Post on 07-Aug-2020
Fascismo e storia d’Italia nell’analisi dei popolari in esiliodi Francesco Traniello
Tra il 1926e il 1928 uscirono, rispettivamente in Inghilterra e in Francia, due libri sul fascismo: Ita lia e fa sc ism o di L Sturzo e L e rég im e fa s c is te ita lien di F. Luigi Ferrari. Il primo era in lingua inglese, nella traduzione di Barbara Barclay Carter; nello stesso anno 1926 ne apparve anche un’edizione tedesca, seguita nel 1927 da una francese e nel 1930 da una spagnola. Il secondo era stato scritto direttamente in francese dall’autore, esule a Lovanio, dove aveva trovato un insegnamento nella locale famosa università cattolica: il volume infatti usciva nella collezione della scuola di scienze politiche di quell’ateneo.
È molto difficile stabilire che circolazione ebbero le due opere all’estero: m a ritengo sia stata abbastanza scarsa; in Italia poi, per motivi ovvi, esse restarono pressoché sconosciute in epoca fascista; ma, ciò che può apparire francamente sorprendente, anche dopo il fascismo non destarono se non una mediocre attenzione e non ebbero che assai scarsi lettori: tant’è vero che il libro di Ferrari non fu mai tradotto in italiano e divenne nuovamente reperibile soltanto per la benemerita iniziativa dell’editore Feltrinelli di promuoverne un reprint anastati- co nel 1966, mentre il libro di Sturzo venne stampato in italiano, sul manoscritto originale,
nell 'opera o m n ia edita da Zanichelli, soltanto un anno prima, nel 1965'.
Del resto, nel campo stesso della storiografia specialistica, l’attenzione prestata alle due opere ricordate non si può certo definire rilevante. Anche il più noto storico vivente del fascismo e della storiografia sul fascismo, autore tra l’altro del fortunato studio su L e in terp re ta z io n i d e l fa s c is m o 2, se ha avuto l’indubbio merito di richiamare quasi dall’oblio i due volumi in questione segnalando particolarmente quello di Sturzo, dimostra poi, nei loro riguardi, una certa frettolosità immeritata, cadendo in alcune rivelatrici inesattezze: come quando posticipa di un anno l’edizione dell’opera di Sturzo, considerando solo la traduzione francese (da cui prende anche le citazioni) e ignorando la prima edizione inglese, ovvero quando tende a separare l’opera di Sturzo da quelle nate “più propriamente nel clima dell'emigrazione antifascista”, dimenticando forse che Sturzo era stato costretto a un esilio molto precoce e che di quel clima certamente risentiva appieno, come dimostra- un’analisi attenta di Ita lia e fa sc is m o . Più in generale, poi, lascia per lo meno perplessi l’esclusione operata da De Felice delle due opere di cui stiamo discorrendo dal novero di quelle che “tentarono di affrontare il fascismo sotto
Relazione presentata al convegno su Giuseppe Donati, tenuto a Faenza il 2-3-4 ottobre 198 ! e promosso dalla Società Cooperativa di Cultura popolare di Faenza.1 Cenni sulle diverse edizioni dell’opera si trovano neltawertenza preliminare: il testo italiano è quello originale di Sturzo, confrontato con l’edizione inglese e integrato con le aggiunte dell’edizione francese.: Renzo De Felice, tje interpretazioni de! fascismo, Bari, Laterza. 1969, (I ed.; utilizzo la VI, del 1974).
“Italia contemporanea”, dicembre 1982, fase. 149
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il profilo storico”3 per tutto il primo quindicennio dopo la marcia su Roma, riconoscendo invece questa qualità alla S to r ia d i q u a ttro arm i di Pietro Nenni e a The F ascisi D ic ta to rsh ip in I ta ly di Gaetano Salvemini, visti come “i primi concreti tentativi di rimeditare gli avvenimenti che avevano portato il fascismo alla vittoria”4: giudizio che a mio avviso può e deve essere esteso ai libri dei due ‘popolari’ in esilio, poiché il loro impianto storico complessivo nulla ha da invidiare agli scritti di Nenni e di Salvemini, i cui giudizi non sono certamente meno influenzati da pregiudizi politico-ideologici di quelli di Sturzo e di Ferrari. Come avrebbe potuto essere diversamente, del resto?
Queste osservazioni non intaccano, tuttavia, la validità di molte delle osservazioni del libro di De Felice per ciò che attiene alla presenza, nella letteratura sul fascismo, delle voci dei popolari. In particolare mi sembra accettabile, e degna di sviluppo l’intuizione defeliciana, m utuata del resto dall’introduzione di Giuseppe Rossini alla raccolta di scritti di Donati uscita nel 1956 presso le edizioni Cinque Lune5, sulla opportunità di porre nel dovuto rilievo anche il contributo all’interpretazione del fascismo fornito da un autore, come Donati, che, a differenza di Sturzo e di Ferrari, non arrivò a produrre un’opera d’insieme sul fascismo, ma che lasciò i frammenti, per così dire, di una possibile ricerca sistematica sparsi nei molti articoli da lui scritti, particolarmente in quelli dell’esilio, e più particolarmente ancora nei contributi pubblicati tra la fine del 1928 e gli inizi del 1930 nella rivista “Il Pungolo” e in vari appunti inediti.
Altrettanto condivisibile, per alcuni aspetti, è la collocazione operata da De Felice di Donati e Ferrari tra gli autori di scritti sul fascismo appartenenti ad una categoria un po’ speciale,
da lui definita degli ‘eterodossi’ cioè al gruppo degli “antifascisti democratici anticoncentra- zionisti”6: sebbene sia alquanto sorprendente che lo stesso autore, ponendo alle radici di questi ‘eterodossi’ le opere di Gobetti, Dorso, Fortunato, Salvemini, tralasci del tutto di menzionare proprio Sturzo e il suo ripensamento dell’esperienza del popolarismo e in genere del primo dopoguerra in Italia.
A mio parere le cose stanno in realtà un po’ diversamente; poiché, se gli scritti di Donati e Ferrari trovano una soddisfacente definizione sotto la categoria degli eterodossi (rispetto, s’intende, agli ortodossi della Concentrazione antifascista) è altrettanto vero che solo riconnettendo la loro opera, che chiameremo per brevità ‘storico-politica’, a quella di Sturzo, se ne coglieil vero alveo originale e comune; un alveo che, nonostante tutte le somiglianze e le consonanze con autori di altra ispirazione, come Rosselli, conserva taluni propri connotati storici e culturali, perché si spicca da un’esperienza politica specifica, che è quella del popolarismo democratico e sturziano. Il mio successivo discorso si muoverà appunto nella direzione della ricerca di una fisionomia propria dell’interpretazione “popolare” del fascismo, vista come prodotto e in un certo senso esito estremo dell’esperienza politico-culturale del popolarismo democratico: un’interpretazione che, colta nella sua genesi, può contribuire a gettare un fascio di luce (come per ogni interpretazione storica degna di questo nome) sul doppio versante del soggetto e dell’oggetto dell’indagine. I presupposti della ricerca sono i seguenti: che l’indiscutibile diversità delle personalità degli autori (accentuata dalle vicende dell’esilio) non è tale da obnubilare una certa K o in é ideologica-cultu- rale, e che questa K o in é a v e v a una dignità e un livello culturale di tale rilevanza da permetterle
> Ivi, p. 217.J Ivi, p. 218.5 G. Rossini, In troduzione a Giuseppe Donati, Scrini politici, Roma, Cinque Lune. 1956, voli. 2, pp. 1X-CXXIX.6 R. De Felice. Le interpretazioni dei fascism o, cit., p. 204.
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di generare, a partire dal corso stesso degli eventi, una piattaforma interpretativa che possedeva già i connotati di un approdo storiografico, certo non compiuto, ma di tutto rispetto, sebbene rimasto quasi senza eredi.
I “popolari” interpreti del fascism o
Procedendo per successive delimitazioni, indicherò in primo luogo, per via negativa, in opposizione a quali altre interpretazioni del fascismo tenda a costruirsi quella dei popolari in esilio. Non esiterei a dire che la più estranea e lontana dalle loro categorie politico-culturali era l’interpretazione dal fascismo come un’avventura, un atto di brigantaggio o, come si esprimeva ancora Donati, “un infortunio di lavoro”. L’esempio più clamoroso di questo vero e proprio fraintendimento veniva indicato da Donati nel libro di Trentin, L ’a ven tu re ita- lienne, uscito a Parigi nel 19287; ma nell’insieme questa visione del fascismo appariva a Donati come propria della “critica antifascista ufficiale”, alla quale Donati stesso riteneva avessero contribuito anche uomini come Nitri e Salve- mini8. Potremmo parlare rii una critica ante litteram alla concezione del fascismo come parentesi, vista emergere sullo sfondo di un arco molto ampio di posizioni ideali dell’antifascis- mo. Su questo punto è possibile individuare in Donati un’accentuazione particolare, che lo porta a riscontrare addirittura tra l’avvento del fascismo e “gli antecedenti p o li t ic i e p a r la m e n tari prefascisti uno strettissimo e fatale rapporto di causa e effetto”9. Da qui la ricerca di quelle
che definiremmo le radici non contingenti del fascismo.
Una seconda interpretazione dalla quale i popolari in esilio tendono a prendere le distanze è quella, ritenuta schematica e limitativa, del fascismo come pura reazione della classe capitalistica di fronte all’ascesa economico-politica del proletariato. In realtà, come vedremo, la dimensione della lotta di classe come canone di interpretazione storica è presente negli scritti dei popolari. Ciò che essi contestano è la riduzione del fascismo ai puri interessi economici dèi capitalismo, quindi ad una sòrta di identificazione tra i due termini. Da qui il tentativo fatto dai popolari di offrire una ricostruzione complessiva della storia del dopoguerra e delle circostanze della vittoria fascista più articolata, in termini di lotta di classe, di quella corrente negli ambienti socialisti.
Una terza immagine del fascismo, diffusa specialmente nelle opinioni pubbliche dei paesi europei e che i popolari in esilio tendono a smantellare (consapevoli della capacità di presa di questo Leitmotiv della propaganda fascista) è quella del fascismo come restauratore dell’ordine sociale e politico minacciato alle radici dall’ondata bolscevica del biennio rosso. Onde l’insitere dei popolari sul fascismo come fattore di sconvolgimento dell’assetto costituzionale e dell’ordine internazionale, sui rapporti fascismo-bolscevismo, e sul fascismo come totalitarismo.
In positivo, invece, possiamo rilevare come connotato più notevole della proposta interpretativa dei popolari l’attenzione prestata al fa-
7 Cfr. la lunga recensione di Giuseppe Donati, La dem ocrazia italiana e /"'avventura fascista"', pubblicata in “Il Pungolo”, 1 gennaio 1929, pp. 12-14. (ora in Scritti politici, cit., pp. 245-52).* “Mi duole dover dire che a formare, specie all’estero, questo falso principio, che rende semplicemente assurda la storia italiana degli ultimi dieci anni, hanno contribuito in modo particolare due uomini eminenti e sotto ogni riguardo rispettabili come il Presidente Nitti e il professor Salvemini: ma chi ha spinto alle estreme conseguenze la tesi in questione è stato S. Trentin [...], fino a indurre il compianto professore Alfonso Aulard a dettare questa massima: ‘L’aventure fasciste n’eat qu’un accident dans l’histoire de l’Italie, et non un résultat de cette histoire; c’est une surprise faite au peuple italien, et non l’expression de sa volonté et de son génie Una visione storica più giusta dimostra invece Luigi Sturzo, Li Italie et le fascisme, Paris, 1927 e Francesco Luigi Ferrari, Le regimefasciste Paris, 1928”: da un appunto posteriore al 1930, in Scritti politici, cit., p. 430.9 Giuseppe Donati, La crisi dei partiti e l'avvento del fascismo, in “11 Pungolo”, 1-15 agosto 1929, p. 160 (ora in Scritti politici cit., p. 404).
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seismo come appartenente essenzialmente alla fe n o m e n o lo g ia p o li t ic a , nel senso più ampio del termine; cioè come prodotto di una cruciale crisi politica, che veniva da lontano e che trovò i suoi punti di frattura a tre livelli: nella vecchia classe politica, nei partiti che avrebbero dovuto assicurarne la successione, e nelle strutture portanti dello stato prefascista, liberale e parlamentare. Da qui, secondo i popolari derivava la necessità, per intendere il fascismo, di ricostruire la storia politica del suo avvento e delle sue trasformazioni nel quadro di una crisi che, per quanto manifestatasi sul piano economico- sociale, aveva il suo fulcro e alla fine la sua più autentica coloritura storica, nella dimensione politicó-istituzionale. Peraltro, bisogna notare come l’acutezza di questa percezione della preminente natura politica del fascismo, e del suo collegamento con la precedente storia politico-istituzionale italiana (con quella che potremmo definire la storia del potere) tenda poi a sfumare, proprio in Donati, in una visione del fascismo come rivelazione dei vizi profondi e nascosti della società e del popolo italiano, con qualche sfumatura tardoromantica e vo lk sgeistlich che ricorda da vicino Fortunato e Rosselli. Aspetto, quest’ultimo, che certamente differenzia la meditazione donatiana da quella sturziana, e che non sarebbe forse così importante rilevare se non traesse spunto anche da un ripercorrimento della storia religiosa d’Italia che, come vedremo, presenta non pochi motivi d’interesse e apre alcuni interrogativi, specie in
relazione ai dibattiti sviluppatisi intorno ai Patti Lateranensi.
Le origini del fascism o
La dom anda fondamentale che sembra sorreggere la produzione dei popolari in esilio, come quella di tanti altri antifascisti dopo la disfatta, è sintetizzata da Donati in un appunto pubblicato da Rossini: “Per quale fato di maledizione — o piuttosto per quale inesorabile logica storica — le vicende della nostra generazione [...] iniziate tra tanti amplissimi auspici di democrazia e svoltesi tra tante vicende veramente rivoluzionarie si siano poi concluse con un risultato così contraddittorio”. Come fu possibile che un paese “che era all’avanguardia della libertà politica” sia precipitato “si può dire in pochi mesi [...] sotto la più dura e raffinata delle dittature; la quale si permette, senza incontrare ostacoli nemmeno d’ordine morale [...] non solo di ripristinare i più vieti e mostruosi strumenti di reazione, come la pena di morte per reato politico, ma perfino di instaurare degli istituti di rappresaglia politica che nessuna legislazione ha mai avuto” 10 11.
La risposta, per Donati, non poteva essere che una: “La democrazia almeno nel senso che questa parola ha per sua gloria nei paesi anglo- sassoni, in Italia non è mai esistita che come apparenza politica” ": abbattendola, il fascismo ha abbattuto non una sostanza di cose vissute (come il fascismo stesso, in singolare
10 Appunto citato posteriore al luglio 1930, in Scrini politici cit., pp. 426-428.11 Ivi. p. 430, Cfr. anche Dem ocrazia d i oggi e d i dom ani, in “Il Pungolo”, 1-15 agosto 1929, pp. 129-131: “Gli attuali dominatori rispondono che le istituzioni che essi hanno abbattuto erano istituzioni democratiche, e che il regime che essi hanno scardinato coll’azione diretta delle loro squadre era un regime democratico. Uguale risposta otterremmo rivolgendo questa domanda a molti degli uomini che la conquista fascista ha spossessato, a tutti coloro che, nel silenzio forzato o nella tranquillità operosa dell’esilio, sognano la ‘ricostruzione’ della democrazia dell’anteguerra e la riconquista della libertà politica che il fascismo ha annientato. Questo strano accordo di irreducibili avversari, questa curiosa identità di pensiero degli oppressi e degli oppressori sono — a mio modesto avviso — sufficienti per indurre a dubitare della fondatezza di cosi categorica affermazione. Che se poi scendiamo ad esaminare quale fosse prima della conquista fascista il regime democratico del nostro paese, quale la libertà politica di cui fruiva il nostro popolo, il dubbio cade per far luogo alla negazione assoluta, recisa, inoppugnabile della credenza che accomuna in uno strano accordo i vincitori ai vinti, i dominatori di oggi agli spossessati di ieri. Avevamo noi. in Italia prima della conquista fascista un vero regime democratico? lo non esito a rispondere no". Donati distingueva successivamente tra “forma” della democrazia e sua sostanza, giudicando la prima realizzata, ma la seconda negata dal sistema prefascista. Individuava infine nel rapporto squilibrato tra esecutivo e Parlamento, che si esprimeva nelle “dittature parlamentari”, e nella carenza di coscienza democratica i due principali aspetti di tale carenza di democrazia reale.
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accordo con l’antifascismo “ufficiale’, fa mostra di credere), bensì un puro ‘simulacro’. È, come si vede, la stessa dom anda che assillava Salve- mini in quegli stessi anni, ricevendone analoga risposta; dom anda e risposta formalizzate quasi trent’anni dopo nel saggio salveminiano: Fu l’Italia p re fa sc is ta u n a d em o cra z ia ? '2.
Il problema del fascismo si colloca, quindi, per Donati in quello della democrazia, o meglio del mancato approdo alla democrazia della storia d’Italia. Il quadro che permette di illuminare il fenomeno fascismo’ dev’essere dunque necessariamente un quadro storico di qualche spessore; non può essere un quadro a tinta unica, né per dir così, di spessore temporale troppo limitato; esso dovrà abbracciare, in qualche misura, tutto l’arco della parabola dell’Italia unita, pur trovando il suo nocciolo decisivo nella fase bellica e postbellica. Su questi dati di riferimento i popolari sono concordemente arroccati. Certamente non sono i soli tra i gruppi antifascisti ad avanzare siffatte esigenze m aturate sulla falsariga di un ben più ampio revisionismo storiografico che il problema del fascismo aveva sollecitato. Per alcuni aspetti, tuttavia, l’ala ‘popolare’ del revisionismo storico tendeva a connotarsi in modo più o meno netto rispetto alle altre. Inoltre, come cercherò di mostrare, Sturzo, Ferrari e Donati svolgevano ciascuno temi e motivi per qualche verso particolari, intrecciando, senza esserne sempre coscienti, un dialogo più articolato di quanto non appaia a prima vista. Certo, il punto d’avvio era per tutti e tre costituito da quelli che potremmo definire i “limiti” del Risorgimento. Con un capitolo su I p r o b le m i d e l R iso rg im e n to iniziava il libro di Sturzo; quello di Ferrari si apriva con una cospicua trattazione dedicata al governo parlamentare, da Cavour ai suoi epi
goni; analoga attenzione alla genesi dello stato e del sistema politico italiano sorregge gran parte degli scritti politici di Donati.
Sturzo
Il filo che lega il discorso sturziano sul Risorgimento in Ita lia e fa s c is m o è palesemente quello dello scarto tra idee o ideologie liberalnazionali e la loro realizzazione storica: “Nel fatto l’unità fu ottenuta troppo rapidamente da un popolo diviso per secoli e non omogeneo; la libertà, conservata quale fiaccola dal piccolo Piemonte, fu come donata più che conquistata dalle classi popolari; e la nazionalità affermata come auto-decisione e auto-governo da un’élite non trovava la stessa risonanza nella coscienza collettiva” 12 l3. M a l’analisi delle circostanze storiche che condizionarono questi elementi non sono, poi, se ben guardiamo, la ragione sufficiente delle carenze del processo risorgimentale secondo Sturzo; esse trovano invece una convalida nel carattere strutturalmente conservatore delle elftes, o classi politiche risorgimentali: “E i moderati che ebbero più degli altri la direzione intellettuale della borghesia, erano assai cautelosi circa le libertà politiche, e non avevano una chiara visione del liberalismo economico. Essi erano in sostanza dei conservatori atteggiati a rivoluzionari” 14. Sturzo in definitiva sembra sposare la formula del Risorgimento come “rivoluzione conservatrice”, e trovare le ragioni di siffatta connotazione nei caratteri stessi della classe politica, la quale neppure poteva propriamente definirsi borghese cioè tale da “esprimere il nesso reale della struttura economica del paese e [...] la nuova vita politica”. È vero, invece, per Sturzo, che “nel fatto fu ancora una élite intellettuale liberale moderata quel-
12 Pubblicata per la prima volta in “Il Ponte”, 1952, n. 1, pp. 12ss. Cfr. in proposito N. Bobbio, Salveminie la democrazia, in Artide! Convegno su G. Salvemini (Firenze 8-10 novembre 1975), Milano, 11 Saggiatore, 1977, pp. 113 ss.13 L. Sturzo, Italia e fascismo, Bologna, Zanichelli, 1965. p. 11.14 Ivi, p. 12.
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la che si assumeva l’onere di creare lo stato italiano, dopo aver improvvisato la nazione italiana”15.
A partire da ciò, il problema della classe politica o dirigente, intesa, mi pare, in termini classici, assume la funzione di fulcro di tutta l’interpretazione sturziana della storia d’Italia, con il fondamentale capitolo III di Ita lia e fa s c is m o l6, nel quale vengono definiti per l’appunto i termini della “crisi della classe dirigente” da cui il fascismo trae origine. È da notare in primo luogo che nella “crisi della classe politica” si esprime, secondo Sturzo, ben più che un processo di esaurimento di una dirigenza politica: si esprime invece l’alterazione e la rottura degli “equilibri che costituiscono il nesso fra struttura economica, regime politico e classe dirigente”. In questo senso la crisi della classe politica può addirittura apparire una permanenza nella storia dell’Italia unita. Ciò perché il partito che dall’inizio espresse la classe politica, pur chiamandosi liberale, si connotava per una precisa im pronta conservatrice, sicché poteva definirsi liberale solo in senso “negativo”, come oppositore cioè dei governi assoluti, dei privilegi di casta, dell’influenza dei regimi feudali e dei domini ecclesiastici “che allora rappresentavano il residuo della società del secolo XVIII” 17.
Ma appunto la natura conservatrice della classe dirigente (salvo un breve periodo in cui operarono la forza dell’ideologia nazionale da un lato e una certa effettiva corrispondenza degli interessi economici agricolo-commerciali con quelli della vecchia Destra), si tradusse in uno scarto costante fra sviluppo economico- politico e capacità di risposta della classe dirigente. Tale scarto rilevabile nell’età della Sinistra e in quella giolittiana non meno che in precedenza, si manifestò nella tendenziale accumulazione di poteri al centro, prima dal pae
se nel Parlamento, poi dal Parlamento nel governo (con la parallela trasformazione del potere parlamentare in parlamentarismo). Ma questa apparente concentrazione del potere che si spingeva fino alla instaurazione di larvate dittature, come quelle di Depretis, Crispí e Giolitti, aveva come reale conseguenza quella di render sempre più vaga l’idea italiana di liberalismo e nello stesso tempo la perdita del controllo da parte della classe dirigente di “tutte le forze vive” della nazione, con la conseguente cessione a organi irresponsabili, cioè sottratti al controllo popolare democratico, di “parte di quel che era l’effettivo potere dello stato”. Si trattava dunque di una crisi effettiva di potere che, rimasta latente e camuffata per alcuni decenni, esplose “quando scoppiò la guerra mondiale” e “si vide subito che la classe politica, che teneva in mano il parlamento e il governo, non aveva più tuttavia nel paese il potere effettivo [...]. Le radiose giornate di maggio furono il primo atto di una serie che possiamo chiamare le tappe della crisi della classe dirigente” 18. L’ultima tappa fu la marcia su Roma. Nel mezzo, tra il 1915 e il 1922, si colloca l’estrema manifestazione di questa vicenda di crisi: l’accentramento completo dei poteri dello stato e della vita civile in pochissimi uomini, tentato neH’immediato dopoguerra dalla classe politica liberale, “era l’esaurimento della stessa classe politica, che, per sorreggersi, si confondeva con lo stato”: ma in questo modo la crisi della classe politica si trasferiva nella crisi dello stato l9.
Secondo Sturzo la crisi della classe dirigente liberale aveva aperto la strada ad una nuova forma politica, quella dei partiti di massa, in particolare ai socialisti, ai popolari e ai fascisti. Ma l’analisi sturziana, almeno in quest’opera, più che preoccuparsi di entrare nella dinamica complessiva di queste forze, appare condizio
15 Ivi. p. 15.16 Ivi. pp. 55-7217 Ivi, p. 57.111 Ivi, p. 69.w Ivi. p. 7!.
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nata da tre altri problemi dominanti: 1) la valenza obiettivamente conservatrice dell’azione del partito socialista, paralizzato dalla pregiudiziale ‘anticollaborazionista’, incapace di operare sia come forza parlamentare sia come forza rivoluzionaria, battuto sia sul piano rivoluzionario sia su quello economico sia su quello sindacale, e ragione, alla fine, della permanenza di uno “spirito piccolo-borghese e fondamentalmente reazionario della classe politica”20; 2) la difesa dell’azione del Ppi e l’apologià dei suoi programmi riformistici in campo agrario, industriale e commerciale, indicati come la ragione primaria dell’avversione suscitata dal partito nelle classi capitalistiche dom inanti21; 3) come poté il fascismo, “guidato da un uomo di mediocre cultura e di poca preparazione politica”, trasformarsi da piccola formazione demagogica e sovversiva, nell’asse portante di un aspro esperimento reazionario, capace di coinvolgere “gran parte della borghesia capitalistica, del liberalismo conservatore e del clericalismo terriero”22.
Ciascuno di questi temi meriterebbe una specifica attenzione, che non è qui possibile sviluppare. Debbo tuttavia richiamare alcuni punti conclusivi dell’analisi sturziana. Il primo punto riguardava lo sbocco incontestabilmente dittatoriale e reazionario dato dal fascismo alla crisi della classe politica, sbocco al quale tesero “classi ricche e monarchia, come a cercare salvezza. Quanto al popolo, che si avanzava a realizzare la sua parte di potere politico e di vantaggio economico, fu respinto come un intruso, a cui era stato largito per errore il suffragio universale, m a che doveva scontare questo dono delle classi alte con una rigorosa sotto- missione ai loro ordini”23. Il secondo punto
riguardava la definizione della natura “totalitaria del fascismo” (cap. IX di Ita lia e fa sc is m o ), che da un lato esprimeva la sua novità storica e istituzionale, ma dall’altro lo ricollegava alla costante dominanza conservatrice del sistema politico italiano: giacché se è vero che il fascismo aveva preso il potere perché una classe dirigente in sfacelo “ne favorì lo sviluppo fino all’abdicazione e di ogni dignità e dei poteri di governo”, è altresì vero che “la fortuna dèi fascismo è dovuta all’atteggiamento delle classi ricche e conservatrici, che attraverso questa forza hanno mantenuto il potere pubblico [...]. Questo atteggiamento conservatore, con caratteri rivoluzionari, si riallaccia a tutto il movimento analogo che i ceti conservatori hanno sempre usato per mantenere in loro mano l’indirizzo del paese; onde furono conservatoriliberali nella destra, conservatori democratici nella sinistra, e sono conservatori-fascisti nell’era nuova”24.
La prevalenza in Italia di un dominio conservatore sotto veste rivoluzionaria, nonostante il variare delle forme politiche, rappresenta il corrispettivo della mancanza di un vero partito conservatore, responsabile dei suoi atti e del suo programma. Sicché la prevalenza degli interessi conservatori è avvenuta attraverso la mediazione di uomini, partiti e ideologie “che in un dato momento hanno avuto fortuna e si sono imposte”25. Il fascismo va dunque inteso sotto questo duplice aspetto: una forma rivoluzionaria che copre la sostanza di una “mediazione politica dei ceti conservatori”. Con ciò Sturzo, pur non indifferente al tema delle “forme politiche”, apriva alla coscienza antifascista un doppio fronte di attacco: quello della democrazia formale, come restaurazione del
31 Ivi, p. 80.21 Ivi. p. 98.22 Ivi, p. 109. 3 Ivi, p. 124.24 Ivi, p. 256.25 Ivi, p. 256.
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“metodo della libertà”, cui il fascismo risulta irriducibile; e quello della democrazia sostanziale.
Questa non può esprimersi se non come effettiva partecipazione del popolo al potere, e investire dunque il tema delle istituzioni politiche; onde “occorre rimettere in primo piano la questione istituzionale dell’Italia; bisogna ripigliare in pieno il problema della completa partecipazione del popolo alla vita politica, già posto in diverse maniere da Mazzini, da Cattaneo, e poi dai radicali e poi dai socialisti e poi dai democratici cristiani, divenuti in seguito partito popolare; problema che non è stato risolto dal Risorgimento in poi ed è oggi acutizzato dalla dittatura, che tuttavia non l’ha creato perché esso è immanente nel regno d’Italia. La forma costituzionale con la quale sorse il nuovo regno, non fu che un mezzo per la conquista dell’indipendenza e dell’unità; ma non si adeguò mai alla sostanza della libertà e al vero regime democratico. Perciò attraverso la formula parlamentare sono cresciute le oligarchie e le dittature, fino a questa ultima, che saltando anche le formule esterne costituzionali ha raggiunto la sua organizzazione palese e arm ata”26.
Ne derivava il terzo e conclusivo punto, che conteneva la sostanza del messaggio politico di Italia e f a s c is m o : “ Di fronte al fascismo non vi è che un atteggiamento possibile; il rovesciamento del regime operato da tutti i cittadini e da tutti i partiti, uniti sotto l’unico vessillo dell’antifascismo”.
Francesco Luigi Ferrari
La preoccupazione unitaria, così forte nel libro di Sturzo, pareva cercare una risposta
anticipata alle difficoltà di costituire un’efficace piattaforma antifascista comune. In queste difficoltà furono, come è noto, direttamente coinvolti Ferrari e D onati27: le delusioni e le frustrazioni del passato continuavano a pesare sugli antifascisti, operando come fattori di lacerazione: ancor più gravi del resto si sarebbero manifestati i dissensi alla fine degli anni venti, che vennero ad aggiungersi alle non risanate piaghe della lotta politica postbellica. Inoltre le divisioni tendevano a riflettere i diversi modi di giudicare e valutare il fascismo.
In qualche misura si può osservare che il contributo successivo di Ferrari e di Donati alla definizione storica del fascismo riprendeva e allargava il discorso sturziano di Ita lia e fa s c is m o dal punto in cui esso si era provvisoriamente fermato; con il vantaggio per loro, che i caratteri della dittatura si erano, dal 1926, ulteriormente definiti.
In Ferrari di L e rég im e fa sc is te il centro del quadro è tenuto dal tema istituzionale. Anche per Ferrari lo stato unitario e liberale nasce da un compromesso, quello tra monarchia e rivoluzione; ma l’im pronta di questa nascita si estende sulla successiva storia italiana; il suo nocciolo, del resto è contenuto nell’ordinamento statutario che assegna al monarca poteri esorbitanti e facilita la concentrazione dei poteri nell’esecutivo. Ne discende, con il cammino della storia, un progressivo distacco dello stato dal paese: la politica del compromesso sostituisce quella del consenso popolare. Anche per Ferrari, già interventista democratico, erano stati i gruppi ch’egli definisce di interventisti rivoluzionari, che, “imponendo nel 1915 la loro direttiva politica agli organi responsabili dello stato, avevano svelato l’intima debolezza dell’organizzazione costituzionale italiana”28. La
* Ivi, p. 261.27 Cfr. in particolare Giuseppe lgnesti. Momenti ilei popolarismo in esilio, in Aa. Vv.. I cattolici tra fascismo e democrazia, Bologna, 11 Mulino. 1975; Francesco Traniello, Salvemini e l'antifascismo cattolico, in Atti ilei convegno su Gaetano Salvemini, cit., pp. 157-182; Pier Giorgio Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1939), Bologna. 11 Mulino, 1975, pp. 171 ss.; Camillo Brezzi, Il cattolicesimo politico in Italia ne! '900, Milano. Teli. 1979. pp. 81-120; nonché la bibliografia sul fuoruscitismo e sull’antifascismo in esilio.51 F.L. Ferrari. Ijt régime fasciste italien, cit., p. 43.
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condotta della guerra convalidò questa situazione di crisi di un sistema. Le crisi del dopoguerra resero infine più evidente l’insufficienza degli uomini e delle istituzioni e “posero così il problema della successione della vecchia classe politica italiana”. Tra le forze che potevano raccogliere questa successione, i socialisti, i popolari e i fascisti, prevalsero questi ultimi. Perché? Perché tutti e tre questi partiti erano a loro modo rivoluzionari negli obiettivi; ma solo il fascismo riuscì a realizzare, in un certo modo, un nuovo compromesso vincente: quello tra il sovversivismo di tipo dannunziano, che con l’impresa di Fiume aveva offerto la “form a” della nuova esperienza; e gli interessi della borghesia agricola emiliana, romagnola e lombarda che fornivano “i materiali”29. Il collante ideologico di questo nuovo compromesso, che inaugurava alla fin fine un nuovo sistema politico e una nuova organizzazione costituzionale, in cui tradizione e sovversione risultavano ben mescolati, fu il nazionalismo: convertendosi dalle confuse utopie della repubblica sociale al nazionalismo, il fascismo trovava una sua base di massa, diventava un movimento nazionale, era in grado di darsi un’organizzazione armata e militare.
Per questa via il fascismo rompeva con il sistema parlamentare e con le istituzioni dello stato liberale, riproducendo, attraverso il mito dello stato-nazione deificato, una moderna immagine di governo assoluto, pretesa espressione unitaria della coscienza nazionale, in realtà pura espressione totalitaria degli “interessi particolari dell’oligarchia al potere”30. La verifica di ciò si ottiene, secondo Ferrari, mediante l’analisi delle principali componenti dello Stato fascista, considerato come oggetto specifico d’indagine e posto dunque al centro dell’attenzione del suo libro.
Lo Stato fascista a suo avviso, tendeva a riprodurre le istituzioni, i sistemi e i princìpi
dell’epoca anteriore allo stabilimento delle libertà politiche, facendo seguito, con quella che potremmo definire una ‘rivoluzione restauratrice’, alla “rivoluzione conservatrice” del Risorgimento, in cui assolutismo politico e mercantilismo economico si alleavano in modi nuovi a dimostrare quanto fosse stata “esteriore e meccanica” la libertà politica acquisita con l’unificazione, quanto poco quella libertà fosse stata interiorizzata come regola; sicché era risultato perdente ogni tentativo di eliminare la vecchia classe politica senza rovesciare le istituzioni che erano servite al suo governo. Il fascismo ha avuto, almeno, il merito di chiarire agli italiani i loro problemi politici, sorgenti da una libertà piuttosto ricevuta come dono che conquistata a prezzo di sofferenze e di sangue. Il fascismo ha dimostrato, almeno, che in Italia “sotto l’apparenza del regime rappresentativo e sotto la maschera della democrazia, si nascondeva un’oligarchia di mediocrità, persino incapace di difendere seriamente le proprie posizioni privilegiate. Esso ha fatto svanire le illusioni dei retori del miracolo dell’educazione politica del popolo italiano dopo il Risorgimento. Ha mostrato l’ignoranza di tutti i doveri presso coloro che sempre proclamavano i loro diritti. Ha spezzato l’equilibrio instabile tra le invadenze dei governanti e la licenza dei governati, nel quale si riassumeva la libertà politica che il popolo italiano credeva di possedere”31.
Giuseppe D onati
All’interno di questo ampio e sufficientemente consolidato tessuto interpretativo, nel quale sono ben rinvenibili le tracce di apporti che provengono da disparate direzioni (il Salvatorelli di N a zio n a lfa sc im o , il Bonomi di D a l s o c ia lism o a lfa sc ism o , il Missiroli di U na b a tta g lia p e r d u ta , e ancora e sempre, sullo sfondo, Gobetti e Salvemini), m a pur organizzati in un
Ivi, p. 46. ® Ivi, p. 71.” Ivi, p. 362.
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contesto ben contrassegnato dal retroterra originale di un’esperienza politica come quella del popolarismo, si collocano certamente anche i contributi donatiani all’interpretazione del fascismo. Vi si collocano tuttavia con accenti propri, i quali non sembrano puramente riducibili al carattere più contingente degli scritti di Donati, articoli di rivista o frammenti non organici (anche se tale carattere offre di certo qualche problema ermeneutico non secondario).
In sintesi, rileverei come proprie di Donati alcune peculiarità: 1) una più intensa vis polemica che investe, seppur in diversa misura, tutte le forze politiche protagoniste del secondo dopoguerra, e quindi anche il partito in cui egli stesso aveva militato; 2) un maggior interesse alla dimensione sociale della lotta politica, e dunque alla sua ricostruzione in termini di lotta di classe, sebbene al di fuori degli schemi messi in circolazione dalla cultura socialista; 3) una propensione a individuare, come materiale utilizzabile ai fini di una ricostruzione storica del fascismo, taluni di quelli che potrebbero definirsi i caratteri originali della storia del popolo italiano, non senza concessioni allo psicologismo e al moralismo, ma con intuizioni o abbòzzi di spiegazione relativi al fascismo sfocian- ti nel campo poco battuto, sebbene non trascurabile, della morale collettiva, delle ideologie sommerse, delle subculture di origine religiosa.
Naturalmente le linee portanti dell’interpretazione donatiana risultano vicine a quelle stur- ziane; ma va a mio avviso rilevato, che più di quella di Sturzo risulta frutto di un complesso itinerario la formulazione delle tesi donatiane sul fascismo. Non si deve infatti nascondere una certa propensione di Donati a guardare al fascismo, almeno fino al 1923, con occhi non completamenti ostili, certo meno ostili di quelli
con cui Donati guardò, fin da prima della fine della guerra, ai “nemici della patria, giolittiani, clericali e socialisti”32. Sono infatti le forze anti- interventiste che raccolgono la più spiccata avversione di Donati. Così come per un lasso piuttosto lungo di tempo, sono le colpe e le debolezze dei partiti “costituzionali” che sembrano attrarre la maggior attenzione di Donati, fino a suggerirgli accenti giustificazionisti verso il movimento fascista, “reazione spontanea e vigorosa contro un incombente e sconsigliato tentativo di disgregazione nazionale e sociale, contro cui il liberalismo parlamentaristico si era dimostrato incapace di resistere autorevolmente“33.
Su questa falsariga Donati m ostra di credere, più di Sturzo e di Ferrari, ad un “prossimo” periodo di regolare ripresa della lotta politica34, insomma di normalizzazione del movimento fascista, di una sua riduzione alla dimensione di partito costituzionale. Il fascismo gli si presenta altresì, per un attimo, come il vero successore dell’organizzazione socialista del sindacato, che ha messo a nudo e utilizzato tutte le contraddizioni e i velleitarismi socialisti, per divenire a propria volta un fattore potenziale di rilancio della lotta di classe e del movimento operaio: “Non parliamo del socialismo, nella sua ideologia e nei suoi miti, ma del movimento operaio in se stesso, della lotta di classe nelle sue manifestazioni concrete, che sussiste anche quando uomini e partiti si adoprano a disciplinarla [...]. Il movimento operaio può riprendere il suo corso logico — nel modo che noi intendiamo — anche sotto la bandiera del fascismo [...]. Il problema più grave per il fascismo italiano è quello della comprensione delle ragioni e dei fini immanenti del movimento operaio [...] In ogni caso per noi è previsione che riteniamo per certa questa: che in Italia il fascismo troverà il
1:1 Relazione di Donati ai fasci interventisti, del 1918. inedita, cit. in Giuseppe Rossini. Il Mino Mar leoni ira il Viminale e l'Aventino, Bologna, 1966, p. IO." In “Il Popolo", 6 maggio 192.1u la nostra funzione, in “Il Popolo”. 13 agosto 1923. ora in Scrini politici, cit., voi. II. p. 95.
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suo elemento risolutore appunto nella ripresa del movimento operaio”35. Nel complesso il discorso sul fascismo di Donati sembra inizialmente mosso per un verso da una radicale spinta antisocialista e da una condanna senza appello pronunciata verso la classe politica liberale; per l’altro verso da un atteggiamento d’attesa critica ma non malevola.
Il fascismo gli appare specialmente come realtà composita, progressivamente inficiata dagli elementi tradizionalmente dominanti nella vita pubblica italiana “per l’azione contrastante di tutti i ‘residui’ che ha assorbito dai vecchi partiti, dal Parlamento, dai sindacati, dalle amministrazioni, dagli organismi economici parastatali, creati nell’ultimo quarto di secolo dal social-riformismo e dalla democrazia parlamentare”36.
Fatto sta che, pur dall’opposizione, Donati continuò a illudersi, a quanto sembra, sulla possibilità e la positività di “un accordo diretto Mussolini-Sturzo” come via d’uscita alla crisi italiana37.
Fascism o storico e fascism o eterno
Questa linea di tendenza politica, sorretta da un’analisi ancora incerta e per taluni versi ondeggiante del fenomeno fascista (di cui tuttavia Donati coglie meglio d’altri l’effettiva complessità), conosce una più decisa sterzata nel 1924 e specialmente con il coinvolgimento appassionato del direttore del “Popolo” nelle vicende del delitto Matteotti. Spunti di radicalizzazione del giudizio donatiano sul fascismo già si colgono negli articoli sul “Popolo” dell’estate 1924, dove si precisa l’immagine del fascismo
come “governo di una fazione” contro il governo della Costituzione, e si delinea l’insuperabile contraddizione tra la concezione dello Stato di diritto e quella dello “Stato come forza”38. Onde risuonano anche chiari accenti autocritici, come quello del 4 ottobre 1924: “Non valutam m o a sufficienza il fatale contrasto pratico che derivava dall’antitesi teorica e abbiamo scambiato, per scorie destinate a cadere nel tempo quelle che erano invece caratteristiche essenziali e permanenti del sistema musso- liniano”39.
Tuttavia non sembra azzardato dire che qualcosa rimaneva nel Donati dell’esilio del modo suo particolare di collocarsi nel panorama politico-ideologico italiano degli anni critici, e che per esempio si era manifestato nei suoi rapporti difficili con l’Aventino, e che assumerà in esilio l’aspetto dell’aperta rottura con la Concentrazione e dell’ingenua quanto pericolosa fiducia da lui accordata a taluni ambigui dissidenti fascisti40. Le tracce della precedente esperienza si possono, a mio parere, ritrovare in due costanti dell’antifascismo donatiano dell’esilio: da un lato l’accettazione di quella che Rossini definisce la piattaforma gobettiana- salveminiana di opposizione ai nemici “ortodossi” di Mussolini non meno che a Mussolini medesimo41; dall’altro la progressiva estensione del discorso sul fascismo dal piano politico a quello dell’etica collettiva.
Intendo dire, con questa seconda annotazione, che la necessità di ripensare e di reinterpretare le vicende che avevano portato l’Italia alla dittatura spingeva Donati su un doppio binario tematico, che trovava il suo momento di sintesi e di espressione più significativa nella
35 Sindacalismo operaio, in “Rassegna Nazionale”, agosto 1923, in Scritti politici, cit., p. 115.* Cerchiamo dunque di capire, in “11 Popolo”, 20 agosto 1923, ora in Scritti politici, cit., p. 105.37 G. Rossini, Il delitto Matteotti, cit., p. 34.3S L’ahracadahra di Mussolini, in “Il Popolo”, 9 settembre 1924, ora in Scritti politici, cit., p. 201.•w H ricordo di Torino, in “Il Popolo", 4 ottobre 1924, ora in Scritti politici, cit., p. 222411 Lorenzo Bedeschi, Giuseppe Donati, Roma, 1959; Aldo Garosci, Storia dei fuorusciti, Bari, Laterza, 1953; Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoruscito, a cura di Gaetano Arie, Milano, Feltrinelli, 1965.41 G. Rossini, Il delitto Matteotti, cit., pp. 165-166.
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rivista “Il Pungolo”42, dove l’intento di mettere a punto una interpretazione del fascismo alternativa a quella della Concentrazione era assunto come programma di lavoro. Per dirla in sintesi, Donati orientava la propria elaborazione intorno al fascismo a un doppio livello: quello del fascismo ‘storico’ e quello che potremmo definire del fascismo ‘eterno’. Questo secondo livello, che si esprimeva anche nella formula del fascismo delfantifascismo’, del f a scismo che è in noi’, investiva, come si è accennato, il tema complessivo, e per taluni aspetti ambiguo, del fascismo come costante della storia della società italiana.
Sul primo tema, quello del fascismo storico, le tesi donatiane non mi pare si discostassero dal quadro interpretativo che ho cercato di definire come proprio dei popolari in esilio. Nesso parlamentarismo-fascismo; natura compromissoria e alla fine autoritaria del sistema statutario; crisi di una classe dirigente, incapace di assicurare il governo dello Stato, cui si aggiunge una crisi dei partiti, di tu t t i i partiti popolari di massa; presa del potere da parte del fascismo come colpo di stato reazionario, analogo al tentato colpo di stato del ’98 e, come quello, teso a contrastare l’avanzata delle forze popolari. Questo tipo di analisi tendeva peraltro in Donati a biforcarsi verso due direzioni: quella che abbiamo già intravista delle debolezze strutturali della democrazia in Italia, riportate in ultima istanza alla storica carenza di “coscienza democratica” (e qui l’analisi donatiana si saldava su quella del fascismo eterno’); e quella della natura di classe del fascismo.
Fascism o e lotta di classe
Mi soffermerò prima brevemente su questo secondo aspetto. Come abbiamo visto, Donati era particolarmente sensibile al tema della lotta
di classe e in genere della dialettica sociale come motore della storia. Ma proprio per questo era venuto m aturando una visione opposta a quella utilizzata dai socialisti per spiegare la genesi e l’affermazione del fascismo. Il tema gli appariva importante non tanto ai fini di una valutazione storica appropriata del fascismo, quanto per una corretta impostazione della strategia di un suo superamento. Ebbene, a suo avviso il fascismo poteva bensì definirsi fenomeno di classe, ma esattamente nel senso che esso aveva realizzato “una sintesi di classe sopra il terreno ideologico-politico”43. La sua forza storica reale era consistita, insomma, nella capacità di cogliere l’esigenza, emergente nel dopoguerra, di “unificare politicamente le forze che socialmente parevano destinate a un contrasto incessante”44, e di essersi pertanto sostituito al sistema parlamentare e alle istituzioni rappresentative che avevano mancato in pieno questa funzione primaria di sintesi politica. Il fascismo, a suo modo, aveva pertanto interpretato un dato di trasformazione sociale, che non corrispondeva a quello su cui si era fondata l’azione del socialismo, sviato dalla rigidezza interpretativa del materialismo storico. Secondo Donati “se mai c’è stato nella storia d’Italia un periodo di incertezza e di instabilità morfologica delle classi, questo si è verificato in maniera davvero caotica e parossistica negli ultimi mesi della guerra e subito dopo. Lo Stato aveva espropriato e distrutto qualche cosa come il 25 per cento della ricchezza generale, che, come si sa, era modestissima e frazionatissima. I ceti medi, che sono la classe più numerosa, ne furono colpiti più duramente. [...] Sta di fatto che mai fu più intensa, in Italia la circolazione della proprietà e quella degli individui sociali come in quei 52 mesi, mai l’ascesa e la discesa sociale fu più rapida e più vasta [...]. Il cliché oratorio delle due classi, del tutto inferiori l’una all’altra,
42 Se ne veda ora l’utile ristampa anastatica, a cura di Ettore Camurani, per l’editore Forni di Bologna, 1977.44 La tona d i classe nel dopoguerra, nota edita in Scritti politici cit., p. 487.44 Ivi, p. 487.
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servì veramente a dei fini di speculazione politica parlamentare, senza avere alcun rapporto con la realtà sociale”45. Ma se la forza del fascismo consistette nella sua capacità di risposta a questa situazione di atomizzazione e di disgregazione sociale, la sua debolezza consiste nella menomazione che ha introdotto nell’ordine politico, cancellandone la base stessa, cioè i partiti, e aprendo così la strada ad una rinascita, in forme dirette, della lotta di classe. Non c’è tuttavia da illudersi che ciò avvenga rapidamente, perché, ritiene Donati, il controllo delle forze sociali realizzato dalla nuova classe politica fascista è sufficiente a paralizzare per molto tempo, con la forza dello Stato, la ripresa dello scontro di classe.
Il tema donatiano, che ho chiamato del fa scismo eterno’ si innesta e continua quello classico dei limiti del Risorgimento, nei suoi aspetti oligarchici, diplomatici, di libertà donata e non conquistata, di passività popolare e così via. In questo senso il fascismo tende a configurarsi, per Donati, come la vendetta dell’antirisorgi- mento, il riaffiorare della realtà sotterranea, di un sottosuolo storico rimasto velato, ma non intaccato dall’unificazione e dall’ordinamento liberale. Ma, a ben guardare, è proprio questo sottosuolo affiorante a rappresentare, per Donati, l’Italia reale, che riafferma quindi, attraverso il fascismo, la propria esistenza: “L’unità monarchica — scriveva Donati a Sturzo nel ’26 — fu quindi un fatto più europeo che non italiano. Mezzo secolo di libertà politica (gli italiani sono sempre stati dei liberti piuttosto che dei liberi) ottenuta in questo modo e governata dalla stessa classe dirigente che aveva guidato il Risorgimento, è sboccato ora nel fascismo, perché la coscienza politica generale non esisteva ancora o era quella arretrata e balcanica che oggi predomina. Io poi penso, e credo di non dire un paradosso, che il fascismo
è l’Italia vera, autentica, tradizionale, che si è ribellata alla bardatura europea e civile che le hanno messo addosso finalmente Cavour e Mazzini. Il fascismo è la riscossa della vecchia Italia del carnevale, delle sagre, della farina, della forca, del brigantaggio politico e dell’assolutismo dispotico, che, costretta dalla guerra europea a pagare il suo contributo di energie alle spese della civilizzazione generale, ha reagito e compiuto l’antirisorgimento”.46. E tre anni dopo, sempre a Sturzo, forzando i toni: “Tutta la nostra storia politica è fatta così. Le costruzioni romantiche del risorgimento sono dei puri artifici retorici. Noi siamo un paese senza autonom ia [...]. Il vecchio governo papale è la nostra creazione politica originale”47.
Questo genere di sciabolate, certe manifestazione di un animo via via più esacerbato e pessimista, non sono tuttavia trascurabili come sintomi di un effettivo arrovellamento ideologico; il quale in definitiva tendeva a pervenire a due ordini di conclusioni. In primo luogo la necessità che il fascismo compisse il suo ciclo, completasse il proprio processo storico, bruciasse tutte le scorie accumulate nella società italiana e ben presenti nello stesso antifascismo.
In un certo senso il fascismo ritrovava una propria tal quale legittimazione in questa funzione catartica (per c ru cem a d lucem J48 che Donati, con toni più che altrove gobettiani, finiva per attribuirgli: la fine del fascismo avrebbe dunque dovuto segnare la fine della vecchia Italia, anzi delle due Italie, ciascuna per qualche motivo inaccettabile, l’Italia retorica e irreale del Risorgimento liberale, e l’Italia reale, vinta, ma non mutata, dalla prima.
Religione e politica
Il secondo ordine di conseguenze investivano invece più dappresso le posizioni religiose di
45 Ivi, p. 490.* Lettera di Donati a Sturzo, senza data (ma del 1926), edita in L. Sturzo, Scritti m editi, voi. II (1924-1940), a cura di F. Rizzi, Roma, Cinque Lune, 1975, pp. 151-152.47 Lettera di Donati a Sturzo, del 3 novembre 1929, ivi, p. 253.* Donati a Sturzo, lettera del 1926 cit., p. 151.
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Donati, perché riguardavano il nesso tra religione degli italiani, morale e coscienza collettiva e fascismo. Su quest’aspetto il mio argomentare dovrebbe assumere un certo maggior respiro. Per un verso il tema incrocia quello del riformismo religioso di Donati; per un altro verso esso si innesta direttamente sulle reazioni e le interpretazioni donatiane dei Patti latera- nensi. Mi limiterò qui a richiamare brevemente alcune cose note49, per soffermarmi, con qualche interrogativo, su altre forse meno note o soltanto finora meno notate dagli storici.
Le cose note riguardano il tentativo, condotto non senza sottigliezza, di contrastare con argomenti articolati, con distinzioni sin troppo sapienti, tutte le reazioni ‘manichee’ di fronte ai Patti, con particolare riguardo a quelle dell’antifascismo in esilio d’ispirazione laica e socialista. Donati, come anche Ferrari, fu mosso in primo luogo dalla preoccupazione di evitare che il giudizio sui Patti piombasse come estremo dato di rottura sulle fila delfantifascismo, isolando ancor più i popolari. Da questa tensione è tutto percorso ad esempio il lungo saggio L e p r o b a b il i so rp re se d e i p a t t i d e l L a tera - rto 50, che nondimeno gli valse la fortissima disapprovazione degli ambienti antifascisti laici. Eppure l’articolo, sotto una veste complessivamente moderata, conteneva valutazioni degne, mi pare, di ogni rispetto: la legittimità della ‘questione rom ana’ che giustificava la soluzione ottenutane dal papa con il trattato; la m aturazione della conciliazione avvenuta, nei fatti, ben prima di Mussolini, il crudo realismo del Vaticano nel cogliere l’occasione offertagli da Mussolini e nel pretendere un prezzo elevato, in funzione anche della natura dittatoriale del re-\ girne: onde il segnale di forza, ma anche di debolezza del fascismo che il concordato pote
va contenere; e insieme la non riducibilità dei Patti al disegno di una nazionalismo guelfo e ateo nello stesso tempo; ma anche l’espressione dell’invincibile rifiuto donatiano di approvare i Patti per una sorta di pregiudiziale morale e insieme la previsione di una contraddizione o più semplicemente di una tensione immanente tra Stato fascista e Chiesa cattolica non risolta dai Patti se non sul piano formale; da ultimo, l’indicazione precisa di un conflitto dialettico profondo, di natura propriamente religiosa, tra la religione formalistica sanzionata dai Patti e una religione interiore e personale, liberamente accettata e praticata: sicché, “se il concordato fascistico-vaticano pretendesse di diventare uno strumento che vuol imporre, sotto tutte le sue forme una sorta di sociologia dogmatica, in forza della quale il cattolicismo in Italia guadagnerebbe forse in esteriorità e in uniformità ma perderebbe certo definitivamente in profondità e ricchezza di sentimenti interiori, Pio XI non avrebbe certo più fortuna predicando il perfetto accordo tra cattolici e fascisti, di quella che ebbe il suo omonimo predecessore Pio IX bandendo la crociata contraria dei cattolici contro i liberali”51. Da qui una tendenziale applicazione alla conciliazione di quella logica ‘catartica’ che abbiamo visto applicata da Donati a tutto il fascismo: “E allora chi potrà impedire che questa parodia di Canossa non sia il preludio della nuova Anagni?”52.
Resta tuttavia l’impressione che la Conciliazione giungesse a turbare effettivamente il filo di un ragionamento che Donati da tempo veniva svolgendo sui rapporti tra Chiesa e fascismo, un filo che si era dipanato dal tempo della condanna dell’Action française, e dai primi conflitti sui giovani cattolici, spingendosi a fosche previsioni di scontri, accompagnate da
49 Cfr. G. Rossini, In troduzione a Scritti politici cit.; G. Ignesti, M om enti del popolarism o in esilio cit.; P.G. Zimino, Im questione cattolica eh., pp. 243 ss.; Giacomo De Antonellis, Una coscienza pulita. G. D onati tra im pegno po litico v religioso. Milano, Ned. 1981. pp. 117 ss.50 In “11 Pungolo”, 15 febbraio-1" marzo 1929, pp. 42 ss., in Scritti politici, pp. 353 ss.51 Ivi, p. 48 (il passo riprodotto in Scritti politici, p. 374. contiene una lacuna che ne stravolge completamente il significato).53 Ivi. p. 48.
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duri giudizi sulla passività delle gerarchie ecclesiastiche, sul loro contributo alla diffusione di una religione esteriore, di pura convenienza e di un “ateismo pratico”51 * 53. Perché questo, in definitiva, appare il tema che appassionava veramente Donati, come confessava a Sturzo scrivendogli l’8 giugno del 1928: “Ora sto raccogliendo dei brani molto significativi, sulla situazione morale italiana e sulla religiosità che vi è alla moda, dalle lettere dei vescovi”54.
La religione, l’educazione cattolica e il carattere morale degli italiani: ecco il tema emergente che percorreva ormai da tempo il pensiero di Donati, saldandosi strettamente con le sue interpretazioni del fascismo, e che la firma dei Patti faceva riaffiorare, con violenza, dal fondo della sua coscienza.
Riaffiorava, questo tema, non soltanto e forse neppur prevalentemente negli scritti di D onati, bensì in quelli di Alessandro Di Severo, cioè dello pseudonimo con cui Donati si firmava talvolta sul “Pungolo”55, e riaffiorava con una v is polemica e con un radicalismo religioso sconosciuto al Donati per dir così “ufficiale”; sicché occorre, mi pare, prender atto dell’esistenza di un Donati assai più recisamente anticlericale di quello finora conosciuto, di un Donati che sembra ripercorrere, negli anni venti, alcuni degli itinerari del modernismo e che (anche nella vicenda di questa sorta di sdoppiamento di personalità) ricorda per qualche aspetto il caso di Buonaiuti dopo la “Pascendi”. Il problema emergente dalle pagine di Di Seve
ro è quello della fuoruscita dall’alternativa micidiale tra clericalismo e anticlericalismo, o per meglio dire delle costanti clericali che hanno punteggiato la storia d’Italia accompagnandosi ad una costante fondamentale areligiosità: sicché “come il fascismo è figlio del prefascismo”, così “l’attuale Italia areligiosa ma clericale è figlia della precedente Italia areligiosa ma clericale, anche quand’era anticlericale”56. Il nocciolo del problema italiano è allora, secondo Di Severo, quello di adire a una forma religiosa adeguata all’idea di religione messa in luce dalla moderna critica, il cui risultato è stato quello “di mettere in evidenza l’autonom ia e spontaneità del fenomeno religioso e il suo inalienabile valore etico-sociale” e insieme di liquidare progressivamente le soprastrutture sociali parassitarle o negative dello spirito religioso, rovinanti irreparabilmente “i fondamenti storici delle religioni di rivelazione, delle tradizioni e dell’autorità delle chiese cristiane in genere, e della cattolica in specie”57. In altre parole, soltanto l’approdo a forme religiose, che riaffermino il prim ato della mistica sul diritto canonico, della ‘religiosità’ sulla politica, permetteranno l’uscita dell’Italia dalle spire del clericalismo; ciò perché il “cristianesimo romano è una religione nella quale è di fede che l’autorità effettiva non risiede tanto nell’ispirazione, nella rivelazione, nella tradizione, quanto nella volontà imperiale e direttiva del papato”. I Patti lateranensi devono esser visti come “l’applicazione letterale di codesta dottrina”: essi hanno segnato la sogge-
51 Lettera di Donati a Sturzo, del 19maggio 1928, in L. Sturzo, Scritti inediti cit., p. 197: “[...] quella brava gente di Roma dà prova diessere fiacca, esitante, insensibile [...] Dottrina e atteggiamento di pura passività, indolenza morale, ateismo pratico, misticismo da poltroni ecc. [...] Sentissi quel fascistone del card. Ascalesi come tuona contro la religione di pura esteriorità e di nessun contenutomorale! Eppure lui non manca a nessuna cerimonia fascista!". Ma, proseguiva Donati a meno di un anno dalla Conciliazione, “oggi il conflitto [tra Chiesa e regime] è dichiarato ormai apertamente proprio in materia di principii. E tieni conto che il fascismo è appena agli inizii, da questo punto di vista. Il conflitto, dunque, si allargherà e diventerà drammatico, com’è nella fatalità delle cose”.54 Lettera di Donati a Sturzo dell’8 giugno 1928, ivi, p. 201.55 Cfr. indice per autori preposto alla edizione anastatica citata de “Il Pungolo”, p. 18.56 Alessandro Di Severo, II problema religioso italiano egli accordi fascisti-vaticani, in “Il Pungolo”, 15 marzo 1929, p. 54. Interessanti spunti sulla religiosità di Donati, si possono per esempio trovare in Lorenzo Bedeschi, introduzione alla antologia La terza pagina del Popolo, Roma, Cinque Lune, 1973, e in G. De Antonellis, Una coscienza pulita cit., pp.91 ss. Non mi pare sia'stato finora rilevato lo scarto ideologico tra gli articoli del “Pungolo” firmati con il proprio nome e quelli firmati con pseudonimo.57 II problema religioso italiano e gli accordi fascisti-vaticani, in “Il Pungolo", 15 marzo 1929, p. 53. La matrice modemistica riaffiorava prepotentemente nella tematica religiosa donatiana, confermata dall’esplicita citazione di un passo di Loisy.
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zione della società italiana al diritto canonico. E, polemizzando con sé medesimo (come aveva fatto Buonaiuti!), “che questa rievocazione possa riuscire im portuna ai commentatori cattolici ma antifascisti del concordato, voglio dire a Donati e a Ferrari, è cosa che mi duole sinceramente per la stima che ho del carattere e della cultura di questi due egregi uomini; ma la verità ha i suoi inalienabili diritti”58.
Ma quale verità? Neppur vera, a sentir Di Severo, è l’affermazione di sapore gobettiano (ma dalle origini assai più lontane) ripresa dallo Zanetti, che “l’inferiorità della coscienza civica degli Italiani, che il fascismo ha rivelato in maniera così drammatica, dipenda in gran parte dalla cosiddetta educazione cattolica” che ha dominato in Italia dalla Controriforma. La Controriform a non è stato fenomeno solo italiano; si dovrebbe piuttosto constatare che il cattolicesimo non ha dato agli italiani alcuna educazione religiosa, o comunque una educazione insufficiente o bastarda; ma forse il problema andrebbe ormai rovesciato riconoscendo che gli italiani, tranne eccezioni, “si son sempre dimostrati incapaci di convincimenti religiosi profondi poiché scambiano la religione col fatalismo e colle esteriorità magiche”, tanto che “la nazione è rimasta clericale per difetto di religiosità e contaminando tra di loro la religione e la politica ha soffocato in entrambe il senso della libertà”59. Questa è la mistura venefica che am m orba il genio nazionale, nonostante gli esempi eroici di libertà religiosa e politica insieme: Arnaldo da Brescia, Savonarola, Mazzini. La dom anda è dunque questa: è il cattolicesimo che ha fatto gli italiani o gli italiani che han foggiato una loro religione storica inguari
bilmente clericale? “E allora conviene una buona volta capovolgere i termini psicologici del problema storico per domandarci un po’ meno se sia stato il clericalismo a rendere gli italiani quali furono e quali sono sempre, purtroppo, e stabilire invece fino a qual punto non siano stati piuttosto gli italiani a rendere il clericalismo quale è. In altri termini: il problema attuale del connubio clericofascista è inseparabile dall’unico grande problema che andiamo dibattendo, per il quale anche il Vaticano politico è storia della storia d’Italia”60.
In ogni caso la conciliazione clericofascista Segna, secondo Di Severo, il punto terminale di una linea, iniziata con il Sillabo, ma che trova un suo preciso parallelo in tutti i dogmafismi statalistici, che ragiona cioè in termini di Stato e di Chiesa pretendendo di astrarre dalla coscienza “i cui diritti [...] sono anteriori e preminenti così di fronte allo Stato come di fronte alla Chiesa”. Lo scontro che si configura intorno ai fatti è dunque uno scontro tra mistica e politica, che non è esterno, ma interno allo stesso cattolicesimo, il quale ha sempre vissuto di questo “duello permanente”. L’uscita in avanti da questo dilemma storico sarebbe, nel caso italiano,
: l’applicazione radicale di un principio di separazione assoluta, che liberi i cittadini dalla presa dei privilegi ecclesiastici, ma lasci vivere la Chiesa e le coscienze nella libertà del diritto comune: il separatismo, insomma, come risposta al dilemma clericalismo-anticlericalismo e come avvio a una effettiva riforma religiosa intesa come autonomizzazione della coscienza. Perché altrimenti, “oggi si fa dovere agli antifascisti di combattere il dogma e l’inquisizione del Vaticano, appoggiato alla dittatura fascista, e
5,1 Ivi, p. 50. Tutto l’articolo è però da vedere. Cfr. per es. il passo: “Il problema della libertà religiosa, quale è stato posto in Italia dagli accordi del Laterano, non investe soltanto dei rapporti di carattere politico. Investe altresì il fondo stesso del fatto religioso, come esigenza razionale di religiosità e come esigenza sociale di religione. Se è vero, in altre parole, che il superamento del fascismo implichi un rinnovamento della coscienza civile degli italiani, converrà che i movimenti politici che mirano alla riforma radicale della società italiana tengano conto del problema religioso in quanto si pone (lo dirò con una formula che mi pare più espressiva benché di apparenza paradossale) come anticlericalismo religioso".w A. Di Severo, L’educazione cattolica e il carattere degli italiani, in “11 Pungolo", 15 maggio 1929, p. 100.Hl Ivi, p. 101.
F asc ism o e s to ria d ’Ita lia 1Ó3
sta bene. Ma chi ci assicura che domani non ci troveremo sotto il dogma e l’inquisizione della Massoneria appoggiata alla repubblica socialdemocratica?”61. Qual era dunque il vero Donati? Il cattolico democratico, aperto ma cauto, capace di rigore critico, ma rigorosamente ortodosso, preoccupato in primo luogo di non intaccare a nessun costo l’unità religiosa dei cattolici, come scriveva a Sturzo il 27 gennaio 193062; ovvero il riformatore radicale e tardo-
modernista degli articoli di Di Severo? Personalmente non so decidermi a una risposta, anche se mi par di cogliere in questa specie di sdoppiamento della personalità quasi il simbolo dell’ambiguità stessa degli eventi che Donati aveva vissuto, e il segno personale della natura religiosamente, prima che politicamente, am bigua della Conciliazione.
Francesco Traniello
1,1 A. Di Severo, Un program m a pratico d i politica religiosa liberale, in “Il Pungolo”, 1-15 settembre 1929, pp. 165-166. a Lettera di Donati a Sturzo, del 27 gennaio 1930, in L. Sturzo, Scritti inediti cit„ p. 256: “Sono sempre più convinto che gli accordi del Luterano sono un errore politico enorme; ma non vorrei mai che le nostre riserve potessero favorire la disunione religiosa in mezzo ai cattolici".