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G.M. Barale
(I semestre, anno accademico 2011-2012)
10/10/11 – Piano dell’opera: indagine sulla natura del mentale, critica delle concezioni
meramente strumentali del linguaggio e della tesi di una linguisticità radicale del pensabile,
alla luce di una preliminare reinterpretazione organicistico-funzionale dell’apriori kantiano
(di contro alle più diffuse letture innatistiche).
Indagheremo la natura degli eventi mentali (emozioni, percezioni, immagini…) con la
consapevolezza che avremmo potuto perdere il diritto di ritenerli tali. Ad ogni
spiegazione di tali eventi chiederemo infatti di giustificare la propria idea di un orizzonte
mentale che mente possa essere chiamato e in tal modo possa essere distinto.
Scopriremo così come la loro capacità di legittimare ipotesi di un orizzonte immateriale
(mente) e di circoscriverlo compatibilmente con la scoperta e l’ammissione di un
concomitante livello di costituzione materiale degli eventi che immateriali (mentali) ci
appaiono. Si chiarirà che una conoscenza della mente in grado di dare conto
dell’immaterialità degli eventi che considera, senza disconoscere la costituzione materiale
è incompatibile sia con quelle concezioni di un linguaggio che semplice strumento
vorrebbero indurci a considerarlo, sia con quelle concezioni che alla tesi di una radicale
linguisticità di tutto il pensabile vorrebbero ancorarci.
Le prime concezioni “strumentali” hanno il torto di pensare che un linguaggio nasca e
funzioni come un sistema di segni convenzionalmente ammessi e destinati unicamente a
consentire la trasmissione di contenuti mentali (sentimenti, pensieri, credenze…) già
disponibili e completamente elaborati secondo logiche che da qualsivoglia mediazione
linguistica sarebbero in grado di prescindere. Questo è l’effetto meno desiderabile di un
linguaggio concepito come mera comunicazione, che interverrebbe per così dire “a cose
fatte”, in presenza di contenuti mentali già disponibili e senza pertanto incidere sulla
modalità della loro acquisizione. Questa concezione riduttiva che un linguaggio quale che
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sia si troverebbe ad assolvere, è compatibile solo con un’idea della mente (da rifuggire)
quale sfera in sé conchiusa di condotte autarchiche e autoreferenziali. Ma una
concezione di questo tipo oltre a sollevare dubbi forse insuperabili circa tali condotte (il
produrre rappresentazioni veritiere di realtà che di ordine mentale non possono essere
ritenute) risulta in linea di principio incompatibile con l’idea di una costituzione materiale
degli eventi che in quel modo autoreferenziale verrebbero ad essere gestiti.
Diffideremo pertanto da quelle concezioni del linguaggio che lo riducono a mero
strumento, ma non meno diffidenti saremo nei confronti di quelle concezioni
diametralmente opposte che alla tesi di una radicale linguisticità del pensabile vorrebbero
ancorarci. L’incompatibilità di questa tesi con l’assunto di una costituzione
originariamente materiale degli eventi a cui una mente impresta condizioni sue proprie di
intelligenza, è abbastanza evidente da non ammettere commenti preliminari. Il confronto
tra le concezioni degli eventi in questione, che non hanno rinunciato a insistere su una
loro presunta matrice linguistica e quelle spiegazioni e concezioni che su una spiegazione
di tipo schiettamente materialistico hanno preferito puntare, sarà sviluppato nella
seconda parte del corso. Parleremo dei dibattiti teorici che hanno accompagnato lo
sviluppo delle scienze cognitive negli ultimi decenni e in particolare la svolta del ’79,
volendo con ciò riferirsi al libro di Paul Churchland (filosofo e neurofisiologo
americano) intitolato Scientific Realism and the Plasticity of Mind. Churchland prendeva di
mira quella spiegazione degli eventi mentali di tipo rappresental-computazionale,
concezione esposta nel 1975 da Jerry Fodor (filosofo e psicologo statunitense, allievo di
Chomsky), nel libro The Language of Thought, dove si sosteneva che ogni attività mentale
sarebbe espressione e articolazione di un linguaggio invisibile, sottinteso ai tanti
percepibili in cui possiamo cercare di articolarlo. Questo linguaggio invisibile Fodor lo
definiva “linguaggio del pensiero”, o anche “mentalese”. Le sue componenti elementari
coinciderebbero con dati di natura neurofisiologica, con vere e proprie configurazioni
del sistema nervoso centrale. Di queste configurazioni che entrerebbero in gioco ogni
qual volta siano stimolate da eventi esterni, Fodor pensava e continua a pensare che
siano potenzialmente o virtualmente significanti; più esattamente pensava che il loro
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valore fosse quello di rappresentazioni virtuali, destinate a diventare attuali e a liberare i
significati di cui sono le virtuali depositarie, ogniqualvolta sono chiamate ad assumere
quella funzione rappresentativa che può essere la loro. Questo avverrebbe secondo
operazioni di tipo puramente sintattico, calcoli logici, che costituirebbero l’essenza stessa,
l’unica essenza possibile di quella organizzazione funzionale del cervello che chiamiamo
mente.
Queste tesi divennero popolari; il successo del modello rappresental-computazionale fu
dovuto alla sua capacità (filosofica più che scientifica) di corrispondere alle attese (ai
gusti) di un vasto gruppo di filosofi consapevoli di non poter disconoscere le matrici
neurofisiologiche che eventi che mentali tuttavia non volevano rinunciare a considerare,
in un orizzonte che come tali, cioè come forme d’intelligenza ci consenta di apprezzarli;
di un pubblico ancora oggi si tratta, sensibile alla lezione dell’ultimo Wittgenstein ed
anche alle suggestioni delle ontologie di indirizzo ermeneutico, cioè ad orientamenti
accomunati dalla convinzione che le questioni più propriamente filosofiche, quando cioè
si chiede che cosa in ultima istanza sia ciò che in forma molteplice ci appare, siano
riconducibili a questioni di ordine linguistico, posto che “quell’essere che può essere per
noi, non sarebbe in ultima istanza pensabile se non come linguaggio”. L’idea fodoriana
di un linguaggio invisibile, sottinteso ai tanti percepibili in cui potremmo tentare di
articolarlo, sembrava andare incontro a questa tradizione di pensiero, largamente
dominante e poteva contare inoltre sull’importante sostegno di una teoria con essa
compatibile esposta qualche anno prima, esattamente nel 1966, da un linguista molto
autorevole, Noam Chomsky, nel più celebre dei suoi lavori, l’aureo libretto Cartesian
Linguistics.
Gli argomenti usati da Churchland nel ’79 contribuirono non poco a minare
l’attendibilità del modello di spiegazione degli eventi mentali che a originarie matrici
linguistiche del nostro rappresentare (mentale = rappresentare) le riduceva. Il nuovo
modello a cui Churchland apre la strada, un modello fondato sull’idea di reti e circuiti
neurali nei cui confini ogni nostra condotta maturerebbe e si manterrebbe, un modello
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esplicativo generalmente caratterizzato come biomeccanico o connessionistico, è una
spiegazione squisitamente materialistica. Sui suoi meriti e sui suoi limiti arriveremo a
riflettere al termine di un percorso che prenderà le mosse da lontano, da premesse
antecedenti ai dibattiti attuali, che i loro protagonisti perlopiù ignorano, ma destinati a
sorprenderci per la loro pertinenza e chiaroveggenza. Ripartiremo infatti da Kant e più
esattamente da una reinterpretazione della sua teoria della conoscenza e in essa dalla sua
dottrina dell’apriori che risulterà alternativa rispetto alle immagini della sua filosofia
ancora oggi dominanti. Mostreremo in particolare quanto poco rispondente alle
intenzioni di Kant sia quel modo di concepire quanto di apriorico ci ha chiesto di
riconoscere nei processi formazione delle nostre conoscenze, che assume l’apriorità
quale sinonimo di innatezza e che alle forme inevitabilmente aprioriche di ogni nostro
sentire, intendere e ragionare, conseguentemente guarda come a una struttura in grado di
coincidere una volta per tutte con una configurazione naturale della nostra mente e di
stabilire in maniera altrettanto univoca lo statuto epistemologico di quegli eventi mentali.
Barale contrasta la concezione dominante del criticismo kantiano, mosso dalla
consapevolezza che aderirvi significa non soltanto tradire le intenzioni più profonde del
criticismo, ma anche, vanificandone l’eredità teorica, relegarlo nel circuito chiuso di un
passato irrecuperabile. Nessuno degli indirizzi di ricerca più attuali potrebbe infatti avere
interesse a fare i conti con una filosofia convinta che la mente umana possa essere
identificata una volta per tutte con un sistema di forme cosiddette pure, ovvero con un
dispositivo di ordine logico in linea di principio indipendente non solo dalle esperienze
che rende possibili, ma anche dalla complessiva maniera d’essere dell’ente chiamato a
gestirlo, dalle sue configurazioni corporee, dalla sua condizione storica, dai suoi bisogni e
dalle sue aspirazioni. Barale mostrerà che le cose non stanno così, che dalle pregiudiziali
innatiste che non erano solo quelle del razionalismo cartesiano, ma anche quelle delle
metafisiche premoderne, da cui il criticismo kantiano ha certamente preso le mosse, ma
con un intento opposto a quello che le correnti odierne di questo pensiero gli
attribuiscono, e con esiti tali da giustificare una concezione che nella mente riconosce
non più, come pensava Rorty, un immobile specchio di realtà ad esse estranea, ma un
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potere di organizzazione (sintesi) funzionale organicamente (ipotesi organicistico-
funzionale), alla maniera d’essere dell’ente chiamato ad esercitarlo. Se riusciamo a
restituirgli una concezione del mentale all’altezza dei suoi propositi, degli obbiettivi che il
suo criticismo si era proposto di raggiungere, avremmo posto le premesse per scoprire
quale interlocutore prezioso possa ancora essere nell’odierno dibattito su questi
argomenti.
12/10/11 – Denuncia della «[…] più devastante e fuorviante di tutte le accuse che a
Kant sono state mosse[…]», frutto di una lettura “scolastica” della Ragion Pura
(concepita alla stregua di un meccanismo isolabile dal proprio contesto operativo).
Proponimento di una rilettura “cosmica” della filosofia kantiana e della concomitante
riscoperta della natura essenzialmente organica della ragione, nonché del suo rapporto
essenzialmente linguistico con la realtà ambientale di cui risulta partecipe.
La rilettura che Barale farà del criticismo kantiano, sarà alternativa perché disposta a
riconoscere in essa una nozione di esperienza decisamente più complessa di quanto
generalmente attribuitogli: ossia una teoria della conoscenza meno vincolata ai poteri di
una determinata struttura categoriale e una dottrina dell’apriori in grado di proiettarci
oltre ogni pregiudiziale innatista. Il modello di spiegazione degli eventi mentali
potremmo ricavarlo solo liberando la teoria kantiana dell’esperienza e la connessa
dottrina della conoscenza, da equivoci e pregiudizi che ne prendono il posto e che
inevitabilmente sorgono quando le singole dottrine che possono suscitarli vengono
riprese al di fuori della prospettiva sistematica che lo stesso Kant ci ha chiesto di
approntare.
Barale vuole andare oltre, prendendo di mira una tesi che come poche ha contribuito ieri
come oggi a promuovere un’immagine distorta della filosofia kantiana e più direttamente
del modo kantiano di concepire l’insieme dei poteri che Kant assume sotto il titolo di
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ragion pura. La convinzione che nell’ottica kantiana una ragione non per nulla definita
pura, sia destinata a coincidere con un dispositivo formale in linea di principio
indipendente, non solo dall’esperienza che rende possibile ma anche dalla complessiva
maniera d’essere dell’ente che ne dispone, dalla sua costituzione corporea, dalla sua
condizione storica, dai suoi bisogni e dalle sue aspirazioni. Questa maniera di rileggere
Kant ha trovato un decisivo sostegno nella convinzione che Kant abbia ritenuto
irrilevante rispetto ai percorsi della loro costituzione logica, la veste linguistica che i
nostri pensieri sono destinati ad assumere; obbligandosi in tal modo (povero, ingenuo
Kant !) ad ignorare la funzione che nel processo di formazione delle nostre conoscenze,
può e deve essere riconosciuta ai linguaggi in cui le formuliamo e comunichiamo.
Se la dottrina kantiana dell’apriori non lasciasse spazio ad alcun riconoscimento della
funzione che nel processo di formazione delle conoscenze deve essere riconosciuta ai
linguaggi, diventerebbe impossibile sostenere che quel potere di organizzazione (di
sintesi) che l’apriori kantianamente inteso ha la pretesa di rendere intelligibile, non
dipenda unicamente da determinate disposizioni logiche, ma abbia un legame organico
con la maniera d’essere complessiva dell’ente che di quel poter dispone. Posto che di una
maniera d’essere si tratta che come vedremo, organica non potrebbe essere ritenuta se
non riconoscendo la duplice dimensione, naturale e storica, del progetto che caratterizza
e posto che, come anche vedremo, a una natura e a una storia non potremmo ritenerla
organicamente collegata se non per mezzo di linguaggi dall’una e dall’altra definibili. La
tesi che Barale intende debellare ha una lunga storia e accompagna la ricezione del
criticismo kantiano sin dagli anni successivi alla pubblicazione della prima critica.
Autorevoli commentatori sostennero che una mente costruita come la ragion pura
sarebbe costretta a produrre ogni forma d’intelligenza possibile in una dimensione
prelinguistica da cui resterebbe pertanto escluso ogni rapporto di complicità con quei
linguaggi che pure si rivelano in grado di oggettivarla e comunicarla. Questa tesi fu
sostenuta per la prima volta da uno dei padri spirituali del primo romanticismo tedesco,
Johann Georg Hamann, in un saggio del 1784 (Metakritik über den Purismus der Reinen
Vernunft), anche se pubblicato solo nel 1800 un anno dopo la pubblicazione di un libro
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di Johann Gottfried von Herder (Verstand und Erfahrung. Metakritik zur Kritik der reinen
Vernunft), che ribadì la tesi di Hamann a lui nota per averla con lui dibattuta quindici anni
prima.
La lettura di questi due scritti non lascia dubbi circa l’interpretazione dell’opera kantiana
su cui il loro assunto polemico si reggeva e su cui avrebbe continuato a reggersi ogni
successiva ripresa della più devastante e fuorviante tra tutte le accuse che a Kant sono
state mosse: quella di aver fatto coincidere la mente umana con una struttura
prelinguistica dalla quale senza neppure saperlo tutte le nostre condotte dipenderebbero
(teoriche e pratiche) e al cui meccanico operare ogni forma di intelligenza per noi
possibile dovrebbe essere imputata. Un’accusa come questa si regge su tre presupposti:
1) una nozione di ragion pura che con una struttura in grado di assumere in sé,
adempiendovi per virtù propria, in ragione unicamente della propria formale
costituzione, ogni funzione attribuibile ad una mente umana;
2) la convinzione che nulla più che una semplice descrizione di una tale struttura la
sua presunta critica abbia saputo darci, una descrizione ottenuta scomponendola
in sue presunte componenti elementari (“dottrina degli elementi”) e a partire da
queste ricomponendola (metodo analitico: “analitica dei concetti”) come
potremmo fare con gli ingranaggi di un meccanismo;
3) la convinzione infine che in questo modo appunto, al modo di un meccanismo
come tale isolabile dal contesto in cui dovrebbe operare, piuttosto che di un
organismo in esso coinvolto, la struttura in questione sia stata concepita e
realizzata.
Solo ammettendo questi tre presupposti e supponendo che nei confini da essi stabiliti
l’impresa di Kant si sia costantemente mantenuta, nei confini di una concezione della
ragione quale struttura e di una sua presentazione che al modo di un meccanismo,
anziché di un organismo, obbligherebbe a concepirla; solo ammettendo questo diventa
non solo possibile ma anche inevitabile che il suo esito sia stato una concezione della
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mente ignara di quel suo e nostro legame col mondo, che proprio l’uso di linguaggi ad
esso riferibile rende manifesto. Sarà dunque proposito di Barale mostrarci che nessuno
dei tre presupposti su cui tale accusa si regge è in grado di resistere ad una rilettura
dell’opera kantiana che eviti di spezzarla in tanti capitoli separabili l’uno dall’altro.
Supponendo che una rappresentazione veritiera dell’impresa kantiana, degli obbiettivi
che ha perseguito e delle acquisizioni cui è pervenuto, possa emergere da una semplice
sommatoria di quei diversi capitoli, ciascuno dei quali verrebbe inevitabilmente a
coincidere con l’esposizione di una particolare dottrina. Questo modo di rileggere la sua
impresa critica che ne sottolinea gli aspetti dottrinali e che il nucleo portante della sua
opera (pars costruens) di fatto risolve nell’esposizione congiunta di due dottrine, con le
quali avrebbe preteso di stabilire una volta per tutte quali siano le forme del nostro
sentire e quali quelle del nostro intendere; questo modo di rileggere è dallo stesso Kant
definito “scolastico”1, contestualmente A 838 – B 866, in una pagina di quel capitolo
terzo della dottrina trascendentale del metodo (l’ “Architettonica”) che lo vede
impegnato in una sorta di bilancio della propria impresa critica, ed opposto ad una
lettura non scolastica ma “cosmica” o “cosmopolitica”2. Barale contribuirà ad una
rilettura cosmica della filosofia kantiana: ad una tale rilettura concorrerà la scoperta della
funzione decisiva che a dispetto di ogni apparenza, Kant ha saputo riconoscere al nostro
legame essenzialmente linguistico con le realtà di cui siamo partecipi. A questa riscoperta
perverremo sfruttando al meglio alcuni testi:
1) capitolo sullo “schematismo trascendentale”;
2) § 59 della Critica del Giudizio;
3) §§ 38 e 39 dell’Antropologia Pragmatica.
1 «[…]cioè il concetto di un sistema della conoscenza, che è cercata solo come scienza, facendo astrazione da qualsiasi scopo che non sia quello dell’unità sistematica del sapere, quindi della perfezione logica della conoscenza» (A 838 – B 866, trad. it. P. Chiodi). 2 «Sotto questo profilo, la filosofia è la scienza della relazione di ogni conoscenza ai fini essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae), e il filosofo non è un artista della ragione, ma il legislatore della ragione umana. In questo caso sarebbe vanagloria qualificarsi da se filosofo, pretendendo di aver raggiunto il modello che sta solo nell’idea» (A 839 – B 867).
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17/10/11 – Riconsiderazione kantiana della distinzione operata dalla tradizione logica
(Wolff, Meier) tra Urteile e Sätze, nell’ottica più generale della messa in luce, da parte di
Barale, della funzione non meramente strumentale, bensì teorico-trascendentale, che il
linguaggio si troverebbe ad espletare nel processo inevitabilmente logico-linguistico di
formazione delle nostre conoscenze.
Ci proponiamo di mostrare che la kantiana critica di una ragione nondimeno definita
pura lascia spazio al riconoscimento di una funzione teorica e non puramente
strumentale dei linguaggi in cui ci esprimiamo. In altre parole vogliamo mostrare che i
linguaggi in cui ci esprimiamo non sono concepiti da Kant quali semplici strumenti di
comunicazione di contenuti mentali già disponibili e compiutamente elaborati secondo
logiche che da qualsivoglia mediazione linguistica potrebbero pretendersi indipendenti;
ma che al contrario, proprio la ricerca kantiana di condizioni aprioriche del loro prodursi,
che di ordine non unicamente formale ma trascendentale possano essere ritenute, ha
saputo chiarire come di un loro modo essenzialmente linguistico di rapportarsi ai dati di
un'esperienza per noi possibile, i nostri supposti contenuti mentali, i sentimenti e i
concetti che comunichiamo, già abbiano tenuto conto nel processo della loro
formazione.
La posta in gioco è una concezione della mente che non cessi di riconoscervi un
orizzonte immateriale delle nostre esperienze da ogni altro distinguibile, senza tuttavia
esporci al rischio di derive dualistiche, inevitabile se l'orizzonte in questione non fosse in
altro modo pensabile se non come una sfera in se conclusa di condotte autarchiche e di
presidi formali ad esse preposti. La tesi secondo cui Kant sarebbe rimasto prigioniero di
una concezione del linguaggio quale semplice strumento di comunicazione, così come la
tesi ad essa solidale, che la comunicazione sia successiva ad ogni processo di produzione
di contenuti mentali, è talmente radicata nelle interpretazioni correnti della sua filosofia,
da non ritenere inutile una prima sventagliata di citazioni, poiché l'assunto che ci
chiedono di esplorare e far valere è proprio quello opposto di un legame indissolubile tra
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pensiero e linguaggio. Particolarmente eloquenti risultano in questo senso i passi in cui
Kant dichiara: (A) inaccettabile il senso che i logici del suo tempo attribuivano alla loro
distinzione tra giudizi e proposizioni, (B) pertinente e teoricamente feconda l'analogia tra
logica e grammatica e (C) falso quel modello di spiegazione delle nostre conoscenze –
del loro modo di prodursi e del tipo di verità a cui possono ambire – che non è
improprio definire “ottico”, poiché il loro status di rappresentazioni equipara a quello di
immagini riferibili immediatamente agli oggetti che rappresenta.
Veniamo ora a trattare il primo di questi punti: la distinzione tra giudizi (“Urteile”) e
proposizioni (“Sätze”) – quale era stata teorizzata ad esempio da Christian Wolff nei §§
41-42 della sua Philosophia rationalis sive logica (1728), oppure anche nel § 462 del
compendio di logica Auszug aus der Vernunftlehre di Georf Friedrich Meier, manuale
utilizzato dallo stesso Kant – si basava sulla presunzione che una proposizione o
enunciato nella quale si appresta a essere espresso quel nucleo originario e portante di
ogni conoscenza per noi possibile, che giudizio veniva chiamato, sia in ogni circostanza il
risultato di operazioni che null'altro presuppongono se non l'agire silenzioso di un
dispositivo di ordine logico, costruito in modo da garantire rappresentazioni unitarie
delle informazioni che consentono l'identificazione di un tale meccanismo con la realtà
immateriale di una mente: ciò sembrava ai logici del '700 tedesco una ulteriore garanzia
della natura prelinguistica delle operazioni che promuoverebbe. Solo supponendo che al
silenzioso e meccanico operare di una mente così concepita la loro formazione possa
essere interamente imputata, i logici del '700 tedesco avevano potuto pensare che quelle
forme primarie di conoscenza che chiamiamo giudizi fossero qualcosa di originariamente
diverso dagli enunciati linguistici (Sätze) in cui li formuliamo. A questo modo di pensare
dominante nella cultura del suo tempo Kant si ribella apertamente, là dove scrive:
«i logici non fanno affatto bene a definire una proposizione (Satz) come un giudizio
espresso con parole. Infatti anche per giudizi che non facciamo valere come proposizioni
dobbiamo servirci nei pensieri delle parole» (Sulla scoperta secondo la quale ogni nuova critica
può essere resa superflua da una più nuova, contro Eberhard ,1790, p. 68).
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Così Kant, nel medesimo contesto, dopo aver affermato con inequivocabile chiarezza
che tutti i giudizi, vengano o meno pronunciati, comportano un uso di segni linguistici
con i quali ci riferiamo a qualcos'altro, chiarisce anche cosa intende per giudizi che non
facciamo valere come proposizioni. Non intende riferirsi a giudizi per la cui
formulazione non sarebbe richiesta alcuna mediazione linguistica, ma a giudizi formulati
in modo da non comportare alcuna asserzione che vera o falsa possa pretendersi,
laddove lo status di proposizione viene negato ad entrambi gli enunciati che concorrono
a formare il giudizio ipotetico “se un corpo è semplice allora è inalterabile”. Un
enunciato come questo consta di una relazione tra due giudizi nessuno dei quali è una
proposizione, perché l'esistenza di corpi semplici nel primo, così come quella di corpi
inalterabili non sono affermate ma sono ammesse in via di ipotesi. Proposizione nel
nuovo senso che sta assumendo, è soltanto il conseguire del secondo dal primo e dunque
solo la relazione tra i due giudizi in quel modo formulati. Essa soltanto è un'asserzione
che vera o falsa si presta ad essere considerata. Kant ha imparato a distinguere da altri,
giudizi che affermando qualcosa di qualche cosa avanzano una pretesa di verità. Di
questi soltanto pensa che meritino il nome di proposizioni. Ma la distinzione che in
questo modo inaugura non ha più nulla a che vedere con qualsivoglia separazione tra
dimensione linguistica e dimensione logico-intellettuale o mentale dei giudizi che
considera. La consapevolezza che una separazione di questo tipo è inaccettabile e va
respinta, perché comporterebbe una decontestualizzazione dei nostri percorsi logici
incompatibile con ogni serio tentativo di dare conto delle loro valenze ontologiche, cioè
della loro capacità di produrre rappresentazioni veritiere di realtà che stanno
presupponendo, è per Kant un dato acquisito fin dagli anni in cui il tema di una
legittimazione ontologica dei nostri procedimenti logici era diventato per lui la questione
filosofica per eccellenza; la questione che la sua critica di quella struttura portante delle
nostre esperienze, che ragion pura ha scelto di definire, si stava ponendo nei termini e al
livello di una logica che si pretendeva non più semplicemente generale e formale, ma
trascendentale. Nella Logik Pölitz leggiamo
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«i logici definiscono una proposizione (Satz) iudicium verbis prolatum giudizio esposto in
parole, il che però è falso: noi potremmo affatto giudicare se non avessimo parole»
(Band XXIV p. 580).
Affermazioni analoghe le troviamo in un altro corso di logica dei primi anni '80 noto
come Wiener Logik (Band XXIV p.934). L'inseparabilità di logica e linguaggio – e più
esattamente l'incompatibilità con l'idea stessa di una loro possibile legittimazione
trascendentale di ogni considerazione delle nostre procedure logiche che non sappia
riconoscervi un qualche livello di formalizzazione dei linguaggi attraverso i quali
comunichiamo – pone il problema dei diversi livelli di formalità che è necessario
ammettere ed esplorare affinché la nostra descrizione di questo complesso orizzonte
apriorico delle nostre esperienze, di quel loro orizzonte che logico-linguistico merita di
essere nel suo complesso definito, possa ritenersi sufficientemente indicativo. Questa
domanda tocca il secondo dei tre temi da cui abbiamo scelto di lasciarci guidare: il tema
dell'analogia che Kant ha stabilito e costantemente mantenuto, tra logica e grammatica.
Scopriremo come questa analogia ampiamente documentata si sviluppi in realtà su due
livelli distinti: a un primo livello si fa valere l'idea di un parallelismo tra quella logica che
veniva detta generale e le grammatiche delle diverse lingue naturali; a un secondo e più
impegnativo livello si fa balenare l'idea di una prospettiva unificante in grado di stabilire
non una semplice analogia ma un nesso indissolubile, che non riguarda, né potrebbe
riguardare, le regole che consentono un esercizio coerente del pensiero, e quelle, diverse
già tra loro, che possono assicurare l'uso coerente dell'uno o dell'altro di linguaggi
naturali anch'essi tra loro inevitabilmente diversi, ma le modalità in cui all'uno e agli altri
è consentito di riferirsi a forme di esistenza che stanno presupponendo.
24/10/11 – Sul rapporto tra una presunta “Allgemaine Grammatik” ed una presunta
logica generale.
Col primo dei tre temi abbiamo visto come Kant abbia preso le distanze dalla distinzione
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tra “urteile” e “sätze”. Aveva scritto Wolff nel § 42 della sua Philosophia Rationalis sive
Logica del 1728: «iudicium est actus mentis, propositiones non sunt nisi combinationem
terminorum». Come molte altre dottrine wolffiane anche questa separazione tra giudizi e
proposizioni riprendeva e codificava una distinzione, una maniera di pensare corrente,
destinata a fare scuola. Kant l’avrebbe ritrovata nel manuale di cui si serviva per i suoi
corsi di logica (l’Auszug aus der Vernunftlehre di Maier) dove nel § 462 si legge che «un
giudizio che è espresso in parole si dice proposizione [propositio enunciatio]». La replica
di Kant è netta: «sbagliano i logici a definire una proposizione un giudizio espresso in
parole [iudicium verbis prolatum], poiché senza parole non potremmo giudicare affatto»
(Logik Pölitz, v. supra).
Affermazioni come questa, ripresa da un corso di logica dei primi anni ’80 (la Logik Pölitz
appunto) si ritrovano anche nella Wiener Logik, in cui l’antica distinzione tra giudizi e
proposizioni viene riformulata in modo da riservare la qualifica di proposizioni a quelli
tra tutti i giudizi possibili (le asserzioni) con cui diciamo qualche cosa di qualche cosa e
che non possono pertanto essere pronunciati senza avanzare una qualche pretesa di
verità. Come già Aristotele e d’accordo con una lunga tradizione che nella apofantica
aristotelica aveva riconosciuto il nucleo portante dell’unica logica che generale potesse
pretendersi, Kant è convinto che giudizi di questo tipo, asserzioni o proposizioni, cioè
pronunciamenti circa uno stato di cose, siano alla base di tutti gli altri, ma non vuole
ignorare il fatto che non tutti sono ad essi formalmente riducibili. Fa l’esempio
illuminante dei giudizi ipotetici (se x allora y) e introduce una distinzione di cui Barale ci
diceva come sia presente e reperibile anche nelle semantiche formali odierne, ma a
proposito della quale merita di sottolineare soprattutto quanto importante sia per
arrivare a distinguere anche nei termini d’una logica generale, come quella a cui Kant si
richiamava e di cui era prigioniero, l’uso della facoltà che chiama Intelletto, con ciò
intendendo una forma d’intelligenza rappresentativa disponibile solo a giudizi di tipo
categorico, cioè ad asserzioni o proposizioni, dall’uso di quella ulteriore facoltà che
Ragione in stricto sensu definiva e che idonea unicamente a giudizi di tipo ipotetico o
disgiuntivo ha dovuto riconoscere.
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In ogni caso il nuovo modo di legittimare una distinzione tra giudizi e proposizioni si è
ormai lasciato alle spalle il pregiudizio che giudizi meritino di essere definiti atti che
dovremmo ammettere di natura esclusivamente mentale e proposizioni, quelle loro
traduzioni verbali che interverrebbero solo in un secondo tempo e solo quali strumenti
di una comunicazione non richiesta dal processo della loro formazione. Scopriamo un
Kant non più disposto a considerare il linguaggio quale strumento di una comunicazione
subalterna al processo di formazione dei nostri pensieri (scopriremo che il linguaggio
entrerà a far parte dello stesso processo di formazione dei nostri pensieri), se è vero
come è vero che nel § 22 dei Prolegomeni scrive: «pensare è parlare con se stessi»3. Poiché
la consapevolezza kantiana dell’inseparabilità di pensiero e linguaggio è in questi termini
stabilita già in testi contemporanei alla redazione della prima critica, e dunque alle prime
formulazioni critiche di un progetto di filosofia trascendentale, Barale ha avanzato
l’ipotesi che il rifiuto di ogni cesura tra le condotte logiche che ci consentono di pensare
e le condotte linguistiche che ci consentono di comunicare quanto stiamo pensando, sia
interpretabile quale riconoscimento che solo procedure logiche nelle quali sia possibile
riconoscere un qualche livello di formalizzazione dei linguaggi attraverso i quali
comunichiamo, si prestano a un tentativo di legittimazione del loro valore ontologico che
di ordine propriamente trascendentale possa pretendersi. Un’ipotesi come questa, se
verificata, comporterebbe una vera e propria rivoluzione nel modo corrente di intendere
il programma filosofico di Kant, perché in altro modo non potremmo tentare di
verificarle se non riflettendo sul significato del tutto inedito che la parola “esperienza” è
destinata ad assumere nella prospettiva di una logica che ha ritenuto di potersi definire
trascendentale, cioè in grado di rendere riconoscibili in determinate modalità di esercizio
delle nostre capacità logiche, modalità di esperienza che quali condizioni di possibilità di
ciò che un’esperienza in quanto tale non può non essere per noi, si presterebbero ad
essere interpretate.
3 A ben vedere il § 22 dei Prolegomeni sostiene qualcosa di diverso, ossia «Denken aber ist:
Vorstellungen in einem Bewußtsein vereinigen», che non a caso P. Carabellese traduce «Ma pensare è: unire delle rappresentazioni in una coscienza». La citazione di Barale si trova nel § 39 dell’Antropologia Pragmatica.
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Limitiamoci ad assumere per ora il dato innegabile che la tesi di un nesso essenziale tra
logica e linguaggio è maturata in Kant contemporaneamente alla logica trascendentale
(dato filologicamente innegabile: contro Herder…). I sottintesi di questo potranno forse
cominciare a chiarirsi quando avremo sviluppato il secondo dei nostri tre temi, il tema
dell’analogia tra logica e grammatica, e dei diversi livelli di formalità, di formalizzabilità
dell’una e dell’altra, che Kant ritiene necessario ammettere e che ci obbliga a fare,
affinché una tale analogia possa essere mantenuta e sviluppata. Partiamo da due citazioni
apparentemente opposte e che segnano in realtà i confini entro i quali l’analogia tra
logica e linguaggio dovrà riuscire a mantenersi per risultare compatibile con la
concezione kantiana dei saperi per noi possibili.
1) «I grammatici sono stati i primi logici» (appunto degli anni ’80, Reflexionem 1620);
2) «La grammatica è solo una disciplina, la logica una scienza» (Logica Busolt, degli
stessi anni).
Per stabilire le regole di una grammatica, siamo obbligati a “consultare l’esperienza”
mentre le regole della logica si prestano ad essere stabilite in via apriorica a livello di un
sapere che da qualsivoglia esperienza sembra in grado di prescindere, perché per
ottenerle, per averne un quadro completo, è sufficiente “consultare” quella nostra facoltà
sempre identica a se stessa che chiamiamo intelletto. Domanda: come si spiega che a
dispetto della empirica molteplicità e storica mutevolezza delle lingue, alle cui regole
facevano riferimento, i grammatici si siano trovati a fare da battistrada ai logici? Una
prima risposta si può ricavare da appunti e testi in cui Kant sottolinea: a) il carattere
formale delle indagini che i grammatici hanno saputo promuovere e b) la loro presunta
capacità di convogliare nella direzione unitaria indicata dal modello non meramente
empirico di una supposta grammatica generale o universale (“Allgemaine”: Kant allude
con ciò a un tipo di universalità del dato empirico; può valere come condizione di
universalità per l’ordine empirico).
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Proprio perché la grammatica è una disciplina formale, leggiamo in un appunto degli
anni ’80 (Reflexionem 1628) che «per mezzo della sola grammatica non s’impara alcuna
lingua» e d’altra parte leggiamo in un corso di logica degli stessi anni che «i grammatici
non hanno alcun interesse a insegnarci una lingua quale che sia, perché mirano piuttosto
a sviluppare una “Allgemaine Grammatik”», a proposito della quale si precisa che
«contiene non parole, non una moltitudine di vocaboli, ma solo la forma del linguaggio».
Una forma (N.B.) di cui si ritiene possibile parlare al singolare sul presupposto che di
quella tra le molte possibili possa trattarsi che ogni linguaggio indipendentemente dalla
forma che è andato storicamente assumendo, sarebbe tenuto ad assumere per potersi
pretendere compiutamente sviluppato. Il presupposto che Kant sta facendo valere è
quello di una grammatica che generale o universale meriterebbe di essere considerata,
perché ricca e articolata al punto da poter essere ritenuta compiuta e perfetta, e come tale
comprensiva di ogni altra possibile, perché in grado di corrispondere pienamente alle
necessità formali di un pensiero non altrimenti esercitabile se non in forma di giudizi e
dunque a partire da una condizione che per qualunque pensiero, comunque formulato,
deve essere ritenuta la sua disponibilità a stabilire qualche cosa di qualche cosa.
È evidente che l’idea di una grammatica generale è strettamente connessa a quella di una
logica che generale a sua volta possa essere considerata e di fatto la presuppone. Una
grammatica non potrebbe essere ritenuta perfetta rispetto a un parametro che altro non
potrebbe essere se non quello delle necessità formali dell’umano pensiero, se non
ammettendo che necessità di questo tipo siano una volta per tutte determinabili.
Presupposto che oggi ci ripugna ma che Kant non rifiutò come dimostrano le pretese di
completezza che accompagnano nel § 9 della prima critica quella tavola dei giudizi, da cui
fa discendere nel § 10 una corrispondente tavola delle categorie. Il quadro dei pregiudizi
entro il quale è maturata l’idea di una grammatica generale analoga e parallela a quella
logica che generale a sua volta meriterebbe di essere considerata, non sarebbe completo
se non ribadissimo quanto dobbiamo ritenere sottinteso, nella convinzione kantiana, che
a dispetto della subalternità della loro disciplina i grammatici abbiano aperto la strada ai
logici e non viceversa. Questa convinzione sottintende la tesi che non solo i logici
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abbiano preso esempio dagli sforzi dei grammatici di far emergere dalle diverse lingue
naturali regimi disciplinari in grado di rappresentare la forma di qualcuno, ma anche che
in un caso almeno siano riusciti a offrirci (i grammatici) l’esempio di una grammatica
tanto generale da poter essere assunta quale modello di ogni altra e da giustificare
pertanto che una grammatica omnicomprensiva e perfetta possa pretendersi. È la tesi
apertamente sostenuta negli appunti di un corso dedicato all’ipotesi di un’enciclopedia
filosofica (volume XXV dell’edizione completa delle opere di Kant):
Così come si ha una grammatica generale delle lingue si cerca di escogitarne anche una per il pensiero, che
dovrebbe contenere certe leggi generali del pensiero. Una grammatica generale contiene regole generali delle
lingue senza considerare ciò che è particolare in esse, per esempio le parole. La grammatica latina si adatta a tutte
le lingue perché è quella elaborata nel modo migliore. Poiché la forma del linguaggio e la forma del pensiero
sono parallele e simili [analoghe] l’una all’altra, dato che noi pensiamo con parole e comunichiamo il nostro
pensiero ad altri per mezzo del linguaggio, allora c’è anche una grammatica del pensiero.
Il quadro tracciato è ricco di ombre (pregiudizi per noi inaccettabili) e luci (indicazioni
che sarebbe lasciato far cadere).
26/10/11 – Alcuni limiti impliciti al parallelismo kantiano tra grammatica e logica
generale, nonché il riconoscimento della funzione prettamente apriorico-trascendentale svolta
dal linguaggio nella costituzione di un’esperienza “überhaupt”, sulla base dell’ipotesi
kantiana di una vera e propria “grammatica trascendentale”, concepita come articolazione
interna della logica trascendentale e derivabile mediante semplice scomposizione dalla tavola
delle categorie (le quali risulterebbero pertanto dotate di un pregiudizievole contenuto
rappresentativo).
Il parallelismo tra una grammatica generale, il cui modello è la grammatica latina, e una
logica generale, il cui modello resta l’apofantica di Aristotele, si regge su almeno 4 assunti
incompatibili con le conclusioni a cui sono pervenute le discipline logiche e linguistiche
odierne. Improponibili sono per noi: 1) l’assunto di una grammatica delle lingue naturali
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che generale o perfetta (perfetta perché generale) possa essere ritenuta; 2) l’assunto che la
garanzia della sua perfezione possa essere trovato in una non meno perfetta logica del
pensiero in generale e in quanto tale, alla quale perfettamente corrisponderebbe; 3)
l’assunto che il modello di una grammatica perfetta (perché in grado di offrire un
equivalente linguistico a ogni possibile necessità formale non altrimenti se non in forma
di giudizi esercitabile) possa essere riconosciuta nella struttura di una lingua come quella
latina caduta in disuso; 4) l’assunto che in un dato storico addirittura precedente, quale
l’apofantica di Aristotele, sia possibile riconoscere quella necessità una volta per tutte e
non più sul terreno empirico di una disciplina che si limiterebbe a metterle a regime, ma
su quello apriorico che dalla natura di un pensiero non altrimenti esercitabile la farebbe
discendere.
Sono assunti per noi inaccettabili, ma sarebbe sbagliato rifiutarli senza contestualmente
chiedersi se per uno di quei paradossi che si rivelano spesso decisivi nei percorsi quasi
mai lineari delle nostre acquisizioni teoriche, non meno che delle nostre conquiste
sociali, anche in questo caso, convinzioni errate non abbiano finito per favorire scoperte
importanti. L’esempio più importante è quello di Cristoforo Colombo che ha costretto
tutti ad abbandonare le vecchie mappe che un pregiudizio stantio alimentava. Un altro
esempio potrebbe offrircelo Kant stesso, quando si riflettesse sul modo paradossale in
cui la sua logica trascendentale ha saputo avvalersi di quel mito di una logica generale a
cui si è inizialmente appoggiata. Se n’è avvalsa per porre in termini compatibili con
orizzonti e parametri della cultura logica del tempo, di un tempo che era anche il suo,
una questione di legittimità e validità a proposito della quale ha finito per mostrarci come
non possa trovare sviluppi coerenti e risposte pertinenti se non quando dall’orizzonte
iniziale di una presunta logica generale si impari ad uscire.
L’ipotesi di Barale è che qualcosa di simile sia accaduto anche nel caso del mito parallelo
di una grammatica generale. Dobbiamo chiederci se la funzione non meramente
strumentale che Kant ha riconosciuto ai linguaggi attraverso i quali comunichiamo, la
funzione che dovremmo essere in grado di riconoscere loro nel processo di formazione
19
delle nostre conoscenze, non obblighi a dar conto di una costituzione non meramente
empirica (ma apriorica) del potere che il suo esercizio comporta a proposito di
quell’apriori linguistico che dovremmo riconoscere in essa incorporato; una questione di
legittimità e validità analoga e contestuale a quella che riguarda i dispositivi logici con cui
coopera. È una questione infatti che non potrebbe riguardare gli uni (quei dispositivi
logici che apriorici fossimo obbligati a riconoscere) senza riguardare l’altro, quel loro
modo di operare che non meno apriorico ed essenzialmente linguistico dovessimo
ammettere; ed è una questione che trascendentale nell’accezione kantiana del termine
merita di essere detta, quando la legittimazione a cui mira, venga cercata non in un
qualche fondamento trascendente dell’esperienza che i dispositivi in questione
consentono, ma nel significato che si prestano ad assumere quando come condizioni di
possibilità di un’esperienza “überhaupt” (cioè, di ciò che un’esperienza non potrebbe
non essere per noi) si arrivi a interrogarli e interpretarli. Quella che Barale ci propone è
un’ipotesi complessa la cui corretta formulazione esige tre passaggi successivi:
A) l’identificazione nel processo di formazione delle nostre conoscenze di una
funzione che linguistica e al tempo stesso apriorica debba essere riconosciuta
(linguistica nel senso di espletabile solo mediante l’uso di un linguaggio e apriorica
nel senso di originariamente costitutiva delle possibilità di cui un linguaggio quale
che sia si troverebbe ad essere interprete).
B) L’identificazione di dispositivi (possiamo ipotizzare una determinata tipologia di
regole) di cui sia lecito pensare che siano in grado di assolverla e che di ordine
linguistico nel senso appena indicato si configurino.
C) Un modo di porre la questione della loro ontologica validità che funzionale a una
loro legittimazione di ordine trascendentale e dunque tale da consentire di
riconoscere nei dispositivi linguistici in questione, così come in tutti i dispositivi di
ordine logico con cui cooperano, una condizione destinata a far sì che le
esperienze grazie ad essi possibili godano delle caratteristiche statutarie che
un’esperienza tale che sia, ogni esperienza per noi, possibile deve poter avere.
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Affrontiamo uno per volta questi tre passaggi, il primo dei quali ci chiede di identificare
nel processo formativo delle nostre conoscenze una funzione che linguistica (espletabile
solo mediante l’uso di un linguaggio) e apriorica (nel senso di originariamente costitutiva)
possa essere riconosciuta. Come prima mossa proviamo a ricercare dei testi kantiani
indicativi in tal senso. Premesso che non sono molti e che in nessuno è possibile trovare
una trattazione sistematica di semiotica trascendentale, Barale ci propone di
confrontarne tre, da cui è possibile evincere come esso sia stato seppur indirettamente
affrontato. Considereremo nell’ordine: un passo di un corso tenuto nel semestre
invernale del 1790-91 e pubblicato postumo sotto il titolo di Metaphysik L/2, il § 39
dell’Antropologia Pragmatica e alcune di quelle pagine del libro secondo della analitica
trascendentale della K.r.V. (introduzione e cap I).
Nel primo passo Kant sta richiamando la propria ipotesi di una filosofia che
trascendentale meriti di essere definita. In questo contesto con un intento che è quello di
rendere più perspicua la sua idea di filosofia trascendentale, dopo aver ricordato che altri
contenuti non può pretendere di avere se non quelle condizioni di esperienza che
possano valere quali principi di una conoscenza a priori: «la filosofia trascendentale è la
filosofia dei principi […] a priori»; dopo aver ricordato questo e dopo aver richiamato la
distinzione tra principi apriorici della sensibilità e dell’intelletto, ricorda che quest’ultimi,
identificati in prima battuta con i cosiddetti concetti puri o categorie, «esauriscono tutto
ciò che l’intelletto comprende in sé a priori», ma solo nel senso che ogni altro concetto
apriorico per noi possibile, di cui fosse impossibile fare a meno, deve poter risultare in
esse implicato e da esse pertanto, mediante semplice scomposizione, derivabile.
Premesso questo a proposito di quei concetti che apriorici siamo tenuti a riconoscere e
che trascendentali in ragione della loro funzione si credevano, prosegue dicendo:
«Se scomponessimo in questo modo i concetti trascendentali [quei concetti a priori che
“trascendentali” in ragione della loro funzione meritano di essere detti e che “categorie”
sono stati peraltro chiamati], allora questa sarebbe una Grammatica Trascendentale4,
4 Unico passo dell’intero corpus kantiano in cui compare tale espressione.
21
che contiene il fondamento del linguaggio umano; per esempio, in che modo il presente,
il perfetto, piuccheperfetto siano contenuti nel nostro intelletto, che cosa siano gli
avverbi, ecc. Se si riflettesse su questo, allora si avrebbe una grammatica trascendentale.
La logica conterrebbe l’uso formale dell’intelletto, poi potrebbe seguire la filosofia
trascendentale, la dottrina dei concetti universali a priori» (Metaphysik L/2, Ak. XXVIII,
2, 1, pp. 576-77).
Si parla qui di concetti che apparterrebbero di diritto all’orizzonte di una grammatica
definita “trascendentale” e che sul suo terreno soltanto, su un terreno dallo stesso Kant
mai sistematicamente esplorato, si presterebbero ad essere identificati. Se ne parla come
di concetti derivabili per semplice scomposizione da quelli che Kant ha indagato e
identificato sotto il titolo di “categorie” e da ciò consegue se non altro che la scienza in
grado di identificarli, la nuova scienza da Kant ipotizzata sotto il titolo di “Grammatica
Trascendentale”, dovrebbe poterci apparire quale sezione e interna articolazione di quella
che ci ha presentato sotto il titolo di “Logica Trascendentale, di una sua sezione ed
articolazione dovrebbe più esattamente trattarsi che di diritto le appartiene, di cui la
nostra intelligenza di ciò che una logica trascendentale ha cercato di essere dovrebbe
tener conto, anche se di fatto tutto ciò che nei testi kantiani è possibile trovarne sono
poche ma importanti tracce di ciò che avrebbe dovuto essere ma non è stata.
La sua assenza dal quadro sistematico è forse dovuta non solo a motivi estrinseci, al fatto
che non tutto si può fare e che quando l’ipotesi di una grammatica trascendentale ha
cominciato a delinearsi con più chiarezza nella sua mente (primi anni ’90) Kant era ormai
troppo anziano per tentare di darle uno sviluppo sistematico, ma molto hanno influito
difficoltà di ordine oggettivo, imputabili al suo modo di concepire quella dimensione
categoriale delle nostre esperienze a cui per sua stessa ammissione avrebbe dovuto far
riferimento. Anche nel passo appena citato, il suo modo di esprimersi appare fortemente
condizionato da un’ambiguità che non ha mai cessato di minare e penalizzare la sua
dottrina delle categorie, del loro statuto e della loro funzione. Se ne parla alla stregua di
concetti puri da cui altri dovremmo poterne derivare attraverso un procedimento di
semplice scomposizione che li presuppone in essi contenuti. Ma nessun concetto può
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ritenersi contenuto in un altro se non ammettendo che a un suo contenuto denotativo o
rappresentativo del concetto da cui si sceglie di procedere si stia facendo riferimento.
Ogniqualvolta in questo modo al loro riguardo si esprime, Kant ricade nell’antico
pregiudizio che anche il più astratto tra i nostri concetti (perfino le categorie) non possa
essere altrimenti pensato se non quale rappresentazione di qualcosa, di uno stato di cose
di cui altri concetti in esso implicati, starebbero a rigore offrendoci altre e più parziali
rappresentazioni.
Solo attribuendo alle categorie un proprio contenuto rappresentativo è possibile pensare
che concetti ad esse associabili possono derivarne per semplice scomposizione, ma di
concetti verrebbe in tal caso a trattarsi non altrimenti pensabili se non quali
rappresentazioni parziali di una realtà di cui le categorie starebbero invero offrendoci una
rappresentazione compiuta. È chiaro che non potrebbe essere questa la natura di
concetti in grado di dar conto della dimensione linguistica delle nostre conoscenze. La
ricerca di concetti siffatti di concetti in grado di soddisfare le istanze di una grammatica
trascendentale, è incompatibile con un modo di considerare le categorie di riferimento
che alla stregua di rappresentazioni di qualcosa continui ad assumere. È necessario aprire
un diverso scenario nel quale la vera natura delle categorie venga in primo piano (ossia la
loro natura di regole per la formazione di schemi trascendentali della temporalità).
31/10/11 – Reale natura delle categorie e necessità di un livello di generalità e formalità
ulteriore (la struttura sintattico-semantica di un’eventuale “grammatica trascendentale”),
rispetto a quello di una grammatica e di una logica generale, in grado di andare oltre un
loro rapporto meramente analogico ed una conseguente concezione strumentale del
linguaggio, all’interno del quale divenga possibile ricondurre le forme in cui comunichiamo e
quelle in cui pensiamo ad un’origine comune, in grado infine di dar conto della duplice
dimensione (logica e linguistica) di ogni esperienza possibile.
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Riflettendo sulle difficoltà oggettive che potrebbero avere tolto ossigeno all'idea kantiana
di una grammatica trascendentale ostacolandone lo sviluppo sistematico siamo arrivati
alla conclusione che una tale ipotesi può trovare spazio solo in uno scenario che ci eviti
di travisare la vera natura delle categorie e ci obblighi a tener conto di ciò che
unicamente sono: non rappresentazioni (come Kant sembra intendere quando dice che
le categorie sono rappresentazioni di oggetti in generale) in e per sé stesse significanti
(nessuno si chiede il significato della rappresentazione tavolo), ma regole o più
esattamente (primo capitolo analitica dei principi) “condizioni” (“codici”, come dice
Barale) che è necessario ammettere affinché regole finalizzate alla rappresentazione di
una determinata tipologia di oggetti possano contare su un fondamento aprioristico che
eviti loro di risultare arbitrarie. Prima di inoltrarci in questo scenario, certamente diverso
da quello che siamo abituati ad imprestare a Kant e che lo stesso Kant ci induce ad
assumere quando leggendo la sua Critica della Ragion Pura prendiamo per buoni gli
sfondi metafisici della sua estetica trascendentale e della sua analitica trascendentale dei
concetti, Barale vorrebbe completare con un paio di osservazioni: la nostra analisi del
brano che abbiamo tratto dal corso di metafisica del 1790-91 (cfr. p. 9).
Si osserva, in primis, lo slittamento di prospettiva implicito nel passaggio dall'idea di una
corrispondenza unicamente analogica tra una presunta logica generale ed una presunta
grammatica generale, all'idea di una grammatica trascendentale incorporata in una
rinnovata logica trascendentale quale sua componente ineludibile. La corrispondenza tra
una presunta logica generale ed una non meno presunta grammatica generale era
destinata a restare di tipo analogico e a non andare oltre un semplice parallelismo tra
regole che è lecito supporre funzionali le une alle altre (ad esempio è certamente
funzionale alle regole di formazione di un giudizio apofantico la presenza grammaticale
di soggetto e predicato) senza tuttavia poter pensare che godano di un identico statuto e
con esso di un origine comune. Infatti anche ammettendo che l'ipotesi di una
grammatica generale possa essere ragionevolmente perseguita e che il modello di una
logica che generale si pretendeva possa trovare in essa riscontri speculari tali da
alimentare l'illusione che coestensive e funzionali a quelle di una logica generale le sue
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regole possano alla fine rivelarsi; anche ammettendo una grammatica che alle così dette
lingue naturali non cessi di fare riferimento, così che dal dato contingente che ciascuna di
esse rappresenta, la sua ricerca di regole in grado di valere per ognuna non possa
prescindere e si limiti per semplice astrazione a procedere, non potrebbe evitare di
configurarsi come una disciplina empirica (Kant non ha cessato di considerare la
grammatica comunque empirica) la cui massima ambizione potrebbe essere solo quella
di risultare parallela a quel sapere apriorico di un dato per nulla contingente con cui il
suo corrispondente analogico una logica generale ha invece la pretesa di coincidere. Al
traguardo di un perfetto parallelismo potrebbe pretendere di essere pervenuta nel
momento in cui il complesso di regole che fosse in grado di evincere dal corpo delle
lingue naturali si rivelasse coestensivo al complesso delle leggi logiche aprioristicamente
determinabili al livello di una logica generale, coestensivo quale potrebbe pretendersi
solo un complesso di regole linguistiche in grado di tener conto di ogni possibile
necessità del pensiero, offrendovi forme di espressione compatibili con le forme in cui si
presta ad essere esercitato. Di questo potrebbe nel migliore dei casi trattarsi, di una
grammatica in grado di tener conto di tutte le istanze di una logica a sua volta in grado di
tener conto di tutte le possibili istanze di un pensare quale che sia e di risultare ad essa
funzionale. Il linguaggio grammaticalmente perfetto che avrebbe la pretesa di disciplinare
continuerebbe ad essere concepito quale semplice strumento empirico di comunicazione
dei pensieri costruiti in forme indipendenti dalle sue.
Oltre una relazione di tipo unicamente analogico, tra logica e grammatica ed un
parallelismo destinato a confermare il pregiudizio di una funzione meramente
strumentale dei linguaggi in cui comunichiamo, è possibile procedere solo ammettendo
che il livello di generalizzazione delle rispettive regole, suggerito dall’ ipotesi di una logica
generale e di una corrispondente grammatica generale, non sia il più elevato possibile e
che quando ad un superiore livello di generalità e formalità si arrivi a considerarle, le
forme in cui pensiamo e le forme in cui comunichiamo siano riconducibili ad un origine
comune che della dimensione inevitabilmente duplice, logica e linguistica di ogni assetto
formale delle nostre esperienze dà contestualmente conto. Appare chiaro che proprio a
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questo, ad un livello di generalità e formalità compatibile con il riconoscimento di un
vincolo indissolubile di solidarietà e reciproca dipendenza tra modalità di formazione e
modalità di comunicazione dei nostri pensieri si stia alludendo. L'ipotesi di una
grammatica non più generale, cioè adattabile ad ogni possibile lingua naturale, ma
trascendentale nel senso kantiano di una condizione disciplinare che ogni nostra
esperienza sta presupponendo, perché solo ammettendo che una disciplina di quel tipo si
dia è possibile riconoscere in ciò che esperienza diciamo quella maniera d'essere che in
nessun caso può cessare di essere per noi. Barale si chiede retoricamente se non si debba
ammettere che solo ad un livello ed in una prospettiva che trascendentali in questo senso
meritino di essere detti, indisgiungibili si rivelino le prospettive altrimenti parziali di una
logica, che non più generale nel senso kantiano ma formale pur sempre ed a maggior
ragione avrebbe il diritto di pretendersi, e di una riflessione che con un sapere volto a
stabilire le formali condizioni di significatività dei linguaggi per noi possibili sia disposto
a coincidere. La tesi di Barale, che non è unicamente sua, ma che vorrebbe far emergere
da una rilettura del criticismo kantiano consapevole delle difficoltà che ha incontrato,
non meno che delle acquisizioni a cui è pervenuto, la tesi è che ad una considerazione
unitaria della loro natura quale potrebbe essere garantita da una reinterpretazione in
chiave trascendentale della loro funzione, si prestino soltanto logiche e grammatiche che
a null'altro, se non alla più generale struttura sintattico-semantica di quel discorso che
ogni esperienza presuppone, abbiano la pretesa di riferirsi.
2/11/11 – Riflessioni sulle nozioni di “trascendentale” e di “Erfahrung Überhaupt”,
prefigurazione di una logica trascendentale in grado di rompere col mito fondatore di una
logica generale (mito fondatore a cui si rivolge ogni ontologia mentalistica e soggettivistica),
di per sé incompatibile con una considerazione unitaria e sistematica della natura
inevitabilmente multidimensionale (non solo logica e linguistica, ma anche biologica,
neurofisiologica…) delle forme in cui operiamo.
Nella lezione di lunedì scorso siamo andati oltre l’idea di una relazione non più che
26
analogica fra logica e grammatica; di un semplice parallelismo tra regole imputabili alla
natura del pensiero e regole imputabili alla struttura dei linguaggi che ci costruiremmo
allo scopo di comunicare pensieri, che ritroveremmo pertanto ad aver prodotto in una
dimensione unicamente mentale, indipendente dalle regole che li rendono comunicabili.
Ci siamo chiesti questo ed avendo convenuto che al di là di un apparente parallelismo
non saprebbero condurci le ipotesi di una logica generale e di una grammatica generale,
di una logica in grado di tener conto di ogni necessità del pensiero e di una grammatica
in grado di prevedere tutte le forme che potrebbero rivelarsi idonee a comunicarlo;
avendo convenuto in questo abbiamo convenuto anche che queste ipotesi vanno
superate in una direzione che lasci presagire e ci aiuti a scoprire un più elevato livello di
generalità e formalità delle regole in questione, di regole che continuerebbero altrimenti
ad apparirci o di natura unicamente logica o di natura unicamente linguistica e ci siamo
resi conto che ad un loro livello di generalità e formalità, compatibile con il
riconoscimento di un vincolo di reciproca dipendenza tra modalità di formazione e
modalità di comunicazione, precisamente allude l'ipotesi di una grammatica non più
generale, cioè adattabile ad ogni possibile lingua naturale, ma trascendentale nel senso
kantiano di una condizione disciplinare che ogni nostra esperienza sta presupponendo
perché solo ammettendo che una disciplina di quel tipo si dia è possibile riconoscere in
ciò che esperienza diciamo quella maniera d'essere che in nessun caso può cessare di
essere per noi.
Sono molte a questo punto le anticipazioni che questa nostra riflessione fin qui tutta
incentrata sui problemi che intendiamo affrontare ha finito per darci riguardo alle ipotesi
con cui tenteremo di rispondere. Su una di queste anticipazioni intendiamo oggi aprire
una parentesi: riguarda l'uso che costantemente faremo dell'aggettivo trascendentale. Tra
i molti usi di questa parola di cui è possibile trovare traccia (circa 26!) continueremo a
privilegiare quello che più kantiano di ogni altro abbiamo ragione di ritenere perché è
l'unico in grado di associare stabilmente l'ipotesi di una prospettiva che trascendentale
meriterebbe di essere definita, col grande tema di una legittimazione del valore
ontologico dei dispositivi apriorici da cui la nostra intelligenza di quanto accade mostra
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di dipendere. Ad una legittimazione del loro valore ontologico Kant si era illuso di poter
pervenire una volta per tutte nel contesto di quella che ha non per nulla definito
“deduzione trascendentale dei concetti puri dell'intelletto” (§§ dal 15 al 26 della Critica
Ragion Pura), salvo dover ammettere che il problema restava aperto – lo ha ammesso
riprendendolo in momenti successivi della sua indagine (così si esprime nei lineamenti
metafisici di una scienza della natura) – ed inevitabilmente si riproponeva in contesti che
quantomeno più ampi di quello presupposto dal tentativo di una deduzione
trascendentale dei soli concetti puri dell'intelletto si andavano rivelando. Il costante
riproporsi di una questione che in altro modo non sapremmo definire se non come
trascendentale, questione di legittimità ed ontologica validità di assetti formali delle
nostre esperienze che apriorici si debbano riconoscere, è l'unico filo conduttore
dell'indagine che Critica della Ragion Pura Kant ha definito, e tale resta anche nelle imprese
e negli sviluppi che ne ha tentato al di là dei confini iniziali: è il filo conduttore delle tre
critiche, perché vale a definire sia la questione di legittimità da cui l'indagine kantiana si
lascia costantemente guidare, sia quei tentativi di rispondervi che la riterrebbero risolta
quando fosse possibile riconoscere negli assetti formali, sulla cui ontologica validità ci si
interroga, condizioni in assenza delle quali un'esperienza non sarebbe quale deve poter
essere per noi.
E' dunque questa l'accezione dell'aggettivo trascendentale a cui un lettore di Kant è
tenuto a far riferimento se non vuole rischiare di fraintendere gli intenti programmatici
della sua impresa teorica. Ad essa costantemente ci atterremo definendo trascendentali
sempre e soltanto quelle considerazioni che nei dispositivi formali sulla cui ontologica
validità stanno interrogandosi, fossero in grado di riconoscere condizioni in assenza delle
quali un'esperienza non sarebbe quale deve poter essere per noi. A questa accezione di
trascendentale ci atterremo con un'unica indispensabile precisazione a proposito della
nozione da cui l'idea di qualcosa che un'esperienza in generale ed in quanto tale è, e non
potrebbe essere per noi, può e deve essere inferita: è la nozione di “Erfahrung
Überhaupt”, che i traduttori rendono prudentemente con l’espressione “esperienza in
generale”, rinunciando a chiedersi in che cosa un'esperienza possa consistere quando
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non all'una o all'altra di esperienze particolari si stia facendo riferimento, ma a qualcosa
di cui sarebbe inevitabile pensare che un'esperienza in quanto tale sempre lo sia. E' un
interrogativo che un traduttore ha il diritto di eludere, ma che noi abbiamo il dovere di
porci, ed al quale se non vogliamo nasconderci dietro l'uso generico e polivalente della
parola esperienza, si può dare solo l'una o l'altra di due risposte possibili: si può pensare
che sotto il titolo di esperienza in generale Kant a null'altro intendesse riferirsi se non a
quello scheletro che tutte le esperienze si troverebbero a condividere, una volta ammessa
la loro dipendenza da un assetto formale che sarebbe il medesimo per tutte ed in assenza
del quale nessuna sarebbe possibile. Ma se così davvero fosse, se dovessimo ammettere
che ad un presunto assetto formale di tutte le esperienze possibili, la nozione di
“esperienza in generale” unicamente si riferisca e fossimo pertanto obbligati a pensare
che di null'altro se non delle forme entro cui la scopriamo possibile, un'esperienza come
tale considerata, possa darci testimonianza, perderemmo la possibilità di riconoscervi un
parametro da esse distinto rispetto al quale il valore ontologico delle forme in questione
possa essere stabilito.
Ogni tentativo di darne una legittimazione che decisiva volesse considerare, che rispetto
alla possibilità rappresentata da un'esperienza quale che sia dovremmo ritenere assolta da
forme con cui la supponessimo coincidere, sarebbe destinato a risolversi in un
tautologico rinvio a quanto stiamo presupponendo. L'ipotesi di una loro legittimazione
che di ordine trascendentale possa pretendersi perché in grado di stabilire quale funzione
possono assolvere e quale valore possono rivendicare in quanto condizioni a cui la
possibilità di ciò che un'esperienza non potrebbe non essere risulta in quel momento
affidata, resta in piedi solo ammettendo che questa possibilità possa essere tenuta distinta
da quelle che un qualsivoglia sistema di forme si trova a rappresentare, ovvero solo
ammettendo che ad una condizione di ordine non logico, ma ontologico l'uso kantiano
della parola esperienza stia riferendosi, laddove a qualcosa ci rimanda che un'esperienza
non potrebbe non essere e per noi sempre è. Trascendentale nell'accezione più
tipicamente kantiana del termine potrebbe legittimamente pretendersi solo quel modo di
considerare gli assetti formali delle nostre esperienze che fosse in grado di riconoscervi
29
altrettante interpretazioni possibili di quella maniera d'essere per noi inderogabile che gli
usi kantiani della parola esperienza stanno sottintendendo. Ad una loro considerazione
che trascendentale in questo senso sia, intendiamo pervenire nella condizione che sia
l'unica in grado di dare conto della duplice dimensione logica ed al tempo stesso
linguistica che ognuna delle forme in cui operiamo può a buon diritto vantare.
Una seconda indicazione importante è emersa dalle riflessioni a cui l'ipotesi kantiana di
una grammatica trascendentale ci ha indotto a proposito del modo in cui potremmo
andare oltre una considerazione unicamente analogica del rapporto tra le forme in cui un
pensiero si produce e le forme in cui lo scopriamo comunicabile. La nozione di
trascendentale a cui riteniamo di doverci attenere e l'obiettivo a cui la associamo quando
ipotizziamo che una considerazione a giusto titolo trascendentale delle forme in cui
operiamo, sia come nessun altra in grado di dar conto della funzione inevitabilmente
duplice – logica ed al tempo stesso linguistica (non si pensa se non comunicando e non
si comunica se non pensando) – che sono tenute ad assumere, ci obbligano a tentar di
rompere il nesso che l'idea kantiana di una logica trascendentale ha accettato di
mantenere col mito di una logica generale. Su un tale nesso e più esattamente sulla
duplice presunzione che la natura dell'umano pensiero sia quella di un giudicare possibile
sempre e soltanto in determinate forme e che in nessuna di esse possa prodursi senza
contestualmente produrre l'uno o l'altro di concetti in grado di fungere da vere e proprie
matrici di tutti gli altri per noi possibili, si fondano come è noto le due tavole che Kant
ha proposto nei §§ 9 e 10 della sua analitica trascendentale dei concetti: con la pretesa di
poter raccogliere nella prima, tutte le forme in cui un giudicare e conseguentemente un
pensare sarebbe per noi possibile e di poterne dedurre nella seconda un quadro
altrettanto esauriente di quei concetti che per il solo fatto di doversi produrre nell'una o
nell'altra delle forme indicate, un pensiero a tale necessità vincolato non potrebbe evitare
di produrre.
La corrispondenza che tra queste due tavole stabilisce ed il conseguente passaggio da una
tavola delle forme in cui ci sarebbe dato pensare ad una tavola di concetti che in quelle
30
forme pensando non potremmo evitare di produrre, sono ciò che Kant ha definito
“esposizione metafisica dei concetti puri dell'intelletto o categorie” e che ci ha obbligato
a considerare la struttura portante di una logica trascendentale come quella che nella
tavola delle categorie avrebbe il proprio nocciolo duro e che è poi quella che le viene
tradizionalmente attribuita. Orbene, supporre che una logica trascendentale possa in
questo modo discendere da una logica generale e non riuscire neppure a concepire che in
altro modo la sua possibilità possa essere acquisita, significa formulare una tesi
chiaramente incompatibile con ogni ipotesi di un'origine comune e paritetica delle forme
in cui pensiamo e di quelle in cui i nostri pensieri diventano comunicabili. Quell'origine
comune e paritetica infatti non potrebbe essere di ordine esclusivamente logico quale
dovremmo invece ritenerla se in un assetto inderogabile del pensiero fossimo obbligati a
riconoscerla. Questo dunque siamo in grado di anticipare a proposito di una logica che
trascendentale voglia risultare nel senso che stiamo privilegiando e che la vedrebbe
coincidere con una considerazione unitaria e sistematica della natura inevitabilmente
multidimensionale (oltre alle considerazioni logiche e linguistiche, dovremmo prendere
in considerazione anche l'ipotesi biologica e neurofisiologica) delle forme in cui
operiamo. Una simile logica trascendentale va liberata da ogni contaminazione con quel
mito fondatore di ogni ontologia mentalistica e soggettivistica, ossia dall'idea di una
logica in grado di rappresentare, in uno scenario unico e definitivo, la generalità delle
forme in cui ad un pensiero quale che sia sarebbe concesso prender forma e di
rappresentarle avendo riguardo non alla funzione che può trovarsi ad assolvere, ma
unicamente ad una natura di cui sarebbe portatore. Da questo mito fondatore ci libererà
sorprendentemente la nostra riconsiderazione della prospettiva trascendentale che Kant
ha tentato di delineare.
7/11/11 – Delineamento della logica trascendentale come “logica dell’esperienza in
generale e in quanto tale”, messa in evidenza della non esaustività della tavola dei giudizi
(fondata sull’apofantica aristotelica) e della sua inidoneità, pertanto, a dare conto di una
autarchica natura del pensiero; approdo infine a quel “canone per il Giudizio” incarnato
31
dalla Analitica dei Principi (distinzione tra “Prinzipien” e “Grundsätze) e al capitolo
sullo Schematismo, zona franca, avulsa dalle pregiudiziali della logica generale perché,
indagandone i principi direttivi, non avrebbe potuto acriticamente assumerli come scontati.
Abbiamo formulato l’ipotesi di una logica trascendentale, nel senso di una logica
dell’esperienza in generale e in quanto tale, in un senso che la vedrebbe coincidere con
una considerazione unitaria e sistematica della natura inevitabilmente multidimensionale
delle forme in cui operiamo; e su uno dei suoi requisiti ci siamo più in particolare
soffermati chiarendo come e perché dovrebbe risultare libera da ogni contaminazione
con quel mito fondatore di ogni ontologia mentalistica e soggettivistica che è l’idea di
una logica in grado di rappresentare in uno scenario unico e definitivo la generalità delle
forme in cui a un pensiero quale che sia sarebbe concesso prendere forma e di
rappresentarle avendo riguardo non alla funzione che può trovarsi ad assolvere ma
unicamente a una natura di cui sarebbe portatore.
Non solo questo abbiamo imparato a proposito di una logica che ambisca a essere
dell’esperienza in generale e il cui obbiettivo sia pertanto una considerazione delle forme
in cui un’esperienza si rende possibile, in grado di dare conto della loro originaria e
irriducibile multidimensionalità (logica, linguistica, biologica…) e del valore diverso che
possono assumere rispetto a quel parametro costantemente offerto da quella maniera
d’essere che nessuna esperienza può evitare di essere per noi. Stiamo imparando anche in
quale direzione ogni suo residuo legame non solo col mito fondatore di una logica
generale ma con ogni logica che a una autarchica natura del pensiero abbia la pretesa di
riferirsi, possa e debba essere superato-spezzato. Ci ha detto Kant: va spezzato in una
direzione che consenta di dare spazio a questioni che nel brano tratto dal corso di
metafisica del semestre 1790-91 dichiara di competenza di una grammatica
trascendentale; e che a ben guardare pongono condizioni del significare non assumibili
nel quadro formale di un’apofantica come quella che egli stesso ha elevato al rango di
logica generale.
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Quando ci chiede di stabilire in che modo siano contenuti del nostro cervello il presente,
il perfetto, il piuccheperfetto, gli avverbi ecc. e tante altre componenti essenziali dei
linguaggi in cui i nostri pensieri divengono comunicabili e sulla cui capacità di
contribuire alla loro formazione nulla hanno saputo dirci sia quella logica che egli stesso
ha assunto come generale, sia una logica trascendentale come quella che ne ha ricavato;
sta in realtà chiedendoci un mutamento di prospettiva in grado di far uscire quelle nostre
riflessioni che di ordine trascendentale si pretendono dal cono d’ombra di una presunta
logica del pensiero in generale e in quanto tale; perché solo in una prospettiva diversa
può trovare spazio la questione di come possano appartenere alla nostra facoltà di
intendere forme d’intelligenza e dunque modalità del suo esercizio non derivabili dalle
semplici forme di un giudicare quale che sia; quando di quelle forme unicamente si tratti,
alla cui identificazione si è pervenuti sul presupposto che null’altro fossero tenute a
rappresentare se non necessità imputabili alla natura di un pensiero in e per se stesso
considerato.
È infatti evidente come al livello e nel senso di una logica governata da un tale
pregiudizio, convinta di dover considerare essenziali nel processo di formazione di un
pensiero, solo forme che sia pure entro uno spettro ben definito di possibili alternative
(al quale sarebbe necessario attenersi) sarebbe dovuto assumere in ragione di una propria
inderogabile natura, al livello e nel senso di una logica generale, un giudizio con cui ci
limitassimo a pensare che “Mario è un uomo probo” dovrebbe essere riconosciuto
formalmente e non solo contenutisticamente identico a quello con cui pensassimo che
“Un uomo probo Mario lo è stato”. E difatti un identico soggetto e un identico
predicato (uomo/probo) sono posti in una relazione che stando alla kantiana tavola delle
funzioni e relative forme del giudicare risulta in entrambi i casi di tipo categorico
piuttosto che ipotetico o disgiuntivo e di tipo assertorio piuttosto che problematico o
apodittico e tale da produrre giudizi che sotto il profilo qualitativo sono entrambi
affermativi e sotto il profilo qualitativo, entrambi singolari. Eppure ci rendiamo conto
che diverso è il loro significato dal momento che col primo ci limitiamo a dare
informazioni utili a definire il carattere e le condotte di Mario, mentre nel secondo diamo
33
un’informazione supplementare e tutt’altro che irrilevante circa il fatto che Mario è
defunto. Conclusione: i paradigmi offerti dalla kantiana logica generale si rivelano
insufficienti a dare conto delle diversità che possono intercorrere tra i modi di coniugare
i medesimi concetti che ci obbligano a considerare formalmente identici.
Da ciò consegue un’analoga inadeguatezza di quella logica supplementare che altre
norme di esercizio del pensiero non ammettendo, oltre a quelle che da una sua presunta
logica generale ha potuto evincere e su di esse pertanto unicamente basandosi, ha tentato
di raccogliere in un’unica tabella le fondamentali modalità di riferimento di un pensiero
in quelle forme formulato, ai possibili oggetti di un’esperienza quale che sia. La logica
supplementare che di una tale impresa è stata investita è quella che Kant ha definito
trascendentale. La tavola prodotta dal suo infelice connubio con una presunta logica del
pensiero in generale e in quanto tale è la celebre tavola delle categorie, un elenco di
concetti che lo stesso Kant ha dovuto riconoscere incapace di stabilire da sé le
condizioni che possono renderli significativi; tant’è che di questa ha potuto incominciare
a parlare solo oltre i confini di quel I libro della sua analitica trascendentale che alla loro
presunta natura di puri concetti ha ritenuto di poter dedicare.
Delle condizioni che siamo obbligati ad ammettere per poter pensare che un concetto
quale che sia possa risultare significativo (condizioni che si rileveranno le medesime tanto
per quei concetti che si presentano come puri tanto pur quelli empirici) si parla infatti
per la prima volta nel primo capitolo di quel libro II dell’analitica trascendentale in cui
ogni precedente pregiudizio circa le predisposizioni del loro pensiero a produrre in
maniera autarchica determinati concetti anziché altri, lascia il passo a una più
approfondita riflessione circa la vera natura di quelle formazioni del pensiero che
concetti diciamo e circa i contesti in cui si prestano ad assolvere quell’unica funzione che
può essere la loro. A proposito dei concetti vale l’assunto che nulla si concepisce se non
giudicando: questo significa che la vera natura di un concetto non può pretendersi
riconosciuta se non quando si siano date le condizioni per poterlo pensare quale
componente elementare di giudizi alla cui formazione sta concorrendo. È una prima
34
acquisizione implicita nella ripresa di ciò che un concetto è, del suo modo di prodursi ed
applicarsi, in un’analitica che dei principi si definisce, ma che quale dottrina
trascendentale del giudizio pretende di essere recepita. Come tale infatti si presenta
nell’ultimo capoverso del preambolo che la introduce5.
I principi in questione sono non “prinzipien” ma “grundsätze” (= proposizioni
fondamentali), principi non nel senso forte di punti di partenza assoluti, in grado di
definire lo spazio logico e ontologico di ogni condotta per noi possibile, ma nel senso
più debole e generico di assunti iniziali in grado di valere quali premesse di una
determinata tipologia di condotte possibili (Cfr. A 300 – B 356-7). La pretesa kantiana è
che dei punti di partenza siffatti, il cui status sarebbe quello di pronunciamenti inespressi
siano costantemente presupposti da quei giudizi che effettivamente formuliamo. Ci
chiederemo se all’origine di questa pretesa non stia affiorando una consapevolezza non
interamente riconducibile ai pregiudizi che la motivano e che già avevano suggerito l’idea
di un assetto categoriale unico e definitivo delle nostre condotte conoscitive; il
presupposto a cui la kantiana dottrina dei principi vorrebbe attenersi è pur sempre quello
di un pensiero obbligato da una propria autarchica natura ad estrinsecarsi in forme
compatibili unicamente con una determinata tipologia di concetti e con una determinata
tipologia di giudizi, all’elenco che degli uni ci ha dato nel primo capitolo dell’analitica dei
concetti (tavola delle categorie) tenta in ogni modo di corrispondere l’elenco che degli
altri (dei grundsätze) ci offre il secondo e conclusivo capitolo dell’analitica dei principi.
Ma tra l’uno e l’altro di questi due elenchi di una logica trascendentale ancora governata
dagli assunti dogmatici di una presunta logica generale ha trovato spazio un capitolo che
quegli assunti ha dovuto porre tra parentesi, perché il tema dei giudizi inespressi che ogni
nostro giudizio si troverebbe a sottintendere e che quali suoi principi direttivi starebbe
facendo valere, non può essere legittimamente affrontato se non da una riflessione che
5 «L’analitica dei principi non potrà quindi essere altro che un canone per il giudizio, a cui essa insegna il
modo di applicare ai fenomeni i concetti dell’intelletto, i quali contengono le condizioni per le regole a priori. È per questo motivo che, venendo a trattare dei veri e propri principi dell’intelletto, userò la denominazione di dottrina del giudizio, con cui viene più rigorosamente indicato questo argomento» (A 132 – B 171).
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non dia per scontata la possibilità che sta ammettendo, quella di un giudicare che di tale
natura sia.
Quale possibilità un giudizio rappresenti e quali condizioni diventi possibile pensare che
le stia realizzando è la questione che sia pure in un contesto inidoneo ancora a offrirle
tutto lo sviluppo che meriterebbe (cfr. di contro K.U.), nel primo dei due capitoli di
un’analitica trascendentale dei principi, che dottrina trascendentale della capacità di
giudizio si sarebbe voluta.
09/11/2011 – I concetti puri (ma anche gli empirici) non sono rappresentazioni – una
tale concezione perpetrerebbe un depotenziamento imperdonabile della questione
trascendentale (inaugurata in A 11/12 – B 25), consistente nella sua riduzione alla
problematica della mera apriorica disponibilità delle nostre forme d’intelligenza (deduzione
metafisica), tagliando fuori, di fatto, l’altrettanto problematica questione dell’apriorica
riferibilità e adattabilità (deduzione trascendentale) dei concetti al dato fenomenico
(risulterebbe difatti tautologico interrogare una rappresentazione circa la propria capacità di
riferirsi a ciò che rappresenta) – bensì regole, il che significa prendere atto dell’inemendabile
“mediatezza” della loro applicazione sussuntiva al “molteplice fenomenico come tale dato”
(distinzione “Gegestand” / “Objekt”), da cui origina il problema dell’assenza di
omogeneità (“gleichartigkeit”) tra istanza concettuale ed istanza intuitiva, a cui la nozione
di “schema” tenterà di sopperire.
“Se l'intelletto in generale viene definito come la facoltà delle regole, quella del giudizio
sarà la facoltà di sussumere sotto le regole, cioè di distinguere se qualcosa stia o non stia
sotto una data regola (casus datae legis)”(A132/B171). Così si apre l'introduzione di quei 3
capitoli di logica trascendentale che Kant ci ha lasciato con il titolo di Analitica dei
Principi, così dà definizioni delle nostre facoltà di intendere e di giudicare. Una doppia
definizione a cui va il merito di un chiarimento decisivo circa la natura di quelle forme di
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intelligenza che puri concetti o categorie erano stati in prima battuta definiti. E di un
chiarimento non meno decisivo, anche se per ora soltanto preliminare, circa le condizioni
che è necessario ammettere o più esattamente circa il contesto che è necessario
assicurare loro affinché possano pretendersi ontologicamente significativi di qualcosa che
effettivamente sia. Della natura di quelle forme d’intelligenza che quali concetti allo stato
puro ci erano state in prima natura presentate, ci viene esplicitamente detto, che il loro
statuto logico ed epistemologico può essere solo quello di una regola. Quanto alle
condizioni che è necessario ammettere affinché possano pretendersi ontologicamente
significativi si chiarisce significativi di qualcosa che effettivamente è, possono pretendersi
solo nel contesto di giudizi a cui debba essere riconosciuta la capacità di stabilire quali tra
i dati delle esperienze che le regole in questione concorrono a rendere possibili si
prestino ad essere sotto di esse sussunti.
Dover riconoscere che lo statuto logico ed epistemologico di un concetto (come
vedremo non solo di quei concetti che puri cioè privi di un contenuto empirico loro
proprio siamo obbligati ad ammettere, ma anche di quelli che empirici non abbiamo
difficoltà a riconoscere) non potrebbe essere se non quello di una regola, ha significato
per Kant porre le premesse di una svolta a proposito della quale possiamo solo
rimproverargli di non aver osato assecondarla fino alle estreme conseguenze. Con quel
riconoscimento infatti ha forzato purtroppo non in via definitiva, ma certamente in
questa circostanza, i confini di una logica trascendentale sino a quel momento costruita
sul presupposto che tutte le forme di intelligenza, sulle cui aprioriche condizioni di
possibilità stava interrogandosi, potessero contare su un loro status originario di
rappresentazioni. Quali vantaggi un tale status era ritenuto in grado di garantire è presto
detto. Anche quelle tra le nostre rappresentazioni che dovessimo riconoscere non
derivabili da esperienze che già non le presuppongano, altro problema non ci porrebbero
se non quello di dar conto della loro apriorità, mentre fuori discussione rimarrebbe la
loro capacità, una volta date, di riferirsi in via apriorica ai dati che ci consentono di
assumere. Una tale capacità di riferimento infatti dovrebbe essere ritenuta implicita in ciò
che rappresentazione per propria natura fosse. La questione che trascendentale potrebbe
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ritenersi si troverebbe per così dire dimezzata e depotenziata al punto da non lasciare
spazio a qualsivoglia distinzione tra condizioni che trascendentali fossimo tentati di
riconoscere (condizioni di possibilità di un esperienza in generale e in quanto tale), e
condizioni nelle quali qualcosa di apriorico dovesse prodursi.
A un tale depotenziamento della questione trascendentale, che la renderebbe nel
contesto culturale contemporaneo improponibile, sembra effettivamente mirare la
definizione di conoscenza trascendentale che Kant ci ha dato in quel passo spesso citato
dell’introduzione generale alla Critica della Ragion Pura (sez. VII, A11-12/B25) in cui
scrive: «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che in generale si occupi non tanto di
oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo modo
deve essere possibile a priori». Questa definizione del sapere che su di esse verte e che
trascendentale meriterebbe di essere per ciò stesso definito, sembra suggerire che
problematica un tale sapere debba ritenere unicamente la possibilità che forme di
intelligenza come quelle che considera, possano prodursi in via apriorica e che quando di
una tale possibilità sia arrivato a dare conto, ogni questione di ordine trascendentale
possa pretendersi risolta; posto che l'altra questione che si porrebbe, ossia la questione di
una loro apriorica riferibilità e adattabilità ai dati delle esperienze che promuovono,
diventa improponibile o proponibile solo in maniera tautologica, quando
preventivamente si ammetta che le forme a proposito delle quali ci si chiede come
possano aprioricamente costituirsi, siano non forme di intelligenza in senso lato, ma
forme di conoscenza in senso proprio, cioè rappresentazioni, a proposito delle quali una
volta chiarito come possano prodursi, sarebbe davvero superfluo chiedersi quali
condizioni sia necessario ammettere per poterle ritenere rappresentative di ciò che
stanno rappresentando e che, stante la loro natura di rappresentazioni, non potrebbero
evitare di rappresentare.
Se questo davvero fosse il significato della definizione di conoscenza trascendentale da
Kant proposta nelle pagine introduttive della sua prima critica, se una considerazione
trascendentale di quanto di apriorico le nostre esperienze stanno presupponendo,
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potesse davvero limitarsi a dar conto della possibilità che qualcosa di concettualmente
rilevante aprioricamente si dia, saremmo autorizzati a concludere che ogni questione di
ordine trascendentale debba ritenersi risolta da quella presentazione dei parametri
concettuali di esperienze che si pretendono le uniche per noi possibili, sui cui limiti lo
stesso Kant ci ha insegnato a riflettere, quando metafisica l'ha definita, ma alla quale è
impossibile negare il merito di aver mostrato come potrebbero spontaneamente e
pertanto aprioricamente prodursi a partire dalla necessità di un pensiero solo in
determinate forme esercitabile. Ritenere che una conoscenza di ordine trascendentale
abbia raggiunto il proprio obbiettivo quando a una deduzione metafisica dei fondamenti
concettuali delle nostre esperienze fosse pervenuta, a una loro deduzione che altra
legittimazione non potrebbe loro offrire se non quella di poter corrispondere alle
necessità di un pensiero che dovessimo ritenere solo in determinate forme esercitabile, ci
autorizzerebbe a ritenere superflua quella questione ulteriore che trascendentale in un
senso più proprio di ogni altro lo stesso Kant ci ha indirizzato a considerare, nel
momento in cui ha affidato il compito di rispondervi a una deduzione che trascendentale
e non più metafisica dovrebbe anch'essa poter risultare.
Superflua dovremmo considerare la questione delle condizioni che è necessario
ammettere affinché forme di intelligenza che semplici regole e non già rappresentazioni
stiamo riconoscendo possano trovare nella loro natura e nelle condizioni di un loro
possibile esercizio una legittimazione della loro pretesa di riferirsi a qualcosa di
ontologicamente dato. Al di là delle interpretazioni diverse a cui può prestarsi una
definizione di conoscenza trascendentale come quella che abbiamo qui richiamato,
restano fatti incontestabili l'uso costante da parte di Kant della parola
“rappresentazione” (Vorstellung) per indicare il tratto comune di tutte le forme di
intelligenza per noi possibili e il tentativo di confermare la loro natura di
rappresentazioni tanto a livello di estetica trascendentale, dove lo status di
rappresentazioni non potrebbe più essere negato alle nostre nozioni originarie di spazio
e di tempo quando si ammetta la loro natura di intuizioni, sia a livello di analitica
trascendentale dei concetti, grazie all'escamotage di presentare quali rappresentazioni di
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una non meglio identificata essenza oggettiva di ogni oggetto possibile, rappresentazioni
di qualcosa che ogni oggetto sarebbe quando in generale e in quanto tale lo si consideri,
quei concetti che puri, cioè privi di un contenuto rappresentativo loro proprio si è
costretti a riconoscere. Il presupposto di una natura rappresentativa di ogni forma di
intelligenza per noi possibile è messo in mora nel momento in cui si ammette che
semplice regola un concetto sempre è. Lo si ammette dapprima a proposito di quei
concetti che vengono definiti puri, ma il riconoscimento viene successivamente esteso
anche a quelli che con un proprio contenuto empirico sembrano potersi identificare.
Vale, tanto per intenderci, nel caso di concetti come “sostanza” o “causa”, ma vale anche
nel caso dei concetti di “cane” e di “tavolo”.
Limitandoci per ora ai primi di cui anzitutto ci si occupa nei capoversi iniziali del
capitolo di logica trascendentale che stiamo considerando, e che è il capitolo primo della
cosiddetta analitica dei principi, vorrei fosse chiaro quali conseguenze comporta
l'ammissione che con semplici regole e non con sia pur generalissime rappresentazioni
abbiamo a che fare. Ammettere questo significa dover prendere atto dell'impossibilità
per quei concetti che puri sono stati definiti di riferirsi direttamente o per sola virtù
propria a quel molteplice spazio temporalmente dato che dovrebbero poter organizzare,
e poiché sulla loro presunta capacità di organizzazione di un molteplice spazio-
temporalmente dato si era fondata nei capitoli precedenti la presunzione di aver
riconosciuto in essi, in quei concetti in e per se stessi privi di qualsivoglia contenuto
empirico che categorie sono stati anche chiamati, le aprioriche matrici di tutti gli altri per
noi possibili; posto che nessun altro potrebbe essere pensato se non quale momento
terminale di un processo di organizzazione di cui li si sarebbe voluti unici protagonisti, la
scoperta della loro incapacità di riferirsi senza mediazioni a quel molteplice che
dovrebbero organizzare e dalla cui organizzazione dipende e discende ogni altro
concetto per noi possibile, questa scoperta, equivale a riconoscere che il prodursi di un
patrimonio concettuale come quello di cui costantemente disponiamo, diventa
inspiegabile quando in quelle sue matrici di ordine logico a cui dovessimo tentare di
ricondurlo, null'altro fossimo in grado di riconoscere se non istanze e necessità di un
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pensiero che di una propria autarchica natura stesse tenendo unicamente conto. Kant ne
prende atto a modo suo muovendo dalla premessa che «in allen subsumtionen eines
Gegenstandes unter einen Begriff muss die Vorstellung des ersteren mit der letzter
gleichartig sein» (A 176 – B137), ammettendo che una tale “gleichartigkeit”, di una tale
“omogeneità” non v'è traccia quando il raffronto sia tra il concetto puro di sostanza e
quanto di sensibile al modo di una sostanza dovremmo poter pensare.
In molti usi correnti nel linguaggio comune “Gegenstand” è sinonimo di oggetto e non
v'è traduttore che non ceda alla tentazione di mantenere una tale sinonimia, che invece
non vale per Kant, per il quale lo status del Gegenstand, di ciò che se ne sta li al modo di
un dato non elaborato, può essere attribuito solo a impressioni e apparenze ancora in
attesa che un concetto ad esse appropriato intervenga a unificarle e identificarle, mentre
lo status dell'Objekt presuppone che una tale unificazione e identificazione già sia
intervenuta. A qualcosa che Gegestand unicamente è e che Objekt non potrebbe
pertanto ancora pretendersi Kant si riferisce nel passo citato, laddove di una sua
unificazione e identificazione concettuale e delle difficoltà che poterbbe incontrare pone
il problema, e dunque se vogliamo evitare una confusione che dal senso di tale problema
ci allontanerebbe dobbiamo fare in modo che anche nella versione italiana la parola
“Gegenstand” mantenga quel significato che Kant ci chiede di attribuirle, un significato
che non è quello di oggetto, ma quello di “molteplice come tale dato (o che potremmo
avere)”. Un esempio della omogeneità che sta teorizzando Kant lo trova nel raffronto tra
il concetto empirico di un piatto e il puro concetto geometrico di un circolo. Questo
esempio ci permette di stabilire che l'omogeneità richiesta si dà ogni qual volta pensiero
e intuizione, per intuizione intendendo l'apprensione di qualcosa di sensibile nella sua
conformazione sensibile, convergono nella rappresentazione di qualcosa che alla sfera
dell'uno non meno che a quella dell'altra possa pretendere di appartenere. È il caso
secondo Kant di tutti quei concetti il cui riferimento sensibile siano proiezioni nello
spazio e nel tempo di relazioni speculari ai concetti geometrici nel primo caso, aritmetici
nel secondo caso, con cui ci è dato pensare. Non sarebbe invece il caso di quei concetti
che altro riferimento sensibile non potessero avere se non i dati discreti delle impressioni
41
che riceviamo. Non v'è traccia dell'omogeneità richiesta quando direttamente si
raffrontino un concetto come quello di sostanza e quanto di sensibile al modo di una
sostanza dovremmo poter pensare. È dunque giustificata la domanda che al loro
riguardo Kant si pone: come è possibile l'applicazione della categoria ai fenomeni? Per
rispondere a questa domanda Kant introduce a una nozione di “schema”.
14/11/11 – La “rappresentazione analitica” che Kant ci offre del regime disciplinare
delle nostre esperienze (estetica, analitica dei concetti e analitica dei principi), una
rappresentazione che lo assume come sempre operante, si dimostra incapace di dare conto di
una costituzione unitaria dei dispositivi operativi in questione, e della sua compatibilità con
una prospettiva trasversale a ciascuno dei tre livelli considerati (concetti puri, concetti
empirici, concetti geometrici-aritmetici); al contrario, un simile ruolo pare assolto dal
capitolo sullo schematismo trascendentale, in cui si denuncia la favola di una reciproca
indipendenza del logico e del sensibile, e dai relativi schemi trascendentali
dell’immaginazione, vere e proprie forme primarie d’intelligenza, consistenti in
organizzazioni funzionali dello spazio-tempo (alla stregua di orizzonti di senso) a cui
viene affidata la capacità di produrre e riconoscere immagini, senza le quali la benché
minima apparenza (Erscheinung) non risulterebbe significativa per noi.
Kant è convinto che la possibilità delle esperienze come quelle che ci è concesso
compiere non possa ritenersi adeguatamente compresa e la loro strutturale complessità
adeguatamente rappresentata se non quando si pervenga a riconoscervi l'esito mai
interamente garantito e per sua stessa natura problematico, di una disciplina che la sua
stessa rappresentazione analitica ci obbliga a considerare articolata su tre distinti livelli
funzionali: analitica Barale definisce quella rappresentazione del regime disciplinare delle
nostre esperienze che Kant ci offre laddove (estetica trascendentale ed analitica
trascendentale dei concetti e dei principi) lo assume come un meccanismo già sempre
operante, in tal modo astenendosi ed esonerandosi dall'obbligo di porre in tutta la sua
42
radicalità la questione di una costituzione unitaria dei dispositivi che stiamo
presupponendo. Una questione che non potrà avere risposta, se non ammettendo che
qualsivoglia disciplina debba poter risultare compatibile con una prospettiva trasversale a
ciascuno dei tre livelli considerati. Ma anche volendo per il momento limitarci a quella
considerazione analitica che di una tale prospettiva trasversale ed unitaria non sta
ponendosi il problema, un regime disciplinare come quello che Kant ritiene di dover
ammettere non potrebbe ritenersi funzionale alle caratteristiche qualitative delle nostre
esperienze se a tre livelli almeno non risultasse articolabile.
Di livelli si tratta gerarchicamente ordinati in modo che primario possa esser ritenuto
l'operare di regole con cui diventa possibile riferirsi ad ogni forma di datità per noi
possibile (quali regole siffatte sono concepiti i così detti concetti puri dell'intelletto), e
conseguente il prodursi di regole di identificazione dell'uno piuttosto che dell'altro di
oggetti tra loro distinti (quali regole siffatte sono concepiti i così detti concetti empirici).
Il terzo livello sarebbe quello di regole costruite avendo riguardo non ai possibili
contenuti sensibili di un'esperienza quale che sia, ma unicamente all'orizzonte formale
spaziale e temporale entro il quale una sensibilità come la nostra si presta ad essere
esercitata. Quali regole di questo terzo tipo sono concepiti i concetti della geometria e
dell'aritmetica. Lasciando da parte le questioni che potrebbero proporsi a proposito di
questi ultimi, limitiamoci a quelle che Kant si pone a proposito degli altri due livelli
disciplinari che decisivi nel processo di formazione delle nostre conoscenze sta
riconoscendo. A proposito di entrambi si chiede in queste pagine come la capacità di
riferimento che stiamo loro attribuendo possa essere acquisita, nel primo caso, cioè nel
caso dei così detti concetti puri, da regole i cui correlati sensibili debbano essere
riconosciuti in apparenze discrete non ancora unificate e concettualmente identificate, e
nel secondo caso, nel caso dei così detti concetti empirici da regole i cui correlati sensibili
debbano essere riconosciuti in apparenze non più discrete, a proposito delle quali un
qualche processo di unificazione e concettuale identificazione già è stato avviato, il cui
status è ormai quello di oggetti indissociabili da proprie corrispondenti immagini ed alle
cui immagini oggettive pertanto le regole in questione, quelle regole di identificazione
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che i così detti concetti empirici hanno la pretesa d essere dovrebbero poterci rinviare.
In entrambi i casi (conclusione schematismo) la capacità di riferirsi a dati non omogenei
con quello che esse stesse si troverebbero altrimenti a rappresentare, è riconosciuto a
regole di intelligenza che in una dimensione unicamente logica non restano confinate e
quali espressioni di istanze interamente riconducibili ad un'autarchica natura del nostro
pensiero risultano non più interpretabili, poiché la loro funzione, l'unica che ci consente
di dare loro un'identità non illusoria, è quella di regole destinate a disciplinare una
capacità di riprodurre e riconoscere immagini a cui quando della sua strutturale
complessità si tenga conto, ogni nostra conoscenza può essere ricondotta e che
immaginazione, nel senso più lato del termine, si presta ad essere definita. Di regole
siffatte ci parla il capitolo di logica trascendentale dedicato al così detto schematismo dei
concetti puri, di regole che si rivelano formazioni miste dotate di una duplice natura,
perché a nulla di sensibile potrebbero essere associate se in veste sensibile non potessero
esse stesse presentarsi, e d'altra parte il loro modo di riferirsi a quanto di sensibile
evocano, non potrebbe essere quello di ordinarlo ed organizzarlo se di capacità logiche
non fossero al tempo stesso espressioni. A questa duplice natura delle formazioni che
sotto questo titolo assumono, rimandano tutti gli usi kantiani della parola schema, ed
aver chiarito che non v'è concetto, né puro né empirico, che al modo di uno schema non
si trovi ad operare, è il grande merito del capitolo di logica trascendentale a cui stiamo
riferendoci.
Suo demerito sono formulazioni di questa tesi che non rinunciano ad utilizzare le
coordinate di cui ci si era avvalsi nei capitoli precedenti per raccontarci la favola di una
reciproca indipendenza del logico e del sensibile. A questa favola apparteneva l'idea di
forme che ad una natura esclusiva della nostra sensibilità o viceversa ad una natura
esclusiva della nostra intelligenza logica apparterrebbero e che “pure”, nell'uno e
nell'altro caso venivano pertanto definite. Coordinate come queste continuano a pesare
anche laddove insostenibili si rivelano gli assunti a cui erano funzionali. Anche quando
la scoperta di una irriducibile duplicità o bidimensionalità dell'orizzonte formale entro il
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quale le nostre esperienze si sviluppano, dovrebbe comportare un radicale ripudio del
pregiudizio che pure, nel senso di una natura puramente sensibile od in alternativa
puramente logica delle loro matrici, forme e modalità del nostro operare possano essere
in un qualsiasi momento ed ad un qualsivoglia livello considerate. Questo pregiudizio
continua a gettare la propria ombra anche su una scoperta che si rivela con esso
incompatibile, poiché ne detta formulazioni ambigue e gravide di falsi problemi e
possibili fraintendimenti. E' il caso di tutte le definizioni di uno schema che
indipendentemente dalla funzione che stanno attribuendogli, non rinunciano a
presentarcelo quale modalità di esperienza e di conoscenza che altre di ordine
unicamente logico o viceversa unicamente sensibile ne starebbe presupponendo e che
come terza tra esse intermedia ed ad esse in definitiva subalterna esigerebbe pertanto di
essere pensata. A definizioni di questo tipo Kant indulge sia nel caso di quegli schemi
che ritiene di dover ammettere quali condizioni di possibilità di un'esperienza in generale
ed in quanto tale (schemi in questo senso più proprio trascendentali) sia nel caso di
schemi che empirici definisce perché modi in cui diventa possibile associare al concetto
di qualcosa contenuti immaginativi in grado di corrisponderne. Cominciamo dai primi e
dalla definizione che dà subito dopo essersi chiesto quale condizione è necessario
ammettere per poter pensare che rappresentazioni di qualcosa di sensibile in una sua
dimensione che unicamente sensibile fosse lecito supporre, rappresentazioni di questo
tipo sarebbero quelle che Kant definisce intuizioni, possano essere sussunte sotto
concetti che “puri”, cioè privi di qualunque interno rimando a qualcosa di sensibile, per
parte loro si pretendono.
La risposta è nel passo A 138, B 177, terzo capoverso: «E' chiaro che si deve dare un
terzo elemento, il quale da un lato deve essere omogeneo con la categoria e dall'altro lato
con l'apparenza sensibile che dovrebbe essere sotto di essa sussunta per rendere possibile
l'applicazione della prima alla seconda». È stato tradotto “Erscheinung” non con
“fenomeno” ma con “apparenza”. Con l'unica eccezione di Giorgio Colli tutti i
traduttori italiani di Kant rendono “Erscheiung” che letteralemnte significa “apparenza”
con “fenomeno”, senza dare conto che non tutti i significati possibili di “fenomeno”
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sono coperti da “Ersceinung”, dato che per alcuni di essi Kant usa il termine di origine
greca “Phenomenon”. In generale, se è vero che a nessun fenomeno può esser negato lo
status di qualcosa che si mostra e dunque appare e che l'uso dei due termini quali
sinonimi può esser sotto questo riguardo giustificato, è vero anche che non tutti i
fenomeni sono apparenze dello stesso tipo e che quando si abbia interesse a distinguere
tra lo status fenomenico attribuibile ad apparenze che discrete e pertanto non ancora
identificate volessimo supporre, e lo status fenomenico attribuibile ad apparenze che
unificate e concettualmente identificate e dunque al modo di oggetti veri e propri già si
presentano, quando tra questi due tipi di apparenze si voglia distinguere, diventa
opportuno per non dire necessario rinunciare a quella sinonimia limitando il nostro uso
della parola fenomeno ai fenomenici oggetti (Objekte) di un'esperienza già strutturata e
chiamando apparenze i dati discreti (Gegenstande) da cui ogni esperienza che voglia
strutturarli e strutturarsi è obbligata a partire. Una forma di intelligenza dovrebbe
trattarsi in grado di mediare tra le due che sarebbe tenuta a presupporre. Infatti «questa
rappresentazione mediatrice deve essere pura e tuttavia da un lato deve essere
intellettuale e dall'altro sensibile. Una rappresentazione di questo tipo è lo schema
trascendentale» (Ibid.).
Il passo che abbiamo letto contiene una scoperta decisiva, ma la formulazione che Kant
ne dà rischia di risultare fuorviante – e fior di filosofi, da Fichte e Heiddeger ne sono
stati fuorviati – nella misura in cui si sforza di mantenere quale sua cornice assunti non
più necessari che non possono essere fatti valere senza oscurarne la verità. Perché
continuare a pensare che la condizione d’intelligenza che scopriamo di dover ammettere
affinché diventi intellegibile la possibilità di esperienze come quelle che ci è concesso
fare, stia presupponendone altre che incapaci di assicurarci un'analoga intelligenza delle
nostre condotte si sono rivelate? Perché intestardirsi a pensare che dispositivi logici – a
proposito dei quali abbiamo imparato che il loro statuto ontologico ed epistemologico
potrebbe essere solo quello di una disciplina delle nostre esperienze non vincolata a
contenuti empirici determinati e pertanto talmente generale da obbligarci a ritenerla
funzionale non unicamente all'una piuttosto che all'altra tipologia di dati sensibili, ma alla
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possibilità stessa che qualcosa di sensibile si dia – perché pensare che simili dispositivi
siano in grado di assolvere una funzione su tale possibilità mirata (e che in null'altro
potrebbe consistere se non nel far sì che risulti in ogni caso significativa), potendola
assolverla non in ragione di ciò che essi stessi per sé stessi sono, ma solo mediando tra le
istanze di un pensiero e di una sensibilità che abbiamo presupposto interamente
autoreferenti e reciprocamente indifferenti? Se andiamo a vedere in cosa poi
effettivamente consistano quelle regole di formazione del nostro patrimonio concettuale,
di cui Kant ci mostra come in altro modo non si prestino a funzionare se non quali
trascendentali schemi dell'immaginazione, ciò che significa regole in ragione delle quali si
produce quella condizione di ogni esperienza per noi possibile che è la capacità di
produrre e riconoscere immagini, scopriamo come in null'altro consistano se non in
un'organizzazione funzionale del tempo (e dello spazio) che egli (Kant) trasforma in veri
e propri orizzonti di senso, per tutto ciò che in essi in qualunque modo si dia. Regole di
tanto capaci, come quelle che troveremmo elencate nella pagine centrali di questo
capitolo, tra A 142 - B 182 ed A 145 - B 184, sono forme di intelligenza che primarie è
difficile non ritenere e che altre non ci obbligano a presupporre quando l'obiettivo sia
dare conto di quella condizione non meno primaria di ogni esperienza per noi possibile
che è l'impossibilità di assumere apparenze quali che siano che significative non debbano
per noi risultare.
16/11/11 – La concezione dello schematismo quale “traduzione” di un dato originario
(concetti puri dell’intelletto) in immagini, incapace di considerare gli schemi trascendentali
quali forme d’intelligenza primarie (e non subordinate alle categorie, fautrici di
un’autarchica ed immutabile natura del pensiero), appare, anche alla luce dell’impossibilità
di principio di una corrispondenza tra dati eterogenei, un’ipotesi inutilmente complicata,
frutto di un’illusione ottica; così ci appare anche in virtù dell’effetto combinato della
considerazione analitica che Kant ci offre in tre livelli distinti dell’assetto formale delle
nostre conoscenze e di una rivisitazione ancora inadeguata dell’assunto cartesiano secondo
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cui un esperienza quale che sia debba poter essere riconosciuta come un “pensare in prima
persona”. Tale inadeguata rivisitazione consisterebbe da un lato nell’abbandono di una
concezione dell’Io quale sostanza pensante, quale autocoscienza reificata che in
un’esperienza in prima persona pensi e si pensi come pensante (fin qui Cartesio) e dall’altro
nella concomitante formulazione di un pensiero che quale un modus operandi
(presupposto da ogni nostra esperienza, che come tale risulta in prima persona)
obbligherebbe ciascuno di noi a pensarsi quale Io.
Dopo aver riconosciuto nei così detti schemi trascendentali regole e dunque forme di
intelligenza destinate a far sì che gli orizzonti temporali (ma anche spaziali) in cui
collochiamo le nostre esperienze risultino in ogni momento funzionali a quella modalità
di ogni esperienza per noi possibile che è la capacità di produrre e riconoscere immagini,
Barale ci aveva promesso una considerazione più ravvicinata della tipologia di regole che
stiamo ammettendo e del tipo di organizzazione funzionale delle nostre coordinate
spazio-temporali che regole di quel tipo sono in grado di determinare. Profitteremo a
tale scopo dell'elenco che Kant ci fornisce, premettendo che quell'elenco è per Kant
esaustivo, mentre per chi come noi non è più disposto ad ammettere che ogni disciplina
delle nostre esperienze debba risultare compatibile da un lato con un'inderogabile natura
del nostro pensiero e dall'altro con una non meno inderogabile natura della nostra
sensibilità e degli orizzonti formali che ogni suo esercizio starebbe presupponendo,
quell'elenco può avere solo un valore indicativo. Dunque, nei sette capoversi successivi
(A 142 / B 182 – A 145 / B 184) Kant parla di otto schemi (di contro alle 12 categorie)
il primo dei quali è ritenuto capace di tradurre in immagini le tre categorie della quantità,
il secondo le tre categorie della qualità (sei categorie con 2 soli schemi); il terzo, il quarto
e il quinto le tre così dette categorie della relazione; infine il sesto, il settimo e l'ottavo le
tre così dette categorie della modalità.
Prima di entrare nel dettaglio è bene sottolineare come l'impresa che Kant sta
teorizzando e che “traduzione” stiamo definendo, presupponga tre momenti distinti, il
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primo dei quali corrisponderebbe ad un dato che stiamo supponendo originario, il
secondo ad un codice che dovremmo ritenere impegnato nel tradurlo, il terzo ad una
versione di quel dato originario che sua traduzione in un linguaggio diverso dovremmo
poter considerare. Nella sequenza che l'analitica kantiana sta privilegiando, originarie
potremmo considerare solo quelle forme di intelligenza che sarebbe possibile
riconoscere in un sistema di presunti concetti puri dell'intelletto, mentre ad esse
subalterne, perché destinate unicamente a tradurle, dovremmo considerare quelle, i così
detti schemi, che siamo arrivati a riconoscere come l'unico modo per noi possibile di
rendere intellegibili i dati sensibili di un'esperienza quale che sia. Per quanto riguarda poi
l'esito di questo presunto lavoro di traduzione, ossia immagini la cui presunzione di poter
valere quali forme appropriate di intelligenza dovrebbe risultare alla fine legittimata, va
precisato che il criterio di riuscita del lavoro di traduzione che alla loro legittimazione
dovrebbe portare, mai potrebbe esserci dato da una corrispondenza diretta tra i concetti
da cui supponiamo di dover partire (i concetti puri dell'intelletto) e le immagini che loro
versioni in un linguaggio diverso, non più logico ma iconico, ci riteniamo autorizzati a
considerare. Una corrispondenza tra dati eterogenei è in linea di principio impossibile. Il
criterio di riuscita della traduzione che stiamo ipotizzando, potrebbe essere allora solo la
compatibilità delle immagini in cui li avremmo comunque tradotti, non con concetti che
dovremmo continuare a supporre ad ogni immagine eterogenei, ma con quelle loro
edizioni schematizzate che eterogenee non saremmo più autorizzati a considerare.
Questa tesi è inutilmente complicata [e sintomatica del fatto che non si tenga conto in
modo appropriato]6 di forme di intelligenza al proposito delle quali siamo arrivati a
concludere che sono per noi l'unico modo possibile di rendere intellegibili i dati sensibili
di un'esperienza quale che sia, quando ad una tale conclusione non ci si voglia attenere e
ci si ostini a supporre che primarie queste forme di intelligenza comunque non siano, ma
subalterne ad altre che starebbero presupponendo.
Un'altra importante considerazione preliminare sembra a Barale opportuna prima di
6 n.d.r.
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gettare uno sguardo più ravvicinato su forme d’intelligenza che primarie alla fine
dovranno poter risultare, ma che primarie stentiamo ancora a riconoscere. La sequenza
che Kant ha stabilito, quando ha ritenuto che rappresentazione adeguata della struttura
disciplinare delle nostre esperienze possa ritenersi quella che la riconosce articolata su tre
distinti livelli funzionali, gerarchicamente ordinati in modo da prospettarci come
originarie forme d’intelligenza riconducibili direttamente ed interamente ad un'autarchica
ed immutabile natura dell'umano pensiero, con la conseguenza che sussidiarie e
subalterne dovremmo considerare quelle che nella nostra condizione di enti operanti in
un tempo ed in uno spazio stanno tenendo conto, e più subalterne ancora quelle che in
immagini scopriamo di aver tradotto; questa è una sequenza che nasce da un'illusione
ottica. Più esattamente dall'effetto combinato di una considerazione della struttura in
questione che lo stesso Kant definisce “analitica”, e di una rivisitazione ancora
inadeguata dell'assunto cartesiano secondo cui un'esperienza, che umana sia, deve poter
essere riconosciuta come un pensare in prima persona.
La tesi che Barale intende far valere anche rispetto alle contemporanee filosofie della
mente, secondo cui la propria esperienza dovrebbe poter essere riconosciuta come un
pensare in prima persona, era in Cartesio connessa e solidale con un'idea della mente
umana quale sostanza pensante. Ad un’idea come questa Kant è convinto di dover
rinunciare: sarebbe infatti incompatibile col suo esplicito rifiuto delle implicazioni
dualistiche che comporta e con un orientamento critico che lo ha portato a riconoscere
nella categoria di sostanza, così come in ogni altra, una modalità di unificazione di un
molteplice come tale dato che proprio per questo, solo nella rappresentazione di dati
come quelli sensibili che a tale caratteristica rispondono, può trovare un legittimo
impiego conoscitivo. Ma abbandonata l'idea che protagonista delle umane esperienze sia
una realtà la cui caratteristica essenziale sarebbe quella di non poter essere se non
pensandosi come pensante, di una realtà dunque identificabile con quella non di una
coscienza ma di un'autocoscienza reificata, concepita come qualcosa di per sé sussistente
e per sé consistente, e volendo tuttavia salvare l'assunto che esperienze condotte in prima
persona, le nostre debbano non di meno poter risultare, si poneva a Kant il problema
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(ma si pone anche oggi) di dare ad un tale assunto una legittimazione meno
compromettente sotto il profilo ontologico ma non meno cogente sotto un profilo
logico.
La risposta di Kant si rivelerà alla fine molto più profonda ed articolata di quanto ancora
non appaia, ma non si vede più che la sua prima idea sia stata quella di ancorare la
possibilità di esperienze in prima persona all'identità non di un io che in esse pensa e si
pensa, ma a quella di un pensiero che lo pensa. Se prendiamo per buona la nozione di
Io-penso come egli stesso la propone nel contesto di una deduzione, cioè di un tentativo
di legittimazione della così detta deduzione trascendentale delle categorie, a null'altro
mirata se non a mostrare che la validità ontologica delle nostre esperienze può ritenersi
sufficientemente garantita da loro fondamenti di ordine unicamente logico, scopriamo
che quella condizione di esperienza che non rinuncia a chiamare Io, l'Io della così detta
appercezione trascendentale, non è più per lui una realtà di cui sia lecito pensare che per
sé sussista ed in qualcosa di inalienabile consista, ma un modus operandi che una presunta
natura, essa sì inalienabile, del nostro pensiero ci obbliga ad ammettere come funzionale
ad un suo esercizio sistematico. Ma nel momento in cui il ruolo di fondamento delle
nostre esperienze viene attribuito non più ad un Io che pensa, ma ad un pensiero che
obbligherebbe ciascuno di noi a pensarsi come Io, dal momento in cui si sostiene questa
tesi, è inevitabile che primarie possano apparirci solo forme di intelligenza che ad
un'autarchica ed inalienabile natura del nostro pensiero si prestano ad essere imputate. E'
un'illusione ottica dovuta ad una rivisitazione dell'assunto cartesiano di una realtà che
non potrebbe essere se non pensandosi come pensata, incapace di “desostanzializzarla”
se non attribuendole lo status di una mera rappresentazione. In questi termini Kant
effettivamente ne parla in B 132 e B 135, cioè nel § 16 della seconda edizione della
critica, come di una rappresentazione funzionale alla maniera di procedere di un pensiero
che la pensa e che di null'altro, se non di una propria natura, producendola, starebbe
tenendo conto.
Barale ci diceva poco fa come l'illusione ottica suscitata da questa pretesa che il nostro
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modo di fare esperienza sia interamente spiegabile e convalidabile a partire dai suoi
fondamenti di ordine unicamente logico, della cui capacità, se non di produrla quanto
meno di renderle significativa, l'illusione ottica sia stata favorita da una considerazione
dell'assetto disciplinare delle esperienze ritenute per noi possibili che “analitica” è stata
dallo steso Kant definita. Una considerazione è possibile solo assumendolo come un
meccanismo già sempre all'opera e sottraendosi pertanto all'obbligo critico di porre in
tutta la sua estensione e radicalità la questione di una costituzione unitaria dei dispositivi
formali che sta presupponendo. Una questione come questa troverà nella critica kantiana
un suo spazio proprio, solo oltre i limiti della considerazione meramente analitica dei
dispositivi formali che un modo di fare esperienza come il nostro, sempre all'origine
mediato, non può evitare di presupporre e di cui esige comunque la disponibilità oltre i
limiti di una considerazione meramente analitica di qualsivoglia dispositivo formale ci si
trovi a presupporre; cioè nell'ottica di quella vocazione “dialettica” dell'umana ragione, la
cui comprensione critica coincide con la scoperta di una prospettiva trasversale ad ogni
altra possibile e con essa di un orizzonte non meramente logico ma ontologico delle
umane esperienze entro il quale ogni loro orizzonte logico si mantiene e ci mantiene.
Torneremo su questo punto perché l'idea di mente e la concezione del linguaggio di cui
stiamo ponendo le premesse e che alla fine dovrà tutta intera emergere come Minerva
dal cranio di Giove, non sarà compiutamente intellegibile se non ammettendo che ogni
nostra esperienza sia un modo di procedere nell'orizzonte ontologico a cui stiamo
alludendo. Ma prima completiamo la nostra analisi di quelle forme d’intelligenza
certamente aprioriche, ma per loro natura “impure” (apriorico non significa
necessariamente puro) che di ogni nostra esperienza sono in ogni momento la sola
intelaiatura ammissibile e che schemi stiamo imparando a chiamare, in attesa di scoprire
che il più importante schema merita di essere definito linguaggio.
21/11/11 – Da una corretta riconsiderazione degli schemi trascendentali, emancipata
dalla residuale cornice metafisica entro cui Kant ce li presenta e in linea col primato
52
ermeneutico che la propria natura pluridimensionale e codificatoria conferisce loro, si
comprende come la loro validità non possa che risultare funzionale a precise assunzioni di
ordine ontologico ed epistemologico (nel caso dello schema di numero, una considerazione del
tempo come un continuum omogeneo, infinito ed infinitamente frazionabile, nonché la
disponibilità di pensieri, pensieri di quantità e grandezze, con le quali rendere pensabile ciò
che stiamo immaginando). Forme d’intelligenza che alla stregua di codici in senso proprio
meritano di essere pensate, prefigurano il fatto che schema per eccellenza Kant ci inviti a
riconoscere quel linguaggio di cui continuamente staremmo avvalendoci.
Proviamo a ripensare i kantiani schemi trascendentali e rileggere l'elenco che Kant ci ha
fornito in una prospettiva libera da quei residui di naturalismo metafisico che ancora
ostacolavano un pieno riconoscimento della loro funzione primaria. Proviamo a far
valere non l'assunto pregiudiziale secondo cui di forme di intelligenza potrebbe
unicamente trattarsi che altre imputabili rispettivamente ad una metafisica natura del
nostro pensiero e ad una non meno metafisica, perché formale, natura della nostra
sensibilità starebbero presupponendone, ma la conclusione a cui lo stesso Kant è
pervenuto quando ci ha obbligato ad ammettere che sono l'unico modo per noi possibile
di rendere intellegibili i dati sensibili di un'esperienza quale che sia. Proviamo a liberare
questa scoperta, quest'unica verità veramente rivoluzionaria contenuta nella ricostruzione
kantiana dei meccanismi all'opera in ogni nostro atto di conoscenza, dalla cornice più
tradizionale entro la quale il suo stesso artefice si è sforzato di mantenerla. Ammettiamo
insomma che le forme di intelligenza esemplificate nell'elenco kantiano degli schemi
trascendentali dell'immaginazione siano a tutti gli effetti primarie e chiediamoci che cosa
è lecito supporre che stiano davvero sottintendendo una volta ammesso che né ad una
metafisica natura formale dei pensieri che consentono di formulare, né ad una non meno
metafisica natura formale delle sensazioni che consentono di disciplinare, debbano
ritenersi vincolate. Come già Barale diceva, rinunciando a pensare che schemi possano
pretendersi solo forme di intelligenza compatibili da un lato con una inderogabile natura
formale del nostro pensiero, e dall'altro con un altrettanto inderogabile natura formale
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della nostra sensibilità, ci sottraiamo all'obbligo di considerare esaustivo ed acquisiamo il
diritto di considerare unicamente indicativo, l'elenco a cui Kant attiene. Di tale diritto ci
avvaliamo per concentrare l'attenzione su quelle tra le forme di intelligenza in questione
in cui più esplicito è il rimando a quanto stanno sottintendendo, ad una condizione
d'esperienza che è inevitabile considerare altrettanto primaria degli schemi che
scopriamo impegnati a garantirla e che con un dato di natura ontologica, con una
maniera d'essere di quanto di sensibile per noi è, non è improprio identificare.
Quando su loro sottintesi di ordine trascendentale ed ontologico li si voglia interrogare,
su sottintesi che coinciderebbero con una condizione d'esperienza in assenza della quale
nessuna esperienza sarebbe per noi possibile e con una maniera d'essere al di fuori della
quale niente di sensibile potrebbe essere per noi, particolarmente illuminanti si rivelano
quello schema di ogni quantità che Kant riconosce nella nozione di numero ed i tre che
ritiene di dover ammettere affinché le apparenze di cui può essere per noi questione
risultino compatibili con la possibilità di un ordine che non accidentalmente ma
costitutivamente possa riguardarle. Sono questi ultimi i tre schemi della “permanenza di
un reale del tempo quale sostrato di ogni sua possibile determinazione empirica”, di un
“succedersi necessario di enti che reali nello stesso senso, nel senso di sostrati di ogni
loro possibile determinazione empirica, sono destinati ad apparirci”, e di una
“connessione non meno necessaria tra mutamenti che in realtà tra loro diversi stiano
simultaneamente determinandosi”. Sono i tre schemi che Kant fa corrispondere alle
categorie di sostanza, causa ed azione reciproca e che quando si scelga di non
presupporre categorie, cioè regole di formazione dei nostri concetti che di una
autarchica ed inderogabile natura del nostro pensiero debbano essere ritenuti schemi, si è
tenuti ad interpretare come una disciplina da nessun'altra derivabile, destinata a far sì che
la nostra maniera di coordinarci a quanto in un tempo ed in uno spazio accade, possa
risultare funzionale sia ad una valenza ontologica che il sensibile non può non assumere
per noi, sia alla nostra necessità di produrre immagini nei cui limiti ci sia concesso
riconoscere.
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Proviamo a verificare se ad una tale interpretazione della loro essenza e della loro
funzione effettivamente si prestino schemi come quelli appena ricordati. Proviamo a
rispondere a questa domanda chiedendoci ad esempio quali condizioni stiamo
implicitamente ammettendo e contestualmente istituendo quando assumiamo che un
numero possa essere in ogni circostanza regola idonea a rappresentare una quantità quale
che sia e che il suo modo di rappresentarla sia più precisamente quello di uno schema,
cioè di una regola grazie alla quale ci troveremmo ad aver pensato quanto stiamo
immaginando e viceversa. E' proprio di uno schema infatti promuovere rappresentazioni
nelle quali un pensiero ed un'immagine coincidono. Chiediamoci allora se e come
condizioni in grado di determinare una tale situazione, un tale contesto esperienziale si
stiano davvero ammettendo ed istituendo quando si assume che regola di tal natura e di
tanto capace un numero sia. Stiamo ammettendo anzitutto che l'orizzonte temporale
delle nostre esperienze si presti ad essere rappresentato come uno sfondo unico ed
omogeneo, come un'unica estensione le cui caratteristiche sarebbero quelle di un
continuum infinito ed infinitamente frazionabile. Il rimando ad uno sfondo siffatto deve
tenersi implicito ogni qualvolta interpretiamo le quantità in gioco in una esperienza quale
che sia, secondo lo schema che ciascuna di esse identifica con un determinato numero di
altre possibili. Lo schema che stiamo considerando si rivela indissociabile da questo suo
sottinteso che di ordine ontologico merita di essere considerato, perché riguarda
qualcosa in cui il tempo in e per sé stesso consisterebbe, una maniera d'essere che
diventa inevitabile attribuirgli; ma non meno indissociabile si rivela anche da una sua
implicazione di ordine epistemologico che consiste nella disponibilità di pensieri
(pensieri di grandezze) perfettamente in linea con immagini non più vincolate ad un
precario e problematico rapporto di corrispondenza, perché di essi già in sé stesse
inclusive. Il modo in cui lo schema di numero ci consente di assumere le quantità a cui lo
applichiamo è infatti quello di renderle pensabili quali le stiamo immaginando, come
frazioni diverse perché diversamente estese di un continuum omogeneo ed infinitamente
frazionabile.
Quando stavamo ipotizzando sembra a questo punto provato: lo schema su cui stiamo
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riflettendo risponde alle caratteristiche di una regola funzionale sia ad una valenza
ontologica che qualcosa di sensibile non può non assumere per noi, sia alla nostra
necessità di produrre immagini nei cui limiti ci sia concesso riconoscerlo. Ancora però
non sappiamo quale valore regole siffatte ci autorizzano ad attribuire ai loro sottintesi di
ordine ontologico, e alle loro implicazioni di ordine epistemologico. Solo risposte a
domande come queste, di cui sia lecito pensare dell’effettiva natura delle regole in
questione stiano rendendo conto, potranno favorirne un'intelligenza compiuta. Prima di
procedere a questa ulteriore esplorazione della loro natura, Barale vorrebbe introdurre
un paio di questioni collaterali, utili ad una più corretta formulazione degli interrogativi
suscitati da quel loro modo di funzionare che pluridimensionale si sta effettivamente
rilevando. Un secolo dopo Kant un filosofo a cui dobbiamo un'importante ripresa critica
della nozione kantiana di tempo e a cui va il merito di aver meglio di ogni altro chiarito a
quale tipologia di esperienze i suoi sottintesi ontologici debbano ritenersi funzionali;
questo filosofo ha osservato che ogni quantificazione in termini numerici di ciò che in
esso si dà sottintende una rappresentazione del tempo come spazio. Il filosofo Henri
Bergson, vittima di un pregiudizio storico, inseriva questa sua scoperta in una cornice per
noi non più accettabile quando pretendeva che quella spazializzazione dell'orizzonte
temporale delle nostre esperienze, che nessuna quantificazione in termini numerici di ciò
che in esso accade può evitare di promuovere, debba essere pensata quale manipolazione
, tradimento di una sua più originaria natura. Per Kant al contrario vivere il tempo come
uno spazio che staremmo abitando sarebbe il solo modo di rapportarci ad esso che
conforme alla sua natura avremmo il diritto di considerare. Per noi, che al pregiudizio di
una irrevocabile natura del tempo e dello spazio, così come a quello di un'altrettanta
natura formale del nostro pensiero abbiamo scelto di rinunciare, quantificare in termini
numerici quanto in un tempo accade non può significare né tradirne né assecondarne
un'inderogabile essenza, ma unicamente rapportarsi ad esso, coordinarci con esso in
modo conforme a schemi che di una determinata tipologia di rapporti e non di altre, in
linea di principio non meno ammissibili, possono esserci garanti. La rinuncia ad ancorare
le forme d’intelligenza in questione ad un'inderogabile natura formale degli orizzonti
entro cui sono tenute a prodursi e chiamate ad operare, può far nascere il sospetto che
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siano condannate a risultare arbitrarie, impermeabili a qualsivoglia criterio che per tutte
debba valere e della maggiore delle quali sia pertanto impossibile misurarne legittimità ed
efficacia.
Chiedersi come a un tale sospetto di arbitrarietà possano sottrarsi forme di intelligenza
che primarie abbiamo scelto di considerare e disancorate da qualsivoglia essenza
invincolabile negli orizzonti in cui sono tenuti a prodursi e chiamate ad operare, significa
porre la prima e forse più importante tra le questioni che Barale ha definito collaterali ed
utili ad una più corretta formulazione degli interrogativi che il loro modo di funzionare
suscita e che sulla loro natura infine vertono. Alla questione che sta (sempre Barale) in
questi termini ponendo vorrebbe rispondere richiamando le ragioni che ci hanno spinto
ad assumere come primarie le forme di intelligenza riconoscibili nei così detti schemi
trascendentali dell'immaginazione. Primarie le abbiamo considerate avendo riguardo alla
loro funzione, al primato ermeneutico loro riconosciuto da una dottrina dello
schematismo che pure si è sforzata di non rompere il proprio legame con un quadro
pregiudiziale alle cui lacune stava cercando di porre rimedio. La principale tra quelle
lacune era data dall'impossibilità che un autarchico sistema di presunte forme del
pensiero e un non meno autarchico sistema o sottosistema di presunte forme della
sensibilità potessero risultare direttamente coniugabili e dalla conseguente impossibilità
di riconoscere nel sistema che le prime sarebbero venute a costituire un codice in grado
di produrre direttamente senza mediazioni una lettura delle informazioni di cui il
secondo dovesse esserci portatore. Una tale capacità di lettura può essere attribuita solo a
forme di intelligenza per loro natura pluridimensionali come quelle che Kant riconosce
nei così detti schemi trascendentali dell'immaginazione ed in ogni schema anche
empirico nei loro limiti di essi avvalendoci formulabile. Forme siffatte di intelligenza
sono le sole che codici in senso proprio meritano di essere definite, perché ad esse
soltanto può essere riconosciuta la capacità di produrre interpretazioni sistematiche nei
loro limiti coerenti di ogni forma di esistenza di cui ci sia dato di avere notizia. Una volta
ammesso che questa sia in ogni caso la loro funzione, la rinuncia a pensare che vi sia un
modo obbligato di assolverla e la consapevolezza che si presta ad essere assolta in
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maniera diversa da codici diversi, non possono impedirci di assumerla quale parametro in
base al quale la funzionalità di ciascuno e con essa la misura della sua legittimità possano
essere stabilite. Lo capiremo meglio quando nei prossimi due incontri scioglieremo gli
ultimi nodi, quando prenderemo atto in sintonia con Kant che la funzione di un codice
in senso proprio, nel senso in cui hanno la pretesa di esserlo quelle forme di intelligenze
che schemi abbiamo imparato a chiamare, può essere assolta solo da una disciplina che
ad un linguaggio possa essere riferita e che di natura linguistica essa stessa sia e
trarremmo ogni conseguenza dal fatto che schema per eccellenza Kant ci invita a
riconoscere il linguaggio di cui stiamo avvalendoci e sia pure soltanto in uno dei suoi usi
possibili.
23/11/11 – Il pluralismo epistemologico evidenziato dalla possibile validità di schemi
alternativi a quello di “numero” nel processo di quantificazione del tempo (Henri Bergson
avrebbe proposto la sua “durée”), non preclude la possibilità di identificare nel loro
esercizio, la comune capacità di promuovere e di far valere una qualche loro propria
“condizione di senso” – un orizzonte temporale quale luogo a vario titolo abitabile e
popolabile nel caso dello schema di “numero” (e coerentemente nel caso delle altre regole di
“coabitazione” possibile incarnate dai tre schemi relativi alle categorie di relazione),
nonché, nel caso della “durata”, di un orizzonte temporale quale processo di progressiva
integrazione ed armonizzazione. Far valere schemi del genere significa in ogni caso
predisporsi alla costruzione e all’esercizio di un linguaggio che W.V.O. Quine avrebbe
definito “cosale” e di cui tali schemi costituirebbero le premesse, di ordine prettamente
trascendentale, in assenza delle quali esperienze linguisticamente mediate come le nostre,
semplicemente non sarebbero per noi possibili. Si precisa infine come una simile
ontologizzazione dell’orizzonte spazio-temporale non dovrebbe mai coincidere con una sua
reificazione o entizzazione in un Essere Omnicomprensivo (come la metafisica da
Parmenide in poi non ha potuto fare a meno di perseguire), bensì con una logica
58
dell’esperienza che sappia istituire una maniera d’essere (declinabile secondo apposite
condizioni di senso) inevitabilmente assunta da qualsivoglia ente che in quell’orizzonte si
dia.
La nostra analisi degli schemi trascendentali della ragione ci ha condotto a riconoscervi
delle regole funzionali sia ad una valenza ontologica che ogni sensibile deve poter
assumere per noi, sia alla nostra necessità di produrre immagini nei cui limiti ci sia
consentito identificarli. Questa diagnosi più generale ha trovato conferma in una
considerazione ravvicinata di quanto accade ogniqualvolta. ad esempio, interpretiamo le
quantità in gioco in un'esperienza quale che sia secondo uno schema che ciascuna di esse
identifica con un determinato numero di altre possibili. Il ricorso a tale schema è
risultato infatti indissociabile da quel suo sottinteso di ordine ontologico che consiste nel
conferire all'orizzonte temporale delle nostre esperienze una maniera d'essere che gli
sarebbe propria e che principio ordinatore di ogni forma di esistenza sensibile, di ogni
forma di esistenza che di una propria costituzione temporale debba tener conto, diventa
inevitabile considerare. Di quale maniera d'essere nel nostro caso si tratti, lo abbiamo
sufficientemente chiarito, osservando che l'uso dello schema in questione è indissociabile
da un'assunzione dell'orizzonte temporale delle nostre esperienze quale continuum unico
ed uniforme, infinito ed infinitamente frazionabile. Le è tanto funzionale, da suggerirci
di considerarlo ad essa funzionale così come funzionale si rivela a quella sua implicazione
di ordine epistemologico che è il prodursi di una condizione nella quale diventa legittimo
supporre che null'altro stiamo pensando se non quanto stiamo negli stessi termini
immaginando e null'altro immaginando se non quanto stiamo negli stessi tempi
pensando. Barale ci propone di vedere più chiaro in entrambi questi eventi in cui le
forme d’intelligenza si rivelano funzionali perché di entrambi sono condizione.
Cominciamo da quello a cui ci siamo riferiti in maniera inevitabilmente equivoca
parlando di una valenza ontologica che il sensibile in quanto tale non può non assumere
per noi. Chiediamoci: di quale valenza ontologica è legittimo pensare che il sensibile sia
tenuto ad assumerla in quanto sensibile e dunque indipendentemente da ogni successiva
59
elaborazione delle informazioni che sta offrendoci? Stiamo forse riferendoci a quella che
gli è proferita da un orizzonte temporale di cui si stia ammettendo che le sue
caratteristiche ontologiche sono quelle di un continuum unico ed uniforme infinito ed
infinitamente frazionabile? Un'ipotesi come questa è destinata a cadere nel momento in
cui ammettiamo che schemi diversi sarebbero applicabili, schemi che a forme diverse di
ontologizzazione del tempo inevitabilmente porterebbero. Lo schema della durata, ad
esempio, che Bergson propone in alternativa a quello di numero, quale regola di
quantificazione di ogni realtà che in un tempo non possa evitare di prodursi, le cui
ricadute sul nostro modo di coordinarci a quanto in esso accade sono altrettanto pesanti
sotto il profilo ontologico non meno che epistemologico; non meno pesanti di quelle
provocate dallo schema alternativo del numero, ma certamente diverse, poiché le
quantità che ci obbliga a privilegiare si prestano ad essere esperite immaginate e pensate
non più quali multipli di uno stato convenzionalmente assunto come iniziale, ma solo
come gradi diversi di un processo di progressiva integrazione ed armonizzazione
(esempio delle note di una musica). Una volta ammesso questo, ammessa la pluralità
degli schemi disponibili e pertanto delle forme possibili di ontologizzazione
dell'orizzonte temporale delle nostre esperienze, improponibile può sembrare l'ipotesi di
una valenza ontologica che il sensibile in quanto tale, non unicamente possa ma debba
poter assumere. Il pluralismo epistemologico che la cultura del nostro tempo ci invita a
sposare sembra incompatibile, e di fatto lo è, con le presunzioni monistiche di ontologie
che ai significati più tradizionali della parola “essere” volessero restare fedeli.
Ma non dobbiamo demordere ed a proposito delle ontologizzazioni del tempo promosse
da schemi come quelli tra loro alternativi che la nostra conoscenza di Kant e Bergson ci
ha permesso di evocare, torniamo a chiederci con riferimento a Kant in quale modo
diventa pensabile che un qualcosa sia in un orizzonte temporale la cui maniera d'essere
fosse quella di un continuum infinito, uniforme ed infinitamente frazionabile. Poniamoci
questo interrogativo a proposito di un qualcosa di tanto generale da poter rappresentare
la condizione di un sensibile in quanto tale e diamo la sola risposta possibile: l'unica
maniera d'essere compatibile con la condizione di un ente che in un orizzonte temporale
60
come quello che stiamo ipotizzando fosse obbligato a trovar posto, in un orizzonte
temporale che al modo di un luogo, di uno spazio unico ed uniforme siamo arrivati a
pensare ed a immaginare, l'unica maniera d'essere compatibile è quella di abitarlo ed a
vario titolo popolarlo. Schemi come quelli che stiamo facendo valere sono forme di
coordinamento all'orizzonte temporale delle nostre esperienze che null'altro, se non enti
siffatti, enti dimensionati in modo da dover supporre che stiamo abitandolo ed in vario
modo popolandolo, ci predispongono a riconoscere. In comune con gli schemi
alternativi suggeriti da Bergson, con schemi che ci obbligano ad assumere quanto in un
tempo si dà, non come qualcosa che in esso abita, ma come qualcosa che in una
determinata direzione, nel senso di una progressiva sua integrazione sta percorrendolo,
in comune hanno la capacità di produrre e far valere una condizione di senso.
Ce lo conferma, nel caso di Kant, l'uso di schemi che solidali a quello di numero, nella
realizzazione di una tale impresa si rivelano. Prendiamo lo schema della permanenza di
un reale nel tempo quale sostrato di ogni sua possibile determinazione, il tipo di realtà
che ci obbliga a tematizzare è quella della res nell'accezione più tradizionale del termine.
In quella accezione che con un sostrato per l'appunto la identifica, unitario e permanente
di ogni sua possibile determinazione, di ordine sia qualitativo che quantitativo, ciascuna
delle quali ci obbliga contestualmente a pensare quale sua proprietà. Uno schema che ci
obbliga ad attribuire ad ogni realtà riconoscibile nell'orizzonte temporale delle nostre
esperienze lo status di una res, è regola di formazione delle nostre conoscenze, delle
nostre immagini e dei nostri pensieri, del tutto coerente con l'assunto che un orizzonte
come quello che stiamo ipotizzando possa essere solo abitato e popolato. E' un tale
assunto a tener sempre le fila del gioco, un assunto implicito già nell'uso di uno schema
di quantificazione che ogni quantum fa corrispondere ad un determinato numero di altri
con esso omogenei e che risulta ulteriormente esplicitato, non più che esplicitato con la
constatazione che enti ridotti a grandezze tra loro omogenee e destinati in quanto tali ad
abitarlo, in altro modo non potrebbero abitarlo se non al modo di cose occupandolo. A
considerazioni analoghe si prestano lo schema di una “successione necessaria di enti che
reali nello stesso senso, nel senso di sostrati di ogni loro possibile determinazione
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empirica siano destinati ad apparirci”, e di una “connessione non meno necessaria tra
mutamenti che in realtà con quelle caratteristiche, ma tra loro diverse, stiano
simultaneamente determinandosi”. Fermo restando l'assunto in ognuno di questi schemi
esplicitamente richiamato, circa la natura delle realtà considerate, o meglio circa lo status
ontologico degli enti tematizzati, abbiamo a che fare con regole impegnate a stabilire
quali forme di coabitazione possono essere ammesse in uno spazio che da cose soltanto
dovremmo ritenere abitato e più precisamente occupato.
E' a questo punto chiaro che far valere schemi come questi significa porre le premesse e
più esattamente le basi disciplinari di un linguaggio che di cose è destinato a parlarci e
che cosale è stato pertanto autorevolmente definito – non da un metafisico o da uno
spiritualista poco disposto a riconoscervi una modalità per noi irrinunciabile di
coordinarci a quanto attorno a noi accade, ma da un logico ed epistemologo tra i
maggiori del nostro tempo, sostenitore di una forma di naturalismo che dal
riconoscimento dell'importanza di un tipo di linguaggio come quello che cosale stava
definendo, non poteva né intendeva prescindere. Barale si riferisce a Willard Van Orman
Quine: a lui e ad una concezione del linguaggio che è il risultato di un lungo percorso
attraverso alcuni tra i momenti più importanti della cultura filosofico-scientifica del
novecento (Whitehead ed Łukasiewic, Tarski e Carnap sono stati tra i suoi diretti
interlocutori e maestri); ad una concezione del linguaggio che molto ci ha aiutato a
riconoscere gli inevitabili “impegni ontologici” (Quine) di linguaggi diversi ed in primis
di quei linguaggi da lui stesso definiti cosali, a cui più frequentemente ricorriamo, e che le
nostre lingue così dette naturali emblematicamente rappresentano.
Far valere schemi come quelli che Kant ha elencato, significa predisporsi, ponendo le
premesse, alla costruzione e all'uso dell'uno o dell'altro di quei linguaggi di cose (un
linguaggio di cose ha bisogno di soggetti e predicati) che “naturali” siamo tentati di
definire, ma che da quelle loro premesse non potrebbero prescindere (i linguaggi fisico-
matematici, di tipo relazionale, non prevedono strutture soggetto-predicato), da
premesse che di ordine trascendentale nell'accezione più kantiana del termine meritano
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di essere definite, perché mirate ad istituire condizioni in assenza delle quali, esperienze
come quelle che effettivamente ed ordinariamente compiamo, non sarebbero per noi
possibili; premesse che quando alla loro struttura multidimensionale, multifunzionale si
abbia riguardo, non sembrano altrimenti interpretabili se non come un codice destinato a
disciplinarle, cioè a consentirne un uso coerente con gli impegni ontologici che stanno
assumendo e con le opportunità di ordine epistemologico che stanno promuovendo. Dei
primi, ancora per qualche istante attenendoci, siamo ormai in grado di capire di quale
natura essi siano.
Dalla dottrina kantiana dello schematismo e, più direttamente dalla rappresentazione
kantiana del ruolo decisivo che in ogni processo di formazione delle nostre conoscenze
dovremmo riconoscere a quelle forme primarie di intelligenza che schemi trascendentali
dell'immaginazione ci ha insegnato a chiamare, abbiamo imparato che nessun sistema di
riferimento a quanto attorno a noi accade, linguaggio nell'accezione più lata del termine
potrebbe costituire quella forma di coordinamento metodico di cui abbiamo bisogno e
che di fatto i nostri linguaggi sono, se decisivo non si rivelasse nella sua formazione così
come in ogni suo uso disciplinato e coerente, l'assunto di una qualche ontologica identità
dell'orizzonte temporale (ma anche spaziale) entro il quale quel che può accadere accade.
Stiamo tuttavia imparando anche che lo status ontologico che l'orizzonte temporale delle
nostre esperienze viene inevitabilmente ad assumere rispetto a qualunque sistema di
riferimento che non possa evitare di riferirglisi, non può e non deve essere confuso con
quello di un ente comprensivo di ogni altro ed alla cui formazione pertanto ogni altro
concorrerebbe. Se questo potesse essere il suo status saremmo autorizzati a chiedergli di
aprirci il suo scrigno per lasciarci vedere o piuttosto prevedere tutto ciò che in una
totalità di enti possibili potrebbe pretendersi contenuto. Una tentazione come questa
neppure ci sfiora, ma questo significa che ontologizzare un orizzonte, impresa che
inevitabilmente compiamo, non significa conferirgli lo status di un ente e sia pure di
quell'ente comprensivo di ogni altro che da 2500 anni in qua, da Parmenide a certe
ontologie di impianto analitico dei nostri giorni, ogni uso metafisico della parola “essere”
63
ha preteso di evocare ed ha cercato in ogni modo di indurci a pensare.
L'ontologizzazione dell’orizzonte – si tratti del tempo, dello spazio o di altro ancora – è
un operazione che si compie secondo una logica (una logica dell'esperienza che mira ad
istituire quelle tra le sue condizioni di possibilità che un'esperienza esige in quanto tale e
per potere essere tale) che non ha più nulla a che fare con quella delle ontologie più
tradizionali, perché non ha la pretesa di conferirgli un essere, ma solo quella di
riconoscergli una maniera d'essere che condizioni di senso inevitabilmente diventa per
ogni ente che in quell'orizzonte sia.
28/11/11 – Il solo modo di pensare gli orizzonti di senso riconducibili a forme
d’intelligenza primarie (i suddetti schemi trascendentali) per una realtà organicamente
connessa con ogni altra che nel suo ambiente viva, è quello di rappresentarli come dei sistemi
di riferimento e di riconoscere loro, a prescindere dalla loro costituzione materiale, lo status
funzionale di linguaggi, sempre in grado di mediare ogni nostra esperienza già al livello
primario di accesso al dato sensibile. Tale assimilabilità a un linguaggio di ogni sistema di
riferimento riconducibile all’uso metodico di schemi, è ciò che Kant ha posto in essere
considerando la dottrina dello schematismo come parte integrante di una teoria dei segni,
secondo la quale ogni istanza di significato divenga per noi riconoscibile per mezzo di
un’“ipotiposi schematica” e risulti istituibile per mezzo di un’“ipotiposi simbolica” (la tesi
di Barale è comunque quella per cui “riconoscere” ed “istituire” spesso in Kant facciano
tutt’uno).
Kant era consapevole che gli esiti della sua impresa critica, i suoi resoconti del modo in
cui per noi si rendono disponibili forme d’intelligenza come quelle di cui disponiamo, si
sarebbero prestati a letture diverse, perché inevitabile sarebbe stato assumere per lettori
intelligenti quale chiave di una lettura complessiva, l’una piuttosto che l’altra di
acquisizioni non tutte tra loro compatibili che gli vengono prospettate.
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Egli stesso indicava le possibili direzioni di lettura sostenendo che l’una avrebbe
mantenuto le sue conclusioni in un’ottica definita “scolastica”, mentre l’altra avrebbe
consentito di ripensarle in una prospettiva “cosmopolitica”, in una prospettiva che ci
aiuta a scoprirci cittadini del mondo. La rilettura del capitolo sullo schematismo di Barale
può pretendersi una passo in questa seconda direzione, senza il quale la prospettiva
cosmopolitica che Kant ci suggerisce di privilegiare non potrebbe delinearsi. Vediamo a
quali conclusioni ci ha condotto la scelta di privilegiare come primarie, forme
d’intelligenza come quelle che Kant ha tematizzato come schemi trascendentali
dell’immaginazione e dell’intelletto (di un’immaginazione che intende e di un intelletto
che immagina).
La prima riguarda la prospettiva che ci ha consentito di acquisirli, avendoci autorizzato a
pensare che le forma d’intelligenza di cui può essere a nostro riguardo questione, siano
per loro natura tali da rinviare non alle autarchiche istanze di un pensiero per sé
sussistente e di per sé consistente, né a quelle non meno autarchiche e permanenti di una
mente conformata in modo da potersi pretendere in ogni momento sua espressione
sovrana, ma alla condizione di un organismo vivente costantemente impegnato a
riconoscere e realizzare tra le forme di esistenza per lui possibili, quelle che più
convenienti possano apparirgli con le opportunità che gli si stanno offrendo. Riferire
ogni forma d’intelligenza per noi possibile alle condizioni di un organismo vivente
significa ammettere che alle sue origini vi sia una realtà organicamente connessa a ogni
altra che nel suo spazio viva. In ciò è consistito il mutamento di prospettiva a cui ci ha
obbligato la revisione dell’opera kantiana. Una reinterpretazione non allineata alle più
ricorrenti ma non per questo arbitraria, e anzi pienamente legittima, quando si scelga di
riconoscere il valore primario di forme di intelligenza a proposito delle quali lo stesso
Kant ha dovuto ammettere che una primato di ordine ermeneutico hanno il diritto di
rivendicare.
Assumere che ogni forma d’intelligenza per noi possibile rimandi alla realtà di un
organismo vivente, e concepire quest’ultimo come una realtà organicamente connessa
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con ogni altra, che nel suo spazio si manifesta, significa ammettere una condizione che in
tutti i casi deve potersi dare, ma non ci obbliga a pensare che identico in tutti i casi e per
ogni organismo considerato debba risultare il modo in cui le è consentito di prodursi.
Sarebbe quanto meno azzardato supporre che questo, cioè il modo in cui a un
organismo vivente è consentito di rivelarsi ciò che in effetti è, possa risultare
indipendente dalle caratteristiche dell’organismo in questione. Ce lo ha confermato il
modo del tutto peculiare in cui una connessione come quella su cui ogni organismo
vivente deve poter contare, arriva a istituirsi negli enti che stiamo considerando e che più
direttamente ci interessano, perché di qualcosa che anche noi siamo e di una maniera
unicamente nostra di esserlo, lo riteniamo documentato. È questa la seconda conclusione
importante a cui ci ha condotti una reinterpretazione del resoconto kantiano basata sul
riconoscimento del valore primario di quelle forme d’intelligenza che la nostra natura
d’organismo, con tutto ciò che con il loro spazio vitale si mantiene, più direttamente
rinviano. In esse, negli schemi che le rappresentano e che quali loro condizioni di
possibilità Kant ci ha proposto di assumere abbiamo infatti riconosciuto un nostro
modo davvero inconfondibile di riferirci ai dati inevitabilmente sensibili di una
qualsivoglia esperienza per noi possibile. Un modo di riferirvisi che indiretto o mediato
già al suo livello più elementare, già al livello di un accesso primario ai dati in questione
deve essere riconosciuto, se non altro perché non può evitare di temporalizzarli e di
spazializzarli, cioè d’inscriverli in un orizzonte di cui siano partecipi e che non gli è
consentito tematizzare se non facendo valere sottointesi ontologici ed epistemologici che
consistono nel conferirgli una qualche maniera d’essere e nell’istituire una condizione
nella quale pensieri e immagini possano pretendersi versioni diverse di forme unitarie
d’intelligenza a cui entrambi rinvierebbero.
Abbiamo imparato come da un tale modo peculiare di riferirsi ai dati di ogni esperienza
per noi possibile non possa prescindere, il nostro modo di mantenerci ad essi
organicamente connessi e di sistemi di riferimento che indipendentemente dalla loro
costituzione materiale (un fascio di nervi?) una funzione come questa sono tenuti ad
adempiere, è stato giocoforza pensare che a una qualche logica che li permette stiano
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rispondendo, a una logica anche in essi riconoscibile che non potrebbe pretendersi
unicamente la loro (= logica dell’esperienza). Un sistema di riferimento coincide, lo si
voglia o no, con una forma preliminare d’intelligenza, preliminare a ogni utilizzo
empirico; ammettere che da forma d’intelligenza in questo senso preliminari, nel senso
in cui può esserlo un sistema di riferimento, il nostro modo di fare esperienza non possa
prescindere, è conforme non solo allo spirito ma anche alla lettera di una dottrina
dell’apriori come quella kantiana.
A una terza conclusione importante siamo pervenuti quando ci siamo resi conto che in
un solo modo si prestano ad essere pensati coerentemente, sistemi di riferimento come
quelli che Kant fa coincidere con l’uso di una determinata tipologia di schemi, di schemi
tipologicamente definibili come trascendentali, per il valido e semplice motivo che altre
ragioni d’essere non potrebbero vantare e altra funzione rivendicare se non quella di
rendere disponibili condizioni in assenza delle quali, non sarebbero possibili esperienze
con le caratteristiche di quelle che effettivamente contiamo. In un solo modo si prestano
ad essere pensati sistemi di riferimento che forme d’intelligenza primarie, non derivabili,
fossimo tenuti a riconoscere e di cui non ci fosse possibile dar conto se non ammettendo
che non tutti altrimenti che non da un uso metodico di schemi come quelli da Kant
definiti trascendentali, di schemi dunque non utilizzabili se non facendo valere
sottointesi di natura ontologica ed epistemologica, possano nascere. Il solo modo
conforme di pensarli è quello di riconoscere loro indipendentemente dalla loro
configurazione materiale lo status funzionale di linguaggi. A questa conclusione siamo
pervenuti attraverso tre passaggi:
1) il primo è consistito nell’ammettere che un orizzonte a cui sia impossibile riferirsi
senza dover supporre che di una maniera d’essere propria e di quanto in essa può
accadere si trovi ad essere garante, è destinato a fungere da vero e proprio
orizzonte di senso.
2) Il secondo passaggio è consistito nell’ammettere che quanto in un orizzonte di
senso non può evitare di darsi, altro modo di manifestarsi non ha se non quello di
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coincidere con un proprio significato possibile.
3) Il terzo passaggio è consistito nel trarre la logica conseguenza delle due premesse
che la dottrina kantiana dello schematismo ci ha obbligato ad ammettere: tutto ciò
che con una possibilità di significato è destinato a coincidere è rappresentabile
solo da un sistema di riferimento in grado di significarlo, cioè un linguaggio.
Preme però provare a proposito di Kant, dimostrare che non stiamo ragionando alle sue
spalle, teorizzando qualcosa che egli stesso non sia arrivato a teorizzare. La tesi che più
preme potergli attribuire è quella della assimilabilità a un linguaggio del sistema di
riferimento e più in generale di ogni sistema di riferimento riconducibile all’uso metodico
di schemi, con ciò intendendo forme d’intelligenza che altra legittimazione non possano
vantare, se non quella che ricevono dal riconoscimento della funzione di ordine
trascendentale che stanno assolvendo e a proposito dei quali sia chiaro quali impegni di
ordine ontologico la loro adozione comporti e quali opportunità di ordine
epistemologico contestualmente apra. Della consapevolezza kantiana che un sistema di
riferimento con tali caratteristiche, ai cosiddetti schemi trascendentali dell’intelletto e
dell’immaginazione, non può evitare di sperare al modo di un linguaggio, sembra (a
Barale) indizio, se non prova esauriente, indizio eloquente la disponibilità a considerare la
dottrina dello schematismo come parte di una teoria dei segni. Di questa disponibilità ci
offrono precise testimonianze un appunto (probabilmente risalente ai primi anni ’80, la
Reflexionem n° 1486, p. 710 del volume XV…) e alcune pagine dell’antropologia
pragmatica (§ 38-39) che di quell’appunto possono essere considerati uno sviluppo
teoricamente importante, perché nel primo di questi testi, la riflessione verte sul nesso
tra la facoltà di schematizzare e una facoltà di designare, definita in quel contesto
“facultas characteristica”, mentre nel secondo, oggetto di riflessione è il nesso tra la
facoltà di schematizzare e una facoltà di designare definita “facultas signatrix”.
Si può essere tentati di pensare che simili denominazioni siano maniere diverse di riferirsi
a un medesimo ordine di operazioni. Ma così non è, come ci avverte il § 59 della Critica
del Giudizio, in cui nel terzo capoverso ove l’uso dei segni come semplici caratterismi è
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contrapposto a quel loro uso che consiste nel rendere possibili l’una o l’altra di due
operazioni che “ipotiposi”, “schematica” l’una, l’altra “simbolica”, vengano entrambe
definite. L’alternativa è tra un uso di segni che consiste nell’associarli a dei concetti già
formati, in tal modo utilizzandoli quali caratterismi, quasi che con caratteri, cioè con
tratti oggettivi degli oggetti a cui i concetti in questione si riferiscono, potrebbero
coincidere; e un uso che fa valere la loro capacità di associare un concetto in via di
formazione all’immagine dell’uno o dell’altro di oggetti di cui solo così diventa e può
pretendersi concetto. Va da sé che segni di cui fossimo obbligati a pensare che alla prima
soltanto di queste due funzioni stessero adempiendo, dovrebbero essere considerati
semplici strumenti di comunicazione di pensieri già formati. Va da sé anche che ritenerli
non unicamente idonei a favorire una comunicazione di forme d’intelligenza già
acquisite, che null’altro se non una loro riproduzione potrebbe pretendersi (è quanto
Kant sottolinea in un passo del secondo capoverso § 38 dell’antropologia pragmatica,
dove leggiamo che: «il carattere accompagna il concetto solo come un custode, per
riprodurlo all’occasione»), ma decisivi nel processo stesso della loro formazione,
comporta che si stia attribuendo loro una funzione che non i singoli segni, ma solo un
più complesso sistema di riferimento, di cui sia lecito ritenervi partecipi e che al modo di
uno schema (kantianamente inteso) stia funzionando, può essere in grado di adempiere.
Funzionale al modo di uno schema, vuol dire riferirsi a ciò che siamo chiamati a
rappresentare in quel modo che ci obbliga ad assumerlo in un orizzonte di senso e
pertanto come una possibilità di significato che stiamo come tale riconoscendo, se non
addirittura come tale istituendo (la tesi di Barale è che riconoscere in Kant spesso
coincide con l’istituire). Ipotiposi schematica Kant definisce l’operazione che si
limiterebbe a riconoscerla e ipotiposi simbolica, l’operazione che ci consente di istituirla.
Introduce con ciò un elemento di possibile confusione perché parlare di una ipotiposi,
cioè di un significare, che non sarebbe schematico ma simbolico, può suggerire che di
una ipotiposi, cioè di un significare possa trattarsi che in uno dei due casi contemplati,
nel caso di quella ipotiposi simbolica viene definita, non avrebbe bisogno di passare
attraverso il filtro di un linguaggio, di un sistema di riferimento che al modo di uno
schema linguistico sia in grado di funzionare.
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È un’ipotesi da respingere, la distinzione che ci propone riguarda due modi diversi di
procedere, di avvalersene all’interno di un sistema di riferimento che alle caratteristiche
funzionali e strutturali di uno schema, cioè di un linguaggio, mai dovrebbe, né potrebbe
abdicare. Di questi due modi diversi di avvalersi di uno schema, schematico Kant
definisce quello che più direttamente dipendente dalla sua natura ritiene e che logico è
contestualmente tentato di definire; simbolico invece definisce quello che analogico gli
appare.
30/11/2011 – La scoperta kantiana per cui non ci sarebbe concesso di conoscere se non
rappresentando quanto stiamo significando secondo possibilità di senso che staremmo
riconoscendo o istituendo (ipotiposi), deve essere anch’essa svincolata dal pregiudizio
logicistico/mentalistico per cui ogni nostro processo cognitivo debba poter contare sulla
disponibilità preventiva di universali (concetti puri) come tali dati. A tale pregiudizio Kant
non sembra rinunciare nemmeno quando si dimostra apertamente in conflitto con le
conclusioni della sua terza critica, ossia con la scoperta di un principio eminentemente
“riflessivo” – cioè riflettente un progetto di vita e uno stile cognitivo ad esso conforme, in
grado di promuovere una ricerca esperienziale il cui tema è quanto di universale quel
particolare si presta a significare in un orizzonte di senso che gli viene prospettato come suo
– a capo di ogni nostra condotta conoscitiva, di ogni nostro rappresentare significando, che
in un giudizio non possa fare a meno di realizzarsi. Autocoscienza e Ragione sono due
orizzonti di senso originati da un uso analogico/metaforico del medesimo linguaggio
“cosale”, in grado di promuovere oltre ad una spazializzazione del tempo, una
temporalizzazione dello spazio, strutture (sottintesi ontologici) rispettivamente
“orizzontale” e “verticale” attraverso i quali assume senso per noi quella dimensione
dell’essere nota come “divenire”. Si esplicita infine come ad una struttura verticale del
divenire, ad una riorganizzazione riflessiva delle informazioni ricavate da ciò che diviene e
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dalle forme di concettualità che ci consentono di codificarle, si pervenga assumendo che tutte
possano contare su di un centro unitario di ricezione ed elaborazione. Un tale centro nel §
16 di K.r.V. ci è presentato come Io-penso, nella duplice veste (“wircklich”, non “real”) di
una rappresentazione trasversale alle molte che le mie esperienze mi consentono e
propongono (Unità analitica dell’appercezione), e di una rappresentazione anche solo
interiore del supposto artefice della loro connessione ed unificazione (Unità sintetica
dell’appercezione).
Abbiamo scoperto di non poter rappresentare alcunché se non come una possibilità di
significato, meglio sarebbe dire di senso, che attende di essere riconosciuta, o esige di
essere istituita. Il nostro rappresentare si è rivelato pertanto un'operazione le cui
caratteristiche sono, in entrambi i casi, quelle di un significare. Al nostro modo di
arrivare a significare qualche cosa Kant si è riferito, con la sua dottrina dello
schematismo, e su di esso ritorna in quel § 59 della Critica del Giudizio, in cui l'atto del
significare è definito ipotiposi e in cui ci chiede di assumere questa parola, ipotiposi, nel
significato di “esibizione”, anche se nella prospettiva kantiana significherà qualcosa di
più. L'esibizione a cui sta pensando, e che ipotiposi sta definendo, consisterebbe nel
procurare a un concetto, che tale unicamente fosse, e come tale, come concetto allo stato
puro potesse pretendersi dato, un contenuto intuitivo ad esso adeguato o con esso
quantomeno congruente. Solo così, pensa Kant, potremmo pretendere di averlo reso
significativo. I concetti che l'esibizione di contenuti intuitivi ad essi adeguati, o con essi
congruenti, dovrebbe rendere significativi sono quelli che Kant non perde l'occasione di
definire puri, concetti puri dell'intelletto, e concetti puri della ragione. La disponibilità di
concetti siffatti, cioè di universali come tali dati, è il presupposto sia di quelle operazioni
che dovrebbero procurare loro un contenuto intuitivo adeguato (operazioni ritenute
possibili solo nel caso dei cosiddetti concetti puri dell'intelletto, e che ipotiposi di tipo
schematico vengono definite), sia di quelle operazioni che dovrebbero procurare loro un
contenuto intuitivo non più che congruente, operazioni che ipotiposi di tipo simbolico
vengono definite e di cui si pensa che a beneficiarne potrebbero essere i cosiddetti
71
concetti puri, o idee della ragione. Ma leggiamo per intero il secondo capoverso del
paragrafo in questione (§ 59, da “Ogni ipotiposi” a “non secondo il contenuto”).
Affermare come qui Kant fa che i due modi di significare considerati sono analoghi, ma
non identici, perché identica è solo la maniera di procedere, che in entrambi i casi è
quella di una ipotiposi, ma diversi nel senso di una diversa disponibilità a risultare
significativi, si rivelano i dati sensibili che in quel modo procedendo si vorrebbero
assumere e codificare. Affermare questo codificare (correlare a un concetto quali suoi
contenuti intuitivi), significa fare un'affermazione i cui sottintesi meritano di essere
rapidamente esplicitati, distinguendo tra quelli che rimandano a caratteristiche strutturali
delle operazioni che teorizzano, a caratteristiche che non potremmo disconoscer loro
senza renderle irriconoscibili e inintelligibili, da quelli che ad altro non mirano, se non a
tenere in gioco pregiudizi da cui abbiamo interesse a liberarci.
Quintessenza di tutti i pregiudizi che ancora gravano sulla dottrina kantiana del
significato e del significare, e per conseguenza di quel modo tipicamente umano di
conoscere le cui caratteristiche si sono rivelate quelle di un rappresentare possibile solo
significando, è l'idea che ogni processo cognitivo possa contare sulla disponibilità
preventiva non di sistemi di riferimento che per la loro stessa costituzione
pluridimensionale e polifunzionale alla condizione di un organismo vivente palesemente
rimanda, ma di universali che allo stato puro dovremmo ritenere dati. A un pregiudizio
come questo e alla conseguente convinzione che l'atto del significare sia un'operazione
con la quale ci limiteremmo ad esibire circoscrivendoli i possibili correlati sensibili o
contenuti intuitivi di concetti costruiti a partire da forme di concettualità già sempre date
allo stato puro, Kant si sforza di non rinunciare neppure quando è arrivato a chiarire
come proprio nell'atto del significare, e in esso soltanto congiuntamente si diano non per
diritto ereditario, ma in ragione di ciò che esso stesso è, tutte le condizioni che è
necessario ammettere affinché una forma di intelligenza quale che sia si renda per noi
disponibile.
72
Neanche allora Kant rinuncia a supporre che significando qualche cosa null'altro
staremmo facendo se non riempiendo di contenuti intuitivi ad essi adeguati, o con essi
quantomeno congruenti concetti come tali, cioè al modo di vuoti universali, già sempre
disponibili. A questo pregiudizio logicistico e mentalistico non rinuncia neppure quando
la ricostruzione che esso gli detta si rivela incompatibile non solo con il riconoscimento
della natura primaria delle forme di intelligenza che solo da un significare ciò che
significativo abbiamo fatto diventare mostrano di poter nascere, ma anche con le
conclusioni della sua terza critica riguardo al modo in cui si rendono per noi disponibili
le condizioni di un giudicare quale che sia, conclusioni che la sua teoria della conoscenza
sarebbe tenuta a far valere, anche e soprattutto nel momento in cui è obbligata ad
ammettere che in dato modo non ci è concesso conoscere se non rappresentando
quanto stiamo significando, possibilità di senso che stiamo riconoscendo e anche più
radicalmente istituendo. Resistere all'obbligo di affidare a tale scoperta le conclusioni a
cui è nel frattempo pervenuto circa le condizioni che è necessario ammettere affinché un
giudicare quale che sia diventi per noi possibile, significa per Kant entrare in conflitto
con se stesso, scoprire all'improvviso di avere sempre sostenuto che nelle forme di un
giudizio ogni condotta rilevante sotto il profilo cognitivo e dunque ogni rappresentare
significando deve potersi realizzare. Le condizioni a cui sto appellandomi coincidono
con la scoperta che la nostra Urteilskraft ha un proprio unitario principio, e che questo
non potrebbe essere se non un principio eminentemente riflessivo, come quello di
finalità. “Riflessivo”, spesso si dimentica di precisarlo, significa principio che non
potrebbe darsi se non riflettendo un progetto di vita ed uno stile cognitivo ad essa
conforme.
È una scoperta che ho menzionato solo per poter ricordare quali convinzioni ci obbliga
ad escludere. Ammettere che ogni nostro giudicare è per sua natura riflettente e che lo
statuto di quei giudizi che “determinanti” Kant definì potrebbe essere nella migliore
delle ipotesi riconosciuta solo a quelli tra tutti i giudizi possibili, che quali puri principi di
intelligenza potessero valere, equivale ad ammettere che mai la nostra esperienza
giudicante potrebbe configurarsi come un procedere dall'universale al particolare, da un
73
universale come tale dato a un particolare che quale caso in esso compreso verrebbe
determinato. Mai la nostra esperienza giudicante potrebbe procedere secondo un
procedimento siffatto, ma sempre si configura come un procedere inverso, come un
procedere dal particolare all'universale, in una ricerca il cui tema è quanto di universale
quel particolare si presta a significare in un orizzonte di senso che gli viene prospettato
come il suo. Alla luce dei risultati della sua terza critica, determinanti nel senso di una
determinazione del particolare a partire da un universale come tale dato Kant potrebbe
ritenere solo giudizi che principi di una intelligenza pura, priva di riferimenti sensibili,
potessero pretendersi. E infatti mai ha rinunciato a considerare determinanti, nel senso
appena ricordato, quei principi di intelligenza che “Grundsätze des reinen Verstandes”,
cioè principi costitutivi di forme metaempiriche di intelligenza, ha egli stesso definito.
Ma ciò solo nella migliore delle ipotesi, cioè solo quando si ammettano tutti i pregiudizi
logicistici e mentalistici che l'ipotesi di principi siffatti sottintendono.
Nella distinzione kantiana tra un significare che si configurerebbe come una ipotiposi di
tipo schematico e un significare che si configurerebbe come una ipotiposi di tipo
simbolico gioca un altro pregiudizio che rischia di oscurare la portata rivoluzionaria della
scoperta che sta maturando. Mai Kant ha rinunciato a considerare come unico linguaggio
verbale possibile quel linguaggio di cose che abbiamo visto nascere nello spazio
semantico dei cosiddetti schemi trascendentali dell'immaginazione. Unico possibile
perché l'unico ancorabile a quella struttura categoriabile che mai ha cessato di apparirgli
come una sorta di linguaggio naturale del pensiero. Questo pregiudizio gli ha impedito di
distinguere in linea di principio da un linguaggio di cose, linguaggi che alla
rappresentazione di enti in sé consistenti e per sé sussistenti non poteva ritenere
funzionali. A questa difficoltà ha ovviato ammettendo che da un uso analogico e
metaforico del medesimo linguaggio che alla rappresentazione di realtà fenomeniche
strutturate al modo di cose in ogni suo uso logico inevitabilmente conduce possano e
debbano risultare. Su due di essi, su due possibili esiti di un uso analogico di un
linguaggio di cose ha specialmente insistito, su un linguaggio che potremmo definire
dell'autocoscienza e su un linguaggio che potremmo definire della ragione.
74
Autocoscienza e ragione infatti sono i nomi tradizionali di due orizzonti di senso che
l'uso metodico di linguaggi ad essi riferibili non può evitare di istituire. In comune hanno
il fatto di riferirsi a una medesima dimensione dell'essere che ci si scopre impegnati a
pensare immaginandola, e a immaginare pensandola, quando ad una spazializzazione del
tempo non ci si limiti, ma con una temporalizzazione dello spazio la si collochi.
Spazializzazioni del tempo e temporalizzazioni dello spazio sono infatti i sottintesi
ontologici attraverso i quali acquisisce un senso quella dimensione dell'essere che
abbiamo imparato a chiamare divenire, un senso e una duplice struttura, verticale e
orizzontale, che un senso non meno duplice non può evitare di conferirgli. Struttura
verticale del divenire sto definendo una riorganizzazione in chiave riflessiva delle
informazioni che ricaviamo da ciò che diviene e delle forme di concettualità che ci
consentono di codificarle. A una loro riorganizzazione in chiave riflessiva si perviene
assumendo che tutte possano contare su un centro unitario di recezione ed elaborazione.
Il §16 della seconda edizione della KrV, ove Kant si pone il problema di una coscienza
che con l'una o l'altra rappresentazione di qualcosa di empiricamente dato non si presta a
coincidere, perché a definirla è l'interrogativo che si sta ponendo circa una propria
identità non riducibile a nessuna di quelle che può solo occasionalmente assumere, di
quella forma di coscienza si parla che abbiamo imparato a chiamare autocoscienza. Kant
ce la presenta sotto il titolo di appercezione pura e le riconosce una funzione che
trascendentale ci autorizza a ribattezzarla. Il modo in cui, fin dal primo capoverso del
paragrafo ne pone il problema non lascia dubbi circa la sua convinzione che l'unica
identità attribuibile a una coscienza che non potrei identificare se non come mia, e
parlandone quindi in prima persona, sia quella che le conferiamo riconoscendone lo
status e il valore di una rappresentazione.
«Ma questa rappresentazione, l'Io penso è un atto della spontaneità» (B132)
Qui si sta dicendo che il famoso Io penso null'altro è che una rappresentazione, e, nello
specifico, una rappresentazione spontanea, cioè non imposta dalla necessità di
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rappresentare un qualsivoglia dato che tale si voglia riconoscere. Questa tesi è ribadita
alla fine della pagina seguente (B133), dove si aggiunge che il suo status e la sua funzione
potrebbero essere solo quelli di una rappresentazione trasversale alle molte che le mie
esperienze mi consentono e mi propongono. Consiste nella rappresentazione di un loro
connettersi e unificarsi non già di un qualcosa o un qualcuno che di tale connessione ed
unificazione debba ritenersi artefice. È tuttavia, insiste Kant, una rappresentazione che
alla condizione di un qualcuno di tanto capace non può evitare di rinviare, e sia pure
soltanto come una rappresentazione interiore che sta presupponendo. All'inizio della
pagina successiva si ritiene utile precisare che la prima delle due corrisponde a quella che
Kant definisce “unità analitica dell'appercezione”, mentre la seconda corrisponde al
presupposto di una sua “unità sintetica”. Al di là o al di qua delle difficoltà non sempre
terminologiche in cui si aggroviglia la presunzione kantiana di un orizzonte unitario delle
nostre rappresentazioni e di una struttura autoreferenziale delle nostre esperienze in
grado di garantirne la costante disponibilità, non lascia dubbi sul fatto che il solo modo
in cui Kant ritiene legittimo riferirsi a queste due condizioni del nostro essere esperienza,
all'una e all'altra di queste due condizioni, che non di meno ammette come reali nel
senso proprio di quella che i tedeschi chiamano non “Realität” ma “Wirklicheit”, nel
senso cioè di qualcosa, fosse anche soltanto una semplice rappresentazione, di
effettivamente operante e incidente, e interagente, è quello di considerarle nulla più che
rappresentazioni; ma una rappresentazione non in grado di riferirsi a qualcosa di reale, se
non diventandolo essa stessa, è interpretabile solo come un costrutto linguistico che sta
avvalendosi delle capacità performative di un determinato linguaggio.
5/12/11 – Ammettere, come Kant fa, che un Io che si pensa come pensante e in tal modo
pensante si assume come orizzonte unitario di ogni sua possibile rappresentazione,
ammettere che altra realtà non abbia se non quella di una rappresentazione in grado di
riferirsi a qualcosa di reale divenendolo essa stessa (divenendo “wirklich”, ossia qualcosa di
effettivamente operante, incidente e interagente), significa interpretarlo come un costrutto
linguistico che sta avvalendosi delle capacità performative di un linguaggio. Nell’esercizio di
76
parole come “io” e “mio” è possibile rintracciare il principio di performatività per eccellenza
(in grado di rendere ogni altro atto performativo possibile) tale da concorrere all’istituzione
non solo dell’orizzonte comune di ogni rappresentazione per noi possibile, ma anche di un
orizzonte “comunitario” distinto da quello “comune” per l’impegno che comporta nei
riguardi di chiunque al modo di un Io non possa evitare di convenire. Grande merito di
Kant è l’aver messo in chiaro come un simile orizzonte comunitario venga ad istituirsi in
ossequio alle esigenze del nostro procedere ragionando, ossia a quella modalità di esperienza
che all’orizzonte di senso più ampio e di ogni altro omnicomprensivo inevitabilmente
rimanda. Ragionare significa far valere un principio di possibile coesistenza universale il cui
correlato noematico è l’idea di un tutto come tale dato e il cui correlato noetico è un progetto
che a una tale prospettiva ci vincola e che ad essa ogni altra subordina.
Rileggendo nel §16 della C.r.P. la presentazione kantiana di un orizzonte unitario delle
nostre rappresentazioni e di una struttura autoreferenziale delle nostre esperienze, che di
un orizzonte siffatto dovrebbe poter garantire la costante disponibilità, abbiamo
scoperto che il solo modo in cui Kant ritiene legittimo riferirsi all’una e all’altra di queste
due condizioni, è quello di considerarle nulla più che rappresentazioni. L’uso
dell’espressione “nulla più!” è utile per sottolineare che al di là di quelle realtà che esse
stesse sono, nulla di reale a cui stiamo rinviando è lecito ammettere.
Se dovessimo ammettere (in deroga a questa scelta di Kant) che alla realtà di un ente da
esse distinguibile stiano rinviando, ci consegneremmo ancora una volta a uno di quei
paralogismi che Kant ha riconosciuto nell’idea comunque fortunata di una sostanza
pensante e dei quali come da equivoci esiziali ci ha chiesto di rifuggire. Riconoscendo
invece che altre realtà non hanno se non quella che esse stesse per se stesse sono, siamo
comunque autorizzati a trattarle e interrogarle come qualcosa che reale nel suo modo è;
reale non nel modo o nel senso di una qualsivoglia “Realität”, cioè quel tipo di realtà che
potrebbe essere solo di una res, di un ente che potessimo supporre per sé consistente e
sussistente, ma reale nel modo e nel senso di quella “Wircklikeit”, di quella “effettualità”
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che non può essere disconosciuta a qualcosa che “wirklich”, cioè effettivamente
operante, incidente e interagente si sta rivelando.
Ammesso questo, ammesso che la condizione di un Io, che si pensa come pensante
(livello dell’autocoscienza) e che in tal modo pensante si assume quale orizzonte unitario
di ogni sua possibile rappresentazione, ammesso che altra realtà non abbia se non quella
della rappresentazione, ci siamo trovati a dover pensare che una rappresentazione non in
grado di riferirsi a qualcosa di reale se non diventandolo essa stessa, è interpretabile solo
come un costrutto linguistico che sta avvalendosi delle capacità performative di un
determinato linguaggio. Sembra necessario aprire una parentesi su quanto di dati
enunciati verbali, sulle loro capacità di autolegittimarsi, di produrre da sé la propria
verità, ci ha insegnato un grande filosofo del linguaggio, John L. Austen, prof. Oxford
(1952-60), nel suo libro intitolato “How to Do Things with Words” (1962). Vi sono
parole che hanno lo straordinario potere di far cose quando si danno. La maggior parte
delle frasi che costruiamo si limitano a dire qualcosa riguardo realtà estranee e sono
pertanto enunciati la cui verità resta da decidere e può essere decisa solo da esperienze in
grado di metterli alla prova. Enunciati di questo tipo, sono enunciati del tipo “Oggi
piove” e sono definiti da Austen “constativi” in quanto hanno la pretesa di constatare
qualcosa che a loro dire sarebbe, ma la cui realtà così come la verità dell’enunciato che le
afferma resta da stabilire.
Da questi si distinguono enunciati che non si limitano a constatare qualcosa, ma fanno
quel che dicono: e. g. “ti saluto!”, “scommetto dieci euro che domani piove”. Di tali
enunciati non ho il diritto di cercarne la verità o meno poiché tali enunciati sono azioni
che si compiono nel momento dell’enunciazione e proprio in virtù di essa. Per
sottolinearne la natura di azioni Austen li ha definiti “performativi”. Questi enunciati-
azione, queste parole che fanno, hanno il potere di modificare i dati delle realtà, nel cui
contesto agiscono, nei casi citati i rapporti con la persona che saluto e con la persona
verso cui la promessa mi impegna, producendo effetti irreversibili anzitutto per lo status
di colui che la pronuncia. (Barale ci ricorda, en passant, che saluti tipicamente mafiosi,
78
come quelli che eminenti personalità del mondo politico sono non di rado còlti – tramite
intercettazioni o testimonianze dirette – a rivolgere a non meno eminenti personalità
delle mafie nostrane, siano qualcosa in più che semplici o meri “saluti”, denotando
performativamente altrettante prove giudiziarie di appartenenza, collusione o ingerenza
col rappresentante del clan in questione). Tali enunciati fanno tutti riferimento ad “atti
verbali” il cui valore performativo consiste nelle loro capacità di modificare un contesto
comunitario dato, impegnando chi li compie nei riguardi di coloro che possono essere
considerati suoi interlocutori. Su queste basi fenomenologiche non si ha difficoltà a
riconoscere che condizione primaria dell’uso performativo della parola, sia l’esistenza di
un linguaggio condiviso, ma si è tentati di supporre anche che sua condizione non meno
essenziale, sia l’esistenza di condizioni che ci obbligano a prenderci la responsabilità di
quanto diciamo.
E’ chiaro infatti che se non ci fossero norme che ci disciplinano e istituti che ne
garantiscano il rispetto, nessuno degli impegni che parlando assumo, disconoscimenti e
riconoscimenti, potrebbe acquisire il valore performativo, l’efficacia pratica che assume
invece, nelle nostre comunità organizzate. Su queste basi si è cercato di stabilire quali
enunciati e perché proprio quelli siano destinati ad assumere il valore performativo che
siamo costretti a riconoscergli. Si è cercato di stabilirlo su un piano strettamente
linguistico, attraverso rilievi ed analisi che hanno a volta a volta puntato sul significato
speciale che alcune parole si prestano ad assumere, o sulla forma sintattica degli
enunciati. Tutti questi tentativi sono falliti nel rintracciare un qualche principio di
performatività. Gli ostacoli incontrati rimandano a una difficoltà di fondo, a una sorta di
peccato d’origine, che consiste nell’aver preso le mosse da una nozione di performatività
troppo descrittiva per dar conto dell’uso performativo a cui si prestano parole e costrutti
la cui diversità sotto un profilo unicamente linguistico risulta irriducibile; parole e
costrutti la cui disponibilità ad assumere valori performativi non può essere spiegata a
partire da loro comuni proprietà lessicali o sintattiche. Troppo restrittivo per consentirci
di risalire a una condizione fondante di ogni performatività possibile si rivela l’assunto
che performativi siano e debbano ritenersi solo atti linguistici capaci di modificare un
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contesto comunitario dato.
Al di là di essi è necessario risalire fino a quell’atto performativo per eccellenza a cui ogni
contesto comunitario dato rimanda come a una condizione preliminare, in assenza della
quale non potrebbe darsi perché è la fonte di tutte le obbligazioni su cui si regge.
Performativo per eccellenza perché fonte diretta di ogni obbligazione possibile deve
ritenersi non l’uno o l’altro di quei comportamenti verbali che lo diventano solo in e
rispetto a un contesto comunitario già dato, ma quell’unico tra tutti che ritroviamo al
fondo di ogni altro e di cui quale che sia il contesto comunitario o socio-linguistico in cui
ci siamo calati è legittimo pensare che concorra a legittimare e a mantenerne aperte le
possibilità.
L’unico tra tutti i nostri comportamenti a cui è lecito attribuire una tale capacità fondante
senza la quale nessun comportamento verbale potrebbe risultare performativo, per la
buona ragione che non si darebbe alcun sistema di obbligazioni suscettibile di essere
valido, è quel comportamento nell’uso delle parole “mio” e “Io”, il comportamento di
chi si assume quale autore dei propri atti e si impegna a riconoscerli e a far sì che
vengano riconosciuti come suoi propri. Barale sfida chiunque a sostenere che tale
comportamento non sia alla base di ogni performazione individuale e collettiva; sfida
chiunque a sostenere che in assenza di tale comportamento, potrebbe sussistere
qualunque organizzazione comunitaria (una società, uno stato), e dunque, sfida chiunque
a disconoscere il valore performativo di un comportamento che non si limiti a
modificare un contesto esistente ma si rivela decisivo nel renderlo possibile.
Merito di Kant è averlo saputo interpretare nella medesima ottica organicistica che già gli
aveva consentito di cogliere la funzione dei cosiddetti schemi trascendentali dell’
immaginazione, ossia di ogni forma d’intelligenza possibile. Se in quel caso si trattava di
attivare, in questo caso si tratta di “inscrivere” in una prospettiva più ampia di quella sin
lì ammessa un sistema di riferimento i cui requisiti essenziali si confermano l’apriorità (su
di esso, su un sistema di riferimento in grado di disciplinare e nei limiti del quale le sia
80
concesso procedere, e ogni umana condotta deve poter già sempre contare) e la
disponibilità ad adattarsi ad orizzonti di senso tra loro diversi, dalla cui istituzione una
maniera di fare esperienza come la nostra non potrebbe prescindere se non rinunciando
a nostre caratteristiche essenziali. Dirsi “Io” e pensarsi come un Io equivale a compiere
un atto performativo che concorre a istituire non solo un orizzonte comune di ogni
rappresentazione per noi possibile, ma anche un orizzonte comunitario, che da un
semplice orizzonte comune si distingue per l’impegno che comporta nei riguardi di
chiunque al modo di un Io non possa evitare di convenire.
Grande e ulteriore merito di Kant è aver chiarito che nell’economia del nostro far
esperienza quell’orizzonte che stiamo definendo comunitario non si istituisce né per
caso, né quale semplice conseguenza dell’istituirsi di un orizzonte comune, ma per una
necessità che direttamente lo riguarda, e in ossequio ancora una volta a una logica
dell’esperienza che lo richiede, affinché una sua modalità per noi irrinunciabile non si
trovi svuotata di ogni significato, privata di ogni possibile riferimento. Di quale modalità
di esperienza si tratti Kant lo dice in quella parte della sua indagine critica (prima
indagine critica) dedicata alla ragione nel senso più stretto possibile. Nella dialettica
trascendentale chiarisce quale tra i modi di condurre le nostre esperienze che si sono
rivelati per noi irriducibili e a proposito dei quali ci ha aiutato a capire quali orizzonti di
senso offrano loro i riferimenti ontologici di cui hanno bisogno, quale tra essi esiga un
riferimento costante a un orizzonte di senso che non potrebbe essere unicamente quello
che abbiamo visto nascere dalla spazializzazione di orizzonti temporali comunque
circoscritti, come quelli in cui qualcosa diventa per noi percepibile; nè potrebbe
coincidere con quello di una rappresentazione che consente a un ipotetico Io di fungere
da orizzonte comune di ogni sua possibile rappresentazione.
La modalità di esperienza che a un orizzonte di senso più ampio e di ogni altro
comprensivo inevitabilmente rimanda, è quella che si rende riconoscibile nel nostro
procedere ragionando. Ragionare significa far valere un principio di possibile coesistenza
universale il cui “correlato noematico” (Husserl), cioè la cui interna condizione di senso
81
è l’idea di un tutto come tale dato e il cui “correlato noetico” (il cui versante soggettivo)
è un progetto che a una tale prospettiva ci vincola e che ad essa ogni altra subordina.
(Barale rimanda alle pagine 19-38 del suo saggio Sui fondamenti ontologici ed epistemologici di
una filosofia in senso cosmopolitico, in «Studi kantiani» XXII, 2009). (Cfr. anche per quel che
riguarda la natura dell’Io il saggio di Sandro Nannini Kant e le scienze cognitive sulla natura
dell’’io, in Critica della ragione e forme dell’esperienza, ETS, 2011).
7/12/11 – A partire dalla metà del XX secolo, alcune filosofie analitiche di stampo
comportamentista (Ryle, Quine) hanno avuto il gran merito di denunciare l’inadeguatezza
del tradizionale linguaggio metafisico nella trattazione dei fenomeni mentali, trattazione che
tuttavia finiva con l’essere delegata alle montanti scienze cognitive capaci di formulare teorie
che si sarebbero rivelate più o meno appropriate: la “type identity theory” (nella sua
versione “eliminativista” o “riduzionista”), il “token physicalism”. Quest’ultimo
“fisicalismo delle occorrenze” è stato così definito e ripreso quale punto di partenza da Jerry
Fodor nel 1975 (nel suo libro The Language of Thought) per lo sviluppo della
propria teoria definita “funzionalismo rappresental-computazionale”. Tale approccio
riconosceva alla mente lo status di una struttura operativa (alla stregua di un computer) i
cui stati funzionali, se attivati da stimoli esterni, sarebbero in grado di interagire e di
risultare significativi attraverso le operazioni sintattiche (calcoli logici) tipiche di un
linguaggio di base di cui saremmo naturalmente dotati. Tra i meriti che la cultura di quegli
anni, incline a un certo “buonismo ontologico” e al naturalismo epistemologico, ha saputo
riconoscergli, annoveriamo l’aver saputo stabilire condizioni d’identificazione dell’evento
mentale in grado di garantirne l’autonomia, e la riduzione dei fenomeni supposti mentali a
calcoli logici pervenendo a una completa naturalizzazione del dispositivo che li compie. Tra
i demeriti oggi ben più consistenti di una simile prospettiva, annoveriamo l’innegabile
disumanizzazione e decontestualizzazione esperienziale dell’ambiente in cui una mente si
troverebbe ad agire, nonché l’incapacità di dare conto della dimensione soggettiva della
82
coscienza.
Il libro del 1979 di Churchland ha segnato una svolta in una stagione culturale al cui
interno esige di essere pensato e che ci obbliga pertanto a richiamare nelle sue
coordinate principali. È una stagione iniziata intorno agli anni ’50 quando gli indirizzi
filosofici dominanti, filosofie di indirizzo analitico al cui approccio logico-linguistico va
riconosciuto il merito di aver sgretolato le pregiudiziali metafisiche implicite nei
tradizionali linguaggi mentalistici della psicologia (vedi gli effetti dirompenti del libro The
Concept of Mind, G. Ryle, 1949, di scuola comportamentista, critico del dualismo
cartesiano dove la res cogitans agirebbe come “the ghost in the machine”), hanno
consegnato alle scienze con cui intendevano lavorare il compito di rispondere alla grossa
questione che il buon esito della loro impresa critica lasciava aperto.
Avendo concluso (Ryle e compagnia bella) che di null’altro uno studio scientifico degli
eventi un tempo definiti mentali, ci autorizza a parlare se non di determinati
comportamenti e di disposizioni suscettibili di caratterizzarli, e avendo con ciò
scongiurato ogni riferimento a entità metafisiche (quali intelletto, volontà,
immaginazione, Io…), ad agenti segreti annidati nell’invisibile teatro della mente,
sollevavano e lasciavano aperto il problema delle vere cause delle disposizioni e
proprietà, che stavano constatando. Di fronte a ipotesi ben controllabili e orientate a
identificare il proprio compito con quello di una semplice analisi logica, si dichiaravano
incompetenti a rispondere. Da quel momento in poi demandavano ogni risposta alle
scienze naturali, di cui si scoprivano ancella e con le quali si sforzavano di stabilire un
rapporto di continuità (W.V.O.Quine: teorico più coerente di una tale ristrutturazione
secolare del rapporto di subordinazione e continuità tra filosofia e scienza).
Nell’arco di un trentennio, sino a metà degli anni ’80 le scienze deputate a rispondere alle
domande circa le vere cause dei nostri comportamenti intelligenti e volontari hanno
elaborato e sperimentato varie ipotesi. Le prime in ordine cronologico, risalenti agli anni
’50 ma entrate in crisi già nei primi anni ’60, sono riconducibili alla tesi che tra mente e
83
cervello, tra eventi un tempo ritenuti immateriali ed eventi di natura fisiologica la cui
materialità mai è stata messa in discussione, vi sia una identità totale (definita non a caso
“type identity theory”). Questa tesi, individuante un medesimo tipo di realtà la quale non
possa avere altra struttura se non quella dei processi cerebrali con cui si realizza, si è fin
dall’inizio scontrata con obiezioni e difficoltà molto serie sia nella sua versione cosiddetta
“eliminativista”, sia nella sua versione cosiddetta “riduzionista”. I cosiddetti eliminativisti
erano i più “cattivi” perché pensavano fosse sbagliato parlare di eventi mentali: essi
predicavano l’abbandono dell’intero linguaggio psicologico-metafisico a favore del
linguaggio scientifico. I riduzionisti, più “bonaccioni”, sostenevano che fosse necessario
tradurre l’antico linguaggio in un altro di tipo scientifico che spiegasse anche il primo,
illuminando sui relativi stati fisici e fisiologici di cui anche il linguaggio mentale parla
(eviteremo qui di interrogare le effettive possibilità di una simile “traduzione”).
Questa seconda prospettiva (la riduzionista) era più moderata ma anche più debole della
prima (come sostiene Quine: tradurre significa costruire un altro linguaggio e pensare
cose diverse). La type identity theory entrò definitivamente in crisi negli anni ’60, colpita
a morte da una obiezione formulata da un filosofo per la prima volta, ancora oggi
presente e influente nel panorama internazionale: il professore, oggi emerito ad Harvard,
Hilary Putnam. La sua obiezione nasceva dalla costatazione che uno stesso tipo
psicologico può essere realizzato (= implementato) da tipi fisici diversi; pensare il
contrario, pensare ad esempio che il tipo psicologico “dolore” coincida col tipo
neurologico “attivazione del delle fibre C” (come si sosteneva all’epoca), ci
costringerebbe a concludere che un vivente di qualsiasi specie, solo nel caso in cui sia
dotato di fibre C e queste vengano attivate, esso possa provare dolore. Ma poiché nel
sistema fisiologico del gatto non sono presenti fibre C, dovremmo allora concludere che
i gatti non provano dolore. La falsità di questa conclusione comporta anche la falsità
della premessa che ci obbliga ad ammettere anche la falsità della type identity theory,
secondo cui mente e cervello sarebbero due maniere diverse di riferirsi alla stessa cosa.
L’idea di una identità di tipo, lasciò allora il posto a un tipo di identità che venne detta
84
“di occorrenza” e che contemplava tra mente e cervello un rapporto non rigido, non
deterministico, che venne detto di “sopravvenienza”: ci si limitò a pensare che mai uno
stato mentale potrebbe determinarsi se non in ragione o in funzione di un qualche
evento di natura fisiologica, non però necessariamente dell’uno o dell’altro, ma di uno dei
diversi possibili all’interno dell’una o dell’altra tipologia. “Fisicalismo delle occorrenze” è
stata definita questa versione di una concezione materialistica del mentale, cioè di
qualsivoglia forma di intelligenza per noi possibile, indisponibile a concedere che
possano essercene di non pienamente identificabili con un qualche processo di natura
materiale, ma disposta ad ammettere che una qualche molteplicità di processi
materialmente diversi e dunque in qualche misura indipendenti dalla loro natura
materiale, una medesima forma d’intelligenza si presenti ad essere realizzata.
A definire fisicalismo delle occorrenze (“token physicalism”) una forma di materialismo
come questa è stato nelle prime 25 pagine del suo libro più celebre, apparso nel 1975
(sotto il titolo di “The Language of Thought”) Jerry Fodor, cioè l’artefice principale di
un modello di spiegazione dei nostri modelli cognitivi, che con l’identità non di tipo ma
di occorrenza fra mente e cervello non soltanto è compatibile, ma solidale al punto da
assumerla quale proprio punto di partenza e da costruirle attorno una cornice teorica
con cui si proponeva di renderla compiutamente intelligibile: la cornice è quella di un
concezione del mentale che “funzionalistica” sarebbe stata chiamata.
Fodor nel ’75 ne pone le basi e ne fissa i paletti offrendocene al tempo stesso una
versione che classica viene oggi considerata. Per distinguerla da ogni altra è definita
rappresental-computazionale, con esplicito riferimento alle due funzioni (rappresentare e
computare) che Fodor ritiene di poter attribuire e con cui funzionalisticamente identifica
il dispositivo (nel senso di regime) corporeo che chiama mente. Da una rapida
esposizione non possiamo prescindere non solo perché la sua rappresentazione del
mentale fu dominante tra i ’70 e gli ’80 e in versione aggiornata continua ad esercitare la
propria influenza anche oggi, ma anche perché è il riferimento più diretto delle
argomentazioni polemiche con cui nel suo libro del ’79 Paul Churchland apre la strada a
85
quella diversa spiegazione dei processi cognitivi, che è oggi la più gettonata (il
“connessionismo”).
Del modello rappresental-computazionale ci limiteremo a ricordate che il suo modo di
salvare l’idea di mente è quello di considerarla niente di più, ma anche niente di meno,
che un insieme di stati funzionali. Pensarla come un insieme di stati funzionali significa
riconoscere alla mente lo status di una struttura operativa, più esattamente di un modo
strutturalmente definito in cui il nostro cervello si troverebbe a operare quando viene
chiamato in causa, obbligato a interagire con il mondo circostante. La sua
determinatezza discenderebbe dal fatto che al pari della componente meccanica di un
computer il nostro cervello ci metterebbe a disposizione nelle e con le configurazioni
che assume ogniqualvolta un qualche stimolo lo raggiunge e lo “accende”, ci metterebbe
a disposizione una sorta di linguaggio di base, suscettibile di essere attivato in ragione e
nei limiti di potenzialità sintattiche che dovremmo considerare in esso implicite e dunque
con esso una volta per tutte date.
Sul modo di concepire questo presunto linguaggio di base si registrano tra i sostenitori
della teoria che li prevede, divergenze di non poco conto che riguardano soprattutto la
possibilità di riconoscergli potenzialità che non siano di tipo unicamente sintattico, ma
già in origine anche semantiche; non tutti i funzionalisti ammettono che la base
semantica delle forme di intelligenza possibili sia altrettanto originaria di quella sintattica.
Non tutti concordano con Fodor secondo cui il valore semantico di rappresentazioni
mentali identificabili con le diverse configurazioni possibili del nostro cervello sarebbe
quella di possibili predicati verbali e nominali. Si tratta di divergenze interessanti per i
problemi che aprono ma ai fini del nostro discorso meno importanti delle tesi su cui si
registra la più ampia convergenza e che possono pertanto valere quali tratti significativi
del modello fodoriano di spiegazione. Le tesi sono principalmente tre:
1) La tesi secondo cui l’orizzonte originario di questo sistema di rappresentazioni
virtuali sarebbe dato dalle configurazioni che il nostro cervello assume in risposta
86
agli stimoli di origine esterna e di natura sensibile.
2) La tesi secondo cui questa base di partenza dei nostri processi cognitivi
meriterebbe di essere equiparata a una ragnatela di rappresentazioni tanto primarie
da non poter essere pensate se non come mentali e non di meno strutturate al
modo di un linguaggio perché dotato di un proprio regime sintattico e di una
propria valenza simbolica; di una sempre preterintenzionale predisposizione a
“stare per…” e a “riferirsi a…” che a nessun tipo di rappresentazione per quanto
virtuale può essere disconosciuta quando a titolo di rappresentazione la si
ammetta.
3) La tesi infine secondo cui quelle rappresentazioni virtuali nel cui orizzonte
conosciamo diventerebbero attuali e per così dire libererebbero i significati di cui
sono le virtuali depositarie ogni qual volta sono chiamate ad assumere quella
funzione rappresentativa che può essere la loro e questo avverrebbe attraverso
operazioni di tipo puramente sintattico, calcoli logici che costituirebbero l’essenza,
l’unica essenza possibile di quella organizzazione funzionale del cervello che
chiamiamo mente.
Concepire la mente come un sistema in grado di produrre operazioni senza le quali un
cervello non sarebbe quella struttura organizzata che invece in ogni momento è significa
stabilire condizioni di identificazione dell’evento mentale che ne garantiscano
l’autonomia. Nello stesso tempo assumere che le operazioni in questione null’altro siano
se non calcoli le cui regole fondamentali sarebbero date una volta per tutte significa
porre le condizioni di una completa naturalizzazione del dispositivo che le compie.
Questo spiega la popolarità di cui ha potuto godere un modello di spiegazione dei nostri
processi cognitivi fedele all’assunto che qualcosa come una mente in fin dei conti si dia,
ma convinto altresì di poter provare che in null’altro consista se non in un insieme di
stati funzionali del corpo stesso. La popolarità che ha potuto godere in una cultura
interessata a entrambi gli obbiettivi che sembrava in grado di raggiungere e fortemente
tentata da forme di “buonismo ontologico” e di naturalismo epistemologico compatibili
con l’ipotesi di un orizzonte non unicamente materiale delle forme di esistenza materiali
87
con cui veniamo a coincidere.
Ma il modello proposto da Fodor e da quanti hanno proceduto in tale direzione era e
resta segnato da una debolezza di fondo che non ha favorito il progressivo abbandono
(sul terreno scientifico). A indebolirlo e a impedire spiegazioni all’altezza della loro
fenomenologica complessità è stata ed è l’innegabile disumanizzazione dei contesti
esperenziali in cui li colloca, una disumanizzazione condotta fino al punto di metterli in
fuorigioco (non farebbe differenza parlare di un uomo o di un computer). Può essere
testimonianza di tale disumanizzazione l’analogia altrimenti improponibile, proponibile
solo quando da contesti propriamente umani si scelga di prescindere, tra mente e
computer, tra l’insieme degli stati funzionali con cui una mente umana viene identificata
e quale regime disciplinare di processi corporei saremmo tenuti a concepire, e il
programma che serve ad attivare il linguaggio di base di un PC.
Ma una testimonianza ben più provante della rinuncia a collocare i processi cognitivi in
un contesto esperienziale che propriamente umano possa ritenersi ci viene dalle
difficoltà che ogni spiegazione in chiave materialistico-funzionalistica dei nostri processi
cognitivi incontra nell’affrontare alcune sfide di ordine non unicamente filosofico ma
scientifico. Barale ne ricorda essenzialmente tre:
1) la sfida posta da quelle ricerche neurobiologiche (cfr. A.R. Damasio, L’errore di
Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, 1995) che hanno riconosciuto il
ruolo decisivo assolto nei nostri processi cognitivi da emozioni che nessuna
rappresentazione e computazione non riferibile a un contesto in cui la loro
possibilità sia in origine contemplata potrebbe da sola spiegare. Le emozioni che
in quei pazienti venivano a mancare era imputabile a una decontestualizzazione
esperienziale (non a mancanti funzionalità).
2) La seconda sfida che non solo il paradigma naturalistico ma che ogni
naturalizzazione del mentale si trova ad affrontare (anche quella connessionista)
quando le si chiede di dar conto della dimensione soggettiva della coscienza.
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3) La sfida infine che una concezione del mondo quale semplice oggetto delle
rappresentazioni che lo riguardano è costretta a sopportare ogniqualvolta emerga
la complessità strutturale che ad esso ci connettono e si debba ammettere che
quanto stiamo rappresentandoci è anzitutto una realtà di cui siamo partecipi.
Proprio da qui ha preso le mosse la teoria connessionista.
12/12/11 – Paul M. Churchland (Realism Scientific and the Plasticity of the
Mind, 1979): il nostro linguaggio del senso comune e le modalità tramite cui lo impariamo
costituiscono quella cornice concettuale entro la quale risultano inscritte tutte le nostre
percezione, le quali, consistendo in nient’altro che in uno sfruttamento sistematico di tali
convenzioni linguistiche (di cui si auspica il superamento a vantaggio delle più potenti teorie
fisico-chimiche moderne, in grado di avvalersi di forme di legalità immanenti non solo al
dato sensibile, ma anche alla costituzione del soggetto percipiente), fanno sì che i fondamenti
ontologici della nostra capacità percettiva assumano la fragilità e l’inconsistenza di un
“sentito dire”. Tale teoreticità immanente ai nostri giudizi percettivi, costruiti sulla base dei
comuni predicati osservativi, è pertanto da intendersi in senso negativo, come sintomo della
loro astrattezza e del deficit di radicamento ontologico, proprio di teorie costruite con mezzi
e materiali estranei alla natura di quanto teorizzano. Le nostre percezioni costituirebbero
quindi un’“ontologia familiare /parrocchiale del senso comune” la cui sola ragion d’essere
sarebbe stata quella di favorire forme abbreviate e superficiali di comunicazione, ma il cui
risultato ben più rovinoso sarebbe stato quello di dare adito all’ipotesi di una realtà distinta
da quello che pretendono di rappresentare e la cui essenza andrebbe riconosciuta nella
capacità di rappresentarle, ossia all’ipotesi di una mente come una realtà immateriale e
fittizia. Critica all’ISA (Ideal Sentential Automatism).
Il saggio di Churchland è stato scritto in un momento (nel 1979) in cui lo scenario della
filosofia della mente e della scienza cognitiva registrava il trionfo di una forma di
89
materialismo almeno nelle intenzioni né riduzionista né eliminativista, che ha preso il
nome di funzionalismo; e a forme siffatte di materialismo apparentemente moderate
apertamente si oppone. Barale sta riferendosi a uno scenario sulla cui duplice valenza
filosofica e scientifica ritiene doveroso insistere per due ordini di ragioni che riguardano
il modo in cui è arrivato a delinearsi e le convinzioni con cui si è rivelato congruente e si
è pertanto prestato ad ospitare.
Al modo in cui è arrivato a delinearsi Barale ha accennato la volta scorsa quando si è
ricordato quanto decisivo nell’aprirlo e alimentarlo sia stato l’apporto critico di filosofie
analitiche, al cui approccio logico-linguistico va riconosciuto il merito di aver
smascherato i paralogismi di cui sono intessuti i linguaggi mentalistici della nostra
tradizione filosofica, gli abusi e gli equivoci implicati in ogni maniera tradizionale di
riferirsi a entità metafisiche (volontà, intelletto, coscienza, autocoscienza…), al cui
segreto operare in quel teatro invisibile che chiamiamo mente, sarebbero da imputare le
caratteristiche qualitative delle nostre condotte, disposizioni e abilità di cui troviamo
testimonianza nei nostri comportamenti. Senza l’apporto critico di filosofie in grado di
sgretolare i presupposti metafisici impliciti in linguaggi mentalistici come quelli della
nostra tradizione filosofica e di forme di psicologia, che non hanno esitato a condividerli,
uno scenario come quello in cui oggi ci muoviamo non si sarebbe aperto.
Ma nel nuovo scenario, in uno scenario che ci obbliga a chiederci in che cosa consista e
donde derivino disposizioni e abilità non più imputabili all’operare invisibile di agenti
immateriali annidati nel teatro della nostra mente, quelle filosofie di indirizzo analitico
senza il cui contributo uno scenario come questo non si sarebbe aperto, hanno
rinnovato il muoversi in prima persona. Avendo identificato il proprio compito con
quello di un’analisi logica idonea unicamente a istituirlo, si sono dovute riconoscere
incompetenti ad affrontare in maniera diretta nei termini in cui esse stesse sono arrivate
a riformulare le questioni di ordine ontologico che ci propongono come le soli possibili.
Nella loro ottica e dunque in uno scenario che alla loro ottica corrisponda, questioni
come queste sembrano riducibili a questioni di fatto, in nessun modo ancora di ordine
90
filosofico, ma unicamente di ordine scientifico. Più precisamente le risposte che
attendono non sembrano più in alcun modo dipendere da quella capacità di
legittimazione che potrebbe essere propria di una riflessione filosofica, ma unicamente
dal potere di spiegazione di una teoria scientifica.
Barale fa notare, a questo punto, che un sistema scientifico non si origina mai per
partenogenesi, bensì in concomitanza a un quadro di riflessione teorica, concentrandosi
sulle convinzioni e premesse che di ordine filosofico più che scientifico è lecito
considerare, le cui opzioni metodologiche sono inseparabili da pregiudiziali di tipo
naturalistico e empiristico7. In questa circostanza ci si limita a ricordare come tipica della
tradizione filosofica che ha contribuito a delinearne lo scenario, una premessa che la
scienza cognitiva dei nostri giorni tende ad assumere come una forma di verità acquisita
e a far valere quale unità di misura nella valutazione dei modelli teorici con cui tentano di
corroborarla. È una premessa da cui anche Churchland sceglie di partire e che richiama
già nella prime righe del capitolo in cui comincia a porre le basi della sua teoria e che non
è il primo (il quale è una sorta di introduzione) ma il secondo, dedicato alla natura delle
nostre percezioni:
«la convinzione che guida questo capitolo è che una percezione consiste in uno
sfruttamento concettuale delle informazioni contenute nei nostri stati sensoriali». Alcune
considerazioni:
A) In termini filosofici coincide con una forma di empirismo talmente radicale da
sottrarsi alle obiezioni tradizionali (che facevano tutte leva sull’introduzione di
elementi di spiegazione non riducibili).
B) La parola percezione è usata per indicare l’unica forma in cui una nostra relazione
con un qualcosa che è, può pretendersi conoscenza di ciò che esso stesso è.
C) Il modo in cui se ne parla contempla che null’altro una percezione possa
pretendersi se non quel modo di sfruttare le informazioni dei sensi che consiste
7 Un’analisi di questo tipo Barale l’ha condotta alle pagine 79-85 del saggio Sfondi e confini ontologici della
contemporanea filosofia della mente pubblicato nel primo numero del fascicolo XXIV (2006) della rivista “Nuova civiltà delle macchine”.
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nell’inscriverla in una qualche cornice concettuale e che altro parametro di merito
non potrebbe pertanto invocare se non la capacità, della cornice concettuale che
fa intervenire, di ospitare tutte e soltanto le informazioni che i sensi stanno
fornendoci.
In altre parole il solo parametro a cui possiamo legittimamente ricorrere per stabilire il
valore di quelle sole forme di conoscenza per noi possibili che chiamiamo percezioni, è
quello dell’efficacia epistemica della cornice concettuale (“conceptual framework”) in cui
diventano possibili. Appunto questo Churchland si chiede: «quanto siamo efficienti nello
sfruttare le informazioni contenute nei nostri stati sensoriali?». La risposta è che non
siamo molto efficienti in tale impresa, o piuttosto, non abbastanza quanto potremmo
esserlo. È veramente molto ampia la massa di informazioni sfruttabili contenuta nelle
nostre sensazioni a causa del nostro modo concettualmente oscurante di riferirci a noi
stessi. Si tratta continua Churchland di una “miopia rimediabile” che spiega così: «i nostri
modi correnti di sfruttamento concettuale sono radicati in misura sostanziale non nella
natura del nostro circostante ambiente percettivo, e neppure nella configurazione non
meno naturale di una nostra struttura psichica, ma piuttosto nella struttura e nei
contenuti del nostro linguaggio comune e nei processi tramite i quali ogni bambino
acquisisce tale linguaggio. […]In larga misura impariamo dagli altri a percepire il mondo
come ciascun altro lo percepisce». Se ammettiamo questo, che la nostra percezione
ordinaria delle cose dipenda in larga misura e certamente nei tratti che da ogni altra in
linea di principio la distingue, da una cornice concettuale estranea al modo in cui le cose
effettivamente si danno perché imputabile unicamente alle convenzioni di un linguaggio
che stiamo imparando a condividere, ci troviamo ad aver ammesso che i suoi fondamenti
ontologici abbiano la fragilità per non dire l’inconsistenza di un “sentito dire”, e non
possiamo sottrarci all’obbligo di chiederci se non si dia la possibilità di cornici
concettuali diverse e ontologicamente più solide di quella che stiamo facendo valere.
In questa direzione, sposando questa ipotesi, si muove Churchland: «ma se le cose
stanno così allora avremmo potuto imparare a concepire-percepire il mondo in maniera
92
diversa. Dopo tutto la cornice vigente non è che l’ultimo stadio di un processo storico-
culturale. È dunque auspicabile una cornice più efficacemente concepente-percepente».
Il modo di Churchland prevede due tempi distinti: nel primo cerca di mostrare che
cornici concettuali diverse sono ipotizzabili anche ammettendo che il nostro modo di
percepire, di sfruttare i dati sensibili a nostra disposizione debba continuare ad essere
quello ordinario, cioè dipendere da cornici concettuali convenzionalmente stabilite su
basi linguistiche. In un secondo tempo distingue dalle cornici di cui ha denunciato
l’inconsistenza (convenzionalmente e linguisticamente concepita), un modo di percepire,
di sfruttare i dati sensibili a cui andrebbe riconosciuto il merito di non dover
presupporre cornici concettuali estranee alla loro natura, alla natura dei dati sensibili;
perché la sola cornice di cui si avvale è data da forme di legalità immanenti in essa, in
una natura che dovremmo riconoscere comune a ogni realtà sensibile e pertanto a quella
da cui le informazioni necessarie al prodursi di determinati stati sensoriali e percettivi
provengano, non meno che a quelle che le stanno ricevendo. Una conclusione come
questa è prevista sin dal terzo capoverso del secondo capitolo, in cui si dice che quando
l’obbiettivo sia un sistema di riferimento non vincolato alla convenzionalità di un
linguaggio verbale e non condannato pertanto a risultare in linea di principio estraneo
alla natura dei dati a cui si riferisce, la candidatura a cui diviene più naturale pensare è
quella proposta dalle moderne teorie fisiche: «l’ovvio candidato è qui la cornice
concettuale delle moderne teorie fisico-chimiche e delle loro scienze satellite».
Dando per scontato che la cornice concettuale di queste scienze sia immensamente più
potente di ogni altra nello sfruttare le informazioni contenute nei nostri dati sensoriali e
che ineguagliabili siano le loro credenziali quando ad essere in questione sia la capacità di
offrire una rappresentazione sistematica della realtà, resta da mostrare che una cornice
concettuale come quella che ci offrono, una cornice fatta di numeri funzioni ed
equazioni, possa soddisfare l’istanza di percezioni delle realtà in gioco, che non debbano
ritenersi derivate in seconda battuta da rappresentazioni in essa possibili, simulando stati
di cose come quelli che la cornice in questione ci consente di teorizzare, ma che con
un’esperienza diretta di ciò che in quei termini viene pensato e dunque con verità alla
93
natura stessa delle cose direttamente riferibili possa pretendere di coincidere.
Barale ci diceva come l’argomentazione di Churchland si sviluppi in due tempi e come
egli ritenga importante insistere in prima battuta sulla fragilità della cornice concettuale
entro la quale le nostre percezioni si mantengono. Una fragilità che si manifesta con una
incapacità strutturale di riferirle a un fondamento ultimo. Nel secondo capitolo è presa di
mira quella che potremmo definire l’importanza epistemica di quei termini che nei nostri
linguaggi verbali fungono da predicati osservativi (caldo, freddo, nero, rosso…), la loro
incapacità di garantire riferimenti univoci a quelle proprietà delle cose che di una loro
univoca natura dovrebbero darci testimonianza. Muovendo da queste constatazioni (non
nuove) si arriva più facilmente a sostenere il carattere essenzialmente “teoretico” dei
nostri giudizi percettivi , dove l’uso dell’aggettivo “teoretico” ha una connotazione
essenzialmente negativa poiché denuncia l’astrattezza, il deficit di radicamento
ontologico di teorie costruite con mezzi e materiali estranei alla natura di quanto
teorizzano.
Queste conclusioni del cap. II sono le premesse per sostenere nel terzo, dove si discute il
ruolo delle percezioni nell’evoluzione dell’umana capacità di intendere, che le nostre
percezioni altro status non meritano di vedersi riconosciuto se non quello di
“un’ontologia familiare del senso comune”. Non mancano neppure passi dove
l’aggettivo “familiare” è sostituito da “parrocchiale”. Nel capitoletto IV si sostiene che
proprio il fatto di aver assunto quali portatrici di verità epistemiche, radicate nella natura
delle cose, percezioni la cui sola ragion d’essere andrebbe cercata nella loro capacità di
favorire forme abbreviate e superficiali di comunicazione, ha dato spazio all’ipotesi di
una realtà distinta da quello che pretendono di rappresentare e la cui essenza andrebbe
riconosciuta nella capacità di rappresentarle. Una realtà siffatta ha preso il nome di
“mente” e nel capitolo in questione si mostra come i problemi sollevati dall’ammissione
di questa realtà realmente fittizia e di modalità per loro natura immateriali di riferirsi a
ogni realtà, ivi compresa quella che noi stessi siamo, abbiano finito per rendere il nostro
rapporto con ciò che è e siamo, molto più oscuro di quanto in realtà non sia.
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Il tema è ripreso nel cap. V dove ad essere preso di mira è quell’approccio ai processi
cognitivi che Churchland assume sotto l’acronimo ISA (“Ideal Sentential Automatism”),
automa ideal proposizionale, è la definizione che più si attaglia al modello di procedere
cognitivo teorizzato dai rappresentazional-computazionalisti (Fodor, Chomsky) e in
generale al modello di procedere cognitivo teorizzato da quanti pensano la mente umana
come un programma implementato nella struttura meccanica di un computer. A costoro
si oppone con buoni argomenti che una tale equiparazione è insostenibile. La tesi è
quella che i nostri processi cognitivi, quanto al modo in cui effettivamente si producano
e non dell’uno o dell’altro modo in cui ci è consentito fruire dei loro risultati, ci si ponga
il problema, si rivelano qualcosa di diverso da un procedere su basi proposizionali,
ovvero nello spazio logico di un linguaggio quale che sia. Essi hanno certamente una
loro logica ma la logica a cui rispondono non potrebbe essere quella di un linguaggio da
essi in qualunque modo distinguibile, perché è in ogni momento quella di un sistema di
relazioni organiche tra variabili della medesima natura. Vedremo quali siano i meriti di
una tale ipotesi e come il nostro modo “kantiano” di concepire tali linguaggi possa
aiutarci a superare alcuni limiti di questo modello.
14/12/11 – L’incapacità dell’approccio rappresental-computazionale nel dar conto, per
mezzo di soli dispositivi dotati di capacità simboliche (e, solo in quanto tali, virtualmente
rappresentative), delle funzioni di adattamento e di integrazione di un organismo umano,
in termini di sapere e saper-fare e reagire in tempo reale, viene superata col passaggio da un
modello di spiegazione esclusivamente meccanico ad uno di tipo biomeccanico, portavoce di
un potere esplicativo agente ad un livello sub-simbolico (i processi elettrochimici del nostro
sistema nervoso) e disposto a riconoscere nell’organismo in questione immanenti capacità
autopoietiche. E tuttavia non può passare inosservata la fenomenologica inadeguatezza
dello stesso modello biomeccanico nel dar conto della complessità prestazionale di una mente
umana, l’incapacità cioè di pensare l’orizzonte di senso all’interno del quale
95
necessariamente essa si troverebbe ad operare, che quale mero ambiente adibito alla
transazione organica di informazioni percettive, precludendo di fatto la possibilità di
pensarlo alla stregua di un orizzonte comunicativo, all’interno del quale un soggetto possa
costituirsi come tale rispetto ad altri. Tale reciproca costituzione non potrebbe darsi se non
proprio per mezzo di quel linguaggio proposizionale che Churchland aveva bollato come
portavoce di un’“ontologia familiare del senso comune”, incapace di pensarlo che quale mero
strumento di una comunicazione approssimativa e superficiale. Su questo punto cruciale
deve installarsi il prezioso lascito kantiano, ossia il riconoscimento della funzionalità
propriamente trascendentale continuamente espletata dal nostro linguaggio, il quale, anche
se epistemicamente impotente e incapace di garantire uno stabile radicamento ontologico delle
conoscenze che si trova costantemente a veicolare, risulterebbe ugualmente indispensabile, se
non nel rilevamento diretto di conoscenze ontologicamente fondate, almeno nell’istituzione di
contesti ontologici (sistemi di riferimento, orizzonti comuni e/o comunitari…) funzionali
alla loro acquisizione. I connettivisti dovrebbero pertanto evitare di far coincidere la fisica
del cervello con una sua logica materiale ad ogni altra impermeabile; dovrebbero aprirsi alla
possibilità che di logiche diverse (anche di una logica dell’esperienza in generale e in quanto
tale), compatibili con la propria configurazione materiale ed in essa implementabili, la fisica
di un cervello possa farsi carico. Dovrebbero infine mutare la prospettiva entro cui una
mente e non un semplice cervello si troverebbe ad operare, non più quella di un “perceptual
environment”, bensì l’orizzonte irriducibilmente intersoggettivo di un mondo in cui l’altro
esige di essere pensato come un qualcuno a cui non possiamo riferirci se non ammettendo che
anche noi lo siamo.
[…] Dell’approccio e del modello rappresental-computazionale Barale ha ricordato la sua
disumanizzazione dei contesti entro cui le nostre condotte si manifestano, una
disumanizzazione a cui è lecito imputare le grosse difficoltà incontrate da questo
modello nello spiegare il “saper fare” o la capacità di reagire in tempo reale. Le difficoltà
96
nascono dal fatto che il sapere tacito, implicito in condotte di questo tipo, diventa
qualcosa di inspiegabile laddove si suppone che nessuna forma di sapere sia possibile se
non a partire da dispositivi provvisti di capacità simbolica (in grado di valere quale
rappresentazione di altro) e dunque di parametri rispetto ai quali sia necessario orientarsi
e da regole che consentono di applicarli.
Analoghe difficoltà nel dar conto di forme di sapere non riconducibili alla capacità di
manipolare simboli non le incontra invece un approccio disposto ad ammettere che ogni
nostro sapere nasce a livelli definibili come sub simbolici perché ad essere in gioco è
soltanto la capacità del nostro cervello di assumere configurazioni che valgono quali
risposte agli imput ambientali. Anche l’approccio al simbolico del cognitivismo classico
obbligava a partire di lì, ad ammettere che in configurazioni del nostro cervello
suscettibili di valere quali risposte ad imput ambientali, vada ricercata la matrice
originaria di ogni nostro sapere e saper-fare. Ma il modo in cui ci obbligava a concepirle
impediva di pensare che una risposta nei termini in cui è richiesta dalle necessità di
adattamento e di integrazione di un organismo umano e dunque in termini di sapere e
saper-fare, già per se stesse quelle configurazioni siano. Concepirle quali rappresentazioni
virtuali obbligava a pensare che risposte come quelle di cui abbiamo bisogno possano
diventarlo solo attraverso un processo di elaborazione suscettibile di espletare valenze
simboliche in esse ancora implicite e dunque a un livello che non sarebbe più quello del
loro prodursi ma quello di linguaggi in grado di tradurre e tradurli.
La tesi dei connessionisti è invece che già nella forma in cui si rendono originariamente
possibili i processi elettrochimici in ragione dei quali il nostro cervello assume l’una o
l’altra configurazione, godano dello status di condotte che non hanno bisogno di essere
tradotte in forme diverse per poter assumere il valore di una risposta funzionale alle
esigenze di adattamento e integrazione di un organismo umano e dunque di una risposta
che tale è in termini di sapere e saper-fare. A un tale approccio ci ha invitato Paul
Churchland. La mossa strategicamente più importante che ci invita a compiere è
consistita nel sostituire un modello meccanico (cervello = supporto fisso, hardware, di
97
un PC) con un modello biomeccanico che gli riconosce immanenti capacità
autopoietiche: la capacità di svilupparsi da sé, di assumere l’una o l’altra forma in ragione
di proprie esigenze e necessità.
Questo modello certamente più aderente alla maniera di funzionare di un organo dotato
di una propria vita, consente di pensare le reazioni del nostro cervello agli imput che
riceve come risposte che hanno bisogno di essere ulteriormente elaborate per
manifestarsi nelle forme di un’attività ad esso riferibile. In queste forme già sempre si
danno in ragione del loro stesso modo di prodursi, della costituzione dinamica degli
agenti chiamati a elaborarle e di un loro modo di operare a cui si deve riconoscere lo
status di un agire selettivo possibile solo promuovendo condotte ad esso conformi e
ogni altra dividendola[… ]
[Dai loro agenti e veicoli (i cosiddetti neuroni) abbiamo imparato che con ogni altra
struttura cellulare condividono il fatto di essere tenuti in uno stato di continua tensione
dalla differenza di potenziale tra l'interno e l'esterno della membrana che li avvolge, ma
anche da tutte le altre strutture cellulari che si differenziano per la peculiare capacità di
comunicare. La devono, come sappiamo, alla loro forma, al protendersi della loro
membrana di due tipi di filamenti, gli uni (i cosiddetti dendriti) capaci di raccogliere
segnali in entrata, gli altri (i cosiddetti assoni) capaci di inviare segnali in uscita. Quanto al
loro modo di riceverli e di trasmetterli, decisiva risulta la scoperta che non è mai casuale,
né mai potrebbe pretendersi puntuale e lineare, poiché risponde alla logica di un sistema
nei limiti del quale operano e la cui architettura è quella di una pluralità di circuiti
reticolari, collegati l'uno con l'altro, i cui nodi sono centri di attività mai isolati e isolabili,
costantemente collegati tra loro e con l'ambiente esterno. Il fatto che siano in ogni
momento di un certo grado di attivazione, destinato ad aumentare o diminuire in ragione
dei segnali che ricevono, consente loro di fungere da dispositivi di calcolo: di un calcolo
che consiste nell'attribuire a ogni segnale un peso e con esso un valore nel promuovere o
inibire le condotte a cui abilitano i percorsi neuronali che sta attivando. Questi percorsi si
realizzano distribuendo i segnali lungo l'una o l'altra di direzioni alternative che
98
coincidono con le diverse linee di connessioni disponibili nel sistema e consentono di
chiamare in causa ogni volta popolazioni neuronali in grado di assicurare risposte
conformi al peso dei vari segnali, al potere di promozione e inibizione da essi assunto
nella logica di un sistema delle cui meccaniche reazioni va ancora detto che, come forse
risulta anche da questa sommaria presentazione del modo in cui arrivano a prodursi, non
sono in nessun momento cieche, perché in ogni momento mirate a promuovere processi
di adattamento e integrazione all'ambiente che le sollecita.]
Se lo confrontiamo con quel modello unicamente meccanico di processualità cerebrale a
cui ancora si richiamavano i cognitivisti classici, cioè quanti accettavano l’assimilazione di
un cervello umano alla macchina di Turing, e le sue configurazioni non riuscivano
pertanto in altro modo a concepire se non come rappresentazioni virtuali, dobbiamo
riconoscere la superiorità del modello biomeccanico: la sua maggiore idoneità a produrre
processi cerebrali in cui ciascuno risulta identificato per mezzo di una funzione che
assolve e un senso che può effettivamente avere nell’economia vitale di organismi come i
nostri. Questo riconoscimento non deve tuttavia impedirci di denunciarne i limiti (deficit
di attendibilità), tutti secondo Barale, imputabili alla ristrettezza dell’orizzonte di senso a
cui fa riferimento.
Il fatto che dall’individuazione di un orizzonte di senso il modello connessionista non
prescinda (al contrario del modello rappresental-computazionale) è il suo titolo di
merito. Il fatto che sappia concepirlo solo come “unwelt”, “environment”, ambiente
circostante impedisce di attribuirgli anche il merito di una descrizione
fenomenologicamente completa delle prestazioni che dal proprio cervello un uomo ha il
diritto di attendersi. È un fatto difficilmente contestabile che le nostre conoscenze non si
basano soltanto su quelle informazioni che direttamente ci provengono dai sensi, da
quanto materialmente si dà in quel “perceptual environment”, che possiamo definire il
nostro ambiente vitale. Altrettanto importanti devono essere ritenute informazioni che
non da altro, ma da altri riceviamo a proposito di ciò che non nel nostro, ma nei loro
ambienti, in situazioni del loro vissuto o anche soltanto immaginate è accaduto o accade
99
o anche soltanto avrebbe potuto accadere. Molte delle informazioni le riceviamo da libri
e giornali, dalla televisione e da internet, o anche semplicemente conversando, e nessun
teorico del primato delle reti neuronali ha il diritto di negarne l’importanza, così come,
una volta ammessa la loro importanza, nessuno di quanti come noi stanno riflettendo sui
possibili limiti della spiegazione dei processi cognitivi che su dati di natura
neurofisiologica, decontestualizzandoli, li appiattisca, ha il diritto di supporre che
l’elaborazione di informazioni che possiamo attingere solo indirettamente e che non
riguardano il nostro perceptual environment, possa avvenire in circuiti diversi da quelli
neuronali o che diversa da quella dei sensi possa essere la via d’accesso a tali circuiti. Le
parole di un libro (o le immagini di un film) sono pur sempre messaggi che solo i sensi
potrebbero trasmettergli e che dai messaggi che contestualmente gli trasmettiamo,
differiscono solo in ragione di una loro diversa provenienza e di una forma diversa in cui
si rendono disponibili. Provengono infatti da domini percettivi diversi dal mio, quando
non addirittura da realtà immaginate o simulate e ciò che più conta, la forma in cui si
rendono disponibili è quella di un linguaggio che me li comunica.
Scopriamo come i rischi che stiamo paventando e i deficit che stiamo denunciando
rimandino l’uno all’altro. I rischi di una spiegazione dei processi cognitivi che non si
limiti riconoscerli possibili solo quando si diano le condizioni di una elaborazione
cerebrale delle informazioni su cui si basano, ma che su dati di natura neurofisiologica,
decontestualizzandoli li appiattisca, sono i rischi di quella decontestualizzazione che i dati
in questione inevitabilmente subiscono quando si ammette che altro orizzonte di
riferimento non possano avere se non quello di un sistema di relazioni tra organismi
materialmente presenti in un medesimo spazio e che a null’altro starebbero mirando se
non a una disciplina dei loro rapporti in grado di favorire processi di reciproco
adattamento e di progressiva integrazione. D’altra parte il deficit di attendibilità e di
fenomenologica adeguatezza a cui il modello connessionistico di spiegazione dei nostri
processi cognitivi va incontro in quelle sue versioni oggi dominanti che a una tale
restrizione dell’orizzonte di senso entro il quale si producono e del senso che pertanto
possa valere non sanno sottrarsi, è una conseguenza inevitabile della rinuncia a
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riconoscere il valore non unicamente strumentale di quei linguaggi verbali nei quali e
grazie ai quali comunichiamo. Conoscere significa sfruttare informazioni che solo in
parte i nostri sensi ricevono da rapporti di organica transazione con l’ambiente
circostante perché non meno numerose sono quelle che ricevono indirettamente da un
rapporto di comunicazione con altri soggetti e dunque da un rapporto che presuppone il
nostro e loro costituirsi al modo di altrettanti soggetti, nelle forme di uno di quei
linguaggi che un tale rapporto consentono di istituire e le cui caratteristica è
precisamente quella struttura proposizionale che Churchland ha denunciato come
dominante nelle cosiddette “ontologie familiari (o parrocchiali) del senso comune”; così
ci ha insegnato a chiamarle, in un’accezione negativa che a questo punto non possiamo
più condividere avendo a suo dispetto scoperto trattarsi dell’unica forma di ontologia
che comune, nel senso di condivisibile può pretendersi.
Kant ci ha insegnato a pensare che linguaggi di questo tipo stiano in ogni momento
assolvendo una funzione non meramente epistemica ma trascendentale. Era certamente
convinto come tutti i seguaci di teorie non materialistiche della conoscenza che quei
linguaggi a struttura proposizionale fossero anche il mezzo più idoneo per tentare di
carpire alla realtà i segreti, le leggi della sua formazione. Ponte migliore non riusciva a
immaginare tra le presunte leggi di un pensiero, vincolato a una sua immutabile essenza e
le leggi non meno immutabili della realtà che è tenuto a pensare. Ma queste sue
convinzioni restano sullo sfondo, sullo sfondo di quella logica dell’esperienza che ha
cercato di rendere riconoscibile e su cui più gli premeva richiamare l’attenzione. Alle
acquisizioni di quella sua logica dell’esperienza, estrapolandola dai contesti di una logica
generale e di un’epistemologia con cui ha dovuto convivere abbiamo cercato di riferirci,
facendola coincidere con la prospettiva di una logica trascendentale in senso proprio,
trascendentale perché chiamata a mostrarci come e perché si producano condizioni che
si prestano ad essere pensate proprie di un’esperienza überhaupt. La nostra convinzione
è che solo a quel livello, solo quando tenta di chiarire come e perché arrivino a costituirsi
condizioni al di fuori delle quali nessuna esperienza potrebbe vantare quelle
caratteristiche che ognuna ha per noi; solo a quel livello Kant arriva a importanti e forse
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definitive scoperte.
Una delle quali, di ordine trascendentale, che più ha attirato la nostra attenzione,
riguardava proprio la funzione che i nostri linguaggi proposizionali assolvono quali modi
non surrogabili di istituire orizzonti di senso al di fuori dei quali le nostre esperienze e
con esse le nostre condotte conoscitive non potrebbero godere delle prerogative di cui
godono. È una funzione questa che linguaggi di quel tipo sono impegnati ad assolvere e
continuerebbero ad assolvere anche quando fossimo arrivati a riconoscerli
epistemicamente impotenti, cioè incapaci di garantire un radicamento ontologico stabile
alle informazioni che ci consentono di acquisire. A questa loro funzione inalienabile che
consisterebbe nel rendere disponibili non conoscenze ontologicamente fondate, ma
contesti ontologici funzionali alla loro acquisizione, Barale vorrebbe alla fine rimandare i
nostri amici materialisti; a una funzione di questi linguaggi, a una funzione che nessuno
di loro si è mai sognato di riconoscere ai linguaggi proposizionali con cui ordinariamente
comunichiamo, il cui riconoscimento potrebbe indicare loro una via d’uscita dall’impasse
in cui si sono cacciati e che consiste nell’apparente impossibilità di allargare
quell’orizzonte di senso dei nostri processi cognitivi che hanno ritenuto di poter
costruire e ritagliare sulla misura non di un uomo ma del suo cervello, senza dover
ammettere la presenza in noi di sistemi operativi diversi da quello che con le potenzialità
materiali del nostro cervello coincide.
Barale si limiterà a ricordare le due condizioni che dovrebbero darsi affinché una
collaborazione tra gli eredi di una filosofia trascendentale e i connettivisti più radicali
diventi pensabile. Filosofi con le nostre formazioni dovrebbero rinunciare a pensare che
i linguaggi a cui sono più affezionati siano maniere di far funzionare il cervello in grado
di coincidere con suoi stati funzionali permanenti (modello rappresental-
computazionale) del tipo di quelli ancora previsti laddove a un programma operativo nel
cervello inscritto e che mente veniva chiamato, ci si riteneva autorizzati a pensare. Di
maniere di far funzionare il cervello nel nostro caso si tratterebbe che non
pretenderebbero di coincidere con un programma di lavoro naturalmente dato, ma solo
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con le logiche di linguaggi convenzionalmente stabiliti allo scopo di rendere disponibili
forme di comunicazione, orizzonti di senso nei quali le prestazioni che al nostro cervello
chiediamo, possano trovarne uno proprio e con esso prospettive con cui possano
risultare funzionali.
Quanto ai sostenitori di un materialismo cognitivo dovrebbero riuscire ad ammettere che
il cervello non procede secondo una qualsivoglia logica materiale ad ogni altra
impermeabile, dovrebbero non confondere con una logica in esso inscritta, le leggi di
natura fisica che è tenuto a rispettare per poter entrare nell’uno o nell’altro degli stati
operativi che gli è concesso assumere. Evitare una tale confusione e ammettere che la
fisica di un cervello non è identificabile con una logica, significherebbe aprirsi alle
possibilità che di logiche diverse con essa compatibili e pertanto in essa implementabili
ma da essa non derivabili, la fisica di un cervello si presti a farsi carico. Rendersi
disponibili a una tale ipotesi significherebbe in fondo prendere atto di un’evidenza,
avvalersi di determinati linguaggi verbali significa compiere operazioni che non
potremmo compiere se il nostro cervello non fosse in grado di implementarle e che
null’altro modificano se non la prospettiva in cui è chiamato a operare. A offrirgliela non
è più il “perceptual environment” che le circostanze gli hanno costruito attorno ma
l’orizzonte irriducibilmente intersoggettivo di un mondo in cui l’altro cessa di essere un
corpo tra i molti di cui il nostro deve tener conto, ed esige di essere pensato come un
qualcuno a cui non possiamo riferirci se non assumendo che anche noi lo siamo.