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NOTA A CORTE COSTITUZIONALE,
SENTENZA 15 luglio 2016, n. 179
A cura di GIUSEPPE VISCONTE
Gli accordi di diritto pubblico e le ricadute in punto di giurisdizione
Sommario: 1. Premessa; 2.1 Gli accordi di diritto pubblico prima della legge n. 241/1990; 2.2 Gli
accordi di diritto pubblico dopo la legge n. 241/1990 e la questione della natura giuridica; 3.1 Le
trasformazioni del processo amministrativo: dalle origini ai rimedi apprestati dalla giurisprudenza
per ovviare alle carenze di tutela; 3.2 Segue: il codice del processo amministrativo e le
trasformazioni del diritto sostanziale; 4. L’evoluzione della giurisdizione esclusiva; 5.1 La
questione posta al vaglio della Corte: le ragioni del giudice a quo e della difesa erariale; 5.2 Segue:
la soluzione della Corte Costituzionale.
1. Premessa
La sentenza della Corte Costituzionale n. 179/2016 assume rilievo per il diritto amministrativo
contemporaneo in quanto rappresenta l’occasione per il Giudice delle Leggi per prendere atto della
trasformazione che il processo amministrativo ha vissuto negli ultimi decenni.
L’occasione è rappresentata da una questione che attiene alla legittimità del diritto vivente
sviluppatosi intorno ad un’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo configurata
dall’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, ai sensi del quale “sono devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo … a) le controversie in materia di … 2) formazione, conclusione ed
esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli accordi
fra pubbliche amministrazioni.”
Nel presente lavoro verranno descritte le caratteristiche degli accordi ex art. 11 della legge n.
241/1990 coinvolte nelle questioni trattate dalla Corte Costituzionale, le trasformazioni che ha
subito negli ultimi tempi il processo amministrativo e l’evoluzione della giurisdizione esclusiva
nella giurisprudenza della Corte Costituzionale fino al commento della soluzione approntata dal
Giudice delle Leggi al caso proposto.
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2.1 Gli accordi di diritto pubblico prima della legge n. 241/19901.
La c.d. amministrazione per accordi ha ricevuto un riconoscimento e una disciplina di carattere
generale con la legge n. 241/1990 e con le successive novelle del 2005.
Le ragioni che hanno spinto il legislatore ad introdurre tale tipologia di accordi non hanno, tuttavia,
fatto venir meno la posizione di privilegio nella quale si trova il provvedimento come strumento con
il quale la pubblica amministrazione può modificare le situazioni giuridiche degli amministrati in
modo unilaterale, senza la ricerca del loro consenso, come, invece, avviene negli accordi. La ricerca
del consenso del cittadino da parte della pubblica amministrazione può trovare giustificazione nella
necessità di ricercare la sua collaborazione per poter assolvere al meglio i propri compiti, nonché
nell’opportunità di evitare possibili contrasti in sede di procedimento amministrativo, se non di
contenzioso.
Già prima della entrata in vigore della legge n. 241/1990 le pubbliche amministrazioni ricorrevano
allo strumento dei contratti di diritto pubblico, che veniva utilizzato anche in assenza di una norma
che espressamente consentisse il ricorso a tale strumento e la cui caratteristica peculiare era la
mancanza della parità tra i contraenti tipica dei contratti di diritto privato. Tale caratteristica faceva
ritenere ad alcuni che fossero dei provvedimenti unilaterali della pubblica amministrazione, ma con
effetti bilaterali vincolanti sia per il privato che per la pubblica amministrazione, la cui volontà
restava, tuttavia prevalente, ad altri che, invece, erano dei veri e propri negozi, dal momento che
non c’era un divieto per le pubbliche amministrazioni di ricorrere agli strumenti negoziali per
esercitare il potere pubblicistico.
Così si distinguevano tre tipologie di contratti di diritto pubblico: 1) i contratti accessivi di
provvedimenti, che erano dei negozi che si limitavano a disciplinare nel dettaglio gli aspetti
patrimoniali inerenti obblighi già assunti dal privato e dalla pubblica amministrazione per effetto
dell’emanazione di un provvedimento amministrativo, al quale accedevano e al quale erano legati
da un rapporto univoco, per cui eventuali vizi che inficiavano il provvedimento amministrativo
facevano decadere il contratto, ma non viceversa; 2) i contratti ausiliari di provvedimenti, che
erano contratti che si inserivano nell’ambito di un procedimento amministrativo, al solo scopo di
definire aspetti peculiari, ai quali la pubblica amministrazione intendeva ricorrere al fine di
obbligare i privati all’adempimento di determinati obblighi, che non sarebbe riuscito ad imporre
mediante il provvedimento; 3) i contratti sostitutivi di provvedimenti, ai quali la pubblica
1 Michele Corradino, Compendio di diritto amministrativo, 2^ edizione aggiornata, Edizioni Atena Alta Formazione.
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amministrazione ricorreva per l’esercizio del potere di pianificazione urbanistica e di
programmazione economica e che trovavano fondamento in un provvedimento amministrativo che
non introduceva obblighi e diritti, ma aveva il solo scopo di autorizzare la conclusione di un
accordo tra pubblica amministrazione e privato che definiva nel dettaglio il contenuto di obblighi
che trovavano fonte nella legge.
2.2 Gli accordi di diritto pubblico dopo la legge n. 241/1990 e la questione della natura
giuridica.
La legge n. 241/1990 ha per la prima volta introdotto una disciplina generale degli accordi di diritto
pubblico, cercando di valorizzare lo strumento convenzionale per l’imposizione di obblighi agli
amministrati mediante l’acquisizione del loro consenso. L’art. 11 prevede due tipi di obblighi: 1) gli
accordi sostitutivi, che si sostituiscono ai provvedimenti amministrativi e che, fino alla novella del
2005, potevano concludersi solo nei casi previsti dalla legge; 2) gli accordi integrativi, che
definiscono il contenuto discrezionale di un provvedimento e possono essere stipulati anche per gli
aspetti dei provvedimenti discrezionali che possono presentare elementi di discrezionalità, a
condizione che ne derivi per entrambe le parti un’utilità maggiore di quella che avrebbero
conseguito dalla mera adozione di un provvedimento amministrativo.
Per individuare le ragioni che sono alla base dell’attribuzione al giudice amministrativo della
giurisdizione esclusiva in materia di accordi ex art. 11, si ritiene necessario, ai fini del presente
lavoro, prendere le mosse dalle questioni che attengono all’individuazione della natura giuridica di
tali accordi e, al riguardo, si contrappongono due teorie: 1) una prima che li considera degli
strumenti di natura negoziale, anche in virtù del richiamo contenuto nell’art. 11 ai principi in
materia di contratti e di obbligazioni; 2) una seconda prevalente li considera degli atti di natura
pubblicistica, espressione di un potere pubblicistico, in quanto: a) la volontà della pubblica
amministrazione non è sullo stesso piano di quella del privato; b) i principi in materia di contratti e
di obbligazioni si applicano in via residuale in quanto compatibili con la disciplina speciale di tali
accordi; c) l’istituto è regolato dalle norme sul procedimento amministrativo; d) questi accordi sono
sottoposti agli stessi controlli del procedimento amministrativo; e) il potere di recesso, con dazione
di un indennizzo all’altro contraente. La soluzione della questione ha rilevanti risvolti applicativi.
Se si attribuisce agli accordi ex art. 11 della legge n. 241/1990 una natura negoziale, ne consegue
l’applicabilità di tutta la disciplina civilistica in materia di patologia del contratto, tra cui le norme
in materia di nullità, annullabilità e rescissione del contratto, e di esecuzione del contratto, tra cui, in
caso di inadempimento, lo strumento previsto dall’art. 2932 c.c., che prevede la possibilità di
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ottenere una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso. Se si attribuisce natura
pubblicistica, sotto il profilo della patologia ne consegue l’applicabilità delle norme
sull’annullabilità per i vizi dell’atto amministrativo, sotto il profilo dell’esecuzione degli accordi, la
mancata esecuzione da parte della pubblica amministrazione determina la legittimazione del
provato ad agire contra silentium la mancata esecuzione da parte del privato legittima
l’amministrazione ad esercitare i poteri di autotutela.
Una spinta ulteriore in favore del riconoscimento della natura pubblicistica degli accordi ex art. 11
l’ha data il legislatore del 2005 con l’introduzione di due importanti novità: l’eliminazione
dell’inciso “nei casi previsti dalla legge” e l’introduzione della determinazione preliminare.
L’eliminazione dell’inciso ha posto il problema della eventuale atipicità degli accordi ex art. 11, in
quanto da parte di alcuni si è sostenuto che la mancata predeterminazione del contenuto e della
struttura degli accordi avrebbe consentito all’amministrazione di violare il principio di nominatività
dei provvedimenti amministrativi. Altri invece hanno sostenuto il principio della tipicità derivata,
nel senso che l’amministrazione, dal momento che, ricorrendo allo strumento degli accordi, non può
esercitare poteri maggiori di quelli che poteva esercitare ricorrendo allo strumento tradizionale del
provvedimento, la struttura e il contenuto degli accordi si devono pur sempre collocare nell’alveo
dei poteri della pubblica amministrazione, per cui cambia solo il veicolo attraverso il quale la
fattispecie viene regolata, potendo la pubblica amministrazione, per effetto della eliminazione
dell’inciso scegliere indifferentemente tra accordo e provvedimento, salvo le ipotesi in cui si
esclusa, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 241/1990, la partecipazione del privato o si tratti di
materie che il legislazione nazionale e comunitario individuano come non negoziabili.
Con l’introduzione della determinazione preventiva il legislatore ha voluto far emergere il
momento procedimentale in cui l’amministrazione addiviene alla conclusione dell’accordo e
manifesta le ragioni che l’hanno indotta a preferire l’accordo al provvedimento o le ragioni per le
quali una eventuale proposta di accordo formulata dal privato sia stata rigettata. Una parte della
dottrina ha ritenuto superflua questa precisazione normativa, dal momento che gli accordi possono
produrre effetti solo tra le parti che lo stipulano e non nei confronti di soggetti terzi che possono
sempre impugnarlo se pregiudizievole. Si deve perciò ritenere che il legislatore abbia voluto fornire
al terzo uno strumento di anticipazione della tutela processuale, per consentire ad un soggetto
estraneo l’impugnazione della determinazione preventiva, al fine di impedire la stipula dell’accordo
pregiudizievole.
A sostegno della natura pubblicistica degli accordi ex art. 11 si pongono anche le caratteristiche del
potere di recesso: 1) che può essere esercitato quando l’assetto di interessi sia divenuto
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incompatibile con il sopravvenuto interesse pubblico, che l’amministrazione deve costantemente
assicurare; 2) al quale l’amministrazione può ricorrere, sempre a tutela dell’interesse pubblico,
anche nella fase di esecuzione dell’accordo, non come diritto potestativo riconosciuto dall’art. 1373
c.c., che prevede il recesso unilaterale dal contratto, ma come vero e proprio potere pubblicistico
attribuito all’amministrazione, da intendersi come ius poenitendi da esercitare al fine di assicurare la
tutela dell’interesse pubblico; 3) che implica l’emanazione di un provvedimento amministrativo
sottoposto alla legge n. 241/1990; 4) che andrà esercitato con le stesse formalità previste per la
stipulazione dell’accordo, in virtù del principio del contrarius actus.
Una conferma della natura pubblicistica degli accordi ex art. 11 la si rileva, infine, nell’attribuzione
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prima con l’art. 11, comma 5, legge n.
241/1990 e poi con l’art. 133, comma 1, lett. a) n. 2) c.p.a. delle “controversie in materia di … 2)
formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento
amministrativo e degli accordi fra pubbliche amministrazioni”.
Sull’individuazione del perimetro di applicazione di quest’ipotesi di giurisdizione esclusiva si sono
sollevate una serie di questioni, tra le quali, in primo luogo, quella attinenti la sottoponibilità alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie sollevate dal terzo.
Alcuni, sostenendo un’interpretazione letterale del testo dell’art. 133 c.p.a. , hanno ritenuto che
termini quali formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi debbano far propendere per una
giurisdizione esclusiva limitata alle sole controversie sollevate dalle parti dell’accordo stesso.
Altri, invece, sostengono un’interpretazione più estensiva, per cui la giurisdizione esclusiva
riguarderebbe anche le controversie sollevate dal terzo, dal momento che, altrimenti, il terzo che
ritenesse pregiudicato dall’accordo un proprio diritto soggettivo dovrebbe adire il giudice ordinario,
in contrasto con le esigenze di concentrazione della tutela che rappresenta uno dei principi della
legge delega, sulla base del quale è stato predisposto il c.p.a.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite, con le sentenze n. 105/2001 e n. 10186/2007, si è
pronunciata a favore della giurisdizione esclusiva per le controversie sollevate dal terzo, in quanto:
a) la giurisdizione del giudice amministrativo va individuata avendo come punto di riferimento non
la materia, ma la tipologia dell’atto utilizzato per il perseguimento dell’interesse pubblico; b) il
legislatore si è appositamente espresso in maniera generica, non distinguendo tra le controversie
sollevate dalle parti e quelle sollevate dal terzo, così da far intendere la preferenza per un raggio
d’azione ampio della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di accordi; c) la scelta del
legislatore è coerente con l’esigenza di evitare eventuali conflitti tra giudice amministrativo e
giudice ordinario che sarebbero insorti qualora si fosse lascito un margine di applicabilità al criterio
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ordinario del riparto di giurisdizione fondato sulla causa petendi, considerata la natura ibrida di
questi accordi che pienamente integrano il requisito del groviglio inestricabile di situazioni
giuridiche individuato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 204/2004, per legittimare
l’attribuzione da parte del legislatore della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Il tema dell’ambito di applicazione della giurisdizione esclusiva in materia di accordi ex art. 11 ha
riguardato anche le controversie sollevate dalle parti e, in particolare, per ciò che attiene alle
controversie sollevate dalla pubblica amministrazione, che è addivenuta alla conclusione
dell’accordo, in caso di mancata esecuzione da parte del privato. Infatti, nella sentenza n. 179/2016,
oggetto del presente commento, la Corte Costituzionale ha affrontato la questione relativa
all’applicabilità della giurisdizione esclusiva prevista dall’art. 133 c.p.a. anche alle controversie
sollevate dalla pubblica amministrazione, dal momento che, da un lato, la parte remittente ha
ritenuto che il diritto vivente formatosi sulla norma oggetto del giudizio di legittimità, secondo cui
anche le controversie sollevate dalla pubblica amministrazione sarebbero soggette alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, sarebbe in contrasto con la lettura che viene data degli art. 103
e 113 Cost., secondo la quale la Costituzione avrebbe voluto prevedere un sistema di tutela nei
confronti dei provvedimenti amministrativi solo nel caso in cui l’impugnativa provenga da
un’iniziativa del privato, dall’altro l’amministrazione resistente evidenzia il ruolo del giudice
amministrativo che deve ponderare tra l’interesse fatto valere dal singolo e l’interesse pubblico che
la pubblica amministrazione non potrebbe tutelare qualora non fosse soggetta alla giurisdizione
esclusiva la controversie dalla stessa incardinata.
3.1 Le trasformazioni del processo amministrativo: dalle origini ai rimedi apprestati dalla
giurisprudenza per ovviare alle carenze di tutela.
La questione posta è stata l’occasione che ha permesso al Giudice delle Leggi di prendere atto di
una delle più importanti trasformazioni che ha vissuto negli ultimi anni il processo amministrativo.
Il processo amministrativo nasce, infatti, nel 1889, con l’istituzione della IV Sezione del Consiglio
di Stato, come processo di stampo impugnatorio (e tuttora continua fondamentalmente ad esserlo),
in cui il giudice amministrativo, accertata l’illegittimità dell’atto amministrativo impugnato, lo
annulla, con il conseguente ripristino dello status quo ante l’emanazione dello stesso. Alla base del
processo impugnatorio c’è, quindi, l’interesse oppositivo del privato che punta a far rimuovere dal
mondo giuridico l’atto amministrativo pregiudizievole.
Tuttavia, il progressivo intervento dello Stato nei processi economici e la trasformazione dello Stato
in gestore e regolatore dei servizi pubblici, fanno sì che cominciano a diffondersi gli interessi
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pretensivi, ovvero l’interesse del cittadino a ricevere dallo Stato un bene della vita al quale aspira.
La giurisprudenza amministrativa non può far altro che estendere agli interessi pretensivi la tutela
già prevista dal legislatore per gli interessi oppositivi. Ci si accorge, tuttavia, ben presto
dell’insufficienza della mera tutela annullatoria per gratificare l’interesse pretensivo, in quanto, in
caso di diniego da parte dell’amministrazione, anche nell’ipotesi in cui il giudice dovesse ritenere
illegittimo tale diniego, il privato non potrebbe conseguire il bene della vita, perché sarebbe
necessaria una ulteriore attività della pubblica amministrazione, il cui diniego originario era stato
impugnato e annullato.
La giurisprudenza amministrativa cerca di rimediare a queste deficienze strutturali del processo
amministrativo anche e soprattutto per soddisfare le esigenze di tutela giurisdizionale che pone l’art.
24 Cost., per cui ricorre agli strumenti di cui dispone: la tutela cautelare e il giudizio di
ottemperanza.
Nel processo cautelare, infatti, dovendo il giudice, in presenza dei requisiti del fumus boni iuris
(fondatezza della pretesa) e del periculum in mora (il rischio che il trascorrere del tempo possa
pregiudicare il conseguimento del bene della vita), assicurare piena tutela al bene della vita, può
dare al ricorrente un’anticipazione della tutela, mediante l’emanazione di provvedimenti cautelari,
sotto forma di ordinanze o di decreti, la cui esecuzione verrà garantita dal giudizio di ottemperanza,
nel quale il giudice amministrativo, disponendo di una giurisdizione di merito, può sostituirsi
all’amministrazione, tramite un commissario ad acta, esercitando i poteri necessari per l’attuazione
di quanto disposto in sede cautelare.
Nel giudizio di legittimità il giudice si limita soltanto ad intervenire sul provvedimento, senza poter
poi dare esecuzione alle sue decisioni, per cui se, da un lato, ci sono sentenze auto-esecutive, in
relazione alle quali l’annullamento del provvedimento amministrativo determina il ripristino dello
statu quo ante l’emanazione del provvedimento, dall’altro ci sono sentenze che necessitano di
un’ulteriore attività da parte dell’amministrazione resistente. In questi casi l’amministrazione, alla
quale è affidato dal dispositivo della sentenza sempre il compito di dare esecuzione alla sentenza,
non può riproporre lo stesso provvedimento annullato con gli stessi vizi, ma può emanare un
provvedimento che eventualmente neghi per altri motivi il bene della vita al ricorrente, in quanto
altrimenti il medesimo provvedimento incorrerebbe nella nullità per violazione e/o elusione del
giudicato ex art. 21 septies della legge n. 241/1990.
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3.2 Segue: il codice del processo amministrativo e le trasformazioni del diritto
sostanziale.
Nonostante i rimedi apprestati dalla giurisprudenza per assicurare tutela all’interesse pretensivo, il
legislatore si è accorto dell’insufficienza degli stessi rispetto ai parametri imposti dall’art. 24 Cost.,
dall’ordinamento comunitario e dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ragion
per cui ha posto come principio fondamentale nell’art. 1 c.p.a. il principio di effettività e pienezza
della tutela giurisdizionale: “ La giustizia amministrativa deve dare una tutela piena ed effettiva
secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. L’affermazione da parte del legislatore
del principio di effettività e pienezza della tutela ha un significato forte e si ricollega alla necessità,
ravvisata dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 204/2004, che il giudice
amministrativo, pur disponendo di strumenti di tutela diversi rispetto a quelli del giudice civile,
fornisca lo stesso livello di effettività della tutela alle situazioni giuridiche soggettive che il
legislatore ha affidato alle sue cure. Così si è scoperta la necessità che venga assicurata non una
tutela formale alle situazioni giuridiche soggettive, ma una tutela sostanziale che permetta il
conseguimento del bene della vita.
Il legislatore delegato, che ha introdotto il codice del processo amministrativo, per realizzare questo
obiettivo della tutela piena ed effettiva ha, da un lato, sancito il principio della atipicità delle azioni,
che si sostanzia per il giudice amministrativo nella disponibilità di ogni misura idonea ad assicurare
la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, e, dall’altro, ne ha ampliato il corredo per il
ricorrente, introducendone alcune nuove che ricordano le azioni del processo civile (azioni
dichiarative e di condanna) e che si sono aggiunte all’azione annullatoria, denominata azione
costitutiva, la quale non è più la sola azione di cui dispone il ricorrente, ma una delle tante,
sancendo la trasformazione del processo amministrativo in processo non più sull’atto, ma sul
rapporto.
A questa trasformazione del processo amministrativo corrisponde una correlata trasformazione sotto
il profilo del diritto sostanziale. Infatti, rappresentano due esempi di trasformazione del diritto
amministrativo, nell’ottica di una sua dimensione più sostanziale che formale, l’introduzione,
avvenuta con la riforma del 2005, dell’art. 21 octies della legge 241/1990, che ha previsto,
normativizzando un orientamento giurisprudenziale particolarmente diffuso, il divieto per il giudice
amministrativo di annullare quegli atti amministrativi, il cui contenuto sarebbe rimasto lo stesso,
anche se emendati dei vizi per i quali sarebbero stati annullati, e dell’istituto del soccorso istruttorio,
già presente nell’ambito della disciplina del codice degli appalti previgente, che prevede l’obbligo
per le stazioni appaltanti di consentire alle ditte la dimostrazione di un requisito necessario per la
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partecipazione ad una gara, qualora queste ne siano effettivamente in possesso e siano state escluse
per non averlo correttamente dichiarato.
La natura impugnatoria del processo amministrativo aveva come conseguenza che la parte
ricorrente era inevitabilmente il privato, che impugnava l’atto amministrativo per lui
pregiudizievole emanato da una pubblica amministrazione, che, quindi, era sempre la parte
resistente. L’opera modellatrice degli istituti realizzata dalla giurisprudenza, al fine di assicurare
maggiore tutela giurisdizionale al privato ricorrente, ha determinato negli ultimi dieci anni una
trasformazione del processo amministrativo da processo sull’atto in processo sul rapporto, pur
restando il processo impugnatorio.
A questa trasformazione della struttura del processo amministrativo si è accompagnata anche una
trasformazione della nozione di pubblica amministrazione provocata dall’ordinamento comunitario.
Infatti, la privatizzazione degli enti pubblici e la conseguente trasformazione in società per azioni
aveva posto il problema se questi soggetti dovessero osservare le regole dell’evidenza pubblica e,
quindi, indire delle gare d’appalto, qualora avessero voluto acquistare dei beni o ricevere
prestazioni di servizi, dal momento che la loro natura sostanzialmente pubblicistica, nonostante
avessero acquisito una forma privatistica, avrebbe potuto determinare una distorsione del mercato e
avrebbe inevitabilmente alterato la concorrenza. Così la Corte di Giustizia, configurò questi soggetti
come “organismi di diritto pubblico” tenuti ad osservare le norme sull’evidenza pubblica per
scegliere i soggetti con i quali dovranno stipulare contratti per acquistare beni o ricevere prestazioni
di servizi, in quanto, anche se privati, quando acquistano beni, rischiano di alterare il mercato,
perché o non hanno paura di subire delle perdite, in quanto sanno che verranno rifinanziati dallo
Stato, anche se in perdita, o non hanno interesse a realizzare un profitto, in quanto il loro obiettivo è
quello di acquisire consenso politico.
La conseguenza sotto il profilo processuale è l’attribuzione delle controversie relative
all’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica da parte di tali soggetti alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo. Poteva così accadere che un soggetto escluso dalla
partecipazione alla gara o che non si era aggiudicato alla gara impugnasse i provvedimenti di
esclusione o di aggiudicazione emanati da un organismo di diritto pubblico cioè un soggetto
formalmente privato, cosa che fino ad un decennio fa era impensabile.
Come anche, in una fase successiva, è accaduto che una pubblica amministrazione dovesse
impugnare provvedimenti di un soggetto formalmente privato, un organismo di diritto pubblico, che
gestiva l’erogazione di servizi pubblici.
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Un’ipotesi di pubblica amministrazione che agisce contro un privato è proprio quella trattata dalla
Corte Costituzionale, quando una pubblica amministrazione, che ha aderito ad un accordo ex art.
11, agisce in via giurisdizionale contro il privato inadempiente, anziché esercitare i poteri di
autotutela esecutiva.
4. L’evoluzione della giurisdizione esclusiva.
La nostra Costituzione conosce tre tipi di giurisdizione amministrativa: 1) la giurisdizione generale
di legittimità, in cui il giudice amministrativo accerta l’illegittimità dell’atto amministrativo ed
eventualmente lo annulla, rimuovendolo dall’ordinamento giuridico; 2) la giurisdizione esclusiva,
che si può avere solo per particolari materie nelle ipotesi previste dalla legge; 3) la giurisdizione di
merito, in cui il giudice amministrativo, in particolari ipotesi, esercita gli stessi poteri della pubblica
amministrazione, potendosi sostituire ad essa.
A differenza della giurisdizione di legittimità, che è generale, perché il giudice amministrativo può
sempre esercitarla, non essendo necessaria una esplicita previsione di legge per ogni singola ipotesi,
la giurisdizione esclusiva è una giurisdizione, per così dire, eccezionale, in quanto l’art. 103 Cost.,
se, da un lato, ha costituzionalizzato il criterio di riparto della giurisdizione tra giudice
amministrativo e giudice ordinario della causa petendi, dall’altra, ha previsto, come eccezione al
criterio della causa petendi, la devoluzione, da parte del legislatore, alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo di particolari materie, nonostante si fosse in presenza di controversie
sollevate a tutela di un diritto soggettivo, il cui giudice naturale è il giudice ordinario.
La giurisdizione esclusiva ha di recente avuto una amplia applicazione da parte del legislatore, il
quale negli anni ’90, per compensare la perdita da parte del giudice amministrativo della
giurisdizione esclusiva su tutto il pubblico impiego, ad eccezione di quello non privatizzato, passato
alla giurisdizione del giudice ordinario, ha individuato tre ipotesi molto importanti di giurisdizione
esclusiva in materia di servizi pubblici, di edilizia e urbanistica.
Tuttavia la Corte Costituzionale, con le storiche sentenze n. 204/2004 e n. 191/2006, ha dichiarato
l’illegittimità delle normative che nel 1998 hanno attribuito la giurisdizione esclusiva al giudice
amministrativo in materia di servizi pubblici, di edilizia e urbanistica, ritenendo il criterio dei
“blocchi di materie” in contrasto con l’art. 103 Cost.
Così la Corte Costituzionale ha precisato che, perché sia legittima la devoluzione della giurisdizione
esclusiva al giudice amministrativo, occorre fare riferimento a tre criteri: 1) al criterio secondo cui
le materie attribuite alla giurisdizione esclusiva devono essere della medesima natura delle materie
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attribuite alla giurisdizione di legittimità, nel senso che in quelle materie l’amministrazione deve già
agire come autorità e il giudice amministrativo deve intervenire come giudice degli interessi
legittimi; 2) al criterio secondo cui deve esserci un nesso talmente inestricabile tra i diritti
soggettivi e gli interessi legittimi coinvolti in quella materia che è necessario affidarli alla
giurisdizione esclusiva, nel senso che è talmente difficile distinguerli tra loro che risulta utile ed
opportuno attribuirli ad un unico giudice; 3) al criterio secondo cui non rileva la natura pubblica di
una delle parti, nel senso che non si ha giurisdizione del giudice amministrativo per il fatto che nella
controversia è coinvolta una pubblica amministrazione.
Infatti, oramai da tempo, il giudice amministrativo non è più un giudice domestico, non è più il
giudice della pubblica amministrazione, ma è il giudice del potere dello Stato, nel senso che la
giurisdizione esclusiva si giustifica solo in quei casi nei quali l’attività della pubblica
amministrazione si riconduce in maniera diretta o indiretta ad una situazione di potere, in cui
l’amministrazione si trova rispetto al privato in una posizione di sovraordinazione, nel senso che
agisce come autorità, mentre, quando si trova in una posizione di equiordinazione, la giurisdizione
esclusiva non si giustifica e si ha la giurisdizione del giudice ordinario.
Così la Corte Costituzionale ha ritenuto illegittimo che ci fosse la giurisdizione esclusiva, in materia
di servizi pubblici, quando l’amministrazione si trovasse in controversia con il privato per questioni
riguardanti, ad esempio, i rapporti contrattuali di utenza, o, in materia di edilizia e urbanistica, ha
escluso che fossero soggette alla giurisdizione esclusiva quelle controversie, ad esempio, che
riguardavano comportamenti meramente materiali di occupazione di un terreno non riconducibili ad
alcun esercizio del potere.
5.1 La questione posta al vaglio della Corte: le ragioni del giudice a quo e della difesa
erariale.
La questione vagliata dalla Corte Costituzionale attiene alla legittimità dell’art. 133, comma 1, lett.
a), n. 2 c.p.a. nella parte in cui viene interpretato, secondo il diritto vivente, come norma che
riconosce la giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo anche nelle controversie in materia di
accordi ex art. 11 sollevate dalla pubblica amministrazione per inadempimento del privato.
In particolare, il TAR Puglia – Lecce, investito, quale giudice a quo, di una controversia inerente
l’inadempimento da parte del privato di obbligazioni imposte da una convenzione urbanistica, pur
riconoscendo che dottrina e giurisprudenza ritengono estesa la giurisdizione esclusiva sugli accordi
ex art. 11 anche alle ipotesi in cui l’iniziativa giurisdizionale è intrapresa da una pubblica
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amministrazione, manifesta dei dubbi di compatibilità del diritto vivente formatosi con gli artt. 103
e 113 Cost., i quali sembrerebbero limitare la giurisdizione alla tutela del privato.
La difesa dell’Avvocatura Generale dello Stato rigetta l’idea che il diritto vivente formatosi sull’art.
133 cit. sia in contrasto con le norme costituzionali vigenti in materia di giustizia amministrativa, in
quanto queste non delineano una struttura processuale vincolante, che preveda che l’iniziativa
processuale possa essere intrapresa solo dal privato e non dalla pubblica amministrazione.
Quest’idea, infatti, deriva più che altro da una visione tradizionale del processo amministrativo
come processo di natura impugnatoria, in cui il giudice interviene solo sull’atto, ragion per cui
l’iniziativa processuale non potrebbe, secondo questa visione, che provenire dal privato. Invece,
come rileva la difesa statale, la disciplina del concreto svolgimento del processo amministrativo non
è predeterminata a livello costituzionale, dal momento che l’art. 113 Cost. ultimo comma, rimette al
legislatore ordinario il compito di stabilire quali organi, in quali casi e con quali effetti possano
pronunciare l’annullamento degli atti amministrativi, non imponendo che debba essere sempre il
privato ad essere l’attore della controversia. Da questa lettura ne deriverebbe un sistema di giustizia
amministrativa che appresta una garanzia bilaterale, in quanto il giudice amministrativo è per il
privato giudice naturale del potere amministrativo, in quanto ha il compito di accertare il legittimo
esercizio del potere e, allo stesso tempo, è giudice dell’interesse pubblico, di cui l’amministrazione
è interprete autentico anche quando esercita il potere in maniera mediata attraverso le forme
convenzionali, come è accaduto nella controversia sollevata. Così il giudice amministrativo non è
più giudice domestico della pubblica amministrazione, come lo erano i tribunali del contenzioso
amministrativo degli Stati preunitari, ma giudice che assolve ad un ruolo di ponderazione sui
rapporti amministrativi, cercando di realizzare una sintesi tra l’interesse del singolo privato e il
generale interesse pubblico di cui è interprete la pubblica amministrazione.
Oltre al carattere non vincolante delle norme costituzionali in merito alla struttura del processo
amministrativo, la difesa erariale pone a sostegno della propria interpretazione l’argomento secondo
cui le norme costituzionali hanno come obiettivo quello di assicurare una tutela giurisdizionale al
privato, ma non per questo vietano all’amministrazione di potersi rivolgere al giudice
amministrativo, ciò in quanto gli art. 24 e 111 Cost. garantiscono a tutti i soggetti il diritto ad agire
in sede giurisdizionale per la tutela delle proprie posizioni soggettive e tra questi c’è anche la
pubblica amministrazione che deve poter tutelare l’interesse generale di cui è portatrice e autentico
interprete, anche quando si avvale dello strumento convenzionale per la sua realizzazione. Se fosse
consentito solo al privato di adire il giudice amministrativo in caso di inadempimento della pubblica
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amministrazione e non viceversa verrebbe violato il principio del giusto processo e sarebbe preclusa
alla pubblica amministrazione la possibilità di tutelare l’interesse generale che rappresenta.
Rileva, altresì, la difesa erariale come quella di agire in via giurisdizionale in caso di
inadempimento da parte del privato degli accordi ex art. 11 sia una scelta strategica, dal momento
che l’opzione per lo strumento convenzionale non fa perdere all’amministrazione la possibilità di
esercitare i poteri di autotutela esecutiva, in quanto l’applicazione dei principi in materia di
obbligazioni e contratti richiamata dall’art. 11 della legge n. 241/1990 assume un carattere
residuale, nel senso che è possibile nella misura in cui l’amministrazione non intenda esercitare le
proprie potestà pubbliche, stante la natura pubblicistica degli accordi ex art. 11 sostenuta
dall’opinione di maggioranza, come sopra si è rilevato.
Rileva, infine, la difesa erariale come l’interpretazione proposta dal giudice a quo negherebbe
all’amministrazione la possibilità di scegliere tra l’esercizio dell’azione giurisdizionale per
inadempimento degli accordi e l’esercizio dei poteri di autotutela esecutiva, con la conseguenza che
l’amministrazione, per ottenere l’accertamento giudiziale dell’inadempimento da parte del privato,
sarebbe costretta ad esercitare il potere di autotutela esecutiva ed attendere l’eventuale iniziativa del
privato contro l’esercizio di tale potere, mentre, a parti invertite, il privato si troverebbe in una
posizione privilegiata, in quanto potrebbe agire in via giurisdizionale per l’accertamento
dell’inadempimento da parte della pubblica amministrazione.
5.2 Segue: la soluzione della Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale rileva l’infondatezza della questione.
Il Giudice delle Leggi fa notare come dagli accordi procedimentali abbiano anch’essi una natura
sinallagmatica, in quanto, se, da un lato, prevedano dei vincoli a carico dell’amministrazione,
dall’altro, impongono degli obblighi anche a carico del contraente privato. Ad esempio, in caso di
convenzioni di lottizzazione, come nella controversia in questione, al rilascio del permesso di
costruire da parte dell’amministrazione corrisponde il correlativo obbligo del privato di realizzare le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria, con riferimento al quale nella fattispecie per cui è
causa il privato contraente è risultato inadempiente. Al sinallagma di diritto sostanziale corrisponde,
secondo il ragionamento della Corte Costituzionale, un sinallagma di diritto processuale, che
implica inevitabilmente la possibilità per entrambe le parti aderenti agli accordi procedimentali di
adire il giudice amministrativo in caso di inadempimento della controparte, dal momento la Corte
Costituzionale ha rilevato che l’art. 133 cit. ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo “tutte le controversie che trovano titolo negli accordi che sostituiscono o integrano
i provvedimenti amministrativi” e che la giurisprudenza di legittimità sia ordinaria che
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amministrativa fa rientrare tra tali controversie anche quelle in cui la pubblica amministrazione è
parte attrice.
La Corte Costituzionale condivide anche le argomentazioni della difesa erariale in merito al ruolo
del giudice amministrativo di giudice sul rapporto amministrativo, in quanto afferma che gli artt.
103 e 113 Cost. non vanno interpretati nel senso che il sistema di tutela apprestato da queste norme
può essere attivato solo dal privato e non possono ricorrervi le pubbliche amministrazioni,
soprattutto per il fatto che il giudice amministrativo è storicamente e istituzionalmente preposto,
oltre che alla tutela degli interessi legittimi, anche alla tutela dell’interesse pubblico, tant’è che la
giurisdizione esclusiva è legittimamente devoluta dal legislatore al giudice amministrativo solo in
quelle particolari materie nelle quali vi sono le condizioni richieste dalla Corte Costituzionale nelle
sentenze n. 204/2004 e n. 191/2006, ovverosia l’inestricabile groviglio di diritti soggettivi e
interessi legittimi, nonché il ruolo di supremazia esercitato dalla pubblica amministrazione, che
deve agire come autorità e quindi come soggetto chiamato ad esercitare un potere, sia mediante
provvedimenti che mediante moduli convenzionali, e a farsi interprete autentico dell’interesse
pubblico alla cui cura è preposto dalla legge.
La Corte Costituzionale, in questa sentenza del luglio 2016, ci spiega che un classico esempio di
giurisdizione esclusiva si ha in materia di accordi ex art. 11, nella parte in cui ci dice che: ““In sede
di regolazione della giurisdizione, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato il collegamento
funzionale delle convenzioni urbanistiche al procedimento di rilascio dei titoli abilitativi. In
quanto inserite nell'ambito del procedimento amministrativo, le convenzioni e gli atti di obbligo
stipulati dall'Amministrazione con i privati costituiscono pur sempre espressione di un potere
discrezionale della P.A.”. Così la pubblica amministrazione, anche quando agisce sulla base delle
convenzioni urbanistiche, sta comunque mediatamente esercitando il potere sul governo del
territorio.
La Corte Costituzionale quindi, in conclusione: a) condivide l’orientamento interpretativo formatosi
sull’art. 133 cit., oramai divenuto diritto vivente, in quanto in linea con l’evoluzione della giustizia
amministrativa, che sempre più spesso da giurisdizione sull’atto è divenuta giurisdizione sul
rapporto; b) rileva come nel nostro ordinamento non esistano materie “a giurisdizione frazionata”,
in cui cambia il giudice della controversia a seconda del soggetto che intraprende l’azione
giurisdizionale, ragion per cui esigenze di coerenza e di parità di trattamento impongono che
l’amministrazione debba avvalersi della concentrazione delle tutele e le si debba riconoscere la
legittimazione attiva a convenire il privato inadempiente di un accordo procedimentale; c) fa notare
come la concentrazione delle tutele e l’adeguamento agli orientamenti delle giurisdizioni superiori e
della giurisprudenza costituzionale erano criteri direttivi imposti dalla legge delega n. 69/2009,
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ragion per cui il d.lgs, n. 104/2010 (codice del processo amministrativo), se avesse esercitato
un’opzione contraria, sarebbe stato illegittimo per violazione dell’art. 76 Cost.; d) condivide, infine,
l’argomentazione della difesa erariale secondo cui, qualora si riconoscesse alla pubblica
amministrazione solo la possibilità di esercitare il potere di autotutela amministrativa,
l’accertamento giudiziale dell’inadempimento da parte del privato sarebbe condizionato
dall’instaurazione del contenzioso da parte del privato medesimo, con la conseguenza che l’oggetto
del giudizio verrebbe da lui stesso unilateralmente determinato, senza che la pubblica
amministrazione possa modificarlo o ampliarlo mediante una domanda riconvenzionale.