Gianna Petrone, Plauto e Il Vocabolario Della Filosofia

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Publications de l'École françaisede Rome

Plauto e il vocabolario della filosofiaGianna Petrone

RiassuntoAttraverso l'analisi dell'impiego fatto nel teatro plautino delle prime voci del vocabolario filosofico, ovvero philosophus ephilosophari, ci si può fare un'idea di come sia pensata a Roma, prima del suo ingresso ufficiale, la filosofia, al cui esercizio nonsono stati ancora attribuiti spazi certi. Si nota la mancanza di una sicura definizione e qualche pregiudizio. Il punto d'incontro trail mondo plautino e la filosofia è provocato dalla nozione di saggezza astuta, la sfera comica del sagace imbroglio, al qualesembra ben adattarsi la nuova disciplina : il filosofo viene così ad essere qualcuno che grazie al suo sapere ha la meglio suglialtri, un po' come capita nelle commedie al servo astuto. Pseudolo è insomma come un Socrate comico e la filosofia un buonmetodo per vincere, soprattutto imbrogliando le carte, mediante la supremazia intellettuale.Anche se, privilegiando la malitia del servo sulle sofisticherie dei filosofi, Plauto sembra porsi ancora una volta dalla parte dellacultura e dei valori romani rispetto alla Grecia e a quanto, come la filosofia, ne proveniva

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Petrone Gianna. Plauto e il vocabolario della filosofia. In: La langue latine, langue de la philosophie. Actes du colloque de

Rome (17-19 mai 1990) Rome : École Française de Rome, 1992. pp. 51-57. (Publications de l'École française de Rome, 161)

http://www.persee.fr/doc/efr_0000-0000_1992_act_161_1_4262

Document généré le 17/09/2015

GIANNA PETRONE

PLAUTO E IL VOCABOLARIO DELLA FILOSOFIA

Può essere interessante osservare l'uso plautino delle prime voci del vocabolario filosofico, ovvero philosophus e philosophari, se non altro per la mediazione che, ancora in assenza a Roma di una filosofia e di filosofi ufficiali, tali termini svolgono nei confronti di un mondo, quale quello della tradizione romana, che non ha ancora attribuito spazi certi al sapere filosofico. Che immagine ci restituisce della filosofia, esercizio ancora non legittimato pienamente dalle istituzioni e di non sicuri confini, il conchiuso universo plautino? Che prospettiva vi si adotta?

Conviene partire da uno dei celebri monologhi di Pseudolo nell'omonima commedia, la più 'filosofica', per così dire, di Plauto, che fa arrestare una meditazione autenticamente seria e anzi addirittura sofferta del servo eponimo sulla constatazione che si è fatta abbastanza filosofia (. . . satis est philosophatum, Ps. 687). Questa riflessione di Pseudolo appartiene ad un momento singolare, e scoperto, dove s'interrompono le mascherature comiche per l'enunciazione di una verità pessimistica, abbastanza in contrasto con l'ottimismo pragmatico che è cifra e messaggio generale del teatro plautino. Pseudolo, che ha imbastito straordinari inganni, viene sorpreso e favorito dal caso, che gli fa cambiare programma, e osserva così, in un ripiegamento meditativo, che la Fortuna vince i piani di cento uomini dotti e che i nomi di saggio e di sciocco sono attribuiti in effetti a chi ha avuto buona sorte e a chi invece è andata male, per concludere che stolti sono a ben pensare tutti gli uomini, che si affaticano invano. Qui il discorso si fa generale e coinvolgente, improvvisamente serio; Pseudolo si esprime con la prima persona plurale del verbo, alludendo con ciò alla generale condizione umana, e vi include ovviamente anche se stesso. L'inter- pretazione è sconsolata : la vita è fatica e dolore fino a che non sopraggiunge insinuante la morte . . . ut mors obrepat interim (Ps. 686). Su questo punto, inusuale, interviene l'interruzione del satis est philosophatum. Più in là effettivamente un poeta comico non poteva andare. Certo questo genere di pensieri poteva essere ispirato a Plauto dalle molte riflessioni sul ruolo della sorte nelle vicende umane che trovava nei modelli greci, eppure di solito il commedio-

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grafo romano si guarda bene dal far suoi questi filosofemi, lasciando semmai intendere una opposta fiducia nelle capacità della vir- tus di cambiare il mondo secondo la propria volontà. A ben guardare, anche in questo caso la prospettiva non è quella della Tuche, infatti la Fortuna evocata non ha nulla di astratto né di metafisico ma sembra chiamata in causa per una definizione della saggezza, come polo contrastivo rispetto all'attività dell'intelligenza umana. Plautini sono i termini della questione, quella dei limiti della saggezza astuta : abitualmente sconfinata, essa deve tuttavia riconoscere l'esistenza di questa avversaria, la Fortuna, che può determinare, al di là e al di fuori del consilium, il successo ο l'insuccesso di un'impresa. La filosofia a cui si è lasciato andare Pseudolo tocca un centro 'ideologico', che è molto romano e molto plautino.

Proprio la nozione del sapere, l'esser saggi e astuti, sembra provocare il punto d'incontro tra la filosofia, pratica oltre che amore del sapere, e i testi plautini, tesi alla rappresentazione della maliziosa intelligenza del servo, forma minore ma ugualmente positiva del sapere.

Nel passo 'filosofico' dello Pseudolus va notata un'espressione che entrerà a far parte del vocabolario di una meditazione 'esistenziale' : è l'immagine dell'insinuarsi strisciante e impercettibile della morte, creata da obrepere (. . .ut mors obrepat), che diverrà una costante in ogni discorso sulla transitorietà del tempo umano. Nel trattato sulla vecchiaia Cicerone ripeterà che la senectus obrepit (Caio M. 4), usando di una metafora comune quanto suggestiva, come farà anche Tibullo con il nesso subrepit aetas iners : la morte, e così la vecchiaia, sono una brutta sorpresa per gli uomini, che non fanno caso al loro avanzare silenzioso e subdolo; questo il significato di un significante che appartiene all'immaginario romano ' paraf ilosof ico ', un lessema, che senza essere filosofico in senso stretto è tuttavia pieno di pensiero e indicativo di un atteggiamento mentale.

L'impressione che i testi plautini entrino in contatto con l'idea di filosofia a proposito del sapere, e dunque in un territorio contiguo alla sfera dell'intelligenza astuta, è confermata da uno stilema, che collega la riuscita di un intrigo all'uso del philosophari, che è inteso come arte del ragionamento, abile a confondere le idee : sal- vos sum iam philosophatur (Ps. 974), dice Pseudolo in ansia per il suo piano, di fronte ad una battuta con la quale il suo complice nell'inganno fa bella figura verso l'avversario e lo imbroglia. Allo stesso modo, con salva res est, philosophatur quoque iam, si esprime un'uguale reazione nei Captivi; è questo infatti il modo con cui si accoglie con un sospiro di sollievo uno stratagemma elusivo, che permette di continuare, senza averne l'aria, una menzogna (Capi. 284). L'identica formula mostra come, nell'ambito della commedia

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e nella traduzione del linguaggio comico, il philosophari coincida con una disinvolta mistificazione e con le sottigliezze acute dell'intelligenza : si tratta dell'esercizio di un'abilità intellettuale che serve ad ingannare gli altri e ad averne ragione.

Non è una visione denigratoria della filosofia ma semplicemente la sua trasposizione nel codice comico, anzi il fatto di annetterla alla sfera della malitia ne mostra le potenzialità positive, anche se pericolose e truffaldine. Ma qual è il contenuto che viene qualificato come 'filosofico' e fornisce il destro alla doppia e simile battuta? A provocare l'osservazione che 'si fa filosofia dunque l'inganno è salvo' è nei Captivi una riflessione sulla vita e sulla morte, che capita in buon punto e favorisce la situazione : un tema di questo genere poteva facilmente essere etichettato come pertinente all'ambito della filosofia. Più specifico è invece l'oggetto del filosofeggiare dello Pseudolus, in quanto è una variazione sul tema socratico del 'conosci te stesso'.

L'audace imbroglione arruolato da Pseudolo sa recitare bene la parte affidatagli, imbastendo una divagazione, allo scopo di gettare fumo negli occhi dell'avversario, sul fatto che tra gli uomini forse solo uno su dieci è capace di conoscere se stesso (Ps. 972 s.). Lo spudorato ingannatore si atteggia dunque a nuovo Socrate, ostentando profondità e saggezza d'argomentazioni. Che il gioco funzioni avendo per referente la filosofia socratica, vista naturalmente da lontano e secondo una prospettiva irrispettosa, emerge esplicitamente. Quando uno dei due vecchi della stessa commedia vuole infatti mettere in guardia l'altro dalle diavolerie verbali del servo, gli dice di stare bene attento a non cadere nella trappola dei discorsi di Pseudolo, il quale lo confonderà a tal punto che egli crederà di stare parlando piuttosto che con Pseudolo con Socrate in persona, . . . ut tu censeas / non Pseudolum, sed Socratem tecum loqui (Ps. 464 s.).

Pseudolo dunque come Socrate : astuzia dell'intelligenza e abilità filosofica si identificano nell'esercizio di un sapere verbale, di una dialettica che ha successo e s'impone sugli altri.

Un ultimo esempio di philosophari proietta una qualche luce su una delle più famose immagini della filosofia romana. Nel Mer- cator il servetto currens arriva sfiancato e distrutto, lamentando di avere i polmoni rotti e di sputare sangue; il giovane padrone gli propone allora una medicina, «resina egizia con miele», che quello rifiuta perché amara. Per convincerlo a prenderla, l'altro si lancia in una riflessione sul fatto che bene e male sono strettamente mescolati e se si vuole godere del bene bisogna accettare una qualche dose di pena. Il servo gli risponde a questo punto di non sapere queste cose e di non avere mai appreso a philosophari (Mer. 147). Questa è dunque per Plauto la filosofia. Per il campo semantico

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che si apre da questa pagina, con il riferimento a malattia/medicina, amaro/dolce, bene/male, sembrano anticiparsi gli elementi del celeberrimo paragone lucreziano del proemio del IV libro del De rerum natura, dove l'amaro della medicina è la difficoltà filosofica e il miele sparso sull'orlo del bicchiere è la dolcezza della poesia, in rapporto ad una salute che è la conquista del bene. Nel dialogo plautino, seppure in un contesto diversissimo, dove filosofia è capacità di argomentare tra bene e male, le parti dell'insieme, anche se differentemente composte, ci sono già tutte.

Chi è dunque il filosofo, una volta definita la sua attività, il philosophari? Il lessema philosophas compare una sola volta, nella Rudens, e non fa una gran figura, perché è adoperato come un insulto, tanto che a 'filosofo' si risponde con vene ficus. Durante il litigio tra Gripo, che ha pescato il baule, e Tracalione, che ne reclama la proprietà, nasce una discussione 'filosofica', che traduce comicamente un dialogo sui massimi sistemi : mentre Gripo sostiene che tutto ciò che è stato da lui preso in mare con ami e reti è suo, perché non c'è in mare proprietà privata, per Tracalione il baule non può essere paragonato ad un pesce. A questa che a Gripo pare una sofisticheria intellettualistica egli risponde bollando l'interlocutore spregiativamente come philosophus. Questa immagine viene ripresa qualche verso più in là, quando all'epiteto stultus, rivoltogli da Tracalione, Gripo risponde per le rime salutandolo come Thaïes, Talete {stultus es/ /Salve Thaies, Ru. 1003). Ritroviamo delle costanti : philosophus e Thaïes, accezione comune e designazione antonomastica, valgono in opposizione alla stultitia e stanno dalla parte di una sapienza che si colora di astuzia. Altre due menzioni del filosofo Talete, nome buono evidentemente per Plauto a designare l'intera categoria dei filosofi, confermano la dicotomia stultitia/ philosophia e dunque anche l'imbarazzante parentela di quest'ultima al sistema comico dell'imbroglio intelligente. In Bac- chides 122 s. si dice del pedagogo Lido che, mentre lo si era creduto saggio più di Talete, egli è invece assai stolto : sapere da una parte e stultior dall'altra tracciano i confini entro i quali si colloca Talete, designatore antonomastico della filosofia. In Capi. 274 s. si crea con il nome un gioco fonico, dove, direbbe Traina1, il senso tiene dietro al suono, . . . Thalem talento non emam Milesium, per affermare che l'ingannatore di turno batte il filosofo in sapienza :

1 Cfr. Forma e Suono, Roma, 1977 e Epilegomeni a Forma e Suono in Materiali e discussioni, 9, 1882, p. 10-29; il condizionamento che il suono esercita sulla forma, dimostrato in questi contributi, permette di guardare oggi in modo diverso e metodologicamente più adeguato alle esuberanze linguistiche di Plauto.

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non c'è quindi bisogno di spendere neanche un talento per comprare un Talete. Talete rima quindi con la capacità d'inganno, come Socrate con Pseudolo.

Eppure gli imbroglioni plautini si credono in definitiva più bravi dei filosofi greci (e certamente sono molto simpatici al loro creatore); questa ' enfatizzazione ', fatta questa volta alle spese di nomi prestigiosi di cui arriva però un'eco non molto precisa, rientra, oltre che nelle solite arie ' trioni alistiche ' dell'architetto di intrighi, in un atteggiamento generale della commedia plautina, che tende ad esaltare quanto è 'proprio', ovvero quel che rientra nella cultura e nella tradizione latina, di contro a quanto è greco e non ancora acquisito. In questo senso i filosofi, che si avvertono ancora estranei e noti solo per sentito dire, stanno dallo stesso lato dei Graeculi irrisi nel Curculio : se per un verso assomigliano per l'acutezza al servo da commedia, e questo li rende accettabili e degni di quel sornione rispetto che meritano quelli, gli uni e gli altri unificati dal mettere a frutto le doti di un'intelligenza esperta e sicura di sé, d'altro canto sono pur sempre degli stranieri che appartengono ad una disciplina ancora vaga ed estranea, e restano ad una certa distanza, che non è possibile riempire. ... Di un Talete un personaggio da commedia saprà benissimo fare a meno, perché non ne ha bisogno e sa cavarsela da sé, come il commediografo d'altronde, che ha la stessa fiducia, mutatis mutandis, di potere insegnare il mestiere di poeta, se occorre, a Difilo e Filemone.

Se l'analogia della filosofia con la sfera del sapere astuto non ci deve spingere ad un affrettato giudizio di valore, ovvero a credere ad un disprezzo plautino per la filosofia, perché al contrario tutto ciò che vi ha attinenza ha una marca positiva, pure è da notare un atteggiamento che è tutto l'opposto di una sottomissione culturale : la Roma di Plauto non sembra avere complessi in questo senso anzi ostenta molta fiducia in se stessa. I confronti paradossali Pseudolo/Socrate ο Filocrate (il personaggio che nei Captivi sta mentendo abilmente) / Talete, amplificano, potremmo dire con Fraenkel2, il personaggio preferito di colui che gioca l'intrigo, proiettandolo e dilatandolo in questa ancora esotica dimensione della filosofia ma, nella loro comica sfrontatezza, rivelano molta sicurezza di sé, quasi che Thalem talento non emam Milesium «non comprerei un Talete neanche per un talento» fosse motivato, oltre che dai significanti e dall'omofonia, anche dai significati.

Indirizza in questo senso proprio quel passo famoso che è la

2 E. Fraenkel, Elementi plautini in Plauto, trad, it., Firenze, 1960, p. 223 sq.

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tirata contro i Graeci palliati del Curculio dove già il Leo3 leggeva la descrizione ridicolizzante di filosofi ciarlatani, giunti a Roma dalla Grecia e ansiosi di mettersi in mostra facendo sfoggio del loro sapere e dei loro libri. Il passo è così noto che non varrebbe la pena di parlarne se non per sottolineare come l'antiellenismo che vi è stato notato sia in effetti anche una sottaciuta rivendicazione di sé e riveli la consapevolezza di una latinità che non soffre di complessi d'inferiorità. Lo dimostra l'oscenità con cui si chiude la raffigurazione di questi Greci superbiosi e boriosi, carichi di libri e perciò intellettuali di professione. Da loro, dice Curculio in veste di currens, se li urterà nella sua corsa, verrà fuori un crepitus polenta- rius (Cu. 295). È una demistificazione. Il riferimento al cibo italico della polenta appartiene nel lessico plautino alla sfera semantica distintiva della latinità contrapposta alla grecita. Nel prologo del Poenulus Plauto stesso si designa come «mangiatore di polenta», Pultiphagonides, proprio nel momento in cui distingue il titolo greco della commedia da quello della sua traduzione, ovvero nella sede della separazione distintiva delle due versioni. Qui l'appellativo, che si riferisce al diverso cibo degli italici, è un operatore della stessa differenziazione. Il crepitus polentarius è dunque l'indecente contrario delle arie sapienziali e presuntuose dei Graeci palliati : una fisicità tutta latina contro le borie filoelleniche.

Rintracciare in Plauto il significato di philosophari e di philo- sophus mi è parso potesse servire ad inquadrare l'idea della filosofia, che è ancora in questo tempo un'idea non molto sviluppata, avvolta di pregiudizio. In quel che ne pensa il teatro plautino si possono comunque ravvisare gli estremi di una fiducia nei propri valori e nella propria saggezza 'culturale' che sarà poi continuata, come posizione intellettuale e atteggiamento generale, da chi veramente si interesserà di filosofia. È simile a questo in fondo il punto di vista del grande divulgatore Cicerone, che molto spesso rivendicherà, contro le astrattezze teoriche e le sottigliezze sistematiche, la forza e l'importanza dei modi di pensare romani, non debitori e non inferiori a nessuno.

Questi del teatro plautino sono i primi approcci verso le nuove realtà della filosofia. È comunque nel campo dell'etica che le commedie si pongono come autentico precedente della riflessione filo- sofica romana, nel senso che vi fissano e discutono i comportamenti e vi si crea e definisce un vocabolario. Vi si aprono grandi campi di definizione di valori e conseguentemente di creazione di linguaggio. Una notevole tensione etica produce un lessico, un repertorio d'immagini, una serie di collegamenti che influenzeranno profon-

3 F. Leo, Plautinische Forschungen, Berlino, 1912, p. 103.

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damente la cultura romana e vi rimarranno così radicati da divenirne solido punto di riferimento. Si pensi, per esempio, al vocabolario del 'carattere': l'avaro sarà sempre immaginato secondo i tratti di Euclione e la sfera di azioni a lui legate. L'insonnia che affligge l'avaro raffigurato da Orazio è la stessa che tormentava il personaggio plautino (si qui . . ./vigilet, Hor. sat. 2, 3, 111 s.). Oppure, è solo un esempio tra i moltissimi, si faccia caso alle associazioni verbali che si fissano relativamente alla nozione di avidità : il nesso che la rappresenta efficacemente nel Trinummus plautino, rape, trahe, fuge, late, riflesso a livello nominale dalla sequenza di aggettivi in - ax di Persa 410, procax, rapax, trahax e 421 edax, furax, fugax, rimarrà a costituire un ' reticolo lessicale ' della rapina e della sottrazione. Così, storicamente, si pongono le premesse di quanto segna a fondo la riflessione romana in materia, di cui il teatro è come il grande retroterra.

La filosofia entra dunque per certi versi a Roma 'avant-lettre', per la strada del teatro e sub specie di una casistica etica che sviluppa anche una terminologia, aliena certo da tecnicismi, che non potrebbero trovarvi posto, che risulterà efficace e s'imporrà come precedente. Nasce un repertorio di immagini, di accostamenti, di analogie.

Per questo, e per aver formato parte del patrimonio etico, dando vita ai primi paradigmi morali della letteratura, Plauto e in genere il teatro si offrirà come terreno privilegiato alla citazione, quando si tratterà di discutere filosoficamente dei comportamenti. Se Cicerone da nelle sue opere filosofiche questo ruolo al teatro è perché i Romani potevano ancora riconoscervi gli exempla e il vocabolario della loro etica.

Gianna Pétrone