia risoluzione del con-
tratto, che l’inadempimento sia di non scarsa importanza con riguardo all’interesse dell’altro
contraente. Il licenziamento deve comunque essere comminato in un termine congruo e
dunque soddisfare i requisiti dell’immediatezza e tempestività: un eccessivo lasso di tempo
tra il fatto contestato e l’esercizio del potere di recesso potrebbe far dubitare della sussi-
stenza di quell’interesse. I contratti collettivi intervengono ad individuare le ipotesi in cui
può ricorrere il giustificato motivo soggettivo, elencando in particolare alcune infrazioni di-
sciplinari. Il giustificato motivo oggettivo si realizza quando vi siano ragioni inerenti all’
attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa: in
questo caso dunque non vi è inadempimento del lavoratore. L’art.2119 definisce la giusta
causa come quella che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di la-
voro, precisando peraltro che il fallimento o la liquidazione coatta amministrativa dell’azien-
da non ne integrano gli estremi. La definizione molto generica di giusta causa ha dato luogo
a non pochi contrasti. Prima della L.604 l’opinione prevalente era che la giusta causa fosse
da identificare con ogni fatto capace di giustificare la risoluzione senza preavviso del con-
tratto e che quindi potesse consistere non solo in un inadempimento ma anche in ogni altro
accadimento (perfino esterno al rapporto di lavoro) che fosse obiettivamente idoneo, indi-
pendentemente dalla colpa del lavoratore, a menomare il rapporto di fiducia personale che
si riteneva dovesse essere connotato essenziale del rapporto di lavoro. Dopo la L.604 si è
invece ritenuto che la definizione di giusta causa dovesse essere posta in relazione con la
nuova nozione di giustificato motivo soggettivo, incentrata sul concetto di notevole inadem-
pimento, dal quale la giusta causa si differenzierebbe solo per la particolare e maggiore gra-
vità. In genere i contratti collettivi contengono comunque la previsione dei fatti che legitti-
mano il licenziamento senza preavviso (es. il danneggiamento volontario di impianti e mate-
riali; la rissa nei luoghi di lavoro, il furto, le ingiurie, la grave insubordinazione). Tali esem-
plificazioni sono ovviamente vincolanti per il giudice, di conseguenza questi ha il potere sia
di ravvisare una giusta causa di licenziamento in mancanze non esplicitamente previste dal
contratto collettivo, sia di verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione
legale di giusta causa.
La legge vieta espressamente, disponendone la nullità, il licenziamento adottato per
motivi discriminatori nonché il licenziamento per causa di matrimonio e quello delle lavora-
trici madri: in particolare, il licenziamento discriminatorio è da considerare nullo indipenden-
temente dalla motivazione adottata, e in tali casi è sempre applicabile la tutela reale. Per
quanto riguarda il licenziamento per causa di matrimonio, oltre a rendere nulle le clausole
cd. di nubilato, la legge sancisce la nullità del licenziamento intimato dal giorno della pubbli-
cazione del matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione dello stesso; infine, sono nulle
le dimissioni presentate dalla lavoratrice nel medesimo periodo, a meno che la lavoratrice
non le confermi entro un mese alla Direzione provinciale del lavoro.
Oltre ai limiti sostanziali, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti
procedurali, attinenti alla forma del licenziamento, che deve essere comunicato al lavora-
tore per iscritto, a norma della L.604. Per quanto riguarda i motivi del licenziamento, la nor-
ma non ne impone la comunicazione contestuale, ma ove essa non sia stata effettuata, il la-
voratore può richiederli per iscritto entro 15giorni dalla comunicazione del recesso e l’im-
prenditore deve farli conoscere entro 7giorni dalla richiesta; una volta dichiarati i motivi,
questi sono immodificabili, e l’imprenditore non può in nessun caso addurre motivi diversi o
ulteriori rispetto a quelli originariamente dichiarati. Inoltre, l’eventuale giudizio di impugna-
zione del licenziamento viene delimitato al contenuto della comunicazione scritta. Contro
l’inosservanza degli adempimenti formali è prevista la sanzione di inefficacia del licenzia-
mento; il datore di lavoro può comunque legittimamente rinnovare in forma scritta e con
efficacia ex nunc il licenziamento viziato nella forma.
La L.604 dispone che la prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato
motivo del licenziamento spetta al datore di lavoro. L'impugnazione del licenziamento, da
parte del lavoratore, deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua comuni-
cazione o dalla comunicazione dei motivi, se successiva. L'impugnazione può anche essere
stragiudiziale, ossia effettuata per mezzo di una semplice comunicazione scritta, anche at-
traverso l'intervento del sindacato, che sia idonea a rendere nota la volontà del lavoratore di
impugnare il licenziamento.
Il licenziamento illegittimo perché non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo
è annullabile; quello illegittimo per ragioni formali (cioè intimato senza il rispetto della for-
ma scritta, senza l'indicazione dei motivi ovvero senza il rispetto delle formalità previste dal-
la L.604/1966) è inefficace; infine, quello "discriminatorio", quello delle lavoratrici madri e
quello intimato per causa di matrimonio sono nulli. Ai fini dell'individuazione delle conse-
guenze della declaratoria di illegittimità del licenziamento, occorre distinguere:
1) la tutela reale, consistente nella condanna del datore alla reintegrazione del lavo-
ratore nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno da questi subito per il periodo che va
dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, e che è pari ad un'indennità commisurata
alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a 5mensilità; il lavoratore ha, co-
munque, facoltà di risolvere il rapporto e pretendere, in alternativa alla reintegrazione effet-
tiva, la corresponsione di un'indennità pari a 15 mensilità da sommarsi all'indennità risarci-
toria;
2) la tutela obbligatoria, che consiste nella condanna del datore alla riassunzione del
lavoratore entro 3 giorni ovvero al pagamento di una penale determinata dal giudice tra un
minimo ed un massimo legislativamente previsti; la scelta tra le due soluzioni spetta allo
stesso datore.
Ora per stabilire se la tutela accordata al prestatore sia quella reale oppure quella ob-
bligatoria occorre far riferimento alle dimensioni dell'impresa, sotto il profilo del numero dei
dipendenti, tenendo presente che nel computo vanno compresi anche i lavoratori a tempo
indeterminato parziale in proporzione all'orario effettivamente svolto, mentre non vanno
computati il coniuge ed i parenti entro il 2°grado del datore, gli apprendisti e i lavoratori in-
terinali. L'art. 18 dello SdL, come modificato dalla L.108/1990, stabilisce che la tutela reale si
applica nei confronti dei datori, imprenditori e non, che occupano più di 15dipendenti (5se
impresa agricola) nell’unità produttiva o ufficio in cui svolge la propria attività il lavoratore
licenziato oppure nell’ambito dello stesso comune sebbene frazionati in più unità produttive
o uffici, e in ogni caso nei confronti dei datori che abbiano complessivamente alle proprie di-
pendenze più di 60lavoratori. Ove applicabile la tutela reale, il datore è tenuto a ripristinare
il rapporto rivolgendo al prestatore un invito a riprendere il servizio: è con tale invito che il
datore adempie all’obbligo di reintegrazione, cadendo in caso contrario in situazione di mora
credendi con la conseguenza che il lavoratore avrà, nonostante l’inattività, diritto alla retri-
buzione. Per contro, a fronte di tale invito il lavoratore dovrà ottemperare entro 30giorni de-
corsi i quali il rapporto si intenderà risolto per dimissioni. La legge impone, in aggiunta all’
indennità risarcitoria dovuta al lavoratore per il periodo di non impiego, anche il versamento
dei contributi assistenziali e previdenziali relativi al periodo intercorrente tra il licenziamento
e la reintegrazione.
La tutela obbligatoria rappresenta una forma minore di tutela riferita alle sole ipotesi di
illegittimità del licenziamento derivante dalla sua mancata giustificazione. Spetta nei con-
fronti dei datori che occupano fino a 15dipendenti per ogni unità produttiva (fino a 5se im-
presa agricola) o fino a 60dipendenti ovunque essi si trovino. In sostanza, diversamente da
quanto accade nell’area della tutela reale nella quale il licenziamento privo di giustificazione
è annullabile, nell’area della tutela obbligatoria il licenziamento privo di giusta causa o di
giustificato motivo, ancorché illegittimo, non è annullabile ma soltanto illecito e dunque san-
zionato mediante l’obbligazione risarcitoria.
Prima della L.108/1990 il legislatore aveva previsto un tentativo di conciliazione facol-
tativo dapprima nell’area della tutela obbligatoria e poi anche in quella reale. Attualmente
invece, il prestatore può ricorrere al giudice del lavoro solamente dopo aver esperito la pro-
cedura di conciliazione prevista dagli accordi sindacali o dai contratti collettivi ovvero
quella disciplinata dalla L.108/1990 e dal cpc. In proposito, va rilevato che una delle princi-
pali innovazioni introdotte dalla L.108/1990 consiste nell'obbligo, imposto ad entrambe le
parti del rapporto, di esperire il tentativo di conciliazione stragiudiziale se il licenziamento è
intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo nel campo della tutela obbligatoria,
obbligo poi esteso anche al campo della tutela reale; la comunicazione della richiesta di con-
ciliazione equivale ad impugnazione del licenziamento ed impedisce la decadenza del termi-
ne. In caso di esito positivo, tanto della conciliazione obbligatoria quanto di quella facoltati-
va, il verbale è reso esecutivo con decreto del giudice del lavoro; in caso di esito negativo, le
parti possono definire la controversia mediante arbitrato irrituale.
IL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO. La L.297/1982 ha sostituito all'indennità di anzianità
(consistente nella retribuzione che maturava al momento della cessazione del rapporto di la-
voro e che era pari al prodotto dell'importo dell'ultima retribuzione per il numero di anni di
servizio prestato) il diverso istituto del trattamento di fine rapporto. Quest'ultimo, secon-
do la dottrina e la giurisprudenza dominanti, ha natura retributiva e previdenziale insieme,
perché rappresenta quella parte di retribuzione cui il lavoratore alle dipendenze di un priva-
to o di un ente pubblico economico ha diritto in ogni caso di cessazione del rapporto, al fine
di superare le eventuali difficoltà economiche connesse a tale cessazione. L'art.2120 cc.,
nella nuova formulazione, dispone che il trattamento di fine rapporto si calcola accantonan-
do, anno per anno, una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione
annua divisa per 13,5: il totale delle quote accantonate, con esclusione della quota matura-
ta nell'anno, è incrementato al 31 dicembre di ciascun anno con l'applicazione di un tasso
costituito dall'1,5% in misura fissa e dal 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo
per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall'ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell'
anno precedente. Nella retribuzione media da prendere a base del calcolo devono farsi rien-
trare tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasiona-
le, e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. L’istituto è dotato di ef-
ficacia assolutamente inderogabile in melius oltre che il peius dall’autonomia individuale e
collettiva. L’art.2120 contiene altre 2importanti previsioni, quali la regola della frazionabilità
introannuale del tfr, e la regola in virtù della quale ai fini del calcolo della quota annuale da
accantonare devono essere considerati i periodi di assenza per malattia infortunio e mater-
nità previsti dalla legge: ciò perché, in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia
prevista l’integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione annua
l’equivalen-te della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale
svolgimento del rapporto di lavoro.
Nel corso del rapporto, pur non potendo esigere il pagamento della somma che spette-
rà solo al termine del rapporto, il lavoratore può comunque agire in giudizio per accertare
l’entità degli importi maturati o, eventualmente, per conservarne la garanzia patrimoniale.
Inoltre, il lavoratore con almeno 8anni di servizio presso lo stesso datore, può chiedere in
costanza di rapporto di lavoro, un'anticipazione non superiore al 70% del tfr maturato alla
data della richiesta: l’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto
e viene detratta dal tfr alla cessazione del rapporto. Il diritto all’anticipazione incontra poi
una serie di limiti posti a tutela dell’interesse aziendale all’autofinanziamento dell’impresa:
sono legittimati all’anticipazione non più del 10% degli aventi titolo e in ogni caso non più
del 4% del numero totale dei dipendenti; infine, l’anticipazione può essere erogata soltanto
per fini di previdenza ossia per comprovata necessità di cure mediche o per l’acquisto della
prima casa o ai fini delle spese da sostenere durante i congedi.
Il trattamento di fine rapporto, unitamente all'indennità di preavviso, spetta nel caso di
morte del prestatore, ai "superstiti", ossia al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del
lavoratore, anche ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo. La ripartizione
deve seguire i criteri stabiliti dall'accordo tra i superstiti; in difetto di accordo, la ripartizione
avviene secondo il bisogno attuale di ciascuno.
La funzione previdenziale tipica del tfr può essere realizzata anche nell’ambito delle
forme volontarie di previdenza che l’imprenditore può costituire anche con il contributo
dei dipendenti al fine di erogare prestazioni economiche a fronte di determinati eventi o bi-
sogni del lavoratore. In caso di cessazione del rapporto poi, il lavoratore ha diritto alla liqui-
dazione della quota risultante da detta contribuzione (cd. conto individuale) in aggiunta al
tfr. Recentemente la funzione di risparmio previdenziale del tfr è stata accentuata dalla di-
sciplina dei fondi pensionistici complementari del sistema dell’assicurazione obbligato-
ria. Obiettivo di questi fondi è consentire livelli aggiuntivi di copertura previdenziale a lavo-
ratori dipendenti e autonomi, liberi professionisti e soci lavoratori di cooperative, ferma re-
stando la volontarietà dell’adesione del singolo lavoratore al programma previdenziale pro-
posto. I fondi pensione possono essere istituiti dai contratti collettivi. L’onere del finanzia-
mento dei fondi pensione grava sui destinatari e, nel caso in cui essi siano lavoratori subor-
dinati o parasubordinati, anche sul datore di lavoro o committente.
CAP. 8 – GARANZIE E DIRITTI DEI LAVORATORI
Varie norme speciali, di carattere imperativo, prevedono molteplici garanzie per la
tutela dei diritti del prestatore di lavoro. Ciò nella considerazione che il lavoratore, nella sua
posizione di contraente più debole, possa essere indotto a non esercitare propriamente i
propri diritti nel timore di ritorsioni da parte del datore.
LE GARANZIE DEL CREDITO. Un primo gruppo di garanzie dei diritti de lavoratore è costitui-to
dalle ordinarie garanzie del credito, non diverse da quelle previste a garanzia della gene-
ralità dei creditori, rispetto alla cui condizione viene però attribuita al lavoratore una causa
legittima di prelazione (art.2741) sui beni del datore di lavoro: è riconosciuto infatti un
privilegio generale sui mobili del debitore per le retribuzioni dovute sotto qualsiasi forma
ai prestatori di lavoro subordinato e tutte le indennità dovute per effetto della cessazione del
rapporto di lavoro, nonché il credito del lavoratore per i danni conseguenti alla mancata
corresponsione dei contributi previdenziali ed assicurativi obbligatori ed il credito per il risar-
cimento del danno subito per effetto del licenziamento inefficace nullo o annullabile. Si trat-
ta di un privilegio generale di secondo grado in quanto l’art.2777 nello stabilire l’ordine dei
privilegi, colloca tali crediti immediatamente dopo quelli per spese di giustizia. In via sussi-
diaria in caso di infruttuosa esecuzione dei beni mobili, il lavoratore gode di un privilegio
sul prezzo degli immobili, ma solo rispetto ai creditori chirografari: l’ordine dei privilegi
infatti vedi soddisfatti per primi i crediti relativi al tfr e all’indennità di mancato preavviso, in
secondo luogo tutti gli altri crediti di lavoro, in terzo luogo i crediti dello Stato ed infine i
crediti chirografari.
Le norme sui privilegi trovano applicazione anche nell’ipotesi del fallimento e delle al-
tre procedure concorsuali; si rivelano tuttavia inefficaci allorché il patrimonio residuo dell’
imprenditore non abbia capienza sufficiente a soddisfare i crediti dei lavoratori, ed è quanto
si verifica nella generalità dei casi. La Direttiva n.1980/987, relativa alla tutela dei crediti di
lavoro nelle ipotesi di insolvenza del datore che comportino l’apertura di una procedura con-
corsuale, ha permesso l’istituzione di un fondo destinato a garanzia del tfr prima, e di tutti i
crediti di lavoro in generale poi. Il Fondo di Garanzia è stato istituito presso l’Inps ed è ali-
mentato con contributi a carico delle aziende con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in
caso di insolvenza o di inadempienza di quest’ultimo nel pagamento del tfr; mentre la co-
pertura degli ulteriori rischi connessi all’insolvenza del datore di lavoro sul piano retributivo
e previdenziale è solo parziale in quanto copre soltanto i crediti relativi agli ultimi tre mesi di
rapporto di lavoro e comunque entro un massimale predeterminato, ossia 3volte il tratta-
mento massimo mensile di integrazione salariale.
I crediti del lavoratore sono inoltre assistiti da vincoli di destinazione destinati a garan-
tirne al titolare la fruizione nei confronti dei propri creditori: così, sono assolutamente indi-
sponibili gli assegni familiari, mentre al contrario i crediti per stipendio e per indennità di
anzianità sono pignorabili nella misura massima di un quinto.
Infine, il codice civile disciplina il trasferimento d’azienda sui rapporti di lavoro e in
particolare sulle posizione soggettive del lavoratore. A seguito della riforma intervenuta nel
2001, la nozione di trasferimento d’azienda è molto più ampia che in passato e comprende
“qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica or-
ganizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o scambio di beni e servizi,
preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescin-
dere dalla tipologia negoziale”. Dal punto di vista della tutela delle posizioni individuali dei
lavoratori l’art.2112 prevede l’automatica continuazione dei rapporti di lavoro con il ces-
sionario e la conservazione dei diritti maturati dal lavoratore; il lavoratore ha inoltre diritto
alla conservazione dei trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi go-
duti al momento del trasferimento; peraltro, se da un lato il trasferimento non costituisce di
per sé valido motivo di licenziamento, dall’altro è stata riconosciuta la facoltà del cedente e
del cessionario di procedere ad eventuali licenziamenti nel rispetto della disciplina legale e
collettiva in materia. Qualora nei 3mesi successivi al trasferimento il lavoratore subisca una
sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, quest’ultimo può rassegnare le dimis-
sioni e il suo recesso sarà considerato per giusta causa, dunque gli sarà dovuta l’indennità di
mancato preavviso. Altra previsione normativa è quella della solidarietà tra cedente e
cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento, indipendente-
mente dalla loro conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario. È consentita tuttavia la
liberazione del cedente mediante particolari procedure conciliative. Qualora il trasferimento
riguardi un’azienda, o parte di essa, in cui sono occupati più di 15lavoratori, tanto il cedente
quanto il cessionario devono darne preventiva comunicazione alle r.s.u. o alle r.s.a. isti-
tuite presso le rispettive unità produttive interessate dal trasferimento, nonché ai sindacati
di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo in esse applicato; in mancanza delle
predette rappresentanze, la comunicazione va effettuata dal cedente e dal cessionario, an-
che per il tramite dell’associazione sindacale alla quale aderiscono o conferiscono mandato,
ai sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi. Tale comunicazione deve
avvenire in forma scritta almeno 25giorni prima della data del perfezionamento dell’atto di
trasferimento. Con la comunicazione devono essere trasmesse informazioni relative alla da-
ta effettiva o proposta del trasferimento, ai motivi del trasferimento, alle conseguenze giuri-
diche economiche e sociali per i lavoratori, nonché agli eventuali provvedimenti previsti per
questi ultimi. Qualora poi entro 7giorni ne facciano richiesta, il cedente e il cessionario sono
tenuti ad avviare un esame congiunto della situazione. Infine, la L.428 ha dettato anche una
speciale disciplina rivolta ad agevolare il trasferimento d’azienda quando lo stesso si ricolle-
ghi ad una situazione di crisi economica dell’imprenditore cedente: di tratta dei casi in cui
l’impresa sia sottoposta ad una procedura concorsuale nel corso della quale non sia stata di-
sposta la continuazione dell’attività o per la quale sia stato accertato lo stato di crisi azien-
dale. In queste situazioni, qualora attraverso la procedura di consultazione sindacale sia
stato raggiunto un accordo che assicuri la conservazione anche parziale dell’occupazione, ai
lavoratori non licenziati non è applicabile l’art.2112 salvo che l’accordo stesso contenga con-
dizioni di miglior favore.
LE RINUNZIE E LE TRANSAZIONI. Considerata la tipica situazione di debolezza del lavorato-re,
conseguente alla minorazione del suo potere contrattuale, i suoi atti di disposizione dei
diritti riconosciutigli dall’ordinamento possono rappresentare un fenomeno di elusione dei li-
miti imposti all’autonomia negoziale e di violazione delle corrispondenti norme imperative.
Di qui la specifica disciplina dettata dall’art. 2113 sull’invalidità delle rinunzie e transazioni
del lavoratore. L'art.2113 cc dispone che sono annullabili le rinunce e le transazioni che
hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili, con-
cernenti i rapporti di lavoro subordinato autonomo o associato e sottoposti alla competenza
del giudice del lavoro. L'impugnazione delle rinunce e transazioni è fatta con qualsiasi atto
scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, e deve essere
proposta a pena di decadenza entro 6mesi dalla cessazione del rapporto o dalla data della
rinuncia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima; la
mancata impugnazione sana le rinunce e le transazioni altrimenti invalide.
La causa dell’invalidità del negozio dispositivo è da ravvisare certamente nella violazio-
ne di una norma inderogabile di legge o di contratto collettivo posta a tutela dell’interesse
del lavoratore; ma l’art.2113 pone un limite specifico: l’annullabilità investe non qualsiasi
negozio di disposizione ma specificamente la rinuncia e la transazione. Di conseguenza si ha
una limitazione non totale ma soltanto parziale, entro i limiti minimali imposti dalla discipli-
na inderogabile della facoltà di disposizione dei diritti soggettivi attribuiti al lavoratore. Sono
invece valide, e dunque non impugnabili, le rinunce e le transazioni intervenute in sede di
conciliazione delle controversie individuali: in tale sede la disposizione dei diritti avviene con
l’assistenza dell’organo conciliatore.
I negozi giuridici con cui può realizzarsi la disposizione dei diritti dei lavoratori ai quali si
riferisce l'art.2113 cc sono dunque:
- la rinuncia, negozio unilaterale recettizio, che tende alla dismissione con efficacia
abdicativa o traslativa, di un diritto soggettivo da parte del titolare e che nell'ambito del
rapporto di lavoro assume la natura di remissione del debito, poiché ha ad oggetto diritti
patrimoniali;
- la transazione, contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni,
pongono fine ad una lite già esistente o prevengono una lite eventuale: essa viene assimila-
ta dal cod.civ. alla rinuncia perché di questa può costituire un mascheramento e perché il
corrispettivo offerto dal datore nel caso di transazione può non essere commisurato al sacri-
ficio del lavoratore, stante la posizione di debolezza contrattuale di quest'ultimo.
Dalle rinunce e dalle transazioni bisogna tenere distinte le cd quietanze a saldo o li-
beratorie, con le quali il prestatore dichiara di aver ricevuto una certa somma attestando di
essere soddisfatto e di non avere nulla a pretendere. In un primo momento, la giurispruden-
za era incline a ravvisare nella quietanza a saldo l'animus rinunciandi; oggi è giunta all'op-
posta conclusione che la quietanza è una mera dichiarazione di scienza che non contiene al-
cuna volontà di rinuncia ad ogni altro eventuale credito del prestatore nei confronti del dato-
re. La rilevanza di tale atto come rinuncia può dunque aversi solo nei casi in cui precisi ele-
menti testuali e circostanze di fatto denotino la sussistenza dell'animus rinunciandi.
PRESCRIZIONE E DECADENZA. Secondo la disciplina codicistica i diritti del prestatore di la-
voro sono di regola sottratti alla prescrizione estintiva ordinaria decennale e sottoposti alla
prescrizione estintiva breve quinquennale, che riguarda tutto ciò che deve essere corri-
sposto periodicamente ad anno o in termini più brevi e le indennità spettanti per la cessa-
zione del rapporto di lavoro: la prescrizione ordinaria opera in situazioni eccezionali, nei casi
in cui dal rapporto derivino al prestatore diritti diversi da quello alla retribuzione, come ad
esempio il risarcimento del danno contrattuale, eventuali penali, eventuali voci retributive di
carattere non periodico, nonché il diritto alla qualifica superiore e il mancato versamento dei
contributi assicurativi. La prescrizione estintiva produce l'estinzione del diritto soggettivo
per effetto dell'inerzia del titolare che non lo esercita o non ne usa per il tempo determinato
dal-la legge. Il discorso della prescrizione dei diritti del prestatore di lavoro è strettamente
con-nesso a quello della disposizione degli stessi, in quanto l'effetto estintivo della
prescrizione può essere considerato sostanzialmente equivalente all'effetto dismissivo
proprio della ri-nuncia e della transazione, previste dall'art.2113, a vantaggio del datore di
lavoro.
Di diversa natura è la prescrizione presuntiva, consistente in una presunzione di pa-
gamento in quanto fa presumere che, decorso un determinato periodo di tempo, il credito si
sia estinto. Tale prescrizione, in materia di lavoro, è di 1anno per il diritto dei lavoratori alle
retribuzioni corrisposte a periodi non superiori al mese; è di 3anni, per quelle corrisposte a
periodi di oltre 1mese. La prescrizione presuntiva ammette come prova contraria soltanto la
confessione giudiziale ed il giuramento decisorio.
Il regime della prescrizione opera in via di eccezione, è inderogabile ed irrinunciabile. I
termini di prescrizione dei crediti retributivi decorrono: nel corso del rapporto, se esso è sta-
bile; dal momento della cessazione del rapporto se difetta il carattere della stabilità.
Anche la decadenza come la prescrizione è un istituto collegato al decorso del tempo:
essa si concreta, infatti, nella perdita della possibilità di esercitare il diritto a causa del man-
cato compimento di una certa attività o di un certo atto entro un termine perentorio. La de-
cadenza è convenzionale se il termine è fissato dal contratto oppure è legale quando il ter-
mine perentorio è stabilito dalla legge: nell'ambito del diritto del lavoro, si pensi al termine
di 6mesi previsto dall'art.2113 per impugnare rinunce e transazioni.
TUTELA GIURISDIZIONALE DIFFERENZIATA. Tra le garanzie di tipo strumentale dei diritti dei
lavoratori, vi sono gli strumenti di composizione delle controversie individuali di lavoro, in
primis la conciliazione e l’arbitrato.
La conciliazione può essere giudiziale o stragiudiziale. La prima non presenta parti-
colari caratteristiche: può avvenire in ogni momento de processo su iniziativa del giudice, il
quale è tenuto a tentarla sin dai primi momenti del giudizio; qualora venga raggiunta, viene
redatto il relativo processo verbale che ha efficacia di titolo esecutivo. La conciliazione
stragiudiziale invece può formare oggetto di tentativo sia in sede amministrativa - dinanzi
ad apposite commissioni intersindacali istituite presso l'ufficio provinciale del lavoro o presso
le relative sezioni zonali - sia in sede sindacale - quando è prevista dai contratti collettivi per
la risoluzione di controversie concernenti la loro applicazione.
Fino a tempi recenti la legge non prevedeva l’obbligatorietà del ricorso al tentativo di
conciliazione: solo in materia di licenziamenti individuali la L.108 aveva previsto per la pri-
ma volta e limitatamente all’area della tutela obbligatoria l’esperimento di un tentativo ob-
bligatorio di conciliazione come condizione di procedibilità per la domanda in giudizio volta a
ottenere la riassunzione del lavoratore ingiustamente licenziato. L’esigenza poi di fronteg-
giare il rischio di un sovraccarico del contenzioso davanti al giudice del lavoro, ha indotto il
legislatore ad una più radicale riforma. Nel 1998 è stato così introdotto per tutte le contro-
versie di lavoro, del settore pubblico e privato, un tentativo obbligatorio di conciliazione
quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, in suo difetto, il giudice deve
sospendere il giudizio, fissando alle parti un termine perentorio per proporre il tentativo.
Diverso dalla conciliazione è l'arbitrato, un istituto per mezzo del quale le parti per-
vengono alla composizione di una controversia attraverso il deferimento ad un terzo del po-
tere di decisione. Trova la sua fonte nel compromesso, negozio con cui si deferisce la con-
troversia già insorta, oppure nella clausola compromissoria, inserita in genere nel con-
tratto, con cui le parti si impegnano a deferire a terzi le possibili future controversie in ordi-
ne all’esecuzione o interpretazione del contratto. L'arbitrato è rituale, quando si svolge co-
me un vero e proprio giudizio, secondo le norme procedurali stabilite dalle stesse parti nel
compromesso o nella clausola compromissoria o in un altro atto successivo, o in mancanza
nel modo che l’arbitro ritenga più opportuno, salvo in ogni caso il principio del contraddetto-
rio; l’arbitrato rituale si conclude con il lodo, che acquista autorità di sentenza mediante un
decreto di omologazione del giudice che ne accerta la regolarità formale: l’impugnazione del
lodo è ammessa davanti alla Corte d’Appello nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato.
Le controversie di lavoro possono essere decise da arbitri solo se ciò sia consentito dai con-
tratti e accordi collettivi e purché l’arbitrato sia previsto come facoltativo e secondo diritto;
la clausola compromissoria deve inoltre essere considerata nulla qualora autorizzi la pronun-
cia degli arbitri secondo equità o escluda l’impugnabilità del lodo.
L’arbitrato irrituale o libero ricorre invece quando le parti rimettano all’arbitro, me-
diante compromesso o clausola compromissoria, la composizione della controversia in via
negoziale e non giurisdizionale; in questo caso il lodo ha natura negoziale ed effetti con-
trattuali. Per quanto riguarda specificamente le controversie relative ai rapporti di lavoro,
l’istituto presenta forti tratti di originalità. Innanzitutto, esperito il tentativo obbligatorio di
conciliazione, le parti possono deferire la controversia ad arbitri affinché la decidano in via
negoziale; ciò però solo a condizione che i contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro
contemplino tale facoltà e contengano una serie specifica di regole procedurali. La validità
del lodo arbitrale può essere oggetto di ricorso al Tribunale, la cui decisione non è impugna-
bile. Decorsi 30giorni dal lodo (o anche prima se le parti accettano per iscritto la decisione
arbitrale), o se il ricorso è respinto dal Tribunale, il lodo può essere depositato presso la
cancelleria del Tribunale, ed il giudice, su istanza della parte interessata ed accertatane la
regolarità formale, lo dichiara esecutivo con decreto.
La L.533/1973 ha devoluto le controversie di lavoro in primo grado al Tribunale in
composizione monocratica, in luogo del giudice del lavoro. Caratteristi-ci del processo del
lavoro sono i principi dell’immediatezza, della concentrazione e dell’ oralità: i termini
processuali sono infatti abbreviati rispetto a quelli previsti per le altre con-troversie, mentre
sono stabilite alcune preclusioni per costringere le parti ad assumere dife-se precise e ad
indicare i mezzi di prova sin dagli atti iniziali del processo; è previsto inoltre che lo
svolgimento del processo si esaurisca, salvo eccezioni, in una sola udienza. Il campo di
applicazione della normativa in esame, oltre che ai rapporti di lavoro subordinato, si estende
ai contratti agrari e ai rapporti di agenzia, rappresentanza e parasubordinazione.
Altra peculiarità della speciale disciplina delle controversie individuali di lavoro sono le
garanzie attinenti l’oggetto della domanda: la prima è relativa alla valutazione equitativa
dell’ammontare della prestazione dovuta di cui il giudice deve disporre la liquidazione quan-
do sia certo il diritto che ne costituisce il titolo; in secondo luogo, la sentenza di condanna
per i crediti di lavoro deve essere indefettibilmente munita di clausola di provvisoria ese-
cuzione; inoltre, il lavoratore ha diritto, oltre al normale credito per gli interessi legali di
mora conseguenti al ritardato pagamento, altresì al risarcimento del maggior danno deri-
vante dalla svalutazione monetaria dei crediti di lavoro, da liquidarsi anche d’ufficio.
Analoghe considerazioni possono essere fatte con riferimento alla tutela dei crediti previden-
ziali e retributivi dei dipendenti pubblici e privati delle pubbliche amministrazioni e degli enti
pubblici, anche se in questi casi la disciplina speciale si manifesta meno favorevole, per
effetto del divieto di cumulo e del riconoscimento del solo diritto alla maggior somma tra
interessi e rivalutazione. Altro aspetto di rilievo nell’ambito della disciplina processuale delle
controversie di la-voro è la cd. depenalizzazione delle sanzioni ossia la trasformazione in
illeciti amministra-tivi di alcuni illeciti inizialmente penali ritenuti non particolarmente gravi,
e ciò in considera-zione della scarsa efficacia delle sanzioni penali in materia di lavoro e
delle difficoltà del pro-cedimento giudiziario per la loro applicazione. La sanzione penale è
stata conservata per i comportamenti del datore di lavoro ritenuti particolarmente gravi e
pericolosi per l’integrità psico-fisica del lavoratore.
CAP. 9 – I RAPPORTI SPECIALI DI LAVORO
La previsione, accanto al tipo contrattuale fondamentale del rapporto di lavoro subordi-
nato, dei rapporti speciali di lavoro, trae la sua giustificazione dall’esigenza di
differenzia-re la disciplina del rapporto in relazione alle caratteristiche specifiche dell’attività
lavorativa e alle concrete articolazioni della situazione di sottoprotezione sociale tipica del
lavoratore subordinato. Rapporti speciali di lavoro sono tanto i rapporti la cui fattispecie si
discosta no-tevolmente da quella dell'art.2094, quanto quelli in cui assume particolare
rilevanza la tute-la dell'interesse pubblico. Quest'ultima categoria ricomprende anche
rapporti di lavoro particolari come quelli di lavoro nautico, marittimo ed aereo e quelli nel
settore del trasporto ferroviario ed autoferrotranviario.
I RAPPORTI SPECIALI CARATTERIZZATI DA INTERESSI PUBBLICI. Rientrano in questa categoria il
rapporto di lavoro del personale addetto alla navigazione marittima e della gente dell’
aria, disciplinati dal codice della navigazione. Le imprese che esercitano attività di naviga-
zione marittima ed aerea sono sottoposte ad una speciale disciplina anche per ciò che con-
cerne il rapporto di lavoro, per ragioni di interesse pubblico connesse alle esigenze superiori
della sicurezza e della regolarità della navigazione nonché della conservazione del patrimo-
nio navigante. In particolare l’assunzione deve avvenire mediante stipulazione formale, os-
sia atto pubblico davanti all’autorità marittima per il contratto di arruolamento; forma scritta
per il contratto del personale di volo, ed è subordinata all’iscrizione in appositi albi o registri.
L’inserzione del lavoratore nautico nell’organizzazione della nave o dell’aeromobile giustifica
la sua sottoposizione al potere gerarchico e disciplinare del comandante e dell’autorità pub-
blica. A questo affievolimento della tutela del lavoratore nautico fa riscontro la previsione di
talune speciali garanzie rafforzatici della tutela dei diritti patrimoniali. Il lavoratore ha per
esempio diritto alla retribuzione in ogni caso di sospensione del servizio per malattia o lesio-
ne; nel caso poi che il credito per le retribuzioni maturate sia rimasto insoddisfatto, ha dirit-
to al mantenimento a bordo della nave con la prosecuzione della stessa retribuzione fino all’
integrale soddisfazione; i suoi crediti retributivi sono assistiti inoltre da privilegio speciale
sulla nave o sull’aeromobile ed è espressamente disposta la sospensione della prescrizione
in costanza di rapporto. La normativa del rapporto di lavoro nautico si pone in posizione
speciale ma può essere integrata in via sussidiaria mediante l’applicazione della disciplina
del lavoro subordinato comune, seppur solo in via analogica per colmare eventuali lacune.
Infine, le controversie di lavoro della gente di mare sono devolute alla competenza esclusiva
del giudice del lavoro, ai sensi della L.533/73.
Altro rapporto di lavoro speciale per la rilevanza degli interessi è quello che intercorre
tra le amministrazioni pubbliche e un prestatore di lavoro e che, fino alle radicali riforme de-
gli anni ’90, era definito rapporto di pubblico impiego. Inizialmente, essendo alquanto li-
mitate le funzioni dello Stato, i dipendenti pubblici erano riguardati soprattutto nella loro ve-
ste di funzionari, ossia di soggetti titolari di organi dell’amministrazione pubblica che ne ma-
nifestavano all’esterno la volontà. Di qui l’immediata connessione della prestazione lavorati-
va degli impiegati con l’interesse generale e la conseguente esigenza di richiedere a questi
particolare diligenza, fedeltà e adeguato comportamento; e di qui anche la necessità di as-
sumere attraverso concorsi pubblici, al fine di scegliere imparzialmente i più capaci per l’e-
sercizio delle potestà pubbliche. In precedenza il rapporto non si costituiva con il contratto
ma nasceva da un atto unilaterale, il provvedimento di nomina, dell’amministrazione pubbli-
ca e ciò imprimeva al rapporto un carattere autoritario; il rapporto era inoltre interamente
disciplinato da leggi e regolamenti ed era gestito in tutte le sue vicende mediante l’emana-
zione di atti amministrativi; la subordinazione era gerarchica; il giudice competente era
quello amministrativo: dal 1971 il Tar in primo grado e Consiglio di Stato in appello. A parti-
re dagli anni ’70 il rapporto di pubblico impiego ha attraversato una fase di significativa tra-
sformazione. Particolare rilevanza ha avuto la L.93/1983, legge quadro sul pubblico im-
piego la quale, pur ribadendo la distinzione rispetto al lavoro privato, prevedeva nuovi stru-
menti sia per favorire l’omogeneizzazione delle posizioni giuridiche, la perequazione e tra-
sparenza dei trattamenti economici e l’efficienza amministrativa del personale pubblico, sia
per avvicinare nei contenuti la normativa dei rapporti di impiego pubblico a quella del lavoro
privato. La parte più importante della legge quadro era la previsione di inserire l’accordo
sindacale tra le fonti di disciplina del rapporto di pubblico impiego.
La necessità di razionalizzare il settore pubblico per migliorarne l’efficacia, l’efficienza e
la produttività, è all’origine del D.Lgs.29/1993 con il quale fu realizzata la privatizzazione
del pubblico impiego, assoggettandolo alla contrattazione individuale e collettiva, e la ri-
forma della dirigenza pubblica. Una delle innovazioni fondamentali è stata l’abolizione della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e l’attribuzione al giudice ordinario della
competenza relativa alle controversie di lavoro dei dipendenti pubblici. Nell’arco di pochi
anni, l’esigenza di procedere ad una riduzione ulteriore degli sprechi gestionali nell’ambito
della pubblica amministrazione, hanno indotto il legislatore ad avviare una seconda fase del
processo riformatore e a perseguire una più accentuata equiparazione della disciplina del la-
voro pubblico con quello alle dipendenze dei privati.
La riforma del lavoro pubblico ha determinato una vera a propria trasformazione del
rapporto, ormai trasferito nel dominio dell’autonomia privata, ma non ne ha per contro eli-
minato i profili di specialità, a cominciare dal sistema delle fonti e delle relazioni sindacali.
È stata infatti apprestata in questa materia una speciale disciplina al duplice fine di
garantire la contrattazione collettiva da possibili interventi soppressivi o limitativi da parte
del legisla-tore, e di evitare il ripetersi di fenomeni di sovrapposizione tra contratto e legge.
Ed infatti, dopo aver ribadito che i rapporti di lavoro sono regolati contrattualmente, il
legislatore rifor-mista ha stabilito in primo luogo che le norme di legge, di regolamento o di
statuto, salvo quelle applicabili alla generalità dei lavoratori, che siano intervenute dopo la
stipula di un contratto collettivo possono essere derogate da successivi contratti collettivi e
divengono inapplicabili per la parte derogata, salvo che la legge stessa non disponga
espressamente in senso contrario; invece per le norme di legge e di regolamento o per gli
atti amministrativi che attribuiscano incrementi retributivi, incidendo così sui trattamenti
economici previsti dai contratti collettivi, è disposta l’automatica cessazione di efficacia a far
data dal successivo contratto collettivo. Per quanto riguarda i limiti al contenuto del
contratto di lavoro pubblico, il trattamento economico è fissato esclusivamente dai
contratti collettivi o dai contratti individuali, ma comunque alle condizioni previste da quelli
collettivi. Lo Statuto dei lavoratori si applica alle pubbliche amministrazioni
indipendentemente dal numero di dipendenti.
La riforma modifica radicalmente il precedente sistema poiché la contrattualizzazione
del rapporto di lavoro e della sua disciplina importa che anche nel settore pubblico i contrat-
ti collettivi si applichino direttamente ai rapporti individuali, senza la necessità che essi ven-
gano recepiti, come avveniva in passato, in atti legislativi o regolamentari. Il legislatore è
tuttavia intervenuto a regolamentare alcuni istituti ritenuti di particolare rilievo: tra questi il
part time. Nello specifico la trasformazione del rapporto di lavoro pubblico, di qualsiasi
qualifica e livello, in rapporto di lavoro part time può avvenire a richiesta del lavoratore:
l’amministrazione di appartenenza può negare tale trasformazione solo quando l’attività e-
sterna comporti un conflitto di interessi con quella di servizio; e se la prestazione lavorativa
residua non è superiore al 50% della prestazione normale, è consentito al lavoratore altresì
lo svolgimento di attività di lavoro autonomo o subordinato nonché l’iscrizione in albi profes-
sionali. Il legislatore ha inoltre regolato la responsabilità e il potere disciplinare in modo
sostanzialmente analogo a quello previsto dall’art.7 dello Statuto dei lavoratori, in particola-
re attraverso l’originale previsione di una sorta di patteggiamento, per cui con il consenso di
entrambe le parti il lavoratore viene sanzionato in misura ridotta ma rinuncia all’eventuale
impugnazione della sanzione stessa. Per quanto riguarda l’orario di lavoro la legge ha fis-
sato il principio generale in base al quale, salve alcune eccezioni legate ai servizi pubblici da
erogarsi con carattere di continuità, l’orario di servizio si articola su 5giorni la settimana,
compresi i pomeriggi. Anche la disciplina delle mansioni presenta notevoli particolarità ri-
spetto a quella fissata per il lavoro privato: il dipendente pubblico deve essere adibito alle
mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito del-
la classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, oppure a quelle successiva-
mente acquisite. L’assegnazione temporanea a mansioni superiori può essere disposta per
periodi non eccedenti i 6mesi nelle ipotesi di carenze di organico, prorogabili a 12mesi nel
caso siano state avviate le procedure per la copertura del posto vacante, oppure per la so-
stituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto per tutto il pe-
riodo dell’assenza. L’assegnazione a mansioni superiori, anche se illegittima, attribuisce al
dipendente il diritto al maggiore trattamento retributivo per il periodo di effettiva prestazio-
ne ma non costituisce il presupposto del diritto alla promozione. Per quanto riguarda le ec-
cedenze di personale, malgrado il parziale richiamo alla disciplina prevista per il lavoro
privato, la rilevazione di eccedenze attiva, previa consultazione sindacale, un collocamento
in disponibilità per la durata massima di 24mesi del personale che non sia stato possibile
utilizzare altrimenti; a differenza dei lavoratori privati collocati in mobilità, il collocamento in
disponibilità non risolve il rapporto di lavoro, e l’indennità di cui godono i lavoratori interes-
sati (pari all’80% della retribuzione base) resta a carico dell’amministrazione di provenien-
za, fino alla riutilizzazione del lavoratore attraverso il passaggio ad altra amministrazione o
fino alla scadenza del periodo previsto, data in cui il rapporto si intende definitivamente
risolto.
Nel campo della disciplina delle controversie relative al rapporto di lavoro pubblico, si
è definitivamente realizzato il trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario, e restano
devolute alla cognizione del giudice amministrativo soltanto le controversie in materia di
concorsi per le assunzioni e quelle relative ai rapporti di lavoro non contrattualizzati.
La qualifica dirigenziale e le relative responsabilità sono state poi uno dei punti cen-
trali della riforma: fondamentale è stata dunque la distinzione tra responsabilità di indirizzo
politico e responsabilità di direzione amministrativa. Al fine inoltre di introdurre anche nella
pubblica amministrazione modelli organizzativi per obiettivi, misurati sul raggiungimento di
standards di efficienza efficacia ed economicità, e per rendere più flessibile l’attività delle
strutture, si è provveduto alla privatizzazione degli atti di micro organizzazione e alla ride-
finizione del rapporto di lavoro dei dirigenti, articolandola nelle fasce di dirigente generale e
dirigente ai fini di trattamento economico e del conferimento degli incarichi. I dirigenti sono
dunque responsabili del risultato dell’attività svolta dagli uffici ai quali sono preposti, della
realizzazione dei programmi e dei progetti loro affidati, della gestione delle risorse umane,
finanziarie e strumentali loro assegnate.
I RAPPORTI SPECIALI CARATTERIZZATI DALLA POSIZIONE PERSONALE. La L.877/1973 stabilisce che è
lavoratore a domicilio "chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio do-
micilio o in locale di cui abbia disponibilità, anche con l'aiuto accessorio di membri della sua
famiglia conviventi e a carico, ma con esclusione di manodopera salariata e di apprendisti,
lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie e attrezzature pro-
prie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi". Tale definizione ha
un fine tipicamente anti-fraudolento con cui il legislatore ha inteso restringere la discrezio-
nalità imprenditoriale, allo scopo di reprimere le diffuse pratiche di sfruttamento del lavoro a
domicilio poste in essere dagli imprenditori, regolando contrattualmente il rapporto come la-
voro autonomo o come appalto: la subordinazione in questo caso ricorre quando il lavorato-
re a domicilio è tenuto ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecu-
zione, le caratteristiche o i requisiti del lavoro da svolgere. La subordinazione dunque è da
intendersi in questo caso in senso tecnico-funzionale, con l’assenza del vincolo dell’orario di
lavoro e della responsabilità disciplinare; è inoltre necessario che il committente sia un
imprenditore: diversamente, non vi sarà lavoro a domicilio subordinato ma autonomo. Per
quanto riguarda la prestazione, la legge esclude l’ammissibilità del lavoro a domicilio per at-
tività che comportino l’impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute o l’in-
columità del lavoratore e dei suoi familiari, e ciò evidentemente al fine di evitare l’evasione
delle norme in tema di prevenzione di infortuni e malattie professionali; è inoltre vietato af-
fidare lavoro a domicilio per la durata di 1anno a tutte quelle aziende che abbiano disposto
licenziamenti o sospensioni dal lavoro. In relazione alla retribuzione, non essendo possibili la
determinazione dell’orario di lavoro e il controllo sulla durata della prestazione, è evidente-
mente impraticabile il sistema di retribuzione a tempo, per cui l’unica forma idonea di retri-
buzione è il cottimo che fa riferimento esclusivo alla quantità prodotta, prescindendo dal
tempo impiegato: il legislatore ha inoltre stabilito che il cottimo deve essere cottimo pieno,
secondo le tariffe previste dai contratti collettivi di categoria. Disposizioni particolari preve-
dono poi che, se il committente affida al lavoratore una quantità di lavoro tale da procurargli
una prestazione continuativa corrispondente all’orario normale di lavoro, questi è obbligato
ad astenersi da attività, effettuate per conto proprio o di terzi, in concorrenza con quella del
committente. Il legislatore ha infine previsto dei controlli sulla costituzione del rapporto di
lavoro a domicilio istituendo appositi registri dei lavoratori a domicilio e dei datori di lavoro
che intendano commettere lavoro a domicilio, e con la previsione di un libretto personale di
controllo di cui i prestatori devono essere muniti; l’impiego dei lavoratori a domicilio avviene
esclusivamente previo inoltro ai Centri per l’impiego di un’apposita richiesta che può anche
essere nominativa. Il contratto di lavoro a domicilio è uno dei pochi contratti di lavoro in cui
ha rilievo una forma scritta, sia pure non ad substantiam ma ad probationem.
Simile al lavoro a domicilio è il telelavoro caratterizzato dalla collocazione logistica del
prestatore di lavoro all’esterno dell’impresa, alla cui struttura è tuttavia collegato mediante
tecnologie informatiche. La prestazione del telelavoratore potrà essere ricondotta a seconda
dei casi ad un contratto di lavoro subordinato, autonomo o anche parasubordinato.
Il rapporto di lavoro domestico può essere definito come quel rapporto avente ad og-
getto la prestazione dei servizi necessari al governo della casa ed ai bisogni personali e fa-
miliari del datore di lavoro da parte di terzi estranei, che assumono la posizione tipica di la-
voratori subordinati. È regolato in parte dal codice civile, in parte dalla L.339/1958, limitan-
dosi quest’ultima a disciplinare il lavoro domestico avente carattere di continuità e prevalen-
za presso un datore di lavoro per la durata di almeno 4ore giornaliere: tale legge ha svolto
per lungo tempo una funzione parzialmente sostitutiva della contrattazione collettiva che in
questo settore è piuttosto recente. Il contenuto e l’oggetto della prestazione di lavoro dome-
stico non si differenziano da quelli della prestazione di lavoro subordinato in genere; sua ca-
ratteristica è invece la destinazione dell’attività lavorativa a vantaggio dell’organizzazione
familiare e non di un’impresa o di un esercente un’attività professionale. Al fine dello svolgi-
mento della prestazione di lavoro domestico non sempre è necessaria la coabitazione; tutta-
via, essendo il lavoro prestato nella sfera della vita privata del datore, esso implica sempre
l'elemento della convivenza, inteso in senso lato. Per effetto della convivenza deriva l’obbli-
go, a carico del datore di lavoro, di corrispondere oltre alla retribuzione in denaro anche vit-
to e alloggio nonché di provvedere alle cure e all’assistenza medica in caso di malattia di
breve durata del lavoratore. L'assunzione del personale domestico avviene direttamente con
la denuncia del rapporto di lavoro all’Inps; il lavoratore a domicilio è escluso dall’ambito di
applicazione della tutela reale ed obbligatoria contro i licenziamenti. Il lavoratore ha diritto
ad un riposo settimanale di una giornata intera, e a riposi giornalieri e notturni.
Il lavoro sportivo è un rapporto di lavoro subordinato intercorrente tra società sporti-
ve e sportivi professionisti, regolato dalla L.91/1981, la quale definisce sportivi professionisti
"gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano
l'attività sportiva a titolo oneroso, con carattere di continuità nell'ambito delle discipline re-
golamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive naziona-
li”. Nel lavoro sportivo il vincolo della subordinazione ricorre soltanto in presenza di una pre-
stazione continuativa nel tempo; lo sportivo professionista assume, invece, la veste di lavo-
ratore autonomo quando ricorre anche uno solo dei seguenti requisiti: a) l'attività è svolta
nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni collegate tra di
loro in un breve periodo di tempo; b) non è previsto alcun obbligo di frequenza a sedute di
preparazione o di allenamento; c) la prestazione, pur avendo carattere continuativo, non
supera le 8ore settimanali o 5giorni in un mese o 30giorni in un anno. La costituzione del
rapporto di lavoro può avvenire direttamente, senza il tramite degli uffici di collocamento. Il
contratto individuale di lavoro deve essere stipulato per iscritto ad substantiam secondo il
contratto-tipo predisposto dalle federazioni sportive nazionali e dai rappresentanti delle ca-
tegorie interessate mediante accordo triennale; ogni eventuale clausola del contratto indivi-
duale contenente deroghe peggiorative viene sostituita di diritto da quella del contratto-ti-
po; il contratto individuale deve poi essere depositato presso la federazione sportiva nazio-
nale per l'approvazione; deve comunque contenere una clausola che stabilisca l’obbligo
dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il
conseguimen-to degli scopi agonistici; non può contenere clausole di non concorrenza o
limitative della libertà professionale dello sportivo per il periodo successivo alla cessazione
del contratto. Al rapporto di lavoro sportivo subordinato non si applica la disciplina dei
licenziamenti indivi-duali. Il contratto può avere una durata determinata, ma non superiore a
5anni; è consenti-ta la cessione del contratto da una società sportiva ad un’altra prima della
scadenza, sem-prechè vi sia il consenso dell'atleta; non è invece necessario il consenso dello
sportivo nella cessione del contratto a tempo indeterminato. Infine, le Federazioni sportive
nazionali stabi-liscono un premio di addestramento e formazione tecnica in favore della
società o associa-zione sportiva presso la quale l’atleta ha svolto la sua ultima attività
dilettantistica o giova-nile, e ciò allo scopo di compensare l’impegno speso da quest’ultima
nella formazione dell’a-tleta.
I CONTRATTI CON FINALITÀ FORMATIVA. Il contratto di apprendistato, chiamato tirocinio dal
codice civile, risale agli statuti delle corporazioni medioevali. L'apprendistato è un con-tratto
a contenuto formativo, in cui il datore di lavoro, oltre a versare un corrispettivo per l'attività
svolta, garantisce all'apprendista una formazione professionale. Nella realtà accade spesso
che il contratto di apprendistato non venga utilizzato per raggiungere la sua funzione tipica
di apprendimento del mestiere, ma serva piuttosto ad impiegare il lavoro dei giovani
apprendisti come qualifica preliminare alla qualifica contrattuale definitiva, per godere di un
alleggerimento del costo del lavoro in termini di minore retribuzione e minori contributi pre-
videnziali. Possono essere avviati ad un contratto di apprendistato i giovani fra i 16 ed i 24
anni, 26nelle aree di declino industriale e a ritardato sviluppo; per il settore dell’artigianato
la legge attribuisce alla contrattazione collettiva la facoltà di elevare il limite a 29anni. Il nu-
mero degli apprendisti occupati non può superare il numero del personale qualificato e spe-
cializzato già in servizio presso il datore di lavoro; tuttavia, i datori che non hanno alle pro-
prie dipendenze più di 2lavoratori qualificati o specializzati, possono assumere fino a tre ap-
prendisti. Gli aspiranti apprendisti devono iscriversi in appositi elenchi presso i Centri per
l’impiego, e l’assunzione deve essere preliminarmente autorizzata dalla Direzione
provinciale del Lavoro e preceduta da apposita visita sanitaria. L’apprendista è obbligato a
prestare con diligenza la propria opera, ad obbedire alle disposizioni impartite
dall’imprenditore, a seguir-ne gli insegnamenti e a frequentare i corsi di insegnamento
complementare: le ore destina-te all’attività formativa sono considerate a tutti gli effetti ore
lavorative e computate nell’o-rario di lavoro. La durata del rapporto di apprendistato non
può essere inferiore ai 18mesi né superiore ai 4anni: ai fini del computo della durata
massima, i periodi di servizio prestati in qualità di apprendista presso più datori di lavoro si
sommano, purché non siano separati da intervalli superiori ad un anno e sempre che si
riferiscano alla medesima attività. Al ter-mine del periodo l’apprendista deve sostenere una
prova di idoneità all’esercizio del mestie-re, consistente in un esame davanti alla
commissione provinciale, e il datore di lavoro è te-nuto a rilasciare un attestato di tirocinio
con l’indicazione della qualifica conseguita. Per i contratti di apprendistato conclusi a
decorrere dal 1998, le agevolazioni contributive previ-ste dalla normativa vigente non si
applicano qualora gli apprendisti non partecipino alle ini-ziative di formazione esterna
previste dai contratti collettivi.
Il contratto di formazione e lavoro è un contratto di lavoro con la finalità di favorire
l’inserimento occupazionale dei giovani. Possono essere assunti con tale contratto i lavora-
tori di età compresa tra i 16 e i 32anni. La durata massima del contratto non può superare i
24mesi se si tratta di contratto destinato all’acquisizione di professionalità intermedie o ele-
vate; non può superare 12mesi nel caso che il contratto sia volto all’inserimento professio-
nale del giovane attraverso un’esperienza lavorativa che ne adegui le capacità professionali
al contesto organizzativo e produttivo. A seguito del D.Lgs.276/2003, la vigente disciplina
dei contratti di formazione e lavoro viene disapplicata con effetto immediato trovando appli-
cazione esclusivamente nell’ambito del lavoro alle dipendenze della PA. Presupposto per la
stipulazione del c.f.l. è la predisposizione di progetti formativi sottoposti all’approvazione
preventiva della Commissione regionale per le politiche del lavoro. È previsto un determina-
to numero di ore di formazione teorica che ammonta a 80ore per l’acquisizione di professio-
nalità intermedie, 130ore per le professionalità elevate, mentre per l’acquisizione di
capacità professionali adeguate al contesto produttivo sono previste 20ore di formazione di
base sulla disciplina in materia di rapporto di lavoro, di organizzazione de lavoro e di
prevenzione antinfortunistica. Il c.f.l. deve essere stipulato in forma scritta ad substantiam,
in mancanza il lavoratore si intende assunto con contratto a tempo indeterminato; inoltre il
contratto si reputa dall’origine a tempo indeterminato se il datore di lavoro non ottempera
agli obblighi del contratto.
Il contratto di inserimento sostituisce il contratto di formazione e lavoro (CFL) nel
settore privato: ha lo scopo di inserire o reinserire nel mercato del lavoro alcune categorie di
persone, attraverso un progetto individuale di adattamento delle competenze professio-nali
a un determinato contesto lavorativo. Possono accedervi: persone di età compresa tra 18 e
29anni; i disoccupati di lunga durata tra 29 e 32anni; i lavoratori con più di 50anni pri-vi del
posto di lavoro; i lavoratori che intendono riprendere un'attività e che non hanno la-vorato
per almeno 2anni; donne di qualsiasi età che risiedono in aree geografiche in cui il tasso di
occupazione femminile sia inferiore almeno del 20% a quello maschile (oppure quello di
disoccupazione superiore del 10%); persone con gravi handicap fisici, mentali o psichici.
Quanto ai datori di lavoro, possono essere: enti pubblici economici, imprese e loro consorzi;
gruppi di imprese; associazioni professionali, socio-culturali e sportive; fondazioni; enti di
ricerca pubblici e privati; organizzazioni e associazioni di categoria. Non è prevista una
percentuale massima di lavoratori che possono essere assunti con contratto di inseri-mento,
anche se questa potrà essere stabilita dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali.
Il datore di lavoro, per poter assumere con questo contratto, deve aver mantenu-to in
servizio almeno il 60%dei lavoratori il cui contratto di inserimento sia scaduto nei 18 mesi
precedenti. Il contratto può essere stipulato per tutte le attività e per tutti i settori, esclusa
la PA. Il contratto di inserimento dura da 9 a 18mesi, (fino a 36 mesi per gli assunti con
grave handicap), prorogabili fino a 18 o 36mesi rispettivamente. Non può essere rinno-vato
tra le stesse parti, si può però stipulare un nuovo contratto di inserimento con un di-verso
datore di lavoro. Il contratto di inserimento deve avere forma scritta e contenere l'in-
dicazione precisa del progetto individuale di inserimento. La mancanza di forma scritta com-
porta la nullità del contratto e la trasformazione in un rapporto di lavoro a tempo indetermi-
nato. La definizione del progetto individuale di inserimento deve avvenire con il consenso
del lavoratore e nel rispetto di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali, territoriali o
aziendali. L'inquadramento del lavoratore assunto non può essere inferiore per più di 2livelli
rispetto a quello previsto dal contratto nazionale per i lavoratori che svolgono la stessa
mansione. Al datore di lavoro spettano inoltre degli sgravi economici e contributivi per l'as-
sunzione di lavoratori con contratto di inserimento.
CAP. 10 – IL MERCATO DEL LAVORO
La disciplina del mercato del lavoro mira alla tutela dell’interesse collettivo dei lavorato-
ri all’occupazione: questo interesse è costituzionalmente garantito dall’art.4 sotto il profilo
del diritto e del dovere al lavoro. In particolare, il diritto al lavoro è una situazione sogget-
tiva della quale sono titolari i singoli cittadini, cui la norma mira a garantire non soltanto la
libertà di lavoro intesa come scelta dell’attività professionale, ma altresì l’interesse all’occu-
pazione intesa come possibilità di soddisfare il bisogno di accesso alle occasioni disponibili.
La tutela del diritto al lavoro si realizza con l’attività sindacale rivolta alla difesa dei livelli di
occupazione e al controllo della distribuzione delle occasioni di impiego; nonché con
l’attività dei pubblici poteri tendente alla promozione dell’occupazione sia attraverso
politiche econo-miche che mirano a favorire la crescita spontanea delle attività e degli
investimenti produtti-vi, sia attraverso l’incentivazione della domanda delle imprese e la
creazione di posti di la-voro tramite il sostegno finanziario e l’agevolazione degli
investimenti, sia infine dal lato dell’offerta di manodopera attraverso la qualificazione e
riqualificazione dei disoccupati e la formazione professionale dei lavoratori in genere. In
passato l’intervento legislativo è stato rivolto soprattutto a dettare una disciplina
dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro ca-pace di condizionare le scelte dei datori e di
rimediare alla debolezza del lavoratore nella fa-se dell’assunzione. Negli anni più recenti
l’intervento pubblico è invece rivolto a sostenere e promuovere lo sviluppo della domanda di
forza lavoro da parte delle imprese, a imporre li-miti all’autonomia negoziale delle parti per
ciò che concerne la stessa conclusione dei con-tratti di lavoro, e a delimitare i poteri
dell’imprenditore in relazione alla cessazione del con-tratto di lavoro e alla gestione delle
eccedenze di personale.
IL COLLOCAMENTO ORDINARIO. Con l’istituto del collocamento il legislatore, intervenendo
nella fase antecedente a quella della vera a propria costituzione del rapporto di lavoro, ha
mirato a regolamentare l’incontro preliminare tra domanda ed offerta di lavoro, attraverso
un’apposita attività amministrativa di controllo e selezione. In origine il collocamento è stato
concepito come funzione pubblica e gratuita di mediazione con lo scopo di tutelare il lavora-
tore non solo dalla speculazione degli intermediari privati ma più in generale dagli effetti ne-
gativi dello squilibrio tra domanda e offerta che caratterizza strutturalmente il mercato del
lavoro. Di qui il ricorso, nel periodo pre-corporativo, al cd. collocamento di classe o sindaca-
le, mediante il quale i sindacati, istituendo uffici di collocamento, si proponevano di tutelare i
lavoratori nella ricerca dell’occupazione e di rafforzare il loro potere contrattuale mediante
la contrattazione delle assunzioni; durante il periodo corporativo invece il collocamento era
monopolio pubblico, e anche la gestione concreta degli uffici di collocamento era affidata ai
sindacati corporativi, soggetti di diritto pubblico. Successivamente, fortemente limitativo del
potere negoziale dei privati e condizionato dalle rigidità burocratiche, il collocamento pubbli-
co si è rivelato incapace di soddisfare le esigenze di un mercato del lavoro più sofisticata e
differenziata. Si è così posta l’esigenza di una revisione sostanziale della disciplina del collo-
camento, alleggerendo innanzitutto la burocrazia e le procedure del collocamento fino ad
una loro progressiva eliminazione: e ciò è avvenuto con il passaggio dapprima ad un siste-
ma fondato sulla richiesta nominativa e poi dal 1996 con il sistema attuale ossia l’assun-
zione diretta, basata su una semplice comunicazione successiva all’ufficio di collocamento
dell’avvenuta assunzione. Parallelamente è stata avviata una riforma sul fronte delle politi-
che attive del lavoro finalizzata a promuovere l’occupazione e in particolare l’accesso dei
giovani al mercato del lavoro, la mobilità della forza lavoro, la creazione di forme occupazio-
nali diverse dal tradizionale rapporto di lavoro subordinato. Infine, con la riforma introdotta
con D.Lgs.469/1997 sono passate alle Regioni le competenze in materia di governo del mer-
cato del lavoro ed è stata modificata la funzione pubblica dei servizi all'impiego consentendo
anche agli operatori privati di erogare tutti i servizi connessi con il collocamento (mediazio-
ne, ricerca e selezione, orientamento e formazione, somministrazione di lavoro, ecc.). In at-
tuazione di questi decreti, sono devolute con legge regionale alle Province le funzioni e i
compiti relativi alle varie forme di collocamento nonché l’attivazione da parte delle Province
stesse di strutture amministrative denominate Centri per l’Impiego al fine di gestire ed ero-
gare i servizi connessi a compiti e funzioni ad esse attribuiti.
LA RIFORMA BIAGI DEL 2003. Nel 2003 il Parlamento ha approvato la legge delega 30/2003
in materia di occupazione e mercato del lavoro (la cosiddetta Legge Biagi): ad ottobre è
entrato in vigore il D.Lgs.276/2003, primo passo verso la piena attuazione della legge de-
lega. Scopo della riforma è quello di garantire al settore del lavoro quella flessibilità che già
lo caratterizza in altri contesti geografici al fine ultimo della crescita economica del Paese.
La riforma Biagi prefigura un mercato del lavoro nel quale operatori pubblici e operatori pri-
vati autorizzati svolgono la propria attività in regime di competizione e concorrenza. Già il
D.lgs.276 infatti rende operativa la riforma dei Servizi per l'impiego, accostando ai tradizio-
nali operatori pubblici del mercato (i Centri per l'impiego), le nuove Agenzie per il lavoro e
gli altri operatori autorizzati. L'obiettivo è realizzare un sistema coerente di strumenti, per
garantire la trasparenza e l'efficienza del mercato del lavoro anche grazie all'interconnessio-
ne con la Borsa nazionale del lavoro. I Centri per l'impiego operano a livello provinciale
secondo gli indirizzi dettati dalle Regioni. Offrono una serie di servizi destinati ai lavoratori e
alle imprese quali l’accoglienza, l’orientamento, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, la
preselezione, la consulenza alle imprese, l’assistenza a persone disabili o svantaggiate. Le
Agenzie per il lavoro sono soggetti in possesso di autorizzazione dello Stato che svolgono
attività di somministrazione di lavoro, intermediazione, ricerca e selezione del personale,
supporto alla ricollocazione professionale. È inoltre previsto un processo di accreditamento
da parte delle Regioni che consente alla Agenzie di operare a livello regionale e partecipare
alla rete dei Servizi per l'impiego. Le Agenzie per il Lavoro che vengono autorizzate o accre-
ditate devono essere iscritte a un apposito Albo istituito presso il Ministero del lavoro e delle
politiche sociali. L'Albo è suddiviso in 5sezioni, una per ogni tipo di attività che può essere
svolta. Per essere autorizzate, le Agenzie devono possedere alcuni requisiti: sede nel terri-
torio italiano o di altro Stato membro dell'UE; disponibilità di uffici idonei allo svolgimento
dell'attività; adeguate competenze professionali degli operatori; rispetto delle disposizioni
sulla tutela del diritto del lavoratore alla diffusione dei propri dati; assenza di condanne pe-
nali per gli amministratori, direttori generali, dirigenti con rappresentanza e soci accoman-
datari; interconnessione con la borsa continua del lavoro e invio alle autorità competenti
delle informazioni rilevanti per il mercato del lavoro. Le Agenzie del lavoro si distinguono, a
seconda dell'attività che sono autorizzate a svolgere, in agenzie di somministrazione, ag. di
intermediazione, ag. di selezione, ag. di supporto alla ricollocazione del personale.
La somministrazione di lavoro permette ad un soggetto-utilizzatore di rivolgersi ad
un altro soggetto appositamente autorizzato (somministratore), per utilizzare il lavoro di
personale non assunto direttamente, ma dipendente del somministratore. Nella sommini-
strazione si distinguono quindi 2contratti diversi: un contratto di somministrazione di natura
commerciale, stipulato tra l'utilizzatore ed il somministratore, di natura commerciale; un
contratto di lavoro subordinato stipulato tra il somministratore e il lavoratore. Entrambi i
contratti possono essere stipulati a tempo determinato o indeterminato. La somministrazio-
ne rientra nell'ambito delle esternalizzazioni delle attività di impresa, ed è diretta, da un la-
to, ad offrire alle aziende un nuovo ed efficiente strumento per procurarsi forza lavoro e,
dall'altro, ad offrire particolari garanzie ai lavoratori somministrati. Il contratto di sommini-
strazione a tempo indeterminato può essere stipulato solo per particolari attività o mansioni
quali ad es. i servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, servizi di pulizia, cu-
stodia, portineria, gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini e servizi di eco-
nomato. Il contratto di somministrazione a tempo determinato può essere stipulato per far
fronte a esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se rife-
ribili all'ordinaria attività dell'utilizzatore oppure per le “esigenze temporanee” indicate
dalle clausole dei contratti collettivi. Il contratto di lavoro a tempo determinato può essere
proro-gato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata prevista
dal contratto collettivo applicato dal somministratore. Il contratto tra utilizzatore e
somministra-tore deve avere forma scritta e contenere alcune specifiche indicazioni. Non è
richiesta inve-ce alcuna forma specifica per il contratto di lavoro che lega il somministratore
e il lavorato-re. I lavoratori dipendenti dal somministratore hanno diritto alla parità di
trattamento eco-nomico e normativo rispetto ai dipendenti di pari livello dell'utilizzatore, a
parità di mansioni svolte. L'utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a
corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali: pertanto se il
somministratore non do-vesse versare il dovuto al lavoratore questi può richiederlo
all'utilizzatore, che è obbligato a corrisponderlo. In caso di contratto di lavoro a tempo
indeterminato è previsto da parte del somministratore il pagamento di un'indennità la cui
misura viene determinata dal contratto collettivo di riferimento e non può essere inferiore
alla misura di 350 euro mensili, secondo quanto previsto da decreto del Ministro del lavoro e
delle politiche sociali.
Per quanto riguarda l’assunzione del lavoratore da parte delle imprese la legge prevede
attualmente la regola dell’assunzione diretta da parte dei datori di lavoro privati e degli
enti pubblici economici, con il solo vincolo di inviare al Centro per l’impiego competente, en-
tro 5giorni dall’assunzione, una comunicazione contenente il nominativo del lavoratore as-
sunto, la data dell’assunzione, la tipologia contrattuale, la qualifica e il trattamento econo-
mico e normativo, nonché le informazioni necessarie per godere delle eventuali agevolazioni
previste dalla legge. Attualmente dunque l’iscrizione nelle liste di collocamento assume an-
cora rilievo esclusivamente ai fini dell’acquisizione da parte del lavoratore disoccupato del
diritto alle erogazioni previdenziali e nelle ipotesi in cui la legge attribuisce particolari agevo-
lazioni all’impresa che assume legate all’anzianità di iscrizione del lavoratore. Sul piano dell’
avviamento al lavoro invece l’iscrizione nelle liste e la predisposizione delle relative gradua-
torie ha ormai scarso rilievo in quanto limitato soltanto all’avviamento numerico a selezione
per alcuni tipi di assunzioni presso lo stato e gli enti pubblici: in particolare, ciò accade per
l’assunzione dei dipendenti pubblici da inquadrare nei livelli retributivo-funzionali per i quali
non è richiesto un titolo di studio superiore a quello della scuola dell’obbligo.
La regola dell’assunzione diretta incontra il solo limite della quota di riserva sulle as-
sunzioni a favore dei lavoratori appartenenti alle fasce deboli, in particolare i disoccupati di
lungo periodo e i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità. I datori di lavoro obbligati al rispet-
to della riserva sono quelli che occupano più di 10dipendenti. La percentuale di riserva è fis-
sata nella misura del 12%, ma le Commissioni regionali per le politiche del lavoro possono
elevare fino al 20% questo limite. Sono escluse dalla riserva alcune categorie di lavoratori in
virtù dell’elevato contenuto fiduciario delle mansioni, quali ad es. i dirigenti, e quelle indivi-
duate dai contratti collettivi di categoria.
I COLLOCAMENTI SPECIALI. Le riforme del 1997 hanno interessato anche il collocamento in
agricoltura destinatario di una regolamentazione speciale: la riforma ha riguardato in-
nanzitutto la soppressione delle strutture e degli uffici periferici del Ministero del lavoro i cui
compiti erano legati alla gestione del collocamento in agricoltura, con il passaggio delle ri-
spettive competenze ai Centri per l’impiego; ha poi riguardato la sostituzione delle specifi-
che Commissioni a composizione mista del settore agricolo con quelle che sono state istitui-
te a livello regionale e provinciale; infine, anche nel settore agricolo vige il principio dell’as-
sunzione diretta del lavoratore, mentre l’obbligo di riserva in favore delle fasce deboli è sta-
to esteso, sia pure soltanto con riferimento alle assunzioni a tempo determinato, anche ai
datori di lavoro agricolo che nell’anno precedente abbiano occupato lavoratori per un nume-
ro di giornate superiore a 1350.
Altri sistemi speciali di collocamento sono stati istituiti per particolari categorie di la-
voratori: a volte queste forme di collocamento si attuano per mezzo di un ufficio centrale,
come avviene ad es. per i lavoratori dello spettacolo; altre volte è previsto uno schedario
nazionale per coloro che desiderino trovare occupazione al di fuori dei comuni di residenza,
come avviene ad es. per i lavoratori del settore alberghiero. Una forma speciale di colloca-
mento è stata prevista anche per il lavoro a domicilio con l’istituzione, presso l’amministra-
zione provinciale del lavoro, di particolari registri per i datori di lavoro che intendono com-
mettere lavoro a domicilio e per i lavoratori che ne facciano richiesta, mentre appositi elen-
chi nell’ambito delle liste ordinarie sono stati previsti per gli apprendisti.
Una specifica procedura amministrativa per l’accesso al lavoro è stata infine prevista
per l’occupazione nel nostro paese di lavoratori extra-comunitari, prevedendo innanzitutto
che l’accesso per lavoro nel territorio italiano è consentito soltanto in presenza di un con-
tratto di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato, indeterminato o stagionale.
Il processo di riforma non riguarda invece le liste speciali regionali introdotte per i lavoratori
italiani che siano disponibili a svolgere attività all’estero in paesi extra-comunitari.
Altra forma non ordinaria di collocamento è costituita dal sistema del collocamento
obbligatorio dei disabili che trova attuazione attraverso l’imposizione di un obbligo a con-
trarre posto a carico dei datori di lavoro privati e pubblici con la previsione di diverse agevo-
lazioni per l’assunzione dei disabili e di sanzioni amministrative e penali in caso di inosser-
vanza della disposizione. Il collocamento dei disabili è regolato dalla L.68/1999 in virtù della
quale alle Regioni sono confluite le funzioni e i compiti relativi al collocamento dei disa-bili,
si è stabilito che le Commissioni provinciali per le politiche dell’impiego sostituiscano le
vecchie commissioni provinciali per il collocamento obbligatorio e nel loro ambito è istituito
un comitato tecnico cui spetta la valutazione delle residue capacità lavorative dei disabili, la
definizione degli strumenti e delle prestazioni finalizzati al loro inserimento nel mondo del
lavoro e la predisposizione dei controlli periodici sulla permanenza delle condizioni di inabili-
tà. La L.68 determina i soggetti protetti identificandoli con le persone disabili, e precisamen-
te persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche psichiche o sensoriali, portatori di
handicap intellettivo che comportino una riduzione della capacitò lavorativa superiore al
45%, persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33%, persone non
vedenti e sordomute, invalidi di guerra civili o per servizio con minorazioni di particolare
gravità. Per questi soggetti l’accesso al sistema di inserimento lavorativo avviene sulla base
di un accertamento delle condizioni di disabilità effettuato da speciali commissioni cui com-
pete anche il controllo della permanenza dello stato invalidante. I soggetti obbligati alle as-
sunzioni dei disabili sono tutti i datori di lavoro pubblici e privati che occupino almeno 15 la-
voratori. La quota da assumere varia in ragione della dimensione occupazionale aziendale: è
pari al 7% se i datori occupano più di 50dipendenti, 2 lavoratori se occupano da 36 a 50 di-
pendenti, 1lavoratore se occupano da 15 a 35dipendenti. L’obbligo è sospeso nei confronti
delle imprese per le quali è in corso l’intervento della Cassa integrazione guadagni o che ab-
biano in corso una procedura di mobilità. Ai fini della determinazione dei lavoratori disabili
da assumere non sono calcolati tra i dipendenti i lavoratori disabili già occupati in ottempe-
ranza agli obblighi della legge stessa, i dirigenti, i lavoratori con contratto a tempo determi-
nato di durata non superiore a 9mesi, gli apprendisti, i lavoratori assunti con contratto di in-
serimento o di formazione e lavoro, mentre i lavoratori part time sono computati pro quota. I
datori di lavoro possono inoltre essere autorizzati, sulla base di motivata richiesta, ad as-
solvere gli obblighi di legge mediante compensazione del numero di lavoratori da assumere
obbligatoriamente tra più unità produttive dislocate nella medesima regione, per i privati
anche in diverse regioni: qualora poi, in ragione delle particolari condizioni della loro attivi-
tà, non siano in grado di occupare l’intera percentuale cui sarebbero tenuti, possono fare ri-
chiesta di esonero parziale, rimanendo obbligati al solo pagamento di un contributo esone-
rativi per ogni unità non assunta. Quanto alle procedure, i disoccupati che siano riconosciuti
disabili devono iscriversi in appositi elenchi presso i Centri per l’impiego, mentre i datori di
lavoro devono presentare, con periodicità stabilita dal ministero del Lavoro, dei prospetti da
cui risultino il numero dei lavoratori dipendenti, il numero e il nominativo dei lavoratori com-
putabili nella quota di riserva e i posti di lavoro disponibili per i disabili; entro 60giorni dal
momento in cui risultino vincolati ad effettuare l’assunzione obbligatoria, i datori di lavoro
devono presentare al competente centro per l’impiego una richiesta di avviamento del disa-
bile: per i datori di lavoro privati la richiesta è di regola numerica, ma può essere nominati-
va entro i limiti fissati dalla legge; per quelli pubblici invece la richiesta è sempre numerica e
l’assunzione avverrà previa verifica della compatibilità della invalidità con le mansioni da
svolgere; l’avviamento a lavoro su richiesta numerica avviene sulla base di graduatorie pre-
disposte secondo le modalità definite dalle Regioni e rese pubbliche. I lavoratori hanno dirit-
to al trattamento economico e normativo previsto dalle leggi e dai contratti collettivi e non
può essere richiesto al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni. In
caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazio-
ne del lavoro, il disabile può richiedere l’accertamento della compatibilità del suo stato di sa-
lute con le mansioni affidate e il datore di lavoro può richiedere la verifica della possibilità di
continuare ad occupare il disabile nella sua azienda; ove la commissione riscontri che l’ag-
gravamento delle condizioni di salute o la nuova organizzazione del lavoro rendono incom-
patibile la prosecuzione dell’attività lavorativa, il disabile ha diritto alla sospensione non re-
tribuita del rapporto fino a che l’incompatibilità persista; in alternativa, il rapporto può esse-
re risolto dal datore di lavoro qualora, pur attuando opportuni adattamenti dell’organizzazio-
ne del lavoro, sia accertata la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’a-
zienda. Il disabile può inoltre essere licenziato per giusta causa, per giustificato motivo sog-
gettivo o oggettivo, per riduzione di personale, ma in quest’ultima ipotesi il licenziamento è
annullabile qualora al momento della cessazione risulti lesa la quota di riserva.
FORMAZIONE PROFESSIONALE. Tra le misure di politica attiva del lavoro, destinata ad incide-
re sull’offerta di manodopera, vi è anche la formazione professionale, ossia il complesso
degli interventi, anche in situazione di alternanza col lavoro, finalizzati ad agevolare l’ingres-
so, il reingresso e la permanenza nel mercato del lavoro. Subito dopo l’istituzione delle Re-
gioni nel 1975, era stata emanata una legge-quadro sulla formazione professionale al fine di
fissare i principi fondamentali per l’attività legislativa regionale: la L.845/1978 prestava at-
tenzione soprattutto alla formazione di base, collegata ad uno sviluppo prevalentemente in-
dustriale, ed incentrata su modelli di organizzazione del lavoro di tipo fordista. Le nuove esi-
genze del mercato del lavoro hanno successivamente reso necessario un nuovo intervento
in materia con l’obiettivo di migliorare le opportunità formative attraverso un’integrazione
tra sistema scolastico, sistema della formazione professionale e mondo del lavoro. Per quan-
to riguarda le competenze, la legge ha previsto una nuova ripartizione tra Stato e Regioni,
riservando al primo prevalentemente funzioni di indirizzo e di coordinamento degli interventi
regionali. La L.196/1997 ha delegato il Ministro del Lavoro, di concerto con il Ministro della
Pubblica Istruzione, ad emanare un nuovo regolamento in materia di esperienze di tirocinio
pratico e di stages in azienda per i giovani, poi approvato con DM142/1998: l’obiettivo di ti-
rocini e stages è di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e di agevolare le
scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro. I tirocini non dan-
no luogo all’instaurazione di un rapporto di lavoro tra le imprese ospitanti e i tirocinanti o
stagisti, ferma restando in ogni caso l’assicurazione di questi ultimi contro gli infortuni sul
lavoro e la responsabilità civile a carico degli enti organizzatori. I periodi di tirocinio hanno
valore di crediti formativi da spendere per l’instaurazione di un rapporto di lavoro. Il numero
massimo di tirocinanti ospitabile da un’impresa varia in funzione delle sue dimensioni occu-
pazionali, mentre la durata massima del periodo di tirocinio varia in funzione della tipologia
dei giovani interessati all’attività formativa. È inoltre prevista la presenza obbligatoria di un
tutor come responsabile didattico e organizzativo delle attività, la concessione di particolari
agevolazioni per le imprese non operanti nelle regioni meridionali che partecipino a progetti
di tirocinio in favore di giovani provenienti da queste ultime, nonché la possibilità per le isti-
tuzioni scolastiche di includere le esperienze di stage o tirocinio nei rispettivi piani di studio.
CAP. 11 – IL MERCATO DEL LAVORO FLESSIBILE
Il nostro ordinamento ha da sempre affermato il principio della normalità del contratto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato e della eccezionalità di quello a tempo determi-
nato. Di fronte alla domanda di prestazioni di lavoro temporaneo o discontinuo, l’intervento
protettivo del legislatore ha tradizionalmente perseguito l’obiettivo di tutelare l’interesse del
lavoratore alla continuità e alla stabilità dell’occupazione, dettando una disciplina (cd. legi-
slazione antifraudolenta) volta a restringere l’autonomia negoziale delle parti nella for-
mazione e nell’esecuzione del contratto. Questo indirizzo di netto sfavore del legislatore si è
modificato nel corso degli anni più recenti, in ragione delle crescenti esigenze di flessibilizza-
zione nell’uso della forza lavoro espresse dalle imprese poste di fronte alla competizione in-
ternazionale. Ciò è avvenuto, per quanto riguarda il lavoro a termine, nel corso degli anni
’70 ’80 e ’90 con il progressivo ampliamento delle ipotesi in cui è consentito il ricorso a que-
sta specie di contratto, con l’obiettivo ultimo di introdurre forme di flessibilità controllata
e negoziata mediante l’intervento della contrattazione collettiva.
IL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO. Nel contratto di lavoro a tempo determinato l’esi-
genza dell’utilizzazione flessibile del lavoro viene soddisfatta mediante l’apposizione,
contes-tualmente alla costituzione del rapporto, di un termine finale alla durata del
contratto, per cui il rapporto cessa alla scadenza del termine senza che sia necessaria
alcuna dichiarazione di recesso. Il legislatore del codice civile, ritenendo che l’utilizzazione
indiscriminata del con-tratto a tempo determinato fosse in contrasto con l’interesse del
lavoratore alla continuità dell’occupazione e alla stessa conservazione del posto di lavoro,
aveva voluto limitare l’au-tonomia negoziale delle parti in materia; successivamente, il
legislatore è intervenuto con L.230/1962 la quale pone una disciplina inderogabile ed
analitica fondata sul principio di tassatività delle fattispecie giustificatrici del contratto a
termine. Per contro, il D.Lgs. 368/2001, nel recepire la Direttiva Comunitaria n.1999/70, ha
proposto un modello legi-slativo mirato alla promozione e non più alla restrizione della
domanda di lavoro a tempo determinato: tale disciplina deriva dall’accordo quadro sul
lavoro a tempo determinato con-cluso tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e
dei lavoratori a livello comunitario. La nuova legge si pone quale fonte esclusiva della
disciplina dell’intera materia. La principa-le innovazione è costituita dall’abbandono del
principio di tassatività, per cui con l'entrata in vigore del DLgs.368 può legittimamente
essere instaurato un rapporto di lavoro a tempo de-terminato tutte le volte in cui ricorrano
ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. La formula utilizzata dal
legislatore è elastica e indefinita: tuttavia, volendo fa-re un esempio delle ragioni che
possono legittimare la stipulazione del termine, si può pen-sare in primo luogo ai casi già
contemplati dalla L.230, ossia in caso di attività stagionali, sostituzione dei lavoratori assenti
con diritto alla conservazione del posto, l'esecuzione di un'opera predeterminata,
straordinaria e occasionale, ecc. Le ragioni giustificatrici dell’appo-sizione del termine al
contratto non possono essere ovviamente espressione della mera vo-lontà contrattuale ma
devono essere legate da un nesso di causalità ad un fatto obiettiva-mente verificabile ex
ante quale il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il
verificarsi di un determinato evento. La legge prevede anche ipotesi in cui l'apposizione di
un termine è vietata; ciò accade nei casi di sostituzione di lavoratori scioperanti; salvo
diversa disposizione di accordi sindacali, nelle unità produttive dove nei 6 mesi precedenti
siano stati effettuati licenziamenti collettivi che abbiano interessato lavora-tori adibiti alle
medesime mansioni; nelle unità produttive interessate da riduzioni di orario o sospensioni di
lavoro, con diritto al trattamento di integrazione salariale, per i lavoratori adibiti alle
mansioni; infine, nelle imprese inadempienti agli obblighi relativi alla sicurezza e salute dei
lavoratori. Per particolari rapporti e settori produttivi poi la legge ha stabilito l’esclusione
dal proprio campo di applicazione: ciò accade nei settori del turismo e dei pub-blici servizi,
con riferimento ai rapporti a giornata, ossia instaurati per l’esecuzione di spe-ciali servizi di
durata non superiore a 3giorni, nei casi autorizzati e per la durata determina-ta dai contratti
collettivi. Altri rapporti sono esclusi invece in quanto destinatari di discipline speciali
derogatrici: è quanto accade per i contratti per prestazioni di lavoro temporaneo, contratti di
formazione e lavoro, di apprendistato, tirocinio e stage; per i rapporti di lavoro degli operai a
tempo determinato nell’agricoltura e per i rapporti a termine instaurati con le aziende
esercenti il commercio di esportazione, importazione e all’ingrosso dei prodotti orto-
frutticoli; accade inoltre per i dirigenti, la cui disciplina vieta la stipulazione di contratti a
termine per un periodo di tempo superiore a 5anni con la facoltà per il dirigente di recedere
con preavviso dopo un triennio; una disciplina speciale basata sulla libera apposizione del
termine è infine prevista per il settore de trasporto aereo e dei servizi aeroportuali.
La legge precisa che tanto l'apposizione del termine, quanto la ragione che la giustifica
devono risultare per iscritto, pena l'inefficacia del termine stesso, a meno che il termine sia
inferiore a 12giorni, nel qual caso l'atto scritto non è necessario. L’assenza o l’incomple-
tezza della scrittura importa l’inefficacia della clausola oppositiva del termine e non la nullità
dell’intero contratto che pertanto si considera a tempo indeterminato. Copia dell'atto scritto
deve essere consegnata al lavoratore entro 5giorni dall'inizio della prestazione. Il contratto a
termine può essere consensualmente prorogato e senza necessità di forma scritta, solo
quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a 3anni. La proroga è ammessa una sola
volta e a condizione che sia giustificata da ragioni oggettive e riferite alla stessa attività
lavorativa per la quale era stato stipulato il contratto a termine. In ogni caso, per effetto
della proroga il rapporto non può durare complessivamente più di 3anni. Il datore di lavoro
ha l’onere della prova dell’obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano la proroga del
termine: dette ragioni devono essere sopravvenute; in mancanza di prova, la proroga deve
ritenersi ingiustificata e il rapporto si trasforma a tempo indeterminato dalla scadenza del
termine. Bisogna prestare attenzione al fatto che la legge contempla l'ipotesi del contratto a
termine non superiore a 3anni solo al fine della eventuale proroga, non certo in considera-
zione della durata massima del rapporto. Ciò significa che nessuna norma vieta esplicita-
mente l'apposizione di un termine superiore a 3anni. Tuttavia, in concreto, si deve osserva-
re che ben difficilmente si potrebbe ipotizzare una valida ragione giustificatrice che legittimi
un termine così lungo, se si pensa che la ragione giustificatrice deve comunque essere tran-
sitoria. Diversa ipotesi è quella della continuazione del rapporto oltre la scadenza del ter-
mine inizialmente fissato o successivamente prorogato: in questo caso il datore di lavoro
deve corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione, in misura del 20%
per ogni giorno di prosecuzione del rapporto fino al decimo; e del 40% per ogni giorno ulte-
riore. La trasformazione in rapporto a tempo indeterminato si verifica solo nel caso di conti-
nuazione del rapporto oltre il ventesimo giorno se il contratto aveva una durata inizialmente
inferiore a 6mesi, oltre il trentesimo giorno in tutti gli altri casi (cd. periodo di tolleranza).
Nel caso di reiterazione di più assunzioni a termine, tra un contratto a termine e l'altro de-
ve intercorrere un intervallo minimo di 10 o 20giorni, a seconda che il contratto avesse ini-
zialmente durata inferiore o superiore 6mesi. Se questo intervallo non viene rispettato, il
secondo contratto si trasforma a tempo indeterminato; se i 2rapporti si succedono senza so-
luzione di continuità, si considera a tempo indeterminato l'intero rapporto, dalla data di sti-
pulazione del primo contratto.
Per ciò che concerne la disciplina del rapporto, si applicano le norme per il rapporto a
tempo indeterminato in quanto compatibili. In particolare, la legge prevede l’uniformità di
trattamento economico e normativo pro rata temporis, quindi ai lavoratori assunti a termi-
ne sono dovute le ferie, la tredicesima, il TFR e a ogni altro trattamento in atto nell'impresa
per i lavoratori a tempo indeterminato inquadrati al medesimo livello. Ai fini dei limiti nume-
rici previsti per l’applicazione della disciplina dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, i la-
voratori a termine sono computabili ove il contratto abbia durata superiore a 9mesi. Ai con-
tratti a termine è inoltre applicabile la previsione dell’art.2119 il quale prevede la possibilità
del recesso prima del termine qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzio-
ne anche temporanea del rapporto; non è invece applicabile la previsione del giustificato
motivo di cui alla L.604/1966 in quanto l’art.1 ne limita il campo di applicazione al rapporto
di lavoro a tempo indeterminato: in pratica, ad eccezione dell’ipotesi della sussistenza di
una giusta causa che legittimi il recesso del datore o del prestatore prima del termine, la
legge assicura alle parti e in specie al lavoratore una stabilità relativa del vincolo contrat-
tuale fino alla scadenza concordata.
Il D.Lgs.368 assegna ai contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappre-
sentativi l’individuazione dei limiti quantitativi di assunzioni a tempo determinato, cd. cla-
usole di contingentamento, le quali possono essere stabilite anche in misura non uniforme e
quindi differenziata per categoria, area territoriale, o a livello aziendale o in base alle qualifi-
che professionali. Al contempo, vengono indicate alcune ipotesi che non possono sottostare
ad alcun limite: fase di avvio di nuove attività, contratti motivati da ragioni sostitutive o dal-
la stagionalità, punte periodiche di lavoro, contratti a termine stipulati per specifici program-
mi o spettacoli radiofonici o televisivi, l’esecuzione di un’opera predeterminata nel tempo
avente carattere straordinario o occasionale; in tali ipotesi la temporaneità del rapporto è da
ritenere intrinseca e quindi non richiede alcun controllo sindacale. Il legislatore ha poi stabi-
lito l’esclusione dai limiti quantitativi anche dei contratti giustificati da causala soggettiva
ossia finalizzata alla promozione dell’occupazione delle fasce deboli: in particolare si tratta
di contratti stipulati a conclusione di un periodo di tirocinio o di stage e dei contratti stipulati
con lavoratori di età superiore a 55anni. In ogni caso, sono esenti dai limiti quantitativi i
contratti di durata non superiore a 7mesi ovvero non superiore alla maggior durata definita
dalla contrattazione collettiva con riferimento a situazioni di difficoltà occupazionale per spe-
cifiche aree geografiche. I contratti collettivi stipulati tra i sindacati comparativamente più
rappresentativi hanno la facoltà di individuare un diritto di precedenza nell’assunzione
presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, esclusivamente in favore dei lavoratori
assunti con contratti a termine per le ipotesi di attività stagionali e di picchi di lavoro. I lavo-
ratori assunti in forza del diritto di precedenza non concorrono a determinare la quota di ri-
serva sulle assunzioni prevista in favore delle fasce deboli di disoccupati; il diritto di prece-
denza si estingue entro 1anno dalla cessazione del rapporto di lavoro, mentre ai fini dell’e-
sercizio del diritto di precedenza il lavoratore è tenuto a manifestare la propria volontà al
datore entro il termine di decadenza di 3mesi dalla cessazione del rapporto.
INTERMEDIAZIONE E INTERPOSIZIONE. Il fenomeno della intermediazione ed interposizio-
ne nel rapporto di lavoro si manifesta sotto forme giuridiche diverse: si va dalla fornitura
o somministrazione della forza-lavoro, all’interposizione nel cottimo, all’appalto e subappalto
di manodopera. L’obiettivo perseguito dagli imprenditi attraverso il ricorso a questi strumen-
ti è evidente: utilizzare mano d’opera assunta formalmente da terzi, riducendo il costo del
lavoro ed evitando di assumere direttamente il personale occorrente per determinati lavori
marginali, di carattere occasionale o temporaneo o fluttuanti. In questi casi il profitto dell’in-
termediario o interposto è ottenuto ricavando un margine di lucro dalla differenza tra il
monte-salari dei lavoratori occupati e il costo del salario sopportato dall’impresa committen-
te. Con L.n.1369/1960 il legislatore ha sancito il generale divieto di intermediazione e in-
terposizione nelle prestazioni di lavoro. I prestatori di lavoro occupati in violazione dei divieti
posti dalla legge sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che ef-
fettivamente abbia utilizzato la loro prestazione; il contratto concluso con l’intermediario
viene comunque conservato e funge da presupposto per la surrogazione soggettiva legale
dell’imprenditore committente al datore intermediario. È inoltre prevista una sanzione pena-
le a carico sia dell’imprenditore utilizzatore sia dell’intermediario.
Ciò non significa naturalmente che sia vietato in generale il ricorso allo strumento dell’
appalto nello svolgimento dell’attività produttiva dell’impresa: il legislatore ha piuttosto vo-
luto evitare che questo tipo di contratto sia utilizzato per eludere norme poste a tutela del
lavoratore. A tal fine, la L.1369 ha posto una distinzione tra gli appalti esterni all’impresa
ed estranei al suo normale ciclo produttivo, regolati dal diritto comune, e gli appalti che,
svolgendosi all’interno dell’azienda, sono ritenuti leciti ma vengono sottoposti ad una parti-
colare disciplina protettiva dei dipendenti dell’appaltatore. Per quanto riguarda gli appalti
interni la giurisprudenza ha fatto riferimento ad un criterio funzionale, ossia all’esistenza di
un collegamento tra l’appalto stesso ed il normale ciclo produttivo dell’impresa committen-
te: è dunque necessaria una integrazione stabile tra l’attività dell’appaltatore e l’organizza-
zione dell’impresa committente. Appaltatore e committente sono inoltre responsabili solidal-
mente, fino ad un anno dalla cessazione dell’appalto, nei confronti dei lavoratori dipendenti
dell’appaltatore, ai fini sia dell’applicazione di un trattamento economico e normativo non
inferiore a quello spettante ai lavoratori dipendenti del committente, e sia ai fini dell’adem-
pimento degli obblighi assistenziali e previdenziali. In tutti i casi di appalto, sia interno che
esterno, i lavoratori dipendenti dell’appaltatore possono proporre azione diretta di rivalsa
contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino a concorrenza del debito
che il committente ha verso l’appaltatore.
La L.1369 prevede delle deroghe alla normativa, indicando tassativamente i casi in cui,
nonostante l’appalto sia interno all’azienda o connesso al suo ciclo produttivo, non si applica
la regola dell’uniformità di trattamento; si tratta di ipotesi caratterizzate dalla particolare
natura o dalla temporaneità e occasionalità dell’attività lavorativa: costruzioni edilizie all’in-
terno degli stabilimenti, installazione o montaggio di impianti e macchinari, lavori di manu-
tenzione straordinaria, prestazioni saltuarie e occasionali di breve durata, esecuzione di la-
vori di facchinaggio, pulizia e manutenzione ordinaria degli impianti svolti da imprese che
impiegano il personale dipendente presso più aziende contemporaneamente, gestione dei
posti telefonici pubblici.
COMANDO, DISTACCO E LAVORO INTERINALE. Con l’istituto del comando o distacco del lavo-
ratore da un’azienda all’altra, il dipendente viene appunto comandato dal datore di lavoro a
prestare servizio presso un terzo: quest’ultimo soggetto diviene costì il beneficiario della
prestazione di lavoro e può per questo essere legittimato ad esercitare taluni poteri discipli-
nari e di controllo sul prestatore nonché eventualmente ad adempiere taluni obblighi nei
suoi confronti; il rapporto di lavoro resta però nella titolarità del datore che assume. Affin-
ché ricorra la figura del comando o distacco, la giurisprudenza ritiene essenziale la sussi-
stenza di un concreto e persistente interesse dell’assuntore, per cui il difetto originario o so-
pravvenuto di tale interesse determina l’instaurazione di un rapporto diretto tra il lavoratore
distaccato ed il terzo beneficiario. Una parziale deroga a tale orientamento è costituita dalla
facoltà attribuita dalla legge agli accordi sindacali di regolare il comando o distacco di uno o
più lavoratori da un’impresa ad un’altra per un certo periodo di tempo al fine di evitare ridu-
zioni di personale. L’istituto del comando in generale ha carattere temporaneo, diversa-
mente si avrebbe la distinta fattispecie della successione a titolo particolare nella posizione
di datore, per effetto di una vera a propria cessione del contratto di lavoro.
La L.196/1997 ha introdotto in Italia l’istituto del lavoro interinale, che il legislatore
chiama fornitura di lavoro temporaneo. Il lavoro interinale consiste nella relazione trilaterale
in base alla quale l’impresa fornitrice invia temporaneamente un lavoratore da essa stessa
assunto presso un terzo utilizzatore per effettuare una prestazione di lavoro a disposizione
di quest’ultimo. Esistono dunque 2rapporti contrattuali distinti: il primo è il contratto di
fornitura, il secondo è il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo.
L’attività di fornitura di manodopera va tenuta distinta dall’appalto: l’appalto è un
contratto con il quale un soggetto (committente) incarica un imprenditore (appaltatore) di
compiere un'opera o un servizio a fronte di un corrispettivo in denaro. L'appaltatore compie
l'opera o il servizio commissionati a proprio rischio e con propria organizzazione dei mezzi
necessari compreso il lavoro, e assume nei confronti del committente la responsabilità del
risultato. Gli elementi che distinguono il contratto d'appalto dalla somministrazione sono
dunque l'organizzazione dei mezzi necessari e l'assunzione dei rischi d'impresa; inoltre il
committente non ha alcun rapporto con i lavoratori i quali continuano a lavorare alle dipen-
denze e sotto la direzione dell’appaltatore. L'appalto di servizi è caratterizzato dall'assunzio-
ne di una obbligazione solidale tra il committente e l'appaltatore: ciò significa che i lavorato-
ri dipendenti dell'appaltatore possono rivolgersi, entro 1anno dalla fine del contratto di ap-
palto, al committente per riscuotere i crediti da lavoro (retribuzione, contributi etc) nel caso
in cui il loro datore di lavoro non li abbia pagati.
L’attività di fornitura è consentita esclusivamente ai soggetti abilitati, sulla base di
un’autorizzazione rilasciata dal Ministero del Lavoro previo accertamento della sussistenza
di numerosi requisiti, tra cui in particolare la costituzione dell’agenzia come impresa nella
for-ma di società di capitali o cooperativa con oggetto sociale esclusivo e limitato alla sola
atti-vità di fornitura. È altresì previsto l’obbligo a carico dell’impresa fornitrice nello
svolgimento dell’attività, di fornire comunicazioni e informazioni all’autorità amministrativa
e la sua sot-toposizione a frequenti controlli amministrativi. Il lavoro interinale è consentito
soltanto per il soddisfacimento di esigenze temporanee del soggetto utilizzatore, e la
legge indica su-bito 2specifiche ipotesi in cui viene riconosciuta in via preventiva la
possibilità della fornitu-ra: si tratta dei casi di temporanea utilizzazione in qualifiche non
previste dai normali assetti produttivi aziendali e di sostituzione di lavoratori assenti; per il
resto, la determinazione del-le ulteriori ipotesi è stata affidata ai contratti collettivi nazionali.
Vi sono poi ipotesi in cui è vietata la fornitura di lavoro temporaneo, con particolare
riguardo alle mansioni il cui svol-gimento può presentare maggiore pericolo per la sicurezza
del prestatore o di soggetti terzi, la sostituzione dei lavoratori in sciopero, le unità produttive
che abbiano nei 12mesi prece-denti operato licenziamenti collettivi o presso le quali sia in
atto una sospensione del rap-porto o una riduzione dell’orario di lavoro, le imprese
inottemperanti alle prescrizioni del D.Lgs.626/1994, le lavorazioni che richiedono speciale
sorveglianza medica e i lavori parti-colarmente pericolosi individuati con DM. La percentuale
massima dei lavoratori interinali ri-spetto a quelli occupati dall’utilizzatore è definita dai
contratti collettivi nazionali.
Il lavoratore temporaneo può essere assunto con contratto a tempo determinato o in-
determinato; tuttavia, essendo la disciplina prevalentemente costruita sulla prima tipologia
contrattuale, il testo legislativo non sempre tiene conto dell’eventuale opzione per il contrat-
to a tempo indeterminato: di qui alcune incongruenze e problemi interpretativi. La legge im-
pone per il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo la forma scritta e una copia
del contratto deve essere rilasciata al lavoratore entro 5giorni dalla data di inizio della mis-
sione: il contratto deve contenere tassativamente l’indicazione dei motivi di ricorso alla for-
nitura dell’impresa utilizzatrice e dell’impresa fornitrice, i dati identificativi di quest’ultima,
le mansioni alle quali il lavoratore sarà adibito, il relativo inquadramento, l’eventuale
periodo di prova e la sua durata, il luogo, l’orario e il trattamento economico e normativo, la
data di inizio e il termine dell’attività lavorativa presso l’impresa utilizzatrice, le eventuali
misure di sicurezza necessarie per lo svolgimento dell’attività. Sono nulle le clausole che
limitino an-che in forma indiretta la facoltà del lavoratore di concludere direttamente con
l’impresa uti-lizzatrice un contratto di lavoro alla scadenza della missione. All’impresa
fornitrice non si ap-plicano gli obblighi in materia di assunzioni obbligatorie e di riserva con
riferimento all’as-sunzione dei lavoratori interinali; questi ultimi sono inoltre esclusi dal
computo numerico dei dipendenti ai fini dell’applicazione delle medesime normative.
Il contratto di fornitura deve essere stipulato in forma scritta e inviato in copia entro
10giorni alla Direzione provinciale del lavoro competente per territorio. Deve contenere una
serie di dati o elementi identificativi, tra cui gli estremi dell’autorizzazione dell’impresa forni-
trice, il numero dei lavoratori richiesti, le mansioni alle quali saranno adibiti e il loro inqua-
dramento, il luogo, l’orario e il trattamento economico e normativo, la data di inizio e il ter-
mine del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo; deve inoltre contenere clausole che
pongano a carico dell’impresa fornitrice l’obbligo del pagamento diretto delle retribuzioni al
lavoratore ed il versamento dei relativi contributi previdenziali; mentre è a carico dell’uti-
lizzatore l’obbligo di comunicare all’impresa fornitrice i trattamenti retributivi e previdenziali
applicabili, di rimborsare alla stessa gli oneri retributivi e previdenziali da questa sostenuti,
di pagare direttamente la retribuzione al lavoratore e versare direttamente i contributi in ca-
so di inadempimento dell’impresa fornitrice, salvo diritto di rivalsa. Sono nulle invece le
clausole volte a limitare la facoltà dell’utilizzatore di assumere il lavoratore al termine del
contratto per prestazioni di lavoro temporaneo.
Il lavoratore si obbliga a svolgere la propria attività durante il periodo di assegnazio-
ne presso l’impresa utilizzatrice, nell’interesse e sotto la direzione e il controllo di quest’ulti-
ma. All’utilizzatore la legge riconosce anche lo ius variandi, con la possibilità quindi di adibi-
re il lavoratore temporaneo a mansioni superiori rispetto a quelle iniziali: in questo caso l’u-
tilizzatore è tenuto a darne immediata comunicazione scritta all’impresa fornitrice conse-
gnandone copia al lavoratore, diversamente risponderebbe direttamente e in via esclusiva
per le differenze retributive dovute al lavoratore per effetto della modifica. Il lavoratore ha
diritto ad usufruire di tutti i servizi sociali ed assistenziali di cui godono i dipendenti dell’im-
presa utilizzatrice ed ha altresì la facoltà, per la durata della missione, di esercitare i diritti di
libertà e attività sindacale e di partecipare alle assemblee del personale dipendente
dell’impresa utilizzatrice. I lavoratori temporanei in missione presso l’impresa utilizzatrice
sono comunque esclusi dal computo numerico dei dipendenti ai fini dell’applicazione di
normative di legge o di contratti collettivi, ad eccezione per quelle in materia di igiene e
sicurezza sul lavoro.
L’obbligazione retributiva è a carico dell’impresa fornitrice; tuttavia, al fine di evitare
forme di sottosalario, al prestatore di lavoro temporaneo compete un trattamento non infe-
riore a quello riconosciuto ai dipendenti di pari livello dell’impresa utilizzatrice. Il periodo di
assegnazione presso l’impresa utilizzatrice può essere prorogato, con il consenso del lavora-
tore e mediante atto scritto, solo nei casi autorizzati dai contratti collettivi; il lavoratore in-
terinale ha diritto di prestare l’attività per l’intero periodo di assegnazione eccetto il caso di
mancato superamento della prova o di giusta causa di recesso. Nell’ipotesi in cui il lavorato-
re interinale sia stato assunto a tempo indeterminato, è previsto che, negli intervalli tra una
missione e l’altra, egli resti a disposizione dell’impresa fornitrice percependo per tali periodi
un’indennità mensile di disponibilità, il cui importo è stabilito dal contratto individuale sulla
base del contratto collettivo: essa non può comunque essere inferiore alla misura prevista
da un DM né è cumulabile con la retribuzione corrisposta per i periodi di assegnazione; la
misura dell’indennità di disponibilità è proporzionalmente ridotta nel caso di assegnazione
ad attività lavorative a tempo parziale; se nel periodo di riferimento mensile la retribuzione
percepita dal lavoratore per l’attività prestata risulti inferiore all’indennità di disponibilità,
l’impresa fornitrice dovrà corrispondergli la differenza fino a concorrenza dell’importo dell’in-
dennità. L’impresa fornitrice ha, nei confronti dei prestatori di lavoro temporaneo, l’obbligo
di informazione sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in ge-
nerale, nonché quello di addestrare il lavoratore all’uso delle attrezzature necessarie per lo
svolgimento della specifica attività lavorativa per la quale sono stati assunti. Ad essa è tut-
tavia consentito di riversare in via contrattuale sull’utilizzatore il predetto obbligo.
Nei casi più grave violazione della normativa sulla fornitura di lavoro temporaneo è pre-
vista l’applicazione del sistema sanzionatorio civile e penale della L.1369/60: in particolare,
il lavoratore temporaneo viene considerato a tutti gli effetti alle dipendenze dirette dell’uti-
lizzatore. Più flessibile è invece la normativa per quanto riguarda il caso di superamento dei
limiti temporali: qualora infatti il lavoratore continui ad effettuare la sua prestazione in favo-
re dell’utilizzatore alla scadenza del termine originariamente pattuito o successivamente
prorogato, gli è dovuta una maggiorazione retributiva del 20% per un massimo di 10giorni,
trascorsi i quali, il lavoratore è considerato a tutti gli effetti dipendente a tempo indetermi-
nato dell’utilizzatore. Trasformazione in contratto a tempo indeterminato con l’impresa uti-
lizzatrice si ha anche nel caso di difetto di forma scritta del contratto di fornitura; mentre, in
caso di difetto di forma scritta del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, è prevista
la trasformazione in contratto a tempo determinato con l’impresa fornitrice.
IL CONTRATTO A TEMPO PARZIALE. Il lavoro a tempo parziale (part-time) si caratterizza per
un orario, stabilito dal contratto individuale di lavoro, inferiore all'orario di lavoro nor-male
(full-time). Il Consiglio dell’UE, con Direttiva n.1997/81 ha dato attuazione all’accordo-quadro
sul lavoro a tempo parziale, concluso tra le organizzazioni sindacali dei datori di la-voro e dei
lavoratori a livello comunitario. A questa direttiva l’Italia ha dato attuazione con
D.Lgs.61/2000, poi modificato con D.Lgs.100/2001. Il rapporto a tempo parziale può esse-re:
orizzontale quando la riduzione d'orario è riferita al normale orario giornaliero; verti-cale
quando la prestazione giornaliera è svolta a tempo pieno ma per periodi predeterminati nel
corso della settimana, del mese o dell'anno; misto quando il rapporto di lavoro a tempo
parziale è articolato combinando le modalità orizzontale e verticale.
La disciplina del lavoro part-time si basa sul principio della uniformità di trattamen-
to, per cui il lavoratore part-time non deve essere discriminato rispetto al lavoratore a tem-
po pieno per quanto riguarda il trattamento economico e normativo: dunque, il lavoratore
part-time gode di tutti quei diritti di cui gode il lavoratore a tempo pieno comparabile che
non siano suscettibili di riproporzionamento, ad es. diritto alla retribuzione oraria e ferie an-
nuali; per contro, il trattamento riservato al lavoratore part-time va riproporzionato in ragio-
ne della ridotta entità della prestazione lavorativa, con riferimento agli istituti rispetto ai
quali si ritiene rilevante l’effettuazione di una prestazione ad orario ridotto, ad es. l’importo
della retribuzione globale e della retribuzione feriale.
La legge tutela l’interesse del lavoratore a scegliere tra lavoro a tempo pieno e a tempo
parziale nonché a modificare tale scelta nel corso del rapporto; è inoltre rafforzata la posi-
zione del lavoratore a tempo pieno contro le eventuali pressioni del datore di lavoro per in-
durlo ad accettare la trasformazione del rapporto in tempo parziale: si è così previsto che
tale trasformazione possa avvenire solo sulla base di un accordo scritto redatto su richiesta
del lavoratore con l’assistenza di un componente della rappresentanza sindacale aziendale o
in mancanza convalidato dalla competente Direzione provinciale del lavoro; il rifiuto alla tra-
sformazione del rapporto non costituisce giustificato motivo di licenziamento. Il lavoratore
part-time ha il diritto di precedenza, se previsto dal contratto individuale, rispetto alle
nuove assunzioni a tempo pieno, avvenute nelle unità produttive site nello stesso ambito
comunale e per le stesse mansioni o mansioni equivalenti. Il lavoratore a tempo pieno ha
invece il diritto a essere informato, anche con comunicazione scritta in luogo accessibile a
tutti, dell'intenzione di procedere ad assunzioni a tempo parziale per poter presentare do-
manda di trasformazione: su richiesta del lavoratore il rifiuto dovrà essere adeguatamente
motivato.
Il rapporto a tempo parziale può essere stipulato dalla generalità dei lavoratori e dei
datori di lavoro. Nel settore pubblico è possibile ricorrere al lavoro part-time, ma non si ap-
plicano le modifiche introdotte dalla riforma. Il contratto di lavoro part-time è un contratto di
lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato. Deve essere stipulato in forma
scritta ai fini della prova e deve contenere puntuale indicazione della durata della presta-
zione lavorativa e dell'orario di lavoro, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e
all'anno. Il datore di lavoro è tenuto inoltre a comunicare alla Direzione provinciale del lavo-
ro l’assunzione del lavoratore mediante trasmissione di copia del contratto entro 30giorni
dalla stipulazione: la mancata comunicazione espone il datore di lavoro ad una sanzione
amministrativa. Rispetto alla precedente disciplina, il Dlgs 276/2003 prevede maggiore fles-
sibilità nella gestione dell'orario di lavoro e minori vincoli per la richiesta di prestazione di la-
voro supplementare, lavoro straordinario e per la stipulazione di clausole flessibili o elasti-
che. I contratti collettivi devono stabilire i limiti, le causali per il lavoro supplementare, le
condizioni e modalità per il lavoro elastico e flessibile e le sanzioni legate al ricorso al lavoro
supplementare, elastico e flessibile.
In particolare, la clausola elastica conferisce al datore di lavoro il diritto potestativo di
variare la collocazione temporale della prestazione lavorativa rispetto a quella originaria-
mente concordata; è ammessa solo quando sia espressamente consentita dai contratti col-
lettivi, sia redatta in forma scritta, e solo nel caso in cui il contratto di lavoro sia a tempo in-
determinato oppure, se a tempo determinato, solo se sia stato concluso per sostituire un la-
voratore assente con diritto alla conservazione del posto. La decisione di avvalersi della
clausola elastica deve avvenire con preavviso di almeno 10giorni e in caso di variazione al
lavoratore spetta una maggiorazione della retribuzione globale di fatto nella misura fissata
dai contratti collettivi, i quali possono anche prevedere la riduzione del preavviso fino a 2
giorni, eventualmente stabilendo ulteriori maggiorazioni retributive. Il lavoratore ha diritto di
denunciare tale patto, cd. diritto di ripensamento, purché la denuncia sia fatta per iscritto
sulla base di documentate ragioni, dopo che siano decorsi almeno 5mesi dalla stipu-lazione
del patto stesso e con preavviso di almeno 1mese: in caso di denuncia viene meno la facoltà
del datore di lavoro di variare la collocazione temporale della prestazione; l’esercizio di tale
diritto non costituisce giustificato motivo di licenziamento, e tale principio vale an-che nel
caso in cui il lavoratore a tempo parziale si rifiuti, dopo la stipulazione del contratto, di
accettare l’inserzione di una clausola di elasticità. Simile alla clausola elastica è il lavoro
flessibile, prestato in periodi di tempo diversi rispetto a quelli fissati nel contatto di lavoro
part-time di tutte e tre le tipologie.
Il lavoro supplementare è quello svolto oltre l'orario di lavoro stabilito nel contratto di
lavoro part-time orizzontale ed entro il limite del tempo pieno; quando il tempo pieno non
sia stato raggiunto è ammissibile anche nel part-time verticale o misto. Non è più necessa-
rio rispettare il limite massimo del 10% delle ore lavorate e in caso di superamento dei limiti
è stata abolita la sanzione legale della maggiorazione del 50%. In attesa che i contratti col-
lettivi stabiliscano altri limiti massimi, è necessario il consenso del lavoratore, e la mancanza
del consenso non costituisce mai un giustificato motivo di licenziamento. I contratti collettivi
stabiliscono anche il trattamento economico per le ore di lavoro supplementare. Il lavoro
supplementare è ammesso solo quando il contratto di lavoro a tempo parziale sia stipulato a
tempo indeterminato, mentre se è a tempo determinato, è ammesso solo se sia stato con-
cluso per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Differente
è il lavoro straordinario, ossia quello prestato oltre il normale orario di lavoro full time. È
ammissibile solo nel rapporto di lavoro part-time di tipo verticale o misto anche a tempo de-
terminato.
Il contratto di lavoro part-time necessita di forma scritta solamente ai fini probatori; ma
qualora nel contratto, comunque esso sia concluso, manchi l’indicazione della durata, il la-
voratore ha diritto all’accertamento giudiziale della sussistenza di un rapporto di lavoro a
tempo pieno, a partire dalla data della sentenza; nel caso invece in cui manchi l’indicazione
della collocazione temporale, questa viene determinata dal giudice sulla base delle
previsioni dei contratti collettivi o in mancanza in via equitativa, tenendo conto delle
responsabilità fa-miliari e delle necessità di integrazione del reddito del lavoratore nonché
delle esigenze del datore di lavoro. In entrambi i casi il lavoratore ha diritto, in aggiunta alla
retribuzione do-vuta, ad un risarcimento del danno da determinarsi dal giudice in via
equitativa. Il lavorato-re ha diritto al risarcimento del danno anche nell’ipotesi di violazione
del diritto di preceden-za, in misura pari alla differenza tra la retribuzione percepita e quella
che gli sarebbe stata corrisposta in caso di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo
pieno nei 6mesi succes-sivi ad essa.