ROVINE CONTEMPORANEE - Serena Previtali (thesis book publication)

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CORSO DI LAUREA DESIGN DELLA COMUNICAZIONE TESI ROVINE CONTEMPORANEE FOTOGRAFIA E CINEMA COME RAPPRESENTAZIONE DELLE REALTÀ POSTINDUSTRIALI POLITECNICO DI MILANO FACOLTÀ DEL DESIGN STUDENTE SERENA PREVITALI MATRICOLA 207291 RELATORE PROF . SALVATORE ZINGALE ANNO ACCADEMICO 2006/2007

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Master degree thesis by Serena Previtali Polytechnic of Milan, design Faculty. 2007 ROVINE CONTEMPORANEE. FOTOGRAFIA E CINEMA COME RAPPRESENTAZIONE DELLE REALTÀ POSTINDUSTRIALI. CONTEMPORARY RUINS. PHOTOGRAPHY AND CINEMA AS A REPRESENTATION OF THE POSTINDUSTRIAL ERA.

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CORSO DI LAUREA DESIGN DELLA COMUNICAZIONE

TESI

ROVINE CONTEMPORANEEFOTOGRAFIA E CINEMA COME RAPPRESENTAZIONE DELLE REALTÀ POSTINDUSTRIALI

STUDENTESERENA PREVITALIMATRICOLA 207291

RELATOREPROF. SALVATORE ZINGALE

ANNO ACCADEMICO 2006/2007

POLITECNICO DI MILANOFACOLTÀ DEL DESIGN

CORSO DI LAUREA DESIGN DELLA COMUNICAZIONE

TESI

ROVINE CONTEMPORANEEFOTOGRAFIA E CINEMA COME RAPPRESENTAZIONE DELLE REALTÀ POSTINDUSTRIALI

STUDENTESERENA PREVITALIMATRICOLA 207291

RELATOREPROF. SALVATORE ZINGALE

ANNO ACCADEMICO 2006/2007

POLITECNICO DI MILANOFACOLTÀ DEL DESIGN

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Il progetto di tesi ha avuto oorigine da una serie fotografica che per-corre le topografie alternative del territorio urbano e vuole indagarne il senso. La tesi si divide in due momenti: uno analitico e uno progettuale. L’analisi mira a indagare, a partire dagli anni Ottanta fino ai giorni no-stri, come a fronte di una mutazione radicale del territorio e della realtà stessa nell’epoca post-industriale sia nata un’esigenza di interpretazio-ne di questa nuova realtà, e come i linguaggi visivi, immagine fissa e in movimento, abbiano negli anni tentato di dare una risposta a questa ne-cessità. Ho portato come esempio artisti che hanno lavorato a lungo sui luoghi e sul senso della loro rappresentazione, facendo di tale questione il loro centro di indagine: primi fra tutti, Ghirri e Wenders. La parte progettuale nasce dall’incontro con la società Leggeri SpA per la progettazione dell’evento inaugurale di uno spazio per l’arte contem-poranea nell’ex cementificio Italcementi di Alzano Lombardo, Bergamo. Il progetto spazia dalla comunicazione del luogo (immagine coordinata e sue applicazioni, fruizione dello spazio) alla vera e propria realizza-zione di una serie fotografica e di un video da presentare come opere. Il soggetto di tali opere, coerentemente all’analisi svolta, è uno sguardo sulla condizione umana contemporanea colta attraverso lo sguardo fo-tografico sul territorio.

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abstract

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Serena Previtali

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Rovine contemporaneeFotografia e cinema come rappresentazione delle realtà postindustriali

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e la nuova fotografia italiana e il cinema esplorativo contemporaneeGhirri RovineWenders

L’indagine fotografica

La riflessione metasemiotica

La serie e l’opera aperta

I luoghi come ritratti

Viaggio e paesaggio

Viaggio in Italia

Bibliografia Ghirri

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Nel corso del tempo

Paris, Texas

Il cielo sopra Berlino

Bibliografia Ghirri

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rovine contemporanee: il senso

rovine contemporanee nell’arte

rovine contemporanee come strumento

Conclusioni

Bibliografia Rovine

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indice

ProgettoMoresco

Lo Spazio Moresco

Identità visiva

Evento inaugurale

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Ghirri e la nuova fotografia italiana

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L’INDAGINE FOTOGRAFICA Affascinata dalla fotografia di paesaggio urbano, di archeologia industriale, delle rovine, e in generale del territorio che caratterizza lo sguardo della nostra era post moderna, ho voluto approfondire tale sguardo: indagar-ne l’essenza, capirne la provenienza.La passione per la fotografia e l’addentrarsi nel territorio mi ha portato negli anni a compiere esplorazioni urbane sempre più frequenti, effet-tuate senza cartina, dettate dal caso, lasciandomi guidare dalla contin-genza del momento, privilegiando sempre i retrovia dei luoghi, delle vie più affollate, immensi backstage dimenticati della nostra società. Mi af-fascinavano i colori e i disegni delle pareti sgretolate, l’interazione della traccia umana con gli elementi fisici, il sovrapporsi di tracce di segni che generano nuovi sensi, l’impossessarsi da parte della natura del rigido elemento architettonico, il silenzio che accompagnava le scene, rotto dai rumori della vita altrove. Percepivo un valore nel compiere quei percor-si, ma non riuscivo ad afferrarlo. Ne è prova il fatto che le fotografie che scattavo durante le esplorazioni sono state perse per la mia incapacità di inquadrarle in un percorso di senso, o addirittura da me eliminate per-ché lì per lì giudicate brutte, poco gradevoli. Mi rendevo conto di quanto le mie immagini fossero distanti dall’ideale di fotografia che si identifi-ca con la fotografia commerciale, ben composta, con luce ed elementi studiati, e percepivo un disagio in questo scarto che esisteva, che non sapevo e non volevo colmare: le mie immagini, se fossero state troppo artificiose e studiate avrebbero perso il loro senso, che non stava tanto

Ghirri

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nell’immagine in sé ma nell’atto che l’insieme di immagini sottendevano e che era insito proprio nel loro essere imprecise e non programmate.Ho iniziato perciò a raggrupparle e catalogarle, ad apprezzarle: messi in serie, quegli scatti raccontavano, mi davano un’indicazione di senso. L’avvicinamento alla storia della fotografia, e in particolare alla foto-grafia italiana dagli anni Settanta a oggi, mi ha portato a conoscere il lavoro di Luigi Ghirri e del suo progetto Viaggio in italia. Conoscere e approfondire il lavoro di quest’autore mi ha aiutato a inquadrare il mio percorso, a metterne in luce aspetti fondamentali, a capire come il suo fotografare fosse il risultato di una serie di processi più o meno inconsci, tentativo di risposta al disagio dell’uomo post-moderno che si concretiz-za anche con una difficoltà a rapportarsi con il territorio.Il lavoro di Ghirri è importante perché completo: egli infatti è uno dei pochi fotografi che ha affiancato la sua produzione a una ricca riflessione teorica sul mezzo fotografico. Ghirri è inoltre stato uno dei promotori di quella che venne chiamata nuova fotografia italiana, determinando la nascita di un nuovo modo di fotografare più concettuale, che punta alla rappresentazione dell’uomo attraverso i luoghi, gli oggetti, il paesaggio, e che ha influenzato l’attuale fotografia a tal punto che è stato coniato il modo di dire “siamo tutti figli di Ghirri”.Ma perché l’apporto di Ghirri è stato fondamentale per il mio progetto, e in generale per la fotografia italiana ed europea?Tento di rispondere sintetizzando l’immensa operazione di ricerca del-

l’autore in quattro punti, che argomenterò successivamente apportando esempi, approfondimenti e citazioni:

1) la riflessione metasemiotica sulla fotografia;2) il concetto di serie e di opera aperta;3) i luoghi come ritratti;4) la concezione del viaggio.

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LA RIFLEssIONE mETAsEmIOTICA

Grande apporto di Ghirri alla fotografia italiana è stato il suo approccio metasemiotico alla fotografia. Metasemiotico come metalinguaggio, ri-flessione sopra (meta) il linguaggio, e identifica “ogni sistema linguistico per mezzo del quale è possibile analizzare i simboli e le strutture del linguaggio ordinario” (Zingarelli).Quando si parla di metasemiotica o di metalinguistica ci si riferisce an-che a una delle sei funzioni della comunicazione teorizzate da Jacobson e assunte oggi come modello base della struttura di ogni atto comunica-tivo: come evidenziato in figura 1, l’atto del comunicare viene suddiviso in sei fattori e sei funzioni, ognuna delle quali è svolta da un attore del processo comunicativo (destinatore, mittente, destinatario, messaggio, canale, contesto semantico o riferimento). Ogni fattore svolge una fun-zione e, come vediamo, la funzione associata al messaggio (all’artefatto fotografico, nel nostro caso) è quella metalinguistica, vale a dire la rifles-sione sui modi dell’espressione (altrimenti, ma non del tutto propria-mente, riassunti sotto il termine “codice”) che concorrono alla forma-zione del messaggio. Poichè il tipo di canale utilizzato influenza il tipo di espressione da utilizzare, possiamo affermare che canale ed espressione, e quindi funzione fàtica e funzione metasemiotica, sono strettamente collegate. Ghirri perciò, riflettendo sui modi dell’espressione fotografica sposta di riflesso anche la sua azione sul mezzo fotografico.Nella nostra epoca in cui “la realtà è diventata uno strato opaco e denso di immagini che si sovrappongono alla realtà e a se stesse” (Gravano,

in rete il 20/07/07) un’epoca in cui tutto è immagine e tutto è comu-nicazione, la riflessione sui modi dell’espressione e sul mezzo fotogra-fico è quanto mai preziosa e utile per sviluppare una visione critica. Soprattutto se si tiene in considerazione che i modi dell’espressione e il canale, nello studio della comunicazione, sono sempre stati piutto-sto trascurati, messi in secondo piano rispetto ad altri aspetti, quali ad esempio la forma del messaggio. Ma la comunicazione è impensabile al di fuori di un canale e di un mezzo. Si può infatti, paradossalmente, avere un atto comunicativo solo perché un certo canale è stato attivato, anche in assenza di un vero e proprio messaggio (si pensi a una email vuota: comunica che c’è stata una volontà o un tentativo di comunica-zione, pur non essendoci un messaggio veicolato). Viceversa, se c’è un messaggio ma non un canale e una forma di espressione, e di una comu-nanza di linguaggio, non esiste comunicazione (posso avere molte cose da dire a una persona lontana, ma se non ho un telefono e non parlo la sua lingua non posso farlo).Abbiamo perciò chiarito che la metasemiotica è una riflessione sui modi d’espressione, sui codici e altre forme di intesa, strettamente collegati al canale, e abbiamo compreso l’importanza di tali aspetti. Nel caso spe-cifico ci riferiremo ai modi di espressione visuali (iconici e indicali) e al mezzo fotografico.Veniamo ora a Ghirri, cercando di capire perché e in che senso il suo approccio metasemiotico alla fotografia è innovativo. Egli non è stato in

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Ghirri

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effetti né l’unico né il primo a soffermarsi su tali questioni: è stato anzi scritto moltissimo dai più svariati autori delle più svariate discipline su questo argomento, così complesso e controverso. La particolarità di Ghirri è stata quella di suscitare riflessioni sul mezzo fotografico facen-done uso: sono cioè le sue stesse serie fotografiche a muovere, suscitare, attivare pensieri relativi alla fotografia e al fotografare.Dicendolo con Peirce, le fotografie di Ghirri sono esempi eccellenti di interpretanti che si ripropongono come oggetti dinamici, oggetti cioè che producono qualcosa, che provocano un movimento nella mente del-l’osservatore, che generano senso.

Ma per meglio comprendere l’operazione di Ghirri prendiamo in esame la sua serie fotografica intitolata Still Life, in cui la riflessione metase-miotica è particolarmente evidente e significativa.Il senso che egli vuole dare è provocazione e ribaltamento dell’area se-mantica indicata dal titolo. Lo still life è per definizione un genere di fotografia in cui un oggetto è rappresentato fuori dal suo contesto, nella maniera più didascalica, neutra e piacevole possibile, in cui perciò l’oc-chio del fotografo, il suo atto interpretativo tendono a scomparire. Ghirri paragona implicitamente lo still life indicato nel titolo alle immagini che lo circondano e che affollano i canali della comunicazione, immagini a tutti i costi “belle”, costruite, forzate, false, ma che non attirano l’atten-zione dell’occhio umano perché vuote, e vuole indicare la strada per una

possibile soluzione, un possibile opporsi a questo tipo di immagine.Ma come opera un simile ribaltamento? Come costruisce la metafora?Attraverso il mezzo fotografico stesso, e proprio qui sta la sua for-za espressiva. Si osservino le immagini 1-7: gli oggetti, per la tecnica con la quale sono ripresi (inquadrando sempre e solo l’oggetto senza il suo contesto) e la didascalia che recano, sono formalmente degli still life. Avvertiamo però che c’è sempre qualcosa, un elemento, che gene-ra ambiguità, che ci fa improvvisamente percepire la distanza fra noi e l’oggetto rappresentato: “in queste fotografie l’oggetto fotografato entra direttamente in dialogo con il mondo fisico, mediante ombre, segni del tempo, sovrapposizione di oggetti o eventi minimi che hanno bisogno di una lunga lettura per essere scoperti” (Ghirri, 1997, p. 41).Il soggetto della fotografia è il ritratto della donna come siamo stati abi-tuati a pensare o è quel cappello appoggiatovi? E perché è stato messo lì? Perché è stato fotografato?Improvvisamente, di fronte a un’immagine iniziamo a porci delle do-mande anziché contemplarla o a prenderla come dato di fatto; e le do-mande riguardano l’atto del fotografare. Ecco in che senso l’operazione di Ghirri è metasemiotica, perché usando il codice fotografico riesce a far parlare di esso. La costanza con cui questi elementi compaiono in tutte le fotografie della serie indica che non si tratta né di un caso né di un errore, bensì di un atto progettato. Tali elementi sono una sorta di interferenza che,

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frapponendosi fra noi e l’oggetto rappresentato, ci spiazzano facendoci avvertire la presenza del canale, del mezzo fotografico; è come quando parlando al telefono sentiamo gracchiare la linea: solo allora prendiamo coscienza che stiamo utilizzando un canale e ci interroghiamo sul suo corretto funzionamento. Questo nostro interrogarci sul mezzo, suscitato dalla visione in serie degli scatti, è per di più fomentato dal significato del titolo: tutte le didascalie delle fotografie recano scritto Still life, e nessuna di esse sembra esserlo. “Le immagini, contrariamente a quanto suggerisce il titolo della serie, non rimangono inerti fondali, ma assu-mono senso ulteriore, significato secondo, con il diretto rapporto con il reale. Il David trova nei mozziconi dei sigaretta del posacenere momen-to di attivazione, dichiara della propria storia e della sua presenza oggi. Il paesaggio nel piatto dimentica il suo destino decorativo, e trova nel cannocchiale sovrapposto il senso del gesto che vuole sottendere: il suo offrirsi allo sguardo” (Ghirri 1997, p. 41).Ecco dunque come Ghirri, intrecciando campo semantico e campo visi-vo riesce lentamente ma con forza ad attivare una riflessione sul fotogra-fare, e a comunicare il suo senso del fotografare: “fotografare è sovrap-porre un’immagine preesistente con il momento presente, un’immagine ultima che diventa così immagine altra. [...] La fotografia non è pura duplicazione o un cronometro dell’occhio che ferma il mondo fisico, ma un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione, per quanto sottile, esiste e dà luogo a un’infinità di mondi immaginari.

Anche gli oggetti che sembrano essere interamente descritti dalla vista possono essere, nella loro rappresentazione, come le pagine bianche di un libro non ancora scritto” (Ghirri, 1997, p. 47).L’immagine altra di cui parla è perciò l’essenza della fotografia che in-dividua non nella rappresentazione già data, né nella registrazione del momento, ma dall’interazione e lo scarto di questi due elementi che “ge-nera un’apertura a infinite possibilità percettive.” Queste affermazioni non sono dichiarazioni perentorie ma tentativi di indagine, per dare corpo a un “linguaggio”, fotografico e non, che parte dalla presa di coscienza dei limiti della semiosi visuale attuale. È questo che intende Ghirri quando parla di “una fotografia che abbia come pre-supposto uno stato di necessità”. I limiti del linguaggio visivo contemporaneo che egli individua sono ri-conducibili a due aspetti: - la tendenza a creare immagini forzate, costruite, false, vuote, perfette, che modificano, trasformano, occultano la realtà e cercano di attirare l’attenzione creando choc visivio-emozionali;- la parcellizzazione del vedere, generata dalla proliferazione di questo tipo di immagini false, che porta a una stimolazione percettiva sempre più veloce impedendo di vedere con chiarezza.Il linguaggio attuale, in sostanza, ha come effetto una percezione distor-ta e troppo frammentata della realtà, e confonde stordendo, invece di chiarire.

Ghirri

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A una fotografia che trasforma, occulta emodifica la realtà Ghirri oppone una fotografia per vedere: “ nessuna violenza o choc, nessuna forzatura, ma il silenzio, la leggerezza, il rigore, per poter entrare in contatto con le cose, gli oggetti, i luoghi” (Ghirri, 1997, p.78). Di fronte a stimolazioni sempre più frequenti e parcellizzate egli vede nella fotografia un impor-tante momento di pausa e riflessione.Il nuovo tipo di fotografia che si impone come necessaria è allora un mez-zo conoscitivo, mezzo discreto e silenzioso, che non inganna lo sguardo e che anzi lo aiuta, riuscendo a fermare la realtà e riattivando così i nostri circuiti dell’attenzione fatti saltare dalla velocità dell’esterno: “Bisogna ricercare una fotografia che instauri nuovi rapporti dialettici tra autore ed esterno, nuove strade, nuovi concetti, nuove idee, per entrare in rap-porto con il mondo, cercarne modalità di rappresentazione adeguate, per restituire immagini, figure, perché fotografare il mondo sia anche un modo per comprenderlo” (Ghirri, 1997, p.79).

LA sERIE E L’OpERA ApERTA

Nel paragrafo precedente abbiamo familiarizzato con il modo di operare di Ghirri che ci ha portato a capirne il motore, ovvero la necessità di cercare un nuovo linguaggio. La citazione che ora riporto è logica con-seguenza di quanto fin ora affermato e ci introduce al concetto di opera aperta, in realtà già affrontato senza averlo così definito.“(…) La mia idea di opera fotografica nasce da tutte queste considerazio-ni, l’idea quindi di una opera aperta. Non perché, semplicemente, man-cano alcune tessere per ultimare il puzzle, ma perché ogni singolo lavoro si apre su di uno spazio elastico, non si esaurisce in un’entità misurabile, ma sconfina, un continuo dialogo tra quello terminato e quello che sarà” (Ghirri, 1997, p. 79). Parlando di opera aperta perciò Ghirri si riferisce alla potenzialità conoscitiva, di portare “oltre” che il nuovo linguaggio da lui sperimentato e teorizzato ha. Le sue considerazioni, così acute e di largo respiro, hanno la loro eco: si inizia a dibattere sul tema, e a porsi l’importantissima e tuttora trascu-rata questione di educare lo sguardo. Riporto a proposito un estratto del programma del seminario tenutosi all’Università di Parma nel 1984, che sembra proprio riferirsi all’apertura incitata da Ghirri: “L’insegnamento della fotografia dovrebbe delineare, alternando aspetti teorici e pratici, un approccio estremamente variegato e non codificato con la fotografia, per ricercare nuove figure, modi e metodi di rappre-sentazione. Al di là di intenti descrittivi e illustrativi la fotografia si con-

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figura così come metodo per guardare e raffigurare i luoghi, gli oggetti, i volti del nostro tempo, non per catalogarli o definirli, ma per scoprire e costruire immagini che siano anche nuove possibilità di percezione. In definitiva, l’impegno è quello di cercare un’immagine in equilibrio fra la rilevazione e la rivelazione (…). Per raggiungere questa finalità, le analisi e le connessioni con altri linguaggi espressivi consentono la formazione di un corretto e aggiornato sistema di approccio all’ immagine fotogra-fia, non relegandone la conoscenza in un restrittivo specifico” (Ghirri, 1997, p. 63).Ma veniamo ora al concreto. Abbiamo visto come l’ideale di opera aper-ta si possa definire come la ricerca di un linguaggio fotografico che sia strumento di indagine e conoscenza di una realtà che è complessa, ar-ticolata e non riducibile; tale ideale si traduce in un metodo di lavoro: l’operare per serie fotografiche e non per singoli scatti. Mi appoggerò alle definizioni di serie date dal dizionario per mostrare in che senso e perché il lavorare in serie di Ghirri è innovativo e costituisce il modo più naturale e sensato – forse l’unico – di fotografare.

serie• dal lat. serie (m) “fila”, da serere “concatenare” (Zingarelli).L’etimologia della parola mette bene in rilievo il concetto di serie conce-pito da Ghirri: in quel “concatenare” individuo il progressivo e infinito costruire, comporre, articolare. Ciò non vuol dire che prima di lui nessu-

no costruisse delle serie; la serie fotografica, dal momento in cui mettere in fila delle fotografie è di per sé un mettere in serie, è sempre stata usata dai fotografi, ma senza quell’accezione di apertura che più si avvicina alle altre definizioni di serie date dal dizionario:

serie• successione ordinata di cose, fatti, persone, connesse fra loro e dispo-ste secondo un certo criterio di ordine; (Zingarelli);• molteplicità di pezzi finiti, uguali tra loro e prodotti in un certo periodo in modo unitario relativamente a mezzi produttivi e metodi di lavoro. (Zingarelli).

La serie fotografica, per come era tradizionalmente concepita, consiste-va infatti in un accorpare, mettere insieme più o meno forzatamente im-magini che avessero in comune il tipo di soggetto ripreso (una serie di ritratti ad esempio), un aspetto stilistico (fotografie in bianco e nero), la tecnologia utilizzata (delle polaroid), il punto di vista (fotografia aerea), e così via.Ghirri vede in questo modo di concepire la serie fotografica un tentati-vo sterile e inconcludente di archiviazione e catalogazione, un modo di mettere ordine, di concludere. Per lui la serie ha invece senso nel suo dis-ordine (nel senso che l’ordine non è prestabilito ma si forma nella mente dell’osservatore) e nella sua apertura (poiché mediante accosta-

Ghirri

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menti successivi deve suggerire, indicare, interrogare più che affermare perentoriamente). Tutto ciò indipendentemente dalla coerenza tecnica o stilistica delle immagini.Anche in questo caso la riflessione teorica viene applicata, dimostrata, chiarificata dalla pratica del fotografare: il concetto di serie e tutte le sue implicazioni che sono alla base di tutti i suoi lavori, è particolarmente esplicito nei suoi lavori Catalogo e Infinito e Kodacrome che ne mostra-no tre diversi aspetti, sfumature.

Nella prefazione al suo lavoro Catalogo, Ghirri spiega con molta chia-rezza la sua posizione sulla fotografia che fa l’inventario del reale, e quindi del paesaggio: “Le analogie rigorosamente geometriche di queste fotografie combaciano con quelle architettoniche, con la mia formazione culturale, non dimenticano tuttavia come sempre che all’interno dello schema tracciato le combinazioni espressive delle tessere sono infinite. (…) Non ho voluto attenermi rigorosamente a quanto potrebbe sugge-rire il titolo scelto, ma ho piuttosto cercato di suggerire che, al di là di schematiche e facili accumulazioni, il significato è di depositare i dati per operare distinzioni, collegamenti, sottolineare rapporti, smontare meccanismi” (Ghirri, 1997, p.24).Ghirri sceglie quindi provocatoriamente di intitolare questa serie, scat-tata tra il 1970 e il 1979, e dedicata alle superfici esterne della città, dai murales alle saracinesche ai muri di periferia, Catalogo, proprio per

poter criticare aspramente, sia fotografando sia scrivendo, questa vo-cazione classificatoria e d’archivio, che negli anni Ottanta e Novanta in Italia avrà un seguito fin troppo scontato. Proprio per fugare ogni dub-bio sulla posizione ghirriana in proposito, basta leggere la fine del testo appena citato: “La proliferazione delle catalogazioni, nel senso letterale del termine (tutti i camion, tutte le scritte, tutti i gadgets, ecc.) sembra effettivamente ricordare che stiamo preparando i documenti da portare sull’Arca di Noè; ma in questi depositi di oggetti, gesti, persone, non ritengo stia una validità testimoniale più ampia, una accumulazione di prove; ma pur nell’inevitabile limitazione, una totale accettazione del tic che si vorrebbe negare: il collezionismo come anestesia dello sguardo” (Ghirri, 1997, p.25).

Veniamo ora a Infinito: anche in questo caso, come per Still life e Catalogo, egli gioca con il significato del titolo, estremizza il concetto di serie e l’aspetto di compiutezza che tradizionalmente gli viene dato per mostrarne le contraddizioni. La sua è un’efficace dimostrazione per assurdo.Egli vuole mostrare che la fotografia non può rappresentare la realtà nella sua interezza e complessità, e si oppone al modo di fotografare il “momento fermato viene letto come folgorazione e illuminazione di ve-rità” (Ghirri, 1997, p. 36); vuole mostrare come ciò sia una presunzione, una contraddizione con il linguaggio fotografico.

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Per dimostrarlo fotografa per un anno intero, una volta al giorno, il cielo ottenendo così 365 immagini del cielo, che poi devono essere assemblate in modo da formare un unico grande pannello. In un suo testo di intro-duzione a questo lavoro, pubblicato nel 1979, Ghirri scrive: “In Infinito, la sequenza temporale di un anno per un totale di 365 fotografie è così anch’essa insufficiente per ridare un’immagine del cielo. Neanche un linguaggio fotografico, iterazione, ripetizione progettata, sequenza tem-porale, è sufficiente a fissare l’immagine di un aspetto naturale. Infinito diventa così un possibile atlante cromatico del cielo; 365 possibili cie-li” (Ghirri, 1997, p. 29). Già in questa prima semplice descrizione della procedura è chiaro come il termine principale sia “possibile”. Ghirri di-chiara subito che la sua fotografia “non descrive in modo esaustivo, non pretende di fissare, non prevede l’idea di una definizione inalterabile del reale. La sua immagine, volutamente paradossalmente tassonomica e scientifica del reale, serve una volta di più a dimostrare l’impossibilità della rappresentazione ultima” (Ghirri, 1997, p. 36).Così formulato, il lavoro può suggerire l’impossibilità, l’inutilità di foto-grafare, essendo la realtà esterna illimitata, ma “è invece in questa non possibile delimitazione del mondo fisico, della natura, dell’uomo che la fotografia trova validità e senso. In questo suo non essere linguaggio as-soluto, e nel farci riconoscere la non delimitabilità del reale trova la sua naturalità e la sua autonomia” (Ghirri, 1997). Infinito è dunque dimo-strazione non che la fotografia è un linguaggio parziale e limitato perché

frammentario, ma che la fotografia è il linguaggio di rappresentazione della realtà perché si presta a mostrare la frantumazione e atomizzazio-ne che è insita nella realtà stessa, e l’unica metodologia di lavoro che si presta a tale compito è il procedere per serie. Tutto sta in questa dichiarazione dell’impossibilità della fotografia di es-sere “linguaggio assoluto” in favore della “non delimitabilità” del reale: la natura, intesa come paesaggio, come tutto il reale, compreso quello metropolitano, non può essere costretta per sempre, inderogabilmente in nessuna definizione da dizionario. Ruolo del linguaggio visivo non è quindi definire, ma semmai svelare l’indefinibilità: trovare i modi e i tempi per raccontare la sua pluralità. È così che Ghirri non si incarica di fotografare il cielo, ma 365 possibili cieli, e quella stessa mappa mobile non restituisce un’immagine del cielo, ma forse, in parte, una minuscola parte di opportunità di evocare il cielo. Con un procedimento mentale quanto mai al limite, Ghirri porta poi l’operazione alle estreme conse-guenze, e nel pannello finale di Infinito, ripete più volte la stessa foto, la gira, la inverte, in modo da contraddire, ancora più sottilmente, que-sta idea ottusa della catalogazione giornaliera. Scrive chiaramente che Infinito è una sorta di sublime esercizio per dimostrare la “impossibilità di tradurre i segni-naturali” (Ghirri, 1997, p. 36). Quest’opera di Ghirri, un po’ come tutto il suo lavoro, trova un’eco forte in certe affermazioni che George Perec faceva sulla sua scrittura: “ [...] dalla successione dei miei libri nasce in me la sensazione, a volte confortante, a volte sconfor-

Ghirri

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tante (perché sempre sospesa a un “libro a venire”, a un incompiuto che rimanda a quell’indicibile verso cui tende disperatamente il desiderio di scrivere), che essi percorrono un cammino, segnalino uno spazio, de-marchino un itinerario incerto, descrivano punto per punto le tappe di una ricerca di cui non saprei spiegare il “perché” ma soltanto il “come”: confusamente, sento che i libri che ho scritto si inscrivono e trovano un loro senso nell’immagine globale che mi faccio della letteratura; ma mi sembra anche che non potrei mai cogliere con precisione questa im-magine: essa è per me un al di là della scrittura, un “perché scrivo” al quale non posso rispondere che scrivendo, rinviando continuamente il momento in cui, cessando di scrivere, questa immagine diventerebbe visibile, come un puzzle quando è definitivamente terminato” (Perec in Gravano, in rete il 20/07/07).E di puzzle come metafora Ghirri parla spesso proprio a indicare l’ope-razione del fotografare: “selezionare le tessere del puzzle che già esisto-no nella realtà per compiere un paziente lavoro di incastro, misurazione, raffronto, memorizzazione della tessera scartata per poi riprenderla più avanti” (Ghirri, 1997, p. 34). Grazie a questa operazione di districazio-ne si ricompone con metodo, pezzo per pezzo, un’immagine leggibile. Immagine che non è la sola, non è rappresentazione univoca e impre-scindibile, ma che è una delle infinite possibili a partire dai frammenti di cui il reale è composto. “L’immagine che si completa alla fine non diventa soluzione dell’enigma perché lo stesso puzzle ricomposto viene

rimesso di nuovo nel flusso dell’esistenza, e diventa ulteriore tessera da collocare. In questo senso l’operazione sembrerebbe inutile, ma all’in-terno della consapevolezza di questa reificazione rimane pur vero che una tessera nei suoi componenti si è ricomposta” (Ghirri, 1997, p. 34).

In Kodacrome, serie realizzata tra il 1970 e 1978, Ghirri chiarifica e appro-fondisce il concetto appena introdotto con Infinito della frammentarietà del reale e della fotografia come linguaggio, come mezzo d’indagine. Nella prefazione alla serie stessa infatti egli ribadisce il concetto sottolineando come il mezzo fotografico sia il mezzo di rappresentazione per eccellen-za: definisce in modo chiaro cosa è per lui la fotografia affermando che questa non concerne solo l’inquadratura, ma anche tutto quello che ne resta fuori, indicando come procedimento essenziale sia il comprendere una parte, sia il cancellare tutto il resto non inquadrato. “Questo duplice aspetto di rappresentare e cancellare non tende soltanto a evocare l’as-senza di limiti, escludendo ogni idea di completezza o di finito, ma ci indica qualcosa che non può essere delimitato, cioè il reale” (Ghirri, 1997, p. 19).Il reale, quindi tutto il visibile, non è delimitabile e quindi descrivibile definitivamente. In questa dichiarazione si celano due interessanti e fon-damentali prese di posizione rispetto al dibattito teorico sulla fotogra-fia in quegli anni in Italia, ma anche in Europa. Da un lato l’avversione esplicita verso le teorie bressoniane del fotogramma perfetto, inalterabi-le in stampa, dell’attimo unico e irripetibile, contro le quali Ghirri scrive

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esplicitamente: “Per questo non mi interessano: le immagini e i momen-ti decisivi, lo studio e l’analisi del linguaggio fine a se stesso, l’estetica, il concetto o l’idea totalizzante, l’emozione del poeta, la citazione colta, la ricerca di un nuovo credo estetico, l’uso di uno stile” (Ghirri, 1997: 19). Dietro queste affermazioni da manifesto, dal tono perentorio e dichia-rativo, si intravede la sua volontà di non cadere nell’idea della fotografia come teoria estetica fissa, di contemplazione passiva del “già bello di per sé” del reale.La serie dei Kodachrome, realizzata tra il 1970 e il 1978, sono un grup-po di immagini scattate per la strada, quindi nel paesaggio urbano, che vedono strane sovrapposizioni, strane stratificazioni di visioni che fan-no chiaramente pensare a delle elaborazioni del fotografo, a dei veri e propri assemblage. Tutte le immagini sono invece trovate così come le si vede nel reale: sono objets trouvés, riciclati dallo sguardo del fotografo. “Molti (e non solo per questo lavoro) hanno visto o scambiato queste fo-tografie per fotomontaggi; questi che io invece chiamerei fotosmontag-gi, vogliono anche testimoniare di un colossale fotomontaggio esistente e cioè quello del mondo fisico. (…) La realtà in larga misura si va tra-sformando sempre più in una colossale fotografia e il fotomontaggio è già avvenuto: è nel mondo reale” (Ghirri, 1997: 22). Ghirri trova ancora molteplici piani di lettura del reale. Il mondo appare come un gioco infi-nito di contaminazioni, di giustapposizioni, di mescolanze che lo sguar-do può cogliere a diversi livelli. Il fotografo non monta un nuovo visibile

ma decostruisce con lo sguardo l’esistente. L’atteggiamento di Ghirri non è quello del passivo registratore, non è del semplice rilevatore, ma piuttosto insegna a spostarsi di quel centimetro che permette di vedere, che palesa un’ulteriore realtà poco riconoscibile dallo sguardo normale. Ghirri dice più volte che la sua fotografia del banale non mostra ciò che già si vede ma ciò che crediamo di vedere. “Il mio tentativo di vedere ogni cosa che è già stata vista, e di osservarla come se la guardassi per la prima volta, può apparire presuntuoso e utopistico. Ma attualmente è questo che mi interessa maggiormente” (Ghirri, 1997, p. 47). Lo sguardo allora diviene costruttore di una inedita tangibilità visiva che non è però finzione, ma piuttosto è la visione disincantata, e svincolata da regole, di chi si può permettere un vedere multiplo. Kodacrome sottolinea dunque che la frammentarietà è nel reale e che l’abilità del fotografo sta proprio nel saper cogliere, fermare, far signi-ficare tale complessità che è invece spesso responsabile di un calo di attenzione di fronte al troppo pieno. Kodacrome è anche l’affermazione dell’atteggiamento del fotografo come colui che “trova”, non certo di co-lui che costruisce: tutto quello che si rispecchia nelle fotografie di Ghirri sono situazioni e oggetti “rinvenuti” come reperti di un’archeologia del presente, del quotidiano, dell’usuale.In effetti, è semplicemente il reale che ha tanti e tali livelli di complessità che già comprende il tutto. In questo modo ha saputo, molto prima dial-tri, guardare alla realtà metropolitana, urbana che, per sua manifesta

Ghirri

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dichiarazione, lo interessava più di ogni altra, in ogni suo aspetto, da quello più pubblico ed evidente a quello più su scala privata.Abbiamo perciò visto che il linguaggio ghirriano, che egli chiama opera aperta, si concretizza nel suo modo di fotografare e nel suo modo di lavorare per serie fotografiche. L’analisi di tre suoi lavori ci ha chiarito cosa è per Ghirri la serie fotografica, e con essa indico più in generale il nuovo linguaggio da lui auspicato, e da cosa nasce tale necessità:– Catalogo è una provocazione contro la tradizionale concezione di serie che viene appunto vista come necessità forzata di mettere assieme delle fotografie;– Infinito è la negazione di un linguaggio assoluto e affermazione di un linguaggio che sia invece narrazione possibile;– Kodacrome approfondisce il concetto di frammentarietà e com-plessità del reale che sta alla base della necessità di rinnovamento del linguaggio.

I LuOGhI COmE RITRATTI

Con le serie fin ora esaminate ci siamo avvicinati alla filosofia di Ghirri e ai suoi forti elementi di rinnovamento. Iniziamo ora a restringere il campo osservando come il suo lavoro sia soprattutto incentrato su luo-ghi, ambienti, oggetti, a scapito, apparente, della figura umana. Nelle sue fotografie, come anche abbiamo potuto constatare dalla pur parziale visione dei suoi lavori, il soggetto rappresentato, ovvero l’ele-mento presente su cui si focalizza l’attenzione, non è quasi mai la figura umana, volti, posture, azioni, comportamenti: sembra quasi che l’uomo sparisca lasciando il ruolo di protagonista all’ambiente, agli oggetti che lo circondano: le poche volte che compare, la sua presenza ha senso nel-l’interazione fisica o semantica con il luogo, le persone sono spesso rap-presentate di spalle e in pose poco eclatanti o in dimensioni poco rile-vanti rispetto a quelle dominanti dell’ambiente. Mai vedremo, per come è tradizionalmente concepito, un ritratto di Ghiri, in cui il volto in primo piano ci guarda, con lo sfondo neutro: egli non vede gli uomini nella loro individualità poiché ciò ha a che fare con un’osservazione psicologica cui non è interessato, perché non appartiene alla sua ricerca. Cito a riguar-do un aneddoto calzante tratto da Viaggio in un paesaggio terrestre di Giorgio Messori e Vittore Fossati i quali, parlando di Courbet raccon-tano: “Si dice che la sua amicizia con Baudelaire si sia incrinata perché a Baudelaire non era piaciuto il ritratto che Courbet gli aveva fatto. E Courbet si sarebbe giustificato con lui dicendo che è impossibile ritrarre uno che cambia faccia tutti i giorni. Perché la mutevolezza di un volto

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non appartiene allo stesso ordine delle forme che cambiano continua-mente nello scenario della natura, anche perché nella natura il tempo ha una durata, non è una successione di istanti, come può accadere per il volto di una persona” (Messori, 2007). Similmente, seppur con le dovu-te differenze dovute alla mutazione del paesaggio naturale, Ghirri non indaga l’essere umano nella sua individualità. Eppure abbiamo la sensa-zione che i luoghi di Ghirri raccontino dell’uomo, del suo vivere, del suo essere, e lo facciano in maniera sicuramente più efficace rispetto a tutte quelle immagini omologate, stereotipate della fotografia commerciale che pur formalmente lo rappresentano e contro le quali egli si scaglia prepotentemente.Le sue serie Diaframma 11, 1/125 luce naturale, Identikit e Atelier Morandi toccano espressamente questo filone di ricerca sull’ambien-te antropico, sulla rappresentazione dell’uomo attraverso l’ambiente e sulla sua identità, mettendone in rilievo diversi aspetti che ci aiutano a capire il perché di una scelta così determinata, ma anche così coerente con la fotografia e la filosofia di Ghirri.

Diaframma 11, 1/125 luce naturale, scattata da Ghirri tra il 1970 e il 1979, racconta la vita delle persone nel loro tempo libero, ambientate però come se fossero in una messa in scena, davanti a una quinta teatra-le. In questa serie compaiono spesso figure che, di spalle a noi, guardano delle carte geografiche a muro. Ghirri ci mostra l’osservatore del mondo,

ci mostra se stesso e noi stessi. Nel suo testo di spiegazione del 1979, proprio a proposito di queste figure scrive: “ho voluto dare alle persone un infinito numero di possibili identità, dalla mia mentre fotografo, a quella ultima: quella dell’osservatore” (Ghirri, 1997, p. 28). Le persone girate, faccia alle mappe non sono anonimi ma sono plurimi, non sono senza nome, ma sono tutti i possibili nomi. In questa serie si introduce il tema dell’identità come strada di ricerca complessa e articolata che por-ta il fotografo a riprendere persone voltate o seminascoste da elementi del paesaggio, non per pudore, ma solo per lasciare all’osservatore lo spazio per immaginare tante possibili identità. “È piuttosto in me la con-vinzione che in questo teatro, tra fondali, quinte, attori, il mio ruolo di fotografo non vuole essere né quello dell’autore, del cronista, dello spet-tatore, o del suggeritore, ma è anche, il mio, un ruolo identico a quello dei fotografati” (Ghirri, 1997, p 29). E qui si potrebbe intravedere la pas-sione di Ghirri per il fotografo americano Walker Evans che, “tra i primi abbatte la barriera di rappresentazione tra fotografo e fotografato, tra fotografo e ritratto, instaurando un rapporto di reciprocità che scavalca d’un balzo tutta la concezione ottocentesca dell’antropologia visiva che vedeva nel fotografo l’osservatore ben distinto dalla materia da osser-vare” (Gravano, in rete il 20/07/07). “Non mi piace essere lo scrutatore occulto per carpire segni di vita, né tantomeno mi piace essere un im-placabile e inflessibile occhio, che guarda direttamente in faccia, e che inevitabilmente fotografando giudica”(Ghirri, 1997, p. 29).

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In Diaframma 11 perciò Ghirri dichiara di non essere interessato alla penetrazione psicologica tipica del ritratto fotografico per come è tradi-zionalmente concepito: egli ci mostra l’uomo calato nel paesaggio, pae-saggio che non è solo luogo da osservare ma anche luogo dove essere osservati. Ghirri non trova dunque nel suo sguardo la verità di chi vede, ma si sente al medesimo tempo fotografo e soggetto fotografato. Ancora una volta compie un’operazione metasemiotica: lega in maniera inscin-dibile l’uomo all’atto del guardare, del percepire, dello scoprire.

Il lavoro sull’identità raggiunge con Identikit sfere più intime. Nella se-rie, scattata tra il 1976 e il 1979, Ghirri cerca non di “descriversi” ma di “mostrarsi” attraverso immagini della sua casa, dei suoi libri, dei suoi dischi, delle sue cose, come lui stesso scrive.Egli si pone dunque l’obiettivo di mostrare se stesso: “È come gesto di mostrarsi più che rappresentarsi che intendo queste fotografie” (Ghirri, 1997, p. 39). Già in questo suo specificare la scelta semantica di un ter-mine e non di un altro, percepiamo la sua avversione al genere ritratto, capiamo come la sua scelta parta della critica all’attuale modo di fo-tografare che ritiene inadeguata a rappresentare e indagare il mondo contemporaneo. È lo stesso procedimento operato in Infinito in cui egli critica quelle fotografie di paesaggio che con un solo scatto si arrogano un diritto di verità. Il termine mostrarsi si contrappone al termine de-scriversi poiché Ghirri intende compiere un’operazione diversa da quel-

la del ritratto che cattura l’emozione fulminea e passeggera di un istante su un volto, diversa da quella dello sfogliare l’album di famiglia che sa-rebbe inevitabilmente un recupero forzato del passato: “ho cercato di mostrarmi al presente attraverso segni che lo testimoniano” (Gravano, in rete il 20/07/07).In tale direzione il termine usato per il titolo, Identikit, è un’indicazione di senso: “Il titolo usato è Identikit poiché analogamente identikit è la descrizione al presente di un volto ottenuto attraverso segni diversi frut-to di memoria, che attendono in un futuro un disvelamento più preciso e dettagliato (…). Ho delegato, per questo autoritratto, gli oggetti (libri, dischi, ecc.) che testimoniano di un rapporto di conoscenza, di cultura, della mia fantasia, del passare il mio tempo: la lettura, l’ascolto della musica, progettare viaggi. Identikit diventa così continuazione ideale del mio lavoro eseguito e di quello che andrò a eseguire” (Ghirri, 1997, p. 39). Vediamo dunque come, anche per l’identità dell’essere umano, Ghirri ancora una volta esprima la volontà di non usare l’immagine per risolvere il reale in un’unica soluzione di verità data, ma piuttosto un palesare uno o più aspetti di questa. Ghirri fa una descrizione della sua abitazione, dei suoi oggetti, come dei suoi luoghi, non diversa da una mappatura che non restituisce però il “ciò che è”, ma piuttosto traccia indizi, spesso sfocati, soggettivi, un po’ appunto come quando si cerca di tracciare un identikit sui vaghi ricordi di qualcuno. Un’altra serie in cui Ghirri disegna un identikit è l’Ateler Morandi in

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cui egli fa una affettuoso e commuovente ritratto dell’amico scomparso ritraendo il suo studio, la luce che entrava dalle finestre della sua stan-za, gli oggetti che ritraeva. In Identikit e Atelier Morandi vediamo così come i luoghi, gli oggetti, i paesaggi quotidiani abbiano un ricco poten-ziale espressivo, possano svelare l’identità di una persona, il suo vissuto, il suo essere in potenza, tanto che possiamo parlare di “ritratti”.

VIAGGIO E pAEsAGGIO

Nel paragrafo precedente abbiamo constatato come l’insistenza di Ghirri a ritrarre luoghi, oggetti e paesaggi non sia una scelta di esclusione che allontana l’essere umano dal campo di indagine ma sia invece una scelta consapevole e ragionata che mira, anzi, proprio a coniare un linguaggio che parli all’uomo dell’uomo e delle sfide sempre nuove che la contem-poraneità gli pone. Parlare dell’uomo attraverso il paesaggio non è poi così inconcepibile, se ci si pone nell’ottica ghirriana per cui Paesaggio è quella contaminazione dovuta alla presenza umana che, volenti o nolen-ti è tratto distintivo del territorio oggi. Le serie fotografiche che ora esamineremo mostrano la critica di Ghirri alla fotografia classica di paesaggio che tende a restituire un’immagine falsa, illusoria, lontana anni luce dall’aspetto contemporaneo del terri-torio italiano e perciò incoerente con la peculiarità indagativa del suo nuovo linguaggio. In Infinito e Colazione sull’erba egli critica il paesag-gismo naturalistico che dipinge una natura incontaminata; in Italia ai lati, Il paese dei balocchi e In scala critica il paesaggismo storico, uffi-ciale, stereotipato che lega il territorio a monumenti che, troppo carichi di memoria, si svuotano di senso; in Atlante infine chiude, come suo solito, portando al paradosso questo strutturale compenetrarsi di realtà e rappresentazione.

Nel testo di presentazione a Infinito leggiamo: “Non ho mai amato le fotografie della ‘natura’. Da quelle in cui la natura appare nei suoi aspet-

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ti misteriosi o metafisici, alle forzature astratte dei segni o campiture di colore. Ho sempre trovato in queste immagini, e nel tentativo dispe-rato di bloccare il ‘momento naturale’, una contraddizione insanabile con il linguaggio fotografico. È già infatti la scoperta della visione rina-scimentale, tramite la camera oscura, avvenuta non a caso in una sfera intellettuale urbana, che esclude in larga misura una visione ‘naturale’” (Ghirri,1997, p. 36). In questa breve trattazione si racchiude gran parte del senso del lavoro sul paesaggismo di Ghirri. In primo luogo, come abbiamo visto, il netto e chiaro rifiuto di una visione di contemplazio-ne passiva della natura come “bellezza” intoccabile. Egli dice a chiare lettere che non trova nessun senso nel tentativo di “bloccare” in giochi estetici di diverso tipo una sorta di essenza naturale. Ma quello che ap-pare ancora più interessante è l’importanza che dà alla natura urbana, potremmo già dire metropolitana, del nuovo paesaggio. Troppo spesso si è confuso il suo interesse fotografico per la Pianura Padana, o per la campagna emiliana, come una sorta di nostalgica attenzione al mondo della campagna, trasformando il suo paesaggismo assolutamente me-tropolitano – nello sguardo e nell’approccio – in una specie di ricerca naturalistica, strettamente legata a un conservatorismo di valori legati malinconicamente, e non costruttivamente, alla sola cultura contadina e provinciale. Ghirri, prima di chiunque altro, ha compreso il concetto di metropoli diffusa, ha capito che il suo sguardo poteva continuare a soffermarsi per tutta la vita solo entro un raggio di venti chilometri dalla

sua casa emiliana, ma che quello che contava era l’atteggiamento intel-lettuale, concettuale, di una ricerca mutevole e mutante, che si poteva avere su questi luoghi. Per primo ha compreso che non può esistere uno sguardo locale e localizzato che racconta la provincia, o una provincia, perché questa di per sé fa parte di un insieme globale, di una visione mobile e diffusa, che non la rende più luogo fisso, ma spazio di attraver-samento, prima di tutto dello sguardo.

Questi nuovi concetti di natura urbana e di metropoli diffusa, il conti-nuo e reciproco contaminarsi fra naturale e artificiale che caratterizzano il paesaggio contemporaneo, sono ben enunciati nella serie Colazione sull’erba. In questo lavoro, realizzato tra il 1972 e il 1974, Ghirri foto-grafa tutto il verde pubblico giocando a confondere la natura-naturale con la natura-artificiale. Nel testo del 1979, che presenta la serie, tiene a specificare che non c’era nessuna volontà tassonomica di catalogare il verde periferico, e poco oltre spiega ancora più chiaramente: “Questa serie non vuole tanto sottolineare un rimosso esistenziale quotidiano o segnalare una simbolica deprivazione della natura oggi, quanto far ri-saltare come anche questo sia un aspetto della realtà odierna in cui la lettura non va mai effettuata in maniera univoca, ma sempre all’interno di una costante ambiguità” (Ghirri, 1997, p. 23). Nel paesaggio contemporaneo, la ricostruzione artificiale della natura non è un elemento negativo demonizzabile, non è elemento da giudi-

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care e condannare, magari utilizzando il ridicolo. Piuttosto, la continua commistione tra natura e artificio viene riconosciuta da Ghirri come un marchio del nostro tempo, ed è inutile e dannoso avere un atteggiamen-to malinconico che vede in queste nuove forme di estetica solo la perdita della naturalità. Nella parte finale del suo testo Ghirri, come un chiaro-veggente, dice che occorre rifiutare una lettura univoca a favore di una complessità che lo interessa molto di più. Ecco di nuovo la sua straor-dinaria capacità di leggere la molteplicità dei segni del suo tempo che alludono costantemente all’impossibilità di una visione unificata, paci-ficata del paesaggio, alla quale le sue immagini contrappongono invece un conflitto costante, un’ambiguità che attiva lo sguardo e non lo lascia in passiva contemplazione, o peggio in nostalgica ricerca, di un bello di natura. Ogni fotografia della serie Colazione sull’erba gioca a confonde-re reciprocamente le carte tra natura-naturale, natura ordinata dall’uo-mo e artificialità totale. E di nuovo Ghirri non costruisce mai situazioni ma piuttosto le trova, le vede. Dedica allora grande attenzione ai nuo-vi abitanti attoniti dei giardini delle nostre periferie: nani con o senza Biancaneve. Oppure fissa un’immagine di un giardino con un fondale verde dipinto del quale non si può più capire, nella bidimensionalità, quale spazio è attraversabile e quale è piano. O ancora, realizza piccole serie fotografiche di educate aiuole che sembrano finte e appaiono come i piccoli giardini simulati nei plastici degli architetti e, solo a un secondo sguardo, si rivelano invece quanto mai vere… o forse no.

Mentre nelle due serie appena citate Ghirri critica il paesaggismo na-turale, in Italia ai lati, lavoro realizzato dal 1971 al 1979, denuncia il peso eccessivo che troppa memoria esercita sulla rappresentazione di quei posti che si vorrebbero vedere, per un’anacronistica nostalgia, fermati in un eterno passato che non gli appartiene in toto, che non li descrive se non in modo parziale a frettoloso. Nella serie Ghirri mette a confronto le immagini stereotipate che si vedono negli scomparti-menti dei treni con quelle che si vedono passare fuori dal finestrino, vere e frammentate. Le immagini appese all’interno dei vagoni sono ufficiali e statiche, mentre quelle che scorrono come in uno schermo sul vetro gli appaiono veloci, forse sommarie, ma vive e contempora-nee. “Se le merlature delle torri citano un glorioso passato, e le ron-dini volano ancora, pur tuttavia non possono celare le staccionate di cemento sullo sfondo di un cielo azzurro” (Ghirri, 1997, p. 30).L’occhio del fotografo ancora una volta lontano da qualsiasi morali-smo o giudizio, guarda alla possibile compenetrazione tra queste due realtà che dà come risultato la vera realtà paesaggistica sfaccettata: “Rivedendo nel passato, nelle strutture delle città, nelle immagini che abbiamo visto, nel nostro paesaggio, e relazionandoli con un presen-te possiamo distinguere: verificare, smascherare, per poi progettare ‘un paesaggio’” (Ghirri, 1997, p. 32). E ancora si noti come si nomini “un paesaggio” e non “il paesaggio”, a indicare sempre solo una di molte possibilità.

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Un ulteriore e radicale attraversamento tra paesaggio reale e finzione viene compiuto da Ghirri in due serie di lavori Il paese dei balocchi e In scala, dove scatta una serie di foto nelle “città della domenica”, cioè nell’Italia in miniatura e in parchi tematici simili. Qui la variazione di scala fa tutto il gioco. Lui stesso dice che in questi parchi è come trovarsi in una fotografia tridimensionale dove la variazione di proporzioni crea l’artificio illusorio tra reale e finzione, messa in scena e gioco. “Forse questa non sarà l’avventura con la ‘A’ maiuscola, ma nei tempi in cui gli gnomi abitano la cellulosa dei libri e non popolano più boschi di alberi resinosi, e il paese di Lilliput per Gulliver è lo schermo televisivo o il pa-nopticon tridimensionale dell’Italia in miniatura di Rimini, inaspettato lo stupore è in queste piccole fratture e divergenze, volute o determinate dagli eventi, volontà di caratterizzazione nello sterminato territorio del-l’analogo” (Ghirri, 1997, p. 53). In questo spazio dell’analogo si muove il paesaggio ghirriano che pren-de in considerazione tanto la Torre di Pisa quanto la sua miniatura nel Parco Tematico, senza porre differenza di sguardo tra le due, e consi-derandole ambedue oggetti della visione del presente, arrivando a dire che “è proprio in questo spazio di totale finzione che forse si cela il vero” (Ghirri, 1997, p. 37). L’attraversamento fisico di questa sorta di simula-cri storici mette l’uomo comune davanti alla sua relazione con l’identità storica che, in una cultura come quella italiana, è insieme un fardello e un tesoro: “La celebrazione dei miti, dei luoghi delegati a una ‘identità

territoriale’, induce a una immediata ironia sulla follia di questo viaggio, di questo vedere tutto contemporaneamente” (Ghirri, 1997, p. 37).In Atlante, infine, le provocazioni di Colazione sull’erba, Italia ai lati, Il paese dei balocchi e In scala mirate a sottolineare la profonda e struttura-le compenetrazione fra naturale e artificiale, oggetto e rappresentazione che caratterizzando il paesaggio contemporaneo, sono ancora una volta estremizzate e portate al paradosso: Ghirri arriva ad affermare che, per assurdo, viaggiare nella rappresentazione del mondo è come viaggiare nel mondo, poiché esso è ormai in gran parte rappresentazione.

Atlante è una serie di immagini che altro non sono che foto di mappe geografiche, di diverso periodo e natura, che riproducono simbolica-mente luoghi vicini o lontani, esotici o nostrani. Le immagini sono scat-tate molto da vicino in modo da confondere il retino della stampa con le piccole onde dell’oceano disegnate simbolicamente. Come minuscoli omini ai quali improvvisamente è data la possibilità di attraversare il mondo con un passo, tutti percorriamo l’intero globo in un solo sguar-do. L’eterno sogno infantile del pianeta del Piccolo Principe di Saint Exupéry ci si avvera sotto i polpastrelli. Atlante nasce per Ghirri non solo come una serie di immagini, ma con l’idea progettuale di realizzare un vero nuovo atlante, un libro che fosse in qualche modo l’atlante e l’anti-atlante, un libro di mappe mobili, un libro con la sua geografia. Walter Benjamin scrive come incipit al suo testo Il flanêur, ne I “passa-

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ges” di Parigi, una frase di un malato di mente: “Et je voyage pour con-naître ma géographie” (Benjamin, 1997, p. 465). In qualche modo Atlante di Ghirri è la prova concreta che ogni paesaggio altro non è che una no-stra geografia. L’atlante è lo spazio della rappresentazione dei luoghi per eccellenza, è lo spazio visivo nel quale ciascuno di noi, come dice lui stes-so, fin da piccoli ritroviamo il luogo dove siamo, sogniamo luoghi lontani, o tracciamo percorsi che poi attraverseremo. “In questo lavoro ho voluto compiere un viaggio nel luogo che invece cancella il viaggio stesso, pro-prio perché tutti i viaggi possibili sono già descritti e gli itinerari sono già tracciati. Le isole felici care alla letteratura e alle nostre speranze, sono ormai tutte descritte, e la sola scoperta o viaggio possibile, sembra quello di scoprire l’avvenuta scoperta” (Ghirri, 1997, p. 30).

Viaggiare dentro l’immagine appare a Ghirri ancora l’unico viaggio pos-sibile. Viaggiare nella rappresentazione del mondo è come viaggiare nel mondo perché questo è ormai in gran parte la sua rappresentazione. Nel paradosso ghirriano i viaggi negli atlanti sono i soli possibili, in una società dell’immagine, che va considerata come tale, senza inutili mora-lismi, senza confini che ne respingano la verità: “Il viaggio è così dentro all’immagine, dentro il libro” (Ghirri, 1997, p. 30).

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VIAGGIO IN ITALIA E LA NuOVA FOTOGRAFIA ITALIANA

Il lavoro di approfondimento sulla fotografia e la filosofia di Ghirri, che ci ha portato ad esaminare molti dei suoi lavori, familiarizzare con il suo modus operandi, entrare in sintonia con la sua visione sfaccettata del reale, è stato un percorso obbligato, indispensabile per comprendere il cuore del suo più ampio e ambizioso progetto Viaggio in Italia, per coglierne la reale portata di innovazione per la fotografia contempora-nea ma non solo: anche per il linguaggio visivo e la comunicazione in generale.

Lo spessore e l’importanza del suo operare è dovuto infatti proprio alla sua volontà, alla sua determinazione nel porsi come obiettivo una possi-bile soluzione al disagio comunicativo generazionale che egli avvertiva.Ma in cosa consiste questo disagio comunicativo? È ciò che, con la po-tenza e la genialità del suo “scrivere per immagini” egli afferma nel suo scritto Una luce sul muro: parlando degli scatti che si era trovato a fare nell’atelier di Morandi, Ghirri racconta la disperazione e lo sconforto del pittore quando, proprio di fronte alla finestra del suo studio, prezio-sissima fonte di luce, vide sorgere un enorme condominio dall’intonaco giallognolo che alterava la qualità e la quantità della luce. Parte così da questa forte immagine, da questo sconforto, da questo spaesamento per parlare dello sconforto e dello spaesamento dell’uomo contemporaneo di fronte a quella che chiama “perdita di paesaggio”.“La sparizione del paesaggio che avviene, di norma, come mutazione

dello spazio esistente, è accompagnata da quella altrettanto importan-te dell’ambiente in generale, sparizione che interessa anche il campo di attenzione. E succede che tutte le discipline riguardanti la rappresenta-zione, come fotografia, cinema, letteratura ecc. è come se fossero colpite da una forma di indicibilità se non da una vera e propria afasia, nel mo-mento in cui si trovano a dover incontrare l’aperto del mondo esterno (…) il luoghi sembrano aver perso ogni riconoscibilità, negandoci ogni possibilità di lettura, quasi fossero stati toccati da una malefica magia fantascientifica che li ha stravolti. (…) È probabile che questo dipenda dal fatto che il territorio e il paesaggio sono diventati ormai luoghi ano-nimi, dove possiamo trovare tutto e di tutto, come in uno sterminato emporio del moderno, pieno di segni, segnali, insegne, gente, automobili e fabbricati e ancora squarci di paesaggio, torri, palazzi, cortili, giardini e che quindi il nostro sguardo, al primo approccio, renda questi luoghi come qualsiasi altra località occidentale” (Ghirri, 1997, p. 166). E anco-ra, Gianni Celati, attore di Viaggio in italia afferma : “Qualcosa è suc-cesso per cui questi aspetti della veduta classica diventano disconnessi, non più saldati in un’unità. Il che da luogo a imprevedibili aperture nei modi di pensare l’immagine, e un nuovo vedere, con nuove immagini” (Valtorta, 2004, p 77).

Ghirri dunque percepisce il problema di linguaggio e di comunicazione che colpisce l’uomo nel suo rapportarsi al mondo e cerca di prender-

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ne coscienza dando spazio alle “imprevedibili aperture”, nel “nuovo vedere” di cui Celati parla. Ed è in tal senso che Ghirri è stato anti-cipatore, poiché è stato capace di cogliere il disagio e fondare la sua ricerca proprio su questa “afasia” dell’uomo contemporaneo causata dalla “sparizione del paesaggio”, dalla mutazione del reale, sempre più repentina e strutturale e perciò sfuggente, innominabile. Il suo per-corso di ricerca di una nuova lingua non può che partire dall’analisi critica dei linguaggi a lui contemporanei, dalle discipline riguardanti la rappresentazione, e dallo sforzo di comprendere il perché questi non siano adatti a mostrare il reale per quello che è, generando “l’afasia”, la “malefica magia” di cui parla. Approfondire i vari filoni di ricerca ghirriana a questo è servito: abbiamo visto come le sue idee e la sua concezione di “opera aperta” non siano considerazioni astratte ma partano dal coraggioso atto di mettere in di-scussione quelli che erano i cardini, la struttura portante dei linguaggi di rappresentazione e in particolare della fotografia da cui egli stesso è inevitabilmente partito e cui egli stesso ha fatto inevitabilmente riferi-mento per anni.Ghirri infatti, nei lavori che abbiamo esaminato e discusso, prende in esame uno per uno i generi fotografici mostrando come questi siano de-terminati da regole, da standard stereotipati e consolidati che tendono a rendere falsa e sterile l’immagine.Still life critica il genere di fotografia “natura morta”, che per le sue carat-

teristiche tende a mostrare la fotografia non come filtro, interpretazione, ma come pura riproduzione, duplicazione; Catalogo critica la fotografia che fa l’inventario del reale riducendolo a scompartimenti fissi; Infinito critica il lavorare per singole fotografie come implicita dichiarazione di verità assoluta e propone invece il lavorare in serie, come propo-sta di un possibile accostamento, possibile verità, possibile narrazione; Colazione sull’erba critica la fotografia della natura come rappresenta-zione di un paesaggio forzatamente incontaminato, che esclude a prio-ri l’artificiale schedandolo come elemento negativo e demonizzabile; Italia ai lati critica il paesaggismo storico, ufficiale, stereotipato, da cartolina che lega il territorio a monumenti che rischiano di occultare il presente; Diaframma 11 critica il principio base della fotografia di ri-tratto che vede da una parte il soggetto e dall’altra l’occhio implacabile del fotografo che giudica.Ghirri parte perciò con una critica verso tutti i generi fotografici, i modi di fotografare e di approciarsi alla fotografia a lui contemporanei senza prediligerne alcuno: un tale atteggiamento, che può essere percepito come presa di posizione dell’artista che giudica sprezzante dalla sua torre in avorio, va visto nella giusta luce. La sua avversione innanzi-tutto non nasce da un capriccio, ma dalla fatica, dall’umiltà e soprat-tutto dalla necessità di mettersi in gioco in prima persona: i linguaggi di rappresentazione che lui critica sono infatti gli stessi che lui stesso ha utilizzato e dai quali lui stesso è partito; il suo criticare tutti i generi

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fotografici non è poi assolutismo ma è dettato dal fatto che egli ha in-dividuato l’anello debole dei linguaggi visivi a lui contemporanei nel concetto stesso di applicazione pedissequa di regole e stereotipi insita in questa suddivisione in generi.

Da qui dunque la sua volontà urlata (si veda Kodacrome o Colazione sull’erba) di vedere, di accettare la complessità del reale, e non nascon-dersi dietro schemi obsoleti che rendono ciechi; da qui l’urgenza, la ne-cessità di abbattere le definizioni rigorose e schematiche, gli stereotipi che dominano i linguaggi di rappresentazione visiva, di ibridare i generi al fine di trovare la chiave di un linguaggio possibile, che ha nell’apertu-ra e nell’elasticità i suoi tratti salienti.“La mia idea di opera fotografica è quella di un’opera aperta. Non per-ché, semplicemente, mancano alcune tessere per ultimare il puzzle, ma perché ogni singolo lavoro si apre su uno spazio elastico, non si esauri-sce in un’entità misurabile ma sconfina, un continuo dialogo tra quello terminato e quello che ci sarà. L’immagine assume così contorni meno definiti, categorici e lapidari, per essere parte di un’organizzazione più grande e in continuo movimento” (Ghirri, 1997, p. 79).Il termine “opera aperta” spesso usato da Ghirri per parlare della sua fo-tografia non è casuale. La sua ricerca di un linguaggio che abbia le carat-teristiche di flessibilità, apertura e mobilità proprie della realtà che vuole mostrare trova supporto nel saggio di Umberto Eco L’opera aperta che,

nel capitolo Apertura, informazione, comunicazione traccia una precisa nuova tendenza dell’arte contemporanea, intendendo qui con arte qualsiasi forma creativa: “Le poetiche contemporanee, nel proporre strutture artisti-che che richiedono un particolare impegno autonomo del fruitore, spesso una ricostruzione, sempre variabile, del materiale proposto, riflettono una generale tendenza della nostra cultura verso quei processi in cui, invece di una sequenza univoca e necessaria di eventi, si stabilisce come un campo di probabilità, una “ambiguità” di situazione, tale da stimolare scelte operative o interpretative volta a volta diverse” (Eco, 1962, p. 95).Un simile modus operandi è stato adottato, proprio nei primi anni Ottanta, anni in cui si sviluppa il progetto di Viaggio in Italia, a livello più ampio e globale da scienziati, biologi, antropologi, pscicologi, filo-sofi, matematici le cui riflessioni sono state raccolte da Gianluca Bocchi e Mario Ceruti nel libro La sfida della complessità in cui la complessità del reale viene vista non come qualcosa da abbattere, ridurre, semplifi-care, ma come un dato di fatto da accettare, assimilare, comprendere.Il libro, perfettamente in linea con la poetica ghirriana, seppur toccan-do ambiti molto differenti, “è un invito a una revisione degli strumenti tradizionali di lettura e conoscenza del reale, fin’ora organizzati attorno alle pratiche di un pensiero forte, all’interno del quale il sapere assume la forma di una strategia globale della conoscenza e in cui il momen-to fenomenico viene assunto come un frammento da ricondurre ad un universo più generale, governato da leggi universali.” (Bocchi e Ceruti

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1985). Il filo conduttore di tutti i saggi raccolti è dunque un’indagine vol-ta a verificare se questa pratica tradizionale di ricondurre il fenomenico, l’evento particolare, a regole più generali funziona ancora. In realtà già nell’introduzione vediamo come la risposta suggerita dal libro sia nega-tiva, e come l’invito sia invece quello di compiere lo sforzo di slegarci da schemi e stereotipi al fine di non ricondurre l’esperienza percettiva a schemi generali ormai obsoleti e insufficienti, di avere uno sguardo più elastico, che sia in grado di percepire la realtà attuale. È quanto viene dichiarato nell’introduzione, in cui ci accorgiamo che la “perdita di pae-saggio” ghirriana tocca in realtà tutto il sistema scientifico e cognitivo umano: “La seconda metà del nostro secolo è caratterizzata dalla crisi dei presupposti epistemologici delle filosofie classiche della storia e dal fallimento di quelle idee di progetto, e di quei progetti, che hanno preso corpo all’interno di quelle filosofie. È venuta meno l’idea che la conoscen-za delle leggi che regolano l’universo – fisico, biologico, sociale – possa garantire il controllo della storia e del futuro. Abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare il futuro. Un nuovo modo di pensare il futuro che riconosca il reale e il possibile non come dati immutabili ma come co-struzioni mai definitive e dipendenti anche dalle nostre scelte, che tratti l’incertezza non come il peggiore nemico ma come il migliore alleato, che consideri la proliferazione di idee, di approcci e di azioni non un’inutile dispersione di energie ma l’unica strada percorribile per costruire nuove possibilità. La costruzione del futuro è una sfida ineludibile. Ed è indis-

sociabile dalla sfida della complessità” (Bocchi e Ceruti 1985).L’opera di Bocchi e Ceruti è calzante per il nostro discorso, poiché com-pie un’operazione per molti versi simile a Viaggio in Italia, conferman-do l’apertura e l’attualità dell’indagine compiuta da Ghirri : l’obiettivo degli autori de La sfida della complessità “non è quello di definire una teoria fissa, ma piuttosto quello di abbozzare, grazie all’apporto di di-scipline diverse una teoria in divenire, divisa, più disposta a perdersi, ridefinirsi nei problemi, nei dubbi e nei bisogni di ogni lettore che a di-fendersi come risposta, come filosofia sistemata” (Bocchi e Ceruti 1985). Parimenti, Viaggio in Italia trova il suo senso non tanto nel risultato quanto nel percorso che è stato fatto da fotografi con stili e personalità molto differenti, e nel nuovo approccio al reale che questo percorso sot-tende. In entrambi i casi insomma si dà rilievo non tanto al risultato del-la ricerca quanto al processo, al discorso, al progetto, alla ricerca stessa. Ciò è tanto più valido quante più personalità diverse hanno aderito al progetto e al modus operandi che sottende. Sia Viaggio in Italia che La sfida della complessità sono infatti nati solo grazie alla volontà di pro-fessionisti con formazione e ambiti di indagine molto diversi fra loro di confrontarsi in una sfida impegnativa ma necessaria. Ecco dunque per-ché abbiamo accostato due opere che toccano ambiti così diversi, uno artistico-fotografico, l’altro scientifico: a dimostrare la necessità a livello globale di un mutamento di sguardo, di orizzonte, di metodo, di un’at-tualizzazione degli strumenti cognitivi che risponda al mutamento del

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reale in cui cambiamento, sovrapposizione e velocità non sono caratteri-stiche transitorie ma strutturali del nuovo paesaggio. E qui comprendia-mo finalmente l’insistenza di Ghirri nel suo continuo sottolineare la ne-cessità di accettare questo nuovo tipo di realtà che va via via delineando con i suoi lavori e che nomina con i termini Metropoli diffusa o natura urbana (dare un nome alle cose è il primo passo per comprenderle); capiamo il suo opporsi ai rigidi stereotipi che stanno alla base dei lin-guaggi di rappresentazione e nello specifico dei generi fotografici, che ci portano ad avere una percezione distorta della realtà, pericolosa perché illusoria. Ricordo ad esempio la critica di Ghirri, sviluppata nella serie Colazione sull’erba, alle fotografie paesaggistiche in cui compare una natura idillica e incontaminata, che non corrisponde al vero.

Nell’introduzione a La sfida della complessità leggiamo: “La tesi stessa affermata dal libro è coerente con tale approccio: non ci si può accostare alla complessità attraverso una definizione preliminare, bisogna seguire percorsi differenti. Non c’è una complessità ma delle complessità. La complessità non è la risposta ad un problema quanto il “risveglio a un problema”, a una presa di coscienza. Bisogna prendere coscienza del fatto che non solo possono cambiare le domande e le risposte, ma che possono anche cambiare anche i tipi di domande e di risposte attraverso le quali si definisce l’indagine scientifica.” , e ancora sul manifesto di Viaggio in Italia “Le opere degli autori spostano l’attenzione della fo-

tografia alla cultura quotidiana dell’italia oggi e impongono il confronto con il vuoto d’impegno conoscitivo che paralizza altre attività espressive e altri sistemi di comunicazione. (…) L’intenzione è ricomporre l’imma-gine di un luogo, e antropologico e geografico, il viaggio è così ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che non è fredda categoria di una scienza, ma avventura del pensiero e dello sguardo.” Entrambe le opere perciò partono da una presa di coscienza del disa-gio contemporaneo, ne individuano la causa nella mutazione struttura-le della realtà e nell’incapacità degli strumenti percettivi tradizionali di indagarla, ed entrambe si pongono l’obiettivo di colmare questo scarto fra reale e strumenti di indagine. La cosa interessante per cui ha vera-mente senso accostare i due libri è che, pur trattando argomenti diversi, in entrambi i casi si arriva a capire che questa necessità di cambiare gli strumenti di indagine per essere reale ed effettiva deve partire dalle basi, deve rivoluzionare il sistema, il metodo di indagine stesso, e non solo il tipo di strumento. Ecco perché non ha senso individuare la soluzione nello strumento fotografico, piuttosto che pittorico o cinematografico, ma in un certo tipo di fotografia, di pittura e di cinema, che implicano un certo approccio al reale, un certo sguardo: è dunque un nuovo sguardo e non nuovi occhi quello di cui si necessita.È questo che Bocchi e Ceruti affermano dicendo che non solo possono cambiare le domande e le risposte, ma che possono anche cambiare an-che i tipi di domande e di risposte.

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Ecco dunque il valore di Viaggio in Italia, motivo per cui ne ho fatto uno dei pilastri portanti del mio percorso di ricerca: l’aver saputo “ri-svegliare un problema”, l’essere stato in grado non solo di porre delle domande, ma cambiare i tipi di domande, suscitando di conseguenza nuovi tipi di risposte.Prima di entrare nello specifico è bene inquadrare storicamente l’espe-rimento di Ghirri, dare corpo e colore a questa mutazione del reale così spesso citata in queste pagine attraverso le parole di Gabriele Basilico, fotografo e architetto che ha collaborato a Viaggio in Italia: “Nel perio-do storico che va dal dopoguerra agli anni settanta la fotografia, intesa come pratica conoscitiva, si identificava con la classica fotografia di re-portage, in cui la figura dell’uomo, la sua azione, la sua gestualità era-no in primo piano, in cui “l’impegno dei reporter era dedicato ai grandi temi sociali, alla violenza, alla guerra, all’ingiustizia e non poteva essere diversamente, considerate le condizioni critiche in cui versava l’umani-tà” (Valtorta, 2004, p 139).Alla fine degli anni settanta si ha uno spostamento di attenzione, un’in-versione di tendenza dettata dai cambiamenti storici: quel paesaggio, da sfondo scenografico, emerge sempre più come protagonista. “Si spegne l’eco dei tumulti di piazza e si ridimensionano i sogni rivoluzionari, una necessità di ripensamento e un periodo di tregua si impongono nella società. Restano visibili le tracce di un paese che, sulla spinta della ricostruzione materiale ed economica ha corso troppo in fretta verso

il consumo di se stesso. In poco più di trent’anni di ricostruzione, dalle macerie della guerra si è compiuta la cementificazione dell’intero pae-se, dalle coste alle località montane, all’esplosione delle periferie urba-ne. E il paesaggio naturale, devastato da un’antropizzazione selvaggia e da uno sviluppo incontrollabile, è rimasto percepibile solo come ri-serva protetta, luogo di fruizione turistica, simile a un parco tematico. La strategia del turismo è diventata l’unico strumento progettuale uti-lizzato, economicamente più significativo, responsabile delle grandi e piccole modificazioni territoriali che hanno alterato in modo definitivo la forma dei luoghi e l’ambiente naturale” (Valtorta, 2004, p 139).

La coscienza di questo stato di crisi, e della sua irreversibilità, è alla base di un dibattito politico e culturale che ha restituito centralità al paesaggio e ha impegnato progressivamente sempre più soggetti. Soprattutto il lavoro svolto dai movimenti ecologisti nei luoghi ad altro rischio e, su un altro piano, anche dagli artisti impiegati nella Land Art. Questo impegno, sempre più diffuso a livello internazio-nale, specialmente dove la società post-industriale ha lasciato i suoi segni, ha coinvolto a pieno regime anche la fotografia.Vediamo in cosa consiste concretamente Viaggio in Italia, e come riesce a concretizzare e approfondire il grande lavoro di ricerca sul linguaggio e gli strumenti cognitivi intrapreso da Ghirri.Viaggio in italia è il titolo di un progetto del 1984 ideato da Luigi Ghiri,

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composto da una mostra di trecento fotografie, scattate lungo tutta la penisola italiana, tenuta presso la Pinacoteca Provinciale di Bari e da un libro pubblicato dalla casa editrice il Quadrante di Alessandri. Presero parte al progetto venti fotografi, diciassette italiani, due americane e un francese. Il ventunesimo viaggiatore era uno scrittore, Gianni Celati, che scrisse per l’occasione il racconto Verso la foce, reportage per un amico fotografo, che troviamo nel libro.Sul risvolto della copertina troviamo il manifesto del progetto:“Viaggio in Italia nasce dalla necessità di compiere un viaggio nel nuovo della fotografia italiana, e in particolare , per veder come una genera-zione di fotografi, lasciato da parte il mito dei viaggi esotici, del repor-tage sensazionale, dell’analisi formalistica, e della creatività presunta e forzata ha invece rivolto lo sguardo sulla realtà e sul paesaggio che ci sta intorno. Le opere degli autori spostano l’attenzione della fotografia alla cultura quotidiana dell’Italia oggi e impongono il confronto con il vuoto d’impegno conoscitivo che paralizza altre attività espressive e altri sistemi di comunicazione. La televisione, il cinema, le arti visive appaio-no sempre più lontani dal voler conoscere o almeno osservare il volto concreto dell’Italia. Eppure manca in queste fotografie quanto si trova sulle pagine dei quotidiani e su quelle patinate dei rotocalchi, né cronaca nera o rosa, né languide Venezie, né tristi bassi napoletani, e gli uomini parlano meno con il loro volto e più con gli oggetti che li circondano, con l’ambiente in cui vivono (…) L’intenzione è ricomporre l’immagine di un

luogo, e antropologico e geografico, il viaggio è così ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che non è fredda categoria di una scienza, ma avventura del pensiero e dello sguardo” (Ghirri e Velati, 1984).

Viaggio in Italia è la volontà di restituire un’immagine del territorio italiano che corrispondesse al vero; in un mondo che è diventato im-magine, come suggeriva Ghirri in Atlante, è una “ricerca dell’originale perduto” (Valtorta, 2004, p 177).le trecento fotografie sono immagini di un’altra Italia, Italia altra rispetto a quella stereotipata sedimenta-ta nel nostro immaginario collettivo. Ancora una volta Ghirri provoca e gioca con il contrasto titolo-contenuto: sfrutta lo spaesamento dell’os-servatore per far sì che egli si ponga delle domande. Sfogliando per la prima volta il libro si prova spaesamento, disorientamento: il titolo che a grandi lettere porta quelle due parole “Viaggio” e “Italia” attiva subito e inevitabilmente immagini mentali legate ai luoghi comuni dell’Italia del turismo; l’Italia delle città storiche, del duomo di Milano, della torre di Pisa, del Colosseo o di piazza San Marco, l’Italia delle belle vedute, dei paesaggi alpini, della campagna toscana o dei trulli pugliesi, l’Italia del divertimento, delle spiagge, degli ombrelloni e delle belle ragazze, o ancora l’Italia delle tradizioni, dei vecchi che giocano a carte, del lavoro nei campi, dell’artigiano. Non una delle trecento fotografie presentano tali elementi, eppure sono state scattate proprio in quell’Italia, in quelle città, ponendo per la prima volta l’attenzione sugli infiniti ritagli esisten-

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ti fra una cartolina e l’altra i quali, non essendo stati mai rappresentati, erano destinati a scomparire, e li fa esistere. “I fotografi non sono necessariamente i prosecutori di modelli inventati in epoche precedenti dalla pittura e dalla grafica, come nel caso delle foto di veduta e dei monumenti scattate appena dopo la metà dell’Otto-cento e per mezzo secolo almeno in Italia. Bisognava trovare una chiave nuova, bisognava pensare a un diverso schema di racconto”. “Dal rifiuto dei monumenti tradizionalmente visti secondo i modelli delle immagi-ni stereotipate si passa alla decisione di fotografare la dimensione, lo spazio dei luoghi esclusi, e dunque si propone un non-luogo, o meglio un sistema di non luoghi. Viaggio in Italia sarà il racconto dei territori negati” (Valtorta, 2004, p. 53).Una tale operazione ci apre gli occhi, ci dimostra come il filtro della rappresentazione si frappone come moda-lità percettiva fra noi e la realtà esterna sostituendosi invece ai nostri occhi, al nostro istinto, alla nostra testa.Il progetto è perciò un invito ad abbandonare, a liberarsi di ogni tipo di stereotipo e di usare invece i nostri occhi, il nostro istinto, la nostra testa. È stato questo l’unico vincolo dei 21 artisti invitati a viaggiare. Condizione preliminare per un’operazione del genere è non avere paura della realtà esterna, avere il coraggio di dare la propria personale in-terpretazione sapendo che si tratta di una delle infinite possibili, che una verità data che segue regole e princìpi fissi non esiste, ed è soltanto l’estremo gesto di chi, non sapendo nuotare nel mare della complessità

contemporanea, si aggrappa con unghie e denti ai resti della nave nau-fragata. L’invito è quello di costruire dei percorsi dello sguardo, nel-l’esperienza del vivere quotidiano, che siano percorsi personali e non prefissati; è un invito, come suggerito dalla serie Atlante, a disegnare delle geografie personali.

La rappresentazione cartografica è sempre stato un concetto caro a Ghirri, un mondo che ha su di lui un fascino infinito non per la sua defi-nitiva esattezza ma anzi per la possibilità che rappresenta per ciascuno di proiettarvi i propri itinerari di attraversamento, di perdersi e trovar-si, di costruirsi appunto una propria geografia che è poi l’unica reale. “Questo lavoro sul paesaggio italiano vorrei che apparisse un po’ così come questi disegni mutevoli, anche qui di una cartografia imprecisa, senza punti cardinali, che riguarda più la percezione di un luogo che non la sua catalogazione o descrizione, come una geografia sentimentale dove gli itinerari non sono segnati e precisi ma ubbidiscono agli strani grovigli del vedere” (Valtorta, 2004, p 161). Mi viene da pensare alla mia esperienza di pendolare, per cui ho un’idea della distanza molto personale, basata sulla mappa sintetica della rete ferroviaria e metropolitana; ho introiettato una dimensione delle di-stanze radicalmente differente da chi si muove con mezzi e tempistiche diverse nella città e nei suoi dintorni. Ma penso anche al telefono cellu-lare che permette la costruzione di un territorio individuale portatile che

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ci rende dislocati e deterritorializzati come individui singoli, in eterno movimento.I mezzi di trasporto sempre più veloci, le comunicazioni avanzate han-no radicalmente modificato l’idea di spazio: queste profonde mutazio-ni possono anche essere considerate devastanti ma vanno accettate e non ignorate. La realtà è che si va sempre di più verso una visione individuale, singola del mondo, e la necessità è perciò quella di uno strumento cognitivo e percettivo che tenga in considerazione la liqui-dità, la mobilità e la relatività della realtà consentendo la costruzione sempre più radicale di geografie personali.

Viaggio in Italia è percorso. È cioè il percorso fisico e mentale che gli artisti hanno compiuto, e non i singoli scatti che hanno prodotto; per-corso che si identifica un atteggiamento; quello “non di chi costruisce ma vede, non di chi descrive ma mostra, non di chi definisce ma svela” (Ghirri, 1997). Tale significato di percorso può essere chiarito riper-correndo il pensiero di Michel de Certeau, sociologo contemporaneo, nel suo delineare la distinzione fra mappa e percorso: “se si prende la ‘mappa’ sotto la sua forma geografica attuale, si vede che nel cor-so del periodo segnato dalla nascita del discorso scientifico moderno (XV-XVII secolo), essa si è lentamente distaccata dagli itinerari che ne costituivano la condizione di possibilità. Le prime carte medievali recavano solo tracciati rettilinei di percorsi (indicazioni performati-

ve destinate del resto soprattutto ai pellegrini), con la menzione del-le tappe effettuate (città da attraversare, o dove fermarsi, alloggiare, pregare, eccetera) e di distanze calcolate in ore o in giorni, ovvero in tempo cammino. (…) La mappa scena totalizzante in cui elementi di origine disparata sono concentrati per formare il quadro di uno ‘stato’ del sapere geografico, respinge davanti a sé o alle sue spalle, come die-tro le quinte, le operazioni di cui essa è l’effetto o la possibilità. Resta sola a occupare la scena. I descrittori di percorso sono scomparsi” (De Certeau, 2001, p. 179-181). De Certeau quindi definisce la mappa come un luogo stabile, definito e disegnato secondo una prassi statica, men-tre il percorso resta un territorio del possibile che indica ma non defi-nisce, che invita all’attraversamento e rifiuta la contemplazione. Non a caso, poco prima, nello stesso saggio scrive: “la descrizione oscilla fra i termini di un’alternativa: o vedere (è la conoscenza dell’ordine dei luoghi), o andare (sono azioni spazializzanti). O presenta un qua-dro (c’è...), o organizza dei movimenti (entri, attraversi, volti...)”(De Certeau, 2001, p. 178).

Possiamo perciò affermare che il progetto di Ghirri è l’esaltazione del percorso invece della mappa, del movimento invece della staticità, dell’andare, inteso come atto che crea lo spazio - entità mobile edifica-ta dallo stesso incessante movimento - invece del vedere inteso come contemplazione, atto ordinante.

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Viaggio in Italia è dichiarazione della volontà e necessità di recupera-re la dimensione formativa del Viaggio che l’industria del turismo ha completamente stravolto e cancellato. L’antropologo contemporaneo Marc Augé ha splendidamente riassunto l’entità di tale perdita in una frase: “il viaggiatore scrive la propria vita, il turista la consuma”. Augé, per parlare di questo senso perduto del viaggiare, cita come esempio i viaggi dei Grand Tours ottocenteschi: “Per i giovani artisti francesi, il Grand Tour in Italia era una sorta di iniziazione, una costruzione del proprio essere: il viaggio era un’esperienza di sé favorita da uno spae-samento, il cui risultato (romanzo, diario) era frutto di un duplice spo-stamento, spostamento nello spazio e spostamento nel proprio io. Sotto questo aspetto l’opera e il viaggio erano identici: chi faceva il viaggio o scriveva l’opera non era più, o non pensava di essere più la persona di prima” (Augé, 2004, p. 60). L’antrropologo francese ci indica perciò come l’essenza del viaggiare sia interna e non esterna all’individuo e consista in un incontro con un’alterità fondamentale per la costruzione e il rafforzamento dell’identità . Ma ancora più interessante e illuminante è il passaggio successivo in cui egli riflette sul turismo, e dunque inevitabilmente sulla velocità dei mezzi di comunicazione e di trasporto che l’hanno generato: “Il livello raggiunto dal progresso tecnologico fa sì che non siamo mai stati vicini come oggi a una possibilità reale, tecnologica, di ubiquità; il corpo del singolo individuo si correda a poco a poco di protesi tecnologiche che

gli permettono, dovunque esso si trovi, di comunicare, senza spostarsi, con qualunque altro corpo del medesimo tipo. Una volta tanto potremo gestire l’immobilità ma saremo ancora dei viaggiatori? Ovvero esisterà ancora il viaggio come spostamento verso le alterità?” (Augé, 2004, p. 63). Augé sembra rispondere di no. Egli sostiene che la comunicazione contemporanea, pur essendo così potenziata e capillare, anzi proprio a causa di ciò, sia in realtà un’illusione. E questo perché il tipo di comuni-cazione di oggi presuppone ciò che il viaggio cerca di creare: dei soggetti individuali ben costruiti. “L’Homo communicans trasmette o riceve in-formazioni e non dubita di quel che è; “il viaggiatore cerca di esistere, di formarsi, e non saprà mai veramente chi egli è o ciò che egli è. In questo senso la pratica attuale del turismo ha più a che fare con la comunicazio-ne che con il viaggio. Il turismo culturale accresce il sapere, il turismo sportivo mette in forma, ma senza che ad essi sia mai associata l’idea di una trasformazione essenziale dell’essere. L’ideale della comunicazione e del turismo che di essa è figlio è l’istantaneità, mentre il viaggiatore se la prende comoda, coniuga i tempi, spera, si ricorda” (Augé, 2004, p. 63). Le immagini di Viaggio in Italia cercano proprio di sfuggire questo meccanismo dettato dalla velocità e dall’istantaneità, proponendo un modo diverso di percepire il mondo esterno. “Un modo di vedere che ha il carattere di un’osservazione rigorosa e al tempo stesso è uso del-l’immaginazione come pratica interpretativa” (Valtorta, 2004, p 76). “(…) i venti fotografi avevano imparato a sottrarsi alle tentazioni del

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sensazionale, agli effetti realistici della foto documentaria e, in generale, si erano liberati dall’idea della foto come un bottino, bottino esotico o estetico, o bottino dell’immediatezza percettiva” (Valtorta, 2004, p 75). L’immediatezza lasciava posto a una visione che non crede più alla cat-tura in velocità delle cose, e cerca invece un modo di guardare-pensa-re-immaginare il mondo esterno. “Un lungomare deserto di Garzia, le vuote periferie di Jodice e Tinelli, il distributore di benzina abbandonato di Fossati, un giardino inabitato di Leone, un brumoso scorcio riminese di Castella, una costruzione nel deserto lucano di Cresci, le solitudini di case o casolari di Guidi e Battistella, le vedute metropolitane all’alba di Basilico, le lontananze di Ghirri e Chiaramonte; tutti quei vuoti e quei silenzi attivavano una percezione contemplativa, e davano luogo a una visione più dilatata, più immaginativa, non strettamente riferita all’im-mediatezza fenomenica. Ed era anche un modo per trovare una calma dello sguardo, con sospensione di ansie, smanie e fretta del vedere mo-derno. Quello che avviene in queste foto è un radicale abbassamento della soglia di intensità, abbassamento del grado di eccitazione imme-diata offerto nell’inquadratura” (Valtorta, 2004, p 75).

Viaggio in Italia è, infine, progettualità. Il grande valore aggiunto di questo lavoro rispetto agli altri di Ghirri, con quali è per altro coerente, è dato dal coinvolgimento in un’opera unitaria di ventuno artisti con approcci necessariamente molto differenti alla realtà e alla fotografia e

dal maggiore grado di progettualità e comunicazione, definizione, di-scussione sul progetto stesso che questo implica. Infatti, mentre gli altri lavori erano frutto sì di una profonda, acuta e avanguardistica ricerca, ma potevano correre il rischio di rimanere fini a se stessi e ridotti a uno “stile ghirriano”, Viaggio in Italia è la concretizzazione della volontà di Ghirri non di fondare un nuovo stile fotografico, ma di agire su un raggio di azione che toccasse i linguaggi cognitivi di interpretazione del reale, e di conseguenza fosse metodologia socialmente dibattuta e condivisa.Coordinare ventuno diverse personalità in un progetto che implica un approccio così insolito e innovativo non è stato facile per Ghirri, tan-to più che il progetto non aveva alcun tipo di finanziamento certo, e le basi di questo “discorso fotografico”, di questo “nuovo sguardo” di cui Viaggio in Italia è stato portatore e promotore andavano trovate, di-scusse, concordate insieme. Il valore di questo progetto sta, come già più volte abbiamo sottolineato, non tanto nel singolo risultato quanto al processo che l’ha creato. Ma se prima, parlando di processo, mi riferivo al percorso fisico e mentale operato sul territorio dagli artisti, ora mi riferisco al processo di stesura del progetto partito da una sceneggiatura di massima proposta da Ghirri, e poi via via affinato grazie al prezioso apporto dei ventun protagonisti; Ghirri nomina tale processo, che molti oggi chiamerebbero story-board, con il termine sinopia: “La sinopia è il paziente lavoro di trasferimento del disegno sulla parete intonacata per poi iniziare l’affresco: si tracciano le linee principali per controllare il

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rapporto dei pieni e dei vuoti, i rapporti spaziali, per studiare e meditare sull’insieme, il preludio indispensabile a quello che si vedrà alla fine, a lavoro ultimato” (Ghirri 1997, p. 149).Il risultato finale per il fotografo, quindi, e in questo caso di ventun ar-tisti, nemmeno tutti fotografi, è soprattutto il lavoro preliminare fatto di discussioni, di limature e rivisitazioni, di pazienti attese, di piccole aggiustature e messe a fuoco progressive. Una simile operazione di crea-zione lenta e progressiva, difficoltosa ma formativa, che smitizza l’atto di creazione come lampo di genio, diventa assai più complessa e infini-tamente più ricca quanto più gli apporti sono molteplici e vari; il fatto che ci fossero molte personalità coinvolte ha necessariamente imposto una costante operazione di confronto e comunicazione del progetto, delle intenzioni, delle idee, utilizzando riferimenti culturali ed estetici molto vasti ed eterogenei che hanno suscitato un’ampia riflessione sui “linguaggi fotografici” e non fino ad allora utilizzati, ed ha messo alla prova e perfezionato la validità di quella sceneggiatura di massima alla base della sinopia che era l’idea di Ghirri.È opportuno notare come il lavorare su un tema comune in via di defi-nizione da parte di diverse personalità, e soprattutto la presenza fra di esse anche di uno scrittore, qualcuno perciò che lavora agli stessi temi usando forme espressive differenti, sia stata preziosa e fondamentale per la coordinazione del progetto: il racconto di Gianni Celati infatti, caratterizzato dalla sua scrittura visiva, ha rappresentato le linee guida,

il sentire, la bibbia per i fotografi, delineando lo scenario, il paradigma esistenziale all’interno del quale addentrarsi. Il racconto di Celati è il suo inoltrarsi nei luoghi dimenticati in una zona dell’Emilia che abbraccia la foce del Po. Egli non segue passo passo i luoghi ripresi dai fotografi lun-go l’intera penisola, ma in un certo senso lo fa: i luoghi e i sentimenti che prendono forma nella sua scrittura indicano infatti non le peculiarità specifiche di un determinato territorio, ma quelle del paesaggio contem-poraneo. La foce del Po è elemento a forte valenza simbolica, “area del-l’immaginario in cui si mescolano varie densità della liquidità e del suo immaginario materiale”, rappresenta “la condizione del soggetto perso in un paesaggio liquido e marcescente che sembra non avere più riferi-menti e indicatori spaziali in un orizzonte in cui la piattezza dell’acqua e quella del cielo si fondono” (Basilico in Valtorta, 2004, p 163).

A chiusura di questo capitolo, primo pilastro nella mia definizione di un nuovo linguaggio interpretativo del reale, voglio sottolineare l’eco che il progetto di Ghirri ha avuto e ha tuttora, seppur con forme e modalità differenti, nel panorama italiano ma anche europeo. Roberta Valtorta, nel suo libro Racconti dal paesaggio, a vent’anni di distanza sottoli-nea come Viaggio in Italia sia un punto di demarcazione nella storia della fotografia e dei linguaggi di rappresentazione: “In italia, a fronte dei cambiamenti descritti, negli anni Ottanta prende vita un progetto fondamentale nella storia della fotografia che ha influenzato in maniera

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determinante la nostra attuale concezione di fotografia del paesaggio e ha fondato quella che venne definita una nuova fotografia italiana”. Sempre nello stesso volume troviamo le considerazioni di Basilico: “Tra i grandi meriti di Ghiri, e di chi gli è stato vicino nell’impresa, c’è quello di aver saputo cogliere un passaggio epocale nella società e nella cultura italiane a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, e di aver rilanciato il dibattito e la riflessione sulla fotografia, mettendoli in rapporto sia con l’esperienza letteraria che con i linguaggi dell’arte e facendo convive-re linguaggio descrittivo, forma narrativa e valore simbolico. Altro suo merito è stato quello di aver creduto in un progetto di gruppo e di aver avuto la forza di immaginarlo su scala nazionale. Viaggio in Italia non ha potuto essere una committenza istituzionale che ha distribuito inca-richi ai fotografi: è stata una sensibile e ragionata ricerca sugli archivi di immagini esistenti, di lavori conosciuti, una riflessione, una verifica” (Basilico in Valtorta, 2004, p 141).Dopo questa esperienza si può dire che si sia sviluppata una vera e propria tendenza, tanto influente da cambiare il volto della fotografia. Innumerevoli sono state le iniziative in diversi paesi europei che hanno visto la fotografia diventare lo strumento privilegiato per cercare di re-stituire un senso al paesaggio contemporaneo.La più corposa e significativa è rappresentata dalla Mission Photographique della DATAR voluta dal governo francese per docu-mentare la trasformazione del paesaggio nazionale contemporaneo, la

più grande committenza pubblica realizzata nella storia della fotografia. La DATAR è un’istituzione del governo francese che si occupa di piani-ficazione in senso allargato: indaga i problemi connessi allo sviluppo del territorio, delle risorse locali, dell’industria, dell’agricoltura, dei flussi migratori, delle iniziative culturali, fornendo a chi deve amministrare gli strumenti per un migliore coordinamento ed equilibrio. Tali iniziative, figlie di Viaggio in Italia, ad esso riconducibili per la scelta del mezzo fotografico e per i fini di indagine, ne sono tuttavia non scarna imita-zione ma lo sviluppo e la conferma dell’entità: questi progetti sono stati infatti commissionati da una committenza pubblica, da enti regionali e nazionali. Un simile passaggio da committenza privata - finanziata dagli sponsor che gli artisti riescono a convincere, nata da lunghe discussioni ed enormi difficoltà organizzative ed economiche, portata avanti grazie alla passione e alla convinzione dei partecipanti - ad una committenza pubblica - ossia costituita da organi che decidono di investire tempo, soldi, risorse nell’organizzazione e gestione di un progetto siffatto che indaghi la realtà territoriale di una regione, di una nazione o di un con-tinente - è fondamentale in quanto è riconoscimento ufficiale della va-lenza sociale e dello “stato di necessità” dell’operazione compiuta con Viaggio in Italia.Le due vicende fotografiche infatti, profondamente diverse per orga-nizzazione, tempo impiegato, obiettivi preposti e ambito istituzionale, affrontano temi simili e hanno come comune scopo immediato la neces-

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sità di una rappresentazione critica dei luoghi e, più in generale, di una rifondazione della cultura del paesaggio contemporaneo, la necessità di cui parlava Ghirri e che Basilico, parlando della DATAR, cui egli stesso ha partecipato, ha ben definito: “ Le grandi trasformazioni avvenute con l’era post-industriale hanno coinciso con un momento particolare della storia del territorio. Per la prima volta senza dubbio nella storia le modi-ficazioni dello spazio non possono più iscriversi in una rappresentazione del mondo coerente ed omogenea. Non è più possibile ridare al pae-saggio la coesione che ha perduto senza una profonda azione culturale” (Basilico in Valtorta, 2004, p. 142-143).

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1. le Funzioni di Jacobson.l’atto del comunicare viene suddiviso in sei fattori e sei funzioni, ognuna delle quali è svolta da un attore del processo comuni-cativo (destinatore, mittente, destinatario, messaggio, canale, contesto semantico o riferimento). Ogni fattore svolge una fun-zione e la funzione associata al messaggio è quella metalinguis-tica, vale a dire la riflessione sui modi dell’espressione (altri-menti, ma non del tutto propriamente, riassunti sotto il termine codice) che concorrono alla formazione del messaggio. Poichè il tipo di canale utilizzato influenza il tipo di espressione da utilizzare, possiamo affermare che canale ed espressione, e quindi funzione fàtica e funzione metasemiotica, sono stretta-mente collegate.Ghirri, riflettendo sui modi dell’espressione fotografica, sposta così di riflesso anche la sua azione sul mezzo fotografico.

2. Per alcuni media, ad esempio la pittura e la scultura, la natura di codice e perciò il loro carattere interpretativo - codificativo è evidente. Il medium fotografico genera invece più confusione a riguardo in quanto appare come una riproduzione della re-altà; questo ha spesso portato a ignorare invece il suo carattere interpretativo, la sua natura di codice che andrebbe invece ap-profondita, soprattutto in un’epoca in cui la realtà è diventata uno strato opaco e denso di immagini che si sovrappongono alla realtà e a se stesse.

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tramite

mittente

comunica

funz. espressiva

messaggio

qualcosa

funz. retorica

destinatario

a qualcuno

funz. conativa

canale

funz. fatica

codice

funz. metalinguistica

contesto semanticofunz. referenziale

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realtà

fotografiapittura

scrittura osservatore

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3-7. Fotografie tratte dalla serie Still Life, in cui la riflessione metasemiotica è particolarmente evidente e significativa.Il senso che egli vuole dare è provocazione e ribaltamento dell’area semantica indicata dal titolo. Lo still life è per definizione un genere di fotografia in cui un oggetto è rappresentato fuori dal suo contesto, nella maniera più didascalica, neutra e piacevole possibile, in cui perciò l’occhio del fotografo, il suo atto interpretativo tendono a scomparire. Gli oggetti da lui fotografati, per la tecnica con la quale sono ripresi (inquadrando sempre e solo l’oggetto senza il suo contesto) e la didascalia che recano, sono formalmente degli still life. Avvertiamo però che c’è sempre qual-cosa, un elemento che genera ambiguità, che ci fa improvvisamente percepire la distanza fra noi e l’oggetto rappresentato.Improvvisamente, di fronte a un’immagine iniziamo a porci delle domande anziché contemplarla o a prenderla come dato di fatto; e le domande riguardano l’atto del fotografare. Ecco in che senso l’operazione di Ghirri è metasemiotica, perché usando il codice fotografico riesce a far parlare di esso.

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8-11. Fotografie tratte dalla serie Catalogo. Il nome stesso della serie è già indicazione della critica che Ghirri opera con queste foto-grafie. Egli si lancia infatti, sia fotografando sia scrivendo, questa vocazione classifica-toria e d’archivio, che negli anni Ottanta e Novanta in Italia avrà un seguito fin troppo scontato e che spesso viene confusa con il concetto di serie fotografica.

12. Srerie fotografica Infinito. Ghirri opera in questo caso con una dimostrazione per assurdo. Egli vuole dimostrare la non delimitabilità del reale opponendosi così al modo di fotografare e leggere la fotogra-fia per cui il momento fermato viene letto come folgorazione e illuminazione di verità. Per compiere questa dimostrazione fotografa per un anno intero, una volta al giorno, il cielo ottenendo così 365 immagini del cielo, e afferma poi che “un totale di 365 fotografie è così anch’essa insufficiente per ridare un’immagine del cielo.”La chiave di lettura che poi propone è quella di vedere in Infinito un possibile atlante cromatico del cielo; 365 possibili cieli. E questo a sottolineare la teoria alla base della sua filosofia per cui il ruolo del linguaggio visivo non è quindi definire, ma semmai svelare l’indefinibilità: trovare i modi e i tempi per raccontare la sua pluralità. È così che Ghirri non si incarica di fotografare il cielo, ma 365 possibili cieli, e quella stessa mappa mobile non restituisce un’immagine del cielo, ma forse, in parte, una minuscola parte di oppor-tunità di evocare il cielo.

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13-16. Fotografie tratte dalla serie Kodacrome. Il nome stesso della serie è già indicazione della critica che Ghirri opera con queste fotografie. Egli si lancia infatti, sia fotografando sia scrivendo, questa vocazione classificatoria e d’archivio, che negli anni Ottanta e Novanta in Italia avrà un seguito fin troppo scontato e che spesso viene confusa con il concetto di serie fotografica.

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2017-18. Fotografie tratte dalla serie Diaframma. E’ una delle poche serie fotografiche di Ghirri in cui compare la figura umana: il fotografo ci mostra di non essere interessato alla penetrazione psicologica tipica del ritratto fotografico per come è tradizionalmente concepito: la figura umana è sempre calata nel paesaggio, che non è solo luogo da osservare ma anche luogo dove essere osservati. Ghirri non trova dunque nel suo sguardo la verità di chi vede, ma si sente al medesimo tempo fotografo e soggetto fotografato. Ancora una volta compie un’operazione metasemiotica: lega in maniera inscindibile l’uomo all’atto del guardare, del percepire, dello scoprire.

19-20. Fotografie tratte dalla serie Identikit. In questi scatti Ghirri cerca non di “descriversi” ma di “mostrarsi” attraverso immagini della sua casa, dei suoi libri, dei suoi dischi, delle sue cose. Il termine “mostrarsi” si contrappone al termine “descriversi” poiché egli intende compiere un’operazione diversa da quella del ritratto canonico: egli vuole di mostrarsi al presente attraverso segni che lo testimoniano.Ghirri perciò, anche per quanto concerne la rappresentazione dell’essere umano, non usa l’immagine per risolvere il reale in un’unica soluzione di verità data, ma piuttosto per palesare uno o più aspetti di questa. Ghirri fa una descrizione della sua abitazione, dei suoi oggetti, come dei suoi luoghi, non diversa da una mappatura che non restituisce il “ciò che è”, ma piuttosto trac-cia indizi, spesso sfocati, soggettivi, un po’ appunto come quando si cerca di tracciare un identikit sui vaghi ricordi di qualcuno.

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21-23. Fotografie tratte dalla serie Colazione sull’erba. Ghirri fotografa tutto il verde pubblico giocando a confondere la natura-naturale con la natura-artificiale. Ciò non per effet-tuare una catalogazione del verde pubblio ma per affermare che, nel paesaggio contemporaneo, la ricostruzione artificiale della natura non è un elemento negativo demonizzabile, non è elemento da giudicare e condannare, magari utilizzando il ridicolo. Piuttosto, la continua commistione tra natura e artificio viene riconosciuta da Ghirri come un marchio del nostro tempo, ed è inutile e dannoso avere un atteggiamento malinconico che vede in queste nuove forme di estetica solo la per-dita della naturalità.

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24-26. Fotografie tratte dalla serie Italia ai lati. La serie denuncia il peso eccessivo che troppa memoria esercita sulla rap-presentazione di quei posti che si vorrebbero vedere, per un’anacronistica nostalgia, fermati in un eterno passato che non gli appartiene in toto, che non li descrive se non in modo parziale a frettoloso. Nella serie Ghirri mette a confronto le immagini stereotipate che si vedono negli scompar-timenti dei treni con quelle che si vedono passare fuori dal finestrino, vere e frammentate. Le immagini appese all’interno dei vagoni sono uf-ficiali e statiche, mentre quelle che scorrono come in uno schermo sul vetro gli appaiono veloci, forse sommarie, ma vive e contemporanee.27-29. Fotografie tratte dalla serie Il paese dei balocchi e In scala.

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Gli scatti sono fotografano le “città della domenica”, cioè l’Italia in minia-tura e in parchi tematici simili. Qui la variazione di scala fa tutto il gioco. In questi parchi è come trovarsi in una fotografia tridimensionale dove la variazione di proporzioni crea l’artificio illusorio tra reale e finzione, messa in scena e gioco. In questo spazio dell’analogo si muove il paesag-gio ghirriano che prende in considerazione tanto la Torre di Pisa quanto la sua miniatura nel Parco Tematico, senza porre differenza di sguardo tra le due, e considerandole ambedue oggetti della visione del presente, arrivando a dire che è proprio in questo spazio di totale finzione che forse si cela il vero.

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30-32. Fotografie tratte dalla serie Atlante. Atlante nasce per Ghirri non solo come una serie di immagini, ma con l’idea progettuale di realiz-zare un vero nuovo atlante, un libro che fosse in qualche modo l’atlante e l’anti-atlante, un libro di mappe mobili, un libro con la sua geografia. La profonda e strutturale compenetrazione fra oggetto e rappresentazione che caratterizzando il paesaggio contemporaneo, sono ancora una volta estremizzate e portate al paradosso: Ghirri ar-riva ad affermare che, per assurdo, viaggiare nella rappresentazione del mondo è come viaggiare nel mondo, poiché esso è ormai in gran parte rappresentazione.

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33-38. Fotografie tratte da Viaggio in Italia. “Viaggio in Italia nasce dalla necessità di compiere un viaggio nel nuovo della fotografia italiana, e in particolare , per veder come una generazione di fotografi, lasciato da parte il mito dei viaggi esotici, del reportage sensazionale, dell’analisi formalistica, e della creatività presunta e forzata ha invece rivolto lo sguardo sulla realtà e sul paesaggio che ci sta intorno. Le opere degli autori spostano l’attenzione della fotografia alla cultura quotidiana dell’Italia oggi e impongono il con-fronto con il vuoto d’impegno conoscitivo che paralizza altre attività espressive e altri sistemi di comunicazione. La televisione, il cinema, le arti visive appaiono sempre più lontani dal voler con-oscere o almeno osservare il volto concreto dell’Italia. Eppure manca in queste fotografie quanto si trova sulle pagine dei quotidiani e su quelle patinate dei rotocalchi, né cronaca nera o rosa, né lan-guide Venezie, né tristi bassi napoletani, e gli uomini parlano meno con il loro volto e più con gli oggetti che li circondano, con l’ambiente in cui vivono (…) L’intenzione è ricomporre l’immagine di un luogo, e antropologico e geografico, il viaggio è così ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che non è fredda categoria di una scienza, ma avventura del pensiero e dello sguardo” (Ghirri e Velati, 1984).

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Wenders e il cinema esplorativo

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NEL CORsO DEL TEmpO

Introduco il film Nel corso del tempo, girato da Wenders fra il 1973 e il 1974 e uscito nelle sale cinematografiche nel 1975, riportando diretta-mente le parole del regista estratte da interviste relative alla genesi del film: “Ho trovato in Germania tanti luoghi che mi hanno stimolato, al punto di augurarmi di non avere nessuna storia ben definita da cui par-tire. Ho quindi deciso di trasformare il mio film in un Reise-Film (film di viaggio) in cui potessi liberamente far emergere ciò che mi interessava cammin facendo, perché avrei avuto la libertà di inventare la storia nel corso della lavorazione” (Spagnoletti, 1979, p.125).“Con una carta geografica è cominciato anche Nel corso del tempo. Sentivo che dovevo trovare una storia che mi permettesse di esplorare me stesso e il mio Paese in modo tale che fosse come un viaggio in un paese sconosciuto” (Colusso, 1998, p. 51).Ho voluto riportare le parole di Wenders poiché esplicitano in maniera chiara e concisa le motivazioni che mi hanno portato a prendere in esa-me il film Nel corso del tempo e in generale la filmografia wendersiana: dalle parole del regista traspare infatti come egli sia mosso da quella sensibilità verso i luoghi e il paesaggio che già abbiamo trovato in Ghirri; egli traspone in “immagine in movimento” quell’apertura mentale, quel-la filosofia del viaggio inteso come scoperta di una topografia minore ricca di simbologie che Ghirri ha sperimentato con l’“immagine fissa”. Wenders parla infatti di “carta geografica”, “esplorazione”, “viaggiare nel mio paese come fosse un paese sconosciuto”: oggetti, azioni e concetti

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che abbiamo già visto essere alla base di tutto il lavoro di Ghirri. Si pensi ad esempio alla serie Atlante dell’artista e alla sua passione per le carte geografiche come luoghi in cui spaziare con l’immaginazione. La genesi di Nel corso del tempo, così come quella di altri film di Wenders fra cui Paris, Texas che analizzerò in seguito, è legata proprio alla cartina geo-grafica come oggetto che induce al viaggio e alla scoperta, che incuriosi-sce perché mostra, senza svelare, la presenza di luoghi inesplorati. Wenders, a riguardo di Nel corso del tempo parla ancora di carte geo-grafiche: “Nel mio precedente film mi ero trovato a girare per tutta la Germania, e nel corso del viaggio avevo avuto modo di constatare la si-tuazione economica delle sale cinematografiche di provincia, ero molto attratto dall’aspetto fisico di quegli edifici, dagli interni del cinema, in particolare delle cabine di proiezione, dei proiettori. Presi allora una carta geografica alla Filmverlag der Autoren [...] che riportava tutte le località fornite di sale cinematografiche. Mi accorsi dell’esistenza di un itinerario, attraverso tutto il paese, che non conoscevo affatto: andava lungo il confine fra le due Germanie. Tracciai un percorso di ottanta sale tra Lunesburgh e Passau: un itinerario lungo la frontiera tedesca/tede-sca dentro un paesaggio sconosciuto in Germania, un ‘terrain vague’ molto esteso, mille chilometri, una terra di nessuno” (Colusso, 1998, p. 51).Il passaggio ci mostra la passione del regista per i luoghi, specialmente quelli che appartengono a circuiti dimenticati, inesplorati. Qui Wenders

parla letteralmente di “attrazione” nei confronti dell’ “aspetto fisi-co degli edifici”e ci confida come il film – parlo nello specifico di Nel corso del tempo ma riferendomi in generale a tutto il modus operan-di di Wenders – nasca e si sviluppi tutto a partire da una sensazione, un’emozione nata dal contatto fra il regista e un luogo che, possedendo una storia, una personalità, un’identità, evoca un’atmosfera, un sen-timento del tempo, un’emozione, che stimolano l’immaginazione: “Le mie storie sono sempre cominciate con delle immagini: luoghi, città, o paesaggi, o strade. Nel senso che, per esempio, osservando una cit-tà oppure un edificio cominciavo a chiedermi cosa vi sarebbe potuto accadere (…) e immediatamente nella mia mente comincia una storia” (Wenders, 1989, p. 74).Contrariamente a come è tradizionalmente concepito il cinema, qui si parte da un contesto e non da un copione, non si sceglie un luogo adatto a inscenare la storia, ma una storia che sia, in potenza, nel luogo scelto: “Non sono capace di andare a cercare esattamente una location, mi ren-de isterico. (…) Non mi posiziono mai in un posto se non mi racconta nulla. Se non sentissi affinità con il luogo non potrei mai fotografarlo né prendere in considerazione l’idea di girarvi la scena di un film. (…) Devo vedere d’istinto le cose, poi capire, scrivere, e ricordarmi di un luogo che per se stesso richiamerà una storia, piuttosto che avere una storia che richiede un luogo” (Colusso, 1998, p. 48). Tale processo è paragonabile al modus operandi di Michelangelo, che

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lavorava il marmo per sottrazione, sostenendo che la scultura fosse già insita nella pietra e il suo compito era semplicemente quello di scovarla e liberarla. Allo stesso modo Wenders parte da un luogo con il quale sente un’affinità e, a partire da questo forte contatto, delinea – abduce – una possibile storia. Non è più perciò il luogo a essere funzionale alla storia ma viceversa.

Riferendomi al film Nel corso del tempo ho finora fatto cenno più che altro della sua genesi focalizzandomi sulla metodologia creativa, sul sentire e il vedere del regista. Questo perché Nel corso del tempo – in-sieme ad altri due film prodotti nello stesso periodo di inizio carriera: Alice nelle città del 1973 e Falso movimento del 1974, che non a caso assieme a Nel corso del tempo vengono chiamati dai critici “Trilogia della strada”– è un ottimo modello per introdurre e analizzare i punti fermi del cinema wendersiano. Il film ruota infatti in maniera eviden-te attorno al tema del viaggio e dello sguardo sul territorio, che sarà poi tema di fondo, meno marcato ed esplicito ma non per questo meno profondo e articolato, di tutta la filmografia di Wenders. Il concetto di viaggio che emerge silenzioso e possente dai lavori del regista è sì inteso come esplorazione, ma anche come amplificazione e affinamento della percezione che genera una consapevolezza e una comprensione della realtà più profonda, una sua diversa percezione, e porta perciò anche a un lavoro di introspezione, a un cambiamento interiore.

Ma come riesce Wenders a veicolare questi delicati passaggi nel film Nel corso del tempo?La pellicola si apre con due protagonisti già in viaggio, su due mezzi diversi. Un uomo sul suo camion parcheggiato, mentre si sta facendo la barba all’aperto vede una Volkswagen lanciarsi a piena velocità in un lago: l’uomo al volante della macchina esce dalla vettura che sta af-fondando e torna a riva con una valigia dove il camionista lo aspetta incuriosito. I due sconosciuti si scambiano solo una battuta riferita ai vestiti: B:” Sono zuppi eh?” R:”Sono zuppi”.Poi ripartono entrambi sul camion. Già da subito Wenders provoca lo spettatore, lo fa riflettere: a questo punto viene naturale chiedersi chi siano questi personaggi, perché uno si è gettato in un lago con la sua auto e, soprattutto, dove stanno andan-do. Ma Wenders non fa parlare i due, che sprofondano in silenzio nei sedili del camion cullati dal dondolio del mezzo sulla terra dissestata, gli occhi a fissare il paesaggio che scorre. Instillandoci delle domande a cui non dà risposta, è come se il regista ci dicesse: “impara ad aspettare, impara ad osservare”. Le risposte infatti arrivano, ma lentamente, ‘nel corso del tempo’, per l’appunto; e Wenders, già a partire dal titolo, vuole farci capire che è il viaggio stesso, il percorso compiuto, il tempo impie-gato a farlo e lo spazio attraversato che le fa lentamente emergere.

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Ognuno dei due personaggi sa dell’altro tanto quanto lo spettatore: nulla. Il film genera perciò un’immedesimazione che porta a un lento e progressivo processo di scoperta, svelamento, che obbliga chi guarda al-l’atteggiamento di ascolto e scoperta del viaggiatore: “Il susseguirsi di lunghi percorsi d’auto e di camion su strade interminabili, restituiscono la sensazione emotiva e visiva del movimento lento, umano. In un primo momento i due non si parlano, non comunicano, e la cinepresa li coglie separatamente. Ma con il passare del tempo, nel corso del “loro” tempo, si cominciano a studiare, a capire, a vivere. Al punto che nella penultima scena si picchiano con forza” (Venturi, in rete il 20/09/07). Scopriamo così progressivamente che l’uomo che si è gettato in acqua, Robert, è un medico logopedista appena tornato dall’Italia, dove è stato lasciato dalla moglie e che il camionista, Bruno, da due anni vive da solo su un vecchio camion e va in giro di paese in paese a riparare i proiettori dei cinema di provincia.Ma non è finita qui. Il film non si conclude una volta svelata l’identità dei due: i personaggi, infatti, nel corso del tempo e dello spazio del viaggio, mutano la loro stessa identità. Per entrambi il viaggio rappresenta una crescita, una scoperta di se stessi, un cambiamento. Per Robert il viaggio “diventa quasi un procedimento catartico dell’essere, è l’occasione per liberarsi dai fantasmi del suo passato; grazie al viaggio riesce ad oggetti-vare un’esistenza e a prendere le distanze da una vita matrimoniale or-mai non più riproponibile” (Gabrielli 9); per Bruno è invece “un mezzo

per acquistare una coscienza del proprio passato” (Gabrielli 9). Mentre all’inizio del film sembrava un uomo senza storia, dedito al lavoro e a soddisfare i bisogni fisici, alla fine acquisisce coscienza del tempo e di se stesso, del suo passato. Tale passaggio è evidente se si confrontano due estratti di dialogo, presi uno all’inizio (a) e uno alla fine del film (b):a) B: “Cosa fai oltre a collaudare macchine?”R: “Il pediatra.”B: “Cosa?”R: “Una specie di pediatra.”B: “Questo non te l’ho chiesto. Non devi raccontarmi la tua storia.”R: “Cosa vuoi sapere allora?”B: “Chi sei.”R: “Io sono la mia storia.”b) B: “Per la prima volta mi sento come uno che ha dietro di sé un certo tempo, e questo tempo è la mia storia.”

Bruno ci viene perciò inizialmente mostrato come “pura corporalità” (Venturi, in rete il 20/09/07), un uomo concreto, che vive l’immediato, senza coscienza del passato (“non devi raccontarmi la tua storia”). Solo dopo aver percorso il tempo e lo spazio del viaggio con Robert, che invece rappresenta la razionalità ed è anzi intrappolato nel suo passato, nel suo

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dolore, egli prende coscienza del valore del tempo e della storia.Grazie alla lentezza, all’attenzione e all’ascolto imposti dal viaggiare, i due evolvono la loro situazione interiore. Robert si accorge che deve al-lontanarsi dal passato per entrare nel suo futuro e Bruno che deve avere un passato per vivere veramente il presente.Più che un cambiamento si tratta di una presa di coscienza. Nell’ultima sequenza Robert, prima di lasciare Bruno e salire su un treno, gli lascia un biglietto “tutto da rifare”. Bruno annuisce e sfoga la sua rabbia ur-lando e dando così ragione all’amico. Lo scopo del viaggio è raggiunto, i due hanno preso coscienza e ora si separano, ognuno con il suo gravoso lavoro interiore da svolgere.“La pellicola si chiude con una separazione fisica, ma non emotiva. Il film non vuole stabilire un legame assoluto, unico e d’amicizia. È solo una parentesi, fortunata, offerta a due uomini. E allora vediamo infine e di nuovo i due su due linee spazio temporali e narrative separate. Sono or-mai su due mezzi di trasporto separati: Robert è su un treno, pronto a lasciarsi trasportare. Bruno nel suo inseparabile camion, una specie di secondo arto. Non si sentono, non possono, ma per un istante, un solo momento i loro sguardi si incrociano e telepaticamente si parlano. La crescita umana è avvenuta” (Venturi, in rete il 20/09/07).

La condizione del viaggiare porta dunque i personaggi di Wenders ad esperire un’estensione della percettività sensoriale che arricchisce inte-

riormente: ma è bene ricordare ancora che per “viaggio” egli intenda non l’attraversamento di un luogo qualsiasi bensì di luoghi che abbiano delle storie in potenza da raccontare. Nel corso del tempo ne è un esempio ec-cellente: il regista fa percorrere ai suoi personaggi, grazie alla trovata del riparatore di proiettori, un percorso del tutto insolito e marginale lungo la frontiera fra le due Germanie che, oltre ad essere effettivamente ricca di edifici dimenticati carichi di storia e memoria – che Wenders sfrutta per fare riflessioni sul cinema stesso – è di per sé un concetto carico di significati: la frontiera, per il fatto di esistere, ha alto valore indicale in quanto attira l’attenzione sul territorio, ed è anche simbolo dell’altrove, dell’inesplorato. La scelta di sovrapporre il fotogramma del biglietto di Robert (“bisogna cambiare tutto”) a più riprese fatte da diverse angolazioni della frontiera non è certo casuale: la fine del film è l’invito di Wenders ai personaggi e al pubblico di oltrepassare le proprie frontiere, i propri limiti, per esplorare l’inesplorato. È quanto afferma egli stesso: “Passare una frontiera o tro-varmi in un posto dove non ero mai stato prima, mi dà (come a chiunque altro) una più intensa sensazione di ciò che sto facendo. Perché lo sto fa-cendo per la prima volta. In altri termini, la percezione dipende da quanto uno si concede di percepire: dipende dal proprio stato d’animo, dalla pro-pria ricettività. E credo che i sensi di chiunque siano più all’erta durante un viaggio o in una nuova situazione. Attraversare le frontiere ti dà come la sensazione di perdere dei preconcetti” (Dawson, 1976, pag 30).

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39-44: “Ho quindi deciso di trasformare il mio film in un film di viaggio in cui potessi liberamente far emergere ciò che mi interessava cammin facendo.” La mobilità nei film di Wenders non riguarda soltanto i personaggi, ma perfino la macchina da presa. La mobilità della cinepresa è allo stesso tempo quella del reg-ista che sente l’esigenza di vagare in prima persona alla ricerca delle immagini appropriate e delle emozioni al contempo vissute dietro al mirino e regalate allo spettatore. Nasce il prototipo di un cinema esplor-ativo, che si aggancia al documentario nella sua ontologica ostinazione di osservare, ma che nella testa di Wenders si sviluppa come sguardo esistenziale che affonda nel vero.

45-46: “La genesi di Nel corso del tempo, così come quella di altri film di Wenders è legata alla cartina geografica come oggetto che incita al viaggio e alla scoperta, che incuriosice perché mostra, senza svelare, la presenza di luoghi inesplorati.” Il fotogramma 7, in cui compare uno dei due protagonisti di Nel corso del tempo reca sullo sfondo la cartina geografica della Filmverlag der Autorem (una società distributrice di film) che ha dato a Wenders l’idea di esporare, attraverso un film, quella topografia dimenticata.“Wim Wenders traspone in ‘immagine in movimento’ quell’apertura mentale, quella filosofia del viaggio inteso come scoperta di una topografia minore ricca di simbologie che Ghirri ha sperimentato con l’ “im-magine fissa’ .” L’immagine 46 è infatti una fotografia di Ghirri.

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47-51: “Wenders provoca lo spettatore, lo fa riflettere: lo spettatore è indotto a chiedersi chi siano questi protagonisti, perché uno si è gettato in un lago con la sua auto (47) e, soprattutto, dove stanno andando. Ma Wenders non fa parlare i due, che sprofondano in silenzio nei sedili del camion cullati dal dondolio del mezzo sulla terra dissestata, gli occhi a fissare il paesaggio che scorre. Instillandoci delle domande a cui non dà risposta è come se il regista ci dicesse: ‘impara ad aspettare, impara ad osservare’. Le risposte infatti arrivano, ma lentamente, nel corso del tempo per l’appunto; e Wenders, già a partire dal titolo, vuole farci capire che è il viaggio stesso, il percorso compiuto, il tempo impiegato a farlo e lo spazio attraversato che le fa lentamente emergere.”La lentezza e la progressione di tale percorso di scoperta e maturazione è data non soltanto dalla frequenza dei dialoghi fra i due ma soprattutto da come essi vengono inquadrati: in un primo tempo i due non com-

paiono mai nella medesima inquadratura, la camera li coglie sempre separatamente (48).Con il passare del tempo, nel corso del loro tempo, si cominciano a studiare, a capire, a vivere, e iniziamo a vederli comparire insieme anche se separati, ognuno immerso nel suo viaggio (49): il fotogramma mostra con evidenza come Wenders contribuisca a dare anche visivamente questa sensazione. Alla fine del film e del viaggio invece i due arrivano persino ad un forte contatto fisico (50) e poi si separano. I due tornano, come all’inizio del film a viaggiare su due mezzi diversi (51): ognuno ha ritrovato la sua strada ma i due sono meno soli: hanno raggiunto insieme una consapevolezza interiore che permette loro di ricominciare il viaggio da soli. Per le riprese di questa ultima sequenza Wenders sta bene attento a far si che i due rientrino sempre in tutte le inquadrature: dal camion di Bruno vediamo il treno di Robert e viceversa. Questa volta i due non guardano dritto davanti a se, imperterriti, ma incrociano i loro sguardi.

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52-54: La lenta transizione in dissolvenza fra l’inquadratura 52 e la 53 fa si che i volti dei due uomini in viaggio si sovrappongano al movimento continuo della ruota sull’asfalto. L’immagine che si viene a creare genera un accostamento forte e insolito che colpisce lo spettatore portandolo a riflettere sul suo significato. Wenders crea infatti immagini ad alto valore metaforico: in questo caso porre la ruota di un camion che solitamente ha un ruolo marginale in un’inquadratura come un primissimo piano in sovrapposizione a due volti ci indica che la ruota, o meglio ciò che rappre-senta (il viaggio nel corso dello spazio e del tempo) è la chiave di lettura dell’intera pellicola.

55-56: “Il susseguirsi di lunghi percorsi d’auto e di camion su strade in-terminabili, restituiscono la sensazione emotiva e visiva del movimento lento, umano” .

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57-60: Dopo aver lasciato all’amico un biglietto Robert, il ‘Kamikaze’ parte e lascia solo Bruno. A seguire una scena in cui la telecamera insiste nel riprendere uno steccato con un cartello: è la frontiera fra le due germanie. Anche se non è in primo piano ma sempre in campo lungo o sullo sfondo, tale insistenza attira l’attenzione, ci indica che questo elemento è importante. Accostandola alla frase del biglietto di Robert, “bisogna cambiare tutto”, Wenders dà al lettore una chiave di interpretazione a quell’elemento già di per sè simbolico che è la frontiera: questa scena è l’invito di Wenders ai per-sonaggi e al pubblico di sfondare le proprie frontiere, i propri limiti, avere il coraggio di lasciare il conosciuto ed esplorare l’inesplorato. La fine del film infatti è marcata dall’urlo lib-eratorio di Bruno che ha trovato questo coraggio.

“Passare una frontiera o trovarmi in un posto dove non ero mai stato prima, mi dà (come a chiunque altro) una più in-tensa sensazione di ciò che sto facendo. Perché lo sto facen-do per la prima volta. In altri termini, la percezione dipende da quanto uno si concede di percepire: dipende dal proprio stato d’animo, dalla propria ricettività. E credo che i sensi di chiunque siano più all’erta durante un viaggio o in una nuova situazione. Attraversare le frontiere ti dà come la sen-sazione di perdere dei preconcetti”. Wim Wenders

61: I film di Wenders hanno sempre molteplici chiavi di let-tura. Nel corso del tempo può anche essere visto come una denuncia al nuovo cinema hollywoodiano che sembrava al-lora schiacciare quello europeo, che viene affrontato come un immaginario destinato a scomparire, schiacciato dalla macchina industriale americana. Wenders, avendo svilup-pato il film a partire da un percorso a tappe per le piccole sale cinematografiche, ha modo di far parlare in prima per-sona i protagonisti di una realtà destinata a scomparire.

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Paris, Texas è un film del 1983, l’ultimo realizzato da Wenders negli Stati Uniti dopo una permanenza negli States durata più di quattro anni e mezzo. Egli conclude la sua parentesi artistica americana con un film che, a differenza dei precedenti, ha una trama che va in una direzio-ne ben precisa; prendiamo come esempio il film che abbiamo appena analizzato: se in Nel corso del tempo la trama era secondaria, pretesto per compiere un viaggio, mostrare un percorso, attraversare dei luoghi, in Paris, Texas non si ha questa sensazione, poiché ogni momento di avanzamento del film è funzionale alla narrazione della storia. Wenders giunge con questo film alla “celebrazione del racconto cinematografi-co lineare, non più affidato alle intermittenze dell’erranza” (Valli,1990, p.153). È Wenders in persona che annuncia la svolta in un’intervista concessa ad Alberto Crespi del 1984: “L’ultimo film sembra sempre il più importante, ma sono veramente convinto che Paris, Texas sia una svolta nella mia carriera. L’unica via per uscire dalle riflessioni teori-che era riscoprire la narrazione, riscoprire un vecchio modo di fare film. Tutti i miei film precedenti, in realtà, non credevano nella storia, nella trama: si basavano esclusivamente sui personaggi e sulle varie situazio-ni in cui essi si venivano a trovare. Alla base c’era solo il concetto che la storia è solo una lunga strada, una successione di avvenimenti, di luo-ghi. Stavolta, nonostante il finale sia completamente ‘aperto’, la trama ha una direzione molto precisa sin dal primo momento: sappiamo sem-pre perché Travis sta facendo delle determinate cose e dove sta andando il film. Anche se certi passi narrativi sono stati determinati solo sul set,

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il film è sempre un movimento lineare, senza scarti, con una meta ben precisa. I miei film precedenti si muovevano sempre attraverso lunghi meandri. Paris, Texas, invece, non è un ‘falso movimento’, ma un movi-mento autentico” (Crespi, 1984, p.8).

Ciò non vuol dire che a partire da questo momento il cinema di Wenders perda quegli aspetti legati al viaggio, alla scoperta dei luoghi, all’inco-municabilità che affligge l’uomo moderno che costituiscono il mio filo-ne di indagine. Anzi, Paris, Texas vede tutti questi elementi coesistere in maniera coerente poiché funzionali a una vera e propria narrazione; affermo ciò pensando ancora a Nel corso del tempo, in cui l’estetica dei luoghi e il percorso in se diventano essi stessi la struttura portante di un film che è stato per questo a volte preso sotto gamba dalla critica cine-matografica, giudicato troppo libero e dalla trama debole. Basti pensare che in Italia uscì solo nelle sale d’essai, proposto sull’onda dell’interesse de L’amico americano (del 1977), spesso proiettato in condizioni preca-rie e mai più ridistribuito.

Proprio perché gli elementi della nostra analisi sono parte integrante della narrazione è bene, per avere dei punti di riferimento, che io espon-ga, se pur in maniera essenziale, la sinossi del film.La narrazione si apre con una lunga ripresa del deserto, finché non si arriva a scorgere la figura di un uomo che vaga: si tratta di Travis. Dopo

essere svenuto, l’uomo viene raggiunto dal fratello (Walt), il quale, viste le sue condizioni, decide di portarlo con sé a Los Angeles, dove Walt vive con sua moglie e un bambino, Alex. Travis è sconvolto, sembra preso da una forma di autismo che lo isola dal mondo esterno. Il fratello cerca in tutti i modi di dialogare con lui e capire che cosa è successo nei quattro anni in cui è scomparso, ma Travis si ostina a perpetuare il suo muti-smo. Solo dopo due giorni di viaggio egli apre bocca e pronuncia due parole: “Paris… Paris, Texas” e mostra al fratello una fotografia sgualcita di un arido territorio. Dopo quest’apertura Travis comincia pian piano a parlare e rivela il sen-so di quelle due parole: “Paris, Texas”; Paris è il nome di una località nel Texas in cui egli è stato concepito, e dove quattro anni prima aveva acquistato per corrispondenza un lotto di terreno - quello in fotografia - per andarci a vivere con la moglie e il piccolo figlioletto. Sempre dai dialoghi dei due fratelli in viaggio capiamo che Alex, il bambino che vive con Walt e la sua compagna, è in realtà figlio di Travis, che la sua com-pagna Jane aveva affidato ai due dopo la separazione. Al termine di questo viaggio che ha riavvicinato i due fratelli e riporta-to Travis all’evidenza dei fatti, i due arrivano e si stabiliscono a casa di Walt, il fratello, dove li aspettano la compagna di Walt e Alex, figlio di Travis. In seguito alla convivenza di Travis con la famiglia del fratello inizia un delicato avvicinamento tra padre e figlio, che sfocia nella de-cisione di intraprendere un nuovo viaggio in auto verso Houston, alla

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ricerca della madre di Alex, Jane. Qui Travis incontra Jane attraverso il vetro di un peep-show e le racconta la storia del loro amore senza svelare la propria identità; la donna, riconosciutolo, decide di accettare la pro-posta di Travis e recarsi nell’albergo dove padre e figlio alloggiano per rincontrare dopo quattro anni Alex. Nella scena finale, mentre madre e figlio si ricongiungono, Travis si allontana osservando la finestra illumi-nata dalla strada.Le inquadrature di apertura e di chiusura di un film sono sempre im-portantissime, cruciali nella determinazione del senso da parte dello spettatore, ed è per questo che il regista le cura con la massima atten-zione; spesso gli elementi costitutivi di una narrazione, siano essi og-getti, persone, temi o sensazioni, sono già contenuti nella scena iniziale e ripresi in quella finale. Ecco dunque che nell’indagare Paris,Texas ci soffermeremo sulle scene iniziali e finali, particolarmente significative per la nostra analisi.

È sufficiente infatti osservare le prime scene per capire che la nuova narrazione wendersiana subisce ancora prepotentemente, ma anche in maniera sempre nuova il fascino, dei luoghi: si ripercorrano le prime immagini del film: Una lunga ripresa del deserto / la figura di un uomo che vaga. Anche in questo caso perciò, come in Nel corso del tempo e al-tri film prodotti in precedenza, il film ha come elemento costitutivo l’er-ranza e la solitudine del protagonista, che viene presentato già in cam-

mino, immerso in un Texas sconfinato, spoglio, immobile, che denota da subito la solitudine in cui egli è immerso; lo intuiamo ancora prima di scorgerne la camminata, di intuire l’espressione del viso. Poi l’uomo si avvicina, camminando a fatica; il volto segnato, l’espressione stravol-ta rivelano immediatamente la tristezza, l’incrinatura della coscienza, l’incertezza della paura. L’uomo però non ha niente dell’eroe solitario, è un’immagine troppo concreta: un vagabondo con giacca e cravatta e un copricapo infantile che non sembra ricercare e fuggire alcunché, un personaggio “trovato” dalla storia per caso.Due sono gli aspetti su cui focalizzarsi: la scelta di utilizzare la “persona-lità” di un luogo, di un territorio per comunicare la condizione esisten-ziale del personaggio e la modalità di presentazione del personaggio.

Esaminiamo il primo punto. Se si osservano in sequenza i fotogrammi iniziali si percepisce quanto appena affermato: vedere in apertura un paesaggio così ampio porta l’osservatore a un’osservazione contempla-tiva, un po’ distaccata e interrogativa; l’apparire però della silhouette umana, di un corpo che emerge dalla polvere e dal sole sempre più de-finito e definibile nell’andatura e nell’abbigliamento porta l’osservatore a uno scatto di avvicinamento. Improvvisamente il deserto texano non è più un panorama sublime, ma un territorio immenso, desolato, il cui attraversamento mette alla prova mente e fisico; inconsciamente perce-piamo che la condizione di spaesamento, solitudine, stanchezza men-

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tale e fisica che quel territorio causa al personaggio è la sua condizione esistenziale, è uno spaesamento interiore: egli si è perso su un territorio difficile, che lo spaventa, che cancella le sue tracce. Lo capiamo incon-sciamente dai primi fotogrammi, e ce lo conferma lo sviluppo del film: se si osservano i fotogrammi tratti dalla prima metà del film, in cui i due fratelli sono in viaggio si nota un’insistenza su inquadrature molto am-pie del paesaggio texano, soggettive del personaggio tutte tese verso un punto di fuga lontano, sfuggente, o inquadrature in cui egli, o l’auto che lo trasporta, pare perso, schiacciato da un paesaggio troppo vasto.Il senso di tali inquadrature è ancora più chiaro se confrontato a quelle della seconda parte del film e al senso dato dall’intreccio degli eventi. La trama evolve progressivamente, è il cammino di Travis da uno stato di incoscienza, isolamento, vuoto, spaesamento interiore verso un lento e doloroso ritrovamento della propria identità e reinserimento nei mecca-nismi della vita sociale. Punto di svolta in questa progressione è l’arrivo di Travis a casa del fratello e l’incontro con il figlio. Le inquadrature e le scelte di regia restituiscono visivamente le sensazioni suscitate dal-l’intreccio e vissute dai personaggi: si passa infatti da inquadrature in campo lunghissimo in cui l’occhio umano è perso, disorientato, frastor-nato dal vuoto circostante a inquadrature via via più chiuse, più infram-mezzate da primi piani e campi medi, scene di interni, più quotidiane, rassicuranti perché a misura d’uomo.Wenders, dunque, mantenendo questo doppio livello comunicativo dato

dall’intreccio da un lato, e dalle immagini dall’altro, riesce a far sì che i due livelli si rafforzino l’un l’altro: la sua attenzione tipicamente foto-grafica ai luoghi, infatti, comunicando e spesso anticipando e svelando all’inconscio prima che alla ragione le emozioni, il senso profondo e re-condito della trama, funge da catalizzatore e amplificatore della stessa, dando anima al film. Ho parlato di “attenzione fotografica ai luoghi” in quanto è tipico del linguaggio fotografico più che di quello cinemato-grafico operare solo sul piano visivo e con immagini statiche: Wenders avrebbe potuto comunicare la solitudine, l’erranza, il disorientamento del personaggio sfruttando la possibilità di utilizzare il movimento e il sonoro, focalizzandosi sul personaggio, la gestualità, la parola, il tono di voce. Sceglie invece di presentarcelo con una sola, lunga inquadratura, di grande impatto, mentre emerge barcollando dalla polvere e dal sole.In questo tipo di inquadrature, l’attenzione fotografica ai luoghi non sono perciò lodevoli in sé, come belle fotografie da appendere ai muri, ma hanno valore poiché, essendo perfettamente integrate con altre in-quadrature, più prettamente cinematografiche, fanno progredire la nar-razione, aggiungendo, moltiplicando, rafforzandone il senso. Questa è l’abilità di Wenders che emerge in Paris, Texas: saper intrecciare perfet-tamente i due linguaggi, quello fotografico e cinematografico, quello del-le immagini e quello dell’intreccio, quello dei luoghi e quello dei perso-naggi. Il tutto senza perdere però la sua costante attenzione ai luoghi, e in particolare a un’America satura di immagini che Wenders non smette

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di ammirare: “America, terra di immagini. / Fatta di immagini. / Fatta per le immagini. / Anche la stessa scrittura s’è qui visualizzata / Più che in ogni altro paese. / Con una fantasia che non conosce limiti, / le lettere e i numeri / si sono mutati in segni, in nuove icone. / Immagini e segni ovunque, / su enormi pannelli, fotografie, dipinti, luci al neon. / Mai come qui diventati un’ arte. / Mai una tale inflazione di segni come in America. / Mai un tale onere per gli occhi, / tanto superlavoro. / Mai così sfruttato il vedere, / al servizio della seduzione. / Perciò tanti desideri, tanti bisogni, / perché nessun luogo stimola tanta bramosia visiva. / Mai tanta assuefazione visiva come in America” (Wim Wenders, 1984).

Veniamo ora al secondo punto d’interesse che emerge dall’analisi della prima sequenza. Per introdurlo richiamo una frase utilizzata in prece-denza per parlare di Travis: “(…) L’uomo però non ha niente dell’eroe solitario, è un’immagine troppo concreta: un vagabondo con giacca e cravatta e un copricapo infantile che non sembra ricercare e fuggire al-cunché, un personaggio ‘trovato’ dalla storia per caso”. E mi soffermo su quel concetto: trovare, o meglio, trovare per caso. Effettivamente la sensazione che Wenders ci dà con la sequenza iniziale di Paris, Texas è quella di qualcuno che si guarda intorno, che osserva il territorio, e che, per caso, scorge in lontananza una figura, e decide, incuriosito, di se-guirlo per scoprirne la storia. Con Paris, Texas dunque Wenders pone in maniera chiara e inequivocabile l’accento su un personaggio e la sua sto-

ria, ma la modalità del racconto, generato da un atteggiamento di curio-sità e scoperta non muta: i temi del viaggio e dell’esplorazione dei luoghi sviluppati in Nel corso del tempo sembrano ora essere stati applicati dal regista nei confronti dell’uomo: un uomo trovato per caso, solo, muto, enigmatico, e carico di storia – proprio come i luoghi su cui Wenders si sofferma – che perciò incuriosisce e spinge all’indagine. A un certo pun-to Travis afferma “il mio corpo ricorda per me” e sembra volerci indicare il valore delle tracce che il tempo, gli eventi lasciano sul terreno, luoghi e corpi, i quali diventano custodi di una memoria da scoprire.Altro punto cruciale contenuto nelle prime sequenze legato oltretutto alla genesi stessa del film è il momento in cui Travis, dopo mesi di silen-zio, rompe il suo mutismo dicendo una parola Parigi.

W: “Cos’hai in mano?”T: “Una foto.” W: “Una foto di cosa?”T: “Di Parigi. Un punto di Parigi”W: “Ma sei sicuro che sia Parigi? Sembra il Texas piuttosto.”T: “Lo è. Paris, Texas”

Capiamo subito che quelle parole, e quella fotografia, hanno un ruolo chiave, sono importanti, anche se non ne intuiamo il motivo; ne perce-piamo l’importanza, innanzitutto perché sono le prime parole di Travis,

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che credevamo rinchiuso in un mutismo insondabile, e poi, ovviamente perché quelle parole danno il titolo all’intero film.Vediamo quindi che il cardine della narrazione è un luogo, identificato da un nome, Paris, una localizzazione, Texas, una fotografia; anche se i protagonisti sono uomini, ancora una volta Wenders è stato ispirato da un luogo, e in questo caso non tanto dalla fisicità del luogo quanto dal suo nome, e dalle atmosfere contrastanti che il nome equivoco evoca. Il nome di questo villaggio ha subito stimolato la fantasia del regista, che lo considerava metaforicamente come una sorta di sintesi fra l’Europa e l’America. Il villaggio effettivamente non viene mai mostrato nel film, viene soltanto evocato nel ricordo di Travis e nell’immagine fotografica che egli porta con sé. Travis racconta al fratello Walt di voler tornare in quel luogo dove, come il loro padre gli aveva raccontato una volta, egli era stato concepito. Così si viene a sapere che nel suo lungo vaga-bondaggio durato quattro anni Travis aveva acquistato un terreno per corrispondenza a Paris, nello Stato del Texas, perché lì voleva tornare a vivere un giorno, in quel luogo dove era cominciata la sua storia.

W: “Ma perché proprio Paris, Texas? Non c’è nulla, guarda!”T: “Ah, ora ricordo. Mamma una volta mi disse che fu proprio lì che lei e papà fecero l’amore la prima volta”.W: “A Paris, Texas? Così ti disse?”T: “Sì. Fu per questo. È proprio lì che io iniziai ad essere. Io, Travis Clay

Anderson, come mi hanno chiamato. Il mio punto di partenza.”W: “Paris Texas, è?”T: “Già.”W: “Sei sicuro di essere stato concepito lì?”T: “Sì.”

In questo caso dunque il luogo, il paese Paris Texas non è importante per le sue caratteristiche visivo-strutturali, ma solo ed esclusivamente per ciò che rappresenta, per l’alto valore metaforico che ha. “Fu magnifico, avevamo bisogno di un luogo e questo luogo ci diede tutte le giustifica-zioni per la nostra storia e al tempo stesso il titolo, pur senza mai appari-re: il nome del luogo valeva più del luogo stesso” (Colusso, 1998, 54).

Quel paese rappresenta le radici della storia dell’uomo, Travis, è simbo-lo di quel movimento di ritorno alle origini che è il film. È curiosa anche la genesi del nome del luogo: “Per Paris Texas Sam Shephard aveva avu-to all’inizio l’idea di Travis che vuole ritrovare una donna, non sa dove si trova, ma si dirige verso un paese di cui tutto quello che ricorda è che suo padre e sua madre gli avevano detto che lì l’avevano concepito” (Colusso, 1998, p. 53). Era dunque assodato che il luogo, il suo valore per il protagonista fossero un punto nodale, ma mancava il nome. Ci voleva un nome che in qualche modo fosse collegato alle origini che rappre-sentava. Racconta Wenders: “All’inizio proposi Corpus Christi, ma era

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eccessivo, troppo facile, lo lasciammo cadere subito”. Wenders comincia allora una ricerca di luoghi realmente esistenti: “Poi scoprii la cittadi-na di Paris, Texas. Una notte in cui non riuscivo ad addormentarmi, non avevo sonno e non avevo da leggere che la carta stradale degli Stati Uniti, feci una lista di tutte le città europee, le Berlino, Parigi, Varsavia, che si trovavano negli Stati Uniti, poi comparai il numero degli abitanti di tutte le Parigi, Paris Texas era la più grande” (Colusso, 1998, p. 53).Il fatto di scegliere una cittadina americana con il nome di una capitale europea, oltre a suscitare immediatamente la curiosità per l’accostamen-to di due realtà distanti, stimola la sensazione di lontananza, dell’altrove, indica implicitamente che il viaggio di ritorno è lungo e difficile. Per colle-gare maggiormente il luogo all’idea delle radici, delle origini, Wenders ha costruito il personaggio della madre di Travis, attraverso i suoi racconti, di modo che avesse dei forti punti di aggancio con Paris Texas. “Ritenemmo più opportuno che di Paris Texas, come della madre di Travis, la ‘donna di Parigi’, nel film si parlasse soltanto, senza vederli mai. La città e la ma-dre sono solo idee a cui si fa riferimento” (Crespi, 1984, p. 235).Riporto ora due spezzoni di dialoghi, uno fra Travis e il fratello e uno fra Travis e il figlio, che mostrano come Wenders abbia costruito il per-sonaggio della madre legandola in maniera inequivocabile alla città, al nome di Parigi. La figura della madre di Travis, che come abbiamo detto non compare mai nel film, è presentata attraverso le parole di Travis soltanto in questi due dialoghi:

T: “Papà scherzava sempre su Parigi.”W: “Ci scherzava come?”T: “Lui diceva che la mamma l’aveva conosciuta a Parigi e aspettava pri-ma di dire Texas, aspettava che tutti pensassero che lui stesse parlando di Parigi, quell’altra, ci si divertiva come un bambino.”Entrambe sembrano Parigi, per entrambe è uno scherzo.W: “Mia madre era una che non voleva essere una donna chic non avreb-be fatto niente per sembrarlo.”A:“Allora che donna era?”W: “Una donna semplice, buona e semplice, ma mio padre aveva un’idea in testa che era quasi una fissazione”A:“Che fissazione?”W: “Aveva quell’idea di lei, e niente da fare. Non la vedeva com’era ma come voleva vederla. Lui la vedeva come una donna molto chic e diceva a tutti che era nata a Parigi. All’inizio scherzava ma a furia di dirlo tutte le volte lui ci credeva veramente, sì lui ci credeva, e lei, oddio, moriva dall’imbarazzo, era così timida.”

Con uno stratagemma semplicissimo quanto geniale, dunque, l’ugua-glianza di nomi, Wenders fa si che lo spettatore associ Paris Texas alla Parigi europea, e la madre di Travis pure. Sia “Paris, Texas”, il luogo in cui Travis ha “iniziato ad essere”, che la madre di Travis dunque sono in qualche maniera legate alla città di Parigi, e in entrambi i casi que-

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st’associazione altro non è che uno scherzo, un’illusione, un tromp l’oeil. Tale similitudine, oltre ad acuire l’idea di lontananza, di irraggiungi-bilità della meta prefissa, ha la funzione di rafforzare ancora di più il concetto di ritorno alle origini rappresentato da quell’appezzamento di terreno, poiché vi trasferisce, come per proprietà transitiva anche il con-cetto di maternità: “Paris, Texas” è la spensieratezza, la quiete dell’ab-braccio materno, tanto cercato e agognato; e per maternità non intendo riferirmi soltanto alla madre di Travis ma al concetto in generale. Non è un caso infatti se l’evento risolutore del film, che placa il tormento del protagonista, è il ricongiungimento di Alex con la vera madre.

Veniamo ora alla sequenza finale, scena decisiva e lacerante, significati-va per la narrazione, ma anche e soprattutto dal punto di vista registico e scenico, per l’uso che ancora una volta Wenders fa dei luoghi come veicolatori di emozioni, sensazioni, storie.La sequenza finale si suddivide in due scene ben distinte: nella prima Travis, una volta scoperto che Jane lavora in un peep-show, decide di andare a parlarle, mentre la seconda mostra l’incontro fra Jane e il fi-glio Alex, mentre Travis se ne sta in disparte. Vediamo ora in che senso queste due scene sono esemplari per l’uso metaforico dei luoghi, della loro immagine e delle loro caratteristiche strutturali, per la capacità di Wenders di sfruttarne il potenziale comunicativo.Nella prima delle due scene finali, incredibilmente sofferta, il cinema ec-

cede la realtà, tanto che lo spettatore può “toccare” l’emozione, il dolore dei personaggi; la scena è tutta giocata su un’atmosfera tesa, di attesa e svelamento, che la location del peep-show e le scelte registiche per ri-prenderlo contribuiscono fortemente a creare. Il peep-show infatti non è soltanto scelta narrativa per connotare di squallore, solitudine e deso-lazione la vita di Jane dopo la decisione di lasciare marito e figlio; rap-presenta anche e soprattutto una scelta oculata di un luogo che, per le sue caratteristiche strutturali, implica un comportamento indotto delle persone che lo frequentano che diventa un fortissimo elemento metafo-rico ad alto valore comunicativo. Il nome peep-show deriva dall’inglese “to peep”: in italiano, “sbirciare”. I peep-show sono locali strutturati con cabine dove singoli spettatori possono osservare da dietro un vetro una ragazza che si esibisce dal vivo in uno spettacolo più o meno spinto, a seconda delle esigenze del cliente. Le cabine sono separate in due dal vetro, da una parte sta la ragazza, dall’altra il cliente; i due possono co-municare tramite un telefono. Il vetro è riflettente, ed essendo la stan-za della ragazza illuminata mentre quella del cliente buia, il cliente può sbirciare la ragazza senza essere visto. Questa caratteristica rende il ve-tro – oggetto già di per sé denso di simbologie – ancora più interessante, perché può diventare specchio pur mantenendo parzialmente la sua ca-ratteristica di trasparenza, e per di più permette un’inversione di ruoli: l’osservatore può diventare l’osservato e viceversa, a seconda di chi dei due accende la luce nella propria stanza. Vediamo ora come l’espediente

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geniale del peep-show renda ancora più drammatico il momento risolu-torio della narrazione, concretizzandone il senso.Tutto l’intreccio è basato sul rimorso di Travis, che lo spinge a compiere un doloroso viaggio, un viaggio di ritorno, nel suo passato, per mettere a posto dei tasselli che aveva scompigliato, facendo del male alle due persone che più amava. Se inizialmente il dolore, la rabbia, l’isolamento, lo conducono a uno stato di apatia, di incoscienza, allorché egli viene ritrovato dal fratello e riportato alle costrizioni della socialità producono un bisogno di ritrovamento, un tentativo di ricerca, una volontà di ripa-rare le ferite aperte. Tutto il climax è perciò giocato su quest’obiettivo che il protagonista si prefigge: egli vuole a tutti i costi ritrovare la mo-glie, Jane, e non si ferma neppure di fronte alla sofferenza della famiglia che ha accolto suo figlio; abbandona la severa generosità del fratello e la tenerezza comprensiva della cognata perché deve riparare all’errore di aver disperso un’altra famiglia. Quando alla fine trova la moglie e le organizza un incontro con il figlio egli rimarrà ai margini, si farà in di-sparte dopo aver compiuto il gesto di redenzione, e ricostruirà la sua solitudine: rinuncia al figlio e alla moglie che gli chiede di restare per ristabilire una felicità che lo vede spettatore pago e, di fatto, padre nel coraggio della rinuncia.La conclusione è perciò un lieto fine che lascia l’amaro in bocca: alla dolcezza e alla commozione del ritrovarsi dei due, Jane e Travis, profon-damente segnati dalla solitudine, si frappone la dolorosa presenza del

passato, la coscienza che il ricongiungimento fra i due non può essere effettivo, se non finalizzato al bene del figlio. E qui si spiega il valore metaforico della cabina del peep-show che permette di sentire la voce senza potersi vedere o, forse peggio, di vedere senza potersi toccare, e in questo senso diventa cristallizzazione concreta dell’impossibilità di tornare indietro, di cancellare il passato: il passato, così come il vetro del peep-show, impedisce ai due, nonostante il disperato affetto che li lega, di tornare insieme come se nulla fosse successo. È questa coscienza dolorosa il vetro freddo e spesso che si frappone fra i due, e nient’altro.Anche la peculiarità del vetro citata in precedenza, di mostrare e na-scondere allo stesso tempo, è in realtà una scelta progettata e funzio-nale alla narrazione: è il simbolo di apertura, di scioglimento di Jane che abbandona dopo tanti anni il rancore e acconsente, quando Travis le chiede se vuole vederlo in faccia. Il ricongiungimento che lei ora desi-dererebbe - prega infatti Travis di non scomparire dopo il loro incontro - non è possibile: nel momento in cui lei può vedere non può essere vista da Travis e i due non possono toccarsi, le mani di Jane toccano il vetro

freddo, si scontrano con il passato.La seconda e ultima delle due scene finali è carica di ambivalenza: da un lato lo scioglimento della tensione creatasi nella scena precedente dovuta all’incontro fra madre e figlio, dall’altro la muta rassegnazione e solitudine di Travis. Anche in questo caso il contrasto dei due “pathos” è mostrato attraverso le caratteristiche di un luogo, o meglio dal contra-

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sto di due luoghi: la stanza 320 del Meridian Hotel in cui Jane e Alex si incontrano è invasa da una luce diffusa, calda, accogliente, che risalta le figure di madre e figlio disegnandone dolcemente le due teste dorate sul fondale di un placido cielo notturno. Le inquadrature della stanza sono alternate a inquadrature notturne di un parcheggio illuminato da una fioca luce fredda, desolatamente vuoto, in cui si intravedono solo due elementi: Travis e la sua auto, frontali rispetto alla macchina da presa, senza geometria alcuna che possa sostenere la sopravvivenza di una via di fuga.Il senso della scena, la sofferta decisione risolutoria di Travis di perdere nuovamente il figlio per consegnarlo alla madre, è dato ancora una volta non tanto dal movimento degli attori, dalla loro voce (Travis è immobile, non parla, il suo volto non è visibile) quanto da una costruzione studiata dell’immagine e una scelta dei luoghi.

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62-65: Il film ha come elemento costitutivo l’erranza e la solitudine del protagonista, il quale viene presentato già in cammino, immerso in un Texas sconfinato, spoglio, immobile, che denota da subito la solitudine in cui egli è immerso; lo intuiamo ancora prima di scorgerne la cam-minata, di intuire l’espressione del viso. Le caratteristiche , la “personalità” di un luogo, sono perciò utilizzate per trasmettere la condizione esistenziale del personaggio: vedere in ap-ertura un paesaggio così ampio porta l’osservatore ad un’osservazione contemplativa, un po’ distaccata e interrogativa; l’apparire però poi del-la silhouette umana porta l’osservatore a uno scatto di avvicinamento, all’immedesimazione.

66: L’uomo non ha niente dell’eroe solitario, è un’immagine troppo concreta: un vagabondo con giacca e cravatta ed un copricapo infantile che non sembra ricercare e fuggire alcunché, un personaggio “trovato” dalla storia per caso.

67-72: Nella parte iniziale del film si nota un’insistenza su inquadrature molto ampie del paesaggio texano, soggettive del personaggio tutte tese verso un punto di fuga lontano, sfuggente (67-69), o inquadrature in cui egli, o l’auto che lo trasporta, paiono persi, schiacciati da un paesaggio troppo vasto (70-72): Wenders ci comunica così, in maniera inconscia ma molto diretta lo spaesamento interiore del personaggio. Questi si è perso su un territorio difficile, che lo spaventa, che cancella le sue tracce.

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73-76: le inquadrature e le scelte di regia restituiscono visivamente le sensazioni suscitate dall’intreccio e vissute dai personaggi. Si passa infatti da inquadrature in campo lunghissimo in cui l’occhio umano è perso, disorientato, frastornato dal vuoto circostante a inquadrature via via più chiuse, più inframezzate da primi piani e campi medi, scene di interni, più quotidiane, rassicuranti perché a misura d’uomo. Tale passaggio denota il cambiamento del protagonista che passa da un to-tale smarrimento esistenziale a un recupero progressivo del passato, della sua storia.

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77-82: L’abilità di Wenders sta nel saper intrecciare perfettamente i due linguaggi, quello fotografico e cinematografico, quello delle immagini e quello dell’intreccio, quello dei luoghi e quello dei personaggi. Le inquadrature, l’attenzione fotografica ai luoghi non sono perciò lode-voli in se’, come belle fotografie da appendere ai muri, ma hanno valore poiché, essendo perfettamente integrate con altre inquadrature più pret-tamente cinematografiche, fanno progredire la narrazione aggiungen-do, moltiplicando, rafforzandone il senso Il tutto senza perdere però la costante attenzione ai luoghi, e in particolare ad un’America satura di im-magine che Wenders non smette di ammirare.

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82“America, terra di immagini ./Fatta di immagini. / Fatta per le immag-ini./Anche la stessa scrittura s’è qui visualizzata / Più che in ogni altro paese./ Con una fantasia che non conosce limiti, / le lettere e i numeri / si sono mutati in segni, in nuove icone. / Immagini e segni ovunque,/ su enormi pannelli, fotografie, dipinti, luci al neon. /Mai come qui diventati un’ arte./ Mai una tale inflazione di segni come in America./ Mai un tale onere per gli occhi,/ tanto superlavoro./ Mai così sfruttato il vedere,/ al servizio della seduzione. / Perciò tanti desideri, tanti bisogni, / perché nessun luogo stimola tanta bramosia visiva. / Mai tanta assuefazione vi-siva come in America.”

Wim Wenders, Il sogno americano, (marzo/aprile 1984)

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83:W: “cos’hai in mano?”T: “Una foto.” (fig 32)W: “Una foto di cosa?”T: “Di Parigi. Un punto di Parigi”W: “Ma sei sicuro che sia Parigi? Sembra il Tex-as piuttosto.”

T: “Lo è. Paris, Texas”

84: Le prime parole che il protagonista pronuncia dopo anni di mutismo sono legate a questa immagine, questo luogo. Una distesa desertica che egli dice essere Parigi, e, solo successivamente precisa: Paris, Texas.Comprendiamo che questo elemento è fondamentale sia perchè è ciò che rompe il mutismo di Travis sia perchè dà il titolo all’intero film.

Wenders ci incuriosisce, sappiamo che il protagonista vuole recarsi in quel luogo, luogo dall’identità ambigua, sfuggente, lontana, che diventa perciò meta simbolica di tutto il viaggio. Ancora una volta un luogo è il cardine del film, seppur con una trama più consistente rispetto ai precedenti.

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85-87: La conclusione del film è un lieto fine che lascia però l’amaro in bocca: alla dolcezza e alla commozione del ritrovarsi dei due, Jane e Tra-vis, profondamente segnati dalla solitudine, si frappone la dolorosa pre-senza del passato, la coscienza che il ricongiungimento fra i due non può essere effettivo, se non finalizzato al bene del figlio.Tale presa di coscienza è tanto più struggente quanto più Wenders riesce a trasmetterla con il “non detto”, il linguaggio non verbale.E’ qui che entra in gioco il valore metaforico della cabina del peep-show

Il vetro della cabina del peep-show è riflettente, ed essendo la stanza della ragazza illuminata mentre quella del cliente buia, il cliente può sbirciare la ragazza senza essere visto. Questa caratteristica rende il vetro - oggetto già di per se denso di simbologie – ancora più interessante, perché può diventare specchio pur mantenendo parzialmente la sua caratteristica di trasparenza e per di più permette un inversione di ruoli: l’osservatore può diventare l’osservato e viceversa, a seconda di chi dei due accende la luce nella propria stanza.

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che permette di sentire la voce senza potersi vedere o, forse peggio, di vedere senza potersi toccare, e in questo senso diventa cristallizzazione concreta dell’impossibilità di tornare indietro, di cancellare il passato: il passato, così come il vetro del peep-show impedisce ai due, nonostante il disperato affetto che li lega, di tornare insieme come se nulla fosse suc-cesso. E’ questa coscienza dolorosa il vetro freddo e spesso che si frap-pone fra i due, e nient’altro.

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88-89: Il senso della scena, la sofferta decisione risolutoria di Tra-vis di perdere nuovamente il figlio per consegnarlo alla madre, è dato ancora una volta non tanto dal movimento degli attori, dalla loro voce – Travis è immobile, non parla, il suo volto non è visibile - quanto da una costruzione studiata dell’immagine e una scelta oculata dei luoghi.il contrasto dei due “pathos” di Travis e della moglie è mostrata at-traverso le caratteristiche di un luogo, o meglio dal contrasto di due luoghi: la stanza 320 del Meridian Hotel in cui Jane e Alex si incon-trano è invasa da una luce diffusa, calda, accogliente che risalta le figure di madre e figlio disegnandone dolcemente le due teste do-rate sul fondale di un placido cielo notturno. Le inquadrature della stanza sono alternate a inquadrature notturne di un parcheggio il-luminato da una fioca luce fredda, desolatamente vuoto, in cui si intravedono solo due elementi: Travis e la sua auto, frontali rispetto alla macchina da presa, senza geometria alcuna che possa sostenere la sopravvivenza di una via di fuga.

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IL CIELO sOpRA bERLINO

Dopo aver preso in esame due film che rappresentano le tappe fondamen-tali della carriera e del pensiero wendersiano, veniamo ora al film che l’ha reso famoso nel mondo e che ha per sempre legato il suo nome alla figura degli angeli: Il cielo sopra Berlino. Il film segna il ritorno in patria del regi-sta dopo il lungo “esilio” americano, e rappresenta l’ennesima svolta nella sua carriera.

Fin ora abbiamo visto infatti come il filo conduttore di tutto il sentire wen-dersiano, del suo nuovo cinema d’esplorazione, ovvero la volontà di dare voce, anima e corpo ai luoghi e alle loro storie si sia tradotto in “un movi-mento ‘terrestre’ di corpi nello spazio, corpi ‘umani’, perduti nel vuoti di esistenze difficilmente recuperabili, in tragitti privi di senso eppure pieni di emozioni, stupori, passioni” (dvd.it). Si pensi ad esempio al movimento del camion con i due personaggi in Nel corso del tempo e alla macchina utilizzata a scapito dell’aereo da Travis, il protagonista di Paris, Texas, per compiere il suo viaggio di redenzione.Ne Il cielo sopra Berlino invece il regista trova uno stratagemma ancora più sottile ed elaborato del “viaggio”, del “movimento terrestre”, per restitui-re ai luoghi, impressionata sulla pellicola cinematografica, la loro identità: proposito, questo, che Wenders è sempre molto determinato a portare a termine, ma non senza difficoltà o incomprensioni da parte del pubblico. Se da un lato egli afferma infatti che “i paesaggi possono essere veramente personaggi e le persone che vi compaiono comparse” (Wenders in Colusso,

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1998, p. 41), dall’altro però non nega la difficoltà a compiere un simile ri-baltamento e farlo percepire allo spettatore, abituato a “un cinema che se ne frega dei luoghi e ha rispetto soltanto per la storia, ancora maggiore di quello che nutre per i personaggi” (Wenders in Colusso, 1998, p. 46).

A fronte della difficoltà di mettere in pratica e soprattutto far percepire la sua etica, il suo rispetto per i luoghi e le loro storie così in contrasto con quella vigente nel medium da lui usato, il cinema, Wenders cerca di far percepire il suo messaggio usando lo stesso codice del medium: essendo il protagonista di un film abitualmente radicato nella percezione come essere animato, ed essendo invece i luoghi inerti, il regista crea degli esseri anima-ti, gli angeli, i quali, essendo immortali, invisibili, e potendo volare, danno a Wenders il privilegio di inscenare in maniera verosimile una visione dello spazio e del tempo del tutto insolite, che dà ai luoghi rilievo e importanza da protagonisti.

Gli angeli, Daniel e Cassiel, volano e si aggirano non visti nella dimensione aspaziale del cielo a diversi livelli: possono contemplare la città da altitudini che la riducono a un ammasso informe, così come planare raso terra, infil-trandosi nelle case, nei cortili, nei mezzi pubblici, sfiorando le architetture, i chioschi per le strade, le persone. Il movimento del volo permette così di fare scelte registiche che altrimenti sarebbero state inverosimili: pun-ti di vista zenitali, movimenti di camera fluidi con velocità estremamente

basse o elevate; questo tipo di riprese, per altro complesse e costose, nel cinema sono solitamente impiegate come inquadrature “d’ambientazione”, inquadrature cioè che inquadrano la storia, danno delle coordinate spazio-temporali, e a cui subentrano poi le oggettive e le soggettive dei personag-gi, le quali, essendo per lo più i personaggi degli esseri umani, sono “ad altezza” e “ad andatura d’uomo”. Solo osservando la semantica del nome tecnico cinematografico attribuito a tali inquadrature, “d’ambientazione” per l’appunto, si ha un’indicazione su come tradizionalmente il cinema re-leghi i luoghi, gli spazi, le architetture a una funzione, come dice il nome, di ambientazione, di fondale funzionale a inquadrare e inscenare la storia. Wenders invece, che vuole riscattare i luoghi solitamente concepiti come sfondo dando loro il rilievo di un personaggio, trova l’escamotage degli an-geli che gli permette di utilizzare questo tipo di inquadrature anche per le soggettive e le oggettive.Ciò implica che, essendo tali riprese utilizzate più di frequente, i luoghi, le architetture, la città hanno più voce. Ma non solo. Non si tratta soltanto di una conquista quantitativa, ma qualitativa, a livello di enfasi ed empatia: fa-cendo di queste inquadrature delle soggettive degli angeli, infatti, Wenders dà un’anima alla visione, ne fa vivere l’emozione e il senso allo spettatore che, in catarsi con il protagonista, le vive in prima persona. La soggettiva è infatti “una tecnica di ripresa che consente allo spettatore di calarsi nei pan-ni di un personaggio, permettendogli di vedere le cose con i propri occhi. In questo modo lo spettatore ha una visione maggiormente aderente alla

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realtà, nel senso che è messo nella condizione di percepire tutto quello che sente, prova e vede in quel preciso momento il personaggio sullo schermo” (Wikipedia.org /soggettiva).

Gli angeli sono esseri immortali, immersi in una dimensione atemporale. Hanno una percezione della realtà diversa, incontaminata, perché al di so-pra di ogni ordine dello spazio e del tempo: “gli angeli sono infatti pura essenza, creature non soggette al divenire, capaci di una conoscenza imme-diata e disgiunta dall’esperienza sensibile. Da sempre, dall’epoca mitica an-teriore all’inizio della Storia che in ogni momento possono evocare dentro al presente, essi sono i testimoni silenziosi delle vicende degli uomini, ne ascoltano le voci interiori e segrete – quelle che la sceneggiatura definisce Gedankenstimmen – e ne sono assediati in un brusio costante e diffuso, lo stesso in cui sono immerse le prime sequenze del film. Soprattutto, come vuole suggerire il grande occhio che si schiude sui titoli di testa, gli ange-li sono dotati di uno sguardo in movimento, capace di associare fatti che avvengono contemporaneamente in luoghi diversi, di spostarsi attraverso le stratificazioni del tempo (si vedano le scene in cui gli angeli, attraver-sando dei luoghi rivivono lo scempio nazista o la natura incontaminata di un mondo appena nato) di ignorare i confini e le barriere volute dagli uomini”(Banchelli, 2006). Ciò permette al regista di penetrare la profondi-tà e gli intrecci temporali della città, dando così finalmente vita in un film alle sue riflessioni sulla città: “(…) riflettevo su come in questa città convi-

vano e si sovrappongano i mondi del presente e del passato” (Wenders in Colusso, 1998, p. 57).Vediamo così come le figure degli angeli permettano a Wenders di dar cor-po e voce alla sua filosofia del viaggio: un vagabondaggio nel territorio teso a intercettare, come una calamita in un campo magnetico, le storie che i luoghi incontrati lungo il cammino hanno da sussurrare. Questa erranza silenziosa e attenta, in grado di captare storie, stati d’animo, pensieri di cui i luoghi sono intrisi, che i luoghi narrano, è ben rappresentata nella sequen-za iniziale del film: la camera si muove all’interno delle architetture e man mano che inquadra uno spazio o l’altro avvertiamo il fruscio dei pensieri della persona che lo abita; solo dopo entra in campo la persona. Wenders, perciò, accosta il brusio dei pensieri della gente, innanzitutto all’inquadra-tura del luogo, e solo dopo alla persona, quasi a suggerirci che in qualche modo quei pensieri, custoditi dalle mura, sopravvivranno all’istante in cui sono stati formulati e alla persona che li ha espressi, e che soltanto un at-teggiamento di attenzione, apertura, ascolto nei confronti dei luoghi può farci sentire i pensieri dell’uomo contemporaneo che il nostro orecchio non percepisce.È quanto afferma Matteo Galli nel suo saggio, osservando in particolare qua-li sono i tipi di luoghi che hanno più storie da raccontare e su cui Wenders si sofferma maggiormente. “Si impone, in questi luoghi, una modalità diversa per interrogare e ritrovare il tempo perduto, andandolo a cercare soprattut-to nelle ferite ancora aperte nel paesaggio, nelle sue fratture, nei suoi spazi

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vuoti che, con i loro silenzi carichi di assenza, con il loro senso di precarietà, sanno evocare allusivamente ciò che non è più e richiamarlo dentro il pre-sente. Ad attrarre lo sguardo del regista è dunque soprattutto questo tipo di edifici carichi di ‘latente valore memoriale’ come la Gedächtniskirche o la facciata diroccata della stazione di Anhalt, o le grandi aree lasciate anco-ra libere, in quegli anni, dalla divisione della città. Si riconoscono, in par-ticolare, il Mehringplatz, dove il miserabile circo Alekan, in cui lavora la protagonista, pianta le sue tende nel fango tra immensi muri frangifuoco, e il Potsdamer Platz, un tempo cuore pulsante della metropoli weimariana, divenuto poi – fino all’epoca delle riprese del film – un’immensa terra di nessuno che doveva subire, dopo la riunificazione della città, una ulteriore totale metamorfosi”(Galli in Banchelli, 2006).Ecco dunque la prerogativa degli angeli i quali, grazie al loro sguardo atten-to sulla città, i suoi spazi, le sue architetture, i suoi luoghi di vita, riescono a percepirne l’essenza: il tempo. Tempo in tutte le sue profonde accezioni: tempo cronologico, oggettivo e storico, ma anche tempo proustiano, sog-gettivo, che procede per balzi e sovrapposizioni.Abbiamo visto in precedenza che la dimensione aspaziale e il volo degli angeli permettono a Wenders di fare inquadrature che rivelano l’essenza dei luoghi, del paesaggio, della città, dando loro visivamente un risalto da protagonisti. Allo stesso modo l’atemporalità e l’onnipresenza degli angeli permette a Wenders di mostrare, attraverso la loro percezione, la simulta-neità e la molteplicità di piani temporali che è inscritta nel paesaggio, nel-

la topografia dei luoghi, ma che difficilmente si lascia cogliere dalla gente comune, e che difficilmente riesce ad essere rappresentata con efficacia in cinematografia.In base a tutte le osservazioni fatte fin ora possiamo affermare che la fun-zione degli angeli è prettamente indicale: sono osservatori che puntano il dito, mostrano, rivelano; vedono il mondo dalla prospettiva del cielo, spa-zio intatto e lontano dal tempo, e, come dei moderni Virgilio ce la fanno sperimentare, guidandoci, in prima persona. Numerosi sono gli “esempi di angeli ricavati dalla tradizione letteraria e da quella artistica e filosofi-ca, come L’angelo alla finestra d’occidente dello scrittore viennese Gustav Meyrink, l’Angelo della morte di Paul Klee o l’Angelo della storia di Walter Benjamin” (Massetti, in rete il 2/11/07). Ma Il cielo sopra Berlino rappre-senta il primo e riuscito caso di trasposizione cinematografica di queste figure impalpabili, invisibili, aspaziali e atemporali. Wenders non ha sol-tanto il merito di essere riuscito, tramite un uso sapiente delle soggettive e dei linguaggi cinematografici, a simulare nello spettatore una percezione lontana da quella umana: di più, ha fatto degli angeli e del loro sguardo attento una metafora del suo sguardo di regista sul mondo. “Le prerogative degli angeli di avere una percezione differente di spazio e tempo rendono infatti la loro visione del mondo straordinariamente simile a quella perse-guita dal cinema, tanto più dal cinema di Wenders, il quale attraverso l’arti-ficio narrativo degli angeli ha potuto in fondo mantenersi fedele – anche in questo film solo apparentemente più statico – alla sua poetica del viaggio,

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motore della sua filmografia, da sempre inteso come un movimento che si svolge nella dimensione del tempo più che in quella dello spazio” (Galli in Banchelli, 2006). Come gli angeli vagano nel cielo e si arrestano per appuntare pensieri e gesti della gente che per un attimo, commuovendoli, li hanno incuriositi distinguendosi dal brusio esistenziale del cogitare umano, così la macchina da presa di Wenders si aggira per il mondo, vagando nel territorio finché, nella moltitudine di edifici non avverte, sussurrata, la storia che un luogo ha da raccontargli.

Torno ora alla citazione fatta in precedenza in cui si focalizzava l’attenzio-ne su quali tipi di luoghi si soffermasse lo sguardo di Wenders, e riporto un estratto del medesimo saggio come spunto di riflessione: “Il viaggio nel tempo intrapreso da Wenders attraverso lo spazio urbano include ogni di-mensione: non solo la contemporaneità e le diverse sedimentazioni di pas-sato. Anche il futuro si rivela una prospettiva fondamentale per una città in continua metamorfosi” (Galli in Banchelli, 2006).I luoghi cui il regista dà attenzione sono sempre luoghi di una “topografia minore” (non si inquadrano solo i simboli della città) che ci parlano del presente, del passato, del futuro.E i luoghi su cui l’occhio di Wenders e quello degli angeli si soffermano sono sempre, come del resto per gli altri film, luoghi di una topografia minore: “La perlustrazione del paesaggio urbano intrapresa da Wenders tocca sì i

monumenti storici famosi ed emblematici, ma soprattutto indugia sui luo-ghi della più dimessa quotidianità (gli interni delle case, i cortili, la metro-politana, le Kneipen e gli Schnellimbisse) dove la gente qualunque consuma il frammento di storia” (Galli in Banchelli, 2006). Questi sono i luoghi che Wenders predilige perché carichi di vita quotidiana, luoghi comuni, umi-li; luoghi al presente. Ma, come abbiamo visto, la prerogativa dei luoghi è quella di saper custodire in silenzio la storia dell’uomo: e in una Berlino, ancora divisa in due, la storia passata non può che concretizzarsi nella di-sperazione e nella miseria causata dai bombardamenti sapientemente rie-vocata dal regista sia con l’insistenza delle inquadrature su squarci ed edi-fici diroccati, quegli “edifici carichi di memoria latente” di cui parlava Galli, sia con artifici narrativi quali la vista atemporale degli angeli che vedono la

morte e la distruzione di quegli anni e quali le riprese in un bunker abban-donato di una troupe cinematografica per la realizzazione di un film giallo ambientato durante la seconda guerra mondiale. Ma lo sguardo recettivo sui luoghi parla anche del futuro. Futuro che Wenders intravede in quegli spazi, non programmati, quegli spazi che la-sciano spazio all’immaginazione: “(…) I vuoti che io difendo, gli spazi urba-ni che mi fanno vivere la città che amo sono questi. Se si riempiono questi vuoti non resterà spazio alla fantasia della gente, ai suoi bisogni” (Wenders 1994, in Colusso, 1998). “Quando ho girato Il cielo sopra Berlino, ho ri-preso dei sentieri creatisi in punti in cui la gente era solita passare, nessu-no li aveva tracciati, era una scelta della gente passare di là. Nel film poi i

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bambini giocano in assenza di luoghi organizzati per il gioco, sono liberi” (Colusso, 1998, p.24) Le città riprese da Wenders sono quelle degli scorci, dei luoghi dimenticati, dove però vi è ancora la possibilità di costruire un sogno, uno spazio onirico, ludico, fatto di libertà e bellezza potenziali, ricco di speranza in un futuro migliore, a misura di chi lo abita. Agli architetti si rivolge direttamente dicendo: “Vorrei anche che provaste a considera-re ciò che per definizione è l’esatto contrario del vostro lavoro: voi infatti non dovete solo costruire edifici bensì creare spazi di libertà, spazi liberi per conservare l’equilibrio dei vuoti, affinché la sovrabbondanza non ci renda invisibili i mondi che ci circondano” (Lamberti, in rete il 06/09/07).Il futuro di cui Wenders parla è perciò il futuro immaginato, è la potenzialità di un futuro, che nella narrazione si concretizza nella “conclusione della fia-ba d’amore tra l’angelo e la trapezista che apre uno squarcio di utopia verso imminenti giorni di una nuova compiutezza”(Galli in Banchelli, 2006).Il futuro di cui parla Wenders è fondamentale in una Berlino che rappre-senta un periodo di transizione, “la svolta storica con cui siamo stati tra-ghettati dal mondo diviso in due blocchi al mondo della globalizzazione multimediale”(Massetti, in rete il 2/11/07). Ma non è scontato: è, anzi, in pericolo. Un’aura di precarietà avvolge questi “luoghi dell’immaginazione” che presto verranno smantellati.Wenders stesso espleta in un congresso questo concetto, rimasto fra le ri-ghe nel film: “Se si riempiono questi vuoti non resterà spazio alla fantasia della gente, ai suoi bisogni. Oggi, in realtà, la pianificazione tende a costrin-

gere la città entro reti controllabili di movimento, la gente cammina dove deve camminare, i bambini giocano nei luoghi dove devono giocare, non c’è più spazio per compiere delle scelte, smarriremo anche la nostra capacità di orientarci, cadremo vittime delle grandi dimensioni, di ciò che è inafferra-bile, onnipotente. Dobbiamo batterci per conservare tutto ciò che è piccolo, che conferisce alle grandi cose la prospettiva da cui vederla. In una città tutto ciò che è piccolo, vuoto, aperto, è una sorta di batteria che ci permette di ricaricarci contro lo strapotere dei grandi complessi” (Wenders 1994 ci-tato in Colusso 1998).Il futuro e il saper immaginare nel film è rappresentato dai bambini ed è anche incarnato dallo sguardo recettivo degli angeli; non a caso gli unici esseri umani che riescono a vedere gli angeli e quindi in qualche modo co-municare con essi sono i bambini. E Wenders lancia un allarme: gli esseri umani sono sempre più avvolti da una solitudine e una incomunicabilità di-sperate, che li rendono incapaci di sperare e di immaginare. Il circo che sta per chiudere, che per definizione vive nella dimensione e della dimensione del viaggio, è così simbolo di un sogno che finisce.Ma, ancora una volta, Wenders pur denunciando in tutta la sua pesantezza il dolore e la solitudine dell’uomo, lascia filtrare la speranza: gli angeli toccando gli esseri umani ridanno loro la capacità di vedere un futuro, Daniel trova il coraggio di diventare uomo per incontrare la donna che ama. E, ancora una volta, Wenders incita al viaggio: l’ultimo frame reca la scritta “to be continued.”

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90-92: Ne Il cielo sopra Berlino Wenders trova uno stratagemma an-cora più sottile ed elaborato del “movimento terrestre” per restituire ai luoghi, impressionata sulla pellicola cinematografica, la loro identità, la loro personalità,la loro storia. I fotogrammi 1 e 2 sono ricavati da Nel corso del tempo e Paris, Texas e denotano l’insistenza del regista sul tema del viaggio, inteso come percorso fisico di scoperta dei luoghi su cui egli ha basato molti dei suoi film. Il fotogramma 3 invece, preso da Il cielo sopra Berlino, mostra la grande novità nel cinema Wendersiano: la figura dell’angelo il quale, essendo un essere a-spaziale ed a-temporale ha la facoltà di vedere, e farci vedere un aspetto della topografia che la gente comune non percepisce.

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93-96: Gli angeli volano e si aggirano non visti nella dimensione aspaziale del cielo a diversi livelli: possono contemplare la città da altitudini che la riducono ad un ammasso informe (fig 93-94) così come planare raso terra, infiltrandosi nelle case, nei cortili, nei mezzi pubblici, sfiorando le architetture, i chioschi per le strade, le persone (fig 95-96).Il movimento del volo permette così di fare scelte registiche che altrimenti sarebbero state inverosimili: punti di vista zenitali, movimenti di camera fluidi con velocità es-tremamente basse o elevate; questo tipo di riprese nel cinema sono solitamente impie-gate come inquadrature “d’ambientazione”, inquadrature cioè che inquadrano la storia, danno delle coordinate spazio-temporali, e a cui subentrano poi le oggettive e le sogget-tive dei personaggi, le quali, essendo per lo più i personaggi degli esseri umani, sono “ad altezza” e “ad andatura d’uomo”.L’aver creato dei protagonisti “angelici” permette invece a Wenders di usare senza limiti inquadrature di questo genere che danno più voce ai luoghi, le architetture, la città.Ma non si tratta soltanto di una conquista quantitativa, ma qualitativa: facendo di queste inquadrature delle soggettive infatti, Wenders dà un’anima alla visione, ne fa vivere l’emozione e il senso allo spettatore che, in catarsi con il protagonista, le vive in prima persona.

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97-98:Gli angeli sono dotati di uno sguardo in movimento, capace di as-sociare fatti che avvengono contemporaneamente in luoghi diversi, di spostarsi attraverso le stratificazioni del tempo (fig 97).Ciò permette al regista di penetrare la profondità e gli intrecci temporali della città, dando così finalmente vita in un film alle sue riflessioni sulla città: “(…) riflettevo su come in questa città convivano e si sovrappon-gano i mondi del presente e del passato.”In una Berlino del 1987 dunque, ancora occupata dalle truppe vincitrici di cui esisteva anche una materializzazione fisica, il muro, in cui i segni della guerra sono ancora profondi, gli Angeli, grazie alla loro vista a-tem-porale riescono a percepire e vedere la morte e la distruzione che regna-vano nella stessa Berlino dopo i bombardamentti del ‘45. (fig 98)Ma gli angeli possono vedere anche molto più lontano nel tempo. Nella scena mostrata dal fotogramma 97 ad esempio Daniel e Cassiel cammi-nando evocano e vedono il mondo com’era alle origini: D: “Ti ricordi quando siamo venuti qua per la prima volta? La storia non era ancora incominciata, facemmo passare mattino e sera aspettando ciò che sarebbe accaduto [...].”

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99-104: Le figure degli angeli permettono a Wenders di dar corpo e voce alla sua filosofia del viaggio: un vagabondaggio nel territorio teso a intercettare, come una calamita in un campo magnetico, le storie che i luoghi incontrati lungo il cammino hanno da sussurrare. Questa erranza silenziosa e attenta, in grado di captare storie, stati d’animo, pensieri di cui i luoghi sono intrisi, che i luoghi esalano è ben rappresentata nella sequenza iniziale del film: la camera si muove all’interno delle architet-ture e man mano che inquadra uno spazio o l’altro avvertiamo il frus-cio dei pensieri della persona che lo abita; solo dopo entra in campo la persona (si vedano le coppie di immagini 99-100, 101-102, 103-104). Wenders perciò, accosta il brusio dei pensieri della gente, innanzitutto all’inquadratura del luogo, e solo dopo alla persona, quasi a suggerirci che in qualche modo quei pensieri, custoditi dalle mura, sopravviveran-no all’istante in cui sono stati formulati e alla persona che li ha espressi, e che soltanto un atteggiamento di attenzione, apertura, ascolto nei con-fronti dei luoghi può farci sentire i pensieri dell’uomo contemporaneo che il nostro orecchio non percepisce.

Anziana signora: “adesso è già un’ora che aspetto,non c’è niente di bello in tv... La vita ha troppi colori per venirne a capo nel tempo. Inciampate nei vostri colori e non siete mai contenti.

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Donna: “Lavatrice, frigorifero.. devo farmi venire un’idea.” Ragazzo: “non ti ha mai amato. E tu fai ancora come se quella... tu devi essere contento che ti ha dimenticato: finalmente sei libero. Potrei morire subito e poi continuare a vivere per sempre. ha vinto.”

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105-107: Si impone, in questi luoghi, una modalità diversa per interrog-are e ritrovare il tempo perduto, andandolo a cercare soprattutto nelle ferite ancora aperte nel paesaggio, nelle sue fratture, nei suoi spazi vuoti che, con i loro silenzi carichi di assenza, con il loro senso di precarietà, sanno evocare allusivamente ciò che non è più e richiamarlo dentro il presente. Ad attrarre lo sguardo del regista è dunque soprattutto questo tipo di edifici carichi di ‘latente valore memoriale’come la Gedächtni-skirche o la facciata diroccata della stazione di Anhalt, o le grandi aree lasciate ancora libere, in quegli anni, dalla divisione della città. Si ricon-oscono, in particolare, il Mehringplatz, dove il miserabile circo Alekan, in cui lavora la protagonista, pianta le sue tende nel fango tra immensi muri frangifuoco, e il Potsdamer Platz, un tempo cuore pulsante della metropoli weimariana, divenuto poi - fino all’epoca delle riprese del film - un’immensa terra di nessuno che doveva subire, dopo la riunificazione della città, una ulteriore totale metamorfosi.

108: La funzione degli angeli è prettamente indicale: sono osservatori che puntano il dito, mostrano, rivelano; vedono il mondo dalla pros-pettiva del cielo, spazio intatto e lontano dal tempo, e, come dei mod-erni Virgilio ce la fanno sperimentare, guidandoci, in prima persona.Ma Wenders non ha soltanto il merito di essere riuscito, tramite un uso sapiente delle soggettive e dei linguaggi cinematografici, a simu-lare nello spettatore una percezione lontana da quella umana: egli in-fatti ha fatto degli angeli e del loro sguardo attento una metafora del suo sguardo di regista sul mondo: come gli angeli vagano nel cielo e si arrestano per appuntare pensieri e gesti della gente che per un at-timo, commuovendoli, li hanno incuriositi distinguendosi dal brusio esistenziale del cogitare umano così la macchina da presa di Wenders si aggira per il mondo, vagando nel territorio finchè, nella moltitudine di edifici, non avverte, sussurrata, la storia che un luogo ha da rac-contargli.

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109: Altra figura che ha funzione simile a quella degli angeli è la figura dell’anziano che capi-amo via via rappresentare la figura mitologica di Omero. Wenders sfrutta l’alto potere meta-forico del mito - Omero è Il Narratore per eccellenza - per farne un cantore contemporaneo e mettergli in bocca riflessioni sull’importanza della narrazione e di una pratica dello sguardo e dell’ascolto che sta andando persa:

Omero: “Col tempo quelli che m’ascoltavano sono diventati miei lettori e non siedono più in circolo ma ognuno per se e nessuno sa nulla dell’altro. Un vecchio sono io di voce stridula ma il racconto si leva ancora dal profondo e la bocca lievemente aperta lo ripete con forza e facilità, una liturgia dove nessuno va iniziato al senso delle parole e delle frasi [...] Se mi do per vinto, allora l’umanità avrà perso il suo cantore avrà perso anche l’infanzia.”

Dopo aver denunciato il rischio di perdere la capacità di ascolto Omero compie poi un pas-saggio successivo, indicando come zona fertile della narrazione e della’ascolto dei luoghi ben precisi, quei luoghi nascosti, dimenticati, luoghi di una topografia miore quantomai preziosa e da salvaguardare:

Omero: “dov’è il colle? anche la pianura, anche Berlino ha i suoi colli nascosti e là soltanto inizia il mio paese il paese dei racconti perchè tutti già da bambini non vedono passaggi ponti e interstizi giù sulla terra e su nel cielo, se ognuno li vedesse ci sarebbe una storia senza as-

sassini ne guerre.”

110-111:La capacità di vedere e ascoltare nel film si incarna nello sguado recettivo degli angeli, nelle parole di Omero e nei bambini, nella loro fervida immaginazione - non a caso i bambini sono gli unici a vedere gli angeli. Il circo che sta per chiudere, che per definizione vive nella dimensione e della dimensione del viaggio, e appartiene al mondo dei bambini è così simbolo di un sogno che finisce; Wenders lancia un’allarme: gli esseri umani sono sempre più avvolti da una solitudine e una incomunicabilità disperate, che li rendono incapaci di sperare e di immaginare.

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112-115: I luoghi di cui parla Omero, su cui l’occhio di Wenders e quello degli angeli si soffermano sono sempre, luoghi di una topografia mi-nore, ricchi di vuoti, di spazi non programmati: “Se si riempiono questi vuoti non resterà spazio alla fantasia della gente, ai suoi bisogni. Oggi, in realtà, la pianificazione tende a costringere la città entro reti con-trollabili di movimento, la gente cammina dove deve camminare, i bambini giocano nei luoghi dove devono giocare, non c’è più spazio per compiere delle scelte smarriremo anche la nostra capacità di ori-entarci, cadremo vittime delle grandi dimensioni, di ciò che è inaffer-rabile, onnipotente. Dobbiamo batterci per conservare tutto ciò che è piccolo, che conferisce alle grandi cose la prospettiva da cui vederla. In una città tutto ciò che piccolo, vuoto, aperto, è una sorta di batteria che ci permette di ricaricarci contro lo strapotere dei grandi complessi.”

116-118: Wenders pur denunciando in tutta la sua pesantezza il dolore e la solitudine dell’uomo lascia filtrare la speranza: gli angeli toccando gli esseri umani ridanno loro la capacità di vedere un futuro, Daniel trova il coraggio di diventare uomo per incontrare la donna che ama. E, ancora una volta, Wenders incita al viaggio: l’ultimo frame reca la scritta “to be continued.”

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ROVINE CONTEmpORANEE: IL sENsO

Il concetto di rovina compare precocemente nella storia dell’uomo e nelle sue manifestazioni artistiche quali la letteratura, la pittura e suc-cessivamente la fotografia e il cinema, e assume significati e valenze profondamente diversificati nel corso del tempo, costituendo così mol-teplici e sempre più numerose chiavi di lettura che si vanno via via so-vrapponendo e intrecciando.Pongo il tema della rovina come soggetto del mio terzo e ultimo ca-pitolo perché proprio negli ultimi anni, in particolare gli anni critici che hanno marcato e stanno marcando l’XXI secolo, si sta delineando nelle correnti artistiche un ritorno alla rappresentazione della rovina, soprattutto in fotografia. Ritorno però basato su una nuova concezione, una nuova chiave di lettura ancora in fase di definizione del concetto di rovina che ho identificato coniando un nuovo termine: rovina con-temporanea. Il concetto che questo termine sottende conclude il per-corso intrapreso finora sui luoghi e la loro rappresentazione dandogli un taglio e una finalità: la mia ricerca è infatti mirata a supportare un progetto fotografico incentrato proprio su quelle che ho chiamato rovi-ne contemporanee.

Prima di addentrarmi nel territorio delle rovine contemporanee sinte-tizzo le tante chiavi di lettura del concetto di rovina createsi nel tempo in tre categorie.- La prima, tipica dell’archeologia, vede la rovina come documento di

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un passato lontano, spesso non trasmesso dalle fonti scritte; la rovi-na dunque come documentazione, reperto scientifico, che va illustrata, spiegata, contestualizzata.- La seconda vede la rovina come monito nella sua valenza di memento mori: la nascita di questa sfumatura viene fatta simbolicamente risalire alle rovine di Troia dopo l’incendio, abbandonata e desolata che ricorda a Ecuba la gloria di un tempo e diventa perciò disperazione, lamento, consapevolezza dell’azione distruttrice del tempo e della storia.- La terza chiave di lettura, sviluppatasi soprattutto nell’Ottocento con il romanticismo, vede invece le rovine come puro elemento contemplati-vo ed estetico: “L’architettura antica che si sgretola e viene invasa dalla vegetazione viene percepita non come processo negativo ma come una metamorfosi della bellezza primitiva, talora più affascinante” (Tortora, 2007, p. 300). Il valore della rovina dunque con il romanticismo si di-sancora dal passato, non parla più in modo didascalico o tragico di esso, ma si sposta più in astratto, in assoluto sul concetto di tempo: la tempo-ralità delle rovine romantiche è generica e non specifica; ha anzi valore in quanto occulta in parte il passato e tramuta la percezione del tempo pur evocandolo: “La rovina suscita il sentimento del sublime in quanto artefatto di cui ignoriamo origine e destinazione, che attesta però la sua grandiosità e la sua forza di resistenza dello spirito umano alla distru-zione operata dalla natura e dal tempo” (Tortora, 2007, p. 309).Compio ora un leggero passo all’indietro verso la metà del Settecento

citando Denis Diderot, che è stata definito “precursore della poetica moderna della rovina” (Tortora, 2007, p. 299).Nella voce “ruine” dell’Encyclopédie Diderot specifica che “il senso del-la rovina non sta nel suo richiamarci il monumento originale. La rovina è autosufficiente e autoreferente, deriva il suo fascino proprio dalla sua imperfezione” (Tortora, 2007, p. 209). Egli dunque, conformemente alla concezione romantica delle rovine, ne individua il senso non sol-tanto nel loro essere documento, testimonianza dell’antico, quanto nel loro essere incomplete, nei loro vuoti, nella presenza di un’assenza. Ma non solo, egli stesso, commentando un’incisione dell’artista Hubert Robert che rappresenta una veduta immaginaria del Louvre, avanza un’altra interessante osservazione: “Posiamo lo sguardo sui ruderi di un arco di trionfo, di un portico, di una piramide, di un tempio e rinve-niamo noi stessi. Anticipiamo le devastazioni del tempo e la nostra im-maginazione abbatte gli stessi edifici che abitiamo” (Diderot in Tortora, 2007, p. 301). Egli dunque, parlando addirittura di rovine futuribili, inventate, sposta il senso della rovina portandoci a una nuova chiave di lettura vicina a quella contemporanea che sto cercando di definire: la rovina diventa un’immagine ad alto potere metaforico che, più che far ricostruire, immaginare gli ‘interi’ che un giorno furono, diventa chia-ve interpretativa del presente; dicendolo ancore una volta con Diderot: “Più che far riflettere su ciò che fu, la rovina fa sognare su ciò che non sarà più” (Diderot in Tortora, 2007, p. 301).

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La panoramica storica del concetto di rovina nel corso dei secoli mi aiuta a espletare il senso della parola rovine da me scelta per identificare la nuova tendenza nelle arti visive contemporanee. Ho preso in esame sguardi molto diversi, che hanno tuttavia qualcosa che li accomuna, che li rende parados-salmente omogenei; in tutti e tre i casi infatti le rovine sono implicitamente ma inesorabilmente contemplate come scena di un processo che si è com-piuto e di cui esse sono i resti. Una scena senza attori, in cui però l’assenza dell’attore è un “presente non esserci” (Tortora, 2007, p. 204). Tutte e tre, inoltre, in maniera differente, hanno nella temporalità, sia essa specifica o assoluta, sia essa più rivolta al passato o al futuro, un loro tratto fortemente identificativo: le rovine sono esperienza, traccia della durata, del tempo.Riassumendo: con il termine rovine mi riferisco a degli elementi, degli sce-nari che hanno come elementi distintivi una forte traccia del tempo (inteso come temporalità che può perciò essere passato, presente o futuro) e la presenza di un’assenza (quella umana).L’aggettivo contemporanee sta invece a sottolineare la doppia peculiari-tà di questi scenari: sono contemporanee in quanto prodotti della società contemporanea (contrariamente al pensiero comune che associa la rovi-na ai resti di un passato molto remoto), ma sono contemporanee anche perché ci parlano della contemporaneità; l’alto potere simbolico di questi paesaggi, questi luoghi, queste architetture fermati dall’occhio dell’artista ci parla infatti del presente, di una contemporaneità che mai, quanto oggi, ha bisogno di una chiave di lettura.

Il termine da me individuato, rovine contemporanee, riferito alle arti vi-sive, in particolare alla fotografia e al cinema, identifica perciò non tanto un’indicazione stilistica relativa al soggetto delle immagini quanto invece un certo modus operandi, una certa intenzionalità, indicazione di senso: le rovine contemporanee sono il risultato di un’operazione antropologica effettuata attraverso un’esplorazione fisica nel diffuso, complesso e mobi-le tessuto urbano contemporaneo.

Questo mio ultimo capitolo parte così da una mia definizione volutamente ambigua e aperta a molteplici interpretazioni delle tendenze artistiche in atto e propone un percorso di deriva, dettato dalle suggestioni di alcune opere e concetti che ho trovato sulla mia strada.L’idea di catalogare e costruire un trattato enciclopedico sulla rappresen-tazione del paesaggio contemporaneo sarebbe in totale contraddizione con la nozione, necessariamente inconfinabile, mobile e liquida di paesag-gio che intendo suggerire, far intravedere, mostrare ma non dimostrare. Le mie sono perciò ipotesi, spunti di riflessione su un panorama infor-me, liquido, dinamico: il mio capitolo sarà così ancora meno didascalico e assertivo degli altri, e consisterà in un percorso di osservazione di varie tendenze in atto con la finalità innanzitutto di prenderne coscienza. Il prossimo paragrafo consisterà perciò in una serie di esempi utili a capire la sostanza e il senso di una nuova sensibilità artistica.

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ROVINE CONTEmpORANEE NELL’ARTE

Spectacular City: photographing the futureSpectacular City: photographing the future è il titolo di una mostra tenutasi dal 26 gennaio al 6 maggio 2007 a Düsseldorf presso la galle-ria NRW-forum e pensata come mostra itinerante: raccoglie il lavoro di trenta artisti, un team internazionale di fotografi che hanno lavorato sul territorio. Il titolo è una chiara indicazione di intenti: l’ossimoro “foto-grafare il futuro”, così come “rovine contemporanee”, sta a dichiarare fin da subito la luce in cui le fotografie vanno presentate: esse fotografano il futuro e, essendo fotografie, non possono che farlo attraverso il pre-sente. Questo implica che gli scatti non vanno letti in chiave puramente descrittiva ma sottendono invece un’operazione di interpretazione, sono indicazione di un linguaggio che permette al presente di indicare, di dir-ci qualcosa di una realtà potenziale, futuribile dell’umanità e del mondo. È quanto afferma Emiliano Gandolfi nell’introduzione al catalogo della mostra; egli chiama questo genere di fotografia contemporanea del ter-ritorio “post-documentary”, distinguendola dalla fotografia documenta-ria e dalla fotografia di strada sviluppatesi nel XX secolo: “I fotografi non sono più interessati allo sciame di abitanti della città o alle sue osses-sioni, ma semplicemente ai segni, alle conseguenze della loro presenza sul territorio, inevocabile traccia delle medesime ossessioni e abitudini. Queste fotografie sono generalmente svuotate di ogni presenza umana; al massimo gli esseri umani fanno fortunate comparse sotto forma di massa indistinta, i volti non sono mai visibili distintamente. L’interesse

dei fotografi è diretto in primis alle mutazioni urbane, ai cambiamenti repentini, ai nuovi conglomerati urbani e centri di Business o infrastrut-ture viste come intriganti sculture urbane. Ma in contrasto con i foto-grafi documentaristi degli anni Settanta questi fotografi, che potremmo chiamare ‘post-documentaristi’, sono interessati non tanto nell’illustra-re la realtà o schierarsi contro la direzione che essa ha preso, quanto piuttosto (…) a riflettere su di essa creando nuove visioni capaci di gene-rare una nuova comprensione di questi spazi” (Gandolfi, 2007, p .8).Anche la Netherlands Architecture Institute (NAI, in Olanda) presen-ta il lavoro di questi fotografi sottolineandone la novità e la necessità, mostrandone la valenza in quanto nuova modalità interpretativa di una realtà che, essendo sempre più liquida, multiforme, dinamica, sfugge alla codifica dei codici tradizionali.Leggendo il testo a seguire, inserito nel sito della NAI, si nota infatti l’insistenza su parole e concetti quali interpretazione, rivelazione, senso, visione, immaginario: “I fotografi utilizzano il panorama urbano come una tavolozza con la quale compongono le loro immagini, i loro mes-saggi. In questi lavori i fotografi non vogliono necessariamente produr-re una testimonianza documentaria. Piuttosto, essi sono impegnati nel creare e comporre un immaginario producendo così interpretazioni. Le opere ci mostrano che il fotografo oggi non produce più immagini ma visioni, nelle quali noi riconosciamo l’autentico riverbero delle cose e che ci insegnano a guardarle e interpretarle. Come degli architetti i foto-

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grafi costruiscono scenari che possiamo abitare. Essi nascondono parte dell’ambiente, compongono paradossi visivi manipolando in digitale o costruendo vere e proprie realtà parallele al fine di svelare il senso del-l’immagine. Tali visioni, che sono tendenzialmente distaccate e apoliti-che, sono gli strumenti più efficaci per scoprire il senso del nostro nuovo ambiente urbano” (static.nai.nl, in rete il 12/10/2007).I fotografi coinvolti sono: Olivo Barbieri, Oliver Boberg, Balthasar Burkhard, Vincenzo Castella, Edgar Cleijne, Stéphane Couturier, Thomas Demand, Andreas Gefeller, Geert Goiris, Andreas Gursky, Naoya Hatakeyama, Todd Hido, Dan Holdsworth, Francesco Jodice, Aglaia Konrad, Luisa Lambri, Ine Lamers, Sze Tsung Leong, Armin Linke, Taiji Matsue, Karin Apollonia Müller, Bas Princen, Thomas Ruff, Frank van der Salm, Heidi Specker, Jules Spinatsch, Thomas Struth, Michael Wesely e Edwin Zwakman. Presenterò ora il lavoro di alcuni di loro, a mostrare come fotografi con-temporanei con l’obiettivo di “fotografare il futuro” abbiano forgiato delle visioni, talvolta costruite nel vero senso della parola, spesso incen-trate sull’immagine della rovina.

Sze Tsung Leong. La fotografa focalizza il suo sguardo sui drammatici cambiamenti che stanno trasformando le città cinesi e ci mostra il pro-cesso che parte dalla distruzione dei quartieri tradizionali che formava-no una volta l’identità delle quelle città, e arriva alla costruzione seriale

e massiccia di un nuovo paesaggio urbano. I suoi scatti mostrano questa trasformazione, spinta ai massimi livelli in Cina e in atto in qualsiasi territorio urbano del contemporaneo occidente, trovando prospettive che accostano e quasi sovrappongono il vecchio al nuovo, la tradizione alla modernità, l’unico al seriale, e fanno coesistere miracolosamente i due elementi.

Olivier Boberg. Il suo lavoro è doppio e ambiguo: a una prima occhia-ta rivela angoli anonimi della città quali ad esempio il retro delle case, il lato generalmente trascurato dagli architetti e su cui l’attenzione dei passanti non si sofferma mai. Ma se studiamo da molto vicino i suoi scatti scopriamo un trucco: i suoi soggetti sono modellini ricostruiti in studio. Ogni dettaglio è studiato con dedizione per rendere verosimile l’illusoria rappresentazione.

Karin Apollonia Müller. Le sue fotografie ci conducono mano per mano in una progressiva esplorazione della città attraverso le sue trasforma-zioni, una città rappresentata come eterna metamorfosi. Karin allena le lenti del suo apparecchio in quei luoghi in cui la città si fonde e confonde in un’unica grande distesa urbanizzata. Le immagini, potenti raffigura-zioni del rapporto fra centro e periferia, densità e vuoto, fra centralità e marginalità, non sono mai nostalgiche, ma mostrano il cambiamento come un nuovo equilibrio al quale è necessario adeguarsi. I suoi grandi

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trittici rappresentano spazi informi attorno ai quali lo skyline della città si erge quasi fosse un muro di fondo.

Frank Van der Salm. Da lontano le immagini del fotografo sono pura astrazione. Sebbene siano frammenti di una realtà urbana chiassosa e caotica sembrano sempre una realtà a parte rispetto al loro reale conte-sto. La ricerca di Van der Salm è incentrata su immagini nelle quali le superfici, i riflessi di luce, la perdita di scala tipiche del medium fotogra-fico diventano strumenti per costruire immagini spettacolari. Nelle sue fotografie il modello dell’architetto acquista il valore di edificio reale, mentre l’edificio stesso è ridotto a pura rappresentazione di se stesso. In una fotografia intitolata Miraggio, una facciata di un edificio di Hong Kong diventa puro elemento grafico, ma appena ci allontaniamo perce-piamo un’immagine che emerge dalla sua superficie e comprendiamo che quella superficie così perfetta, fredda, geometrica e quasi disumana è invece uno spazio fatto da e per l’uomo.

Edwin Zwakman. Le sue opere sono fotografie di modellini costruiti dall’artista stesso che rappresentano un tipico ambiente urbano tedesco. Queste realtà ricostruite non sono riproduzioni del reale ma ricostru-zioni fisiche basate sul ricordo: egli opera quindi una doppia operazio-ne, restituisce pragmaticità alla fotografia mentale che è il ricordo, e la rifotografa.

Le sue immagini vanno viste in serie: solo così facendo ci si accorge che le ultime tre immagini sono dettagli della prima. Egli ci porta così a un’analisi più attenta, quasi voyeuristica, porta la nostra attenzione sui dettagli, ci fa focalizzare su aspetti più antropologici, su movimenti dei possibili abitanti di questa città di carta.

Michael Wesley. L’interesse dell’artista non è tanto quello di restituire un’immagine fissa della città quanto piuttosto riuscire a fermare, a cri-stallizzarla nel suo cambiamento: a tal fine egli ha creato un dispositivo fotografico che gli permette di avere un tempo di esposizione lunghis-simo, permettendogli così di registrare instancabilmente ogni cambia-mento nell’arco di anni. Ogni sua immagine è frutto di un unico scatto con un’esposizione che può arrivare fino a più di tre anni, senza elabo-razioni digitali o sovrimpressioni. L’immagine a lato fotografa la rina-scita di una delle più significative piazze europee: Postdamer Platz. Le dozzine di edifici che emergono dal terreno rappresentano lo sviluppo dell’urbanistica della piazza lungo il corso del tempo mentre l’intera cit-tà ridefinisce la sua forma. Come i cerchi lungo la sezione di un albero, questa fotografia ci restituisce una temporalità degli edifici: quelli più marcati sono quelli presenti da più tempo, mentre gli edifici più eterei sono i più recenti. È come se il grado di trasparenza degli elementi fosse un’unità di misura della densità storica degli stessi.L’esposizione temporale così elevata permette perciò di avere in un

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solo scatto non solo il presente, ma anche il passato e il dinamismo, il cambiamento che daranno luogo al futuro mentre instancabilmente, al-l’orizzonte, le tracce del sole marcano il lento e inesorabile scorrere del tempo.

Robert Smithson e la fotografia entropicaRoberth Smithson, a differenza di molti degli artisti che sto citando, non è un contemporaneo, ma alla base del suo percorso avanguardistico ci sono dei concetti, delle premesse che sono quanto mai attuali (le ultime mostre su Smithson risalgono soltanto a un anno fa ed egli è morto nel 1973) e possono perciò aiutarci nel processo di definizione delle nuove tendenze artistiche legate alle rovine. La poetica dell’artista è tutta incen-trata sul concetto di entropia; parola derivata dal greco “htroph, trasfor-mazione” (Bettelli, in rete il 15/10/07), indica un principio fisico secondo il quale “ogni sistema tende al disordine”; il disordine, dispersione di energia, sarebbe dunque la condizione base per ogni forma di vita su questo pianeta. Senza entrare nel campo della fisica cui questo princi-pio appartiene, mi limito a osservare che questa interpretazione dei si-stemi, e perciò del mondo, è “esattamente l’opposto del nostro concetto di evoluzione secondo il quale l’evoluzione crea sulla terra un maggior ordine. (…) Ignorare questo strumento interpretativo è forse un’astuzia del nostro tempo, rivolto solo alla crescita di produzione e consumi, cui è utile non conoscere parole che ci raccontano molto sulla natura del

mondo, che ci avvertono che questo sistema economico e la sua cultura, surrettiziamente presentata come unica possibile, portano a un futuro insostenibile per il nostro pianeta” (Bettelli, in rete il 15/10/07).Ho fatto questo breve excursus sul concetto di entropia per mostrare l’attualità del lavoro di Smithson, le cui basi sono princìpi e questioni tutt’ora attuali e da indagare. E si noti che quella dell’entropia non è una pura questione ideologica: “La natura ha le sue leggi e il concetto di entropia è necessario per comprendere ed esprimerne una parte fonda-mentale” (Bettelli, in rete il 15/10/07).Vediamo ora come si traduce questo complesso e profondo tema nel-l’arte di Smithson. Egli “non ne spiega le cause e non propone rimedi, ma, con una perizia estende il referto visivo dei sintomi. (…) Il metodo di individuazione fotografica scelto dall’artista fa da cassa di risonanza agli effetti smisurati e disseminati della crescita entropica” (Frillici, in rete il 15/10/07). Egli vuole perciò rappresentare il paesaggio in quanto condizione entropica, e la sua macchina fotografica è uno strumento per amplificare la percezione delle mutazioni fisiche in corso: “Se può esser-ci un’idea di paesaggio o di immagine del paesaggio essa può soltanto insistere su una tensione dialettica non sintetizzabile né riducibile se non attraverso l’enunciazione del suo processo. L’esistenza del luogo si verifica perciò soltanto nella sua assenza, nel non luogo in cui si effettua l’esame delle prove e degli indizi risultanti dal processo entropico costi-tutivo” (Frillici, in rete il 15/10/07).

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Il processo entropico, la distruzione, il disordine sono perciò costitutivi della vita stessa per cui il concetto di rovina è proprio di ogni cosa, anche del presente, mentre la visione contemporanea del mondo tende a rele-garla solo a una dimensione molto remota. La sua serie fotografica Hotel Palenque è un esempio di come Smithson abbia reso visibile questo con-cetto: “Nell’aprile del 1969, in occasione di un viaggio nello Yucatan (…) Smithson aveva inizialmente pensato di visitare le famose rovine Maya. La sua attenzione fu invece catturata da un piccolo albergo. L’Hotel Palenque incarnava già in sé l’irreversibile forza dell’entropia. A partire da una serie di diapositive a colori realizzate in quei giorni Smithson finì col creare una guida turistica che distribuì agli studenti dell’Università dello Utah. Invece di trasferire il suo progetto sui resti di un’antica civiltà egli lo localizzò sulle rovine della sua propria civiltà. Un’ala dell’albergo era ancora in fase di costruzione, mentre le altre parti dell’edificio erano già sul punto di cadere a pezzi, quasi abbandonate a se stesse. I suoi dise-gni della pianta dell’albergo rilevavano aree occupate dai rifiuti e detriti accanto a stanze già completate, a una piscina senz’acqua, e a una sala da ballo con tanto di falco imbalsamato” (Lingwood, 2002, p. 119).Hotel Palenque fu un caso fortunato poiché era una struttura unica che miracolosamente “incarnava già in sé l’irreversibile forza dell’entro-pia”. In altri casi Smithson ha però dovuto lavorare in altri modi: parlo ad esempio del lavoro compiuto dall’artista sull’ex zona industriale di Oberhausen: qui l’entropia è restituita con il mezzo fotografico mostran-

do soltanto le tracce di questo continuo processo la cui “refrattarietà a ogni sintesi razionale può essere restituita soltanto dalla massa delle tracce, stratificazioni materiche, la sequenza parziale e discontinua delle impronte fotografiche” (Frillici, in rete il 15/10/07). In queste fotografie “Smithson si è concentrato sugli aspetti più elementari del sito, sull’as-senza di forme e la disintegrazione, anche se le immagini sono infram-mezzate da occasionali e rapide occhiate attraverso il fumo degli altifor-ni responsabili di quella devastazione. Gli scatti, in bianco e nero, non si limitano a descrivere la desolazione di un’area industriale. Evocano una visione quasi apocalittica di un mondo ormai sfinito. L’artista, più che offrire una testimonianza di Oberhausen, assoggetta il complesso al flusso temporale, caratteristica di Smithson per i teatrali flash mentali nel tempo e nello spazio (quando nulla era ancora emerso dal magma primordiale) alla post-storia (quando tutto ritornerà in un simile stato di indifferenziazione)” (Lingwood, 2002, p.113).Smithson vede dunque nella rovina l’essenza dell’entropia che regola e genera il mondo, e il concetto di tempo che egli intende veicolare è un “tempo geologico” che, secondo lo storico francese Fernand Braudel è “il tempo del cambiamento ambientale, climatico e ambientale, molto più lento del tempo dell’individuo, il ‘tempo biologico’, e del tempo delle culture umane, delle loro strutture mentali, i loro usi e costumi, il ‘tem-po sociale’ (Braudel in Lingwood, 2002, p.118). Essendo però le trasfor-mazioni geologiche lente e perciò difficilmente percepibili dall’essere

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umano che ha vita breve egli “non si accontenta di limitarsi a osservare questo ‘tempo geologico’ ma sente il bisogno di imitarne la profondità e la vastità. L’artista, che ben conosceva le dinamiche di frane, valanghe, eruzioni per averle a lungo studiate, cominciò a disegnare questi feno-meni. I disegni, che proiettavano sul paesaggio immense colate di fango, asfalto e cemento, diedero vita a una serie di interventi che imitavano i movimenti geologici” (Lingwood, 2002, p.118).

L’ultimo tipo di opera che presento si rifà al metodo di Smithson, al suo modus operandi: la sua nuova concezione del paesaggio ambientale, prevede che “ogni tipo di intervento registrativi su di essa non può com-piersi che un modo dinamico sotto forma di spedizione, viaggio fisico, ricognizione in situ, raccolta e presentazione di reperti” (Frillici, in rete il 15/10/07), I non-sites, i non luoghi dell’artista, questo stanno a signifi-care. I non-sites sono installazioni che portano all’interno di una stanza reperti materiali grezzi provenienti da esplorazioni avvenute all’esterno; tale matericità del non-site ha senso in virtù della sua indicalità, della processualità che implica, e non per il risultato prodotto. Il non-site è in questo senso un invito fare in prima persona esperienza del site, del luogo, dell’esterno: le mappe che riportano la topografia dei luoghi in cui l’artista ha prelevato i reperti designano appunto questo atto di percorso necessario, l’attraversamento fisico realmente verificatosi sul territorio rappresentato.

Botto & BrunoTutta la ricerca di questi due artisti torinesi si fonda sulla decostruzione fotografica di un paesaggio reale che viene poi manipolato e rappresen-tato in frammenti architettonici: le loro opere sono fotomontaggi ana-logici su lastre di plexiglas, imponenti coup d’oeil che introducono alla conflittualità diffusa di una periferia scollata dal suo centro, scissa fra una down town seducente e la sua cintura conurbana che alimenta la disumanizzazione del soggetto. Ma non è la schizofrenia architettoni-ca e il suo irradiarsi in oggetti rappresentativi che li interessa. Ciò che sottoscrivono è l’idea di una e mille comunità che vivono ai margini di quello che è il cuore del sistema sociale; gli artisti non amano attraver-sare le periferie delle città per rubare istantanee, optano piuttosto per la “conoscenza situata” preferendo vivere, inserirsi nel contesto, cercare di capirne le dinamiche esistenziali ed emozionali.Ed è questo aspetto dell’opera d’arte come attraversamento e percorso che mi interessa sottolineare nelle opere di Botto & Bruno. Artista è chi esplora posti che la gente comune non conosce, perché tende a schivarli, che si addentra in zone ibride, zone di confine; è colui che si addentra nel lato opaco e indefinito della nostra realtà territoriale e sociale. E se in un primo tempo il territorio estraneo fa paura e la macchina fotografica diventa un’arma per affrontare l’ignoto, uno strumento di esplorazio-ne, ritornando nei luoghi esplorati al timore a all’adrenalina subentra l’ascolto: “quando torniamo in un edificio abbandonato non è mai come

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la prima volta: non provi più timore ma, a volte, un senso di familiarità, cominci ad avere sensazioni maggiormente piacevoli, come il senso di pace, di silenzio, che prima non percepivi; (…) ti accorgi che non sei il solo a visitarli, magari sono abitati, da altri, in modo altrettanto furtivo. Te ne accorgi, per il fatto che trovi degli oggetti spostati o magari perché qualcuno ci ha dormito; c’è comunque un vissuto del quale scopriamo le tracce, anche se non ne conosciamo la storia” (Botto & Bruno in Papa, in rete il 22/10/07).Le opere di Botto & Bruno si configurano perciò come strumento di in-dagine, come collettivizzazione di un’esperienza, quella dell’esplorazio-ne urbana: “All’inizio siamo noi gli attori, mentre alla fine è lo spetta-tore: in mezzo c’è la nostra esperienza personale che diventa collettiva. L’opera è un modo per partecipare ad altri l’esperienza di un luogo, e in questo senso non può essere un oggetto, ma piuttosto un processo” (Botto & Bruno in Papa, in rete il 22/10/07). A tal fine le opere dei due artisti torinesi si configurano spesso come vere e proprie installazioni in cui lo spettatore è chiamato a essere anche attore, a visitare quelle peri-ferie non solo con gli occhi ma anche con le orecchie, con il tatto.

MAW: MenAtWindowsIl progetto dell’artista Marco Pieri abita e rianima uno spazio urbano dimenticato e ormai senza vita attraverso una performance collettiva che si traduce non solo in uno scatto fotografico, ma in un’esperienza

artistica realmente vissuta: gli edifici abbandonati del tessuto urbano si riempiono temporaneamente di significato mediante un’operazione di addizione e sottrazione. È un’opera d’arte istantanea: gli uomini in rosso, protagonisti della performance, ripopolano per un momento gli edifici, riversandosi e riempiendo gli spazi vuoti e incolore come una lin-fa vitale che riprende a circolare all’interno degli stabili. La performance avvenuta lascia poi traccia in uno scatto fotografico.L’esperimento è interessante non tanto per la volontà estetizzante e ri-qualificante di edifici non ritenuti degni di attenzione, quanto per il pro-cesso esplorativo e di coinvolgimento di massa che implica: ogni perfor-mance richiede infatti una massiccia collaborazione. Le persone che di volta in volta animano per poche ore gli edifici non sono mai le stesse, ma vengono via via contattate in maniera casuale e invitate a seguire l’even-to. L’opera diventa perciò anche opera di coinvolgimento nei confronti di una nuova sensibilità legata alle topografie urbane abbandonate.Le architetture scelte per il progetto – le loro forme rigide e austere so-vrapposte al groviglio selvatico di una natura incontrollata, la luce diffu-sa e omogenea che ne disegna i volumi, l’uguaglianza e il rigore formale delle insolite figure che le animano – creano un senso di solennità, di re-ligiosità, quasi come se le figure rosse che rianimano inaspettatamente luoghi da anni vuoti, inermi fossero l’anima dei luoghi miracolosamente catturata dallo scatto fotografico.

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Il tema delle rovine contemporanee trova ampia potenzialità espressi-va non solo nel mezzo fotografico, ma anche in quello cinematografico. Abbiamo già visto nel secondo capitolo come esista una filmografia che rovescia la classica dicotomia del cinema tradizionale per cui il paesag-gio è uno sfondo e l’attore il protagonistaMostrerò dei casi, contemporanei e non, in cui sono proprio delle rovine ad avere ispirato la narrazione.

Stalker, TarkovskijIl film, del 1979, è nato dal desiderio del regista di far parlare un luogo: una distesa di chilometri e chilometri in cui la natura torna sovrana e svela ogni tanto tracce di una vita che si è arrestata: edifici in cemen-to, auto, camion, carro armati arrugginiti. L’egregia interpretazione di Tarkovskij di un luogo dal passato così ingombrante riesce a svincolarsi da esso e a vedere quello scenario evocativo in chiave metaforica, alla luce di una notevole profondità psicologica e antropologica.Ripercorro ora sinteticamente la trama del film. Nei pressi di un centro abitato, s’è creata una strana “zona”, chiamata appunto Zona, un luo-go dove avvengono fenomeni inspiegabili e pericolosi; le autorità, ini-zialmente, hanno mandato degli uomini per perlustrarla, ma quelli non sono tornati. S’è quindi pensato bene di recintarla con del filo spina-to, mettendovi a guardia dei soldati affinché nessuno vi abbia accesso. Gli Stalker sono le uniche persone che riescono a penetrare nella zona

uscendone vivi; la peculiarità degli Stalker è una sensibilità molto acuta. Il film tratta del percorso di due uomini, “il professore” e “lo scienziato”, accompagnati dallo Stalker, che si vogliono addentrare nella Zona. Dopo un lungo e travagliato percorso, i tre arrivano alla meta e scopriamo il segreto della Zona: all’interno di questo territorio è situato un edificio, chiamato “Stanza dei segreti”, una stanza che permette a chi vi arrivi di esaudire i propri segreti: né “il professore” né “lo scienziato” hanno però infine il coraggio, nonostante il difficile percorso intrapreso, di entrare, poiché capiscono che “La stanza” penetra il loro animo e hanno un pro-fondo terrore dei loro reali segreti.Il paesaggio viene perciò letto dal regista in chiave freudiana: egli usa la metafora della rovina per parlare della struttura fluida, dinamica e misteriosa dell’inconscio. Ma non solo, vedo nella sua interpretazione un’altra chiave di lettura: Tarkovskij trasmette allo spettatore un rispet-to profondo per i luoghi, in particolare i luoghi in stato abbandono di cui la Zona è personificazione, e incita a un atteggiamento di ascolto e sotto-missione a essi. Chi si addentra nella Zona, infatti, deve saperla ascolta-re, coglierne i segnali; la Zona è un organismo vivente in continuo muta-mento: ciò che era sicuro prima ora può essere impervio e pericoloso, la via diretta non è la più breve, e non si può passare due volte per lo stesso tratto; chi non sa ascoltare i suoi segnali paga con la morte.Solo una sensibilità acuta e una predisposizione all’ascolto e all’osserva-zione costante permettono a un uomo di cogliere i segnali del territorio:

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solo gli Stalker infatti sono in grado di farlo, mentre il “il professore” e lo “lo scienziato” tendono invece a proseguire in linea retta senza pensare, senza ascoltare.Vedo dunque nella narrazione di Tarkovskij una personificazione dell’ar-tista, dotato di capacità di ascolto, nella figura dello Stalker, e della gente comune, della massa che si aggira in mezzo a degli scenari quasi senza captarne l’esistenza nelle figure del “professore” e dello “scienziato.”

Still life, Jia Zhang-KeIl film, Leone d’Oro a Venezia nel 2007, ha come soggetto una forza-ta metamorfosi ambientale nella Cina contemporanea: l’antica città di Fengjie, un centro abitato con alle spalle una storia di duemila anni vie-ne progressivamente smantellata, pezzo per pezzo, da una massa di ope-rai. Domani si costruirà, per ora si demolisce: i lavori in corso daranno vita alla diga più grande della Cina, per cui Fengjie verrà sommersa e in-teramente ricostruita sulle sponde del lago artificiale che sotterrerà così con una sola ondata secoli di storia, distruggendo definitivamente una Cina che sta scomparendo. Gli operai demoliscono il vecchio per lasciare spazio al nuovo: nuovo che si incarna nella crescita frenetica del capi-talismo, ma anche in un tessuto sociale, familiare e culturale disastrato.La trama segue le vicende di due personaggi, un uomo e una donna nell’estenuante ricerca dei loro rispettivi compagni dai quali si sono se-parati per differenti motivi. In tale scenario la loro estenuante ricerca

“rappresenta il tentativo disperato di recuperare ciò che non può essere recuperato. Anche i rapporti umani, al pari della conformazione am-bientale, non possono essere ripristinati se non attraverso il filtro di un doloroso passaggio emotivo e culturale” (Boschi, in rete il 18/10/07).Ancora una volta perciò il territorio è il soggetto, e diventa una metafo-ra. Per quanto lo scenario e i fatti cui fa riferimento siano reali (la diga è realmente in fase di costruzione e le riprese sono state effettuate in loco), Zhang-Ke non dà al film un taglio documentaristico ma riesce a elevare lo scenario a metafore di “un inevitabile processo di sommersio-ne che costringe un popolo a fare i conti con un cambiamento radicale” (Boschi, in rete il 18/10/07). Ed è proprio da questa volontà interpreta-tiva che nasce il film, il cui titolo, Still-life, ne racchiude il senso: “Una volta sono entrato per caso in una stanza e ho visto degli oggetti coperti di polvere sul tavolo. All’improvviso mi si sono rivelati i segreti della natura morta. [...] La natura morta rappresenta una realtà che abbiamo trascurato. Anche se il tempo vi ha lasciato profonde impronte, resta in silenzio e trattiene i segreti della vita. [...] Sono entrato con la mia tele-camera in questa città condannata e sono stato testimone di demolizioni ed esplosioni” (Zhang-Ke in D’Agostini, 2007).Ancora una volta la conferma che la tendenza nell’arte contemporanea è sempre più quella di indagare, di esplorare il lato oscuro, opaco, sgreto-lato della realtà perché è lì che si cela un senso più profondo, è partendo da lì che si possono meglio capire le dinamiche contemporanee. È quan-

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to afferma Cristina Piccino in un articolo pubblicato su Il Manifesto il 23 marzo 2007: “Lo stile di Jia Zhang-Ke, il suo sguardo sulla realtà cinese del capitalismo in progress ha modellato le tendenze dei cineasti di nuova generazione, spostandone la sensibilità verso una narrazio-ne centrata sul quotidiano. [...] Still Life lavora su un fuoricampo che esclude le immagini abituali della Cina per il gusto obliquo di un thriller di geografie dell’anima e atmosfere (…).Gli eroi al presente che abitano questo paesaggio senza storia non sono più i ragazzi dei film precedenti di Jiang Zhang-Ke, non dipingono la realtà coi colori accesi dei sogni per tutti, fare soldi, viaggiare, bei vestiti, conoscere quel mondo riprodotto nel made in China a buon mercato in ogni suo possibile marchio. Still Life è impastato di gradazioni raggelate, la polvere della diga, un vissuto vuoto e di cancellazioni. Non la realtà quale è ma l’immaginario, cosa c’è dietro, cosa ci sarà, frammenti di mondo da comporre insieme allo spet-tatore, un orizzonte libero di intuizioni da scoprire” (Piccino, 2007).La pellicola, che come abbiamo visto è testimonianza di un’inesorabile distruzione, non è tuttavia un lamento di dolore, un malinconico guar-darsi indietro: Zhang-Ke legge in queste mutazioni profonde la consape-volezza che nulla sarà come prima: i due personaggi alla fine della loro ricerca maturano tale consapevolezza e scoprono che “nel perdersi e nel ritrovarsi, a volte dolorosamente, ci può essere spazio per una rinasci-ta” (Vallini, 2007). Ma è ancora più interessante vedere come questo proiettarsi verso il futuro sia stato rappresentato dal regista anche in

elementi scenografici, spiazzanti e delicati allo stesso tempo: l’ammasso di mattoni che prende il volo come uno shuttle, il disco volante che sor-vola la diga, l’equilibrista tra le rovine, il bimbo che magicamente canta in mezzo alle case sventrate e ai fili penzolanti. Tutti elementi visionari, surreali che però, all’interno di un film tratto dalla realtà, diventano me-tafora di un domani possibile, della scintilla dell’immaginazione, prero-gative dell’essere umano che nessuna colata di cemento potranno mai cancellare.

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ROVINE CONTEmpORANEE COmE sTRumENTO

Gli esempi da me fin ora riportati sono per lo più opere estratte dal pano-rama artistico europeo. Colgo ora l’occasione di osservare, concentrandomi sull’Italia, preziosi segnali di consenso, attenzione, apertura verso il tema delle rovine contemporanee e la contemporaneità delle rovine anche in am-biti non prettamente artistici ma anche culturali, commerciali, territoriali. I casi che segnalo sono infatti esempi di iniziative promosse dal Ministero per i beni e le attività culturali, dal brand Canon e dal Comune di Reggio Emilia. Altro aspetto che accomuna i casi che presento e che tengo a sottolineare è che essi non sono iniziative private di artisti, casi isolati e a sé stanti, ma sono tutte promosse dall’alto per stimolare una riflessione sul territorio da parte dei cittadini, e ciò dimostra quanto questa riflessione si faccia sempre più impellente e sempre più numerose siano le risposte a tali stimoli.

È datato ottobre 2007 il bando fotografico intitolato Premio fotogra-fico atlante italiano 007 rischio paesaggio promosso dalla DARC, Direzione generale per l’architetture e l’arte contemporanee del Ministero per i beni e le attività culturali, che vuole stimolare una riflessione sul tema del paesaggio attraverso la fotografia e incoraggiare i giovani fotografi (esi-ste infatti un limite di 35 anni di età). È richiesto un approccio progettuale e non documentativo, e fra i temi di progetto troviamo ad esempio: pae-saggi illegali, paesaggi dell’abbandono, paesaggi del consumo turistico. Le migliori fotografie saranno pubblicate e presentate, a scopi di promozione culturale, dal MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo.

Il premio Canon Giovani Fotografi è un concorso fotografico ad alto livello promosso ogni anno da Canon e dall’agenzia fotografi-ca Grazianeri e mira a selezionare e aiutare nuovi talenti a emergere. L’agenzia Grazianeri è leader in Italia, insieme all’agenzia Contrasto, e ha come punto di forza il reportage; molto significativo dal nostro punto di vista è che uno dei vincitori del premio – edizione 2007 – ha realizza-to un reportage sociale sulla città di Bari facendo parlare le rovine della città. Accanto a reportages sul Congo a colori, ricchi di volti e ad azioni, troviamo così premiata anche un’analisi contemporanea del nostro pae-se attuata attraverso il territorio, i suoi elementi, la sua struttura, i suoi vuoti, i suoi silenzi.

La Settimana della Fotografia Europea è un grande evento dedica-to all’arte fotografica, a livello europeo promosso dal Comune di Reggio Emilia – città natale di Luigi Ghirri – sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica. La prestigiosa iniziativa vede al suo interno un ampio ciclo di mostre tutte incentrate sul territorio fra le quali una dal titolo Uno sguardo sulla città. La mostra è frutto di una ricerca individuale di dieci fotografi emiliani sul tema del limite. È interessante vedere come la maggioranza dei fotografi coinvolti abbia usato come modalità visiva e comunicativa proprio il territorio urbano e la sue valenze metaforiche di cui ho in precedenza parlato.

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WebringsCome ultimissimo caso di analisi porto un fenomeno, quello dei Webrings, significativo non tanto per l’output che ha, quanto per il mec-canismo che implica e, a sua volta, genera.Un webring è una collezione di siti internet, riuniti in una struttu-ra circolare, generalmente organizzati intorno a uno specifico tema. Navigando in rete ho trovato un gran numero di webrings dedicati alle esplorazioni di territori abbandonati, spesso suddivisi per tipologie di luoghi: esistono webring di esplorazioni di scuole, condotti sotterranei, fabbriche, chiese, vie di comunicazione, tutti in stato di abbandono. Le esplorazioni dei vari utenti sparsi per il mondo hanno come output sulla rete immagini fotografiche che le documentano. Ma l’elemento più in-teressante sta invece nella creazione di percorsi che questa rete genera: all’interno dei webrings infatti moltissimi utenti creano delle loro per-sonali “topografie dell’abbandono”, mappe che documentano il loro per-corso, i punti su cui l’attenzione di ciascuno si è focalizzata; e tali mappe dei medesimi luoghi sovrapponibili e confrontabili grazie alla potenzia-lità della rete, diventano testimonianza della potenzialità espressiva ed evocativa di questi luoghi in cui ognuno può muovere liberamente il suo sguardo, senza condizionamenti né pregiudizi, e inscrivervi la sua storia, mosso da una spinta a ri-scoprire il mondo, così come sembra recitare una frase scritta sul muro di una vecchia scuola, fotografata e reperita per caso nella rete.

“Non è un bisogno, ma più un urgenza,ricominciare ad esplorare, ancora una volta,le cose del mondo,ri-saturare la pelle con iniezioni di bellezza entrandoci dentro,bellezza nuda con qualche gioiello,e credo che non te ne accorgerai di me,perché sono solo vento e tempo che deteriora, qui solo per te.”

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CONCLusIONI

La panoramica effettuata sul tema delle rovine contemporanee spazia toc-cando diversi media, diverse tecniche, diverse finalità, diversi contesti:– i fotografi che hanno partecipato alla mostra Scattered city, photo-graphing the future vedono la rappresentazione della rovina come uno strumento di codifica dei nuovi contesti urbani, del loro imperterrito mutare;– Roberth Smithson incarna nella rovina l’emblema dell’entropia, del disordine, condizione base per ogni forma di vita sul pianeta, e vede la macchina fotografica come strumento per amplificare la percezione delle mutazioni fisiche in corso cristallizzando così l’essenza del luogo nella sua assenza;– i due artisti Botto & Bruno denunciano con le loro installazioni – mon-taggi tridimensionali di rovine – una necessità a livello collettivo di ad-dentrarsi nel lato opaco della nostra nuova realtà territoriale e sociale;– con intenti simili opera marco Pieri, autore delle experiences MAW (Man at Window), il quale fa coincidere la sua opera con un’operazio-ne di sensibilizzazione della gente comune verso la topografia celata dell’abbandono;– Tarkovskij, con Stalker, vede il paesaggio della rovina come metafora di un immenso inconscio collettivo, e identifica nello “Stalker” – uomo dota-to di una particolare sensibilità che possiamo paragonare alla figura del-l’artista – il ruolo di “guida dell’umanità” in questo territorio insidioso;– Jia Zhang-Ke, con il suo film Still life, fa di un dato di cronaca la meta-

fora di un inevitabile processo di distruzione, sommersione di una realtà secolare e proprio dalle rovine di questa realtà fa sorgere, sottoforma di visioni, la consapevolezza della necessità e inevitabilità del cambiamen-to, la speranza verso il futuro.

Ho poi accennato a tre esempi di concorsi indetti nell’arco di quest’an-no, il 2007, in Italia, i cui bandi avevano tagli fra loro differenti: uno di reportage, uno più legato al territorio, l’altro più artistico. In tutti e tre i casi la tematica della rovina contemporanea si è imposto come domi-nante: ciò è indice che la sensibilità legata al territorio e alle sue muta-zioni si sta allargando.

A questo proposito, ho poi accennato al fenomeno dei webrings a mo-strare come l’esplorazione delle topografie urbane abbandonate non sia propria soltanto di artisti, ma sia anche frutto di un’esigenza nata dal basso, con lo scopo non tanto di avere un output di alto livello artistico quanto piuttosto ci condividere un’esperienza e un’esigenza quale quella dell’esplorazione.

Al termine del mio percorso di ricerca posso affermare di non aver in-dividuato una risposta bensì – questione più radicale e fondante – una domanda. Una domanda propria dei nostri tempi: una ricerca di senso,

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di orizzonte, di punti di riferimento; ricerca però spesso vana, in quanto cerca punti fissi in una realtà in cui il dinamismo e il cambiamento sono ormai strutturali, che ha bisogno di nuovi sistemi di interpretazione del-la realtà stessa poiché quelli fin ora utilizzati sono ormai inadatti.In questo senso ho individuato una domanda: nell’aver individuato la necessità di una mutazione di metodo, di un adattamento del linguag-gio, dei sistemi di comunicazione, del codice interpretativo, alle nuove sfide che la contemporaneità ci pone; e il mio taglio che si focalizza sul tema delle rovine contemporanee è una delle possibili risposte a questa domanda, a questa sfida.

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119: Hubert Robert, Veduta immaginaria della Grande Galerie du Louvre in rovina, 1796, Parigi, Museo del Louvre.Diderot in merito a questa incisione affermò“posiamo lo sguardo sui rud-eri di un arco di trionfo, di un portico, di una piramide, di un tempio e rinveniamo noi stessi. Anticipiamo le devastazioni del tempo e la nostra immaginazione abbatte gli stessi edifici che abitiamo [...] più che far ri-flettere su ciò che fu la rovina immaginaria fa sognare su ciò che non sarà più.”

120: Non c’è nulla di più indicativo di un disegno di un bambino per avere una visione della realtà incontaminata e libera da pregiudizi. Il disegno a lato è stato fatto liberamente, senza alcuna indicazione di soggetto da mio nipote Andrea, di 8 anni. Non si tratta semplicemente della rappresentazione di un cantiere; il disegno mostra un intero mondo carico di ravolgimenti, in cui la trasformazione è elemento fondante e strutturale. L’intero paesaggio è in una perenne mutazione che tocca gli elementi in superficie ma anche la struttura stessa della terra fino ad arrivare agli edifici storici (la chiesa).

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121-122: Sze Tsung Leong focalizza il suo sguardo sui drammatici cambiamenti che stanno trasformando le città cinesi e ci mostra il processo che parte dalla distruzione dei quartieri tra-dizionali che formavano una volta l’identità delle città cinesi, e arriva alla costruzione seriale e massiccia di un nuovo paesaggio urbano. I suoi scatti mostrano questa trasformazione, spinta ai

massimi livelli in Cina e in atto in qualsiasi territorio urbano del contemporaneo occidente, tro-vando prospettive che accostano e quasi sovrappongono il vecchio al nuovo, la tradizione alla mo-dernità, l’unico al seriale, e fanno coesistere miracolosamente i due elementi facendoci riflettere.

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123-124: Il lavoro di Olivier Boberg è doppio e ambiguo: ad una prima occhiata rivela angoli anonimi della città quali ad esempio il retro delle case, il lato generalmente trascurato dagli architetti e su cui l’attenzione dei passanti non si sofferma mai. Ma se studiamo da molto vicino i suoi scatti scopriamo un trucco: i suoi soggetti sono modellini ricostruiti in studio.Ogni dettaglio è studiato con dedizione per rendere verosimile l’illusoria rappresentazione.

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125-127: Karin Apollonia Müller. Le sue fotografie ci conducono mano per mano in una progressiva esplorazione della città attraverso le sue trasformazioni, una città rappresentata come eterna metamorfosi. Karin allena le lenti del suo ap in quei luoghi in cui la città si fonde e confonde in un’unica grande distesa urbanizzata. Le immagini, potenti raffigurazioni del rapporto fra centro e periferia, densità e vuoto, fra centralità e marginalità, non sono mai nostalgiche, ma mostrano il cambiamento come un nuovo equilibrio al quale è necessario adeguarsi. I suoi grandi trittici rappresentano spazi informi attorno ai quali lo skyline della città si erge quasi fosse un muro di fondo.

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128-129: Frank Van der Salm. Da lontano le immagini del fotografo sono pura astrazione. Sebbene siano fram-menti di una realtà urbana chiassosa e caotica sembrano sempre una realtà a parte rispetto al loro reale con-testo. La ricerca di Van der Salm è incentrata su immagini nelle quali le superfici, i riflessi di luce, la perdita di scala tipiche del medium fotografico diventano strumenti per costruire immagini spettacolari. Nelle sue fotografie il modello dell’architetto acquista il valore di edificio reale, mentre l’edificio stesso è ridotto a pura rappresentazione di se stesso. In una fotografia intitolata Miraggio, una facciata di un edificio di Hong Kong diventa puro elemento grafico, ma appena ci allontaniamo percepiamo un’immagine che emerge dalla sua su-perficie e comprendiamo che quella superficie così perfetta, fredda, geometrica e quasi disumana è invece uno spazio fatto da e per l’uomo.

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130: L’interesse dell’artista non è tanto quello di restituire un’immagine fissa della città quanto piuttosto riuscire a fermare, a cristallizzarla nel suo cambiamento: a tal fine egli ha creato un dispositivo fotografico che gli permette di avere un tempo di esposizione lunghissimo, permettendogli così di registrare instancabilmente ogni cambiamento nell’arco di anni. Ogni sua immagine è frutto di un unico scatto con un’esposizione che può arrivare fino a più di tre anni, senza elaborazioni digitali o sovrimpressioni. L’immagine a lato fotografa la rinascita di una delle più significative piazze europee: Postdamer Platz. Le dozzine di edifici che emergono dal terreno rappresentano lo sviluppo dell’urbanistica della piazza lungo il corso del tempo mentre l’intera città ridefinisce la sua forma. Come i cerchi lungo la sezione di un’albero questa fotografia ci restituisce una temporalità degli edifici: quelli più marcati sono quelli presenti da più tempo, mentre gli edifici più eterei sono i più recenti. E’ come se il grado di trasparenza degli elementi fosse un’unità di misura della densità storica degli stessi. L’esposizione temporale così elevata permette perciò di avere in un solo scatto non solo il presente, ma anche il passato e il dinamismo, il cambiamento che daranno luogo al futuro men-tre instancabilmente, all’orizzonte, le tracce del sole marcano il lento e inesorabile scorrere del tempo.

131-134: Le opere di Edwin Zwakman sono fotografie di modellini costruiti dall’artista stesso che rappresen-tano un tipico ambiente urbano tedesco. Queste realtà ricostruite non sono riproduzioni del reale ma ricostru-zioni fisiche basate sul ricordo: egli opera quindi una doppia operazione, restituisce pragmaticità alla fotografia mentale che è il ricordo e la rifotografa.Le sue immagini vanno viste in serie: solo così facendo ci si accorge che le ultime tre immagini sono dettagli della prima. Egli ci porta così ad un’analisi più attenta, quasi voyeuristica, porta la nostra attenzione sui det-tagli, ci fa focalizzare su aspetti più antropologici , su movimenti dei possibili abitanti di questa città di carta.

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135-142: Nell’aprile del 1969, in occasione di un viaggio nello Yucatan (…) Smithson aveva inizialmente pensato di visitare le famose rovine Maya. La sua attenzione fu invece catturata da un piccolo albergo. L’hotel Palenque incarnava in sé l’irreversibile forza dell’entropia. A partire da una serie di diapositive a colori realizzate in quei giorni Smithson finì col creare una guida turistica che distribuì agli studenti dell’Università dello Utah. Invece di trasferire il suo progetto sui resti di un’antica civiltà egli lo localizzò sulle rovine della sua propria civiltà.Un’ala dell’albergo era ancora in fase di costruzione, mentre le altre parti dell’edificio erano già sul punto di cadere a pezzi, quasi abbandonate a se stesse. I suoi disegni della pianta dell’albergo rilevavano aree occupate dai rifiuti e detriti accanto a stanze già completate, a una piscina senz’acqua, e a una sala da ballo con tanto di falco im-balsamato.

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143-147: Smithson si è concentrato sugli aspetti più elementari del sito, anche se le immagini sono inframezzate da occasionali e rapide occhiate attraverso il fumo degli altiforni responsabili di quella dev-astazione. Gli scatti, in bianco e nero, non si limitano a descrivere la desolazione di un’area industriale. Essi evocano una visione quasi apocalittica di un mondo ormai sfinito. L’artista, più che offrire una testimoniana di Oberhausen, assoggetta il complesso al flusso temporale, caratteristica di Smithson per i teatrali flash mentali nel tempo e enello spazio (quando nulla era ancora emerso dal magama primordiale) alla post-storia (quando tutto ritornerà in un simile stato di indifferenziazione).

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148-151: Smithson, che ben conosceva le dinamiche di frane, valanghe, eruzioni per averle a lungo studiate, cominciò a disegnare questi fenomeni. I disegni, che proiettavano sul paesaggio immense co-late di fango, asfalto e cemento, diedero vita ad una serie di interventi che imita-vano i movimenti geologici.

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154: L’esperimento artistico è interes-sante non tanto per la volontà estetiz-zante e riqualificante di edifici non ri-tenuti degni di attenzione, quanto per il processo esplorativo e di coinvolgimento di massa che implica: ogni performance richiede infatti una massiccia collabora-zione. Le persone che di volta in volta animano per poche ore gli edifici non sono mai le stesse, ma vengono via via contattate in maniera casuale e invitate a seguire l’evento. L’opera diventa per-ciò anche opera di coinvolgimento nei confronti di nuova sensibilità legata alle topografie urbane abbandonate.

155-156: Le architetture scelte per il progetto, le loro forme rigide ed aus-tere sovrapposte al groviglio selvatico di una natura incontrollata, la luce dif-fusa e omogenea che ne disegna i volumi, l’uguaglianza e il rigore formale delle inso-lite figure che le animano creano un senso di solennità, di religiosità, quasi come se le figure rosse che rianimano inaspettata-mente luoghi da anni vuoti, inermi fos-sero l’anima dei luoghi miracolosamente catturata dallo scatto fotografico.

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“Quando torniamo in un edificio abbandonato non è mai come la prima volta: non provi più timore ma, a volte, un senso di familiarità, cominci ad avere sensazioni maggiormente piacevoli, come il senso di pace, di silenzio, che prima non perce-pivi; (…) ti accorgi che non sei il solo a visitarli, magari sono abitati, da altri, in modo altrettanto furtivo. Te ne accorgi, per il fatto che trovi degli oggetti spostati o magari perché qualcuno ci ha dormito; c’è comunque un vissuto del quale scopria-

mo le tracce, anche se non ne conosciamo la storia”

157-159: Il compito dell’artista per Botto & Bruno è quello di condividere, trasmettere al pubblico la sua esperienza: egli non documenta tanto un edificio nella sua singolarità, ma documenta piuttosto un cammino, un percorso, un’attitudine: quella di chi ha il coraggio, la spinta di addentrarsi nel lato opaco e indefinito della nostra realtà, territoriale e sociale; l’opera d’arte consiste nel riuscire a rendere collettiva l’esperienza personale di pochi.

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Still life pur essendo un film ambientato in uno scenario realmente esis-tente, il paese di Fenije condannato ad essere demolito e sommerso dalle acque della nuova diga progettata a suo tempo da Mao non è semplice-mente un film documentario ma riesce a parlare di un processo di muta-zione che va ben oltre il singolo caso di Fenije elevandolo a metafora.

160-162: l’insistenza quasi morbosa della telecamera sulle rovine è tale in quanto proprio questo sgretolarsi ad opera dell’uomo stesso è metafora di un inevitabile processo di sommersione che costringe l’umanità a fare i conti con un cambiamento radicale.

163-165: riporto qui altri esempi, oltre alle rovine di elementi simbolici del processo di mutazione in atto. Tre uomini in costume tipico fanno co-lazione con lo dguardo perso nel vuoto e il cellulare in mano mentre alle loro spalle il loro universo va in frantumi; un anziano signore scende per l’ultima volta le scale di casa sua marchiata dal simbolo di demolizione; il ponte che sovrasta la diga, simbolo dell’attuazione del progetto, si il-lumina, a marcare un nuovo inizio.

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166-169: Nonostante le contraddizioni e la sofferenza generate dal processo di demolizione in atto siano molte Jia Zhang-Ke non affronta questa realtà con uno sguardo nostalgico ad un passato che non tornerà: proprio dalle rovine di un mondo fa sorgere, sot-toforma di visioni, la consapevolezza della necessità ed inevitabil-ità del cambiamento, la speranza verso il futuro: è in questa chiave che leggo gli elementi della pellicola che spiazzano lo spettatore quali l’ammasso di mattoni che prende il volo come uno shuttle, il bimbo che magicamente canta in mezzo alle case sventrate, il disco volante che sorvola la diga, l’equilibrista tra le rovine.

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170-173: Nel film Stalker di Tarkovskij troviamo una metafora sul ruolo dell’artista: egli, come lo Stalker, è una persona dotata di capacità di as-colto, di osservazione, che sa captare i segnali del territorio, e che ha perciò il compito di guidare e accompagnare lo sguardo e l’attenzione della massa. Anche il territorio viene personificato nel film, ed è così che una terra di nessuno viene rappresentata come un organismo vivente e in continuo mutamento, la “Zona”, che va ascoltata e interpretata poichè indica di volta in volta la strada. Ciò ch’era sicuro prima ora può essere impervio e pericoloso, la via diretta non è la più breve, e non si può pas-sare due volte per lo stesso tratto e chi non sa ascoltare i suoi segnali paga con la morte.

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174-175: Stalker ha anche un’altra chiave di lettura più mar-cata che si svela soltanto alla fine del film. La topografia dell’abbandono è così evocativa e fitta di mistero per il regista che egli gioca tutta la trama del film utilizzando questa zona ab-bandonata come metafora di quanto più misterioso, complesso e mobile ci sia: l’inconscio umano.

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176-179: Opere degli artisti partecipanti alla mostra Uno sguardo sulla città allestita in occasione della Settimana della Fotografia Europea. Di-eci fotografi si confrontano con la rappresentazione del territorio emil-iano; gli esempi qui presentati sottolineano l’utilizzo di un codice visivo in linea con il tema delle rovine contemporanee.

Kai-Uwer Schulte-Bunert: “il lavoro, dedicato al cantiere della TAV di Reggio, si collega alla ricerca dell’artista, che ama lavorare sulle strut-ture in trasformazione, che cambiano aspetto in continuazione, sotto la spinta degli uomini o del tempo. In questi luoghi, meglio che altrove, egli riesce a percepire la precarietà di ogni cosa e l’evidenza del limite.”

Cesare Di Liborio: “Via Fratelli Cervi, 66 è un progetto fotografico dedi-cato alla vecchia sede di Max Mara, ditta presso cui il fotografo stesso lavora. Le fotografie, eseguite dopo l’abbandono della struttura da parte del personale, diventano occasione per una ricerca sulla memoria collet-tiva, in linea con i precedenti lavori del fotografo. Ritornano elementi che caratterizzano la sua ricerca: la memoria, il passaggio, e uso della luce teso a mettere in luce la semplicità-complessa del quotidiano.”

William Guerrieri: “Rovine è il titolo del progetto fotografico sulle case coloniche in stato di abbandono e di crollo, che da anni sono una costan-te che caratterizza il paesaggio della pianura padana e in particolare quello dellapianura emiliana. L’autore ritiene che le rovine possano aiutarci a re-im-parare a sentire il tempo, in un mondo dove si mostrano con insistenza solo i segni del presente.”

Angelo Davoli: “L’installazione esposta è un lavoro al limite fra pittura e fotografia, L’artista ha lavorato su fotografie, materiali già esistenti. L’intervento pittorico gli consente di creare uno spiazzamento da un punto di vista visivo, ma anche temporale. Inserisce infatti elementi fuori dal tempo rappresentato, così da dare vita a immagini senza tempo. Limite e confine sono qui concetti mentali. Tra il reale e ciò che noi pen-siamo sia reale, fatto di stereotipi e convenzioni.”

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180-188: All’interno dei webrings dedicati all’esplorazione di luoghi ed edifici abbando-nati gli utenti recano traccia dei propri percorsi attraverso la documentazione fotografica e, aspetto più interessante, attraverso delle loro personali “topografie dell’abbandono”, mappe che documentano il loro percorso, i punti su cui l’attenzione di ciascuno si è focalizzata; e tali mappe dei medesimi luoghi sovrapponibili e confrontabili grazie alla rete, diventano testimo-nianza della potenzialità espressiva ed evocativa di questi luoghi in cui ognuno può muovere lib-eramente il suo sguardo, senza condizionamenti ne pregiudizi, e inscrivervi la sua storia, mosso da una spinta a ri-scoprire il mondo.

189: La fotografia, trovata in un sito apparte-nente al webring urban explorers ha immorta-lato quello che può essere definito il “manifesto” di questi movimenti di esplorazione. Il testo reca: “non è un bisogno, ma più un urgenza / ricominciare ad esplorare, ancora una volta / le cose del mondo / ri-saturare la pelle con in-iezioni di bellezza entrandoci dentro / bellezza nuda con qualche gioiello / e credo che non te ne accorgerai di me / perché sono solo vento e tempo che deteriora, qui solo per te.

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Progetto Moresco

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LO spAZIO mOREsCO

La parte progettuale-realizzativa della mia tesi è nata dalla fortunata contingenza di due elementi: il mio percorso di indagine fotografica del-la topografia dell’abbandono e il progetto di rivalutazione proprio di una delle strutture dimesse da me fotografate: l’ex cementificio Italcementi di Alzano Lombardo in provincia di Bergamo.

L’edificio è ricco di storia; è infatti il primo grande cementificio, co-struito a partire dal 1883, di quella che poi divenne, nel 1911, la “Società Italcamenti” oggi la maggiore tra le industrie italiane del ramo. La strut-tura era formata da due corpi separati: uno in cui avveniva la produzio-ne vera e propria del cemento, e l’altra in cui il cemento era portato a stagionatura, veniva insacchettato e trasportato su convogli di carri, e successivamente negli anni sui treni merci della ferrovia che passava proprio a lato dei due edifici. La crescita vertiginosa della società, l’aper-tura di nuove e più ricche cave sancì il trasferimento della sede della società a Bergamo e la dislocazione di grandiosi cementifici in molte al-tre località, italiane ed estere: contingenze che decretarono la chiusura dello stabilimento di Alzano Lombardo, oggi inattivo da quarant’anni.I processi di emigrazione dalla campagna alla città hanno fatto sì che il centro nodale che era Alzano Lombardo perdesse mano a mano im-portanza: il paese e la valle tutta che lo ospitano hanno assistito ad un progressivo fenomeno di impoverimento demografico ed economico che ha determinato la chiusura, per trasferimento o fallimento, di numerose

Progetto

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attività industriali; di conseguenza anche la ferrovia che attraversava la valle è stata abbandonata.Negli ultimi anni, invece, in linea con la tendenza post-moderna che cer-ca un ritorno a una dimensione più umana della vita, si sta promuoven-do una rivalutazione del territorio della valle, ad opera dello sforzo con-giunto di comuni, regione e imprenditori che ha in progetto, fra le tante attività, il recupero di parte dello stabilimento Italcementi e il ripristino della rete ferroviaria per incentivare il turismo nella zona e smaltire il traffico che quotidianamente assedia le vie impervie della valle.

L’ex cementificio vede perciò oggi mutare il suo destino. Solo uno dei due corpi che lo compongono verrà però restaurato e adibito ad altre funzioni: è l’opificio, edificio in cui il cemento veniva fatto stagionare e insacchettato. Il cementificio vero e proprio svetta invece ancora incon-taminato, avvolto dalla vegetazione.L’opificio è stato restaurato con la volontà di creare un polo culturale e funzionale attento alle esigenze della contemporaneità; ospiterà loft, attività commerciali, spazi espositivi dedicati all’installazione di opere e lavori d’arte, ma anche a convegni, sfilate, banchetti e manifestazioni ricettive in genere. Un spazio-luogo inteso come motore propulsivo per nuove idee, dove l’arte non venga solo esposta, ma creata e dibattuta; un luogo che, come un grande cantiere, comprenda tutte le forme di espres-sione artistica in uno spazio con le caratteristiche del laboratorio.

È una sfida che la Società Fabbrica Srl, che ha acquistato l’opificio e che diventerà presumibilmente una Fondazione, pone al territorio e a se stessa.Lo spirito con il quale l’opificio torna in vita sembra essere un tentativo di declinare di quel concetto di opera aperta formulato da Umberto Eco e da me preso come linea guida nel tentativo di definizione del mio per-corso di tesi e del mio percorso fotografico. Ho perciò preso contatti con i proprietari della struttura per proporre una mia linea progettuale per la comunicazione di questo spazio e l’evento inaugurale della stessa.

Il mio progetto si divide perciò in due parti: la creazione della comunica-zione per lo spazio espositivo, e la realizzazione di due percorsi, uno fo-tografico e uno di video-arte pensati per l’inaugurazione della struttura.

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163190: lo Spazio Moresco in via di ristrutturazione e, in secondo piano, la parte di struttura non recuperata.

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Il marchio creato per lo spazio espositivo trae ispirazione dalla filoso-fia di intervento sull’edificio illustrata nel documento che lo studio di Architettura Leggeri ha redatto per la presentazione del progetto di restauro:

“Il nuovo edificio risulta improntato alla massima flessibilità e trasfor-mabilità sia morfologica che di uso degli spazi nel tempo, secondo un concetto di luogo dedicato all’arte in antitesi a quello di museo tradizio-nalmente inteso, come spazio finito che debba perdurare identico a se stesso nel tempo. Il criterio principale su cui è stato basato il restauro è quello della reversibilità, per permettere al fabbricato di essere reinter-pretato di volta in volta secondo le funzioni e gli utilizzi che gli saranno assegnati: sarà quindi possibile, in qualsiasi momento, il ripristino della situazione antecedente l’intervento, utilizzando tecniche più innovative e fisicamente meno invasive, intervenendo volutamente senza intaccare le parti strutturali. Le suddivisioni e gli interventi tecnici sono quindi predisposti al fine di essere facilmente rimossi e tutte le parti aggiunte dovranno essere rigorosamente denunciate, per esaltare ancor di più la bellezza e la ricchezza dell’architettura originaria”.

Dal testo si evince da un lato la volontà di intaccare il meno possibi-le l’identità originaria dell’architettura, e dall’altro quella di creare una struttura aperta, permeabile, reversibile, in cui passare del tempo libero

lasciandosi penetrare dai messaggi che vi circolano.

Il marchio punta a comunicare questa ambivalenza: la struttura sempli-ce e rigorosa del quadrato è l’identità dell’opificio, che ha come elemento architettonico distintivo le torri in stile moresco a base quadrata (non a caso l’edificio viene oggi comunemente chiamato Il Moresco).La frattura di questa forma chiusa su un lato, poi, pur mantenendo in-tuibile l’identità data dal quadrato, dà luogo a un’apertura che indica simbolicamente lo spirito di apertura e flessibilità che sta alla base della filosofia di intervento.

Ho poi creato una seconda versione del marchio, pensata soprattutto per la comunicazione su grandi formati che vede in aggiunta al marchio un fascio di colore che penetra lo spazio e che al tempo stesso da esso scaturisce: è una colata arancione, colore legato all’energia creativa e al dinamismo.

Il logotipo è una sigla: MAC, Moresco Arte Contemporanea, ancora una volta a sottolineare l’identità architettonica da una parte e l’apertura al-l’arte dall’altra.

IDENTITA’ VIsIVA

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in questa pagina: la versione base del marchio (fig. 191)

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Sopra e a lato: la seconda versione del marchio con la linea che si estende in verticale o in orizontale (fig. 192, 193).

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Sotto: lo schema costruttivo delle due versioni del marchio, e del posizionamento marchio - logotipo (fig. 194,195,196).

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Sotto: il posizionamento marchio - logotipo (fig. 197).

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A lato e in questa pagina: la seconda versione del marchio è indicata soprattutto per la comunicazione su grandi formati, e pensata per essere applicata su elementi architettonici. La linea arancione infatti può essere prolungata a piacere creando così un forte elemento identificativo e dando l’opportunità di creare dei percorsi estendendo la linea arancione su diverse superfici (vedere immagine a lato e nella pagina successiva).E’ possiblile utilizzare la versione con la striscia verticale o orizzontale a seconda che si voglia far risaltare la verticalità o l’orizzontalità dell’ elemento architettonico (fig. 198, 199).

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In occasione dell’apertura dello spazio Moresco, che come già abbiamo visto si pone come centro fertile per tutte le attività sperimentali dell’ar-te contemporanea e spazio aperto alle nuove esigenze della contempora-neità, ho realizzato due percorsi, uno fotografico e uno di video-arte, che hanno come soggetto quella parte dell’ex-cementificio non recuperata e che svetta imponente accanto al museo. I visitatori del Moresco perciò entrando nella parte di fabbrica ristrutturata e recuperata, avranno una finestra per osservare, esplorare l’altra parte di edificio che, pur essendo fisicamente contiguo, resterebbe silente e inesplorato.Ed è proprio quella della finestra la funzione degli scatti realizzati: come la finestra isola, inquadra un frammento di realtà senza dare descrizioni o giudizi, e invita a soffermarsi su di essa e a immaginare ciò che è fuori dal quadro, così le mie fotografie non sono né documento descrittivo delle originarie funzioni degli spazi dell’edificio legati alla lavorazione del cemento, né denuncia dello stato di abbandono dello stabile ma piut-tosto invitano a un’interpretazione senza vincoli, a stimolare visioni, a immaginare scenari potenziali. Questi luoghi, con i vuoti e silenzi, crea-no uno spazio da riempire con l’immaginazione; attitudine, quella del-l’immaginazione, che scaturisce dall’attenzione, dall’ascolto, che si sta sempre più perdendo nella nostra società.La stesso concetto di libertà interpretativa sta alla base del video, ba-sato su un concetto di climax, di ascesa suscitato dal penetrare lo spa-zio: l’esplorazione dell’edificio, strutturato su molteplici piani, parte dai

sotterranei, bassi e cupi, arriva a un grande spazio con colonne a volta, slanciato e luminoso, e infine alle arcate in cemento sospese nel vuoto che portano all’infinito del cielo, indicato dalle alte torri dei forni. Il vi-deo è perciò esempio di quell’atto interpretativo, di quella visione che le fotografie vogliono suscitare nello spettatore.

Per quanto riguarda la fruizione delle opere nello spazio ho pensato di associare la visione delle fotografie e del video al concetto di percorso, identificato da un tappeto arancione, prolungamento virtuale della stri-scia arancione del marchio: ho così creato due percorsi, uno per la video-installazione al piano terra e uno per le fotografie al piano superiore.I due percorsi confluiscono poi verso l’uscita, dove proseguono verso il cementificio dismesso, a incitarne, simbolicamente, l’esplorazione.

EVENTO INAuGuRALE

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In questa pagina: la striscia arancione del marchio viene utilizzata per segnalare la fruizione dello spazio strutturata in due percorsi, uno video e uno fotografico. Il percorso termina e inizia metaforicamente dalla parte dismessa della struttura (fig. 200).

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201-203: Il percorso-video è percorso di progressiva scoperta, avelamento, utilizzando lo stesso meccanismo di climax del video stesso.

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