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I libri del 2016Le dieci migliori letture dell'anno per la redazione e i collaboratori di Studio.
Di Aa.Vv.
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T a-Nehisi Coates – Tra me e il mondo (Codice edizioni) trad.
Chiara Stangalino
Perché dedichiamo tanto tempo e tanto spazio nella discussione pubblica ai
libri? Qualche volta me lo chiedo anche io. Di certo non per motivi
economici: quello editoriale è un mercato così piccolo che a stento si può
definire tale (girano talmente pochi soldi che ci si vergogna quasi a dirlo);
rispetto all’ebefrenica pervasività di Internet, poi, questi mattoncini di carta
sembrano innocui e stolidi come quelle ragazze tutte a modino ma un po’
noiose. Poi però arrivano dei libri – pochi, bisogna dirlo – che ti ricordano
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perché continuiamo a farlo nonostante tutto. Ta-Nehisi Coates ha scritto uno
di questi libri. Si intitola Tra me e il mondo ed è un testo personale e politico,
immaginato come la lunga lettera
di un padre al figlio piccolo
(quanto, in teoria, di più
paternalista possa esserci: avete
presente quei libri trombonissimi
con “spiegato a mio figlio” nel
titolo? Perché non ci parli un po’ di
più con tuo figlio, invece di
scrivere un libro a noi? Per fortuna
non è il caso di Coates), una
torrenziale e inarrestabile
invettiva, mai pacificata, mai
conciliante, rabbiosa, tagliente,
eppure anche struggente, piena
d’affetto e compassione,
un’invettiva contro i bianchi, e
contro il fondamento stesso
dell’identità americana: la
disponibilità del corpo nero, sua vendibilità e la sua distruttibilità (cioè
l’omicidio senza quasi conseguenze). E sulla paura, la paura di essere uccisi in
ogni momento, la paura che il tuo corpo e la tua vita sia comunque a
disposizione, che pervade e definisce la vita di tutti i cittadini di colore. Tra me
e il mondo mi ha insegnato molte cose, sugli Stati Uniti e le culture
subalterne, certo, ma anche, con un minimo di traslazione, anche sull’Italia e
sull’Europa di oggi. Sarà per questo che continuiamo a dare tanto peso ai libri.
Perché ancora oggi non c’è una “tecnologia” migliore per fare una cosa tutto
sommato semplice, ma non così scontata: farti aprire gli occhi. (Francesco
Guglieri)
Helen Macdonald – Io e Mabel (Einaudi) trad. Anna Rusconi
Più i libri perdono rilevanza, più sembra che escano cose interessanti da
leggere: quest’anno per esempio non si può certo rimproverare all’editoria
italiana di non aver intercettato e tradotto le uscite fondamentali della
narrativa straniera, a cui si sono aggiunti importanti romanzi nostri
(Starnone, Piperno, Albinati), a comporre un quadro molto ricco sebbene
sempre più avvolto dal dubbio “chi li leggerà tutti questi libri belli?”.
Prendiamo come simbolo di tutto il dubbio Io e Mabel, (che aveva in originale
il meraviglioso titolo H is for Hawk), il memoir che nel 2014 e 2015 ha
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entusiasmato Stati Uniti e Inghilterra e che nel 2016 è finito addirittura nella
Summer reading list di Obama. Ecco, in Italia è stato acquisito e tradotto, ma
in verità se ne è parlato pochissimo, è stato letto poco, semmai è diventato un
segno di riconoscimento per gli eletti della bolla. È una storia di
addestramento (addestramento di un animale – un rapace – ma anche
addestramento al dolore) e di solitudine, di lutto e di amore per la letteratura,
similmente a un libro uscito quest’anno in inglese che pare appartenere
curiosamente allo stesso genere in ascesa, il saggio-autobiografico-di critica-
letteraria-scritto-da-una-donna-sola: The Lonely City di Olivia Laing (c’è
anche Flâneuse di Lauren Elkin poi). È anche un libro che parla di un altro
libro, L’astore di T. H. White, fatto poi uscire a settembre da Adelphi, in un
interessante caso di co-marketing letterario. È il libro che in fondo più mi è
piaciuto leggere perché dalla sua ha un lingua potente, ricca di dettagli che la
amplificano – le piume, gli artigli, la carne di coniglio che si appiccica alle
mani, i boschi inglesi, la pioggia – e la capacità di sorprendere (un sentimento
che considero primario). Lo scelgo perché è l’unico libro che ho letto
quest’anno desiderando di fare a cambio con la vita della protagonista anche
dopo l’ultima pagina. Lo scelgo infine perché la letteratura più interessante di
questi anni – vorrei dire quella più interessante in assoluto ma forse è solo
quella che interessa più a me – è all’esatto opposto rispetto al massimalismo
dei Franzen o dei Safran Foer: le grandi storie non mi dicono più niente che
non sia stato già detto e mi danno la sensazione di essere continui revival,
cover eseguite benissimo; le piccole storie che restano nella coda nell’occhio
mi sembrano più giuste e adatte per questi tempi: nel 2016 sono ancora le
vicende personali a fare la grande letteratura di oggi. (Cristiano de Majo)
Jonathan Safran Foer – Eccomi (Guanda) trad. Irene Abigail
Piccinin
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Jonathan Safran Foer ci ha fatto
aspettare undici anni prima di
pubblicare il suo terzo romanzo e il
risultato valeva
l’attesa. Eccomi racconta uno
sgretolamento intimo, il
disfacimento di una famiglia, a
ridosso di uno sgretolamento più
ampio, il collasso dello Stato
ebraico. Per “libro dell’anno” si
possono intendere molte cose, un
libro che è pesato per il suo valore
letterario, un libro di cui s’è parlato
molto, oppure un libro che riflette
lo spirito del tempo: Eccomi è tutte
queste cose. È un romanzo-
romanzo, di quel genere che è
sempre più difficile leggere e
(forse) scrivere, che mette elegantemente a nudo rimpianti, mancanze e
piccinerie. Il titolo stesso, citazione biblica, è un attestato d’inadeguatezza:
«Quando Dio lo chiama, Abramo non dice “Che cosa vuoi?” Non dice “Sì?”
Risponde con una dichiarazione “Eccomi”», dove il sottotesto è che nessuno
di noi, piccoli uomini fragili, ne sarebbe capace. È anche un romanzo
preveggente, dove il connubio tra spaesamento personale e caos globale, oltre
a fare un po’ Sturm und Drang (la tempesta dentro di me e la tempesta fuori di
me, beh, insomma quella roba lì), ha anticipato gli umori di molti: il 2016 di
Jacob Bloch, il protagonista di Eccomi, faceva schifo già prima che
cominciasse a fare schifo anche il nostro. (Anna Momigliano)
Tom McCarthy – Satin Island (Bompiani) trad. Anna Mioni
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Satin Island è il testo letterario
che dovete leggere se coltivate un
legame di responsabilità con l’idea
di letteratura contemporanea e
futura. Se cioè pensate che la storia
delle forme e degli stili non si è
svolta senza generare
conseguenze. Se come McCarthy (e
come chi scrive) pensate che usare
certe forme e non porsi nemmeno
il problema rappresenti il
corrispettivo artistico dell’essere
creazionisti. La maggior parte dei
romanzi che vengono osannati dai
lettori, oggi, sono formalmente e
culturalmente
creazionisti. McCarthy è forse
l’autore vivente più vicino e aderente alla lezione superba e sperimentale del
Nouveau Roman e in particolare di Alain Robbe-Grillet, una lezione che ha
tecnicamente dominato ogni discorso letterario possibile e reale negli anni
’50, ’60, ’70, e poi come spesso accade è stata negletta ignorata o addirittura
indicata come il male (ricordo che ai primi anni della Scuola Holden, a Torino,
nel ’96-97, venni redarguito per aver elogiato Progetto per una rivoluzione a
New York di Robbe-Grillet: «è totalmente anti-narrativo», dicevano, «è
intellettualistico», chiosavano, «è per pochi», aggiungevano, «non tocca il
cuore», affondavano. Avevano torto, e in parte avevano anche ragione). Il
libro comincia proprio con la parola «Torino», da un “hub” aeroportuale,
quello di Torino-Caselle, dove il protagonista si trova prigioniero di quei vuoti
di opportunità che affollano le vite di tutti i frequent flyers: voli che non
partono, tempo che si dilata, prossimità forzata all’altrove assoluto, ma anche
nauseabonda sensazione di muoversi come in un videogioco classico, con
strade e mostri e gioie obbligate. Mentre è lì, in attesa, un signore che guarda
le news di un disastro ecologico gli dice: «Che tragedia», e lui, che si chiama
U, gli risponde non proprio simpaticamente che la parola “tragedia” deriva
dal greco tragos, che è il capro destinato al sacrificio. In quel non-tempo, U
riceve un sms che gli comunica una bella notizia professionale (quante volte
avrei voluto leggere o scrivere una semplice scena come questa, che
nell’Occidente capitalistico è l’equivalente di una chiamata divina, o
un’apparizione: il suo capo gli comunica che la loro società ha vinto la gara
per la realizzazione di un programma etnografico di enorme portata, dalle
ramificazioni impensabili e complesse. Un enorme lavoro, che U –
antropologo d’azienda – realizzerà con impegno e attenzione. Il romanzo, che
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come suggerisce la copertina è anche un trattato, un saggio, e tante altre cose,
coincide forse con il progetto etnografico stesso: una descrizione della
descrizione, un’adesione verbale e mentale al lenzuolo del mondo, del mondo
come viene percepito oggi dagli umani post-umani che stiamo
diventando. Ogni paragrafo, ogni riga, contiene citazioni e allusioni alla
temperie culturale più avanzata della nostra contemporaneità: un timbro
immerso nella materia del mondo com’è davvero, un cosmo assai diverso
dalle rassicuranti costruzioni di Jonathan Franzen (che forse McCarthy
annetterebbe alla categoria dei romanzieri creazionisti). Il motivo per cui
Robbe-Grillet non era amato alla Holden degli anni Novanta è perché
fondamentalmente i suoi testi “non raccontano storie”. Non si può accusare
McCarthy di non raccontare storie (ne racconta forse troppe). Non si può
neanche più fingere che il romanzo debba adattarsi a un ambiente
radicalmente cambiato dalla potenza divina della Tecnologia e dalla rapidità
del Capitale. Satin Island è un libro cruciale perché suona una sveglia che non
si può più spegnere. (Gianluigi Ricuperati)
Domenico Starnone – Scherzetto (Einaudi)
Già dal risvolto sembrerebbe tutto
meno che un libro per lettori
“giovani”: c’è il vecchio nonno
che scende a Napoli dal Nord per
trascorrere qualche giorno con il
nipotino di quattro anni che
nemmeno conosce, che non vede
mai, con i genitori fuori città per
un convegno e forse a un passo dal
divorzio. Poi ci sono le due indoli
(quella del bambino già adulta, da
odioso ventriloquo) e le due
generazioni che si fronteggiano da
distanze di siderurgica
incomunicabilità, quindi la tata
strega-maliarda che nei rari
momenti di tregua fra i due si
manifesta in qualche angolo della
casa, come a voler riaccendere per
fantasmatiche vie il duello tra nonno e nipote, così da fugare il dubbio che
sull’appartamento stesso aleggi un’opprimente atmosfera alla Insidious. Poi
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quello spirito agrodolce più francese che italiano, e che – per fortuna – piace
tanto ai napoletani. Dico per fortuna perché questa storia, tutt’altro che
“cool” a sentirne la trama in due battute (attualmente solo il “genere”, o
meglio la commistione tra generi, è considerata “cool”) in realtà rapisce,
riverbera di doppifondi, di luoghi e sensazioni che si animano al punto da
diventare, nelle mani di Starnone, più vivi dei personaggi in carne e ossa: il
balconcino da cui penetrano raffiche gelate di vento e dove al bambino è
vietato andare, ad esempio, è un personaggio vero e proprio; i disegni del
nonno sono personaggi anch’essi, “metaferendi” del grande tema al centro
delle ossessioni di Starnone: non tanto la vecchiaia, ma l’irrisione continua
rivolta alla vecchiaia da parte della giovinezza. È tutta giocata su una strana
asimmetria formale questa storia, ha i tempi e il peso di un racconto, non di
un romanzo, ma è l’assillo di questo scherno da parte dei giovani ciò che
interessa a Starnone, non avrebbe avuto senso aggiungere altra carne sul
fuoco per dirci qualcosa di più del rapporto tra il vecchio e la figlia, o il genero.
Starnone è uno scrittore che quando scrive non sbaglia mai: sa esattamente
dove condurre i personaggi, sa trovare la parola giusta al momento giusto per
mutare radicalmente l’opinione del lettore su qualcosa o qualcuno, come
Mario, il nipote. È un genio? È uno stronzetto? Quella che sembrerebbe
un’attitudine all’ambiguità psicologica estranea alla tradizione italiana,
questo tocco nero alla Cheever, è solo il contorno di luce, diciamo così, del
cuore nero della fiamma. E non c’è mai una parola dialettale di troppo, una
parola lontana da quelle che sentiamo per strada ogni giorno; non gli puoi dire
mai che è folcloristico, o che strumentalizzi la città di Napoli, o la lingua di
Napoli usandone i tic e i calchi collaudati. Starnone adopera la lingua italiana
come forse la adoperava solamente Calvino, con una morbidezza perfetta, con
ammirabile precisione, un’ironia intessuta di arguzie; è in grado di prendere
da questa pesante, complessa lingua, la nostra, l’essenziale più immediato, e
di restituire al lettore impercettibili scosse elettriche con una parola speciale
buttata lì ogni tanto, con uno sguardo addolorato sulle cose di ogni giorno.
Perché Starnone è soprattutto uno scrittore di storie, e come tale si controlla,
sa come non annoiare e accattivare anche il lettore più sfaticato. Conosce il
cinema, le serie tv. C’è tanto da imparare da queste pagine, specie per chi
vorrebbe scrivere. C’è il talento, ma c’è anche il mestiere. (Alcide Pierantozzi)
Emmanuel Carrère – Io sono vivo, voi siete morti (Adelphi) trad.
Federica e Lorenza Di Lella
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Essendo un uomo che ha fatto
del trovarsi in controtendenza
rispetto al resto del mondo un pur
doloroso motivo di vanto, Philip
Kindred Dick sarebbe
probabilmente contento di sapere
che il 2016 per lui è stato un grande
anno. Non che quello precedente
non gli avesse dedicato attenzione:
Amazon aveva fatto debuttare The
Man in the High Castle, una serie tv
ispirata al suo La svastica sul
sole, portando simboli nazisti sui
sedili della metropolitana di New
York, e Fanucci ci aveva dato le
milletrecento pagine de L’esegesi,
il suo vangelo esoterico finale. Ma
quest’anno sono stati
annunciati Blade Runner 2049, il
sequel del film che l’ha consacrato nel pantheon, e, a ma
ggio, una prossima serie televisiva di dieci episodi ispirati alle sue
opere: Electric Dreams: The World of Philip K. Dick, con Bryan Cranston. Non
bastasse, Adelphi ha ripubblicato la sua biografia del 1993 firmata da
Emmanuel Carrère. È un libro a due passi dal capolavoro, e se non si trattasse
di Carrère si potrebbe dire che chi l’ha scritto ha avuto vita facile. Sono sempre
stato convinto che Philip Dick sia il naturale destinatario di quel celebre
monologo di Kurt Vonnegut sugli scrittori di fantascienza: «Vi amo, figli di
puttana. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che
sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un
viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di
anni». Di cambiamenti in corso, nella California delle controculture degli anni
Sessanta e Settanta in cui viveva Dick, ce n’erano parecchi, e Carrère è abile
nel ricamarli e mostrare com’erano intessuti alle fantasie lucide e alle
ossessioni paranoiche che non abbandonavano mai il collega, un uomo di
certo abbastanza pazzo e sinceramente visionario per parlare di quel viaggio
nel cosmo. Nel libro appaiono in lontananza, come echi distanti, Richard
“Tricky Dick” Nixon, Charles Manson, Joan Didion, tra gli altri, ma il
protagonista assoluto ha un solo nome, e le sue paure patologiche, la sua
inscalfibile consapevolezza da oracolo, la sua frustrazione e i suoi amori
instabili colorano un mondo non meno rivelatorio di quelli delle sue distopie.
Leggendo Carrère, si scopre che Philip Dick ha sempre considerato la sua
fantascienza più “reale” di qualsiasi nonfiction. Nell’anno dell’elezione alla
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Casa Bianca di un appariscente miliardario che ha promesso di deportare
milioni di persone e costruire muri invalicabili al confine tra Stati Uniti e
Messico, credo sarebbe meglio iniziare a rileggerla. (Davide Piacenza)
Alessandro Piperno – Dove la storia finisce (Mondadori)
Mesi dopo aver finito di leggere
l’ultimo romanzo di Alessandro
Piperno, i personaggi sono ancora
perfettamente nitidi e vivi anche
perché il libro percorre inedite
strade cognitive. Asciugata la
scrittura rispetto ai suoi libri
precedenti, carteggiato lo stile e
snellito il lessico, le pagine
lavorano subdolamente a scolpire
scene, ambienti e soprattutto
personaggi, con l’effetto dei
messaggi subliminali. Sono in
scena due famiglie romane, molta
incertezza su come muoversi nella
vita, e tanti sentimenti
contrastanti: «Il padre sorrise. Lo
fece anche Federica, ma che voglia
di piangere! Se fosse stata lei la madre, avrebbe stretto il bimbo come un
peluche. Fu turbata dall’inopportunità di quel pensiero». Sorridere con il
desiderio di piangere, pensare qualcosa che scandalizza per primo chi formula
il pensiero. Ecco il tipo di intervento nella profondità dei personaggi inventati.
Altrove si legge: «La sua frase era suonata più brutale del pensiero che l’aveva
ispirata». La confidenza con l’anima inquieta dei personaggi e con le loro
aspettative frustrate, padroneggiata da Piperno, infonde nel lettore la
paradossale e illusoria percezione di aver conosciuto “esseri umani”
semplicemente leggendo una storia romanzesca. In una Roma calda, che cade
a pezzi, battuta da un vento africano e minacciata da temporali tropicali, i
protagonisti di Piperno prendono atto di relazioni sentimentali logore, di
matrimoni arrivati al capolinea. Tutti provano a ricominciare a vivere, a dire
bugie nella speranza di resistere a una forza centrifuga che li spinge lontano
uno dall’altro. Soltanto il finale – coraggiosissimo, spiazzante, traumatico –
riesce, per assurdo, a rimettere in fila le esistenze e a ridare un ordine al
mondo: «La stessa ragazza che aveva passato le ultime settimane a flirtare
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con l’idea della morte, era travolta dall’istinto di conservazione». (Francesco
Longo)
Gerard Russell – Regni dimenticati (Adelphi) trad. Svevo D’Onofrio
Penso che il 2016 sia stato uno
degli anni letterariamente più felici,
per quanto riguarda le cose uscite in
Italia. Personalmente, oltre la
riscoperta di un autore gigantesco
come Domenico Starnone, la mia
ricerca si è impostata organicamente
su due filoni: quello della natura e
quello della geopolitica. Ho letto di
astori, falchi pellegrini e filosofie
dell’orto da un trilocale di Milano
nord, poi è arrivato il caldo, sono
andato al mare, tra montagne che si
scapicollano nel Tirreno e quindi
molta natura e molti falchi, per
dedicarmi invece al Grande Gioco tra
Persia e Afghanistan e alla storia
delle religioni del Medio Oriente.
Quest’ultimo filone – la divulgazione storica, o storico-narrativa – mi ha
molto appassionato: c’entra anche la bravura di Adelphi di fare uscire, negli
ultimi anni e nella sua collana forse esteticamente più bella, titoli come Il
Grande Gioco o Alla conquista di Lhasa di Peter Hopkirk, Il ritorno di un re di
William Darlymple, e questo Regni dimenticati appunto. E c’entra,
banalmente, quello che succede nel mondo e che viene riportato dai siti di
notizie ogni giorno, quei nomi esotici un tempo (nei libri, nell’immaginario
occidentale, nei pochi ricordi di bambino delle diapositive di parenti
avventurosi) oggi diventati polvere grigia e palazzi vuoti. Gerald Russell fa un
viaggio culturalmente tra i più affascinanti, nei territori delle religioni
mediorientali in via di sparizione – yazidi, zoroastriani, samaritani, caldei – e
lo fa oggi ma anche mille e duemila anni fa per fotografare i momenti in cui
quei culti erano vivi e diffusi e dominavano quei deserti. L’effetto è la
meraviglia, prima, la sete di sapere più avanti, e lo straniamento, alla fine, per
la condizione dell’oggi, per Damasco, Palmyra, Baghdad. Questo preambolo
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per dire e dirmi qualcosa (e soprattutto per decidermi) sulla
impegnativa categoria di “libro dell’anno”: Regni Dimenticati è arrivato al
momento giusto, appassionandomi per quattrocento – quasi – pagine senza
nessun calo di tensione. E dire che ero in spiaggia. (Davide Coppo)
Emma Cline – Le ragazze (Einaudi Stile libero) trad. Martina Testa
Ci sono molti motivi per cui
potremmo definire Le ragazze il
libro dell’anno. Gli elementi del
fenomeno editoriale ci sono tutti, a
partire dalla ventisettenne
esordiente anche troppo
facilmente ascrivibile alla comoda
categoria del prodigio, perfetta
sulle copertina di Vogue UK e
portatrice di una bellezza «sinistra
e famelica» che, come ha scritto
Claudia Durastanti, ricorda fin
troppo quella delle protagoniste
del suo libro. Poi ci sarebbe anche
quella facilità con cui Cline sembra
padroneggiare la scelta di
ambientare le vicende della
protagonista all’interno di un fatto
di cronaca iper-noto, quello degli
omicidi della setta Manson. Un espediente che, almeno in potenza, avrebbe
potuto intaccare la storia da più parti, ma che l’autrice sa invece utilizzare e
“diluire” nel corso della sua storia, dimostrando una perizia di forma e
contenuto che non ha mancato di impressionare i critici (un po’ meno quelli
italiani, ma questa è un’altra storia). C’è infine quell’intuizione di fondo che
riporta Le ragazze al presente in cui è stato scritto, e conseguentemente letto e
consumato: il racconto militante dell’identità femminile, la storia di
formazione che si lega a quella dell’infatuazione della piccola borghese Evie
per la feroce spiantata Suzanne, vero snodo narrativo dell’intera vicenda. «Fui
travolta da un senso vertiginoso di solidarietà, il tono stanco ed equanime
della sua voce: pensai che sapevamo tutte e due cosa voleva dire essere sole,
anche se a ripensarci adesso mi sembrava stupido. Aver pensato che fossimo
così simili, quando io ero cresciuta con donne di servizio e genitori e lei mi
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aveva detto che per certi periodi aveva vissuto in macchina, dormendo sul
sedile del passeggero reclinato, con sua madre su quello del guidatore. Io, se
avevo fame, mangiavo. Ma c’erano altre cose che ci accumunavano, a me e a
Suzanne, un tipo diverso di fame». È una fame di sesso, ma non di sole
attenzioni maschili, di affermazione di sé e di conseguente emancipazione
dagli altri, dalle proprie madri, innanzitutto, la cui borsa ci rivela tutte le
insicurezze, dalle amiche d’infanzia, il cui tono improvvisamente ci sembra
troppo sguaiato, ma anche dai padri indolenti e dalle cotte adolescenziali, è in
fin dei conti una fame del proprio io, in quell’asfissiante ricerca continua che
sono la pre-adolescenza e l’adolescenza. È la parabola di quell’intesa
primitiva che può crearsi solo fra due donne, nel cui arco la personalità di Evie
si schiude senza però arrivare a un necessario compimento, come le parti del
racconto affidate alla sua controfigura adulta dimostrano. Si tratta di un
archetipo letterario su cui molte scrittrici si stanno dedicando negli ultimi
anni, le loro pagine più belle, una sorta di filo conduttore che unisce
idealmente Virginia Woolf, Dori Lessing, Elena Ferrante, Zadie Smith, Ottessa
Moshfegh e la stessa Cline. In un articolo uscito per il Guardian lo scorso
agosto, Alex Clark scrive: «Di recente, c’è stata una crescita della
rappresentazione letteraria di un particolare tipo di amicizia, che in passato è
stata tralasciata a causa di quelli che sembravano imperativi apparentemente
più potenti come l’eterosessualità e la maternità». E proprio l’amicizia fra
donne diventa, per le ragazze di Emma Cline ma forse anche per tutte le altre,
il terreno incestuoso dove far convergere tutte le spinte di una identità (sia
pubblica che privata) in continua, violenta, evoluzione. (Silvia Schirinzi)
Leonard Michaels – Sylvia (Adelphi) trad. Vincenzo Vergiani
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Sylvia è una piccola perla che si
inserisce nella lunga collana delle
storie che indagano il lato oscuro
dell’amore, quando le relazioni
assumono il sapore velenoso e
irresistibile della dipendenza, della
pazzia e della violenza. Sonata a
Kreutzer di Tolstoij o Un amore di
Dino Buzzati posso essere citati
come due prestigiosi progenitori
della storia di ossessione e sfacelo
che, con toni più freschi e
disincantati, questo libro mette in
scena. I paradossi e i giochi
perversi, l’odio e la passione, i
litigi, la gelosia, il sesso, il potere
del corpo della donna di attrarre e
incatenare. È come se Michaels
riuscisse a distillare la meticolosa
analisi introspettiva di Tolstoij, riducendola al minimo ma non a zero, e a
rendere più dolce e disperata la morbosa tensione erotica di Buzzati. Se il
sapore amaro che Sylvia lascia sulla lingua è nuovo e diverso è anche perché si
tratta di una storia vera (del resto anche Tolstoj per la sua Sonata prende
spunto da una vicenda autobiografica, un tradimento subito, un po’ come
Beyoncé per Lemonade). Leonard Michaels ripercorre il tempo trascorso con la
sua giovanissima moglie Sylvia, risalendo con lucidità straziante verso il picco
della sua follia e poi guardando giù, nel baratro vuoto lasciato da lei dopo il
suo suicidio. Ma quello che lega Michaels a Tolstoij e Buzzati è anche la
capacità dell’autore di dipingere la relazione come un nucleo inquieto
contenuto e attraversato da un ulteriore, più grande movimento. La storia di
Buzzati ha la forma di una spirale, un’ossessione che si inabissa in una Milano
palpitante e crudele, brulicante scrigno di miserie e bramosie. La tragedia di
Tolstoij segue l’andamento inevitabile, rettilineo, del treno in corsa sul quale
viene narrata, mentre Michaels schizza con pochi tratti – oltre le pareti della
casa in cui lui e Sylvia si sono auto imprigionati – una New York vaga, quasi
astratta, ridotta al «carnevale demente» di MacDougal Street, il cui delirio
sembra poter entrare dalle finestre insieme all’aria, contaminando la
coppia. La voce con cui Michaels ripercorre il passato è sarcastica, eppure, al
contempo, piena di tenerezza. Non c’è rancore né pentimento per tutto ciò che
è stato vissuto, quasi a dire che l’amore, anche il più malato e sbagliato e
doloroso, non si può giudicare o rinnegare: è come una malattia, una febbre
che sale e sale, e non si può fare altro che aspettare che passi, o che distrugga
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uno dei due. (Clara Mazzoleni)
Tag: Classifiche · Libri
Di Aa.Vv.
Pubblicato in data 21 dicembre 2016
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