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Facoltà di Psicologia
Corso di laurea in Psicologia
Anno Accademico 2006/2007
Relatore: Caterina Gozzoli
Bonalumi Sara
Nr. Matricola 2704450
Il fior di prugno:
T’ai Chi Ch’üan, identità ed emozioni
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INDICE
INTRODUZIONE........................................................................................................................................................3
CAPITOLO 1 - I COSTRUTTI PSICOLOGICI IN RELAZIONE A L T’AI CHI CH’ÜAN: L’IDENTITA’ ...........7
1.1. Guida alla lettura ......................................................................................................................7
1.2. Cosa intendiamo per “identità” .................................................................................................8
1.3. Identità, formazione e narrazione............................................................................................13
1.4. L’identità nel nostro tempo.....................................................................................................14
1.5. Identità e identificazione: investimento affettivo.....................................................................17
1.6. L’identità nella letteratura cinese contemporanea....................................................................20
1.7. Identità corporea e integrazione mente-corpo..........................................................................21
1.8. Identità corporea e integrazione mente-corpo nello sport.........................................................23
1.9. Identità e identificazione nello sport .......................................................................................25
1.10. Identità e apprendimento delle arti marziali ............................................................................26
1.11. Identità e autoconsapevolezza.................................................................................................29
1.12. Concludendo … Identità e autoconsapevolezza nelle arti marziali e nello sport .......................32
CAPITOLO 2 - I COSTRUTTI PSICOLOGICI IN RELAZIONE A L T’AI CHI CH’ÜAN: LE EMOZIONI.......34
2.1. Una necessaria delimitazione del campo .................................................................................34
2.2. Cosa intendiamo per “emozione”............................................................................................35
2.3. La regolazione emotiva ..........................................................................................................38
2.4. Competenza emotiva e consapevolezza di sé: il filo rosso tra emozioni e identità ....................39
2.5. Emozioni che connettono corpo e mente.................................................................................39
2.6. Emozioni e respirazione .........................................................................................................41
2.7. Percepirsi in movimento.........................................................................................................42
2.8. Emozioni e apprendimento .....................................................................................................44
CAPITOLO 3 - L’ARTE DEL T’AI CHI CH’ÜAN............ ......................................................................................46
3.1. Il T’ai Chi Ch’üan e il Kung-fu...............................................................................................46
3.2. Il T’ai Chi Ch’üan: le scuole di pensiero.................................................................................49
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3.3. La storia del T’ai Chi Ch’üan .................................................................................................57
3.4. L’essenza del T’ai Chi Ch’üan................................................................................................60
3.5. La forza interna ......................................................................................................................63
3.6. Le tre forme di energia interiore .............................................................................................64
3.7. Collegamento tra T’ai Chi Ch’üan e Psicologia: emozioni ed identità .....................................67
CAPITOLO 4 - LA RICERCA..................................................................................................................................71
4.1. Questioni aperte e finalità della ricerca ...................................................................................71
4.2. Gli interrogativi di ricerca in dettaglio ....................................................................................72
4.3. Gli obiettivi conoscitivi: il razionale .......................................................................................75
4.4. La metodologia ......................................................................................................................77
4.5. I risultati: analisi delle interviste ai maestri .............................................................................84
4.6. I risultati: analisi delle interviste agli allievi ..........................................................................119
4.7. I risultati: analisi tra i gruppi.................................................................................................137
4.8. Conclusioni della ricerca ......................................................................................................141
CONCLUSIONI DEL PERCORSO ........................................................................................................................146
3
INTRODUZIONE
“Cielo e Uomo uniti, una sola cosa!”
(Chang Dsu Yao)
Il fior di prugno è lo strano titolo che ho scelto per il mio lavoro di tesi; questa scelta si
fonda su due motivi in particolare: uno è che il fior di prugno è il simbolo del Kung Fu (di
cui il T’ai Chi Ch’üan fa parte, insieme allo Shao Lin) e l’altro è che l’immagine del fiore,
sia esso di prugno e di altri tipi, mi sembra una metafora suggestiva, che si adatta bene a
rappresentare l’identità di una persona. La concezione di identità che mi accingo ad
approfondire è quella di un’integrazione tra le differenze, come un fiore costituito da un
centro e da diversi petali, che sono uniti, integrati a formare qualcosa di diverso dalla
somma delle singole parti. Le metafore avranno nel corso di questo lavoro un ruolo
privilegiato, perché, come ogni espediente poetico, nascondendo alcuni elementi di realtà,
ne rivelano altri, difficilmente esprimibili in forme diverse. Mi sembrano quindi
particolarmente utili per riferirsi ai costrutti psicologici in generale, e all’identità e alle
emozioni in particolare, perché sono questioni particolarmente sfuggevoli, non facilmente
descrivibili dalle persone.
L’integrazione è “mettere insieme” e contemporaneamente “tenere distinti” e si riferisce
all’integrazione tra i diversi aspetti di una persona, ma anche tra quella persona e gli altri.
Come si inseriscono le emozioni in questo discorso? Le emozioni sono il collante, ciò che
permette una forte integrazione tra gli aspetti di sé, per esempio tra la mente e il corpo, e tra
il sé e gli altri: le emozioni derivano dalla relazione con uno stimolo, sono il nostro modo di
rapportarci a quello stimolo. Da un'altra prospettiva, le emozioni sono anche un aspetto da
integrare: riconoscere le nostre emozioni, nel senso di riuscire ad accoglierle, è importante
per la vita psicologica sana di ogni persona.
La domanda dalla quale parte la mia ricerca è se il T’ai Chi Ch’üan sia uno degli strumenti
a disposizione nella nostra cultura per realizzare una migliore integrazione a livello di
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identità e di emozioni. Il corollario a questa domanda è quali siano le caratteristiche
specifiche del T’ai Chi Ch’üan, per cui quest’arte marziale riesce a sviluppare integrazione.
Riguardo alle motivazioni personali per cui ho progettato questa ricerca, c’è essenzialmente
l’entusiasmo per il T’ai Chi Ch’üan, un entusiasmo che mi anima fin dall’inizio della mia
pratica e non dà minimo segno di affievolirsi! A questo si è poco alla volta aggiunta la
curiosità sulla possibilità che alcuni effetti che ho sperimentato sulla mia pelle siano
condivisi da altri praticanti. Ho iniziato a praticare T’ai Chi Ch’üan nel 2005, è trascorso un
periodo che potrebbe sembrare lungo o breve: a me sembra breve! La mia sensazione
temporale è dovuta a più fattori: la maggior parte dei praticanti che conosco ha
un’esperienza pluriennale molto più estesa della mia e il T’ai Chi Ch’üan è un’arte così
estesa che i maestri stessi si dichiarano, umilmente, all’inizio di questa lunga strada (il Tao,
che si può tradurre come la Via), si vedono come alla base di un lungo bastone
(riprendendo le parole del maestro Chang)! Quando ho iniziato a frequentare questo corso
non conoscevo nulla sul T’ai Chi Ch’üan e credevo che avrei appreso qualche movimento,
armonico e coordinato, in un tempo abbastanza breve: consideravo un periodo di sei mesi
più che sufficiente allo scopo! Quando ho scoperto che i miei compagni di corso erano
molto più anziani (in termini di pratica) di me, ho iniziato a pensare che imparare T’ai Chi
Ch’üan e riscontrare qualche risultato apprezzabile mi avrebbe richiesto molto più tempo di
quello che pensavo! Infatti, dopo tre anni di pratica costante, mi sento e so di essere una
principiante. Nonostante questa mia inesperienza, mi sento anche parte di un gruppo che
condivide alcune conoscenze; intendendo quindi dare a queste conoscenze una forma meno
aleatoria, ho iniziato a scriverne e ho cercato di dare loro una forma culturalmente
riconosciuta e condivisibile, che fosse rappresentativa del pensiero degli esperti di
quest’arte marziale e dei partecipanti, tentando di esplicitare i termini usati e i loro
significati profondi da un punto di vista psicologico. Ho cercato così di integrare due mie
“anime” e due mie passioni, quella per quest’arte marziale e quella per la psicologia.
Alcuni punti di intersezione tra queste due aree sono apparsi nella mia mente come
un’illuminazione, derivata da emozioni provate durante la pratica e dal mio percorso di
formazione psicologica e di autoriflessione: sono argomenti collegati all’identità, alla
necessità di integrare i diversi aspetti della propria esistenza in un sé sufficientemente
continuo e coerente, alla facilitazione che la pratica del T’ai Chi Ch’üan può offrire nello
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svolgere questo compito; sono anche gli argomenti connessi con il provare forti emozioni
nella pratica sportiva in generale e nello specifico del T’ai Chi Ch’üan. Altri punti di
intersezione tra T’ai Chi Ch’üan e psicologia mi sono stati suggeriti dalla bibliografia sul
T’ai Chi Ch’üan, che spesso indaga il rapporto tra quest’arte e le emozioni, ma limita
l’analisi agli effetti che il T’ai Chi Ch’üan ha sul livello di attivazione psicofisiologica
connesso alle emozioni (per esempio, si studiano gli effetti del T’ai Chi Ch’üan sul
controllo dell’attivazione fisiologica dovuta alla collera), trascurando invece, per quel che
ho trovato, sia gli effetti inversi (delle emozioni sul T’ai Chi Ch’üan), sia il vissuto affettivo
soggettivo dei praticanti, cioè il modo in cui le varie persone coinvolte (maestri e allievi)
vivono e gestiscono le emozioni relative alla pratica.
L’intenzione del mio lavoro di ricerca è quindi di comprendere come i praticanti, intesi
come maestri e allievi (perché entrambi praticano e studiano il T’ai Chi Ch’üan) vivono
quest’arte marziale, soprattutto relativamente alla loro identità e alle loro emozioni.
Il seguente lavoro è articolato in quattro capitoli: i primi tre sono uno studio bibliografico
rispettivamente sui temi dell’identità, delle emozioni e del T’ai Chi Ch’üan.
Nel primo capitolo passiamo in rassegna il pensiero di vari autori che si sono occupati di
identità in vari ambiti; consideriamo il rapporto tra identità e narrazione, tra identità e
identificazione, tra identità e autoconsapevolezza, sempre nel quadro generale dell’identità
come integrazione dinamica, cioè in continuo sviluppo. Anche in quest’idea di progettualità
vediamo già una corrispondenza tra identità - il proprio progetto di percorrere una certa via
- e T’ai Chi Ch’üan - che è contemporaneamente la Via e il mezzo che permette di
percorrerla.
Nel secondo capitolo trattiamo il tema delle emozioni seguendo un approccio bio-psico-
sociale. L’approfondimento delle emozioni, quindi, consisterà nel vederle come un ponte
che unisce mente e corpo, e unisce l’individuo con tutto ciò che esiste nel mondo (tra cui
anche gli altri) e la cui costruzione risente delle relazioni significative in cui l’individuo è
inserito. Inoltre cerchiamo di capire gli effetti positivi che potrebbe avere l’incremento di
consapevolezza delle proprie emozioni.
Due temi attraversano questi due capitoli in modo trasversale: l’apprendimento e il rapporto
tra mente e corpo.
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Nel terzo capitolo introduciamo il lettore alla comprensione di che cosa sia l’arte marziale
del T’ai Chi Ch’üan: ne vediamo la storia, le filosofie che fondano le sue origini e ne
costituiscono l’essenza, vediamo una descrizione fisica e qualche fotografia dei movimenti;
introduciamo l’ampissimo studio dell’energia “psicofisica” Ch’i e della forza interna,
sviluppata attraverso il T’ai Chi Ch’üan.
L’ultimo capitolo riguarda la ricerca svolta sul rapporto tra T’ai Chi Ch’üan da una parte ed
emozioni e identità dall’altra. In questo capitolo sono spiegati gli obiettivi conoscitivi della
ricerca, è decritta la metodologia e sono discussi i risultati.
L’integrazione sarà il tema portante e la finalità di tutto il lavoro.
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CAPITOLO 1 - I COSTRUTTI PSICOLOGICI IN RELAZIONE AL T’AI CHI
CH’ÜAN: L’IDENTITA’
“Durezza e rigidità sono compagne della morte,
morbidezza e flessibilità compagne della vita.”
(Lao Tzu, Tao Te Ching)
1.1. Guida alla lettura
La ricerca bibliografica, che riporto in questo capitolo, mi ha guidata ad una
rappresentazione variegata e multi-semantica del costrutto “identità”: quella che segue è
l’illustrazione del pensiero di vari autori, tra cui compaiono psicologi, sociologi, filosofi e,
visto il tema della mia ricerca, anche maestri di arti marziali; sempre all’insegna della
metafora del fior di prugno, queste concezioni mi sembrano diverse e complementari,
cosicché, da questo quadro composito, vedo emergere anche una figura organizzata
dell’identità, che mi sembra di poter descrivere così: l’identità consiste in un progetto di
sviluppo; consiste nella consapevolezza di sé come individuo integrato nelle sue varie parti,
che sono vissute come sufficientemente continue e coese; l’identità può essere
rappresentata come una narrazione co-costruita; si manifesta, come processo
complementare all’identificazione, nella differenziazione di sé dall’altro.
La mia intenzione è inoltre di mettere in luce due processi in particolare, in cui vedo
connettersi la questione dell’identità e la pratica del T’ai Chi Ch’üan: l’apprendimento (con
il cambiamento che ne deriva) e l’uso del corpo. Entrambi questi temi sono affrontati sia da
un punto di vista generale (ma sempre limitato alla connessione con il nostro tema generale
dell’identità), sia dal punto di vista dello sport e, dove possibile, specificatamente delle arti
marziali.
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A questo, ho aggiunto un accenno su identità e identificazione nella società attuale,
occidentale e cinese (la scelta è motivata dal fatto che il T’ai Chi Ch’üan ha la sua antica
origine in Cina), con l’intenzione di ritornare brevemente sul tema nella parte sperimentale.
Nella stesura del capitolo, queste concezioni e questi temi a volte si sovrappongono e altre
volte si alternano; spero che, nel complesso, risultino sufficientemente integrati per il
lettore.
1.2. Cosa intendiamo per “identità”
Lo studio dell’identità non può prescindere da una rivisitazione della teoria eriksoniana:
Erikson evidenzia la natura complessa e multidimensionale dell’identità, che è indagata
nella sua formazione, perché la natura stessa dell’identità coinvolge non solo il presente
dell’individuo, ma anche il suo passato e il suo futuro (Confalonieri & Grazzani Gavazzi,
2002). Inoltre l’identità appare come l’integrazione fra le tre dimensioni di soma, psiche ed
ethos; quindi, elementi biologici, psicologici e sociali indirizzano lo sviluppo
dell’individuo.
“ Il processo di formazione di identità è una configurazione che va evolvendosi, una
configurazione che gradualmente tende ad integrare tra loro i dati costituzionali, i bisogni
libidici incompatibili, le capacità privilegiate, le identificazioni più significative, le difese
più stabili, le sublimazioni riuscite e i ruoli più resistenti.” (Erikson, 1982, pag. 71).
L’identità svolge una funzione unificatrice nell’intero corso dell’esistenza umana, (anche se
la sua formazione è particolarmente evidente nel periodo adolescenziale), permettendo
un’oscillazione tra i poli della continuità e del cambiamento, perché garantisce
all’individuo il mantenimento dell’integrazione e, quindi, la sicurezza necessaria per
sperimentarsi in nuovi ruoli e identificazioni.
Erikson considera la formazione dell’identità come un percorso di sviluppo bio-psico-
sociale, concretizzato dall’individuo attraverso le sue personali risposte a determinati
compiti di sviluppo, caratteristici della fase di sviluppo attraversata. L’esito positivo o
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negativo della transizione alla fase di sviluppo successiva sarà determinato
dall’adeguatezza delle risposte trovate dall’individuo per affrontare il compito insorto nella
fase precedente.
Il compito di costruzione dell’identità è affrontato specialmente durante l’adolescenza. Esso
consiste nei processi di sperimentazione e identificazione, per cui l’adolescente abbandona
le identificazioni precedenti e cerca nuovi modelli identificativi; sperimenta appartenenze a
diversi gruppi, nuovi e molteplici ruoli sociali, senza tuttavia impegnarsi definitivamente in
nessuno di questi. Queste esperienze favoriscono il confronto, l’autoriflessione e la
conoscenza di sé. Se affrontato in modo positivo, questo compito conduce alla costituzione
della forza di fedeltà a un impegno assunto e conduce ad una maggiore consapevolezza
della propria identità, con la percezione di un sé continuo e coerente. In ogni caso, il
processo di costruzione dell’identità non si conclude definitivamente con l’adolescenza, ma
continua nelle fasi successive, articolandosi in compiti di sviluppo diversi.
Il costrutto di identità adottato da Erikson trova un sinonimo in quello di integrazione di
Siegel (2001): a livello intrapersonale (successivamente vedremo che c’è anche un livello
interpersonale), l’integrazione è contemporaneamente di tipo sincronico (integrazione dei
vari processi mentali attivati in un dato momento in uno stato mentale coeso) e di tipo
diacronico. Questa seconda forma è quella che ci interessa di più per ciò che riguarda
l’identità, perché consiste nell’integrazione nel tempo tra i vari stati mentali, ossia tra i vari
stati del sistema, altrimenti denominati stati del Sé (Siegel, 2001). L’integrazione
diacronica consiste nell’organizzazione del flusso degli stati mentali, cioè nella rivisitazione
metacognitiva della transizione da uno stato ad un altro. In questo processo di costruzione
di coerenza è quindi basilare la capacità di tollerare il passaggio da uno stato di
organizzazione a uno di disorganizzazione (nella transizione da uno stato mentale ad un
altro) e il ritorno a uno stato di ri-organizzazione.
La capacità di integrare i vari Sé specifici in un senso di Sé coerente e unitario inizia in
adolescenza, quando il ragazzo diventa consapevole dell’esistenza di vari Sé, anche in
conflitto tra loro. Con l’emergere delle capacità cognitive e con uno sviluppo sano dei vari
Sé, che non devono essere inconciliabili, l’adolescente acquisisce la capacità di integrarli;
queste capacità di integrazione, sia sincronica che diacronica, sono dipendenti dalle
emozioni. Una disregolazione emotiva, che è associata a stili di attaccamento insicuri, porta
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a inferiori capacità di integrazione tra gli stati del Sé, che possono essere internamente coesi
ma inconciliabili tra loro. La possibilità di integrazione dipende largamente dalle esperienze
relazionali, prima quelle di attaccamento, poi quelle con altri significativi. Se il soggetto
sperimenta tipi di Sé molto diversi tra loro, a seconda delle figure con cui entra in relazione
significativa, e se questi Sé sono inconciliabili per modelli mentali ed emozionali
sottostanti, l’individuo non riesce a integrarli e quindi non riesce a sentirsi coeso.
Le capacità di integrazione vengono continuamente create e ri-create nell’interazione tra
processi neurofisiologici e processi relazionali. Le prime relazioni significative sono quelle
di attaccamento, ma successivamente anche le relazioni con i pari, con gli insegnanti, con il
partner sentimentale, con il terapeuta,… Ciò che passa nelle relazioni significative, che
influenza la capacità di creare una coerenza tra i vari Sé, è la possibilità di manifestare
apertamente i vari aspetti inerenti allo specifico Sé che viene attivato: se il soggetto può
esprimere abbastanza liberamente i suoi vari Sé, nei suoi vari contesti sociali, riuscirà a
diventarne consapevole e quindi a integrarli; altrimenti, alcuni dei suoi Sé veri saranno
mantenuti nascosti, inconsci e non riconosciuti, ma continueranno ad avere effetti emotivi
sul soggetto, che non riuscirà a dare un senso a queste sue emozioni (rimarranno stati
mentali isolati e non compresi).
In ottica sistemica (Siegel, 2001), i processi di integrazione utilizzano i fenomeni di
risonanza (influenza reciproca) fra sottosistemi diversi, che si manifestano a livello mentale
(intraindividuale) come “rientro” e, a livello relazionale (integrazione interindividuale)
come “sintonizzazione”: attraverso questi due tipi di risonanza, ogni sottosistema coinvolto
raggiunge una maggior complessità, per l’incremento della sua coesione interna in un dato
momento e per la maggior coerenza nel tempo. Sia a livello intraindividuale, sia a livello
interindividuale, la sensazione tipicamente provata è un senso di connessione, o di unità,
caratteristica per esempio della relazione con un’attività in cui si è particolarmente coinvolti
(suonare uno strumento, praticare uno sport, …).
Lo stesso autore affronta inoltre il tema dell’importanza delle narrazioni autobiografiche
per quanto concerne l’identità e l’integrazione: le narrazioni autobiografiche riflettono la
capacità di delineare un senso nel mondo interno e relazionale in cui l’individuo è
coinvolto. In particolare, la coerenza narrativa nell’Adult Attachment Interview riflette il
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grado di integrazione tra i vari aspetti di Sé. Inoltre, i processi narrativi non solo
rispecchiano la capacità di integrazione dell’individuo, ma la affinano, migliorandola.
Anche Bruner osserva che la formazione dell’identità consiste in un processo di
attribuzione di un senso soggettivo a episodi ed esperienze di per sé discontinui ma ordinati
dal lavoro della mente (Confalonieri & Grazzani Gavazzi, 2002): la mente assegna alle
esperienze un certo grado di importanza e le integra in strutture mentali differenziate, che si
esprimono attraverso le narrazioni; le narrazioni sono pensieri e racconti creati per gli altri
o anche solo per sé, in cui l’individuo cerca di dare una forma continua e coerente ai suoi
ricordi, estraendo da essi uno o più denominatori comuni e compiendo un vero e proprio
atto autobiografico di interpretazione.
La narrazione è quindi lo strumento per l’espressione della propria identità, ma ne
costituisce anche l’essenza stessa: secondo Bruner (Bruner, 1998), l’identità prende forma
e si struttura attraverso la narrazione di sé (osservato in relazione con gli altri) offerta a se
stessi (e agli altri). Evidenziamo in questa frase anche un’altra caratteristica delle
narrazioni: la loro socializzazione e il loro inserimento nelle pratiche culturali. Il soggetto
può narrare la sua storia (così come il suo presente e il suo futuro immaginato) perché è
inserito in un ambiente sociale: da una parte crea e condivide i suoi significati grazie alla
sua capacità di connettersi ad altre menti e, dall’altra parte, la sua cultura di appartenenza
gli offre schemi di aspettative validi per dare significato agli eventi e gli offre una selezione
di generi letterari entro cui scegliere il più adatto per il suo scopo.
Che l’identità non sia una realtà naturale basata su valori assoluti, ma sia costruita
culturalmente e acquisita attraverso processi sociali, evidenti in primis nell’assegnazione di
un nome, è un’idea antica (Sanguineti, 2002), che attraversa la storia del pensiero e anche
quella della letteratura. Una novità, invece, che inizia a rendersi visibile nel periodo
romantico per esplodere nel ‘900, è la concezione di un Io diviso, un’identità non integra
ma precaria. Ne vediamo alcuni esempi anche nella letteratura del ‘900: in Kafka possiamo
trovare l’espressione dell’indifferenza di identità, per cui un individuo può svegliarsi e
trovarsi fisicamente trasformato in insetto, senza che ciò implichi anche una rivoluzione
interiore; in Pirandello, il soggetto cerca di guardare se stesso nel modo in cui lo
guarderebbe un estraneo, perché considera questo come l’unico modo per conoscersi; Joyce
sostituisce il flusso di coscienza, quindi un monologo interiore che fluisce senza fine, al
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discorso del soggetto guidato dalla ragione. Attraverso questi autori e i loro testi, vediamo
come sia cambiata la concezione di identità: ci parlano dell’impossibilità di conoscere la
propria identità come un’entità che può essere congelata, sezionata e studiata in un
momento della sua esistenza; l’identità può apparire solo nel suo divenire storico. Il
problema non è più “conosci te stesso”, motto che sottintende l’esistenza di un’identità data
dalle esperienze passate, fissa, che attende di essere scoperta, ma il motto diventa
“trasforma te stesso”. Il passato di un individuo non ha di per sé valore conoscitivo, ma ha
valore per il modo in cui si esprime nell’attualità delle sue scelte riguardo al presente e
futuro. Possiamo quindi affermare che la conoscenza si sviluppa nell’attività pratica e che
l’identità si manifesta e si compie nella prassi. “L’identità si definisce attraverso la
conoscenza non di quanto esiste già, ma attraverso un processo di sviluppo e, soprattutto,
l’elaborazione di un programma.” (Sanguineti, 2002, pag. 145). Il soggetto è quindi prassi,
lavoro di costruzione ed è quindi più esposto, rispetto al passato, all’autocoscienza e, con
essa, a maggiori tormenti e angoscia sulla sua identità.
Anche Kaneklin e Gozzoli (Kaneklin & Gozzoli, Identità adulta al lavoro e cultura della
flessibilità, in press.) partono da un’idea di identità che “diviene”, all’interno dell’attuale
società che promuove la flessibilità e la globalizzazione. Questo comporta vantaggi e rischi
per l’identità personale: da una parte maggiori opportunità di accrescere le proprie risorse
conoscitive, dall’altra il pericolo di non riuscire a trovare un senso alle incongruenze.
Bisogna ripensare l’identità, passare da una concezione di “permanenza” a una di
“continuità”, dove la continuità si esprime tra interno ed esterno, coinvolgendo cioè non
solo l’individuo, ma il sistema relazionale in cui è inserito: l’identità non ha luogo
nell’individuo, ma è il prodotto delle varie relazioni significative di cui è parte.
Anche gli autori del modello sistemico (Beebe & Lachmann, 2002) sostengono una tesi
relazionale dell’identità. Questo costrutto è qui concepito come prassi; ma nessuna azione
(prassi) può avere luogo individualmente, perché ha sempre un corrispettivo in un “altro”,
quindi ogni prassi è relazionale. Per questo motivo non ha senso intendere l’identità come
“appartenente” a un individuo, ma come un progetto co-costruito nelle relazioni
significative. Sullivan (1964) ipotizza che una persona abbia tante identità quante sono le
sue relazioni sociali e questa concezione viene ripresa da Beebe e Lachmann per spiegare
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come l’organizzazione dell’individuo venga continuamente forgiata dai molteplici contesti
diadici a cui appartiene.
L’attuale ampliamento dei contesti di appartenenza (di cui discutiamo nei paragrafi
seguenti) si riflette, quindi, sull’identità costituendo un ulteriore motivo di ansia: infatti,
questo comporta un aumento della naturale paura delle relazioni ed il rischio di ritirarsi dal
legame con l’altro, generando una fuga nell’individualismo e un impoverimento
dell’identità1.
È soprattutto nella prospettiva psicosociologica che si evidenzia l’intreccio tra la
componente individuale e sociale dell’identità. Secondo questo approccio, infatti, l’identità
può essere definita come il punto di intersezione tra le logiche psichiche e le logiche sociali:
essa rappresenta un processo mai finito di costruzione psicologica e sociale. In quest’ottica
di forte integrazione tra individuo e società, quindi, la crisi del processo identitario emerge
come effetto di mutazioni e cambiamenti profondi a livello sociale, che la persona non
riesce a gestire. In particolare, nell’attuale società, le mutazioni sono così profonde e veloci
da mettere in discussione i punti di riferimento che prima permettevano di provare un senso
di continuità e coerenza: il progetto dell’identità, in tale contesto, è sottoposto a rischi
molto maggiori che in passato (Orlando, Kaneklin, & Gozzoli, 2005).
1.3. Identità, formazione e narrazione
Abbiamo visto come il costrutto di identità sia inteso attualmente come progetto individuale
di sviluppo: questa concezione lo mette, inoltre, necessariamente in relazione con il
1 La società contemporanea è caratterizzata da comportamenti sempre più individualistici, che sembrano
nascere da un aumento di ansia sociale, legata al fatto che all’individuo è sempre più richiesto di costruire e di
re-inventare continuamente il senso del suo lavoro, dei suoi rapporti interpersonali, della sua identità. Una
possibile soluzione adottata dagli individui è l’isolamento emotivo: la persona cerca il proprio riferimento
solo nel proprio mondo interno e rischia così di scindere il suo mondo mentale da quello esterno. Le relazioni
sociali esistono solo in presenza: sono vissute come svincolate dal sé e sono rappresentate come rapporti che
possono essere interrotti, quando necessario per tutelare il sé, senza conseguenze emotive per il soggetto.
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costrutto della formazione e apprendimento. Vorrei allora introdurre anche qualche nozione
sulle attuali concezioni di formazione e apprendimento.
Kaneklin e Scaratti (1998) evidenziano, a questo proposito, il legame tra narrazione e
formazione. Riconoscere questo rapporto significa concepire la formazione come connessa
a processi di pensiero e di elaborazione e adottare un’ipotesi di apprendimento
dall’esperienza, che valorizza le situazioni operative concrete, all’interno delle quali i
soggetti riescono a costruire il loro rapporto con la realtà. Riconoscere questo rapporto (tra
formazione e narrazione) significa affermare una concezione di conoscenza come processo
di costruzione interattiva, negoziale e situata.
Inoltre, intendere la formazione come interconnessa alla narrazione ha importanti
ripercussioni metodologiche e teoriche. Dal punto di vista metodologico, il riconoscimento
della connessione tra formazione e narrazione significa che i ricercatori avvertono meno
l’esigenza di paradigmi assoluti e sono più disponibili al confronto tra modelli teorici e
approcci diversi ma complementari. Dal punto di vista teorico, la valorizzazione della
narrazione consente un approccio interdisciplinare, permettendo una migliore comprensione
dell’uomo-persona nella sua globalità.
Dal punto di vista del costrutto di identità, questa concezione consolida il nesso tra identità
e narrazione e tra identità e processo di sviluppo progettuale scelto dall’individuo per se
stesso. Si potrebbe anzi considerare l’identità come il luogo intermedio in cui avviene
l’interazione tra i processi della narrazione e della formazione, il luogo interno/esterno dove
avviene la riflessione sull’esperienza, necessaria per l’apprendimento inteso in senso
formativo.
1.4. L’identità nel nostro tempo
In questo paragrafo intendo evidenziare alcuni aspetti della situazione sociale attuale, per
gli effetti che possono avere sull’identità individuale.
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Iniziamo con il considerare la prospettiva di Bauman (Bauman, 2005), per il quale la
società della prima modernità, nonostante risultasse dalla distruzione della comunità
premoderna (la Gemeinschaft), è stata in grado di rigenerare delle forme di aggregazione
sociale (stati-nazione, classi,…) capaci di tenere unite le diverse componenti sociali. La
nuova società, e la cultura consumistica che la alimenta, è responsabile proprio della
distruzione di quelle strutture. La società dei consumi non è infatti una nuova modalità di
associazione: è un modello atomizzato, non più della somma delle sue parti. La
conseguenza di questo vuoto è un’estremizzazione dei processi di individualizzazione. Agli
individui isolati della società globalizzata tocca, infatti, il duplice compito di dover
risolvere singolarmente i problemi che originano in ambiti sempre più al di fuori della
propria portata, e di dover scegliere, altrettanto singolarmente, la propria identità sociale e
la propria appartenenza di gruppo. Paradossalmente, la società globalizzata accentua
proprio quei processi di esclusione, ghettizzazione e frammentazione, che sono anche gli
ostacoli alla creazione di una comunità intessuta di comune e reciproco interesse: la sola via
percorribile, secondo Bauman, per contrastare i devastanti effetti della globalizzazione.
Le recenti vertiginose accelerazioni culturali, avvenute sotto la spinta del processo di
globalizzazione, hanno sottratto a molti individui la percezione della propria identità,
creando una sorta di “furto identitario”2. Secondo Bartholini (2003), le soluzioni
attualmente trovate alla questione della costruzione dell’identità sono: adottare la maschera
identitaria dei parvenu globalizzati, tipici dell’Occidente avanzato, oppure quella dei paria
etnocentrici, tipici dei paesi periferici del mondo, oppure ancora rientrare nella categoria
dei nuovi superuomini. Ciascuno è la maschera di se stesso, è uno e nessuno: uno perché
può adottare una maschera, un simulacro identitario; nessuno perché l’individuo rimane
privo di reale consapevolezza di sé, non essendo la sua identità frutto di scelte e riflessioni,
ma un simulacro posticcio, nel senso di non autentico e temporaneo. L’individuo non è più
2 Bauman ci parla, infatti, del passaggio da una società fondata sul lavoro e orientata da una progettualità di
lungo periodo, a una società dei consumi, condizionata da una prospettiva a breve termine, istantanea,
frammentaria ed episodica. Ovviamente, le due forme di società plasmano figure sociali differenti: nella prima
è centrale la figura del lavoratore, soggetto politico per eccellenza; nella seconda emerge quella del
consumatore, soggetto massimamente impolitico. E se, come sappiamo, l’identità si definisce nella sua
progettualità, capiamo in che senso la società attui questa forma di furto identitario.
16
possessore di un’identità, ma è un homo multiplex, affittuario di una serie di
rappresentazioni occasionali.
L’identità è, secondo Taylor (Bartholini, 2003), un’esperienza individuale che non può mai
essere completamente scissa da quella sociale: le due parti, quella individuale e sociale,
sono le due facce della stessa medaglia, che testimoniano l’impossibilità di intendere
l’uomo scisso dal suo contesto sociale, cioè dalle relazioni di cui concretamente fa
esperienza. Questa reversibilità dell’identità testimonia anche la sua naturale dialettica:
l’identità si forma come dialogo tra l’io e gli altri, prende forma distinguendosi dagli altri di
cui l’io fa esperienza e creando con loro relazioni di somiglianza, non di equivalenza,
quindi sempre caratterizzate da confronti e conflitti. Il processo di globalizzazione ha
allargato i cerchi gruppali in cui è inserito il soggetto, aumentando potenzialmente la carica
conflittuale intrinseca in ogni relazione. Se non facciamo esperienza di questa conflittualità
è perché accettiamo dei compromessi, che evitano la dialettica distruttiva, ma negano anche
la possibilità di distinguersi. L’accettazione di una maschera identitaria posticcia va proprio
nella direzione del compromesso tra la necessità umana di distinguersi (sapere chi si è) e la
spinta sociale alla convivenza con un numero di persone crescente: l’alternativa è tra
scegliere un suicidio sociale, attraverso l’auto-emarginazione dei paria, che preserva il
nostro Sé dalle incursioni sistemiche, oppure accettare di seguire il carro dei parvenu
globalizzati, nelle due forme possibili dell’uomo massa3 e dell’individualista sistemico4.
L’alternativa, proposta da Bartholini (2003), è la creazione di un’identità
trascendentalizzata, derivante da un continuo processo astrattivo-riflessivo dell’io che
pensa, in un dialogo con gli altri io: scegliendo volontariamente di porsi in un’astratta
3 La figura dell’uomo massa richiama il quarto assunto di base di Turquet sui gruppi. Mentre è in azione
questo assunto di base (dell’unità), i membri del gruppo entrano in un funzionamento mentale per cui
l’unione tra loro è la soluzione ottimale: essi allora entrano in uno stato di partecipazione passiva, perdendo la
loro individualità per ottenere un’inclusione salvifica.
4 Se l’uomo massa ricorda il funzionamento del quarto assunto di base dei gruppi, l’individualista sistemico
richiama l’attività mentale del gruppo attiva nel quinto assunto di base (Me-ness), individuato da Lawrence,
Bain e Gould. In questo caso, è il rifugiarsi nel proprio mondo interno che viene vissuto dall’individuo come
soluzione salvifica, perché consente di allontanarsi dalle relazioni con il gruppo, avvertito come persecutorio.
17
“posizione originaria”, al di là del posto occupato nella geografia del mondo; mettendosi
nei panni degli altri e cercando con loro un confronto e un’intesa; vivendo la dialettica ed
entrando nella dinamica del mutuo riconoscimento e auto-riconoscimento identitario. Nella
pratica dialogico-astrattiva che sublima il conflitto, le differenze entrano in relazione tra
loro e ciò permetterebbe il formarsi di identità riflessive, di individui non più
omogeneizzati, ma decisori nella prassi politica locale.
Riprenderemo queste considerazioni nel paragrafo seguente, osservandole però da un punto
di vista diverso, cioè in termini di investimento affettivo da parte del soggetto su Ego e su
Alter (che equivale a dire sul Sé e sull’oggetto).
1.5. Identità e identificazione: investimento affettivo
In questo paragrafo vediamo come alcuni autori hanno inteso il costrutto di identità
mettendolo in relazione al costrutto suo complementare di identificazione: introduciamo
quindi la concezione di Gallino (1999) di identità come differenziazione di Ego da Alter;
inoltre, propongo un’integrazione tra la teoria degli investimenti affettivi su Ego e Alter
(Gallino, 1999) e quella già discussa, di stampo più sociologico, di Bartholini (2003);
infine, vedremo che Gallino rimanda anche all’altro concetto, trattato nel paragrafo
precedente, di frammentazione attuale, imputandola però alla frammentazione delle
identificazioni.
Identità e identificazione sono come due lati della stessa medaglia: non esiste l’una senza
l’altra. Per identità, Gallino (1999) intende la tendenza e il desiderio dell’individuo (Ego) a
sentirsi differenziato rispetto agli altri significativi (Alter), incontrati dallo stesso nelle
associazioni (intese come contesti sociali) di appartenenza; per identificazione intende
invece la tendenza e il desiderio di sentirsi affiliato e somigliante ad Alter.
Attualmente, sia Gallino che Bartholini (2003) evidenziano una moltiplicazione delle
associazioni di appartenenza di ciascun individuo, che comporta, come abbiamo visto, sia
un aumento della convivenza sociale (con un aumento potenziale anche della carica
conflittuale, intrinseca in ogni relazione), sia un senso di frammentazione.
18
Anche Bauman (Bauman, 2000) concorda con questa visione, recuperando l’espressione di
Gellner dell’“uomo modulare”: l’uomo di oggi è un camaleonte sociale perché prende
costantemente in prestito frammenti di identità da qualsiasi fonte disponibile e li assembla a
seconda delle situazioni in cui si trova. L’identità è ora rappresentabile dalla metafora
dell’“armadio componibile” e non più dell’“armadio costituito da un solo pezzo”. Bauman
non si riferisce, però, all’esistenza di un’identità multifattoriale nell’individuo, per cui egli
può attivare uno specifico set di molteplici sé tra loro accorpati, a seconda del contesto hic
et nunc in cui si trova; non si nega, cioè, il vantaggio dell’adattamento flessibile della
propria identità al contesto. Quello che qui si discute è il rischio attuale che l’individuo non
investa più su nessuno dei contesti sociali in cui è apparentemente inserito. Questo perché
sono possibili contemporaneamente molteplici processi di identificazione, ognuno dei quali
mai risolutivo: ciascuno di noi è ovunque parzialmente dislocato e le sue identificazioni
sono costantemente in espansione.
Le strategie utilizzate dal soggetto per gestire la moltiplicazione delle appartenenze possono
essere distinte in due tipi: la divisione dell’Ego in tempi sequenziali che si susseguono in
modo serrato, o la costruzione di relazioni seriali, velocemente abbandonate per costruirne
di nuove. La differenza è dovuta al tipo di investimento affettivo che lega il soggetto
all’associazione di appartenenza (autori diversi potrebbero denominarlo anche
“investimento affettivo sull’oggetto”): la prima strategia, infatti, consiste nella divisione-
frammentazione dell’investimento, che risulta comunque intenso5; la seconda strategia
sembra equivalere a un avvizzimento dell’affetto, con un investimento ridotto. Entrambe
queste strategie si riflettono in modo diverso non solo sull’identificazione, ma anche
sull’identità.
Integrando la teoria di Gallino e di Bauman, possiamo quindi tentare di spiegare la causa
per cui l’individuo è tentato al ritiro del suo investimento affettivo nei confronti dei contesti
5 Questa situazione coincide con quella descritta da Freud (Freud, 1947, pag. 186): “Quando queste
identificazioni diventano troppo numerose, troppo intense, incompatibili le une con le altre, ci si trova di
fronte ad una situazione patologica, o, per lo meno, di fronte al preludio di una situazione simile. Ne può
risultare una dissociazione dell’io, le cui differenti identificazioni riescono a isolarsi le une dalle altre
opponendosi resistenze. … Si assiste a conflitti che non sono sempre e necessariamente patologici.”
19
sociali. Secondo Gallino, ciò è dovuto all’attuale moltiplicazione dei contesti di
inserimento; nella prospettiva di Bauman, a questa espansione sproporzionata, si aggiunge
l’incapacità dell’attuale società dei consumi di aggregare, di riconoscere senso alla presenza
degli individui; tutta la partecipazione del singolo si risolve nel consumare un prodotto,
anche quando la sua partecipazione avviene nel lungo periodo. E per consumare un
prodotto, non c’è bisogno di mobilitare affetto; ma nel lungo termine, nei tempi
dell’identità, quali sono gli effetti dell’assenza di investimento? Proviamo qui di seguito a
rispondere, analizzando l’attuale situazione.
Le molteplici possibilità di associazione da una parte accrescono supporti e opportunità per
sperimentare nuove identità e identificazioni e abbandonare quelle precedenti non più
gratificanti, dall’altra costituiscono un rischio di erosione di identità e identificazione:
l’alternanza reiterata, la pendolarità tra formazioni sociali e istituzionali discontinue e
incomunicanti tra loro, impedisce a molti Ego il consolidamento delle proprie identità.
Infatti, la formazione di identità e identificazione avviene in conseguenza dell’investimento
affettivo su Alter (cioè sull’oggetto), che richiede come condizione necessaria un certo
decorso temporale. L’investimento affettivo su Alter è necessario in primis, per lo sviluppo
di identificazione con i simili, che è un processo filogeneticamente più arcaico rispetto allo
sviluppo dell’identità (riconoscere i simili e affiliarsi a loro era utile per la sopravvivenza
dell’individuo e per evitare il pericolo dell’avvicinamento a individui diversi e pericolosi)
(Gallino, 1999); lo sviluppo dell’identità, risultante dalla differenziazione dal simile, è un
processo complementare, che richiede un investimento affettivo diverso e più complesso
(per questo filogeneticamente seguente, secondo Gallino), ma implica comunque anche un
investimento affettivo su Alter (personalmente ipotizzerei che richieda un investimento
affettivo su Ego, ma contemporaneamente su Alter per mantenerne l’affiliazione).
Vorrei evidenziare le somiglianze con i concetti discussi da Bartholini (2003): l’identità
trascendentalizzata, che sembra all’autrice l’unica soluzione identitaria possibile nella
situazione attuale, consiste in un continuo dialogo e confronto tra sé e gli altri, in modo da
evitare sia l’isolamento, sia il “dissolvimento” della propria identità; il dialogo equivale a
un investimento affettivo reciproco sia su Ego che su Alter; questi concetti inoltre
richiamano molto da vicino una concezione di identità come processo, che viene co-
costruito nelle relazioni significative.
20
L’attuale serialità e pendolarità tra le diverse identità e identificazioni del soggetto
ritraggono la sua inclinazione ad un investimento affettivo ridotto e diviso su ciascuno dei
molteplici oggetti con cui crea relazione. Questo, secondo Gallino (1999), produce effetti
sia sull’identificazione sia sull’identità (infatti, è evidente il nesso tra questa descrizione
delle tendenze attuali e il rischio di un’integrazione carente tra i vari contesti di
appartenenza dell’individuo); però, l’autore evidenzia che le molteplici appartenenze
sembrano attivamente ricercate dall’individuo attuale, più che essere passivamente subite e
perciò ipotizza che non si debba diagnosticare tanto una crisi dell’identità del soggetto
attuale, quanto un suo deficit di identificazione.
1.6. L’identità nella letteratura cinese contemporanea
Vorrei ora introdurre altre riflessioni, di tipo prettamente sociologico, ma nate nell’ambito
della letteratura contemporanea, riguardanti l’identità nella Cina attuale, vista attraverso lo
sguardo di giovani scrittori cinesi. Nell’introduzione a una raccolta di racconti di questi
autori (che molti critici definiscono la “Nuova Generazione”), si legge che il filo rosso che
accomuna questi racconti è il senso di frammentazione provato dai personaggi
(Meinshousen, 2006): la ripetizione di immagini di frammentazione è l’espediente narrativo
utilizzato dai diversi giovani autori per comunicare il senso di smembramento provato dai
loro personaggi nel confronto con la modernità. La modernità, che in Cina consiste nel
confronto con la globalizzazione e nel confronto con l’Occidente, provoca emozioni di
attesa speranzosa e contemporaneamente di paura: la modernità è desiderata perché porta
con sé benessere e speranze di libertà; è temuta per l’insicurezza dovuta a ogni
cambiamento e per la paura di perdita del proprio senso, dato dalle tradizioni.
Per cogliere il riflesso che, secondo questi scrittori cinesi, la modernità ha sull’identità
dell’individuo, prendiamo a titolo di esempio il personaggio del racconto “Telecomando”:
la sua casa è invasa da moderni elettrodomestici telecomandati, che sono la sua unica
passione e sono anche rappresentazione della modernità nella sua duplice faccia di
benessere e libertà di scelta, ma anche di cambiamento difficilmente gestibile
dall’individuo, perché conduce all’eccesso (l’obesità del protagonista) e all’isolamento.
21
Uscendo dalla metafora usata dallo scrittore, il protagonista “subisce” un cambiamento in
vari aspetti della sua vita personale, a causa di un cambiamento nella realtà sociale
“esterna” all’individuo. Non riuscendo a gestire questo cambiamento, ma dovendosi
comunque adattare ad esso, egli adotta come strategia l’accettazione passiva di quello che
capita davanti a lui, strategia che ha però il contro-effetto di confinarlo, isolato, nel suo
appartamento, da cui tutto può vedere, ma senza essere visto. Lo sfondo è quindi una realtà
sociale attuale che blocca il desiderio progettuale, bloccando anche lo sviluppo
dell’identità.
1.7. Identità corporea e integrazione mente-corpo
In questo paragrafo riporto il pensiero di vari autori che sostengono che il corpo e la sua
rappresentazione mentale siano il fondamento dell’identità.
Innanzitutto, possiamo considerare che tutte le azioni coinvolgono necessariamente il corpo
e il corpo è una componente intrinseca all’identità che si esplicita nelle azioni, nei sintomi,
nelle memorie somatiche, nonché nella rappresentazione di sé. Anche ogni interazione è
mediata dal corpo: il sé corporeo degli individui in interazione è necessariamente coinvolto
in moltissimi aspetti.
Sul legame tra identità e corporeità, iniziamo con il ricordare che secondo Erikson l’identità
appare come l’integrazione fra le tre dimensioni di soma, psiche ed ethos; quindi, elementi
biologici, psicologici e sociali indirizzano lo sviluppo dell’individuo.
Anche Freud sostenne che l’io fosse innanzitutto e soprattutto un io corporeo e, visto che
usava il termine io in modo intercambiabile con quello di sé, possiamo intendere che il
proprio senso di sé, che si sviluppa nel tempo come un sé psicologico, abbia inizio come un
sé corporeo, basato soprattutto su input di tipo sensoriale (Krueger, 2002). L’integrazione
di questo sé corporeo, inclusa l’immagine corporea, diventa un aspetto fondamentale della
rappresentazione di sé.
22
Lichtenberg descrive il costrutto di sé corporeo come una combinazione tra l’esperienza
psichica della propria corporeità, che include le sensazioni sulla superficie del corpo e al
suo interno (vedremo in seguito che altri autori definiscono questa componente del sé
corporeo come schema corporeo), il funzionamento del corpo e l’immagine corporea
(Krueger, 2002). Lo sviluppo del sé corporeo avviene in tre fasi continue: la prima consiste
nella precoce esperienza psichica del corpo; la seconda fase corrisponde al’inizio della
consapevolezza di un’immagine corporea, con l’integrazione tra la percezione interna ed
esterna; l’ultima fase consiste nell’integrazione del sé corporeo come un contenitore del
proprio sé psicologico: è in questo punto che i due sé si fondono per formare un senso di
identità coeso.
Durante lo sviluppo sano si compie un’integrazione tra il proprio sé psicologico, che cerca
un embodiment, e il proprio sé corporeo, che cerca una mentalizzazione. L’inclusione del sé
corporeo nella rappresentazione di sé è resa possibile dalle precoci esperienze relazionali e
interattive tra il neonato e i caregivers: ricordiamo gli studi sul ruolo delle cure di handling
e holding e in generale sulla necessità, per il neonato, di una sintonizzazione caratterizzata
da calore e attenzioni nei confronti del corpo del bambino. È attraverso questo scambio di
affetto attraverso i due corpi che il bambino riesce a sentire di risiedere nel suo corpo e
poco alla volta sviluppa il sentimento di essere integrato, prova una sensazione di unità tra
mente e corpo.
Una componente del sé corporeo è la rappresentazione mentale del proprio corpo in un
determinato momento. Questa è denominata schema corporeo (Balconi, 2006) e consiste
nella rappresentazione mentale del proprio corpo, definita dalla postura, da un insieme di
movimenti e da una superficie con precisi confini spaziali. Nella definizione dello schema
corporeo sono rilevanti due categorie di input: quelli di tipo enterocettivo sono i più
rilevanti e comprendono i recettori tendinei e muscolari; l’altro tipo di input è definito
esterocettivo, perché riguarda la percezione della realtà esterna all’organismo, essendo di
natura tattile e visiva6. I due ordini di informazioni sono successivamente integrati in
un’unica rappresentazione corporea. È utile considerare anche le aree corticali che
6 Anche Freud parla del corpo (e della sua superficie in particolare) come una “fonte da cui possono emanare
contemporaneamente percezioni interne ed esterne” (Freud, 1947, pag. 180).
23
intervengono nella costruzione dello schema corporeo. Tra queste ci sono la corteccia
somatosensoriale e parietale, nonché parte del sistema limbico. Anche l’attività motoria
riveste un ruolo importante per l’integrazione delle informazioni corporee enterocettive ed
esterocettive, che equivale all’integrazione tra componenti interne all’organismo e
componenti esterne ad esso (Balconi, 2006). Lo schema corporeo ha notevoli ripercussioni
sull’identità, perché è una componente di base dell’autoriferimento, cioè della capacità del
soggetto di fare riferimento a sé come individuo distinto dagli altri.
1.8. Identità corporea e integrazione mente-corpo nello sport
Vorrei ora sviluppare i concetti esposti finora in modo generale, contestualizzandoli
nell’area dello sport e, per quanto mi è stato possibile rintracciare notizie nella ricerca
bibliografica, delle arti marziali.
In questo paragrafo cerco di approfondire il legame riconosciuto dai vari autori tra identità
e aspetti corporei, specificandolo nel contesto dello sport.
Abbiamo visto nel paragrafo precedente che il corpo è il luogo del nostro esistere, il luogo
di incontro e di possibilità di conoscenza della realtà. Per questo ogni cambiamento e
trasformazione di sé deve passare attraverso il corpo. Il corpo è quindi passaggio obbligato
per qualsiasi apprendimento7 e sviluppo. Questo è vero a maggior ragione quando
l’apprendimento implica il corpo come protagonista, per esempio nell’apprendimento di
uno sport. Ma cosa significa “passare dal corpo”? L’apprendimento sportivo vero e proprio
non è finalizzato al solo apprendimento tecnico: non basta cioè utilizzare il proprio corpo
per apprendere le tecniche, ma vengono coinvolti anche altri aspetti del sé corporeo.
Innanzitutto, verrà coinvolta la rappresentazione del proprio corpo: abbiamo già visto,
infatti, che il sé corporeo non è composto solo dal corpo come ente fisico, ma anche dalla
7 Inoltre, come vedremo nel capitolo seguente, il coinvolgimento del corpo nei processi di apprendimento e
sviluppo è necessario perché ogni apprendimento deriva da (e provoca) emozioni, che hanno una base
corporea inestinguibile.
24
sua rappresentazione mentale. Ciò significa che è necessario essere sufficientemente
consapevoli del proprio corpo, cioè bisogna avere la capacità di percepirlo in quanto ente
reale, concreto (Padoan, 2006). Una percezione corretta di sé, però, è connessa anche a
sensazioni e sentimenti, non solo a rappresentazioni. Quando questa connessione non
combacia o si interrompe, la rappresentazione del corpo, cioè l’immagine di sé, perde la sua
consistenza reale: diventa astratta, surreale. Nello sviluppo sano dell’identità corporea, c’è
alternanza tra immagine reale di sé e immagine ideale, (detto in altri termini, c’è
integrazione tra aspetti mentali e corporei) ed è questa oscillazione la fonte dello sviluppo:
essa infatti permette l’integrazione tra reale e ideale e il continuo cambiamento verso una
direzione scelta di sviluppo.
Questo è evidente in primis nell’attività sportiva, dove l’immagine ideale diventa una
nuova realtà attraverso una pratica corporea, perché è possibile un’immersione di sé in un
contesto ideale, ma contemporaneamente questa immersione è effettuata con la
consapevolezza (solo temporaneamente abbandonata) del proprio corpo reale, che viene ri-
assunto subito dopo essersi confusi nel contesto. Questa immersione però deve rimanere
temporanea, facendo oscillare la mente tra immagine ideale e immagine reale di sé. Il
rischio, infatti, consiste nella riduzione alla sola immagine ideale, con il prevalere della
rappresentazione rispetto alle sensazioni e ai sentimenti relativi al corpo reale; in questo
caso, si perde l’aderenza con il reale e si diventa una persona surreale, confusa nel contesto,
con un dissolvimento dell’identità. Un esempio può essere quello di un uomo maturo che si
identifica unicamente nell’immagine ideale e fanciullesca di uomo muscoloso ed in
competizione. L’immagine, privata del riferimento al reale, diviene un idolo che richiede in
sacrificio i sentimenti umani ed il corpo diventa uno strumento della volontà, al servizio
dell’immagine: si crea un’alienazione, derivata dalla scissione tra immagine e realtà del
proprio corpo. Il corpo diventa così un non-corpo e l’identità diviene indipendente dal suo
essere biologico, diventa surreale, non ancorata alla realtà8.
8 Questa concezione è diffusa a livello sociale più allargato rispetto al solo ambito sportivo: si può fare
riferimento, per esempio, alle tecniche estreme di manipolazione corporea. L’idea che attraversa queste
recenti diverse manipolazioni del corpo è che il corpo possa essere modificato, con l’aggiunta o la
sostituzione di alcuni pezzi, come fosse una macchina: questa idea toglie anche l’ultima illusione di un Io
dato, quello corporeo (Sanguineti, 2002).
25
1.9. Identità e identificazione nello sport
Consideriamo ora il rapporto tra identità e sport nei termini delle relazioni sociali insite
nella pratica di uno sport e quindi nei termini del rapporto tra identità e identificazione. I
risultati della mia ricerca bibliografica sono stati organizzati per cercare di rispondere alla
domanda: che tipo di relazioni si instaurano all’interno di un’associazione sportiva? Che
tipo di investimento affettivo comportano? Affronteremo successivamente, nella parte
sperimentale, la questione sul modo in cui questa appartenenza si riflette sull’identità dello
sportivo.
L’elemento sociale nello sport sembra andare oltre il semplice chiacchiericcio durante o
dopo la sessione di allenamento (Dyck & Archetti, 2003): il praticante ha bisogno di
testimoni che partecipino alle sue scoperte e ai suoi progressi, per verificarli, per discuterne
e per celebrarli. In gran parte, ciò che un atleta sa della propria performance è contenuto nei
commenti offerti o immaginati di questi “altri significativi e consapevoli”. Le relazioni
sociali interne alla propria associazione sportiva, quindi, influenzano molto l’immagine di
sé in termini di successo o fallimento e influenzano l’apprendimento di uno sport,
attraverso una funzione di “specchio attivo” svolta da istruttori e compagni.
Consideriamo un tipo particolare di relazione in ambito sportivo: la relazione di
apprendimento. L’apprendimento di uno sport coinvolge come elemento preminente
l’istruzione formale, che equivale a insegnamenti formali sul sapere e saper applicare le
tecniche del corpo caratteristiche dello specifico sport intrapreso, ma, come in ogni forma
di apprendimento, l’atleta è coinvolto anche nell’acquisizione di un saper essere, derivato
dall’immersione in particolari schemi di preferenza, di significato e di valutazione (‘the
proselytizing’). Praticare uno sport richiede la consapevolezza delle istruzioni dettate
esplicitamente da altri sul modo migliore per realizzare una performance, ma richiede anche
un certo grado di accordo collusivo su ciò che non è detto, eppure è condiviso dal gruppo di
allenamento. Da questo deriva anche la necessità, per gli etnografi dello sport (Dyck &
Archetti, 2003), di considerare sia l’azione sociale di istruzione fisica e tecnica, che avviene
nelle situazioni di apprendimento sportivo formale, sia l’azione sociale delle situazioni
26
relazionali informali, dove le persone imparano attraverso l’osservazione e l’ascolto
reciproci.
La linea che separa il training sportivo formale dall’apprendimento di tecniche del corpo
attraverso l’osservazione, l’imitazione e ciò che Mauss chiama “le circostanze della vita in
comune” è molto sottile. Per Mauss (1973) l’individuo, fin dalle prime fasi di sviluppo, è
educato all’arte di usare il proprio corpo in modi specifici soprattutto attraverso
l’imitazione delle azioni riuscite, compiute davanti a lui o con lui, da persone autorevoli e
in cui ripone fiducia.
A conferma di queste affermazioni, le persone che praticano uno sport sperimentano spesso
un senso di comunitas (Turner, 1969) nel gruppo di allenamento, che coinvolge
visceralmente individui difficilmente associabili in altri modi; e così come il gruppo è
avvertito come una famiglia, lo sport diventa un rito sociale (Dyck, Archetti, 2003), se non
quasi-religioso, per la sua capacità di connessione interindividuale, in un momento storico
in cui questa è diventata più difficile.
Questo significa che le associazioni sportive favoriscono (o addirittura si fondano, per la
natura stessa dell’apprendimento di uno sport, sull’esigenza di) un investimento affettivo
dell’individuo sul gruppo, facilitandone l’identificazione e quindi l’assunzione di
un’identità meno pendolare? Esistono caratteristiche peculiari della partecipazione a
un’associazione sportiva, che favoriscono lo sviluppo di identificazione e identità?
Cercherò di dare un contributo nel rispondere a queste domande nella successiva parte
sperimentale.
1.10. Identità e apprendimento delle arti marziali
Se l’identità consiste nel progetto di sviluppo scelto dall’individuo ed è quindi un lavoro di
costruzione in corso, vediamo come l’apprendimento, in quanto forma che imprime un
cambiamento nell’individuo, svolga una funzione importante nella costruzione dell’identità
(Padoan, 2006).
27
Abbiamo anche visto come l’identità sia in relazione con i molteplici schemi interpretativi
posseduti dal soggetto in un certo momento: tali schemi sono perlopiù inconsci e si
manifestano nelle narrazioni e, più in generale, nell’attribuzione di un significato culturale e
soggettivo agli eventi.
Qualsiasi tipo di apprendimento richiede al discente una trasformazione delle proprie
premesse, perché pone problemi che esulano dai suoi schemi conoscitivi preesistenti,
mostrandone i vincoli e sollecitandolo a creare nuovi sistemi di significato, per adattarsi
alla nuova situazione. Una fase insita in ogni processo di apprendimento è l’apertura di
domande e problemi nei discenti: è un momento “caldo”, in cui è più facile innescare
processi di riflessione sui propri schemi conoscitivi, che hanno quindi più probabilità di
entrare nei processi di coscienza. Anche l’apprendimento di un’arte marziale, derivato non
solo dagli insegnamenti formali, ma anche dalla costante pratica del discente e dalla sua
partecipazione alla vita in comune, dovrebbe sollecitare il processo riflessivo (Padoan,
2006): cercheremo di capire, prima attraverso l’esposizione bibliografica e poi nella parte
sperimentale, se il tipo di riflessione sviluppata nella pratica marziale possiede
caratteristiche distintive rispetto all’apprendimento in altri campi.
Nel caso dell’apprendimento di un’arte marziale, potremmo distinguere tra forme di
apprendimento che perseguono una trasformazione del discente accolto nella sua interezza
e forme che si limitano all’apprendimento tecnico fine a se stesso, perseguendo il primato
della prestazione assoluta e riducendo il discente a un ruolo impersonale. Nel primo caso, si
evidenzia una differenza tra praticare e saper praticare, cioè, oltre all’apprendimento di una
tecnica, si sollecita la riflessione, che è parte integrante del processo di insegnamento-
apprendimento: la riflessione consisterà sia in un pensiero sull’azione, cioè
un’anticipazione delle mosse al fine di migliorare il risultato, sia in un pensiero nell’azione,
cioè una riflessione sul modo di applicare le tecniche apprese, con cui il praticante analizza
le routine contemplate nei suoi schemi conoscitivi e le perturbazioni, riconoscendo ciò che
sta facendo. Con la riflessione nell’azione, il praticante diviene maggiormente consapevole
dei suoi schemi conoscitivi connessi con la sua azione e in tal modo ottiene anche l’effetto
di ampliare il suo schema con nuovi particolari (per esempio, diverrà più consapevole delle
sue sensazioni propriocettive). Questa maggior consapevolezza, sviluppata dagli atleti di
arti marziali, sui propri schemi conoscitivi riguardanti componenti fisiche (il proprio corpo,
28
il movimento, lo spazio, il tempo,…) si riflette anche su componenti diverse della loro
identità? E questa sollecitazione dei processi di consapevolezza riguardo ai propri schemi
connessi alla pratica marziale, stimola anche una riflessione sul processo stesso di
apprendimento? Anche per queste domande proverò a formulare risposte nella parte
sperimentale.
Così come esistono due tipi semplificati di insegnamento delle arti marziali, esistono anche
due tipi semplificati di praticanti (Padoan, 2006): quelli “di superficie” si fermano
all’aspetto ludico e tecnico e hanno difficoltà ad approfondire la pratica, proprio perché non
tentano la strada della maggior consapevolezza dei propri schemi; altri cercano un
approfondimento della pratica e investono molto di sé in un lavoro di ricerca e di
realizzazione. È evidente che per i due tipi di praticanti, l’apprendimento della stessa arte
marziale avrà esiti diversi sullo sviluppo della loro identità, anche in funzione del loro
diverso grado di coinvolgimento.
Padoan (2006) nomina alcuni aspetti dell’identità, che considera coinvolti nella pratica di
un’arte marziale. Questi comprendono almeno: la percezione e il sentimento del proprio
corpo, le proprie produzioni (l’organizzazione quotidiana del proprio tempo, i propri
interessi,…), il sentimento di riuscire il meglio possibile in un dominio di eccellenza, il
rapporto con la propria storia personale e culturale, il confronto con altre tradizioni e
simboli culturali (orientali), il gioco di equilibrio tra il bisogno di appartenenza al
gruppo/associazione e il bisogno di distinzione e personalizzazione, la creazione di un
progetto formativo, la scoperta e il disvelamento cosciente di sé agli altri.
Un’altra autrice che indaga il rapporto tra identità e arti marziali (nel suo caso l’Aikido,
un’arte marziale di origine giapponese) è Tamara Kohn (Dyck & Archetti, 2003): facendosi
portavoce delle parole del maestro Chiba, la Kohn sostiene che la pratica dell’Aikido è
diretta al perfezionamento delle tecniche di movimento e, attraverso queste, è finalizzata
allo sviluppo del senso di sé e degli altri. L’Aikido, in quest’analisi, risulta essere un
supporto (particolarmente utile nell’attuale società frammentata) allo sviluppo della
29
consapevolezza di sé e degli altri, proprio perché incentiva la consapevolezza del proprio
corpo in movimento9.
1.11. Identità e autoconsapevolezza
Nelle pagine precedenti abbiamo citato molte volte il termine “autoconsapevolezza”,
intendendolo anche in sensi diversi, accordandoci ai termini e ai significati utilizzati dai
vari autori. Sintetizzando, abbiamo considerato l’autoconsapevolezza come consapevolezza
dei vari e molteplici sé, per esempio del proprio sé corporeo; abbiamo parlato di
consapevolezza delle proprie scelte di sviluppo, che presuppone consapevolezza della
situazione reale interna ed esterna all’individuo; ritroviamo il concetto di
autoconsapevolezza anche nell’apprendimento, dove questo termine si specifica come
consapevolezza del soggetto riguardo ai suoi schemi conoscitivi, che entrano in conflitto
con un significato nuovo e deviante, producendo una modificazione delle conoscenze e un
riassetto degli schemi mentali. Quest’ultimo significato rimanda all’autoconsapevolezza
intesa come conoscenza della discrepanza tra un comportamento attuale e un
comportamento ideale, che motiva al cambiamento.
Se vogliamo tentare una definizione, dobbiamo sicuramente trovarne una molto ampia! Una
possibile è la seguente: l’autoconsapevolezza è la presa di coscienza delle proprie
caratteristiche cognitive, emotive, relazionali e delle proprie risorse (dalla voce
“Autoconsapevolezza” http://www.nienteansia.it/glossario-dizionario-di-
psicologia/termini-a2.html).
Sui vari dizionari di Psicologia che ho consultato, non è riportato il termine
autoconsapevolezza, ma quelli di autocoscienza, coscienza riflessiva e autoconoscenza, che
9 “The practice of aikido, which features purely defensive techniques, is directed not toward competition, but
rather toward mastery of physical techniques and, through these, toward an enhanced sense of self and
others. Kohn’s analysis highlights the attractions of aikido as a means of self- development and personal
healing in a fragmented contemporary world.” (Dyck & Archetti, 2003, pag. 4)
30
sono spesso usati come sinonimi10, nel significato molto generale di conoscenza di sé. In
molti testi, inoltre, si evidenzia la difficoltà di trovare una definizione, per la varietà dei
contesti in cui questi termini sono utilizzati e per le rispettive diverse accezioni. Esiste però
un punto comune a tutte le accezioni del termine autocoscienza: la necessità, per i processi
di autocoscienza, di focalizzare l’attenzione sul sé. In questo senso, autocoscienza è un
costrutto contenuto in quello più ampio di coscienza e per questo rapporto di inclusione, si
differenzia dall’universo del non-conscio (Balconi, 2006).
L’autocoscienza è il livello gerarchicamente sovraordinato tra i vari sistemi di coscienza. A
questo livello la coscienza stessa e i suoi meccanismi divengono oggetto di osservazione da
parte del sistema pensante, attraverso un meccanismo riflessivo della coscienza su se stessa.
Balconi parla di diversi livelli di autocoscienza (confronta figura 1). Innanzitutto, a un
livello minimo di ricorsività, l’autocoscienza consiste nella capacità di modificare i propri
comportamenti (automonitoraggio), quando questa implichi la consapevolezza della propria
azione: ne è un esempio la capacità di regolare consapevolmente il proprio comportamento
in relazione all’ambiente esterno, con la scelta di un’azione adeguata e con la creazione di
una mappa complessiva del significato dei comportamenti proprio e altrui. In secondo
luogo, l’autocoscienza può manifestarsi come autoriferimento, cioè il riconoscimento della
propria persona come distinta dagli altri. In terzo luogo, l’autocoscienza si manifesta come
consapevolezza della consapevolezza (metacognizione), cioè capacità specie-specifica di
riflettere sui propri (e sugli altrui) processi cognitivi. Infine, essa può essere rappresentata
come autopercezione di sé, nel senso di percezione dell’insieme corpo-mente e di
definizione della propria appartenenza ad una cultura. I resoconti autobiografici sono un
tipico esempio di quest’ultimo tipo di competenza ed è soprattutto qui che l’identità è
collegata all’autocoscienza, perché ne è una conseguenza: “Il senso di identità è anche
riferibile ad una forma di coscienza contemplativa, che include la rappresentazione dello
schema corporeo, delle sue componenti enterocettive ed esterocettive” (Balconi, 2006, pag.
64).
10 Nel Dizionario di Psicologia di Galimberti (1999), per esempio, si legge che “autocoscienza” significa
conoscenza di sé, per cui spesso si trova anche l’espressione “autoconoscenza”.
31
Figura 1: I diversi livelli di autocoscienza.
Ovviamente questi diversi livelli di autocoscienza sono integrati tra loro e non nettamente
distinguibili uno dall’altro. L’autocoscienza è costituita infatti da una serie di processi
sovraordinati e trasversali rispetto a molte variabili psicologiche. Per esempio, nella
concezione di autocoscienza come pianificazione strategica e rappresentazione della propria
azione, è evidente l’intervento delle emozioni nel dare un significato agli stimoli e nel
preparare l’organismo all’azione.
In questo testo, ho privilegiato il termine autoconsapevolezza a quello di autocoscienza,
perché più utilizzato nell’ambito del T’ai Chi Ch’üan e delle discipline riguardanti la
meditazione. Inoltre, adottando questa espressione, intendo mantenere una concezione
ampia, senza distinguere, almeno in questa prima parte, la conoscenza del proprio corpo,
della propria immagine di sé, della propria storia, dalla conoscenza sui propri stati di
coscienza. Questa scelta è finalizzata a comprendere i molteplici aspetti
dell’autoconsapevolezza che potrebbero essere in rapporto con l’identità, con le emozioni e
con il T’ai Chi Ch’üan e che verranno approfonditi nella successiva parte sperimentale.
32
Tra identità e autoconsapevolezza c’è un rapporto stretto, come è testimoniato dalle già
citate definizioni di identità date da Erikson (1982) e da Sanguineti (2002). Per
quest’ultimo, l’identità consiste sì nel progetto di trasformazione di sé, ma comprende
comunque la conoscenza di se stessi, solo che anziché cercarla nella storia passata, essa va
cercata nel modo in cui il soggetto si relaziona nel momento presente e nei suoi progetti
circa il futuro.
Date queste premesse, anticipo qui un concetto che svilupperò soprattutto nel seguito del
lavoro: un incremento dell’autoconsapevolezza si riflette sull’identità individuale; ciò che
mi interessa verificare in questa ricerca è se e come la pratica del T’ai Chi Ch’üan
intervenga in questo rapporto tra autoconsapevolezza e identità.
1.12. Concludendo … Identità e autoconsapevolezza nelle arti marziali e nello
sport
Visto il tema della mia ricerca, vorrei riprendere il pensiero espresso da un maestro di
Aikido, il maestro Chiba (Dyck, Archetti, 2003), riguardo al rapporto tra
l’autoconsapevolezza e il “trovare un senso” per la propria esistenza di corpo-psiche. Ho
inserito tra parentesi la mia interpretazione delle parole del maestro, per meglio inquadrarle
negli argomenti che ho trattato in questo capitolo.
Per il maestro Chiba, il fine dell’autoconsapevolezza è trovare un ordine (che potremmo
altrimenti definire un senso, una direzione di sviluppo, un’identità) in se stessi, a partire dal
caos. Per sopravvivere e per sentirsi vivi, bisogna trovare un “centro”, così che la destra e la
sinistra (che noi possiamo leggere, per esempio, come “il corpo” e “la mente”) non entrino
in conflitto tra loro. Quando l’individuo cresce, sviluppando le nozioni di io, me e mio (cioè
le nozioni che noi definiamo comunemente “identità”), è come se perdesse il centro
33
(l’integrazione tra le sue parti). E la pratica dell’Aikido è, secondo il maestro Chiba, una
delle vie migliori per scoprire questo ordine psico-fisico11.
Questa ricerca personale di un “centro” di sé, aspira alla realizzazione di un “mindful
body”12 (Thompson, 1996), cioè alla concezione dell’individuo non come mente o come
corpo, ma come il luogo in cui le idee e le azioni, il sé e la società si incontrano e si
intrecciano, influenzandosi a vicenda.
Come avviene questa integrazione e perché è necessaria? Praticare uno sport comporta
processi ricorrenti in cui l’individuo mette in pratica un’azione, avverte le sensazioni che ne
conseguono, provando un’esperienza diretta (soggettiva) dell’azione, e conseguentemente
riflette sull’azione stessa, per migliorare la sua performance (Dyck & Archetti, 2003). Nello
sport e nella danza, gli atleti sperimentano una vasta gamma di emozioni e una rinnovata
consapevolezza di sé, derivata dall’autoriflessione: l’azione fisica è soggetta a continue
valutazioni e correzioni, con cui l’atleta cerca di ripetere pattern di movimento socialmente
riconosciuti e desiderabili. Che sia un’autoriflessione iniziata dal singolo atleta, o che sia
innescata dal suo istruttore, o nasca all’interno del gruppo di partecipanti, questo processo
attiva inevitabilmente l’auto-consapevolezza del praticante e ne incrementa le capacità.
Praticando uno sport, l’individuo trova risposte alle domande “chi uno è, cosa uno fa e cosa
non riesce (ancora) a fare” e integra questi vari livelli attraverso gli interventi di istruttori e
compagni e attraverso processi di autoriflessione: ciò che l’azione sportiva produce è il sé.
11 “The nature of consciousness is to find order in chaos… In order to be alive, you must have centre, so that
the left and right don’t argue with each other… As the notion of I, me, and mine grows in a natural
progression, the centre is sort of lost. And I consider aikido training one of the best ways to discover that
organic order.” (Dyck & Archetti, 2003, pag. 146)
12 “The mindful body is the house in which ideas and action, self and society meet and influence one another.”
(Dyck & Archetti, 2003, pag. 148)
34
CAPITOLO 2 - I COSTRUTTI PSICOLOGICI IN RELAZIONE AL T’AI CHI
CH’ÜAN: LE EMOZIONI
“Nel T’ai Chi Ch’üan, la padronanza completa del movimento
permette di arrivare all’espressione totale dell’individuo.”
(Muradoff, Tai Chi Chuan)
2.1. Una necessaria delimitazione del campo
Il campo d’indagine delle emozioni è vastissimo e comprende vari ambiti scientifici, tra cui
l’ambito psicologico e biologico: le emozioni rappresentano, infatti, per molti autori
specializzati in entrambi gli ambiti (confrontiamo infra la biologa Candace Pert e la
psicoterapeuta Joan Chodorow), l’interfaccia tra psiche e soma. Data l’ampiezza
dell’argomento, mi sembra utile iniziare delimitando il campo della mia ricerca sulle
emozioni, ponendomi comunque l’obiettivo di mantenere, per quanto possibile, la ricchezza
e la fecondità dell’approccio bio- psico- sociale, che ben si addice anche all’incrocio tra le
variabili che qui mi interessano: il movimento del corpo, le emozioni ad esso connesse,
l’intervento delle relazioni sociali nel modulare la consapevolezza delle proprie emozioni.
In questo capitolo, mi preme documentare che: lo stretto rapporto esistente tra mente e
corpo è mediato soprattutto dalle emozioni; le emozioni danno significato agli eventi e
dipendono da vari fattori relazionali; l’incremento di consapevolezza delle proprie
emozioni migliora lo stato di benessere di un individuo; il movimento del corpo si riflette
sulle emozioni; infine, che le emozioni sono attivate anche solo dal rendersi conto che si sta
apprendendo qualcosa.
35
2.2. Cosa intendiamo per “emozione”
Le definizioni del termine “emozione” variano molto in scuole psicologiche diverse e anche
questa varietà ci rivela la complessità del nostro oggetto. Inoltre, le emozioni sono processi
solo teoricamente scindibili dagli altri processi mentali (per esempio, da quelli cognitivi): in
realtà tutti i fenomeni mentali sono intrecciati tra loro e si influenzano vicendevolmente. Le
emozioni sono quindi implicate in tutte le attività della mente e per questo, trovo
particolarmente utile la definizione ampia che ne dà Siegel (2001): l’emozione è l’energia
che dirige, organizza, amplifica e modula l’attività cognitiva. È utile anche ricordare, con
questo stesso autore, che le emozioni sono regolate e nello stesso tempo svolgono funzioni
regolative su vari aspetti dell’individuo.
Un processo emotivo consta di tre fasi (Siegel, 2001); inizialmente, l’emozione, detta
“primaria”, consiste nello stato di arousal psicofisico, per cui l’attenzione si dirige verso
uno stimolo valutato come significativo: l’emozione primaria è la risposta orientativa
iniziale, che modula i flussi di energia all’interno del cervello e dà quindi inizio a qualsiasi
attività cerebrale. La condivisione delle emozioni primarie avviene a livello sensoriale ed è
una necessità, soprattutto per i bambini piccoli, perché valorizza il loro sentire e permette
loro di sentirsi riconosciuti (Amadei, 2005), favorendo così lo sviluppo sano, attraverso la
miglior comprensione del mondo interiore (autoconsapevolezza) ed esterno (approfondirò
questi concetti nel paragrafo seguente).
La seconda fase dei processi emotivi è l’attribuzione di una valenza positiva o negativa allo
stimolo: con questa valutazione, l’organismo si prepara per azioni diverse nei confronti
dell’oggetto (avvicinamento o allontanamento). La fase successiva comporta la valutazione
dell’emozione stessa: essa comprende la valutazione del proprio arousal e delle risorse
disponibili per gestirlo, tra cui si annoverano anche le interazioni interpersonali (qui mi
limito ad anticipare che, quindi, i fattori sociali influenzano le capacità e le modalità con cui
gli stati emozionali primari vengono ulteriormente elaborati).
Anche la localizzazione cerebrale delle funzioni emotive ci offre informazioni utili per
capire alcune caratteristiche delle emozioni, soprattutto ci mostra come le emozioni siano
coinvolte in processi molto diversi e complessi, cioè nella regolazione dei processi interni
36
dell’organismo, ma anche dei processi interpersonali. I “centri cerebrali” in cui possiamo
riconoscere una maggior localizzazione delle funzioni emotive sono il sistema limbico e la
corteccia orbito- frontale (Siegel, 2001). In realtà entrambe queste aree sono centri di
integrazione di informazioni di vario tipo: gli stimoli giungono al cervello attraverso i
canali sensoriali, sono sottoposti a valutazione primaria dall’amigdala, che trasmette il suo
output alla corteccia orbito-frontale per l’ulteriore elaborazione; però, sia l’amigdala che la
corteccia orbito-frontale processano informazioni anche di tipo sociale, come il
comportamento non verbale degli altri e il loro stato della mente. Inoltre, elaborano
informazioni sulle modificazioni dell’ambiente interno all’organismo e regolano la sua
attivazione. Ciò che ci interessa qui è che le emozioni coinvolgono tutti questi processi,
influenzandoli ed essendone influenzate.
Una caratteristica fondamentale delle emozioni è la funzione che svolgono nel processo di
valutazione, cioè di assegnazione di un significato agli stimoli (Siegel, 2001): se non
provassimo emozioni, risponderemmo indiscriminatamente a qualsiasi stimolo e
reagiremmo ad essi in modo indifferenziato. Il significato viene assegnato allo stimolo
inducendo nell’organismo uno specifico stato di arousal: l’emozione agisce attraverso la
stimolazione di determinati circuiti cerebrali che attivano un tipo specifico di arousal
(esistono infatti diverse forme di arousal), per cui l’individuo interpreta lo stimolo in un
certo modo, cioè conferisce un colore soggettivo alla realtà a cui è sottoposto. La
valutazione non avviene solo per le caratteristiche presenti qui e ora nello stimolo, ma come
integrazione tra aspetti legati al presente ed esperienze passate, che vengono attivate in base
alle connessioni hebbiane.
Nel processo di valutazione dello stimolo interviene anche la percezione dei propri segnali
somato-sensoriali, chiamati marker somatici, che sono le reazioni somatiche conseguenti
alla percezione e valutazione di uno stimolo. Essi informano il soggetto su come si sente,
permettendogli di capire che significato ha quello stimolo per lui (Siegel, 2001). Questi
segnali somato-sensoriali sono registrati dalla corteccia cerebrale e rientrano nel processo di
valutazione dello stimolo. Sono di due tipi: i cambiamenti dei muscoli di volto e arti e i
cambiamenti a livello degli organi interni. La capacità di percepire i propri marker somatici
e di dedurne il proprio stato emotivo è diversa da individuo a individuo; è ciò che possiamo
definire “autoconsapevolezza emotiva” e dipende dalla modalità di attaccamento (Siegel,
37
2001) e da tutte le variabili ad essa connesse, tra cui in seguito evidenzierò il grado di
riconoscimento dei segnali del bambino da parte del caregiver (Amadei, 2005).
Rileviamo anche che l’autoconsapevolezza emotiva, cioè la consapevolezza del proprio
stato di arousal, è resa possibile dal coinvolgimento della memoria di lavoro nel processo
emotivo. La consapevolezza emotiva è la capacità del soggetto di riconoscere le emozioni
proprie e altrui e consiste in diversi livelli di consapevolezza (Balconi, 2006): la
consapevolezza delle sensazioni fisiche, la tendenza all’azione, le singole emozioni, il loro
insieme e la capacità di comprendere la complessità delle proprie e altrui esperienze
emotive. Un aspetto strettamente connesso alla consapevolezza emotiva è la capacità di
autoregolazione delle emozioni, che consiste nella capacità dell’individuo di gestire il
proprio stato emotivo, influenzandolo in diversi modi possibili. Alcuni modi della
regolazione delle emozioni coinvolgono la consapevolezza emotiva: per esempio, le
emozioni possono essere gestite rispetto al piano valutativo; in secondo luogo, si possono
modulare i piani d’azione nei confronti dell’evento emotigeno; in terzo luogo, la coscienza
può intervenire nell’automonitoraggio delle proprie espressioni emotive (Balconi, 2006).
Un’altra funzione delle emozioni, evidentemente connessa a quanto ho ricordato sopra, è
quella sociale: le persone usano le espressioni affettive altrui, manifestate per lo più
attraverso segnali non verbali, per dedurre il loro stato mentale e ottenere così nuove
informazioni sulla realtà (Tronick, 2006). Inoltre, la capacità di comprendere le emozioni
altrui (empatia) permette la condivisione di uno stesso stato mentale con l’altro e favorisce,
grazie a questo stato di risonanza, lo sviluppo di un sentimento di appartenenza (Siegel,
2001). Lo stato di connessione emozionale, unitamente allo scaffolding offerto dal
caregiver, ottiene quindi questi due effetti: aumenta sia la complessità del sistema individuo
(offrendogli nuove informazioni sulla realtà esterna), sia la sua coesione (offrendogli una
consapevolezza più matura di sé). L’insieme di questi aspetti è ciò che Tronick definisce
“uno stato di espansione diadica della consapevolezza”. Ai fini della mia ricerca, mi
interessa ricordare che ogni scambio interattivo emozionale (nel nostro caso, anche quelli
con il maestro e con i compagni di pratica di T’ai Chi Ch’üan) comporta potenzialmente
un’espansione diadica della consapevolezza. Questo perché ogni individuo possiede
capacità di autoregolazione, ma anche vincoli, che possono essere superati grazie
all’incontro con l’altro.
38
2.3. La regolazione emotiva
La regolazione emotiva è la capacità di esprimere le proprie emozioni e di gestire le proprie
espressioni affettive, in modo da ottenere un comportamento flessibile, organizzato e
adattivo. Autoregolarsi significa mantenere una buona alternanza tra il sé spontaneo
(interiore) e il sé sociale.
L’autoregolazione si raggiunge modulando il proprio stato mentale, attraverso la gestione
dei processi interni all’individuo (attribuzione di un significato diverso allo stimolo,
regolazione dell’arousal, …) o dei processi sociali (variare l’interpretazione del contesto,
usare lo stato mentale altrui per inferire nuovi significati, …); quindi, per regolare il flusso
energetico e informativo delle emozioni, usiamo i processi emotivi stessi.
Dedico un paragrafo a questo argomento perché nella bibliografia sul T’ai Chi Ch’üan
(Cicerone, 2006), si legge che questa pratica incrementa le capacità di autocontrollo, che
ritengo sia usato come sinonimo di autoregolazione emotiva: nella parte sperimentale,
quindi, intendo approfondire se questi costrutti siano davvero equivalenti e in quale modo si
possa ottenere, secondo i maestri del T’ai Chi Ch’üan, questo effetto.
A questo riguardo, secondo Siegel (2001), la modulazione intenzionale di un
comportamento emozionale spontaneo passa necessariamente attraverso la strettoia
dell’elaborazione cosciente delle proprie emozioni. Per lo più, i processi emotivi avvengono
a livello inconscio, ma le emozioni (sia primarie, che discrete) possono divenire
consapevoli, quando intervengono i processi della memoria di lavoro. La mia seguente
ricerca sul T’ai Chi Ch’üan cercherà infatti di verificare se esso aumenti le capacità di
autoregolazione emotiva proprio sviluppando la consapevolezza.
Per modulare le reazioni emozionali, Siegel indica l’importanza, oltre che
dell’autoconsapevolezza emotiva, anche della flessibilità di risposta, cioè della capacità di
valutare e di integrare molteplici informazioni, relative allo stimolo, all’ambiente e
all’organismo. La flessibilità di risposta è quindi una capacità integrativa, che consiste nella
capacità di rispondere, in modo adattivo e internamente collaborativo, al variare dei contesti
interiori e interpersonali.
39
2.4. Competenza emotiva e consapevolezza di sé: il filo rosso tra emozioni e
identità
La competenza emotiva consiste nella capacità di autoregolazione dell’individuo e di mutua
regolazione all’interno del sistema interattivo. Essa ha origine nelle interazioni precoci tra
genitore e neonato e si manifesta nell’individuo come capacità di modulare in modo
abbastanza flessibile il proprio stato emotivo, senza eccedere nel controllo degli affetti
negativi, perché questi possono essere gestiti nella coppia interattiva attraverso una
continua oscillazione tra successi interattivi e fallimenti, che però vengono riparati
(Amadei, 2005). Anche se la competenza emotiva è una variabile che potrebbe essere
misurata a livello individuale, viene costantemente gestita dalla coppia (come influenza
reciproca tra autoregolazione e regolazione interattiva) e originariamente è il genitore che
offre uno scaffolding emozionale al neonato; è in questo modo che ognuno dei due partner
espande il proprio stato di consapevolezza di sé (Tronick, 2006) e contemporaneamente
sviluppa le sue capacità di autoconsapevolezza emotiva, cioè le capacità di percepire i
propri marker somatici, il proprio arousal e di dedurne il proprio stato emotivo (Siegel,
2001); essa è diversa da individuo a individuo e dipende dalla modalità di attaccamento e
dal grado di riconoscimento dei segnali del bambino da parte del caregiver (Amadei, 2005).
Se vogliamo quindi rintracciare un filo conduttore tra emozioni e identità, potremmo
cercarlo qui, nel passaggio da competenza emotiva a consapevolezza di sé, che può essere
ampliata nell’incontro emozionale con l’altro, quando questi riesce a riconoscere la nostra
comunicazione emotiva, restituendocela arricchita di senso. Il riconoscimento delle nostre
emozioni da parte di un altro individuo, unito alla condivisione emozionale, ci permette di
riprendere contatto con le nostre emozioni, diventandone più competenti.
2.5. Emozioni che connettono corpo e mente
Come ho già anticipato nel paragrafo introduttivo di questo capitolo, “le emozioni nascono
nel punto di congiunzione fra materia e mente, passando dall’una all’altra in tutte e due i
40
sensi e influenzandole entrambe” (Pert, 2000, pag. 226). Le emozioni connettono
inscindibilmente mente e corpo in un unico insieme, ipotesi corroborata dalle ricerche
biologiche della biologa Pert, per cui il substrato biochimico delle emozioni
corrisponderebbe alla rete di comunicazioni tra cervello e corpo, mediate da particolari
peptidi che svolgono la funzione di trasmettitori di informazioni, e i cui recettori si trovano
soprattutto nel cervello emozionale, nelle aree deputate all’elaborazione delle informazioni
provenienti dai cinque sensi, nel sistema endocrino ed in quello immunitario. Secondo le
ricerche di Pert, il benessere psicosomatico corrisponde al libero fluire delle emozioni (cioè
dei peptidi, che vengono facilmente accolti dai recettori ad essi deputati) nell’organismo,
inteso come un insieme integrato di mente-corpo. “Quando le emozioni vengono espresse,
fluiscono liberamente e tutti i sistemi sono integri e solidali. Quando invece le emozioni
sono represse, le vie della rete psicosomatica si ostruiscono, bloccando il flusso delle
sostanze chimiche unificanti.” (Pert, 2000, pag. 328). Questo avviene anche con le
emozioni negative: tentare di reprimerle significa creare un blocco nel flusso dei segnali
trasmessi dai peptidi e si riflette in una divisione di ciò che originariamente avrebbe dovuto
essere un tutto integrato. Connetterci con le nostre emozioni (Amadei, 2005), consentire
loro di entrare nella nostra consapevolezza, permette di liberarci da schemi del passato che
intrappolano il nostro progetto di sviluppo, cioè la nostra identità.
Connettersi con le proprie emozioni significa lasciarle fluire senza blocchi, gestirle senza
reprimerle, sia quelle positive, sia (compito più difficile) quelle che generalmente
consideriamo negative per il disagio che ci fanno provare. Se vogliamo dirlo in termini
winnicottiani, significa incontrare il proprio vero Sé; qui, vorrei però soffermarmi
maggiormente sui concetti che ho trovato nel libro di Amadei (2005), perché mi ha sorpresa
la somiglianza con le parole del maestro Chiba di Aikido (che ho riportato nel capitolo
sull’identità in nota 2): connettersi con le emozioni significa arrivare all’immediatezza della
propria esperienza, trovando nuovamente il proprio centro, la propria essenza. Ri-trovare il
proprio centro si manifesta come un ri-trovare pace nelle proprie percezioni: riconoscere la
loro verità soggettiva, che ci rende unici nel nostro modo di rapportarci alla realtà. Le
tecniche che facilitano l’individuo nell’entrare in contatto con la sua essenza sono quelle
che lo aiutano ad essere consapevole delle sue percezioni e a sentirsi soggetto percettore.
Tra queste tecniche rientrano, secondo Gaddini (Amadei, 2005), le modalità cliniche
41
psicologiche e alcune pratiche di meditazione che mirano allo sviluppo della presenza
mentale, la mindfulness.
2.6. Emozioni e respirazione
Trattando del rapporto tra emozioni e corpo, vorrei anche richiamare la teoria vascolare
dell’efferenza emotiva, secondo cui il ritmo e la modalità della respirazione, che sono
sottoposte al controllo volontario, contribuiscono a raffreddare la regione dell’ipotalamo
sottesa al mantenimento degli stati emotivi positivi connessi alla sensazione di benessere
(Anolli & Legrenzi, 2001). Il raffreddamento ipotalamico è connesso con stati emotivi
positivi, mentre un aumento della sua temperatura è connesso con stati emotivi negativi.
Grazie alla sua particolare configurazione vascolare (confronta figura 2), la temperatura di
questa regione può però essere modificata attraverso la modulazione della respirazione:
adottando una respirazione nasale e con ritmo lento e regolare, la regione venosa del seno
cavernoso raffredda la carotide interna prima che essa entri nell’ipotalamo, contribuendo
così all’abbassamento della temperatura ipotalamica.
Figura 2: Illustrazione della configurazione vascolare implicata nel raffreddamento ipotalamico.
42
Alcune tecniche di meditazione, il training autogeno, lo yoga e anche il T’ai Chi Ch’üan e
molte altre arti marziali insegnano a regolare la respirazione, rendendola più profonda e
regolare e implicando anche un ampliamento della consapevolezza e delle capacità di
controllo13.
Anche per Tronconi (1998), con la meditazione e altre pratiche affini si impara a controllare
le proprie emozioni. Il termine “controllo” non è inteso però come repressione, ma come
osservazione delle emozioni e sviluppo di maggiore consapevolezza, che interpone il
pensiero tra il provare un’emozione e il reagire automaticamente ad essa.
2.7. Percepirsi in movimento
È curioso come già nell’etimologia del termine emozione (ex -movere, traducibile
“muovere via”), sia intrinseco il concetto di movimento: in effetti, le emozioni vengono
spesso descritte anche come un’energia che muove l’individuo e se dovessimo immaginarle
visivamente, probabilmente molte persone (di sicuro io!) le rappresenterebbero come un
fluido che scorre nel corpo, una linfa vitale e variamente colorata che si muove
ininterrottamente, con ritmo diverso, in ogni canale del nostro organismo. È anche per
questo che mi interessa molto la relazione che le emozioni hanno con il movimento, almeno
13 Un esempio della stretta connessione tra respirazione e tecniche di meditazione si può trovare nel
programma di vari corsi di meditazione; tra di essi, cito l’attuale corso intitolato “Il corpo nella preghiera”,
tenuto da Padre Davide Magni proprio nel periodo in cui svolgo questa tesi. Il corso si propone come
obiettivo l’integrazione tra le dimensioni essenziali della persona umana: il corpo (luogo della fisicità
materiale), la mente (intesa come luogo dei pensieri, delle idee,…) e lo spirito (qui inteso come la sede delle
emozioni, dei sentimenti,… e della relazione con il divino). La concezione fondamentale del corso è che la
nostra vita quotidiana, compresa la preghiera, avviene sempre dentro-con-attraverso il nostro corpo.
L’itinerario del corso procede quindi attraverso il corpo, nel senso che si impara a sviluppare la
consapevolezza del corpo, per poi estendere questa esperienza a tutti gli altri ambiti vitali. Al principio si
diviene consapevoli della respirazione, per passare poi alla consapevolezza della postura (la collocazione
nello spazio, che ha sempre un significato affettivo), fino ad esplorare il movimento (in questo corso, inteso
come movimento nel T’ai Chi Ch’üan).
43
con quello che si può osservare dall’esterno: il movimento fisico. Mi sembra utile
sviluppare questo aspetto anche perché abbiamo già discusso il nesso tra emozioni e corpo;
quello che intendo presentare ora è l’emozione come energia sia mentale, che fisica.
“Man mano che il pensiero e il linguaggio verbale si organizzano ed evolvono, il rapporto
con il nostro percepire, sentire e immaginare tende ad affievolirsi e l’unità corpo-psiche ne
risulta intaccata” (Garufi & Adorisio, 1998, pag. 11). Il movimento, e la danza in
particolare, sono sempre (e ovunque) stati usati dall’uomo come strumenti veri e propri per
entrare in contatto con la sua dimensione istintiva e spirituale e per esprimerla: ne è prova il
fatto che la spiritualità si è espressa prima nel culto, nel movimento del corpo e solo
successivamente nel mito e nelle narrazioni. Il movimento del corpo, nei culti, svolgeva una
funzione sociale di condivisione delle emozioni e una funzione di ponte con l’ignoto che
l’uomo trovava nel mondo: permetteva di esprimere e contenere l’angoscia causata
dall’incontro con una realtà ignota e insondabile. Il movimento mantiene tuttora questa
funzione, permettendoci di approcciare il non conosciuto e di manifestare l’inesprimibile
che è in noi (Chodorow, 1998). Mi sembra interessante anche annotare velocemente la
mancanza di riti che coinvolgano il corpo nella sua dimensione di veicolo di contenuti
mentali, nella cultura occidentale contemporanea.
Il forte nesso esistente tra emozioni e corporeità è già noto in ambito psicologico: il corpo è
come un narratore, che riesce a comunicare ciò che le parole non riescono ad esprimere
direttamente: il corpo di un individuo parla di sentimenti che non sono ben accolti nella sua
mente conscia (Krueger, 2002). Nell’analisi, così come in tutte le relazioni, le parole non
sono sufficienti per esprimere e per comprendere i significati intesi dalle persone: è in
questo luogo, che altrimenti rimarrebbe vuoto di senso, che avviene la comunicazione
attraverso il corpo in movimento.
Anche per Jung (Jung, 1990) il movimento del corpo, come altre forme di espressione da
lui denominate “immaginazione attiva” (arte pittorica, poetica, drammatica e plastica),
riesce a creare un ponte tra conscio e inconscio, attraverso la percezione dell’unità corpo-
psiche. La teoria del movimento e delle emozioni, formulata dalla Chodorow, che ora
discuto, si fonda su quella di Jung. Le emozioni, per la Chodorow come per altri autori che
abbiamo già nominato, sono l’ingrediente principale di cui è composto il “luogo
intermedio” tra psiche e soma; per questo, ogni emozione percepita in modo diretto
44
comporta un incontro tra corpo e psiche. La danza e il movimento spontaneo in generale
sono connessi a questo luogo da una parte perché è lì che emerge la motivazione a
muoversi e dall’altra perché possono influire su questo “luogo”, modificandolo (Chodorow,
1998): a volte, la danza agisce sulle emozioni perché offre loro una via di sfogo, una
liberazione catartica; altre volte, invece, le trasforma, affinando la nostra sensibilità alle
nostre stesse emozioni. Riassumendo, c’è una relazione di influenza bidirezionale tra
emozioni e danza (qui intesa come sinonimo di movimento spontaneo).
Ai fini della mia ricerca è necessario tenere presente che il T’ai Chi Ch’üan è considerato
ingenuamente come una sorta di danza, per i suoi movimenti lenti, dolci e sinuosi; i maestri
generalmente non concordano con questa opinione “ingenua”, perché sottolineano la base
marziale essenziale del T’ai Chi Ch’üan. È inoltre necessario informare il lettore che il T’ai
Chi Ch’üan non è un movimento spontaneo: ritengo che alcune caratteristiche avvicinino
queste due pratiche, ma nel T’ai Chi Ch’üan il passaggio all’atto non si può definire
spontaneo. Per questo motivo, non analizzeremo l’influenza che le emozioni hanno sul
movimento nel T’ai Chi Ch’üan, ma potremo studiare la relazione inversa, cioè gli effetti
che il movimento può avere sul cambiamento delle emozioni.
2.8. Emozioni e apprendimento
Ho deciso di annotare qualche concetto anche riguardo al rapporto tra emozioni e
apprendimento, anche se il tema richiederebbe uno spazio molto più ampio, perché nella
mia ricerca mi occuperò anche di aspetti concernenti l’apprendimento del T’ai Chi Ch’üan.
L’apprendimento ha necessariamente una componente emozionale, che spesso è
sottovalutata rispetto alla controparte cognitiva: in realtà, non esiste un pensiero “depurato”
dall’emozione, perché semplicemente non esisterebbe pensiero (Morelli & Zaffalon, 2006).
Ci sono alcune caratteristiche dei processi di apprendimento in cui è più facile cogliere
l’impatto delle emozioni: anzitutto, abbiamo visto sopra che le emozioni provate sono la
base che ci permette di dare un significato alla realtà percepita, possiamo dire che sono il
mezzo con cui ci appropriamo, almeno provvisoriamente, della realtà. In secondo luogo,
45
apprendere è sempre un processo relazionale, perché la mente non è individuale, ma è nella
relazione: apprendere significa cooperare per trovare un’interpretazione condivisa (Morelli
& Zaffalon, 2006). L’ultimo aspetto che intendo sottolineare è che in ogni apprendimento è
intrinseco il conflitto: apprendere significa mettere in discussione i propri assunti, osservare
una parte di realtà da un punto di vista diverso dal precedente; in ogni caso, “è uscire da un
campo di conoscenze rassicuranti per entrare in un altro, che all’inizio non rassicura ma
inquieta, anche se attrae mentre spaventa” (Morelli & Zaffalon, 2006, pag. 3). In sintesi,
l’apprendimento – quello che promuove un’evoluzione nell’individuo, non il conformismo
– implica un coinvolgimento affettivo perché richiede investimenti relazionali e perché
consiste nell’elaborazione (faticosa) di un conflitto, per approdare a una risoluzione
provvisoria e condivisa.
46
CAPITOLO 3 - L’ARTE DEL T’AI CHI CH’ÜAN
Nulla al mondo è più morbido e cedevole dell’acqua,
eppure nel distruggere ciò che è duro e forte
non vi è nulla che riesca a superarla.
La cedevolezza prevale sulla forza,
la morbidezza batte la durezza.
(Lao Tzu, Tao Te Ching)
3.1. Il T’ai Chi Ch’üan 14 e il Kung-fu
Il Kung-fu è la parola cinese con cui, nei Paesi occidentali ci si riferisce all’insieme di tutte
le Arti Marziali Tradizionali Cinesi, che includono il T’ai Chi Ch’üan. La parola Kung-fu,
in realtà, è una parola molto generica, perché significa “esercizio svolto con abilità” e
pertanto potrebbe riferirsi anche ad attività diverse dalle arti marziali (Chang & Fassi,
Enciclopedia del Kung Fu Shaolin, 1993). In lingua cinese, infatti, si usano altre espressioni
per indicare le Arti Marziali, ma il termine Kung-fu è talmente diffuso nelle lingue
occidentali, che risulta difficilmente sostituibile (confronta Figura 3).
14 Nel testo è stato utilizzato il metodo di traslitterazione degli ideogrammi di Wade-Giles, in accordo con la
scelta operata da vari autori. Nella bibliografia sono rimasta fedele alla traslitterazione adottata dallo stesso
autore. La grafia di T’ai Chi Ch’üan secondo l’altrettanto diffuso metodo Pinyn corrisponde invece a Taiji
Quan.
Riguardo alla pronuncia, al di là del metodo di traslitterazione adottato, si legge: Tai Ci (con un suono
intermedio tra la c dolce e la g dolce) Ciüan (la lettera c si legge come la c dolce; la lettera ü si legge come in
francese).
47
Figura 3: Nella figura, letta dall’alto al basso e da sinistra a destra, è riportata la scrittura del maestro
Chang Dsu Yao degli ideogrammi: Shao Lin Ch’üan, T’ai Chi Ch’üan, Kung fu.
Le Arti Marziali Cinesi sono state suddivise in due grandi gruppi:
• Wai Chia, cioè “sistema esterno”, comprende tutti gli stili duri o esterni, chiamati
così per l’importanza attribuita in queste Arti Marziali alle caratteristiche “esteriori”
come vigore fisico, acrobazia e velocità. Il principale stile esterno è lo Shao Lin
Ch’üan.
48
• Nei Chia, o “sistema interno”, che comprende invece tutti gli stili morbidi o interni,
chiamati così per l’importanza che viene attribuita in essi allo sviluppo dell’energia
interna. Il più importante stile interno è il T’ai Chi Ch’üan.
In realtà questa divisione, anche se comoda, è determinata da cause storiche (che introdurrò
più avanti), più che da reali differenze tra i due tipi di stili: in entrambi, per raggiungere
l’efficacia bisogna combinare la durezza con la morbidezza. È nella fase iniziale
dell’apprendimento che la differenza è più marcata, perché le tecniche vengono eseguite in
maniera forte e veloce negli stili “duri”, mentre negli stili “morbidi” vengono effettuate
molto lentamente e in completa decontrazione muscolare.
Il simbolo grafico del Kung-fu, che dà anche il titolo alla mia tesi, è un cerchio bianco e
nero (chiamato T’ai Chi) raffigurante l’unione di Yin e Yang, circondato dai cinque petali
gialli del fior di prugno, simboli rispettivamente del T’ai Chi Ch’üan e dello Shao Lin
Ch’üan (confronta figura 4).
Figura 4: Il simbolo del Kung fu.
49
3.2. Il T’ai Chi Ch’üan: le scuole di pensiero
T’ai Chi Ch’üan letteralmente significa “Boxe (Ch’üan) della Suprema (T’ai) Polarità
(Chi)”. Questa denominazione indica che il T’ai Chi Ch’üan è un’Arte Marziale basata
sulle leggi che regolano l’interazione e l’alternarsi di quelli che sono, secondo il pensiero
cinese, i due principi base (o poli) dell’universo: Yin, il principio negativo e Yang, il
principio positivo, senza che questi termini abbiano implicazioni morali. (Chang & Fassi,
2004).
Sono molte le scuole filosofiche che hanno influenzato per migliaia di anni la vita e le
istituzioni del popolo cinese e anche la nascita del T’ai Chi Ch’üan; ognuna di esse,
offrendo la sua interpretazione del mondo e delle attività umane, mette in luce anche un
principio fondamentale del T’ai Chi Ch’üan.
Yin e Yang
La teoria Yin-Yang è molto antica e i filosofi
cinesi se ne servivano per spiegare l’origine
dell’universo. Questo all’inizio era in uno
stato di assenza di differenziazioni, assenza
di poli, denominato Wu Chi (Li Deyin,
2004). A un certo punto si formarono due
polarità di segno diverso che sono
considerati i principi fondamentali
dell’universo (confronta figura 5):
− Yang: il principio positivo, maschile,
corrispondente a luce, giorno, sole,
esterno, duro, movimento, …
rappresentato dal colore bianco;
− Yin: il principio negativo, femminile, corrispondente a oscurità, notte, luna, interno,
morbido, quiete, … rappresentato dal colore nero.
Figura 5: L’origine e l’integrazione delle due
polarità.
50
Figura 6: La rappresentazione più comune del
T’ai Chi T’u, o diagramma del T’ai Chi.
Figura 7: Il continuo mutamento del T’ai Chi.
I due principi interagirono immediatamente dando origine alla cosiddetta Suprema Polarità
o T’ai Chi. La formazione della polarità Yin-Yang è considerata dai filosofi cinesi la legge
base dell’universo. Yin e Yang costituiscono, infatti, i veri e propri emblemi della dualità
fondamentale esistente in ogni parte del cosmo, dualità che trova la sua unificazione nel
simbolo del T’ai Chi. È importante evidenziare che Yin e Yang non hanno un significato
morale (buono-cattivo) e che sono considerati elementi complementari, non contrastanti.
Bisogna quindi cercare un’armonia fra di loro ed evitare ogni situazione sbilanciata. Tutte
le distinzioni sono, inoltre, relative: ciò che è Yin relativamente a una cosa, può
contemporaneamente essere anche Yang in rapporto ad un’altra.
L’unione di Yin con Yang è raffigurata nel
diagramma del T’ai Chi, che può essere
rappresentato graficamente in modi diversi,
tra cui il più noto è riportato in figura 6:
l’armonia fra gli opposti è dimostrata
dall’uguaglianza delle due superfici bianca e
nera.
La particolare suddivisione a S fra le due aree
fa sì che i perimetri di Yin e Yang siano
uguali al perimetro dell’intera circonferenza. I
punti nero e bianco stanno ad indicare che Yin
e Yang non sono assoluti, ma che vi è sempre
un poco di Yin in Yang e viceversa. Il
diagramma va pensato in perpetua rotazione
(confronta figura 7), perché, insieme alla sua
forma circolare, simboleggia l’evoluzione
ciclica della natura.
Il diagramma del T’ai Chi è anche il simbolo del T’ai Chi Ch’üan. Infatti, tutti i movimenti
di T’ai Chi Ch’üan sono circolari, come le linee del diagramma. Inoltre, durante
l’esecuzione delle tecniche vi è un ininterrotto alternarsi di Yin e Yang di cui bisogna
imparare ad essere consapevoli. Per esempio, il piede avanti è Yang, quello dietro è Yin,
ma non appena facciamo un passo in avanti Yang si trasforma in Yin e viceversa.
51
La teoria dei cinque elementi
I cinque elementi, che derivano dall’interazione di Yin con Yang (confronta figura 8), non
indicano tanto delle sostanze primordiali, quanto dei modi di trasformazione della natura.
Ognuno di essi costituisce una vera e propria
fase di un processo in continuo mutamento
attraverso cui la natura assume sempre nuovi
aspetti. I cinque elementi sono simboleggiati da
legno, fuoco, terra, metallo e acqua. Ogni
elemento, nell’ordine sopra indicato, dà origine
all’elemento seguente e vince l’elemento ancora
successivo, come rappresentato in figura 9.
A partire da ogni elemento si ha dunque una
catena di corrispondenze che legano tutte le
manifestazioni del Cielo, della Terra e
dell’Uomo. L’uomo non è più allora un essere
isolato, ma un microcosmo in intima relazione
con i fenomeni del macrocosmo.
Figura 8: La creazione del mondo nella
teoria di Yin e Yang.
Figura 9: Le relazioni tra i cinque elementi.
52
I Ching
Il libro classico (Ching) delle mutazioni (I) è un’opera antichissima15 che veniva utilizzata
per predire il futuro. Gli antichi saggi intuirono che tutto nell’universo è in perpetuo
mutamento (principio delle mutazioni). Nulla è permanente salvo la mutazione stessa. Ma
quest’ultima è regolata da leggi ben precise, da una ciclicità legata alla vita naturale: il sole
sorge sempre a est, l’acqua scorre sempre verso il basso e così via. Da ciò gli antichi
filosofi dedussero che anche il futuro non si sviluppa a caso, ma segue determinate leggi
che, opportunamente interpretate, permettono di predire il corso degli eventi.
Il codice contenuto nel Libro delle
Mutazioni è costruito su di una
complessa rappresentazione grafica,
che ha come segni elementari il tratto
lineare continuo __ (Yang) e quello
discontinuo _ _ (Yin), che qui
simboleggiano l’affermazione e la
negazione relativamente alla richiesta
effettuata da un individuo sulle
possibili evoluzioni degli eventi per lui
significativi. Ma, poiché tutto è in
continua trasformazione, il sì e il no
possono associarsi in un’infinita serie
di definizioni più sfumate. Graficamente questa possibilità è rappresentata dalle varie
combinazioni possibili che possono assumere Yin e Yang: questi vengono associati prima
in coppie di segmenti, poi in trigrammi e finalmente in esagrammi. Si ottengono così 64
combinazioni possibili (confronta figura 10).
La legge delle mutazioni è il principio fondamentale che ci insegna l’I Ching. Questo
principio ha influenzato molto il T’ai Chi Ch’üan, che è caratterizzato da movimenti
15 Possiamo notare che il primo commento al libro è datato intorno al 1100 a.C.
Figura 10: Le varie combinazioni possibili derivate
dall’assemblaggio di Yin e Yang danno origine a 4 di-
grammi, a 8 trigrammi e a 64 esagrammi: questi
costituiscono il codice dell’I Ching.
53
circolari in continua mutazione e da un ininterrotto alternarsi di Yin e Yang. Anche nel T’ai
Chi Ch’üan nulla è mai definitivo, tutto è in costante ciclico movimento.
Il confucianesimo
Per K’ung Fu Tzu16 (latinizzato in Confucio, dove Tzu significa “maestro”), il Tao (parola
che letteralmente significa “Via”) consiste nel praticare determinate virtù. La virtù
fondamentale è la sensibilità umana, un concetto molto vicino a quello di amore per il
prossimo. Le nostre azioni devono essere guidate dalla sensibilità, ma devono essere
regolate anche da una seconda virtù che Confucio chiamava Li, parola che possiamo
tradurre con “rispetto per i riti”. Li non deve essere pura formalità, ma l’espressione
esteriore della sensibilità. Il messaggio di Confucio può essere, ai nostri fini, semplificato in
due insegnamenti: “Un uomo nobile si rivela in ogni cosa secondo il dovere, un uomo
volgare secondo l’interesse che può derivargliene”; e “Solo colui che veramente ama gli
altri è capace di adempiere ai propri doveri in società” (Colli, 2001, pag.19).
Il confucianesimo influenza tuttora il T’ai Chi Ch’üan soprattutto nell’ambito del rituale: di
questo fanno parte la cerimonia del saluto, le relazioni fra maestro e allievi, le relazioni fra
gli allievi, nonché la venerazione per gli antichi maestri.
Il taoismo
Il taoismo è la filosofia che maggiormente ha influito sul T’ai Chi Ch’üan: quest’arte,
infatti, ha avuto la sua origine, che rimane comunque molto fumosa, sul monte Wu Tang,
luogo amato dagli eremiti taoisti.
Le idee fondamentali del taoismo sono contenute in una famosa opera, il “Tao Te Ching” o
Libro Classico della Via e della Virtù, popolarmente attribuito al filosofo Lao Tzu,
personaggio in parte leggendario, che sarebbe stato di poco più anziano di Confucio.
Purtroppo, però, come per la storia antica della Cina, per la quale non possiamo avere una
16 Confucio visse nell’antica Cina feudale tra il 551 a.C. e il 479 a.C.
54
conoscenza chiara, per la mancanza di fonti, e per l’impossibilità di differenziare tra storia
effettiva e leggenda, anche per il testo del Tao Te Ching non abbiamo riferimenti
abbastanza certi sulla data, sull’autore e sul significato dei suoi scritti; le versioni date dagli
attuali filologi sono assai diverse! Nel presente lavoro, utilizzo la traduzione riportata nel
testo di Chang e Fassi (2004), che ha quantomeno il pregio di rendere più agevole, rispetto
ad altre traduzioni, la comprensione di un significato possibile. Possiamo dire che i due
autori offrono al lettore un’interpretazione già elaborata del testo, riportandone il senso alla
pratica del T’ai Chi Ch’üan: questo, da una parte, rende più agevole la comprensione e,
dall’altra, ci facilita nell’obiettivo di capire meglio quest’arte marziale. Sintetizzando, il
mio attuale interesse non è tanto esporre il vero significato del Tao Te Ching17, ma
comprendere come due maestri di T’ai Chi Ch’üan, nonché individui di ampia cultura,
abbiano applicato il testo originale al T’ai Chi Ch’üan.
Il taoismo è la filosofia del Tao, parola che significa “Via”. Nel confucianesimo, il Tao ha
un significato morale, nel taoismo esso è invece considerato un principio al di sopra della
morale, una specie di legge universale che è insita nella natura e che la regola. Ma il Tao è
un concetto così vasto che non può essere adeguatamente definito, perché “il Tao che può
essere espresso con parole non è il vero Tao”.
L’armonia degli opposti e la loro relatività è un altro insegnamento importante del Tao Te
Ching. Tutti gli opposti vanno dunque accettati e tutto è relativo, pertanto non esiste la
possibilità che uno degli opposti prevalga definitivamente sull’altro. Non dobbiamo lottare
contro le forze della natura, ma dobbiamo fare come il bravo marinaio che non si oppone al
vento, ma usa la sua forza per farsi trasportare. Questo è il famoso principio del “non agire”
(Wu Wei). Tale espressione, però, significa semplicemente che non dobbiamo agire in
modo forzato, ma essere spontanei, lasciar fare al Tao.
Un altro concetto importante è quello del Te, parola che si può tradurre come “Potere
virtuale”: un piccolo seme, per esempio, ha il potere virtuale di trasformarsi in una grande
17 Per un approfondimento, si può consultare la versione del Tao Te Ching intitolata: Tao Te Ching, Il libro
della Via e della Virtù, a cura di J.J.L. Duyvendak, edito da Adelphi nel 1983 nella traduzione dal francese di
A. Devoto.
55
pianta e possiede, quindi, un grande Te. Tutto ciò che ha raggiunto il suo massimo è
soggetto, invece, alla decadenza. Vi è perciò una maggiore potenzialità di vita e di sviluppo
nelle cose apparentemente morbide e deboli che non in quelle dure e forti: “Durezza e
rigidità sono compagne della morte, morbidezza e flessibilità compagne della vita”.
La morbidezza e la cedevolezza sono qualità essenziali nella pratica del T’ai Chi Ch’üan.
Nel T’ai Chi Ch’üan non bisogna mai opporsi alla forza dell’avversario, ma utilizzare la sua
stessa violenza per batterlo. Per il principio del “Non agire”, il T’ai Chi Ch’üan è un’arte
esclusivamente difensiva: non bisogna agire attaccando, ma adattare la nostra azione a
quella dell’avversario.
Il buddhismo Ch’an
Il buddhismo ha le sue origini in India e, quando si diffonde in Cina nel VI secolo d.C.,
adotta alcune categorie del taoismo, il sistema filosofico già esistente in quel contesto: in
questo senso, il buddhismo a cui ci riferiamo in questa discussione è quella particolare
“via” che si è sviluppata dall’intreccio tra categorie del pensiero indiano18 e cinese. Questa
corrente di pensiero prende nome di buddhismo Ch’an, traducibile come meditazione19, ma
18 Del buddhismo ricordiamo qui alcune categorie: quella di anicca, per cui tutto, nell’esistenza, è
impermanente: i piaceri e i dispiaceri, ma anche il sé. A questo concetto si affianca quello di anatta, che
significa che il desiderio proviene dall’ignoranza, perché deriva dalla concezione individualistica dell’io, che
in realtà esiste solo in quanto relazionato: l’identità individuale è un nodo di una rete di relazioni e per questo
non è isolabile. Anatta non nega in modo assoluto ogni sé, ma la pretesa di ogni sé di porsi come assoluto.
Conseguenza è che il desiderio di qualcosa per sé è frutto dell’ignoranza e può portare solo a sofferenza;
l’unica soluzione è quindi l’estinzione del desiderio, lo stato di nirvana. Il nirvana può essere raggiunto
attraverso la saggezza, unita alla morale e alla meditazione: queste tre direttrici del percorso individuale sono
fortemente in interazione (Magni, 2004).
19 La meditazione buddhista consiste nella coltivazione del potenziale della mente, per andare oltre la natura
delle situazioni interne ed esterne nelle quali ci troviamo. Attraverso questo mezzo la percezione erronea
viene corretta, per giungere all’equilibrio e alla tranquillità. Un tipo di meditazione consiste nella
concentrazione della mente su un unico punto focale, in cui si ottiene uno stato di coscienza alterato. L’altra
forma di meditazione, più propriamente buddhista, si chiama vipassana; qui lo stato di concentrazione è
coltivato solo fino all’abolizione delle distrazioni, senza entrare in uno stato di coscienza diverso dalla veglia,
56
è meglio conosciuta in occidente con il nome giapponese Zen20. Il T’ai Chi Ch’üan ha
sicuramente una matrice più taoista che buddhista, ma non si può negare l’influsso della
scuola Ch’an sul suo sviluppo. Il buddhismo Ch’an insegna che si può sperare di arrivare
alla “illuminazione” solo attraverso la concentrazione e la meditazione e non tramite la
conoscenza ed il ragionamento. Durante la meditazione bisogna fare “il vuoto totale” dentro
se stessi, far tacere l’incessante voce della mente, abolire ogni pensiero21. È importante
imparare ad essere distaccati dalle cose, dal proprio corpo, dalle emozioni. Lo stadio più
difficile è infine il distacco dal proprio io. All’inizio occorre un certo sforzo per divenire
senza sforzo; far uso di precise intenzioni, onde esserne privo. Tramite il distacco si entra in
contatto con una realtà diversa: una nuova visione di se stessi e del mondo. “La mente
diventa come uno specchio: è perfettamente lucida, presente e riflette tutto ciò che vi è
intorno senza che pensieri o preoccupazioni possano interferire” (Chang & Fassi, 2004,
pag. 30).
Nella pratica delle arti marziali si può così arrivare a uno stato di ricettività totale, che
permette di reagire istintivamente, inconsciamente e nella maniera corretta al minimo
stimolo.
Un’altra categoria interessante mutuata dal buddhismo indiano è la figura del bodhisattva.
Egli è colui che ha raggiunto un livello tale di sapere, che è entrato in una dimensione di
diversa compassione: è capace di condividere l’altrui dolore e gioia con una benevolenza
incondizionata. Il bodhisattva però non solo sa, ma decide anche di condividere questa sua
conoscenza. Arrivato sulla soglia del nirvana, cioè alla soglia dell’estinzione di ogni
pensiero ed emozione umani, prima di “attraversare il fiume”, egli rinuncia alla propria
estinzione per aiutare gli altri a giungervi (Magni, 2004). Questa figura di maestro ci
ma vivendo in esso in modo nuovo: vivendo un senso di non attaccamento, di apertura e di disponibilità
benevola nei confronti degli altri (Magni, 2004).
20 Il nome Zen consiste solo nella traslitterazione della pronuncia giapponese del termine cinese Ch’an.
21 Questo stato viene definito anche “obliare se stessi”.
57
ricorda di non travisare il vero senso, spesso ricordato dai grandi maestri, del buddhismo
per il Kung fu: esso è un’arte marziale, ma non è per la guerra22.
3.3. La storia del T’ai Chi Ch’üan
Gli storici che si occupano di arti marziali non hanno un compito facile da svolgere: le
origini del T’ai Chi Ch’üan, e in generale del Kung Fu, sono ancora molto discusse e non si
giungerà probabilmente mai a una conclusione soddisfacente (Corcoran & Farkas, 1983):
questo a causa della carenza di documenti scritti (perché la conoscenza era trasmessa molto
gelosamente a pochi individui e perlopiù attraverso una trasmissione orale) e per l’uso di
diversi tipi di trascrizione, adottati per la traslitterazione dagli ideogrammi cinesi (che
hanno prodotto non pochi fraintendimenti). Tutto ciò ha inoltre facilitato la proliferazione
di diverse leggende sulle origini di queste discipline. Una questione abbastanza certa,
comunque, è che l’origine della disciplina più taoista del T’ai Chi Ch’üan e di quella più
buddhista dello Shao Lin Ch’üan siano strettamente correlate.
L’origine dello Shao Lin Ch’üan è datata intorno alla fine del V secolo d.C. sulle pendici
del monte Sung: qui fu costruito un tempio a cui venne dato il nome di Shao Lin Szu, ossia
“tempio della giovane foresta”. Poco alla volta, i monaci iniziarono a praticare le arti
marziali e acquistarono presto fama di invincibilità. Con il passare dei secoli la boxe del
tempio Shao Lin diventò popolare in tutta la Cina e incominciarono a differenziarsi vari
stili, alcuni dei quali molto morbidi e flessibili, che possono essere considerati i progenitori
degli stili interni.
22 A questo proposito, mi sembra doveroso riportare quanto discusso in un colloquio personale con Padre
Davide Magni, studioso di buddhismo e di arti marziali. Egli afferma che il vuoto mentale della meditazione
nel T’ai Chi Ch’üan (e nel Kung fu in generale) non consiste in una sterilizzazione emotiva, ma nel far tacere
i sensi per poter giungere al proprio mondo interno e profondo: in questo caso, obliare se stessi significa
giungere alla radice del nostro bisogno di prevaricare sull’altro per poterlo gestire in modo consapevole,
pervenendo anche alla compassione per l’altro.
58
Per quanto riguarda le origini del T’ai Chi Ch’üan, ci
sono molteplici versioni: una teoria, probabilmente
più leggendaria che reale, è che il T’ai Chi Ch’üan
sia stato creato nel XIII secolo da un monaco taoista
chiamato Chang San Feng (confronta figura 11) e
vissuto nel XIII secolo d.C.
“Narra la leggenda che Chang San Feng, esperto di
arti marziali, un giorno assistette al combattimento
fra una gru ed un serpente. Quest’ultimo si sottraeva
ai secchi e rettilinei colpi di becco dell’uccello con
movimenti morbidi, sinuosi, lenti e continui, ma poi
contrattaccava con fulminea rapidità. Il monaco
comprese, allora, che i movimenti circolari e
continui sono preferibili a quelli rettilinei e
interrotti, e che la morbidezza e la flessibilità
prevalgono sulla durezza e sulla forza come già
aveva insegnato il filosofo Lao Tzu. Egli applicò,
quindi, questi principi alle arti marziali creando così
il T’ai Chi Ch’üan” (Chang & Fassi, 2004, pag. 11).
Una seconda teoria suggerisce che il T’ai Chi Ch’üan ebbe origine da una spontanea
integrazione tra quattro scuole di boxe già esistenti; altri attribuiscono la creazione del T’ai
Chi Ch’üan ad altri personaggi. Le fonti principali, però, concordano nell’affermare che le
prime tracce concretamente riscontrabili su quest’arte marziale si hanno a partire dall’inizio
del XIX secolo, quando veniva insegnato dalla famiglia Ch’en, nella provincia di Honan in
Cina. Alcuni affermano anche che sia questa famiglia ad aver inventato il T’ai Chi Ch’üan
(Corcoran & Farkas, 1983).
Probabilmente, il T’ai Chi Ch’üan ha origine come sviluppo delle prime forme organizzate
di esercizio fisico (Huard & Huong, 1973). La ginnastica antica presentava due aspetti, per
nulla opposti, anzi complementari. Il primo aspetto era basato sul riposo e sull’immobilità.
Era il lavoro dell’energia interiore, il Ch’i Kung, cioè una serie di esercizi di respirazione.
L’altro aspetto si concentrava maggiormente sul movimento e derivava dagli esercizi taoisti
Figura 11: Chang San Feng.
59
(Tao Yin): si realizza con una serie di esercizi, i più antichi dei quali sono otto, si chiamano
Pa Tuan Chin e vengono tuttora svolti all’inizio di ogni sessione di Kung Fu.
Le fonti diventano più precise mano a mano che ci accostiamo ai secoli più vicini a noi.
Così sappiamo che nel 1644 iniziò l’ultima dinastia dell’Impero Cinese, quella dei Ch’ing: i
praticanti di Shao Lin Ch’üan (il più importante stile esterno) rimasero fedeli alla deposta
dinastia Ming e lo stesso tempio Shao Lin diventò uno dei focolai della resistenza e venne
quindi incendiato e distrutto più volte. Per non avere problemi con le autorità, i maestri di
stili interni iniziarono a evidenziare la distinzione fra stili interni ed esterni, rimarcando la
differenza tra le arti da loro praticate e la Boxe del tempio Shao Lin.
Nei primi decenni del XIX secolo, come abbiamo già anticipato, il T’ai Chi Ch’üan era
insegnato in gran segreto e solo a pochi allievi dai membri della famiglia Ch’en. Coloro che
ebbero il merito di diffondere in Cina il T’ai Chi Ch’üan furono però i membri della
famiglia Yang. Per far comprendere l’atteggiamento sospettoso e geloso che regnava
nell’insegnamento delle arti marziali, narriamo una storia suggestiva. Poiché i membri della
famiglia Ch’en non accettavano estranei fra gli allievi, Yang Lu Ch’an, il capostipite della
famiglia Yang, ricorse allo stratagemma di farsi assumere come servitore dal maestro Ch’en
e per molto tempo spiò le sue lezioni allenandosi poi segretamente nelle ore notturne. Fu
infine scoperto dal maestro, ma questi, stupito per l’abilità dimostrata dal giovane
domestico, decise di accettarlo come allievo. In breve egli divenne il migliore di tutti e,
trasferitosi a Pechino, aprì una scuola e iniziò a insegnare la sua arte al pubblico; insegnò
anche ai nobili della corte dei Ch’ing e alle guardie imperiali. Questo ebbe naturalmente
una notevole importanza per la diffusione del T’ai Chi Ch’üan.
Per un lungo periodo di tempo, però, il T’ai Chi Ch’üan venne insegnato esclusivamente
come una forma salutare di ginnastica, mentre gli aspetti marziali continuavano ad essere
trasmessi solo a pochi allievi selezionati.
Poco alla volta si sono pertanto sviluppati due tipi di T’ai Chi Ch’üan:
− Un T’ai Chi Ch’üan “di strada”, destinato al grande pubblico e finalizzato alla
sola ginnastica salutare; questo tipo di T’ai Chi Ch’üan, che si pratica nelle
strade e nei parchi, ha avuto comunque il merito di diffondere quest’arte anche
fuori dalla Cina.
60
− Un T’ai Chi Ch’üan “di scuola”, il cui insegnamento fino a poco tempo fa era
limitato a pochissimi allievi selezionati; questo programma comprende non solo
gli aspetti ginnici e salutari, ma anche quelli marziali, filosofici e meditativi.
L’insegnamento di questo tipo di T’ai Chi Ch’üan è molto rigoroso e richiede
una pratica di molti anni sotto la guida di un vero maestro.
La più ampia diffusione del T’ai Chi Ch’üan in Cina si ebbe ad opera del maestro Yang
Ch’eng Fu, che, però, lo insegnava in pubblico esclusivamente come una forma di salutare
esercizio fisico, riservando l’insegnamento dell’aspetto marziale a pochi allievi. La
diffusione negli USA è avvenuta soprattutto per opera di un allievo di Yang Ch’eng Fu: il
maestro e medico Cheng Man Ch’ing. Per quanto riguarda l’Italia, invece, il maestro Chang
è stato uno dei primi a introdurre le arti marziali cinesi.
Il T’ai Chi Ch’üan è oggi incluso nel sistema delle arti marziali cinesi, ma da una parte ne
viene enfatizzato solo l’aspetto di ginnastica salutare e dall’altra è stata addirittura
introdotta la pratica sportiva agonistica, anch’essa contraria allo spirito profondo dell’Arte:
il T’ai Chi Ch’üan è infatti un’arte esclusivamente difensiva, il cui scopo non è
assolutamente quello di prevalere sugli altri. Inoltre la competizione tende a sviluppare
l’ego, mentre nel T’ai Chi Ch’üan la cosa più importante è “dimenticare se stessi” (Chang
& Fassi, 2004).
3.4. L’essenza del T’ai Chi Ch’üan
Riporto qui di seguito i principi fondamentali del T’ai Chi Ch’üan, elencati dal maestro
Fassi (Fassi, 2006):
• Il nostro cuore deve essere “puro”, ossia vuoto di rancori e di altre emozioni
negative, ma colmo d’amore per Dio, per i compagni e per l’arte che pratichiamo;
• La mente deve essere calma, vuota di preoccupazioni e di pensieri estranei,
concentrata e consapevole di tutto ciò che avviene fuori e dentro di noi, cioè delle
sensazioni fisiche, del respiro, delle tecniche eseguite, del continuo alternarsi di Yin
61
e Yang. Il pensiero deve guidare attivamente la circolazione dell’energia interna
(Ch’i);
• La respirazione deve essere diaframmatica, profonda, lenta, regolare, senza
interruzioni. L’inspirazione e l’espirazione devono essere in perfetto accordo con la
tecnica eseguita;
• Il corpo deve essere rilassato (ma non rilasciato) e la postura corretta (schiena dritta,
gomiti e spalle bassi,…). Tutte le parti del corpo devono essere perfettamente
coordinate
• I movimenti sono lenti (veloci solo in alcune applicazioni marziali), continui e
circolari. Essi nascono sempre da una rotazione o da uno spostamento della vita.
Questi principi sono applicati in tutto il T’ai Chi Ch’üan. Possiamo ricordare qui alcune
parti fondamentali di quest’arte marziale: innanzitutto, il T’ai Chi Ch’üan consiste nella
cosiddetta “forma” (Lu), costituita da 108 posture in continuo mutamento: questo è
l’esercizio fondamentale, che si esegue molto lentamente, da soli o in gruppo, soprattutto
durante le lezioni; esso mima un combattimento contro un avversario immaginario.
Fin dalle prime lezioni, inoltre, ogni allievo è messo a confronto con un altro esercizio,
chiamato T’ui Shou, ossia “spingere con le mani”: queste tecniche si applicano in coppia e
sono finalizzate non ad apprendere come spingere un avversario, ma ad imparare a deviare
una forza che viene esercitata da un avversario contro di noi. L’esercizio del Lu serve
Alcune tecniche della forma di T’ai Chi Ch’üan.
62
quindi per imparare a dirigere la nostra energia, mentre il T’ui Shou serve per imparare a
controllare l’energia di un’altra persona.
Anche la pratica delle armi fa parte dell’arte del T’ai Chi Ch’üan. Le armi fondamentali
sono quattro: la sciabola, il bastone lungo, la lancia e la spada23.
Anche in questo caso esiste sia un esercizio-forma, contro un avversario immaginario, sia
un esercizio in coppia24. Se inizialmente l’allievo deve imparare a controllare l’arma, ad un
secondo livello l’arma diventa un prolungamento del corpo, come se uomo e arma fossero
uniti; ma il livello della vera maestria si ha quando l’arma acquista come una vita propria,
tale da dare l’impressione che sia l’arma stessa a muovere il corpo della persona.
23 È interessante notare che ogni arma e il pugno (che simboleggia tutte le tecniche a mono nuda) è in
relazione con uno dei cinque elementi: il bastone rappresenta il legno, la sciabola il metallo, la lancia il fuoco,
la spada (che è l’arma più nobile) l’acqua e il pugno la terra. Come nella teoria degli elementi di Yin e Yang,
quindi, ogni arma può essere battuta dall’arma successiva secondo una visione di ciclicità, per cui anche
l’ultima arma della lista, quella più nobile (la spada) può essere vinta da un avversario disarmato, perché la
terra vince sull’acqua: la mano nuda, che normalmente viene battuta da un semplice bastone può dunque
arrivare a prevalere sulla spada.
24 Caratteristica specifica degli esercizi in coppia con le armi del T’ai Chi Ch’üan è che le due armi non si
urtano mai, ma si sfiorano soltanto. Ogni attacco infatti deve essere neutralizzato con un’opportuna schivata
del corpo e non deve essere parato opponendo forza a forza.
Alcune tecniche con le armi: sciabola e bastone.
63
Oltre a questi, esistono molti altri esercizi nel T’ai Chi Ch’üan; ho scelto di descrivere
questi perché alcuni intervistati hanno fatto riferimento ad essi per spiegare il loro rapporto
con il T’ai Chi Ch’üan.
3.5. La forza interna
“La forza del T’ai Chi Ch’üan viene dall’interno ed è basata sulla morbidezza e sul
rilassamento. Quanto più sarete morbidi, tanto più rapidamente acquisterete la forza
interna. Quando siete rilassati le vostre braccia diventano pesanti, altrimenti esse tendono,
per così dire, a galleggiare” (Chang & Fassi, 2004).
Ciò che si impara praticando T’ai Chi Ch’üan è che nella morbidezza dei movimenti esiste
una qualità di forza diversa da quella muscolare, che noi occidentali siamo abituati a
pensare come unica forza esistente. Questo nuovo tipo di forza, che potremmo definire
psicofisica, è chiamata Nei Chin in lingua cinese (tradotto “forza interna”) e si ottiene
essenzialmente come effetto della canalizzazione e della concentrazione dell’energia
interna. Non bisogna però considerare Nei Chin come una forma di forza avente
caratteristiche misteriose o addirittura quasi magiche; essa ha invece una concreta realtà
fisica, o meglio psicofisica. Tutte le parti del corpo umano (muscoli, ma soprattutto
tendini,…) giocano infatti la loro parte nello sviluppo di Nei Chin, ma devono avere il
supporto della mente, necessario per il rilassamento del corpo (per eliminare i blocchi a
livello di muscoli e articolazioni) e per la concentrazione (focalizzazione dell’attenzione).
Nei Chin è una forza di natura morbida, viva ed elastica. Tradizionalmente quest’idea viene
espressa dicendo che essa è una forza “rotonda”, riferendosi sia alla sua qualità di
movimento morbido, sia al fatto che sfrutta il movimento circolare e quindi la forza
centrifuga. Con Nei Chin, per esempio, si può neutralizzare un attacco rettilineo con una
rotazione del proprio corpo, sfruttando la forza del nostro avversario e spingendolo via
lungo una linea tangente alla curva del nostro movimento; ma, come dimostra anche questo
esempio, pur essendo morbida, Nei Chin è infinitamente superiore alla dura forza ottenuta
dalla contrazione muscolare. “Il trattato attribuito a Wu Yü Hsiang è molto chiaro in
64
proposito: Nei Chin è come acciaio temprato cento volte, capace di distruggere ogni
durezza” (Chang & Fassi, 2004, pag. 95).
3.6. Le tre forme di energia interiore
Scopo del T’ai Chi Ch’üan è quindi imparare a utilizzare e a sviluppare Nei Chin, la forza
interna. Per acquisire Nei Chin, bisogna precedentemente imparare a controllare un tipo di
energia denominata anch’essa interna, cioè un’energia diversa da quella muscolare.
Secondo il pensiero taoista, l’uomo è per così dire
impregnato di tre energie interiori, differenziate per le
funzioni da loro svolte e per il loro grado di raffinazione: la
prima si chiama Ching, è la meno raffinata. Qui ci basta
sapere che è “l’essenza”, la sostanza originale di cui una
cosa è fatta e che ne conserva la vera natura fino al suo
declino. La seconda è Ch’i e la terza è Shen.
Le ultime due forme di energia interna sono più importanti
per i miei scopi di ricerca, quindi le tratterò in modo più
dettagliato.
La seconda energia è chiamata Ch’i, parola che si può
tradurre in molti modi, tra i quali i più significativi mi
sembrano: energia interna, energia vitale, energia
respiratoria. Respirando, gli esseri viventi si caricano di
energia vitale e grazie a quest’ultima possono muoversi e
vivere. Durante l’atto respiratorio, l’aria cede
all’organismo non solo l’ossigeno, ma anche il Ch’i.
Quest’ultimo percorre nell’organismo determinati canali
energetici (i cosiddetti “meridiani” dell’agopuntura), che
vengono stimolati e quindi riattivati durante il movimento del T’ai Chi Ch’üan, attraverso
la pressione su specifici punti vitali: per meglio comprenderlo, possiamo descrivere il Ch’i
Figura 12: La piccola
circolazione del Ch’i: durante la
respirazione, il Ch’i deve
circolare nel corpo attraverso un
percorso che inizia e termina nel
naso, passando dal Tan T’ien.
65
come un fluido psicofisico. Il Ch’i può venire attivato, diretto e fatto fluire nel corpo dalla
mente, con risultati straordinari riguardanti innanzitutto il benessere psicofisico e,
conseguentemente, la capacità di sviluppare forza interna (Chang & Fassi, 2004). Per
praticare correttamente il T’ai Chi Ch’üan è importante che l’aria, inspirata attraverso il
naso, raggiunga il centro del nostro ventre; in altre parole, dobbiamo adottare una
respirazione di tipo diaframmatico (addominale) e non una respirazione toracica. Questo
concetto è espresso nel Trattato Classico di T’ai Chi Ch’üan, di Wang Tsung Yüeh, come
“ far scendere il Ch’i nel Tan T’ien” (Chang & Fassi, 2004, pag. 56), cioè nel punto
energetico che rappresenta il baricentro del nostro corpo (confronta figura 12). Per far
scendere il Ch’i nel Tan T’ien la mente gioca un ruolo importante: bisogna avere un’intensa
consapevolezza dell’accumulo del Ch’i nel nostro baricentro. In tal modo la mente diventa
calma e concentrata ed è allora possibile raggiungere una perfetta coordinazione fisica e
mentale.
Nel T’ai Chi Ch’üan è pertanto di fondamentale importanza imparare a “sentire” il Tan
T’ien, che possiamo considerare il nostro centro psicofisico. Peraltro, il controllo del
respiro è basilare anche nella vita quotidiana: alle emozioni negative, alle tensioni fisiche e
psichiche si può infatti reagire controllando la respirazione, rendendola profonda
(addominale) e regolare.
Bisogna ricordare anche che per praticare il T’ai Chi Ch’üan è essenziale uno stato di
rilassamento dell’intero corpo, in assenza del quale il Ch’i fluisce nei meridiani con
difficoltà, come l’acqua scorre a fatica in un canale ostruito. Per rilassare il corpo è
necessario allentare le tensioni dei muscoli, dei tendini e dei legamenti: per questo motivo
bisogna bandire la forza ottenuta dalla contrazione muscolare. L’allentamento delle tensioni
deve essere intenzionale, quindi si deve imparare ad avere consapevolezza delle parti del
corpo contratte. Un presupposto importante è quindi quello di avere una mente calma; ma
uno stato di rilassamento psicofisico è ottenibile anche attraverso la regolazione della
respirazione.
Le emozioni positive (serenità, gioia, entusiasmo,…) sono collegate al rilassamento e
quindi alla respirazione addominale, mentre quelle negative (rabbia, dolore, paura,…)
provocano delle tensioni fisiche; in questi casi, è facile che si usi la respirazione toracica: il
66
respiro allora diventa corto e affannoso (per esempio, quando singhiozziamo per il dolore o
trasaliamo per la paura).
Nella bibliografia sul T’ai Chi Ch’üan si legge spesso della necessità di controllare le
emozioni (Yu, 2005) e degli effetti che la pratica di quest’arte marziale ha sullo sviluppo di
questa capacità (Cicerone, 2006): con l’espressione “controllo” si intende l’esigenza di
regolare la respirazione per mantenere uno stato rilassato, che permette la libera
circolazione dell’energia interna.
Secondo la medicina tradizionale cinese il Ch’i, circolando nel corpo, svolge varie funzioni:
è la fonte di ogni movimento; è la causa delle trasformazioni che avvengono dentro di noi;
mantiene funzionali gli organi interni, proteggendoli dalle cosiddette “influenze perniciose
esterne”.
C’è uno stretto rapporto tra Ch’i e pensiero: quest’ultimo può guidare il Ch’i in tutto il
corpo, attraverso una forma di attenzione focalizzata, che deve anticipare il flusso
dell’energia per dirigerla nella direzione giusta. Bisogna quindi sviluppare consapevolezza
del Ch’i e di ogni parte del nostro corpo: questo obiettivo può essere raggiunto grazie alla
meditazione seduta o in movimento. Il T’ai Chi Ch’üan è appunto una forma di
meditazione dinamica, che facilita la concentrazione perché obbliga a concentrarsi sul
movimento, dimenticando in maniera naturale ogni possibile distrazione.
È importantissimo raggiungere la consapevolezza fisica del flusso del Ch’i, perché solo
così esso può essere sviluppato e controllato. Bisogna imparare a visualizzare l’interno del
nostro corpo e letteralmente spingere con il pensiero la corrente del Ch’i nella direzione
voluta.
Il T’ai Chi Ch’üan è eseguito molto lentamente proprio per permettere alla mente di
affrontare questo grande impegno di concentrazione; dopo parecchi anni di studio alcuni
praticanti raggiungono uno stato in cui il Ch’i va autonomamente nella direzione giusta,
rendendo possibile “svuotare” la mente e raggiungere un vero e proprio stato meditativo.
La terza energia interna è chiamata Shen, traducibile come “energia mentale”: è la forma
più raffinata di energia interna e solo l’essere umano può possederla. Shen è l’energia che
67
rende possibile la concentrazione (attenzione focalizzata) e la consapevolezza del corpo in
ogni sua parte. Il suo forte legame con le funzioni mentali è testimoniato anche dalla
localizzazione della fonte di Shen in un punto al centro della fronte tra i due sopraccigli;
una volta attivata e concentrata in questo punto, l’energia non rimane però ferma ma circola
in tutto il corpo.
“Due flussi di energia si muovono dunque in due direzioni opposte e la mente deve essere
focalizzata sia nel baricentro del corpo sia alla sommità del capo. Con ciò si ottiene non
solo il perfetto bilanciamento psicofisico dell’individuo, ma anche la possibilità di ottenere
la vera forza” (Chang & Fassi, 2004, pag. 90).
L’unione tra Ch’i e Shen rende possibile la concentrazione applicata al movimento del
corpo, l’intima unione di energia mentale e moto, che rende fluidi, maestosi e vitali i
movimenti. Qui è da rintracciare l’integrazione, il vero e proprio legame tra mente e corpo.
Grazie a Shen la mente perviene a quello stato di concentrazione perfetta che è la
condizione necessaria per raggiungere, in seguito, uno stato di “supercoscienza” in cui si
arriva a perdere consapevolezza del proprio io, pur rimanendo presenti. Questo è lo stato in
cui l’Uomo e il Tao (la “Via”) sono fusi insieme (Chang & Fassi, 2004).
3.7. Collegamento tra T’ai Chi Ch’üan e Psicologia: emozioni ed identità
Finora, ho descritto il T’ai Chi Ch’üan nella sua anima di arte marziale e come forma di
meditazione dinamica; c’è però una terza caratteristica intrinseca al T’ai Chi Ch’üan: il suo
essere anche una forma di ginnastica psicofisica. Da questo punto di vista, esso svolge
funzioni preventive (conservazione della salute) e terapeutiche (cura di varie affezioni), sia
di tipo fisico, sia psicosomatico. Il T’ai Chi Ch’üan viene utilizzato a scopi terapeutici in
vari Paesi orientali e occidentali, ritenendo che possa essere quantomeno un valido
supporto di altre metodologie terapeutiche (Chang & Fassi, 2004).
68
Uno degli scopi del T’ai Chi Ch’üan è infatti quello di potenziare l’energia interna.
Abbiamo visto nei paragrafi precedenti che, per sviluppare l’energia interna, il T’ai Chi
Ch’üan utilizza alcune competenze e quindi ne favorisce lo sviluppo. In particolare:
− Favorisce il rilassamento psicofisico, anche grazie all’insegnamento di tecniche di
respirazione e grazie ai movimenti lenti eseguiti in piena decontrazione muscolare;
− Sostiene lo sviluppo della consapevolezza del corpo in ogni sua parte. In questo ha
un ruolo anche la respirazione addominale, che agisce come un massaggio a
beneficio degli organi interni, rendendo possibile “sentirli”;
− Favorisce lo sviluppo delle capacità di attenzione focalizzata, che, da una parte
consente di “sgombrare” la mente dai pensieri confusi e disorganizzati, e dall’altra
parte consente di migliorare le tecniche, rendendosi conto delle posture scorrette,
spesso connesse a contratture e blocchi, consentendo quindi di eliminare le tensioni
psicofisiche. Per potenziare le capacità di concentrazione, vengono incentivate
anche tecniche di visualizzazione.
Inoltre, attraverso la pratica si può arrivare a comprendere meglio il proprio modo di essere,
fino a una consapevolezza vera di sé e della propria unità psicofisica; il graduale
superamento di ostacoli e “limiti” conduce a maggior fiducia nelle proprie capacità e a
maggior coraggio nell’affrontare se stessi e il mondo.
Il percepirsi come unità psicofisica e la consapevolezza del proprio corpo fin negli organi
interni, sono argomenti di grande interesse per i costrutti psicologici di identità e di
emozioni. Le emozioni (confronta capitolo 2), infatti, svolgono un ruolo cruciale
nell’integrazione tra mente e corpo, e la consapevolezza del proprio corpo (per esempio dei
propri marker somatici) è una competenza importante dell’autoconsapevolezza emotiva.
Inoltre, la flessibilità dei comportamenti emozionali, necessaria per il benessere
psicologico, passa necessariamente attraverso la strettoia dei processi della memoria di
lavoro, che coinvolgono la coscienza e l’attenzione (Siegel, 2001): come abbiamo visto, la
pratica costante del T’ai Chi Ch’üan può sviluppare le potenzialità individuali in questi
ambiti.
69
La conoscenza di sé mi sembra un altro punto di collegamento interessante tra il costrutto
psicologico di identità e il T’ai Chi Ch’üan. Il maestro Li I Yü afferma a questo proposito:
“praticando con costanza l’esercizio fondamentale di T’ai Chi Ch’üan – la cosiddetta
“forma”, che si esegue individualmente e rappresenta un combattimento con un avversario
immaginario – è possibile conoscere se stessi, invece gli esercizi di combattimento a due
permettono di conoscere gli altri” (Chang & Fassi, 2004, pag. 159).
Nell’arte marziale del T’ai Chi Ch’üan, conoscere se stessi significa essere consapevoli
della propria energia; conoscere l’avversario vuol dire invece comprendere l’energia di chi
ci attacca (ricordando che per “energia” si intende un concetto diverso dall’energia fisica).
Per conoscere l’altro (la sua energia), il praticante deve “dimenticare se stesso”, nel senso
di avere la mente libera da qualsiasi intenzione per aderire all’avversario, seguendone i
movimenti e le intenzioni con il proprio corpo e mente. Il principio del “dimenticare se
stessi” è quindi inteso come una forma di meditazione che connette l’Uomo con l’Altro- da-
sé e permette la vera comprensione delle cose, migliorando, paradossalmente, anche la
comprensione di sé.
La conoscenza di sé è un punto importante anche del costrutto psicologico di identità (si
veda per esempio, nel capitolo 1, la definizione di identità fornita da Erikson).
Nell’affrontare questa ricerca, mi è sembrato interessante osservare come il T’ai Chi
Ch’üan possa influire sullo sviluppo dell’identità, per esempio fornendo agli individui che
lo praticano con dedizione e continuità un nuovo modo per conoscere se stessi e forse un
nuovo modo per entrare in relazione con gli altri.
Interiormente, mi risuona un richiamo reciproco tra la necessità di porsi in una posizione
“trascendentalizzata” (la teoria di Bartholini, citata nel capitolo 1) tra l’identità propria e
altrui, in modo da creare un dialogo e non rifugiarsi nell’isolamento e, dall’altra parte,
l’invito dei maestri di T’ai Chi Ch’üan a dimenticare se stessi per aderire e comprendere
l’avversario (l’altro): svuotare la mente per avere una comprensione più lucida di tutta la
realtà, interna ed esterna al soggetto.
Riassumendo, il collegamento tra T’ai Chi Ch’üan e costrutti psicologici chiama in causa
alcune parole chiave. Queste sono: consapevolezza del corpo, attenzione focalizzata,
70
visualizzazione, rilassamento, controllo delle emozioni, integrazione psicofisica,
consapevolezza dei propri limiti e delle proprie potenzialità, meditazione.
Ci sono, a mio avviso, altre parole che collegano T’ai Chi Ch’üan e Psicologia, ma queste
non sono altrettanto indagate in rapporto a quest’arte marziale. La mia intenzione è di
cogliere l’occasione della mia ricerca sperimentale per approfondire anche questi aspetti:
apprendimento ed emozioni a esso connesse, relazioni con il gruppo e con il maestro,
consapevolezza delle proprie emozioni.
71
CAPITOLO 4 - LA RICERCA
4.1. Questioni aperte e finalità della ricerca
Prima di iniziare la parte sperimentale, mi sembra utile definire alcuni punti di conclusione
della parte teorica e alcune questioni aperte dalla stessa, giacché saranno anche i punti di
partenza per il proseguimento del lavoro.
Innanzitutto, proviamo a chiederci: che cosa unisce identità ed emozioni?
I fili dell’identità e delle emozioni si intrecciano in vari punti del loro percorso e
analizzando il materiale bibliografico possiamo ipotizzare alcuni nodi possibili. Questi
sono:
− Il tema dell’autoconsapevolezza;
− Identità come mindful body ed emozioni come energia che connette mente e corpo;
− Relazioni sociali significative come opportunità per sviluppare un incontro
emozionale e, attraverso questo, per espandere l’autoconsapevolezza e
l’integrazione di sé.
L’intenzione sottostante alla presente ricerca è di esplorare in modo più dettagliato il
rapporto tra identità ed emozioni, generando, alla fine, delle ipotesi sui punti di intersezione
tra questi due aspetti della mente umana.
Questa ricerca dei “territori comuni”, in cui emozioni e identità si intrecciano, non è però
indagata in astratto, ma nel contesto della pratica del T’ai Chi Ch’üan.
Una parte consistente della ricerca, quindi, riguarderà l’analisi di quali effetti il T’ai Chi
Ch’üan possa avere in relazione alle diverse componenti che abbiamo visto, nella parte
teorica, essere costitutive di identità ed emozioni. Un interrogativo sarà quindi: come
interviene la pratica di quest’arte marziale su identità ed emozioni?
72
Più nello specifico, le questioni aperte riguardano i possibili effetti della pratica di T’ai Chi
Ch’üan soprattutto sull’autoconsapevolezza, sulla realizzazione di un “mindful body” e
sulla gestione delle emozioni (soprattutto in termini di flessibilità del comportamento
affettivo).
Oltre ad elencare gli effetti del T’ai Chi Ch’üan, però, il mio interesse è rivolto anche a
cercare di capire quali possano essere i fattori che rendono possibili questi effetti,
considerando, oltre ad alcuni fattori intrinseci alla specifica arte marziale, anche e
soprattutto i fattori sociali, cioè le relazioni che i vari soggetti intrecciano in palestra.
Verranno quindi indagate le caratteristiche dell’identificazione, le caratteristiche dei gruppi
di praticanti, le variabili cognitive, affettive e sociali della relazione maestro-allievo.
Volendo sintetizzare tutti questi interrogativi, possiamo dire che essi intendono sottoporre a
verifica, nel settore dell’arte marziale del T’ai Chi Ch’üan, la forte affermazione di Dyck e
Archetti (2003) secondo cui “ciò che l’azione sportiva produce è il sé”.
4.2. Gli interrogativi di ricerca in dettaglio
Analizzando la prima parte teorica, emergono molte questioni aperte, che riporto qui di
seguito in modo dettagliato, perché rappresentano gli interrogativi concreti per i quali
cercherò di trovare una risposta in questa seconda parte del lavoro: essi sono da una parte
gli scopi conoscitivi della ricerca, dall’altra sono le fondamenta da cui ho iniziato a
costruire gli strumenti e saranno in seguito le domande che utilizzerò per l’analisi delle
risposte.
Inserisco fin da ora, per comodità, la distinzione tra questioni riguardanti gli allievi, il
maestro, o entrambe le figure. Questa scelta è finalizzata a facilitare la seguente creazione
di due razionali diversi per le interviste ai maestri e agli allievi. Inoltre, di fianco a ogni
interrogativo ho indicato l’area tematica del razionale alla quale si riferisce.
Il razionale, che rappresenta lo schema delle aree di indagine, è descritto dopo gli
interrogativi, perché deriva dalla sintesi e schematizzazione degli stessi.
73
Gli aspetti relativi solo agli allievi sono:
− Come è vissuta l’identità di “praticante di T’ai Chi Ch’üan” dagli allievi di vari
gradi? È vissuto come un sé integrato o come adozione di una maschera
provvisoria? Si riferisce all’area A1)1
− Che tipo di investimento affettivo comportano le relazioni instaurate all’interno
dell’associazione sportiva? Come si riflette questa appartenenza sull’identità dello
sportivo? A2)1 A1)1
− Quanto gli allievi considerano emozionalmente significativa la relazione con il
maestro di T’ai Chi Ch’üan? A2)1
− Come viene vissuta l’identificazione con il gruppo di T’ai Chi Ch’üan? A2)1
Gli aspetti relativi solo al maestro sono:
− Quanto il maestro si sente emozionalmente significativo per gli allievi? B2)1
− Ci sono differenze tra la concezione occidentale e cinese di identità e identificazione
nella società attuale? B5
Alcuni aspetti sono relativi a entrambe le figure:
− Quali sono gli aspetti dell’identità coinvolti nell’essere un “praticante di T’ai Chi
Ch’üan”? Particolare attenzione sarà rivolta ai seguenti aspetti: la percezione e il
sentimento del proprio corpo, le proprie produzioni (l’organizzazione quotidiana del
proprio tempo, i propri interessi,…), il sentimento di riuscire il meglio possibile in
un dominio di eccellenza, il rapporto con la propria storia personale e culturale, il
confronto con altre tradizioni e simboli culturali (orientali), il gioco di equilibrio tra
il bisogno di appartenenza al gruppo/associazione e il bisogno di distinzione e
personalizzazione, la creazione di un progetto formativo, la scoperta e il
disvelamento cosciente di sé agli altri. A1)1 B1)2
− Praticare T’ai Chi Ch’üan è vissuto come una modalità che facilita l’integrazione di
molteplici sé? Dal punto di vista autoriflessivo o affettivo? A1)2.1 B1)3.1
74
− Le emozioni e/o sensazioni provate nel praticare T’ai Chi Ch’üan riflettono un
sentimento di connessione (tipico dei fenomeni di risonanza intraindividuale e/o
interindividuale, che consentono l’integrazione)? A2)1 A2)2 B2)1 B2)2
− Esistono caratteristiche peculiari della partecipazione a un’associazione sportiva,
che favoriscono un investimento affettivo dell’individuo sul gruppo? A2)1 B2)1
− Come viene vissuto il rapporto con la cultura cinese? A1)1 B1)2
− Le relazioni con il maestro e con i compagni di pratica presentano alcune delle
caratteristiche degli scambi emozionali che permettono un’espansione diadica della
consapevolezza? A2)1 B2)1
− La pratica del T’ai Chi Ch’üan sviluppa l’autoconsapevolezza emotiva? A2)3.2
B2)3.2
− La pratica del T’ai Chi Ch’üan sviluppa la flessibilità del comportamento
emozionale?A2)3.1 A2)3.3 B2)3.1 B2)3.3
− La pratica del T’ai Chi Ch’üan sviluppa l’autoconsapevolezza del corpo? A1)2.2
A1)2.3 A2)3.2 B1)3.2 B1)3.3 B2)3.2
− L’ipotizzato incremento di consapevolezza delle sensazioni propriocettive si riflette
anche su componenti diverse dell’identità? A1)2 B1)3
− Il T’ai Chi Ch’üan ha effetti di integrazione tra mente e corpo? A1)2.2 B1)3.2
− Il movimento del corpo nella pratica del T’ai Chi Ch’üan si riflette sulle emozioni?
A2)4 B2)4
− Il movimento del corpo nella pratica del T’ai Chi Ch’üan incrementa la
consapevolezza di sé? A2)4 B2)4 A1)2.3 B1)3.3
− La pratica del T’ai Chi Ch’üan influisce su alcuni aspetti della valutazione di uno
stimolo emotigeno? In particolare influisce sulla capacità di percepire e/o di
modificare alcuni marker somatici? A2)3.1 B2)3.1 A2)3.2 B2)3.2 A1)2.3 B1)3.3
− Il costrutto di autocontrollo è equivalente a quello di autoregolazione emotiva?
A2)3.1 B2)3.1
− In che modo la pratica del T’ai Chi Ch’üan influisce sulla regolazione emotiva?
A2)3.3 B2)3.3
75
Agli interrogativi precedenti, derivanti direttamente dall’esame bibliografico riportato nella
parte teorica, possono essere aggiunti altri interrogativi coinvolti nei costrutti di identità ed
emozioni: tra di essi, quelli applicabili solo al maestro sono:
− La formazione degli istruttori relativamente agli aspetti della relazione. B3
− Come è concepito il gruppo dal maestro? B4
− Quale concezione di apprendimento/insegnamento è sostenuta dal maestro?
(esempio: apprendimento dal gruppo, dall’autoriflessione, dall’autorità,…
apprendimento “tecnico” o “totalizzante”, che coinvolge l’allievo nella sua intera
persona,…) (Esempio di domanda: secondo lei, quali sono le cose essenziali che un
allievo deve fare per apprendere il T’ai Chi Ch’üan?) B3
Gli altri interrogativi coinvolti, applicabili sia al maestro sia agli allievi, sono:
− Concezioni dell’apprendimento e dell’insegnamento per maestro e allievi. A3 B3
− Come viene gestita l’emozione nel gruppo? A2)3.3 B2)3.3
− Come vengono gestite le emozioni provate dal singolo? A2)3.3 B2)3.3
− Metafore per descrivere i rapporti (allievo-maestro, con il gruppo, ruolo,…). A2)1
A2)3.3 A3 B2)1 B2)3.3 B3
4.3. Gli obiettivi conoscitivi: il razionale
I precedenti interrogativi possono essere schematizzati in alcune aree, per comprendere
meglio gli scopi della successiva ricerca. Di seguito specifico le aree, già distinte tra:
indagine con i maestri e indagine con gli allievi.
A) Aree d’indagine riguardanti gli allievi:
1) Il T’ai Chi Ch’üan e l’identità:
1. L’identità “praticante di T’ai Chi Ch’üan”
76
1. Quali aspetti coinvolti?
2. Integrazione con gli altri sé
3. Rapporto con la cultura cinese
2. Effetti del T’ai Chi Ch’üan sull’identità dei praticanti
1. Sull’integrazione tra diversi sé
2. Sull’integrazione tra mente e corpo
3. Sull’autoconsapevolezza
2) Il T’ai Chi Ch’üan e le emozioni:
1. Investimento affettivo
1. Sulle relazioni in palestra
2. Sull’apprendimento del T’ai Chi Ch’üan
2. Emozioni provate nella pratica
3. Effetti del T’ai Chi Ch’üan sulla capacità di gestire le emozioni
1. Regolazione emotiva
2. Autoconsapevolezza emotiva (saper percepire i marker)
3. Modalità di regolazione delle emozioni
a. Del soggetto
b. Nel gruppo
4. Effetti del movimento sulle emozioni
3) Concezioni dell’apprendimento e dell’insegnamento.
B) Aree d’indagine riguardanti i maestri:
1) Il T’ai Chi Ch’üan e l’identità:
1. Il T’ai Chi Ch’üan e l’identità del maestro
1. Aspetti dell’identità professionale
2. Rapporto con la cultura cinese
2. Il T’ai Chi Ch’üan e l’identità degli allievi: quali aspetti coinvolti?
3. Effetti del T’ai Chi Ch’üan sull’identità:
1. Sull’integrazione tra diversi sé
2. Sull’integrazione tra mente e corpo
3. Sull’autoconsapevolezza
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2) Il T’ai Chi Ch’üan e le emozioni:
1. Investimento affettivo
1. Investimento affettivo sugli allievi
2. Rappresentazioni dell’investimento affettivo degli allievi
2. Emozioni provate nella pratica
3. Effetti del T’ai Chi Ch’üan sulla capacità di gestire le emozioni
1. Regolazione emotiva
2. Autoconsapevolezza emotiva (saper percepire i marker)
3. Modalità di regolazione delle emozioni
a. Del soggetto
b. Nel gruppo
4. Effetti del movimento sulle emozioni
3) Concezione dell’apprendimento/insegnamento
4) Concezione del gruppo
5) Diversità di concezioni nella cultura occidentale e cinese
4.4. La metodologia
Scelte metodologiche
Le finalità conoscitive sottostanti alla presente ricerca sono, come detto in precedenza,
innanzitutto la descrizione delle variabili identità ed emozioni, inserite nel contesto dell’arte
marziale del T’ai Chi Ch’üan; in secondo luogo, il fine è formulare delle ipotesi sui rapporti
reciproci tra queste variabili.
L’ottica della ricerca si qualifica come qualitativa, per l’attenzione diretta alle parole e ai
significati intesi dai soggetti della ricerca: lo scopo è infatti quello di indagare identità ed
emozioni dal punto di vista dei soggetti, cogliendo il più possibile la ricchezza dei loro
significati, senza forzarli in etichette prestabilite e rilevando tali significati nel loro contesto
naturale.
78
Un oggetto di studio può infatti essere indagato dall’esterno, attribuendo un maggior peso
al significato dato dal ricercatore, o può essere compreso da un punto di vista interno ai
soggetti, evidenziando i significati delle persone che hanno un’esperienza diretta di tale
oggetto. Nello studio dello sport è stato spesso utilizzato il primo approccio, ma, poiché lo
sport e le altre attività corporee sono processi dai quali possiamo trarre significati, si ritiene
ora più produttivo un approccio in grado di cogliere quali siano questi significati locali
(Dyck & Archetti, 2003) e l’approccio emico risulta quindi più valido. Anziché le
descrizioni dall’esterno dei vari aspetti concernenti uno sport, si privilegiano quindi le
narrazioni, che amplificano le voci individuali dei praticanti (Dyck & Archetti, 2003).
Un ulteriore motivo per privilegiare le narrazioni fornite dai soggetti è legato alla natura
dell’oggetto della ricerca: identità ed emozioni. Le narrazioni, infatti, sono in stretta
connessione con l’identità: possiamo considerare la narrazione sia come una forma di
espressione dell’identità, sia come un’opportunità di dare una forma più integrata ai propri
ricordi, compiendo un vero e proprio atto autobiografico di interpretazione e sviluppando
l’identità stessa.
In questa ricerca, inoltre, vengono intervistati maestri e allievi riguardo al loro rapporto
formativo di apprendimento/insegnamento. Il raccontare e il raccontarsi diventa quindi
anche un materiale di per sé potenzialmente formativo, che permette una maggiore
integrazione tra idee e parole fino allora rimaste inespresse nella mente degli intervistati, i
quali hanno così la possibilità di sperimentare l’aprirsi di spazi di novità e di recuperare
elementi importanti per il proprio sé personale (e professionale, almeno per i maestri).
Per questo, la mia scelta metodologica è stata quella di adottare uno strumento di
rilevazione che riuscisse a dare importanza alle narrazioni offerte dai soggetti di questa
ricerca. L’intervista e l’analisi di contenuto carta-matita dei testi narrativi prodotti mi
sembrano lo strumento e la modalità di analisi più adatti a comprendere il senso soggettivo
degli intervistati e a cogliere in modo più vero e profondo le variabili connesse alla loro
identità ed emozioni.
All’interno delle interviste ho utilizzato uno strumento semi-proiettivo: in una domanda
finale, chiedo all’intervistato di osservare e scegliere tra varie fotografie, quelle che
rappresentano meglio il modo in cui lui/lei vive il T’ai Chi Ch’üan. L’inserimento di questa
79
domanda permette all’individuo intervistato di esprimere le sue rappresentazioni e le sue
emozioni utilizzando una comunicazione di tipo figurativo, affiancata a quella verbale,
permettendogli anche di sentirsi maggiormente a suo agio e di allentare la tensione
accumulata durante l’intervista.
Un’ulteriore precisazione relativa allo strumento di intervista: ho scelto di formulare una
domanda in cui chiedo all’intervistato di osservare alcuni cartoncini riportanti alcuni temi
da approfondire nel colloquio e di parlarmene molto liberamente, eventualmente
selezionandoli, disponendoli in una sequenza, … La scelta di questa metodologia è
motivata dall’intenzione di:
− seguire il discorso spontaneo del soggetto;
− mettere il soggetto maggiormente a proprio agio;
− rendere più interattivo lo strumento;
− ottenere informazioni più ricche: l’intervistato può tornare più liberamente su temi
già trattati in risposte precedenti, perché non risponde a domande in sequenza;
− lasciare il soggetto più libero di creare un discorso generale: le aree indagate sono
infatti strettamente connesse tra loro, quindi per l’intervistato potrebbe essere
difficile isolarle per dare una risposta su un’area specifica;
− consentire al soggetto di selezionare solo alcune aree, evitando di rispondere a
domande che potrebbe avvertire come eccessivamente invasive.
Gli strumenti: le interviste
Prima di illustrare gli strumenti utilizzati nella ricerca, va tenuto presente che le interviste
sono strumenti approntati da un ricercatore per facilitargli la conoscenza di una realtà. Non
dovrebbero essere strumenti di schematizzazione della conoscenza. Le domande presentate
di seguito in una data sequenza, quindi, costituiscono una traccia teorica, che va adattata al
discorso spontaneo dell’intervistato per facilitare l’espressione del suo modo di
rappresentare la realtà. Queste interviste sono infatti idealmente concepite come un
colloquio con argomenti prestabiliti da trattare, ma con una sequenza non rigida e con la
possibilità di inserire domande diverse a seconda dell’intervistato. Allo stesso tempo, la
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sequenza proposta è finalizzata a mantenere la conversazione su un filo conduttore il più
possibile fluido e spontaneo.
Domande dell’intervista per i maestri
Introduzione da leggere all’intervistato:
Questa intervista intende approfondire alcuni campi di conoscenza sul T’ai Chi Ch’üan
connessi con la Psicologia. In particolare ci soffermeremo sul rapporto tra T’ai Chi Ch’üan,
consapevolezza di sé, emozioni e relazioni sociali.
Nei limiti del tempo che può concedermi, sono particolarmente interessata non solo alle
conoscenze che vuole trasmettermi, ma anche a episodi di vita ed esempi che le vengono in
mente, a proposito delle domande che le propongo.
Prima di iniziare, le comunico che le sue risposte resteranno anonime e saranno usate solo a
scopo statistico, come previsto dalla legge 675 (legge sulla privacy).
1) Può dirmi i motivi che l’hanno spinta a diventare un maestro di T’ai Chi Ch’üan?
2) Quali differenze ha riscontrato tra la cultura cinese e quella occidentale, riguardo alle
varie questioni connesse alla pratica del T’ai Chi Ch’üan?
3) Come si è trovato a rapportarsi con la cultura cinese?
4) Secondo lei, quali effetti potrebbe avere la pratica del T’ai Chi Ch’üan sui vari aspetti
della vita psicologica di una persona?
5) Su questi cartoncini sono segnati alcuni possibili aspetti su cui il T’ai Chi Ch’üan
potrebbe avere delle influenze. Le chiederei di guardarli con calma e di parlarmi
liberamente degli effetti che secondo lei ha il T’ai Chi Ch’üan su di essi. (Sui cartoncini
ci sono le scritte: sulle emozioni; sulla consapevolezza di sé; sull’integrazione tra
aspetti diversi; sulla relazione con il proprio corpo; sulla capacità di controllarsi; sulla
regolazione delle emozioni; altro).
6) Riflettendo sulla sua esperienza di maestro, secondo lei i suoi allievi quali effetti hanno
sperimentato? Indaga sui fattori che causano questi effetti.
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7) Ora vorrei parlare delle relazioni sociali in cui è inserito un allievo di T’ai Chi Ch’üan.
Lei come descriverebbe la relazione tra allievi del corso di T’ai Chi Ch’üan?
(eventualmente indagare i fattori che causano le differenze tra diversi tipi di relazione)
8) Quali sono, secondo lei, le emozioni che circolano nella relazione tra i suoi allievi?
(eventualmente: può farmi degli esempi?)
9) Quali sono, secondo lei, le caratteristiche che dovrebbe avere la relazione tra allievi?
10) Quali sono, secondo lei, le caratteristiche che dovrebbe avere la relazione maestro-
allievo? Indaga su emozioni e sentimenti presenti nella relazione attuale.
11) Che cosa le piacerebbe che i suoi allievi imparassero attraverso il suo insegnamento?
(eventualmente: che cosa le piacerebbe che i suoi allievi imparassero in quanto gruppo
o in quanto persone singole?)
12) Secondo lei, quali sono le esperienze utili per apprendere ciò che ritiene importante?
(eventualmente: quali sono le azioni intraprese da questa palestra per sostenere
l’apprendimento del T’ai Chi Ch’üan?)
13) Secondo lei, quali sono i contenuti che gli istruttori di T’ai Chi Ch’üan dovrebbero
apprendere durante il periodo di formazione?
14) Per concludere, le chiedo di osservare alcune immagini e di dirmi qual è quella che
rappresenta meglio il suo modo di vivere il T’ai Chi Ch’üan.
Domande dell’intervista per gli allievi
Introduzione da leggere all’intervistato:
Questa intervista intende approfondire alcuni campi di conoscenza sul T’ai Chi Ch’üan
connessi con la Psicologia. In particolare ci soffermeremo sul rapporto tra T’ai Chi Ch’üan,
consapevolezza di sé, emozioni e relazioni sociali.
Nei limiti del tempo che può concedermi, sono particolarmente interessata non solo alle
conoscenze che vuole trasmettermi, ma anche a episodi di vita ed esempi che le vengono in
mente, a proposito delle domande che le propongo.
Prima di iniziare, le comunico che le sue risposte resteranno anonime e saranno usate solo a
scopo statistico, come previsto dalla legge 675 (legge sulla privacy).
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1) Può dirmi i motivi che l’hanno spinta a iniziare il corso di T’ai Chi Ch’üan?
2) Essere un praticante di T’ai Chi Ch’üan come influisce sull’organizzazione della sua
vita?
3) Come si è trovato a rapportarsi alla cultura cinese?
4) Secondo lei, quali effetti potrebbe avere la pratica del T’ai Chi Ch’üan sui vari
aspetti della vita psicologica di una persona?
5) Su questi cartoncini sono segnati alcuni possibili aspetti su cui il T’ai Chi Ch’üan
potrebbe avere delle influenze. Le chiederei di guardarli con calma e di parlarmi
liberamente degli effetti che il T’ai Chi Ch’üan ha avuto nella sua esperienza. (Sui
cartoncini ci sono le scritte: sulle emozioni; sulla consapevolezza di sé;
sull’integrazione tra aspetti diversi; sulla relazione con il proprio corpo; sulla
capacità di controllarsi; sulla regolazione delle emozioni; altro). Indaga sui fattori
che causano questi effetti.
6) Passiamo a considerare le relazioni sociali. Come descriverebbe la relazione che ha
con gli altri allievi del suo corso di T’ai Chi Ch’üan? Approfondire quali
emozioni/sentimenti attraverso racconto di episodi.
(eventuale approfondimento: quali sono i luoghi o i momenti in cui vive la relazione
con gli altri allievi?)
7) Come descriverebbe la relazione che ha con il maestro?
8) Mi può descrivere le emozioni o i sentimenti che caratterizzano la sua relazione con
il maestro?
9) Che cosa le sembra di avere imparato, a livello generale, frequentando il corso di
T’ai Chi Ch’üan?
10) Potrebbe raccontarmi un episodio legato alla sua esperienza di praticante di T’ai Chi
Ch’üan che considera particolarmente significativo?
11) Secondo lei, che cosa dovrebbe insegnare un maestro di T’ai Chi Ch’üan ai suoi
allievi?
12) Quali sono le caratteristiche che le piacciono del T’ai Chi Ch’üan?
13) Per concludere, le chiedo di osservare alcune immagini e di dirmi qual è quella che
rappresenta meglio il suo modo di vivere il T’ai Chi Ch’üan.
83
Il campione e la rilevazione
La popolazione studiata è quella dei praticanti di T’ai Chi Ch’üan, che viene qui suddivisa
tra maestri e allievi per il diverso ruolo che hanno rispetto a quest’arte marziale e per la
diversa esperienza nella pratica; si suppone che ciò si rifletta anche su un diverso grado di
consapevolezza riguardo agli effetti di quest’arte marziale.
Il campione è costituito da 7 maestri di T’ai Chi Ch’üan e 7 allievi. L’intero campione fa
parte dei praticanti di varie palestre di Milano e provincia; i maestri sono stati rintracciati in
parte attraverso conoscenza personale e in parte prendendo contatti telefonici con le
palestre e le associazioni citate su libri inerenti il T’ai Chi Ch’üan. Gli studenti sono stati
selezionati all’interno del gruppo di allievi dei maestri contattati, cercando di ottenere un
campione diversificato per sesso, fasce di età (comunque adulti) e livello di esperienza nella
pratica del T’ai Chi Ch’üan. Purtroppo non è stato possibile far partecipare alla ricerca un
allievo per ogni maestro, ma ho cercato di mantenere una diversificazione del campione di
studenti anche rispetto a questa variabile: ho quindi intervistato 2 allievi di un maestro, altri
2 di un altro maestro, 2 di un terzo maestro e, per finire, 1 allieva di una quarta maestra.
La numerosità del campione è necessariamente ridotta per la dimensione limitata della
popolazione (soprattutto dei maestri di T’ai Chi Ch’üan) e per la scarsa disponibilità di
tempo (soprattutto degli allievi). Questo non inficia però con la validità della ricerca, che,
anzi, è più interessata allo studio intensivo di casi, con la finalità di generare ipotesi,
piuttosto che alla numerosità del campione, utile quando la finalità della ricerca è di
verificare ipotesi forti già esistenti.
La rilevazione dei dati è avvenuta attraverso interviste condotte face to face; il luogo fisico
è stato all’interno delle palestre per i maestri, mentre per gli allievi si è optato, dove
possibile, per la palestra che frequentano, in altri casi mi sono recata nella loro abitazione,
per andare incontro alle loro scarse disponibilità di tempo. La scelta del luogo e dell’orario
è dovuta a questioni oggettive come l’indisponibilità di altri luoghi adatti per lo
svolgimento dell’intervista ed è dovuta al tentativo di corrispondere, da una parte,
all’esigenza di facilitare il consenso dei maestri e degli allievi alla ricerca, e, dall’altra, di
mantenere un setting adatto alla ricerca, limitando l’influenza di fretta, stanchezza,…; dove
84
consentito, è stato utilizzato un ufficio, in modo da evitare il più possibile fenomeni di
distrazione.
Le risposte sono state audio-registrate e in seguito trascritte e analizzate; la scelta di
registrare le risposte è finalizzata ad avere una maggiore cura per le parole utilizzate e per il
significato inteso dagli individui intervistati, limitando l’intervento di variabili connesse
all’eccessiva interpretazione e alle dimenticanze dell’intervistatore.
Modalità di analisi dei dati e restituzione dei risultati
L’analisi dei dati consiste nell’analisi qualitativa del contenuto delle interviste, elaborate
attraverso un’analisi carta-matita.
Verranno considerati i risultati nel gruppo dei maestri e in quello degli allievi; seguirà
un’analisi tra i due gruppi.
La modalità di restituzione più adatta mi sembra essere un colloquio con ogni intervistato
(eventualmente maestro insieme ai suoi allievi), con l’accompagnamento di una copia
scritta, che mi è stata richiesta da vari insegnanti.
4.5. I risultati: analisi delle interviste ai maestri
Aspetti dell’identità professionale e concezioni dell’apprendimento e dell’insegnamento
Innanzitutto, è utile riportare che alcuni soggetti intervistati sono maestri di T’ai Chi
Ch’üan, altri si definiscono insegnanti, o anche istruttori, perché il titolo di maestro di T’ai
Chi Ch’üan si acquisisce per nomina da parte di un altro maestro. Questa differenza non è
però molto marcata, riguardo alla concezione dell’apprendimento e dell’insegnamento; la
differenza riguarda soprattutto il fatto che i maestri svolgono questa attività come attività
professionale primaria, mentre gli insegnanti svolgono un’attività lavorativa diversa e
insegnano T’ai Chi Ch’üan come attività secondaria. Le motivazioni all’insegnamento però,
85
non sembrano risentire di questa differente organizzazione della vita. Per questo, i termini
“maestro” e “insegnante” saranno qui usati come sinonimi, salvo diversa specificazione.
Riguardo alle motivazioni all’insegnamento, quasi tutti gli intervistati specificano che sono
approdati all’insegnamento del T’ai Chi Ch’üan “per caso”: “non avevo mai pensato di
diventare maestro di T’ai Chi Ch’üan”, non era un obiettivo prefissato. Tutti gli insegnanti
affermano che l’insegnamento è un modo per approfondire la loro stessa pratica del T’ai
Chi Ch’üan: “chi insegna, insegnando impara”; insegnare è uno strumento per “ricodificare
tutto, per re-imparare il T’ai Chi Ch’üan”, per “mettersi in gioco, come quando si scala una
montagna!”. Oltre a questa motivazione, tutti ricordano che hanno iniziato a insegnare
“proprio per necessità”: è troppo difficile non condividere con altri la propria passione;
allora, la motivazione principale è la condivisione della propria esperienza e soprattutto del
proprio entusiasmo, della propria passione per qualcosa che si è trovato, che è bello, ma
non solo: è anche utile, per sé e per gli altri! Qui si legge sia il desiderio di fare del bene
agli altri, sia l’impossibilità di starsene zitti a guardare, “bisogna comunicarlo!”.
L’insegnamento diventa anche, per alcuni, uno scopo importante della propria esistenza:
“adesso forse sono qui per questo, forse per insegnare T’ai Chi Ch’üan”. Riguardo al
ritorno economico, le idee sono apparentemente contrastanti: un maestro afferma che nel
T’ai Chi Ch’üan non si deve insegnare per avere un ritorno, “T’ai Chi Ch’üan è un continuo
dare, senza mai pensare a un ritorno, soprattutto in termini economici!”, un maestro invece
afferma che anche il ritorno economico del proprio insegnamento è utile: “il ricavato
economico dà la possibilità di viaggiare e di documentarsi meglio sul T’ai Chi Ch’üan” e
un altro insegnante nota che il ritorno economico non può essere la motivazione principale,
anche perché non ti dà la possibilità di arricchirti, comunque è un indice sul gradimento e
sull’utilità di ciò che fai: “vuol dire che lavori bene!”
Una categoria interessante riguarda le caratteristiche essenziali del processo di
apprendimento: per imparare il T’ai Chi Ch’üan bisogna “avere un buon maestro e poi
anche approfondire la pratica con l’esperienza personale”, ma questi due fattori sono
strettamente interrelati: “il maestro ci ha dato le informazioni, noi le abbiamo provate e
insieme abbiamo trovato… questa è la parola: insieme!”. Procedere insieme lungo la via
dell’apprendimento del T’ai Chi Ch’üan significa che c’è una reciprocità di apprendimento
tra insegnante e studente, e significa anche che la trasmissione di conoscenze può arrivare
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solo fino a un certo punto: se nessun allievo amplia, in qualche modo, il messaggio del suo
maestro, il contenuto che verrà trasmesso si impoverirà sempre più, perché non si riesce a
trasmettere tutto ciò che si sa: “lo studente dovrebbe mettere un valore aggiunto: dovrebbe
intuire le cose che l’altro non riesce a trasmettere, senza però mutare in altri modi il
messaggio originale: è così che la conoscenza si evolve in continuazione!”. Nelle parole di
tutti i maestri risulta molto forte il sentimento di affetto e di riconoscenza nei confronti dei
loro maestri: “grazie a Dio, noi abbiamo avuto il maestro Chang, che ci ha trasmesso
l’essenza vera del T’ai Chi Ch’üan!”. E il buon maestro è quello che è consapevole della
ricchezza del T’ai Chi Ch’üan: “il T’ai Chi Ch’üan è fatto di tanti aspetti”, “il T’ai Chi
Ch’üan è sia una pratica di meditazione, sia una ginnastica per la salute psicofisica, sia
un’arte marziale: è molto difficile separare questi aspetti!”. Un elemento che mi sembra
molto interessante sottolineare (visto che alcuni insegnanti riportano il dubbio e il
dispiacere che ci sia una “tendenza attuale ad insegnare il T’ai Chi Ch’üan come un
balletto”) è che tutti i maestri affermano l’esigenza di conoscere tutti e tre questi aspetti.
Contemporaneamente tutti gli intervistati affermano anche che “ciascun insegnante è libero
di preferire uno di questi aspetti del T’ai Chi Ch’üan e di enfatizzarlo nel suo insegnamento
privilegiando alcuni esercizi piuttosto che altri”.
Visto il ruolo del maestro, in questo percorso che si svolge “insieme”, vediamo ora il ruolo
dell’allievo: come si può imparare il T’ai Chi Ch’üan? Il metodo di apprendimento
riconosciuto da tutti è la pratica: “praticare praticare praticare!”, “osare sempre fare”,…
Nelle parole di tutti si legge l’essenzialità di non perdere le occasioni: partecipare ad ogni
lezione è un’occasione da non perdere: “la vita è fatta di opportunità e se ne perdi una non
la ritrovi più!”, partecipare ai seminari intensivi, viaggiare, confrontarsi con persone ed
insegnanti diversi, cogliere ogni occasione di vita quotidiana per mettere in pratica ciò che
ti sembra di aver imparato: “bisogna prendere il T’ai Chi Ch’üan e riportarlo nella vita”.
Anche l’entusiasmo, la passione che uno ci mette è essenziale: “bisogna amare il T’ai Chi
Ch’üan: l’entusiasmo è la base!”, “se c’è il cuore, c’è anche la mente e anche il corpo”. La
ricerca personale del senso di ciò che si sta facendo è alla base di qualsiasi
approfondimento: “chiedetevi perché lo fate! Si può fare il salto di qualità,
nell’apprendimento del T’ai Chi Ch’üan, solo se si trovano delle motivazioni più profonde
dello stare bene in gruppo, del farlo perché così sto bene”; l’insegnamento è una soluzione
possibile per continuare ad approfondire la propria ricerca della Via.
87
In questa relazione di apprendimento, rientra anche il gruppo: “praticare all’unisono è un
modo per imparare”, attraverso il confronto con gli altri del mio gruppo; “ciascuno diventa
non solo il praticante, ma supporto per la pratica degli altri”; a questo proposito, è molto
meglio l’esempio diretto, come un genitore con il figlio: “uno può parlare tanto, ma se poi
non dà l’esempio diretto…!”.
Il ruolo della comunicazione verbale nell’insegnamento rimane un punto oscuro, nelle mie
interviste: alcuni insegnanti privilegiano fortemente l’esempio con il corpo in movimento;
altri affermano che usano un metodo molto parlato, oltre che attraverso l’esempio; in
generale, però, secondo tutti i maestri il metodo deve “cercare di inserirsi al livello
intermedio tra ciò che uno sa già e ciò che deve ancora apprendere”; a seconda del livello
dell’allievo, bisogna inizialmente avere come obiettivo di insegnamento/apprendimento la
concentrazione su tutti i particolari del corpo. In effetti, che un maestro privilegi il verbale o
l’esempio corporeo, forse, è di relativo interesse: l’importante è che consideri “tantissimi
particolari: la posizione del piede, dell’anca, della spalla,…”, perché “il primo obiettivo è
essere molto concentrati sul corpo”, farsi delle domande come “qui, è giusto osso? E
muscolo? E il respiro com’è? Sento l’energia che scorre?”. È solo in un momento
successivo che l’obiettivo del T’ai Chi Ch’üan diventa la meditazione: imparare a cedere,
“cedo ma non scappo”, cioè a creare un vuoto mentale: “il genio fa il vuoto: e allora può
saltare da qua a là, velocissimamente, vede tutto, contemporaneamente l’inizio e la fine, e
tac! In un secondo ha l’illuminazione! Questo è il vuoto della mente”. Creare un vuoto è
una capacità applicabile anche nella vita quotidiana, soprattutto in quella relazionale:
“impari a generare uno spazio dove lasciar entrare l’altra persona”.
Creare un vuoto, avere un’illuminazione, è anche ciò che ti consente di capire il fine ultimo
del T’ai Chi Ch’üan, che si identifica anche con le finalità dell’insegnamento del T’ai Chi
Ch’üan. Il maestro Chang, le cui parole vengono riportate da un maestro e suo allievo,
diceva che il fine ultimo del T’ai Chi Ch’üan è questo: “cielo e uomo uniti in una sola
cosa”. Si può anche usare le parole di altri insegnanti intervistati: il fine è “riconoscersi col
tutto”, provare un “amore incondizionato per tutti i praticanti”. Altri definiscono questo
obiettivo finale come sviluppo dell’integrazione negli allievi: integrazione tra i vari aspetti
del proprio corpo, ma anche integrazione con l’altro (“ascolto e accettazione dell’altro”) e
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infine come integrazione con il tutto, perché “siamo tutti manifestazioni diverse dello stesso
principio primo”.
Un’altra sotto-area è l’oggetto, il contenuto dell’insegnamento, che può comprendere
anche quello che i maestri desidererebbero riuscire a trasmettere: quasi tutti danno la
precedenza alle tecniche: “cosa vorrei che imparassero? Il T’ai Chi Ch’üan!”. Questa
precedenza è stabilita da tutti i maestri almeno per quanto riguarda la formazione degli
istruttori, mentre per l’iniziale formazione degli allievi, alcuni insegnanti preferiscono
iniziare a insegnare a “sentire con la pancia”, cioè danno più spazio al sentire il proprio
corpo e le proprie emozioni. Ad ogni modo, l’insegnamento non si riduce mai alla
trasmissione di tecniche: “oltre alle tecniche vorrei che imparassero ad usare l’energia
interna, la loro forza, per sé e anche per gli altri”: in tutte le interviste leggo l’intenzione di
formare degli allievi che abbiano la voglia e la capacità per continuare l’opera di
trasmissione, di condivisione con altri di quel qualcosa di bello che hanno trovato lungo il
cammino.
A questo proposito possiamo anche aprire una domanda: chi è il maestro di T’ai Chi
Ch’üan? È un maestro di vita? Alcuni insegnanti rimarcano che non si sentono tali e non
vogliono neppure diventarlo: “non voglio: chi sono io per dire a qualcuno come deve
vivere?!”. In questo però non leggo un distacco dalla vita degli allievi, ma un desiderio di
lasciarli liberi di esplorare vie diverse per migliorare la loro vita: “non penso di dover
insegnare nulla riguardo alla vita, perché una persona può crescere, non è che deve emulare
il maestro: ognuno deve trovare la propria identità di per sé”. Altri usano la metafora del
maestro come “colui che indica la via”, ma la usano per affermare che un istruttore deve
essere estremamente competente “per non causare danni anche alla salute degli allievi”.
Ma allora, in sintesi, chi è il maestro? “È una persona anche lui!”, “è quello che sta davanti
al carro”, “è una persona che ha imparato qualcosa prima di te”, qualcosa di bello e di utile,
e allora vuole condividerlo, “è una persona entusiasta, appassionata, che ama il T’ai Chi
Ch’üan”, “è una persona che sa trasmettere il suo entusiasmo, perché all’inizio l’allievo è
trascinato”, e poi chissà quante altre caratteristiche ha! In fin dei conti, è qualcuno che
declina la sua attività in base a quello che è! Ciò che è comune è il desiderio di condividere
questa “cosa potenzialmente immensa” che è il T’ai Chi Ch’üan, unito alla libertà di cercare
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strade diverse o ulteriori. Il T’ai Chi Ch’üan infatti è uno strumento, nella concezione di
tutti gli intervistati, e come tale è uno tra tanti altri possibili e auspicabili.
Riguardo alle esperienze che i maestri considerano importanti per l’apprendimento, casella
che potremmo definire con l’etichetta “metodo di insegnamento”, oltre al ruolo
dell’esempio genitoriale e alla discussione sul ruolo di maestro di vita, già discussi prima,
spicca il ruolo assegnato da vari insegnanti ai seminari intensivi: in queste situazioni,
l’allievo può socializzare con altri allievi e con insegnanti “umanamente diversi”; può
confrontarsi con persone diverse e alcuni maestri affermano che il confronto è addirittura la
caratteristica principale per approfondire la pratica. Forse, il fatto che l’insegnante debba
“indicare la via” riguarda proprio la questione del metodo: “il gruppo che apprende
potrebbe essere rappresentato come un gruppo intento a far avanzare il carro della cultura:
uno tira davanti, che potrebbe essere il maestro; e c’è chi spinge dietro, che potrebbero
essere gli studenti: e allora sì che il carro va!” Non se c’è solo uno dei due ruoli! “Il maestro
è maestro solo se ha degli allievi, se no è maestro di chi?!”; ed è anche per questo che un
maestro dovrebbe anche adattare il proprio insegnamento alle situazioni che incontra: non
esiste un solo metodo, una verità, bisogna cercare di utilizzare un metodo adatto al contesto
sociale: “il mio maestro, che proveniva direttamente dalla Cina, aveva un modo di
insegnare molto secco, dava tutto molto per scontato; poi ha capito che in Italia un certo
tipo di atteggiamento è meglio non tenerlo! E si è ammorbidito”; il metodo va adattato
anche alla situazione del gruppo e alle sue dinamiche, alla serata: “cambio molto, stacco,
cerco di adattarmi alle esigenze del gruppo, perché a volte li vedi stanchi, altre volte li vedi
agitati,… devi cercare di rendere sempre la lezione interessante!”
Gli intervistati mostrano di avere anche un’etica dell’insegnamento. I loro “comandamenti”
sono: “non insegnare ciò che non sai!”, non vantarti di sapere cose che in realtà non sai;
“insegna solo quando il tuo livello di conoscenza comprende almeno una scienza teorica e
tecnica sul T’ai Chi Ch’üan”, cioè quando possiedi una conoscenza dei principi teorici
classici, delle tecniche fondamentali e della biomeccanica del movimento, “perché hai in
mano delle persone”; “insegna tutto ciò che sai!”, cioè non essere geloso delle tue
conoscenze, condividile per arricchire gli altri e ne vedrai anche un ritorno per te; a queste
regole generali, si aggiungono anche vari corollari, tra cui ricordo: “il rispetto dell’altro
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viene prima di tutto!” e “meglio se attingi anche ad altri saperi, oltre alle conoscenze sul
T’ai Chi Ch’üan”.
La rappresentazione delle relazioni tra allievi: concezioni del gruppo ed emozioni nel
gruppo
Riguardo a quest’area di analisi, potremmo innanzitutto considerare che i maestri si
dividono in due gruppi e in questa suddivisione ha un forte peso la scuola di appartenenza
dell’intervistato: un gruppo di maestri ritiene che le relazioni nel gruppo degli allievi siano
un punto centrale su cui focalizzare l’attenzione, lo si nota innanzitutto dalla spontaneità
con cui nominano l’argomento, anche prima delle domande che ne richiedono un
approfondimento. In questo caso, le relazioni tra allievi sono considerate dal maestro un
interessante oggetto di osservazione e una dinamica da considerare attentamente anche
nello svolgersi dell’insegnamento. Il secondo gruppo di maestri considera le relazioni tra
allievi come un oggetto importante, ma secondario rispetto ad altre questioni della pratica.
Un rappresentante del secondo gruppo afferma che: “Le discipline orientali sono
individuali, ma di gruppo; potremmo usare la parola “interdipendenti”, perché uno è libero
ma anche insieme agli altri, liberi.”
Tutti gli insegnanti, però, concordano nel ritenere le relazioni sociali nel gruppo degli
allievi come una questione importante. Potremmo concludere che tutti considerano
importanti le relazioni, ma alcuni se ne occupano (in svariati modi che ora andremo ad
approfondire) perché le ritengono una parte direttamente inerente la pratica del T’ai Chi
Ch’üan, mentre altri sanno che le relazioni tra allievi sono importanti, ma non le
considerano un punto che li riguarda, in quanto maestri. Un insegnante di questo gruppo
ben esprime questo parere dichiarando che “lui, proprio, non ci mette becco!”.
Andiamo ora a verificare perché tutti gli intervistati riconoscono che le relazioni tra allievi
siano così importanti.
“Diciamo che nel T’ai Chi Ch’üan, proprio perché è una relazione, le emozioni vengono scongelate e il
proprio ruolo viene messo in discussione e questo porta a delle reazioni inaspettate. La cosa che è importante
è sviluppare comunque la relazione anziché la reazione, cioè la dialettica tra “parlo e ascolto”. Nella relazione
si deve seguire lo stesso principio attuato col corpo, cioè la cedevolezza. Per esempio nel T’ui Shou, sentire
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quando un altro ti spinge può essere difficile e se è difficile farlo col corpo, è ancora più difficile farlo con la
mente!”
Ma che tipo di relazione è, quella tra gli allievi? Una caratteristica interessante è che, oltre
ad essere basata sulla comunicazione verbale, come tutte le relazioni, avviene anche su base
non verbale, cioè, per buona parte, si svolge attraverso il corpo e, nel lavoro di applicazione
a due (il T’ui Shou), si svolge attraverso il contatto fisico.
“Tra compagni si sviluppano relazioni e sentimenti molto profondi…quando ci si approccia al T’ui Shou i
principianti si irrigidiscono. Perché? Perché non c’è l’attitudine al contatto fisico: da noi, nella nostra cultura,
è come relegato al darsi la mano! A poco a poco si apre un mondo nuovo della relazione corporea che è un
mondo che i bambini e i cuccioli conoscono benissimo, quello della lotta e del gioco.”
“Il T’ui Shou è un ascolto attraverso il tatto, attraverso la pelle. La pelle non è più il mio guscio che mi
racchiude ma è anche ciò che mi permette di ascoltare l’altro. La pelle non serve più a separarmi dall’altro ma
a comunicare con l’altro.”
Mi sembra doveroso sottolineare però che alcuni maestri non considerano questo lavoro di
applicazione a due come significativo dal punto di vista emotivo:
“Nel T’ui Shou noi dobbiamo acuire al massimo la sensibilità tattile soprattutto, che non è facile, perché
dobbiamo arrivare a sentire la minima energia che viene esercitata contro di noi e a questa cedere, però direi
che come emozioni… se intendiamo emozioni come amore per la pratica, questo c’è; però lì io devo essere
concentrato soprattutto sulla sensibilità tattile e sul sentire l’energia dell’altro.”
Le emozioni che caratterizzano il gruppo degli allievi, nell’ottica dei maestri, sono
generalmente improntate a sentimenti positivi: in generale, c’è uno “spirito compagnone”,
si creano relazioni anche profondamente significative, alcuni maestri ricordano che “ci sono
stati anche diversi matrimoni tra i loro allievi”; ci sono poi anche alcuni elementi “di
disturbo” rispetto a questo clima di gruppo e un insegnante afferma che suo compito, in
questi casi, è quello di far integrare queste persone nel gruppo. Altri maestri invece
ritengono che questo non rientri nei loro compiti e lasciano la creazione di una buona
relazione di gruppo all’iniziativa e alle predisposizioni degli allievi:
“Penso che c'è chi ci crede ed è più portato: ci sono alcune persone che sono molto (userei la parola)
“intrippate dentro”, che ci credono, e con chi ci crede provano delle cose belle. Poi però ci sono quelli un po'
più superficiali. Però in generale c'è un bel rapporto, emozionale non lo so. Ho visto che ci sono rapporti di
amicizia: poi le emozioni in che direzione vanno non lo so, però sicuramente non sono negative. Penso che
siano più positive!”
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Generalmente, come si vede anche nelle frasi precedenti, le emozioni sono positive. Alcuni
maestri le considerano anche molto profonde:
“Esiste una sorta di … intimità? No, forse questa è una parola troppo grossa: è meglio chiamarla complicità:
in quel momento c’è un riconoscimento dell’esperienza emotiva vissuta insieme, anche se molto tempo
prima.”
“Ci si sente fratelli, come in una famiglia, ma le emozioni degli allievi non sono catalogabili: sono come un
sentire diverso.”
“Tra compagni si sviluppano relazioni e sentimenti molto profondi, più profondi di quelli che vanno a
stabilirsi in un gruppo con cui si fa una semplice attività fisica o un’attività intellettuale. Potremmo dire: quel
feeling che si può stabilire in una comunità, in una squadra di pallacanestro, sommato a quell’intesa che può
esserci in una comunità di volontariato: se sommiamo tutte insieme, queste cose potrebbero dare un risultato
simile al feeling nel gruppo dei praticanti di T’ai Chi Ch’üan.”
Non ci sono solo emozioni positive, però: tra gli allievi esistono gelosie, desiderio di
apparire più bravi degli altri, soprattutto forse agli occhi del maestro; e allora forse è meglio
disinteressarsene, cercare di trattare tutti gli allievi nello stesso modo e lasciare che i
problemi se li risolvano da soli:
“Si creano delle dinamiche, all'interno delle palestre e dei corsi, che io ritengo folli, però fanno parte
dell'animo umano.
Onestamente, tra allievi, le dinamiche che si creano non mi interessano, perché c'è da perdersi, ne sto fuori!
Per me sono tutti uguali, non c'è alcuna differenza. Io vengo da palestre in cui c'erano i preferiti: sono cose
folli! E a volte farti travolgere dai problemi tra loro ci porta su una strada assurda.”
“C'erano quelli che si sentivano più bravi, quelli più visti, quelli meno visti, quello mi guarda di meno, quello
mi guarda di più, quello è simpatico quello vuole mangiare la pizza, cose dell'altro mondo! Che sembra di
poter gestire queste cose, ma in realtà non è così, perché entri all'interno di una dinamica… come in ogni
gruppo. Si creavano delle gerarchie interne: che brutto! Per questo io ho deciso di non interessarmi dei
problemi tra allievi.”
Un altro maestro invece ritiene che nelle arti marziali dinamiche ci sia molta rivalità:
“Nel T’ai Chi Ch’üan invece mi sembra che ci sia molto più amore, più legame, più amicizia. Il T’ai Chi
Ch’üan aiuta molto a relazionarsi. Io lo vedo anche nel corso delle persone non più giovani, al mattino, dove
l'ultimo arrivato è accolto bene anche dal più avanzato. Mentre nelle arti dinamiche viene accolto in modo
quasi schifato: “guarda quello là, non sa stare in piedi!” Nel T’ai Chi Ch’üan, se non quasi nulla, pochissimo.
Poi è vero che ci sono vari step evolutivi: anche nel T’ai Chi Ch’üan, se uno entra e non sa muoversi,…
dipende anche culturalmente da com’è la persona.”
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Mi sembra decisamente interessante sottolineare che i due maestri si riferiscono, almeno
negli esempi che portano, ad allievi di due fasce d’età molto diverse: il primo tratta di
giovani adulti, mentre il secondo riporta il caso di anziani. Inoltre, il primo insegnante è
molto giovane e vive più da vicino la situazione di essere un allievo, perché continua ad
esserlo tuttora (come tutti gli insegnanti, non ancora maestri, che ho intervistato).
Il fatto che la relazione “scongeli le emozioni” ha delle notevoli ripercussioni sulla
concezione del gruppo da parte del maestro.
Il gruppo è concepito da tutti gli insegnanti, anche se a livello diverso, sia come uno
strumento di apprendimento del T’ai Chi Ch’üan, sia come uno strumento di supporto per
lo sviluppo personale degli allievi. In effetti, queste due concezioni sono solo teoricamente
scindibili, ma nelle parole dei maestri sono spesso sovrapposte.
Sul gruppo come strumento di apprendimento della disciplina marziale abbiamo già
discusso nel paragrafo precedente: praticare all’unisono serve per confrontarsi in tempo
reale; “è necessario che chi ha più esperienza si ricordi che è responsabile anche della
pratica di chi ha meno esperienza”, cioè ognuno deve insegnare agli altri, condividere
conoscenze, ma senza sostituirsi al maestro: “la critica va bene, ma purché sia costruttiva,
non tanto per parlare!”. Il gruppo è anche concepito come strumento di supporto per lo
sviluppo: “la palestra, se è seria, diventa un vero e proprio centro di relazioni tra allievi”,
“soprattutto per gli anziani, la socializzazione permessa dal frequentare un corso di T’ai Chi
Ch’üan è importantissima!”; ma il supporto del gruppo all’individuo emerge anche come
sostegno allo sviluppo emotivo: “il gruppo diventa l’utero”, che può permettere all’allievo,
spaventato da un’emozione molto intensa scongelata dalla pratica, di sentirsi accolto e
sostenuto in una relazione caratterizzata dall’accettazione, intesa come assenza di pre-
giudizi. Lo stesso consiglio di praticare all’unisono ha la doppia valenza di essere un valido
supporto per l’apprendimento e di “non sentirsi più una cellula separata, ma sentire di far
parte di un organismo più grande: devo sentirlo a livello di energia!”.
Una caratteristica importante delle relazioni che si sviluppano nell’ambito del T’ai Chi
Ch’üan è che esse sono improntate allo stesso principio generatore del T’ai Chi Ch’üan: la
cedevolezza, dove cedere non sta per scappare e può essere appresa nel T’ai Chi Ch’üan e
applicata nelle relazioni sia all’interno che all’esterno della palestra:
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“L’insegnamento del T’ai Chi Ch’üan è sempre questo: quello di non voler vincere contro l’altro,
apparentemente; ossia, se l’altro mi attacca (e può essere in ufficio, in una scuola, in qualsiasi contesto),
verbalmente eccetera, io cedo, ma non scappo! Come il rilassamento non è rilasciamento: cedo, ma non
scappo. Rimango attaccato a lui e lui non riesce a liberarsi di me; più mi attacca e più non mi trova, perché
non cado nella sua trappola. È molto difficile, perché noi vogliamo sempre prevalere sull’altro: uno sente
male e si irrigidisce, oppure un altro ci attacca e cerchiamo di sopraffarlo, salvo che lui non sia più grosso e
allora scappiamo. E invece il T’ai Chi Ch’üan ci insegna un’altra soluzione: io cedo ma son sempre lì, finché
lui fa un passo falso, si può fare male, se attacca forte; si può fare male perché esagera (anche verbalmente) e
cade da solo nella trappola. Però io cedo: non voglio dimostrare la mia superiorità, che poi non c’è.”
Questo nelle situazioni relazionali conflittuali, ma anche nelle relazioni emotivamente
positive il T’ai Chi Ch’üan ti insegna a “generare uno spazio vuoto, che l’altro possa
utilizzare per entrare in relazione con noi”, mantenendo al contempo uno spazio proprio:
“Il lavoro del T’ui Shou è un lavoro in cui si cede all’avversario, senza cercare di crearsi dei pregiudizi
sull’avversario, senza precostituire un immagine di lui. Ma questo non vuol dire rinunciare al proprio io, anzi
vuol dire cercare una centratura maggiore di se stessi, e questo vuol dire anche una ricollocazione dell’io, un
ridimensionamento, quando nella nostra cultura spesso l’io è portato ad espandersi e ad essere esagerato.
Invece nella cultura del T’ai Chi Ch’üan non c’è l’idea di annullare l’io, ma c’è l’idea di ridimensionarlo, di
ricollocarlo, soprattutto in relazione agli altri. Perché l’idea del T’ai Chi Ch’üan è che ognuno di noi fa parte
di tutto ciò che ci circonda e interagiamo con tutto ciò che ci circonda e ne siamo parte in modo talmente
profondo che non possiamo staccarcene.”
Insieme alla cedevolezza, caratteristica delle relazioni interne al T’ai Chi Ch’üan è la
continua alternanza tra un ruolo più attivo (Yang) e uno più passivo (Yin), che vista in
ottica relazionale è come dire la continua “dialettica tra parlo e ascolto”.
Un maestro considera il ruolo di queste due peculiarità del T’ai Chi Ch’üan riferendosi alle
donne:
“Il T’ai Chi Ch’üan apre spazi in cui si può cambiare la gerarchia sociale, proprio perché ci si inverte di ruolo,
ci si alterna. Allora le donne possono provare un differente ruolo sociale. Poi, soprattutto nell’incontro a due
del T’ui Shou, così come nel T’ai Chi Ch’üan in generale, c’è la cultura della cedevolezza e questo è un modo
per rivalutare un modo di fare più femminile anche nelle relazioni. E con questa cultura si trovano male alcuni
uomini, che sono abituati a prevaricare e considerano questo come un diritto, e in questo caso la donna può
scoprire che è più brava e rivaluta le sue caratteristiche. Questo perché nel T’ai Chi Ch’üan si impara ad usare
la cedevolezza, la morbidezza, cosa poco utilizzata nella nostra società, che privilegia l’autorità, la forza,
l’attacco.”
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“Quello che si dovrebbe sviluppare nelle relazioni del T’ai Chi Ch’üan è una concatenazione esperienziale: la
cedevolezza come dialettica tra ascolto e azione.”
E con questa citazione ci troviamo in un’altra sottoarea: quali sono, dal punto di vista dei
maestri, le caratteristiche desiderabili nella relazione tra allievi? I maestri desiderano che
la relazione tra i loro allievi sia una relazione amichevole, “improntata all’ascolto e al non
giudizio”, “tutti dovrebbero capire che non ci sono preferenze” “è anche per questo che,
durante la forma del T’ai Chi Ch’üan non si porta la cintura che contraddistingue il grado”.
Ognuno dovrebbe cercare di accettare l’altro, per ottenere un’integrazione non solo
intraindividuale, ma anche interpersonale e poi con il Tutto, per realizzare la finalità ultima
del T’ai Chi Ch’üan. “Sei parte di un Tutto con gli altri, avete origine dallo stesso
principio!”.
“È l’idea che esista un grandissimo contenitore, infinito, che è la fonte della nostra stessa esistenza, l'esistenza
di tutto; e attraverso il Ch’i, attraverso la manifestazione duale di Yin e Yang ha generato ogni cosa e nel
generare ogni cosa è se stesso e di questo se stesso ognuno di noi fa parte, ogni cosa. Ecco, questo tipo di
consapevolezza di sé, che è un po' più allargata di quello che dicevamo, viene qualche passo più in là, ma è la
vetta del T’ai Chi Ch’üan: in quel momento in cui senti che non ti stai muovendo da solo, ma che ti stai
muovendo insieme a tutto il resto, allora acquisisci una consapevolezza diversa, che non è più forse la
consapevolezza di sé, ma è una consapevolezza più allargata.”
… “Cielo e uomo uniti, una cosa sola”.
Un’ulteriore categoria di analisi riguardante il gruppo degli allievi è la gestione della
disciplina nel gruppo, da parte del maestro. I maestri osservano che il gruppo di praticanti
spesso si comporta come una scolaresca: “sono tanti! Sono anche difficili da tenere,
diventano un po’ come bambini: chiacchierano, si divertono, perché si crea una dimensione
ludica”;
“Nella relazione tra allievi non si dovrebbe perdere tempo a parlare come portinaie “blablabla” e a giudicare
“fai così, no ma si fa così!”: è giusto, la critica è costruttiva, il confronto è costruttivo, se è costruttivo, non
deve essere solo per “cianciare”. Quando c'è lezione, dovrebbero seguire tutti la lezione bene e poi tirare fuori
delle cose, per esempio “ho notato che quello lì fa diverso da me”, oppure “com'è questo?”: porre delle
domande a chi insegna.”
“La difficoltà maggiore per un insegnante è quella di tenere unito lo spogliatoio”: ci sono
persone troppo invadenti, che non hanno sviluppato un loro confine e allora continuano a
“strabordare” e ci sono quelle che non sanno difendersi, che hanno un confine
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eccessivamente controllato: questi due tipi di persone, però, possono anche essere
complementari tra loro:
“Le persone che normalmente non sanno difendersi ho provato a sentirle arginare queste persone un po’
troppo invadenti. E questo avviene un po’ anche in seguito alla pratica del T’ai Chi Ch’üan. Ogni tanto io
intervengo, però mai direttamente, riprendendo una persona: di solito intervengo in maniera generale, nel
gruppo. Parlando dell’atteggiamento, del comportamento,… Poi, con chi lo posso fare, li prendo magari a
parte e dico «non insegnare tu, se ci sono io».”
In generale, lo stile di gestione consiste nell’adattare la propria azione alla situazione
particolare vissuta in quel momento dal gruppo, considerando soprattutto il livello emotivo,
conservando però certi “paletti” per mantenere una certa disciplina, come tra l’altro si
conviene a un’arte marziale o a una disciplina meditativa.
L’investimento affettivo riguardante il maestro
Un aspetto molto significativo dell’investimento affettivo del maestro è l’investimento sul
T’ai Chi Ch’üan: questa forma di affetto/sentimento potrebbe essere riassunta nella frase:
“bisogna amare il T’ai Chi Ch’üan!”, che, con parole diverse, è stata nominata, ma molto
spesso anche ampliata, da tutti gli insegnanti intervistati. L’entusiasmo è qualcosa di
naturale, che i maestri provano spontaneamente; ma va anche trasmesso: è questa la base
dell’essere un maestro e dell’essere un buon maestro!
“La cosa che mi spinge e che può essere coinvolgente è che io sono animata da una grande passione e per cui
ciò che inevitabilmente faccio è trasmettere questa … questa passione!”
“Bisognerebbe praticarlo con il cuore, avere amore per la pratica! Il maestro diceva che bisogna praticare T’ai
Chi Ch’üan con corpo, mente e col cuore: bisogna amare il T’ai Chi Ch’üan. Se uno non lo pratica in uno
stato emotivo di amore, proprio, per quello che fa, poi prima o poi smette. Bisogna sempre fare: con la mente,
col corpo, col cuore; no solo corpo, anche la mente, no solo mente, anche corpo, ma il più importante è il
cuore. Se c’è cuore, allora uno lo fa con la mente e col corpo. E questo punto è l’emozione, se vogliamo
chiamarla così, l’amore per l’arte, che chiaramente vale per qualsiasi cosa che facciamo.”
“Io ho fatto esperimenti facendo il T’ai Chi Ch’üan con la musica e si provavano delle emozioni molto belle;
ho provato un forte piacere a farlo, però penso che il suo habitat sia proprio il silenzio: anche il silenzio può
essere musica, basta sentirlo! Perciò facendo T’ai Chi Ch’üan si provano delle emozioni proprio “dentro”,
molto profonde, perché si percepisce l’energia dentro mentre tu la guidi, attraverso la mente, dove vuoi tu.”
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“I motivi sono fondamentalmente nella passione per la pratica del T’ai Chi Ch’üan ”
“Io quando ho cominciato a fare T’ai Chi Ch’üan sono rimasto subito estremamente entusiasta. Per me
l’emozione era fortissima e l’emozione più forte era l’entusiasmo e la passione che questo mi ha scatenato.
Dal punto di vista personale, all’inizio questa passione mi ha portato a volerla comunicare agli altri e secondo
me, anche se da un lato è assolutamente normale, questo diventa anche insopportabile per gli altri, perché
comunque anche gli amici che ti sentono parlare continuamente di questa cosa che poi loro non provano,
diventa anche un po’ fastidioso, secondo me. Per cui, dopo il primissimo periodo, ho capito che la cosa
dovevo elaborarmela per conto mio, perché alla fine sembri un invasato di qualcosa e poi diventi anche un po’
supponente, come se gli altri, che non capiscono questa cosa, fossero meno illuminati di te, e non va bene, si
perde quella necessaria umiltà che è indispensabile per imparare. Allora, la mia passione è stata un po’
organizzata: è per questo che dico che insegnarlo è diventata un’esigenza. Io insegno fondamentalmente per
piacere.”
“Io agli allievi cerco di trasmettere queste cose, non avendo più l’età per far vedere calci volanti o cose simili!
Ma anche un istruttore giovane, che magari non ha tanta esperienza, dovrebbe mettere tutto se stesso in quello
che fa e allora sì che trasmette veramente! E allora non importa se non ha una grande esperienza, ma la sua
buona volontà, sempre nella consapevolezza che non siamo maestri.”
Le interviste dicono, e a volte rivelano solo tra le righe, moltissime emozioni dei maestri!
La tenacia: “avere fede, nel maestro prima di tutto, se no si farà molta fatica a imparare! E
sicuramente il T’ai Chi Ch’üan rafforzerà questa fede. E poi fare pratica, fare pratica con i
partner. Osare sempre fare.”
“Richiede costanza, coraggio e l’acquisizione di una capacità di mettersi in discussione. La costanza va a
lavorare sulla volontà. Nella pratica del T’ai Chi Ch’üan necessariamente la pratica deve diventare
quotidianità. Io, ad esempio, avendo un altro lavoro, mi alzo alle 6 e mi alleno fino alle 7 ogni mattina. E uno
mi dice “ma chi te lo fa fare?!”. Non si ha un riconoscimento di questo all’esterno e questo è molto utile
perché i riconoscimenti esterni portano ad esaltare l’ego. Siccome non c’è un riconoscimento esterno, è una
cosa che si deve verificare solo su se stessi e la risposta te la devi dare tu.” La curiosità: “tutto è nato perché stavamo cercando qualcosa di più profondo; vedendo il
maestro Chang, c’era un profumo, proprio, nel muoversi! Ci ha colpiti e incuriositi!”.
“Mi ha sempre incuriosito la cultura cinese, perchè ha dato la nascita a questa disciplina e al taoismo. Mi ha
sempre incuriosito perché l’ho trovato soddisfacente per la mia ricerca.”
L’orgoglio quando qualcuno dei propri allievi ha un successo, nelle arti marziali o nella sua
vita personale, grazie alla sua partecipazione alla vita di palestra, l’orgoglio per i propri
allievi, in generale.
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“Abbiamo tutta gente molto “a posto”, sono meravigliose! E sono anche giovani… E di questo siamo
orgogliosi!”
“Penso che il fatto che si evolva la conoscenza, grazie agli studenti, sia motivo di orgoglio anche per chi ti
precede.”
“Un episodio significativo…ce ne sono tanti! Per esempio, una ragazza che mi diceva: “io non riesco mai ad
avere le mani calde e da quando faccio T’ai Chi Ch’üan con te, sento di avere le mani calde!”
“Insegnare alle schiappe è la cosa interessante: se riesce a imparare è motivo di orgoglio!”
“Ieri ho incontrato una signora che diceva "ah, mio figlio veniva giù da lei, è tornato dall'Australia dopo
tredici mesi che era via e adesso è ripartito e ha detto: se incontrate il maestro salutatelo, perché io là gli ho
pensato! Io sono diventato cintura nera e gli insegnamenti che mi ha dato mi sono stati molto utili." E mi ha
messo molto a disagio questa cosa! E mi ha salutato, ringraziandomi per quello che avevo fatto e io ho detto:
"ma non è vero! Io gli ho solo insegnato quello che sapevo, ma è lui, suo figlio, che ha preso bene queste cose
e le ha realizzate!" Io non c'entro niente, gli ho dato delle informazioni, ma è lui bravo! Sì, io dò un contributo
di informazioni, poi magari anche di spirito: la serietà dell'insegnante è indispensabile. Ma io faccio solo il
mio compito!”
L’orgoglio, però, è anche unito all’umiltà, perché il maestro deve rimanere umile:
“Essere maestri serve, perché l’allievo lo cerca questo ruolo, ne ha bisogno, ma dopodiché bisogna smettere,
perché in realtà nessuno è maestro: bisogna rimanere sempre umili: se uno ti fa una domanda che non sai, dici
“un momento, devo chiedere al mio maestro, poi le darò la risposta”.
“Direi che si diventa maestri per vocazione, anche se a volte lo si fa per una gratificazione dell’io, per poi
poter pensare che tu sei tanto bravo. Ed è un pericolo questo, perché distorce dalla via: aldilà di un giudizio
morale, è un distaccarsi da quello che è l’insegnamento. L’insegnamento del T’ai Chi Ch’üan dovrebbe essere
un continuo dare. Non si dovrebbe pensare all’insegnamento come a un ritorno, soprattutto per il proprio
ego.”
E a volte emozioni e sensazioni si fondono: non si capisce bene dove inizia l’una e finisce
l’altra: questo capita per esempio quando parlano del rilassamento del corpo, che è anche
calma della mente.
“Per fare T’ai Chi Ch’üan bisogna mettersi in uno stato psicofisico particolare, che è il rilassamento: ci vuole
una mente calmissima, ma sveglissima, non che dorme. Un corpo rilassatissimo, ma non rilasciato. Quindi,
l’idea è questa: che il corpo deve essere rilassato, ma dentro deve circolare il Ch’i. E questa è una sensazione
molto difficile.”
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[L’intervistato sceglie l’immagine del volo come rappresentativa del suo modo di vivere il T’ai Chi Ch’üan]
“Mi esprime la libertà, mi sembra che qui tutti questi uccelli non stiano volando, ma siano trasportati dall’aria,
si stiano lasciando andare. Mi piace molto questo abbandono nell’aria.”
Altri esempi di stretta interconnessione tra emozioni molto forti e sensazioni poco
comunicabili sono:
“Fare per esempio la forma la mattina, in campagna, in mezzo alla natura, sentire il proprio corpo e respirare
l'aria fresca: fare T’ai Chi Ch’üan in determinati modi è piacevole, io lo faccio anche perché mi piace: sentire
il proprio corpo in movimento è piacevole, è un'emozione positiva!”
“Nel fare le tecniche di T’ai Chi Ch’üan, io, adesso, godo proprio! Al sentire questo pensiero che si esprime
dentro, attraverso il T’ai Chi Ch’üan! Ma è difficile spiegare, diceva il maestro Chang, a uno che non ha mai
visto il mare quanto sia salato!”
“Per me fare T’ai Chi Ch’üan è continuamente lavorare su questo: avere la consapevolezza di quando sono
fuori asse, quando sono contratta, … e chiaramente se vado più a fondo, scopro che dietro a quella contrattura
c’è un’emozione, qual è quell’emozione, a cosa è legata, e allora il lavoro diventa più profondo. E ci si arriva,
anche con gli allievi, dopo un po’ di tempo che si lavora insieme.”
Alcune emozioni dei maestri emergono soprattutto nella domanda semi-proiettiva: molti di
essi infatti scelgono come rappresentativa del loro modo di vivere il T’ai Chi Ch’üan
l’immagine degli uccelli bianchi e neri in volo nel cielo azzurro (alcuni di loro nominano il
volo come metafora per rappresentare il T’ai Chi Ch’üan addirittura nel discorso spontaneo,
prima che gli venga richiesto di scegliere un’immagine!) e riportano come motivazione il
senso di libertà che provano nel praticare T’ai Chi Ch’üan, il lasciarsi andare, il sentirsi
lievi, il godimento, il top. Molti altri scelgono la tigre nell’acqua: perché è rilassata ma
energica, perché il T’ai Chi Ch’üan è “come una tigre che dorme”, perché “in questo
momento sta godendo… non è preoccupata, sta godendo, della sua vita!”. Un’altra
immagine che ha riscosso un certo successo è quella del calzolaio- artigiano, perché “è un
lavoro costante, meritorio, lungo nel tempo, meticoloso”, “per la cura dei particolari” e
perché è “un’immagine poetica”. Anche le immagini della natura sono rappresentative per i
maestri: “perché fare T’ai Chi Ch’üan è bello e piacevole”, perché “praticando T’ai Chi
Ch’üan ci si sente parte del Tutto”.
Ai maestri intervistati è stato richiesto di riflettere anche sugli effetti del T’ai Chi Ch’üan
sulle emozioni: mi sembra interessante anticipare che la maggior parte dei maestri non ha
raccontato solo degli effetti sulle emozioni in generale o su quelle degli allievi, ma anche
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sulle proprie: non notano quindi una differenza sostanziale tra gli effetti che il T’ai Chi
Ch’üan ha sugli allievi e su di loro, in termini di emozioni:
“Non capivo come mai, però io come iniziavo a fare certi tipi di esercizio, scoppiavo in un pianto convulso,
come un bambino piccolo che non sa dire qual è il disagio, però dentro ce l’ha. Il T’ai Chi Ch’üan l’ha fatto
emergere. C’erano due strade lì: o scappavo e non mi presentavo più in palestra e quante volte avevo questo
istinto, perché mi vergognavo di piangere di fronte agli altri. Questo succede spessissimo quando si fanno
certi tipi di lavori (lavoro coi gruppi, re-birthing,…): ce ne sono diversi e anche il T’ai Chi Ch’üan è uno di
questi. Diciamo che se hai la fortuna di trovare il sostegno e la protezione di qualcuno, quando stai veramente
male, qualcuno come io spero di essere per gli altri, allora ci riesci ad andare avanti!”
“Se io sento di far parte del Tutto, e che quindi tutto ha uno scopo, anche le emozioni, le più forti si
ridimensionano. Chiaro che ci sono ancora: sento il dolore se oggi ci sei e domani, tangibilmente, non ti vedo
più, ma se io sento che rientri nel grande Tutto e anche io sono lì, questo dolore diventa meno. Le religioni
hanno tentato di spiegarla in diversi modi questa cosa: è l’accettazione della morte, che è il dilemma
dell’uomo. Io sto lavorando su questo nel T’ai Chi Ch’üan.”
“Le caratteristiche ideali della relazione tra allievi e di quella maestro-allievi sono le stesse, salvo che dal
maestro sarebbe logico aspettarsi una maggiore continuità rispetto a queste cose.”
Riguardo all’investimento affettivo del maestro sugli allievi, riporto innanzitutto alcune
metafore che usano i maestri per cercare di descrivere il loro rapporto. Alcune frasi
intendono mostrare la differenza dal rapporto discepolo-maestro inteso in senso
tradizionale:
“La parola allievi non mi piace tantissimo, preferisco chiamarli “studenti”, perché studiano T’ai Chi Ch’üan.”
“Io nelle mie classi non ho mai, tendenzialmente, cercato e trovato un atteggiamento discepolo-maestro come
era per gli antichi maestri cinesi; ho sempre cercato di stimolare la relazione tra allievi.”
Altre metafore ci aiutano a cogliere come i maestri intendono il rapporto affettivo con i loro
allievi:
“Il maestro sicuramente si affeziona tantissimo agli allievi, ma bisogna cercare di mantenere un giusto
distacco emotivo, quel tanto che basta per farteli sentire tutti e per capire quello che in quel momento ha più
bisogno di attenzione rispetto ad un altro. Lì hai un ruolo e non è facile mantenere il giusto rapporto.
Sicuramente la cosa difficile per l’insegnante è che tutte queste persone arrivano in palestra e tu sei un punto
di riferimento. Tu inevitabilmente sei dall’altra parte in quel momento. Ecco perché cerco sempre di essere
allieva almeno con qualcuno. Si ha bisogno ogni tanto di un maestro! Potrei dire che c’è sicuramente una
relazione di grande simpatia con gli allievi, però amicizia è una parola grossa: tutti diventiamo un po’ fratelli,
nel senso che stiamo facendo lo stesso percorso, ognuno a livelli diversi, ma se ci lasciamo noi insegnanti
101
prendere troppo dalle emozioni non riusciamo più ad essere nella relazione di aiuto. C’è la proiezione, no? E
allora devo mantenere il giusto distacco emotivo. Però, d’altra parte, non condivido assolutamente gli
atteggiamenti dei maestri che dicono “io sono il maestro!”: per me il rispetto deve passare anche attraverso il
riconoscimento.”
“In Cina i praticanti si considerano fratelli: i più anziani sono come fratelli maggiori; significa familiarità.
Anche se questo è ambivalente, perché significa anche chiusura verso l’esterno, chi non è della famiglia. In
certi maestri c’è questa forma di gelosia, che è poi una chiusura. Per come la vivo io, questa familiarità è più
un sentimento di affinità e affetto.”
“C’è sempre questo legame che va al di là del fatto che ci si frequenti o meno: rimane questo legame.”
“Per me sono tutti uguali, non c'è alcuna differenza. Io vengo da palestre in cui c'erano i preferiti: sono cose
folli, che proprio non mi interessano assolutamente! È un po' anche questo un retaggio della mentalità cinese.”
“Quando usciamo dalla lezione siamo amici, andiamo a mangiare una pizza, beviamo una birra e ridiamo.
Quando facciamo il seminario, dopo la lezione, non è che io vado nella stanzetta e mi distacco da tutti! Vado
al bar, facciamo l'aperitivo, facciamo una partita a bigliardino, ci si prende in giro; però quando c'è la lezione,
io se fossi un allievo mi aspetterei professionalità. Cioè, piuttosto se non so una cosa ti dico che non la so.
Anche a lezione però si ride: serve a catalizzare l'attenzione, a volte anche con una battuta. Prendersi in giro
serve a riacquistare attenzione. Sdrammatizzare serve per capire che in fondo siamo lì per divertirci, per
passare un'ora e mezza o due insieme ad altre persone, con uno che ti sta insegnando delle cose che ha
imparato prima. Così la mente si sblocca, supera quel momento: è anche un lavoro psicologico interessante,
quindi mi piace molto questo lavoro: non manipolatorio, ma di adattamento, di integrazione con il gruppo!
D'altronde T’ai Chi Ch’üan è Yin e Yang, quindi trasformazione dell'uno nell'altro e compensazione!”
Un altro aspetto dell’investimento affettivo nella pratica del T’ai Chi Ch’üan concerne la
rappresentazione che il maestro ha riguardo alle emozioni e i sentimenti che gli allievi
provano nei suoi confronti: in questo ambito, nelle interviste spicca il sentimento di
riconoscenza, di ringraziamento affettuoso. Un modo che gli allievi hanno per esprimere
questi sentimenti è il saluto, che “implica un rispetto inteso in senso molto ampio nei
confronti degli altri, siano essi compagni o maestri”; ma spesso gli allievi esprimono anche
verbalmente questo riconoscimento: gli allievi parlano e si confidano con il maestro, anche
se il grado di confidenza dipende molto dalla relazione esistente oltre la lezione. Alcuni
maestri si dichiarano “a disagio” quando alcuni allievi esprimono una riconoscenza, che
forse il maestro giudica eccessiva; in altri casi, dalle parole dell’intervistato traspare un
sentimento di soddisfazione, un sentirsi riconosciuti nel loro lavoro e nella loro persona.
102
Così come i “fallimenti”, gli abbandoni bruciano agli insegnanti: quelli che ne parlano
intendono gli abbandoni come dei fallimenti della relazione: quelli che lasciano la pratica
sono le persone che avrebbero più bisogno di stare in un gruppo, di sentirsi accolti nelle
loro emozioni; sono quelli che si sentono emotivamente destabilizzati dalle questioni della
pratica e non rispondono a questa “perdita di equilibrio” con l’accettazione della sfida, ma
con la rinuncia, l’allontanamento.
“Io ho avuto esperienza di persone che hanno cominciato a praticare il T’ai Chi Ch’üan e dopo pochissime
lezioni se ne sono andate e quando mi è capitato di capire o comunque di indagare e cercare di capire i motivi
per cui se ne sono andate, il motivo spesso era una forte destabilizzazione emotiva. Cioè l’impatto emotivo è
stato troppo forte e si sono ritirati. Il mio maestro ci racconta che spesso tra le persone che si avvicinano al
T’ai Chi Ch’üan, quelle che più sentono e hanno la necessità di praticarlo, sono le prime che se ne vanno. E
questo è proprio un sintomo di quella destabilizzazione di cui le dicevo. Forse su di me questa
destabilizzazione ha scatenato la curiosità, il piacere ed il gusto di praticarla; altri invece si spaventano.”
Il coinvolgimento emotivo dei maestri con gli allievi è anche molto intenso, a volte; mi ha
colpita molto un episodio che dimostra quanto un maestro possa sentirsi vicino ai suoi
allievi, raccontato da un maestro in risposta alla mia domanda di narrarmi degli episodi
significativi nelle sue relazioni con gli allievi:
“Poi ci sono episodi strani, di “vicinanza del pensiero”. Per esempio, una volta vivevo un momento molto
brutto e una mia allieva, che non poteva saperlo perché abitava lontano, mi scrisse un sms chiedendomi “ma
va tutto bene? Chiamami pure se hai bisogno” proprio in quel momento lì, sapeva che avevo bisogno, come se
potesse esserci un altro tipo di comunicazione. Ma anche altri episodi e con altre persone, a volte succede!
Sono effetti collaterali della pratica carini. Dopo un po’ ho smesso di stupirmi di queste cose, perché può
accadere, non è scritto da nessuna parte che deve accadere, ma è proprio per il principio che tutto ciò che ci
circonda è della medesima sostanza, della medesima energia: quindi è possibile che si verifichino cose di
questo tipo, però sono cose curiose!”
Molti maestri avvertono anche un senso di responsabilità molto forte nei confronti del forte
investimento affettivo degli allievi su di loro:
“Tu sei un punto di riferimento.”
“Il rapporto maestro-allievo, dall’allievo è vissuto con gran rispetto e quasi sottomissione, che per certi versi
ha la sua utilità, per altri, può essere usata dal maestro per trattenere a sé gli allievi, per fini egoistici. È quindi
da tenere in grande attenzione, in gran conto. Ma questa attenzione si riferisce sempre al maestro: se pensa
che il suo insegnamento sia un modo per dare agli altri in modo disinteressato, non dovrebbe approfittarne.
Però spesso non è così. Anche perché il maestro è umano! Quindi ha le sue contraddizioni. Generalmente
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sono piuttosto gelosi dei loro allievi e non amano che frequentino altri maestri. Questo può essere in parte
giustificato, perché creerebbe confusioni nell’allievo.”
“Dipende dalla persona che lo fa! Dicevo: ha una controindicazione se la persona ci specula. Ma non se lo fa
con amore… Che se uno fa con amore quello che fa, non c’è cattiveria dentro, perciò non c’è speculazione,
sia essa di tipo economico, o come plagio. Perché alcuni potrebbero usare il T’ai Chi Ch’üan come plagio
verso gli studenti di T’ai Chi Ch’üan.”
E da qui all’emulazione del maestro, alla perdita della propria identità, il passaggio è breve,
ma lo analizziamo successivamente.
Quasi tutti i maestri affermano però che gli allievi devono affidarsi al maestro, non in modo
acritico, ma la fiducia è la base per poter apprendere qualcosa che è così distante dal nostro
modo di vivere:
“Sicuramente avere fede, nel maestro prima di tutto, se no farà molta fatica a imparare. E sicuramente il T’ai
Chi Ch’üan rafforzerà questa fede.”
“Non si dice nei primi tre giorni, ma visto che sono tante le cose da apprendere, una persona dovrebbe fidarsi
del maestro. Che è difficile, perché la fiducia è una cosa forte!”
I maestri e la cultura cinese
La rappresentazione che i maestri intervistati hanno della cultura cinese è piuttosto
variegata: nelle interviste ci si riferisce alla cultura cinese contemporanea come molto
diversa dalla nostra per alcuni aspetti (molti parlano anche della diversità della pratica del
T’ai Chi Ch’üan), ma omologata alla nostra da un punto di vista più generale:
“Oggi in Cina hanno una visione occidentale delle cose anche per quanto riguarda le arti marziali. Lì è
risaputo che il T’ai Chi Ch’üan giova anche alla salute, però è stata un po’ amputata la pratica nel suo
insieme, ma questo un po’ da tutte le parti: è mantenuta la parte salutare, ma è amputata la parte marziale, che
è più complessa, e quella meditativa, che richiama l’aspetto taoistico, che adesso in Cina non è molto
accettato! Si può dire che la Cina si è adeguata molto all’occidente, non c’è molta differenza. Capita di trovare
persone che praticano in modo tradizionale, ma è difficile trovarne! A livello di massificazione del T’ai Chi
Ch’üan, direi che è tutto centrato sull’aspetto diciamo esteriore della pratica, salvo appunto gli aspetti medici
salutari, dove ci sono state ricerche di una certa serietà.”
“Culturalmente, l’occidente è andato avanti: la tecnologia probabilmente ha dato agli occidentali quella spinta
per andare avanti, con la condizione della donna, la condizione socioculturale. La globalizzazione la sta
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cambiando tutta: discoteche, Mac Donalds. Però là c’è ancora il culto della famiglia, da noi c’era 50 anni fa.
Però la cultura orientale è sicuramente attualmente complementare alla nostra. Dovrebbe esserlo. Per esempio
nella medicina: la medicina cinese, l’agopuntura, … funzionano, non su tutto! Come da noi la nostra
medicina!”
Alcuni maestri riconoscono anche una grande differenza nel metodo di insegnamento e
apprendimento delle arti marziali tra la nostra cultura attuale e la cultura cinese antica:
“Io ho avuto principalmente due maestri cinesi. Le differenze rispetto all'insegnamento sono che quello cinese
è molto più “secco”: soprattutto la prima insegnante dava molto per scontato certe cose, che invece non lo
sono in realtà; io con i miei allievi ne parlo in continuazione! Chiaro che anche loro poi si ammorbidiscono:
quando il secondo maestro è arrivato in Italia era molto carico, molto forte, molto energico, molto più secco.
Con il tempo ha capito che in Italia un certo tipo di atteggiamento è meglio non tenerlo, quindi negli ultimi
anni si era ammorbidito molto.”
Molti maestri si riferiscono anche alla diversità tra il pensiero occidentale e la filosofia
taoista dalla quale ha avuto origine il T’ai Chi Ch’üan, ma riconoscono
contemporaneamente un attuale convergere del pensiero scientifico occidentale verso
alcune scoperte già avvenute secoli fa nel pensiero filosofico- scientifico orientale:
“Nella cultura orientale, nel modo di vedere la vita del pensiero orientale, non c’è una separazione tra la
mente ed il corpo, per cui si parla tranquillamente di qualcosa che si riferisce ad entrambi. Oggi in psicologia
si parla di quello che viene definito “ascolto attivo”: si intende un modo di osservare una determinata
situazione cercando di diminuire il più possibile i pregiudizi o quelle che vengono chiamate le “premesse
implicite” e nel T’ai Chi Ch’üan si parla di “fare il vuoto”, per poter ascoltare il messaggio dell’altro senza
che queste premesse implicite vadano a distorcerlo, ma senza, allo stesso tempo, perdere la propria
centralità.”
“C'è un abisso: il T’ai Chi Ch’üan sovverte completamente le nostre abitudini! Però non parlerei di mentalità
e di cultura cinese, parlerei proprio di filosofia del T’ai Chi Ch’üan. Intanto c'è una visione di unità del tutto,
che manca completamente nella nostra cultura: alla base c'è la filosofia del Tao, in cui c'è un'interazione
continua tra i due elementi e non bisogna mai pensare di poter tendere solo verso uno di essi. Mentre da noi
c'è più una concezione di dualismo, siamo più separatisti, i due concetti sono separati. La stessa separazione la
usiamo per trattare i fenomeni della mente e del corpo. Anche tutto questo continuo sforzo verso l'attenzione e
una maggiore consapevolezza non esiste assolutamente nella nostra cultura.”
Queste differenze nella filosofia, espressa nei testi classici del T’ai Chi Ch’üan, sono
considerate dai maestri una ricchezza e tutti affermano che è stato difficile “farle proprie”,
adottarle come stile di vita; però, dicono che quando le hai comprese veramente, cambia
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completamente il modo di vivere, di pensare, di sentire; e tutti vorrebbero condividere
questo cambiamento con i loro allievi. Consideriamo quindi il rapporto personale del
maestro con la cultura cinese:
“Posso dire che noi tendiamo a razionalizzare tutto, anche le emozioni, tendiamo a usare preferibilmente
l’emisfero cerebrale, mentre i cinesi hanno sempre dato molto ascolto a quel punto nella loro pancia che si
chiama Tan T’ien e che è il sentire attraverso le emozioni. Allora, nel T’ai Chi Ch’üan si ritorna a scoprire che
abbiamo altre capacità: un ascolto diverso da quello con le orecchie; una comprensione diversa da quella
intellettiva; scopriamo che forse abbiamo una capacità di sentire attraverso qualcos’altro.”
“I primi anni sembrava che per fare T’ai Chi Ch’üan dovessi mangiare con le bacchette cinesi e possibilmente
vestire come i cinesi! Quindi all'inizio è stata una immersione nella loro cultura; pian piano questa cosa è
andata scemando, perché ho capito che soprattutto la Cina di oggi non aveva niente a che fare col T’ai Chi
Ch’üan. Quindi il mio rapporto si è spostato sempre di più dalla cultura cinese verso il T’ai Chi Ch’üan. Come
mi sono trovato? È stato difficile: ho comunque dovuto, e devo tuttora, perché non è una cosa che si risolve in
un breve tempo, stravolgere alcuni concetti e abitudini di vita per entrare nelle abitudini e nei concetti di vita
del T’ai Chi Ch’üan; è molto diverso. Per esempio è un modo diverso di entrare in relazione, perché nel T’ai
Chi Ch’üan devi imparare a generare uno spazio dove lasciar entrare l'altra persona.”
Rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e sviluppo delle capacità individuali: ordine di apparizione
Nel corso dell’intervista ai maestri è stata posta questa domanda di approfondimento:
“Su questi cartoncini sono segnati alcuni possibili aspetti su cui il T’ai Chi Ch’üan potrebbe
avere delle influenze. Le chiederei di guardarli con calma e di parlarmi liberamente degli
effetti che secondo lei ha il T’ai Chi Ch’üan su di essi. (Sui cartoncini ci sono le scritte:
sulle emozioni; sulla consapevolezza di sé; sull’integrazione tra aspetti diversi; sulla
relazione con il proprio corpo; sulla capacità di controllarsi; sulla regolazione delle
emozioni; altro).”
Vari maestri hanno spontaneamente disposto questi aspetti in un ordine preciso che secondo
loro rispecchia l’ordine di comparsa degli effetti a seconda dei vari gradi di sviluppo e di
approfondimento della pratica del T’ai Chi Ch’üan. È molto interessante notare che l’ordine
scelto è stato uguale per quasi tutti i maestri:
1. Effetti riscontrati dai maestri relativamente al corpo (relazione con il corpo e
consapevolezza in ogni sua parte)
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2. Effetti riscontrati dai maestri relativamente alle emozioni (capacità di dirigere le
emozioni e capacità di controllarsi)
3. Integrazione tra aspetti diversi (intesa come integrazione interpersonale del
praticante con il “Tutto”).
Riporto il discorso di un maestro che sintetizza molto bene quanto detto:
“Intanto io li metterei in questa sequenza: Relazione col corpo, Consapevolezza di sé, Regolazione delle
emozioni, Capacità di controllarsi, Integrazione tra aspetti diversi.
Innanzitutto instaurare una relazione col corpo, che è un po’ anche la linea taoista: instaurare una relazione col
proprio corpo, cioè conoscerlo: conoscere com’è fatto, come si muove, come lo muoviamo,… Chiaramente
questo aumenta la consapevolezza del nostro stato fisico e già questo lavoro porta la mente al contatto con la
dinamica della meccanica corporea. Questo è il primo strumento per cominciare a regolare le emozioni, cioè:
l’emozione quando prorompe è perché ci sono delle vecchie situazioni congelate nei tessuti muscolari, che
esplodono quando non vengono più schiacciate dalle situazioni quotidiane del carattere … e prima o poi
sbottano, quando si viene a contatto con la sensazione di muoversi e di non poterle controllare; questi due, la
liberazione dell’emozione e la capacità di controllarle, chiaramente sono una conseguenza del lavoro che fai
col corpo, che aumenta la consapevolezza di sé e quindi la capacità di regolare in qualche modo l’emozione e,
di conseguenza, di controllarci e di controllare; anche se controllare non è un termine molto bello, perché in
realtà nel T’ai Chi Ch’üan noi non è che controlliamo il corpo, noi aiutiamo il corpo a liberarsi, a liberarsi del
controllo. E tutto questo serve a portare all’integrazione tra aspetti diversi, soprattutto nel lavoro del T’ui
Shou, nel vedere non tanto la diversità dell’altro, ma che l’altro è simile a noi: è un mettersi in relazione
attraverso il contatto e l’ascolto, e l’alternanza tra i due, che è la cosa più difficile in quel momento: c’è
un’unione tra i due, che si scambiano i ruoli: uno più attivo, uno più passivo, che si alternano; e c’è anche una
dimensione di gioco, proprio per il contatto.
Un maestro ha scelto un ordine diverso, ma questo mi sembra spiegabile anche per il fatto
che ha inteso in modo diverso dagli altri maestri il significato dei cartoncini: in particolare,
si è riferito alle “emozioni” intese come entusiasmo per la pratica e come benessere
psicofisico, quindi le ha poste all’inizio della sequenza, come uno dei primi effetti che la
pratica comporta.
Altri maestri non hanno fatto riferimento ad un particolare ordine di comparsa, ma anche
questi soggetti hanno parlato dell’integrazione tra il praticante e il Tutto come obiettivo
finale del T’ai Chi Ch’üan e come un livello che si raggiunge molto avanti nella pratica; è
molto poetica e significativa la metafora musicale dell’armonia, usata da due maestri per
descrivere questa forma di integrazione.
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“Ci sono riuscito non attraverso una costrizione, un obbligarmi a, ma piuttosto attraverso il vibrare con
un'armonia diversa rispetto alla vita, quindi quando si è sviluppata una percezione più armonica nell’insieme;
perché non guardo a quell’omuncolo che sono, se mi guardo nei confronti dell'universo; ma se mi metto in
sintonia e sviluppo una visione più allargata, tutto diventa più facile. Adotto una visione più allargata,
umana.”
“Quando fai T’ai Chi Ch’üan senti il profumo della libertà del muoversi… penso che un uccello goda
volando, farsi trasportare dal vento… e lo stesso fa il T’ai Chi Ch’üan. Io ho provato per esempio qualche
settimana fa, alla festa delle nostre discipline, a fare T’ai Chi Ch’üan con la musica e sentivo che si era
proprio armonizzata…”
Rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e gestione delle emozioni
Inizio a descrivere questo rapporto attraverso le parole di un maestro:
“Maggiore rilassamento nella vita, cioè imparare a stare più rilassati o perlomeno a sciogliere subito le
tensioni quando si generano, quindi anche una maggiore reattività nel senso positivo del termine, non la
reattività meccanica, ma una reattività a partire dalla consapevolezza: c'è qualche cosa che mi ferisce, che mi
urta e io non subisco, ma velocemente riesco ad avere il controllo della situazione.
E secondo me lo sviluppo di queste cose non è dovuto solo all'aspetto marziale, del tipo “oggi mi so difendere
e quindi mi sento più sicuro”, ma è dovuto all'ampliamento della visione interna, cioè alla presa di una
maggiore consapevolezza, che porta a sviluppare maggiore rispetto per se stessi e meno paura: si conosce di
più la vita.
Per consapevolezza intendo la presenza, tanto per cominciare: io sono seduto in questa stanza e non mi
dimentico che sono seduto in questa stanza. Mentre sono seduto in questa stanza mi accorgo delle mie
tensioni fisiche, interne, mentali o emotive e posso cambiarle volontariamente. Poi c'è anche una
consapevolezza dell'ambiente: percepisco che le cose sono colorate, cioè il calore e la qualità vibratoria
dell'ambiente non mi sfuggono e allo stesso modo sento chi mi sta di fronte: quindi una presenza allargata, è
contemporaneamente all'interno e all'esterno.”
Nel testo si possono già notare alcuni effetti del T’ai Chi Ch’üan riscontrati dai maestri
sulla gestione delle emozioni, in termini di regolazione delle emozioni, di
autoconsapevolezza emotiva e di modalità di regolazione delle emozioni; ora
approfondiremo queste tre aree.
Innanzitutto possiamo chiederci cosa intendono i maestri per regolazione delle emozioni:
molti di essi parlano, in un primo momento, di “controllo”, ma si correggono subito dopo,
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affermando che questa non è la parola più indicata; allora le parole utilizzate sono “guidare,
incanalare le emozioni”, “gestire la sfera emotiva”, nel senso di:
“La capacità di esserci, nella vita, serve per non lasciarsi sopraffare da qualcosa che agisce e reagisce in modo
del tutto meccanico e al di fuori di ogni possibilità di controllo, perché è la parte più veloce. Vuole dire avere
l'unica chance di governare la sfera emotiva, di governarla o anche di non lasciarsi colorare completamente
dall'emozione. Se pensiamo alle emozioni negative, la rabbia ingovernabile, la paura,… allora avere la
possibilità di decidere di non vivere quell'emozione diventa importante. Di fronte a un'aggressione anche
verbale, poter esserci prima.”
La differenza tra “controllo” e “gestione” consiste nel considerare il controllo come un
intervento del pensiero razionale: allora è impossibile controllare le emozioni:
“L'emozione è troppo veloce [per essere controllata dal pensiero] e quando è arrivata è troppo tardi!”
“Le emozioni negative sono la cosa più difficile da gestire, perché io non posso dire “io non voglio
arrabbiarmi, adesso non mi arrabbio”; bisogna lavorarci moltissimo, perché è troppo rapida l’emozione,
quando arriva io son già arrabbiato. Quindi bisogna essere molto preparati, lavorarci moltissimo!”
La regolazione delle emozioni è ben rappresentata nel T’ai Chi Ch’üan dall’applicazione a
due del T’ui Shou. L’emozione e la sua regolazione derivano dal movimento del corpo
insieme a un’altra persona, che porta a sviluppare una maggiore consapevolezza del proprio
corpo, della propria presenza e insieme una consapevolezza, intesa come riconoscimento,
dell’altro; allora la regolazione consiste nella liberazione dell’emozione e anche nel
controllo dell’emozione, che si alternano tra loro come nel T’ui Shou si alternano il ruolo
attivo (ti attacco) e quello passivo (ti lascio attaccare, non reagisco, ma sono sempre lì).
Anche la pratica a solo (la forma del T’ai Chi Ch’üan) sembra avere delle influenze sulla
capacità di regolazione emotiva:
“Si parte dal controllo del movimento e si arriva a sentire il proprio corpo; poi si passa sicuramente dal corpo
all’emozione e quindi diventa un controllo anche della propria emozione. La capacità di controllarsi si
sviluppa in un modo o nell’altro: da un lato riporta al controllo quelle persone che non ne hanno, che non
hanno confini e “strabordano” in continuazione, ma potrebbe essere anche un lasciarsi andare, per quelle
persone che sono eccessivamente controllate.”
Come avviene questa modificazione delle capacità di regolazione emotiva dei praticanti?
Quali sono i fattori del T’ai Chi Ch’üan che provocano questi effetti? Un fattore
riconosciuto da tutti i nostri insegnanti è la forte concentrazione e consapevolezza che gli
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studenti di T’ai Chi Ch’üan sono costretti a sviluppare per poter praticare correttamente
questa disciplina. Contemporaneamente, tutti i maestri sottolineano che il T’ai Chi Ch’üan
è uno strumento come altri, che aiuta in questo lavoro, ma non ha doti magiche: è
necessario anche un lavoro molto profondo e prolungato su di sé, che parte dalla
quotidianità della pratica e arriva ad approfondire la disciplina molto oltre la semplice
oretta di lezione!
“E non basta dire faccio T’ai Chi Ch’üan per togliermi la preoccupazione, certo m’aiuta, però devo lavorare
molto sull’emozione negativa. È uno dei lavori più difficili. Il T’ai Chi Ch’üan aiuta perché quando uno è
molto concentrato, dimentica tutto il resto. Ma bisognerebbe farlo tutti i giorni, magari per un quarto d’ora,
concentrarmi!”
“La cosa interessante del T'ai Chi è quel livello di presenza, di consapevolezza di cui si parlava prima, che
portato a un buon livello di pratica e ricercato costantemente nella vita, ti dà quella capacità di essere presente
prima che l'emozione si origini. Quella che nello zen è chiamato il qui e ora, che è importante anche nel T'ai
Chi. È un grande livello di presenza e di saper ascoltare l'avversario; però soprattutto la presenza: ci devi
essere per sentire.”
Tutto parte dall’ascolto del corpo, ma questo è solo l’inizio: è un “ascolto del corpo per
liberare la mente” e questo ascolto del corpo “consiste nell’ascolto del movimento, ma non
solo, anche nel sentire bene la postura: il radicamento, la struttura, le articolazioni.”
Riguardo alla regolazione delle emozioni del singolo attraverso la gestione nel gruppo ne
abbiamo già parlato nel paragrafo sul gruppo; qui riprendo un testo importante e sottolineo
che, nonostante tutti i maestri riconoscano un ruolo importante alle relazioni tra allievi, solo
una maestra ha riportato questa interessante modalità di gestione delle emozioni. Secondo
questa insegnante, un'altra fonte di sostegno importante per la gestione delle forti emozioni
che emergono nella pratica è il maestro.
“Senza volerlo, solo facendo una respirazione di tipo diaframmatico, alle persone si muovono delle emozioni.
Quello che accade all’apparenza è che magari la persona comincia a diventare bianca, comincia a star male,
potrebbe venire del pianto,… e allora lì bisogna aiutarli a entrare nella relazione di aiuto, fare da sostegno,
tranquillizzare la persona e spiegare alla persona che cosa sta accadendo. Di solito si fa all’interno del gruppo
e si fa spiegando che il gruppo diventa un sostegno, diventa l’utero e che quel pezzettino dell’emozione che si
è mossa è servita per fare quel tipo di percorso. E questo accade spesso, se si lavora in un certo modo con il
T’ai Chi Ch’üan, però l’importante è sostenere la persona e farle capire che può succedere. … Diciamo che se
hai la fortuna di trovare qualcuno come io spero di essere per gli altri, se hai la fortuna di sentire il sostegno e
la protezione allora ci riesci ad andare avanti!”
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Un’interessante modalità di regolazione delle emozioni riportata da quasi tutti gli
insegnanti è sentirsi parte del Tutto: questo porta a un ridimensionamento delle proprie
emozioni, perché l’evento emotigeno viene da una parte limitato nella sua importanza e
dall’altra viene colto nella sua necessità. Per certi versi, la sensazione di fusione con il
Tutto comporta anche il sentimento di sentirsi compresi (sia fisicamente che
energeticamente).
“Controllare è avere una consapevolezza acquisita in ogni cellula che se le cose accadono è perché doveva
essere così e di conseguenza le tue emozioni nei confronti di quell’accadimento lì vengono ridimensionate:
l’evento non diventa più abnorme. Questo non vuol dire che non si prova dolore per un lutto, per esempio, ma
lo si vive con una consapevolezza diversa. Però ritengo anche che ci sia da fare tanto di quel lavoro su di sé
che la pratica del T’ai Chi Ch’üan finalizzata a farlo una volta a settimana … io dico a volte: «dovrei
chiudermi in un barattolo di T’ai Chi Ch’üan!».
“Le tue emozioni non ti fanno più trasalire. Te le esalta talmente, che fa come un chiodo che schiaccia chiodo,
cioè le emozioni schiacciano altre emozioni. Non è che diventi asettico, eh! È che uno non è più angosciato…
tipo l’innamorato angosciato perché è stato lasciato, ma anche un fallimento economico, penso che uno che ha
studiato T’ai Chi Ch’üan e che ha già molta crosta di T’ai Chi Ch’üan addosso reagisce diversamente…uno
che ha perso la casa ed è rimasto in mezzo alla strada e pensa “be’, ho perso tutto…faccio T’ai Chi Ch’üan!”
dovrebbe essere così, ma è difficile ottenerlo.”
“La consapevolezza del sé è importantissima, per l’autodifesa, se no non avremmo più difese. Ma nello stesso
tempo la fusione con l’altro, col tutto, con la natura,… mi porta anche a saper gestire quelle emozioni, a volte
troppo intense, che potrebbero farmi ammalare. Perché ci si ammala di emozioni troppo intense. E allora ecco
che è un continuo scambio e integrazione con il tutto, fusione con il tutto.”
Nelle parole di alcuni maestri, il sentimento di sentirsi “armonicamente integrati con il
Tutto” non può essere scisso da una particolare modalità di respirazione, che deve essere
profonda e “centrata nel ventre, in quel punto che i cinesi chiamano Tan T’ien”
“Il T’ai Chi Ch’üan ci insegna a respirare. Respirare profondamente. Quello che si dice avere una respirazione
bassa, cioè addominale, quella che si ha naturalmente quando siamo rilassati o quando ridiamo serenamente.
Quando invece uno si spaventa o è arrabbiato, la respirazione è toracica. Dall’altra parte, quindi, se uno è
impaurito, angosciato e inizia a respirare profondamente, mandando l’aria nella regione addominale del corpo,
anche la sua emozione si calma. Uno non può essere arrabbiato, in preda all’ira o a qualsiasi emozione
negativa, in preda alla paura, se ha la respirazione bassa. Per cui se anche viene un terremoto, uno deve
respirare bene; è quello il difficile. Che quando uno è in preda all’ira, la respirazione sale e allora il maestro
diceva “sempre fare Ch’i basso, poi no paura”.
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“Provo delle sensazioni molto belle quando sento il corpo che sta entrando in armonia col respiro e anche con
quello che sta intorno a te; è una sensazione molto bella, di libertà, poi ti svegli quando scendi negli spogliatoi
e torni alle tue faccende… e lì è uno shock!”
Una modalità interessante di regolazione delle emozioni è un altro tipo di modificazione del
significato dell’evento, per cui il T’ai Chi Ch’üan assomiglia alla gestione creativa dei
conflitti:
“La gestione creativa del conflitto prevede, attraverso l’ascolto attivo, una gestione dei conflitti che non è
relegata al semplice “io ti attacco io mi difendo” oppure al “io ti attacco e tu mi attacchi”. Per cui è come
trovare altre strategie e strade come il T’ai Chi Ch’üan propone già. Il T’ai Chi Ch’üan propone di lasciarsi
andare, di non opporsi all’avversario, di non opporre la forza alla forza.”
Rapporto tra movimento del T’ai Chi Ch’üan ed emozioni
“Se noi accettiamo l’idea dell’unità tra corpo e mente, capiamo che posso lavorare sull’atteggiamento emotivo
anche lavorando sul corpo. Quando lavoro sulla postura, sul modo di tenere le spalle, i gomiti o anche il modo
di coordinare certi movimenti, questo inevitabilmente tocca le emozioni, va a creare delle situazioni a livello
emotivo.”
“Questi movimenti vanno a lavorare sulla coscienza, sul profondo, sull’io e quando questo si produce a coppie
e capisci che anche l’altro lo sente, si stabilisce una comunione che difficilmente si realizza con altre cose.”
Nel T’ai Chi Ch’üan tutto muta continuamente: tutto il corpo continua a muoversi. In
generale, “sentire il proprio corpo in movimento è piacevole: è un’emozione positiva”; ma
il movimento del T’ai Chi Ch’üan che tipo di movimento è? E quali effetti emotivi
comporta?
Nel T’ai Chi Ch’üan, il movimento deve essere rilassato, ma non rilasciato;
“Quello che si dovrebbe sviluppare nel T’ai Chi Ch’üan è la cedevolezza, come dialettica tra ascolto e
azione.”
“Il maestro Chang mi diceva di pensare al serpente: il serpente quando si muove è morbidissimo, i suoi
movimenti sono lenti, rotondi; però non è molle; oggi diciamo morbido, ma morbido non dà l’idea. “Perché
dentro c’è Ch’i.” Il serpente è un po’ il simbolo del Ch’i, perché si muove lento, ma si indovina un’enorme
energia che c’è in questo corpo.”
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È un movimento marziale, perché “se uno non conosce l’applicazione marziale del
movimento, che è il significato di un certo movimento, questo poco alla volta cambia: se
uno non sa che l’avversario è di fronte, a un certo punto può girare la testa, anche solo per
una questione estetica.” Qui però siamo interessati a vedere il movimento del T’ai Chi
Ch’üan in rapporto alle emozioni.
Il movimento del T’ai Chi Ch’üan è preciso e quindi ti dà un confine,
“ma paradossalmente il fatto che questi movimenti siano sempre fluidi e circolari e senza mai interruzioni
(proprio come dicono i cinesi: come si srotola un bozzolo di seta), fa sì che le persone con eccessivo
autocontrollo (che sono le persone che quando le vede sono un po’ dei pinocchietti che si muovono, sono
molto rigidi) sviluppino la capacità di lasciarsi andare.”
È un movimento in equilibrio:
“Per me il T’ai Chi Ch’üan è diventato la costante ricerca dell’equilibrio. Che però si sposta continuamente, è
come il vento che sposta il filo d’erba, ma il filo d’erba ha una radice e la tendenza verso il cielo. Lui non lo
sa, è solo un filo d’erba, però sta facendo T’ai Chi Ch’üan da sempre, tutta la vita!”
È un movimento che coinvolge tutto il corpo e quindi sembra avere effetti di integrazione di
sé:
“All’inizio la nostra mente non sa stare contemporaneamente su due cose. E allora un esercizio con il corpo
che ci fa fare il T’ai Chi Ch’üan è quello di far “giocare il nostro cervello a ping pong”: sono qui sono là, sono
qui sono là e poi tac, è come se ci fosse questa fusione tra l’alto e il basso, tra la testa e la pancia… attraverso
esercizi specifici, che si chiamano “lavorare con l’8”. Dopo un po’ si ha la percezione di sentire questo
movimento orizzontale che si trasforma in un movimento elicoidale che coinvolge tutto il corpo.”
Per descrivere il movimento del T’ai Chi Ch’üan, molti maestri ricorrono alla metafora del
volo, che indica la leggerezza, il lasciarsi andare, il muoversi insieme allo stormo.
Alcuni insegnanti fanno anche fare esercizi “di fiducia”:
“per esempio faccio fare degli esercizi in cui uno prende per mano un altro e lo porta in giro per la stanza ad
occhi chiusi. Tutti questi esercizi, non sono modi usuali e previsti dalla nostra cultura e questo è
destabilizzante, facciamo cose che non rientrano nella nostra visione.”
Alcuni esercizi di movimento sono quelli a solo, cioè la forma del T’ai Chi Ch’üan e gli
esercizi di respirazione; altri esercizi coinvolgono anche la relazione con un compagno, che
implica sia il contatto fisico, sia un’alternanza dei ruoli.
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“Nel T’ui Shou c’è un continuo scambio di ruolo. Questo scongela delle situazioni di ruolo bloccate sul polo
attivo o su quello passivo. Il movimento libera il corpo dal controllo, dalla rigidità del ruolo a cui è sottoposto
nella vita quotidiana, perché obbliga il soggetto ad alternarsi con un altro soggetto nello svolgere un ruolo
attivo/passivo. La liberazione dell’emozione e la capacità di controllarle sono una conseguenza del lavoro che
fai col corpo … questo perché aiuti il corpo a liberarsi del controllo.”
Rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e identità
Come già anticipato, i maestri non distinguono tra effetti del T’ai Chi Ch’üan sugli allievi o
sulla loro stessa vita, anche per quanto riguarda l’identità: nel loro pensiero, allievi e
maestri sono comunque praticanti di T’ai Chi Ch’üan; solo che sui maestri, cioè su chi
pratica da molto tempo, si presuppone che abbia un’influenza maggiore in termini di
pervasività di ciò che è stato appreso nella pratica, che dovrebbe essere esteso
maggiormente alla vita quotidiana.
Una delle differenze maggiori a questo proposito è quindi nell’ambito dell’integrazione di
quell’aspetto dell’identità che potremmo definire “essere un praticante di T’ai Chi
Ch’üan” con gli altri aspetti di sé, che rientrano nella vita quotidiana: i maestri sono quelli
che “hanno fatto qualche passo in più su questa strada, che è infinita, come il T’ai Chi
Ch’üan”. Un’insegnante usa a questo proposito una metafora molto eloquente:
“Io dico a volte: «dovrei chiudermi in un barattolo di T’ai Chi Ch’üan!».”
I maestri, quindi, parlano della bellezza del T’ai Chi Ch’üan, degli effetti positivi che ha
avuto sulla loro vita, e contemporaneamente avvertono la difficoltà di integrare
completamente la filosofia del T’ai Chi Ch’üan nella loro vita quotidiana:
“è una sensazione molto bella, di libertà, poi ti svegli quando scendi negli spogliatoi e torni alle tue
faccende…e lì è uno shock! E lì ti rendi conto che la libertà non esiste!”
Però, più una persona pratica, con continuità, più sviluppa la sua capacità di integrazione;
certo che praticarlo un’ora a settimana non basta! Bisogna praticarlo: conta la quantità e
conta la volontà, l’impegno di applicare il T’ai Chi Ch’üan alla vita.
“Penso che uno che ha studiato T’ai Chi Ch’üan e che ha già molta crosta di T’ai Chi Ch’üan addosso
reagisce diversamente…”
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Un modo interessante di integrare meglio il T’ai Chi Ch’üan nella propria vita è quello di
insegnarlo:
“Per me l’insegnamento è stata una fase per poter ricodificare tutto: dopo 20 anni di arti marziali ho capito
che il salto di qualità potevo farlo solo mettendomi in discussione e riprovare a insegnare le cose dopo averle
digerite.”
Vediamo ora più in dettaglio quelli che i maestri ritengono essere gli effetti del T’ai Chi
Ch’üan sull’integrazione tra diversi sé. Il T’ai Chi Ch’üan richiede e sviluppa
l’integrazione tra diversi ruoli: ogni praticante alterna un ruolo attivo con uno passivo,
come un parlare e un ascoltare; questo comporta l’integrazione di un modo di fare più
cedevole, morbido: l’integrazione del lato femminile in ogni persona.
“Nel T’ai Chi Ch’üan in generale, c’è la cultura della cedevolezza e questo è un modo per rivalutare un modo
di fare più femminile anche nelle relazioni. E con questa cultura si trovano male alcuni uomini, che sono
abituati a prevaricare e considerano questo come un diritto.”
Alcuni studenti non riescono a integrare questi nuovi lati:
“a volte questa scoperta di nuovi lati di sé spaventa troppo e allora scappano! Abbandonano la pratica.”
Un altro aspetto che il T’ai Chi Ch’üan aiuta a integrare è la capacità di “sentire attraverso
la pancia”, al di là della comprensione intellettiva, sviluppa la capacità di comprensione
emotiva; questo è motivato anche dal fatto che “bisogna praticare T’ai Chi Ch’üan con
corpo, mente e cuore”.
Il T’ai Chi Ch’üan, quindi, ti aiuta a integrare diversi punti di vista e questo a sua volta si
riflette su una maggiore capacità di integrazione con l’altro, nelle relazioni interpersonali.
“Nel T’ai Chi Ch’üan si parla di “fare il vuoto”, per poter ascoltare il messaggio dell’altro senza che queste
premesse implicite vadano a distorcerlo, ma senza, allo stesso tempo, perdere la propria centralità.”
“La cosa che per me è diventata fondamentale è quella di lavorare su di me per integrarmi con l’altro. E a
volte l’altro mi ha insegnato tante cose diverse. Ecco condivido che si pratichi il T’ai Chi Ch’üan da soli per
migliorare, ma mi fanno veramente ridere quelli che lavorano sull’aspetto esteriore e quindi la loro finalità è
di fare il T’ai Chi Ch’üan bello, preciso, eccetera.”
Nel T’ui Shou si diviene consapevoli del proprio tatto, della propria pelle, che è ciò che ci
contiene e contemporaneamente ciò che ci permette di entrare in con-tatto con un’altra
persona.
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Inoltre, il T’ui Shou comporta un ridimensionamento dell’io:
“Nella cultura del T’ai Chi Ch’üan non c’è l’idea di annullare l’io, ma c’è l’idea di ridimensionarlo, di
ricollocarlo, soprattutto in relazione agli altri. Perché l’idea del T’ai Chi Ch’üan è che ognuno di noi fa parte
di tutto ciò che ci circonda e interagiamo con tutto ciò che ci circonda e ne siamo parte in modo talmente
profondo che non possiamo staccarcene.”
Questo ci porta alla categoria seguente, cioè a un tipo di integrazione del sé diversa dalle
precedenti: l’integrazione dell’individuo in qualcosa di sovraordinato, che è stato
chiamato dai vari maestri in modi diversi, riassumibili nel concetto di Tao, di Tutto, … Per
sentire questa integrazione nel Tutto è molto importante divenire consapevoli di se stessi e
contemporaneamente della propria appartenenza a un insieme più allargato (“qui è un po’
come stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina!”) e praticare la forma all’unisono con
tutto il gruppo.
“Allora il T’ai Chi Ch’üan diventa un mezzo per comprendere tutte le altre cose; affronti anche le altre cose in
modo diverso.”
Il rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e integrazione tra mente e corpo deriva dalla stessa
filosofia del Tao, per cui c’è una compenetrazione e una continua interazione tra elementi
diversi; inoltre, nel pensiero orientale, tra mente e corpo non c’è alcuna separazione, che
invece esiste nel nostro pensiero di occidentali:
“Il bello del T’ai Chi Ch’üan, uno dei suoi scopi, è che in quell’ora che fai dovresti identificarti con te stesso,
col tuo corpo, quindi raggiungere la consapevolezza del movimento che stai facendo e raggiungere questa
comunione tra corpo e mente.”
Il Ch’i, questa sorta di “energia psicofisica”, può quindi essere guidato nel corpo, in punti
precisi del corpo (anche per la prevenzione e la cura delle malattie) dalla mente e viceversa,
come testimonia la frase:
“I Tao Ch’i Tao, Ch’i Tao I Tao: il pensiero guida l’energia, l’energia guida il pensiero.”
Il Ch’i è un’energia che integra aspetti diversi (diversi almeno secondo la concezione
occidentale) dell’individuo:
“Questa energia “psicofisica” si esprime attraverso il corpo; ma c’entra anche la mente, perché la guida il
pensiero; e poi c’entrano anche le emozioni, perché quando provi un’emozione percepisci di più l’energia.”
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L’integrazione tra mente e corpo, cioè il guidare il Ch’i nel corpo attraverso il pensiero,
avviene attraverso la visualizzazione del proprio corpo:
“Devi riuscire però a visualizzare quello che stai facendo. Tipo: se devo andare a muovere il gomito perché è
valgo, allora faccio Ch’i Kung (che è già intrinseco al T’ai Chi Ch’üan): lavoro con l’energia. Solo che nel
T’ai Chi Ch’üan c’è anche l’I Ching: il continuo mutamento.”
E l’I Ching (il testo che ispira il T’ai Chi Ch’üan, che sostiene un continuo mutamento di
tutto ciò che esiste) riporta a un aspetto intrinseco allo studio dell’identità: il sentimento di
continuità del sé. La continuità è un concetto che ritorna spesso nelle interviste, anche se
attraverso parole diverse:
“Io consiglio sempre di cercare di essere costanti, afferrare ogni opportunità. Io ho avuto parecchi incontri e
nulla nella vita è un caso … Adesso mi rendo conto che molti dei miei passi mi hanno portato in una direzione
che non è stata casuale.”
“Uno poi è, diverrà il risultato di quello che è stato. Se ha fatto T’ai Chi Ch’üan sarà il risultato del T’ai Chi
Ch’üan!”
Un altro effetto del T’ai Chi Ch’üan sull’identità è dato dall’aumento di
autoconsapevolezza. Un maestro mi ha descritto la distinzione tra tre tipi di consapevolezza
sviluppati dal T’ai Chi Ch’üan: una consapevolezza che ha la mente, una consapevolezza
che ha il corpo, una consapevolezza che ha il cuore. Penso che il seguente testo sia troppo
importante per poter essere sintetizzato e tagliato: lo riporto quasi integralmente per
permettere una migliore comprensione del senso.
“Io devo essere consapevole del corpo; di conseguenza quando faccio T’ai Chi Ch’üan, devo essere
consapevole di quello che faccio, devo sentire quello che faccio; e se non lo sento non sto facendo T’ai Chi
Ch’üan. Quando io sono in una posizione (esempio, T’an Pien) devo essere consapevole di quello che faccio:
la gamba è dritta? I piedi come sono, nella posizione giusta? Ho la sensazione della rotazione delle cosce
verso l’esterno? Prima bisogna praticare e prendere coscienza del corpo, sentire il corpo, ogni parte del corpo.
Devo sentirla, non dimenticarla. Allora, prima sensazione “osso”, diceva il maestro. Poi “muscolo”: come è
giusto? Dopodiché devo prender coscienza della respirazione: respiro giusto? Che consapevolezza ho se non
comincio a prestare questa attenzione?! Avere questa profonda concentrazione su questi particolari: prima del
corpo, la superficie, i muscoli, il respiro. Dopo posso andare più in profondità e cominci, a partire dal respiro,
a sentire l’energia che circola: sento l’energia che circola?
Il secondo livello è la consapevolezza dell’energia: ho la sensazione che l’energia dalla terra salga lungo la
parte interna delle cosce? Devo sentire lungo la parte esterna, l’energia che va giù. Se no, faccio un esercizio
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che potrebbe essere qualsiasi cosa fatta lentamente; che va bene come ginnastica così, ma in realtà non ha
nessuna di queste implicazioni, che sono profondissime.
Devo essere consapevole. Cioè, la mente deve intervenire: prima comandando al corpo, poi osservando, poi
essendone consapevole. Poi la mente se ne può dimenticare, ma deve ricordarselo il corpo. Ossia, il corpo può
essere consapevole senza la mente, indipendentemente dalla mente. Ci sono tanti tipi di consapevolezza: c’è
sempre la consapevolezza della mente, che interviene e guarda tutto; la consapevolezza del corpo è un altro
tipo di consapevolezza. Come memorie diverse: è lo stesso. Noi abbiamo una memoria della mente, del corpo
e del cuore, che intervengono: una memoria emotiva, una intellettiva e una fisica. La memoria del corpo è
molto più rapida; se uno deve suonare uno strumento, le dita sanno: la memoria è nelle dita, non è nella
mente. Certo, per una miglior consapevolezza, bisogna mettere insieme tutto: la mente, il corpo e il cuore. È
un lavoro lunghissimo! E questo è un lavoro che si può fare tramite il T’ai Chi Ch’üan. Certo, quanti lo
fanno? Pochissimi!
Poi da qui, devi arrivare più in profondità, quella che anche tu forse hai chiamato “identità”, più in profondità,
al proprio io. E allora devo sentire che devo tendere a quello che il maestro Chang diceva lo scopo supremo
del T’ai Chi Ch’üan: cielo e uomo uniti una sola cosa. Allora mi rendo conto che, a seconda di quello a cui
uno crede, la mia energia, il mio io, il mio piccolo io è diventato il grande Io, il vero Io. E questo è lo scopo
supremo, però se non c’è tutto questo lavoro! È così che il T’ai Chi Ch’üan diventa veramente una forma di
meditazione, però passa prima dalla percezione fisica di quello che avviene nel mio corpo e anche intorno a
me: percezione dei sensi fisici (vista, udito, tatto), dopodiché iniziano i sensi interiori, con l’immaginazione
creativa.”
Per accedere a quest’ultimo scalino, il T’ai Chi Ch’üan come meditazione in movimento, è
necessario che la mente entri in uno stato di supercoscienza, chiamato il “vuoto della
mente”: è uno stato in cui la mente è estremamente sveglia, ma a un passo dal sonno. Per
arrivare allo stato di supercoscienza,
“ci vuole uno stato di intensa concentrazione mentale e solo dopo la mente si può vuotare ed è il momento in
cui ho le grandi intuizioni: riesco a vedere contemporaneamente l’inizio e la fine.”
Conoscere e sentire il proprio corpo è una competenza che si articola in vari aspetti, nella
pratica del T’ai Chi Ch’üan:
“conoscere com’è fatto il proprio corpo e come si muove”;
“essere consapevoli della velocità del proprio movimento: a volte diamo le indicazioni di fare il primo Lu
almeno, ma proprio almeno, in 4 minuti e ci si rende conto che i principianti in 2 minuti hanno già finito!”;
“essere consapevoli di avere uno spazio vitale”;
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“essere consapevoli di quando si è fuori asse e quando ci sono delle tensioni muscolari”;
“essere consapevoli di tutti i particolari del corpo e del proprio confine”.
Questi vari aspetti della consapevolezza del corpo sono la base per poter continuare sulla
via del T’ai Chi Ch’üan. Concludendo:
“Il T’ai Chi Ch’üan è uno strumento che ci porta dentro nell’ascolto di noi”
Ascolto psicofisico di noi stessi, che coinvolge anche l’ascolto a livello emotivo.
Rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e altri aspetti dell’identità
Altre relazioni importanti tra T’ai Chi Ch’üan e identità dei praticanti, emerse dalle
interviste ai maestri, riguardano il pericolo di perdita di identità degli allievi, l’incremento
del sentimento di efficacia e autostima, lo sviluppo morale.
Se il maestro non è guidato da buone intenzioni, potrebbe plagiare l’allievo e sostenere così
la confusione identitaria dell’allievo:
“Spesso gli allievi esprimono quello che si chiama “timore riverenziale”. E questo, se è fatto con coscienza,
va bene. Le caratteristiche di entrambi dovrebbero essere l’umiltà e la criticità: se diventa acriticità non va
bene… si diventa un po’ come soldatini. Questo non vuol dire contestare il maestro, ma non assumere i suoi
vestiti, non parlare come lui: questo è un immedesimarsi, un vestirsi che equivale alla perdita della propria
persona. Essere devoti non vuol dire rinunciare a se stessi.”
“La persona può crescere, non è che deve emulare il maestro, ognuno deve trovare la sua identità di per sé;
gradualmente una persona può prendere un percorso di vita diverso. Secondo me la relazione col maestro non
deve essere troppo direttiva in questo senso, deve lasciare molto spazio all’allievo per riguardo alla sua
crescita e lasciarlo confrontare con altre persone nella disciplina.”
Però il T’ai Chi Ch’üan può sviluppare molto il senso morale dei praticanti, proprio perché
rende più consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni:
“Penso che una persona non possa che migliorare spiritualmente facendo T’ai Chi Ch’üan: c’è questa sua
religiosità anche nel modo di agire. Diventi più sensibile, aumenti le tue capacità emotive!”
Il T’ai Chi Ch’üan sviluppa l’autostima, la sicurezza, la capacità di difendersi:
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“Il T’ai Chi Ch’üan è una disciplina basata sulla scommessa di avere ancora qualcosa di nuovo da imparare e,
soprattutto con gli anziani, questo si riflette soprattutto sul piano psicologico: questo è stato l’elemento
distintivo, ho notato, per l’aumento dell’autostima e della vitalità.”
“Le donne hanno la possibilità di rivalutare il loro modo di fare più cedevole e morbido: capiscono che il loro
modo di fare può essere usato anche per difendersi.”
Secondo i maestri, anche la trasmissione agli altri ha effetti positivi per insegnanti e allievi:
“Quando la persona comincia a trasmettere quello che ha acquisito, si ha tutta una serie di effetti positivi: una
maggior sicurezza, senso di autostima, una maggior fiducia nell’affrontare le cose della vita.”
“Abbiamo visto gente che aveva mestieri umilissimi, però magari diventavano maestri di arti marziali, al di là
del T’ai Chi Ch’üan, e questo ha dato una vera e propria identità a queste persone. Poi, noi non abbiamo mai
pompato troppo sul fatto “io sono un maestro”, però il fatto di trovare un’identità è molto importante.”
4.6. I risultati: analisi delle interviste agli allievi
Concezioni dell’apprendimento e dell’insegnamento
La motivazione per cui gli allievi hanno iniziato il corso di T’ai Chi Ch’üan, stranamente,
non è molto varia: quasi tutti hanno iniziato per consiglio di un esperto (fisioterapista,
agopuntore, medico, amici,…), spesso anche come terapia imposta:
“Ho accettato quello che mi è stato detto, cioè che poteva essere una cosa interessante, che fa bene alla mente,
al fisico, alla salute, per cui mi sono avvicinato.”
“Il tutto è partito da questa malattia, da questa forte ansia che non mi permetteva di mangiare e mi aveva quasi
portato al limite dell’anoressia. L’agopuntore mi ha consigliato allora di fare un tipo di ginnastica, mi ha
indirizzato al T’ai Chi Ch’üan, che io non sapevo nemmeno cosa fosse.”
La motivazione, per tutti, è cambiata notevolmente nel corso del tempo, divenendo più
intrinseca, legata all’entusiasmo per il T’ai Chi Ch’üan e ai benefici effettivamente
riscontrati:
“Poi col tempo ho visto che mi dava dei benefici, mi aiutava a controllare l’ansia e così ho continuato e mi
sono appassionata.”
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“Mi sono avvicinato e non l’ho più mollato! Ormai sono 4 anni!”
“Il maestro mi richiama tante volte, ma io continuo a venire e ci metto la buona volontà che occorre!”
“E io sono sempre lì a cercare questo Ch’i benedetto! E lei mi dice che non devo pensarci… come non devo
pensarci?! Adesso sono in questa dimensione qua, di ricerca.”
Le caratteristiche ideali per l’apprendimento del T’ai Chi Ch’üan, secondo gli allievi sono
essenzialmente l’accompagnamento da parte dell’insegnante: alcuni si dichiarano molto
soddisfatti dell’accompagnamento che ricevono a lezione, altri ne richiedono di più:
l’accompagnamento richiesto è nella forma della correzione, della maggiore omogeneità
delle classi per livello dei praticanti, in modo che si possa procedere nell’apprendimento
seguiti meglio, della riduzione del numero di allievi per classi: in tutte queste richieste (e
sono tante!) si legge il desiderio di una maggiore attenzione all’apprendimento di ciascun
allievo.
“è un controsenso che un allievo desideri che il maestro lo riprenda! Invece per me la correzione è un modo
per migliorare: possibile che non abbia niente da dirmi?!”
“Lui fa già tanto, però dovrebbe avvicinarsi di più alla persona che fatica ad imparare a fare gli esercizi.
Avvicinarsi alla persona qualche volta in più. Lui lo fa con qualcuno, ma non lo fa con tutti. Comunque non ci
abbandona!”
“Mi piace copiare da lui! Vado sempre davanti, così copio da lui!”
“Mi piacciono le osservazioni, così miglioro!”
Gli allievi desidererebbero anche avere più tempo nella loro vita quotidiana per praticare
T’ai Chi Ch’üan, in modo da poter apprendere di più:
“Però le vacanze ti fanno perdere l’allenamento, e siccome il T’ai Chi Ch’üan è basato su apprendimento e
ragionamento, bisognerebbe farlo anche durante l’estate nelle località di vacanza, ma questo non è fattibile;
allora riprendendo da capo è come essere sempre al primo anno.”
Vediamo ora il pensiero degli allievi sul metodo di insegnamento (e apprendimento): se il
desiderio è per maggiori attenzioni da parte del maestro, tutti affermano che è utile anche il
lavoro di ricerca individuale, che dà ottimi risultati nei tempi lunghi:
“Poi ho capito che lui è un bravo maestro, c’è poco da fare! Perché se veniva lui poi magari me lo
dimenticavo, invece ho capito il movimento … ora cerco di farmi le domande e le risposte da sola!”
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“Il maestro adotta questo sistema di farti fare le cose, che inizialmente a me non piaceva, di andare avanti per
forza senza capire quello che stai facendo e se lo fai bene o male; adesso ho imparato ad accettarlo come tipo
di insegnamento, perché alla lunga dà i suoi frutti, ti annoia forse meno rispetto al fare un pezzettino per volta.
E’ vero che all’inizio c’erano molti istruttori che lavoravano con i principianti a gruppi, facendoci vedere
passo a passo i fondamenti e le posizioni corrette di mani e piedi. Adesso il maestro non fa così, ti fa andare
avanti, ma alla lunga questo ha i suoi frutti, anche se ad alcuni piace e ad altri no. Adesso io, forse perché
penso di avere acquisito alcune basi, faccio meno fatica a “scopiazzare”; magari per un principiante è più
difficile.”
La soluzione migliore sembra il compromesso tra la vicinanza del maestro e il suo
allontanamento per lasciare libertà di sperimentare:
“C'è un accompagnamento, a scuola io lo sento molto, a imparare a imparare; a tollerare l'inevitabile
frustrazione che c'è quando “non mi viene ancora questa tecnica!”, quando non l'hai capita … [concretamente]
io posso essere corretta dal mio istruttore, ma anche lui può essere corretto dal maestro; c'è un sistema a
cascata, in cui viene supervisionato il lavoro del livello successivo. Quindi gli accompagnatori sono molto
presenti, direi.”
“Il suo metodo consiste nel portarci a fare i gesti come li vediamo da lui, ma non solo ripetendoli ma
arrivandoci con la nostra memoria visiva: lui ci fa vedere un movimento più volte, poi noi dobbiamo
ricordarlo senza che lui debba farcelo ripetere in modo “pappagallesco”.”
Il compito del maestro è, in sintesi:
“il maestro deve insegnare le tecniche innanzitutto, ma poi anche far capire all’allievo che è solo attraverso la
ripetizione continua delle tecniche che potrà percepire quello che non si può insegnare, cioè potrà percepire
l’energia, potrà diventare consapevole. Non è una cosa semplice, eh?!”
“Il maestro dirige, pre-siede il cammino. Ma accompagna il cammino: cammina con. Se non c’è l’allievo, non
c’è trasmissione; non c’è tradizione; non c’è evoluzione del sapere né apprendimento, che è reciproco.”
Altro ruolo importante nell’apprendimento è quello dell’apprendimento tra pari:
“Parliamo sempre di T’ai Chi Ch’üan, dei movimenti che il maestro ci insegna. Magari l’altra persona che mi
ascolta dice “io questo non l’ho capito” e viceversa io. Io ripeto quello che non ha capito lei e lei ripete quello
che non ho capito io. Ci aiutiamo, parlando.”
Altre questioni interessanti riguardo all’apprendimento del T’ai Chi Ch’üan sono la
questione del tempo, la conoscenza per identificazione e la concezione globale
dell’individuo nel trattare l’allievo:
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“Viene favorito molto un atteggiamento di umiltà, un dire “sono in prima elementare e prima di arrivare
all'università c'impiegherò un po' di tempo!”; viene molto sottolineato l'aspetto non veloce di ogni
acquisizione vera. Questo è un aspetto fondamentale nello sviluppo dell'identità: ci vuole tempo! Anche per
imparare un'arte.”
“L’immagine del calzolaio mi fa pensare ad un lavoro di molta pazienza, quasi da certosino perché deve esser
molto preciso. In generale ritengo il T’ai Chi Ch’üan un lavoro in cui bisogna avere molta pazienza, fare le
cose con molta calma, ci vuole tantissimo tempo per imparare le cose.”
“La concezione orientale della conoscenza dice che essa avviene per identificazione. Questo avviene per
esempio nell’imparare l’uso delle armi: è prima imparare ad avere in mano quell'arma e poi imparare a essere
e diventare quest'arma: è un processo di progressiva identificazione, è un tentativo di entrare in risonanza, è
un processo di profonda immedesimazione. Questo è un livello di conoscenza non intellettuale.”
“C’è un altro arricchimento per chi frequenta una scuola così: è un invito più completo rispetto a fare quattro
salti. Per esempio, uno può accorgersi che si innervosisce un po' troppo quando non capisce, quando non
impara subito.”
La finalità ultima del T’ai Chi Ch’üan è per alcuni una forma di elevazione, in questo caso
il T’ai Chi Ch’üan è concepito come meditazione o come vera e propria forma di preghiera;
per altri allievi, questa rimane sullo sfondo o è completamente assente nelle loro parole. In
alcune interviste è dato un peso molto maggiore al sentirsi parte di un gruppo,
all’ampliamento delle relazioni sociali (soprattutto tra gli anziani) attraverso l’accettazione
dell’altro. Una persona pensa maggiormente alla finalità marziale del T’ai Chi Ch’üan.
Altri godono del movimento e delle sensazioni prodotte dal T’ai Chi Ch’üan, tanto che
ritengono questa una delle sue finalità principali: il beneficio psicofisico prodotto.
Ovviamente, il più delle volte, queste finalità convivono nella stessa persona.
Gruppo ed emozioni nel gruppo
Riguardo all’investimento affettivo sul gruppo con cui si pratica T’ai Chi Ch’üan, nessun
allievo parla di emozioni negative; tutti affermano di avere un buon rapporto con tutti, di
aver stretto rapporti intensi solo con alcuni compagni, ma di avvertire un legame, anche se
meno intenso, con tutti. In particolare, si sentono ben accolti nel gruppo, sentono di farne
parte e queste nuove amicizie, nella vecchiaia, possono anche sostituire le amicizie del
periodo precedente di vita.
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“Quando mi trovo tra gli altri mi sento .. non importante, ma una di loro, come far parte di una grande
famiglia! Questo è importante, il sentirsi qualcuno dentro un gruppo. Impari a non essere tanto esuberante e
far affiorare il tuo io, perché in fondo sono tutti un po’ egocentrici, allora cerco sempre di frenare questo io, in
fondo il T’ai Chi Ch’üan ti insegna anche queste cose.”
“Tutti mi adorano, è un piacere perché mi chiamano con i diminutivi! Si vede che sono tenera, tutti mi dicono
“come sei dolce!”, perché io invio dei messaggini che mi sembrano carini, adatti a una persona. E loro mi
ringraziano, mi dicono “come sei cara, come sei dolce” e a me fa molto piacere!”
“Io ho una bella relazione con tutti e sono, come dire, carini!”
“Ho continuato a mantenere lo stesso orario non per abitudine, ma perché ci sono le stesse persone, sono un
po’ abitudinario. Io non sono molto espansivo, quando c’è da conoscere altra gente … poi mi trovo bene con
tutti.”
“In generale le arti marziali, soprattutto il T’ai Chi Ch’üan, generano un po’ un effetto non di fratellanza, ma
un po’ più di complicità che non di competizione che c’è nelle altre discipline. Devi essere più disponibile
comunque al confronto anche con l’altra persona che frequenta, anche se è alle prime armi. Anzi,
probabilmente il T’ai Chi Ch’üan a me ha fatto scattare ad esempio la voglia di farlo vedere a qualcuno.”
Risulta anche che il T’ai Chi Ch’üan favorisca la relazione: attraverso la condivisione di un
compito comune e attraverso l’accettazione degli altri.
“io sono socievole per natura, però il T’ai Chi Ch’üan favorisce l’aggregazione perché accomuna: partiamo
dal niente e arriviamo a qualcosa. E questo accade anche a persone diverse da me, più permalose.”
“T’aiuta anche il T’ai Chi Ch’üan ad accettare anche le persone impacciate: ho imparato ad avvicinarmi con
dolcezza e a fargli capire “non preoccuparti”, perché le persone se le riprendi si sentono anche mortificate,
invece ho imparato a dare fiducia in se stessi.”
“descriverei le relazioni tra allievi come solidarietà, cioè come consapevolezza di un compito comune sul
quale c’è un sostegno reciproco.”
“Il T’ai Chi Ch’üan diventa un luogo di comunanza e di condivisione della vita, di incontro tra persone
diverse. E sono quei tipi di solidarietà che si hanno poche volte: un altro esempio è quando si suona insieme,
una sinfonia! Dove non ci si ritrova solo a eseguire delle note, ma ci si trova a vivere un'esperienza interiore
ben più profonda, ovviamente comprensibile solo a chi la prova, difficilmente descrivibile; ma ci si incontra
tra persone!”
Le metafore usate sono “come suonare insieme una sinfonia”, quella di un “coro”, “una
piccola comunità che si muove”; anche in queste interviste, inoltre, appare la metafora del
“volo” per descrivere l’interdipendenza:
124
“Ci si muove come tanti uccelli in volo nel cielo, in cui il movimento di ciascuno tiene conto degli altri. Cioè
è importante lavorare individualmente nel raffinare le proprie tecniche, ma è molto importante anche imparare
a muoversi insieme agli altri. Questo vuol dire adeguare la propria velocità, a seconda dei compagni intorno,
… c’è questo rapporto tra componente individuale e di gruppo: cioè sono io, ma faccio parte anche di un
gruppo. Non devo smettere di essere me stessa, ma devo riuscire a rapportarmi alle persone che ho intorno.”
Alcuni allievi (quelli che sentono di più la valenza relazionale del T’ai Chi Ch’üan) vedono
nell’insegnante la figura che dovrebbe gestire il gruppo:
“Il maestro ha un carattere abbastanza rigido, ma si sforza di essere accettato; col suo temperamento il
maestro favorisce un po’ l’allontanamento delle persone permalose: dovrebbe fare un ulteriore sforzo. Certo,
il lavoro di fare crescere una squadra è gravoso! Per cui i suoi atteggiamenti sono da capire, però anche lui
dovrebbe cercare di essere meno impulsivo verso di noi…”
“Una volta c'è stato un conflitto e l’insegnante mi ha fatto il lavaggio del cervello “voi non la dovete trattare
così, non la dovete escludere!” E allora adesso questa mi adora e mi viene sempre vicino e in fondo la
capisco, perché devi capire un po' anche quello che c'è dietro.”
Sulla regolazione delle emozioni nel gruppo, oltre a ciò che si può cogliere nelle frasi
precedenti, aggiungo che il T’ai Chi Ch’üan è percepito come una disciplina che
incrementa l’apertura di sé agli altri, quindi aiuta a relazionarsi e riduce l’ansia: questo per
la semplice partecipazione a un’attività che si svolge in palestra, ma anche perché c’è una
condivisione di esperienze emozionanti; alcuni imputano questo effetto anche al tipo di
movimento del T’ai Chi Ch’üan.
“Il frequentare la palestra fa si che, anche involontariamente, si creino dei rapporti con altre persone: se non
sei proprio un orso che vuole chiudersi nella caverna, per forza di cose devi socializzare.”
“il T’ai Chi Ch’üan t’aiuta anche ad accettare le persone: ho imparato ad avvicinarmi con dolcezza e a fargli
capire “non preoccuparti”, perché le persone se le riprendi si sentono anche mortificate, invece ho imparato a
dare fiducia in se stessi. Ora spero che il T’ai Chi Ch’üan mi aiuti a imparare a perdonare.”
“Allora, il maestro una volta mi ha staccata dal gruppo e mi ha fatto fare un esercizio da sola e l’ho fatto bene
e mi hanno applaudita! Non le dico, ero rossa come un peperone, però ero tutta emozionata, è stato bello quel
momento lì!”
“Praticare un’arte marziale, e soprattutto il T’ai Chi Ch’üan, sviluppa la disponibilità al confronto con l’altro,
anche se è alle prime armi. Probabilmente perché c’è più una sua componente femminile che non maschile.”
Il T’ai Chi Ch’üan influenza anche le relazioni sociali esterne alla palestra: l’entusiasmo è
condiviso anche con gli esterni:
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“Parlo anche con le altre persone del mio cortile. Faccio pubblicità, in un certo senso. Mi piace parlare anche
con le altre persone: loro mi ascoltano e io sento che vorrebbero farlo anche loro, però non hanno tempo!”
Investimento affettivo sul maestro e sul T’ai Chi Ch’üan
L’ investimento affettivo sul maestro è notevole! Vediamo subito degli esempi:
[alla mia domanda: “Come descriverebbe la relazione che ha con il maestro?” una signora risponde,
emozionata] “Dunque, ha messo proprio il dito nella piaga! Con il maestro ho un rapporto che mi dà
soggezione, però mi piace quando mi insegna, mi segue. Ci tengo molto alle sue attenzioni nei miei confronti!
Copio molto da lui, mi piace molto!”
“Ho notato che guarda sempre verso di me, quando spiega … e questo mi fa piacere.”
“Vorrei farle vedere che sono capace …”
“Il maestro è più simpatico degli altri che ho conosciuto; è più … in sintonia con gli allievi.”
Nei confronti del maestro c’è soggezione, c’è rispetto, c’è stima e c’è gratitudine, che però
a volte è difficile da esprimere, forse perché è un’emozione molto intensa:
“Arriva sempre nel profondo … capisce subito!”
“Non gliel’ho mai chiesto … una volta ci ho messo dei mesi solo per chiedergli un numero di telefono!
Pensavo sempre “no, adesso non è il momento!” … ma magari prima o poi lo farò!”
“A livello personale, ci sono dei momenti che mi emoziona, perché la vorrei anche ringraziare: non l'ho mai
fatto, prima o poi dovrò ringraziarla, perché penso che le faccia piacere. Però non ho ancora trovato il
momento! Perché certe lezioni ti dà delle emozioni, ti coinvolge, ti dà tante cose! Come si può dire... quando
tu non è che hai paura della persona, ma è un po' la paura di fare qualcosa di sbagliato che lei ti possa
giudicare male. Mi inibisce un po’ da questo punto di vista. Mi dà questo senso di... rispetto, ecco!”
Il rapporto con il maestro si estende oltre al rapporto tecnico tra un istruttore concepito
secondo il senso occidentale e uno sportivo;
“Il maestro tende a proporsi un po' anche come un maestro di vita.”
“A seconda della persona che arriva ed il bisogno che ha di guida, avrà un rapporto, io dico, più o meno
transferale! Quindi si affiderà con tutto se stesso piuttosto che no, questo dipende un po’ dalle caratteristiche
dell'allievo e un po' anche da quello che vuole. Io noto che ci sono persone che investono di più e persone che
investono meno: ci sono persone che hanno aspettative un po' grandi, un po' troppo grandi.”
“Però direi che quello che è specifico di queste scuole è l'aspetto di scuola di vita, in cui un maestro va molto
al di là dell'aspetto tecnico: è una relazione che si estende alla salute globale dell’allievo … c’è un invito alla
coerenza di vita: ci si occupa della vita dell’allievo anche al di fuori dell’ora di lezione.”
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“Sicuramente ho molta stima per lui, sia per le sue conoscenze a livello di arti marziali, sia per le conoscenze
di vita, di esperienze di vita che ha e ti può comunque trasmettere. Mi piace come persona, al di là della
bravura come maestro nell’ambito della palestra, per come esprime le sue idee e le sue esperienze e per come
ascolta le tue; ritengo che possa sempre darti un consiglio utile e valido su come agire o comportarti in
determinate occasioni.”
È interessante notare che come episodio più significativo, la maggior parte degli allievi
sceglie di raccontare un episodio emozionalmente intenso, in cui c’è stata una condivisione
di un accadimento e dell’emozione sia con il maestro che con il gruppo:
“Il primo passaggio per la cintura nera: a parte l’agitazione per l’esame, è stato un momento top, è stato molto
particolare e non sarà uguale al secondo passaggio di nera! Legato a questo c’è stato il momento in cui il
maestro ti mette la cintura e c’è l’applauso: sono cose legate assieme, anche se è stato in due momenti diversi,
perché l’investitura (se vogliamo usare un termine medioevale!) è stata fatta il martedì a lezione, quindi dopo
due giorni dall’esame, con tutti gli altri.”
“E tutti mi hanno applaudito e mi hanno detto che sono stata brava!”
“c'è stata una ragazza che mi ha chiesto di farle vedere una cosa e io ho escogitato un modo diverso per
farglielo imparare meglio e alla fine della lezione mi ha ringraziato, dicendomi “grazie, mi hai fatto imparare
delle cose che non riuscivo a capire! Sei proprio brava!” E io le dico “non devi dirlo a me, dillo alla mia
maestra!”
In tutti questi casi c’è un riconoscimento dell’intenso lavoro svolto dall’allievo da parte del
maestro e degli altri allievi; e c’è un riconoscimento da parte dell’allievo nei confronti del
suo maestro, grazie al quale ha potuto apprendere ciò che lo ha portato a meritare questo
successo.
Anche l’investimento affettivo sul T’ai Chi Ch’üan è importantissimo nei sentimenti degli
allievi: molti affermano che inizialmente l’approccio alla materia è stato un po’ freddo,
soprattutto quelli che l’hanno iniziato dietro consiglio terapeutico o come sostegno agli
amici. Anche loro però, dopo questo primo impatto, hanno cominciato ad apprezzarlo
sempre più, si sono sentiti sempre più coinvolti, fino ad esserne entusiasti, ad avere sogni
riguardo al loro futuro di praticanti e a non volerlo più lasciare, perché lo sentono come una
parte integrante della loro vita.
“Questa piccola cosa, questi piccoli esercizi sento che hanno migliorato la mia vita. Poi, il T’ai Chi Ch’üan mi
consola, mi consola proprio.
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I primi tempi non ero entusiasta, mi sembrava una perdita di tempo. Una volta ho detto anche “non vengo
più”. Poi invece mi sono entusiasmata e adesso vengo con entusiasmo, con volontà e quando il maestro dice
che la lezione è finita, mi dispiace perché nel momento più bello dice fine. Per me un’ora è poca, per dire!”
“L’intenzione è quella, un domani, di aumentare la frequenza e forse fare anche il corso istruttori!”
“Mia figlia mi dice che, in futuro, quando andrà via, potrei anche aprirmi una palestra e insegnare il T’ai Chi
Ch’üan! Ma … io penso che se riesco a superare l’esame di istruttore è già tanto!”
“Ora spero che il T’ai Chi Ch’üan mi aiuti a imparare a perdonare.”
“Il T’ai Chi Ch’üan è come una calza che mi va bene!”
“Mi piace il suo riferirsi alla legge dell’uomo: mi piace perché è una metafora della vita.”
“Il T’ai Chi Ch’üan è tutto bello! È come una musica, un’armonia: ti fa provare un senso di pace e di presenza
mentale”
“Il T’ai Chi Ch’üan è la mia oasi di pace, perché mi dà questo senso di tranquillità, di tempi normalizzati: è la
cosa che mi piace di più e a cui non voglio rinunciare.”
Rapporto tra movimento ed emozioni
Le caratteristiche del movimento, che hanno in vario modo effetto sulle emozioni, nei
resoconti degli allievi sono:
è un movimento rilassante e piacevole:
“Ti fa capire che la vita è fatta anche di queste cose piacevoli!”
“Sono movimenti molto lenti che però ti consentono di volare, quindi di avere questa forza, ti dà l’idea di
esserti alleggerito, il fatto di poter volare sciogliendo tutte le tensioni.”
“Può avere degli affetti di rallentamento delle onde cerebrali; pare che nella prevalenza di onde Alfa ci sia un
effetto di rilassamento psicofisico, un cambiamento dello stato d’animo, una migliore capacità di
visualizzazione e di rigenerazione della mente, una maggiore creatività e una migliore flessibilità mentale.”
È un movimento lento, ma complesso, gli allievi di età più avanzata dicono a riguardo che
ti fa sentire padrone del tuo corpo e più abile:
“tenevo le braccia in modo sbagliato e non capivo, poi ho imparato e questo mi ha emozionato! E ora un
po’… mi vanto!”
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“Mi riesce molto bene, mi dà soddisfazione e mi aiuta moralmente e fisicamente.”
“La parte della lezione che mi piace di più è quella accoppiata alla descrizione storica dei movimenti. Noi
perché teniamo le mani così? Potremmo immaginare di essere noi i padroni del mondo, il mondo è tondo, e lo
facciamo muovere e lo governiamo.”
“Quando sento la radio mi muovo, perché a me piaceva ballare quando ero una ragazza, mi muovo e penso al
T’ai Chi Ch’üan. Mi viene proprio la voglia di muovermi, mi piace. Sento di essere più spontanea nel
movimento!”
È un movimento interdipendente:
“come in un volo, mi muovo da solo, ma tenendo conto degli altri compagni che si muovono insieme a me.”
Un’allieva descrive anche alcuni esercizi specifici di respirazione, che migliorano il suo
stato di salute psicofisica, riducendo l’ansia e quindi la sensazione di chiusura dello
stomaco.
Un’altra allieva descrive il movimento che le piace di più di tutta la pratica del T’ai Chi
Ch’üan: questo è un movimento rotatorio, ma a parte le sue caratteristiche fisiche, dice che
è un movimento che ha appreso in una situazione emotiva particolarmente intensa, in cui è
stata aiutata dal maestro.
Il movimento del T’ui Shou e delle applicazioni a due in generale è descritto da un allievo
come il movimento più coinvolgente perché più complesso e da un’altra allieva viene
descritto così:
“C’è un incontro con tutto il mondo di un’altra persona, che mi sta di fronte. È un contatto fisico e anche
attraverso lo sguardo, che è, in tutte le culture, il luogo dell’energia mentale ed emotiva. È quindi un incontro
tra le energie mentali delle due persone.”
“È stato solo quando la mia mano, il mio polso era unito al polso di questa persona qui davanti, mi prendeva il
braccio e io gli prendevo il braccio, io inspiravo e lui espirava e viceversa: è stato solo allora che io ho capito
che sono ancora contratta nella zona delle scapole. Questo per dire come è molto interessante questo secondo
livello, di esposizione al mondo dell'altro: si imparano tante cose su di sé e sull'altro.”
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Rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e capacità di gestire le emozioni
Potremmo descrivere sinteticamente questo rapporto attraverso le parole enunciate da un
allievo:
“Il T’ai Chi Ch’üan ripristina una calma interiore.”
In particolare, gli allievi parlano degli effetti che il T’ai Chi Ch’üan ha avuto sulla loro
capacità di regolare alcune emozioni in particolare: la rabbia, l’ansia, la tristezza; inoltre
vari soggetti riportano uno sviluppo della tenacia.
“Il T’ai Chi Ch’üan mi ha aiutato, non subito ma almeno da due,tre anni a questa parte, a prendermela meno
per le cose, lasciando che gli eventi vadano comunque per il loro corso, a rendermi conto che non posso fare
sempre tutto entro lo stesso giorno: faccio le cose nel limite del possibile ma non posso farmi in cinquanta!
Cerco di prendere le cose con più tranquillità senza farmi prendere dall’ansia. Nello stesso tempo, quando
comunque sono stressata, ad esempio per le scadenze molto importanti per il mio lavoro, mi aiuta ad
autocontrollare questa ansia.”
“Ora che faccio T’ai Chi Ch’üan sono diversa, non sono più quella di prima. Ho migliorato in qualcosa e il
T’ai Chi Ch’üan mi ha aiutato in questo. Ho mandato via il nodo dei giorni tristi, sono più contenta, più
distratta, meno chiusa e il T’ai Chi Ch’üan mi ha aiutato molto in questo. Quando vado a casa mi sento bene!”
“L’autocontrollo è, che so, il non dire una parola di troppo a una persona. Se lo fai di proposito, sai che a
quella persona non devi dire certe cose, non gliele dici, però ti devi sforzare. Invece la capacità di controllarsi
senza che tu te ne renda conto, allora sì, il T’ai Chi Ch’üan può aiutarti in questo, che è diverso, però! Il T’ai
Chi Ch’üan ha migliorato questa cosa. Non sono io che volontariamente smetto di comportarmi in un certo
modo aggressivo, ma mi viene naturale. Perché se io l’avessi fatto volontariamente quella tensione che
accumulavo durante il giorno mi sarebbe venuto, che so, il mal di testa!”
“Ho imparato a starmene più calma, più tranquilla!”
“Ho imparato a non demordere, a continuare, a essere umile e a non gasarmi.”
“Ho capito che bisogna lasciarsi andare e non trattenere le emozioni per far vedere che sei forte.”
Quali modalità di regolazione vengono sostenute attraverso la pratica del T’ai Chi Ch’üan?
Gli allievi riportano il sostegno da parte del gruppo e dell’insegnante, l’avere un impegno
che da una parte fa sentire utile e realizzata la persona e dall’altra normalizza lo spazio-
tempo nella vita quotidiana, l’apprendimento di una modalità di respirazione più corretta e
distensiva, la possibilità di interpretare diversamente gli accadimenti.
“Mi ha aiutata ad alzare la testa, attraverso il sostegno dell’insegnante e il sentirmi parte di un gruppo.”
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“Mi impegna la giornata, sento di fare qualcosa in cui mi sento utile.”
“Ho provato anche a piangere i primi tempi, perché non capivo il maestro! Mi è venuto un nodo alla gola
perché mi sentivo un asino! La volta dopo, la mattina, il maestro mi ha chiesto: “ha portato i fazzoletti?!”
“In generale mi aiuta a normalizzare la mia vita, mi dà uno spazio di tranquillità che normalmente non ho,
perché la mia giornata quasi sempre è molto stressante; almeno in quell’ ora in cui faccio T’ai Chi Ch’üan
normalizzo i miei tempi, non faccio tutto di corsa!”
“Mi ha aiutato anche a socializzare meglio con le persone: per la paura di stare male io non cercavo di creare
rapporti, di uscire, di parlare con gli altri; questa paura mi impediva di fare una vita normale. Il T’ai Chi
Ch’üan mi ha aiutato a risolvere poco alla volta questo problema. Mi ha cambiato radicalmente nei rapporti
sociali, ad aprirmi. Probabilmente proprio la pratica fisica mi ha aiutato facendomi sentire meglio, e
aiutandomi a superare l’ansia perché mi ha insegnato a respirare come si deve! Di conseguenza è migliorato il
mio umore, la mia voglia di vivere, è venuto un po’ tutto da solo; inoltre il frequentare la palestra fa sì che,
anche involontariamente, si creino dei rapporti con altre persone.”
“Riuscire a respirare meglio e quindi a controllare la rabbia mi ha aiutato, a sua volta, nei rapporti con gli
altri.”
“Prima dovevo scaricare la tensione sbottando, adesso riesco ad evitare di farlo: ne parlo più tranquillamente
rispetto a prima.”
“Prima ero molto rissosa, anche qui in casa, se le cose non funzionavano urlavo e “prendevo a martellate”!
Invece adesso sono cambiata: lascio perdere oppure ritorno sui miei passi a distanza di tempo e magari risolvo
i problemi. Io penso che sia anche perché ho trovato la pace in me stessa, è un autocontrollo che sono riuscita
a trovare in me stessa.”
“Impari a prendere le cose nella giusta misura, a guardarle dall’alto, in modo più distaccato.”
“Non c'è solo una rivelazione a se stessi di quello che avviene a livello emotivo, ma anche il fornire degli
strumenti per rimuovere gli stati non salutari, quindi educare un’emotività creativa e positiva; perché un
rilassamento ricercato e perseguito attraverso il corpo, produce uno stato mentale di tranquillità, quella quiete
che consente uno stato di vipassana, la chiara visione di come stanno le cose, quindi la collocazione nella
realtà in maniera oggettivamente ricettiva. Per questo dicevo che è un'interpretazione euristica, perché
consente un'interpretazione ermeneutica più accurata di quello che vivi, attraverso la pratica. Questo è un
effetto rilevabile, non immediatamente certo!
Apre a una molteplicità di sfumature diverse, a una possibilità di interpretazione ulteriore. Ti permette una
capacità di vedere le cose in maniera più ampia, più ricca, perché non è definita in modo stretto, ma evocata
per analogia: quindi consente un approccio analogico e una duttilità mentale. È un allenamento delle
ulteriorità dei significati: nel T’ai Chi Ch’üan è stimolato il circolo ermeneutico.”
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Riguardo all’autoconsapevolezza emotiva, il T’ai Chi Ch’üan ha quindi l’effetto di
sviluppare la consapevolezza delle tensioni e anche di fornire degli strumenti per attenuarle
e “scioglierle”:
“Io ho cominciato a rendermene conto solo facendo T’ai Chi Ch’üan e il fatto di incominciare a sentire e
percepire queste tensioni in qualche parte del corpo (tensioni dovute a motivi assurdi e che non avevano
ragione d’essere) e riuscire ad allentarle (che è il passo successivo) è stato fondamentale per me! Il fatto di
essere più rilassati, a livello generale, non solo fisico ma anche psichico, si ottiene con l’esercizio.
Chiaramente però con due ore alla settimana non è che può avere lo stesso effetto di avere interrotto una cosa
che stressava da 30 anni. In piccolo, il T’ai Chi Ch’üan, fa questo e applicato in dosi un po’ più massicce ha
degli effetti notevoli!”
“Il T’ai Chi Ch’üan aiuta a divenire consapevoli delle emozioni che si vivono e trovano nel corpo un luogo di
rivelazione: il corpo rivela quello che viviamo … grazie all'esercizio si entra in una dimensione di attenzione,
di presa di consapevolezza dinamica, non statica, in quella precarietà dell'equilibrio che continuamente va
ricercato e con un'attenzione alla fluidità dei movimenti.”
Il T’ai Chi Ch’üan è in relazione anche con il sentimento di riuscire e l’emozione dovuta
all’esibizione:
“… alla fine siamo rimaste a farlo in due oltre all’insegnante e mi sentivo al centro dell'attenzione! E lì
l'emozione fa dei brutti scherzi! Però sono riuscita ad arrivare fino in fondo! Sentivo le gambe che tremavano
per l'emozione, però ho vinto, sono arrivata fino in fondo!”
“Sono contenta, mi sento realizzata, cioè mi sento che sono, mi scusi l’espressione, un po’importante, che so
fare qualcosa in più, data la mia età, che non ho mai fatto in vita mia, insomma mi sento bene con me stessa!
Mi vanto, mi scusi la parola, in un certo senso, e mi piace!”
“Uso sempre questo episodio per ricordarmi di essere riuscita a superare questo periodo buio della mia vita.”
Rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e identità
Riferendosi strettamente al proprio vissuto, gli allievi descrivono questo rapporto
approfondendo tutti i campi previsti nel razionale. Gli effetti da loro percepiti
sull’integrazione tra diversi sé sono:
“all'inizio il principiante che fa T’ai Chi Ch’üan impara a muovere il corpo e le braccia, poi dovrà entrare
sempre di più in questo movimento e raggiungere la calma, la consapevolezza di sé e se possibile uno stato
meditativo: questo è il livello maggiore di identificazione con il movimento. Analogamente, nell'utilizzo di
132
un'arma, prima ci sarà l'attenzione su come la impugno, come la muovo nello spazio, com’è la mia
coordinazione corporea; poi è come se io e l'arma diventassimo un tutt'uno. C’è una maggiore integrazione:
nel T’ai Chi Ch’üan si guadagna in interezza: sono tutt'uno con l'arma, sono tutt'uno con la persona davanti a
me, sono tutt'uno anima-e-corpo mentre sto muovendo il mio corpo. Forse, il termine più adeguato potrebbe
essere non identificazione, ma integrazione, mettere insieme parti o aspetti diversi [sottolineo che
l’intervistata ne sta parlando prima della presentazione dei cartellini da parte mia]. E in questo senso, le
pratiche sportive del mondo d'oggi sono profondamente disarmoniche: non favoriscono l'integrazione, ma
favoriscono la dissociazione, secondo me, cioè lì sono invitata a dissociarmi da quello che sto facendo e non a
essere più integrata!”
“Il T’ai Chi Ch’üan si pone alla confluenza dei saperi dell’uomo, cioè integra l’aspetto di mente-corpo-spirito,
perché integra le conoscenze in campo fisiologico, psicologico-educativo e rientra anche in quel complesso
mondo dell'interiorità, che è la cura della spiritualità. Si pone come sintesi dei saperi sull’uomo e in questo
modo aiuta una visione più ampia e nell’ottica della complementarietà, non dell’esclusione vicendevole.”
“Un maestro dovrebbe insegnare due cose che sono apparentemente in contraddizione, ma uno dice l'altro. Il
coraggio e l'umiltà. L'umiltà, che deriva da humus, significa la consapevolezza della propria realtà, l'essere
con i piedi per terra. E il coraggio invece è la magnanimità, essere protesi verso l'alto. Fare T’ai Chi Ch’üan
comporta proprio questo: stare coi piedi per terra e la testa mandata verso l'alto!”
Gli effetti percepiti dagli allievi sull’integrazione tra mente e corpo sono:
“Gli esercizi fatti col corpo, soprattutto quelli di respirazione, mi aiutano a controllare questi stati, soprattutto
la rabbia, che era poi quella che mi rodeva il fegato e mi faceva stare male; non riesco a controllare ad
esempio la commozione …”
“Il T’ai Chi Ch’üan, paragonato all'aerobica e allo step, dove c'è uno stereo altissimo, la proposta di fare la
cyclette con dei video,… è molto diverso: qui c'è silenzio, c’è concentrazione, c’è intensità, c'è un'unità
psicosomatica, cioè c’è un corpo che viene invitato a collegarsi a una mente per fare qualcosa. C'è un invito
ad essere interi, a unire l'interno con l'esterno.”
In merito alla relazione tra T’ai Chi Ch’üan e autoconsapevolezza, abbiamo già visto che
la pratica aumenta la capacità di percepire e di allentare le tensioni psicofisiche; sviluppa la
sensazione del corpo e anche la percezione delle sue esigenze; inoltre aumenta la capacità
di concentrazione e contemporaneamente distrae dalle preoccupazioni:
“Ho imparato a conoscere il mio corpo, anche se non ancora del tutto.”
“Mi dà un senso di consapevolezza di quello che sto facendo in quel momento.”
“Sviluppa la consapevolezza biomeccanica del movimento e quindi la consapevolezza di come il corpo vive e
di cosa si vive attraverso il corpo.”
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“… due infermieri mi tenevano a forza e il medico diceva “siamo pronti!”. Allora io ho detto “no, scusi non
sono pronta io!” Credo che sia intervenuta la mia esperienza nella palestra e la mia conoscenza dei maestri
della palestra. Allora ho cercato di far capire a questo medico che io avevo bisogno di un minuto per respirare
adeguatamente (non ho parlato del Tan T’ien, se no mi ricoveravano direttamente nel reparto psichiatrico!).
Fare arti marziali vuol dire “mi sono fatta male, ma continuo a essere io proprietaria del mio corpo! Fermo lì,
io voglio presentarmi al meglio, rilassata!”.
Riguardo all’integrazione con l’altro, ne abbiamo già parlato relativamente al gruppo, ma
può essere sintetizzata molto semplicemente attraverso due dei tanti resoconti:
“In generale, ho imparato a non pretendere dagli altri quello che io pretendo da me stessa, ad essere
sicuramente meno intransigente. Ora mi capita di riuscire a comprendere di più le motivazioni degli altri!”
“Il nostro cervello emette delle onde che entrano in risonanza, in sintonia con la lunghezza d'onda dello
stimolo. Nella nostra scuola, durante la pratica, non ci limitiamo al silenzio, ma veniamo invitati (soprattutto i
più avanzati) a emettere delle vocalizzazioni. Durante la pratica viene detto, per esempio, “Chi”, “An” [nomi
cinesi delle tecniche della forma]: cioè, a uno di noi, del coro, viene richiesto di vocalizzare questi suoni; … è
un suono con una frequenza che sembra mettere in sintonia le onde cerebrali dei vari partecipanti.”
L’identità “praticante di T’ai Chi Ch’üan”
Il rapporto con la cultura cinese è diverso da quello che ho riscontrato nei maestri,
soprattutto perché tra gli allievi c’è molta differenza, mentre il gruppo dei maestri
presentava un’opinione più omogenea. Alcuni allievi si dichiarano disinteressati nei
confronti della cultura cinese antica e delle origini del T’ai Chi Ch’üan, altri, al contrario,
sono molto interessati agli approfondimenti; altri sono in una posizione intermedia, per cui
gradirebbero un ulteriore approfondimento, ma concepiscono il T’ai Chi Ch’üan come una
disciplina che si può praticare anche senza tale approfondimento. Le opinioni, quindi, sono
molto variegate:
“Le posso dire la mia opinione sulla storia del T’ai Chi Ch’üan, che è una disciplina orientale. Per me è
affascinante: questo tipo di ginnastica non mi sorprende, perché i cinesi hanno un modo di vita, di
comportamento, di studio, di ragionamento … tutto diverso dal nostro; a me interessa scoprirlo, nei limiti del
possibile. La parte della lezione che mi piace di più infatti è quella accoppiata alla descrizione storica dei
movimenti. Ho apprezzato molto l’intercalare gli esercizi, abbinandoli ai movimenti di terra, cielo, acqua e
fuoco: ci fa apprezzare tutte le considerazioni fatte dagli orientali per arrivare a questa disciplina.”
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“Non mi interessa personalmente la cultura cinese perché non sento che sia necessaria. Per me è già
sufficiente praticare il T’ai Chi Ch’üan.”
Alcuni allievi intervistati conoscevano già la cultura cinese e si sono avvicinati al T’ai Chi
Ch’üan anche come approfondimento della stessa: in questo caso, l’interesse è molto forte,
così come il rispetto e il desiderio di arricchire le proprie conoscenze nei confronti di questa
civiltà. Inoltre, c’è una profonda condivisione dei principi della filosofia all’origine del T’ai
Chi Ch’üan:
“L'individuo, per la concezione cinese, non è chiuso in se stesso: tramite la respirazione, ma anche tramite il
Ch’i, è in continuo scambio con l'universo che sta intorno, proprio come nella respirazione c'è un continuo
scambio, in questo caso gassoso; c'è anche uno scambio energetico tra me e il cosmo: tra me e la terra, tra me
e il cielo, tra me e l'altra persona, tra me e il gruppo.”
“Come medico io sono affascinata dalla medicina tradizionale cinese. E come altre forme di medicina, erano
medicine psicosomatiche: davano per scontato che la salute fisica non potesse prescindere da una salute
emozionale, davano per scontato questi processi di osmosi.”
“Per me è materia di studio, fa parte del mio lavoro, quindi mi ci trovo molto bene! Da una ventina d'anni fa
parte della mia vita. Sono arrivato al T’ai Chi Ch’üan dopo una frequentazione teoretica.”
“Il T’ai Chi Ch’üan è una pratica estremamente diffusa, ma ad un livello di conoscenza estremamente basso: è
andata perduta quella tradizione da cui aveva origine e che è il T’ai Chi Ch’üan Non si conosce il T’ai Chi
Ch’üan, con tutta la competenza fisiologica e medica, cioè la stragrande maggioranza delle persone non
conosce gli effetti terapeutici della stimolazione dei meridiani, per esempio, che ogni movimento nel T’ai Chi
Ch’üan comporta. Non conoscendo questo, diventa solo un’attività callistenica.”
Contemporaneamente, alcuni mostrano un contrasto molto forte tra l’opinione nei confronti
della cultura cinese antica, che considerano ricca di significati, e quella odierna, che vedono
anche con disprezzo perché “troppo poco attenta ai diritti dell’uomo”.
Un altro aspetto interessante dell’identità di praticante è l’integrazione tra questo aspetto
dell’identità e gli altri aspetti. Nelle mie interviste, l’integrazione risulta essere molto
buona: per alcuni è come se il T’ai Chi Ch’üan facesse parte della loro natura da sempre,
anche prima di iniziare a praticarlo, per cui si trovano bene nei panni di praticante di
quest’arte:
“Il T’ai Chi Ch’üan conferma il mio modo di vivere, il mio carattere e il mio modo di pensare: è come una
calza che mi va bene!”
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Altri allievi notano che alcune caratteristiche della pratica del T’ai Chi Ch’üan facilitano
questa integrazione e raccontano come il T’ai Chi Ch’üan si sia integrato nella loro vita
(sempre con un effetto molto positivo!):
“Direi che quello che è specifico di queste scuole è l'aspetto di scuola di vita, in cui un maestro va molto al di
là dell'aspetto tecnico. Vengono dati una serie di consigli sullo stile di vita generale, e questo si allarga a
mangiare, dormire, rigenerarsi anche dal lavoro, dedicarsi alla propria vita con un buon equilibrio. Altrimenti
non ha senso che uno venga a fare T’ai Chi Ch’üan per tutta la vita e poi, quando esce di qui, vive molto male.
Quindi è un invito alla coerenza di vita!”
“Ora che faccio T’ai Chi Ch’üan sono diversa, non sono più quella di prima. Ho migliorato in qualcosa!”
“E allora ho pensato: “guarda come puoi usare le arti marziali nelle emergenze della vita!”
“A livello spirituale, il T’ai Chi Ch’üan mi consente di vivere la mia relazione di fede, la mia preghiera, in
maniera molto più profonda e a tutti i livelli. E approfondisce il mio discorso speculativo, perché apre a una
molteplicità di sfumature diverse: è un allenamento a una visione più ampia!”
“Il T’ai Chi Ch’üan è una metafora della vita!”
Riguardo agli aspetti dell’identità coinvolti dall’essere un praticante di T’ai Chi Ch’üan,
abbiamo già considerato il rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e percezione e sentimento del
proprio corpo; tra T’ai Chi Ch’üan e sentimento di riuscire; tra T’ai Chi Ch’üan e confronto
con la cultura orientale e tra T’ai Chi Ch’üan e creazione di un progetto formativo (quando
abbiamo parlato dei sogni sul proprio futuro).
Ciò che rimane da esplicitare, rispetto agli interrogativi di partenza, è per esempio il
rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e organizzazione della vita quotidiana. Il T’ai Chi Ch’üan è
vissuto dagli intervistati come un aspetto importante di sé, un aspetto ben integrato nella
vita quotidiana, cercando di mediare tra il forte interesse provato per le lezioni e gli
impegni lavorativi o familiari: tutti riescono a trovare un compromesso abbastanza
soddisfacente.
“Io vengo con mia moglie, però lei fa il primo turno di lezione, mentre io faccio il secondo. Questo non tanto
perché ci riteniamo separati in casa, ma perché abbiamo dei nipoti che vanno a scuola in due sedi diverse, e
vogliamo renderci disponibili in caso di bisogno, per incontrare anche le esigenze dei loro genitori che
lavorano.”
“Bisognerebbe farlo anche durante l’estate, nelle località di vacanza, ma questo non è fattibile!”
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“Quando ho iniziato a frequentare qui era soprattutto perché era molto comodo, lavorando molto vicino non
avevo problemi di spostamenti! Probabilmente se fosse stato più scomodo non avrei neanche iniziato! Ora
non lavoro più qui e quindi arrivo da casa. Ora lavoro a casa, con i tempi che voglio io, però ho continuato a
mantenere lo stesso orario: non per abitudine, ma perché ci sono le stesse persone, sono un po’ abitudinario.
Io non sono molto espansivo, quando c’è da conoscere altra gente … poi mi trovo bene con tutti!”
Il T’ai Chi Ch’üan è un impegno: questa sua dimensione è piacevole, perché per gli anziani,
per esempio, diventa un interesse che occupa il troppo tempo libero che si trovano a dover
gestire e anche perché è un impegno che, come abbiamo visto, normalizza i tempi della
vita, creando una dimensione spazio-temporale di sicurezza, anti-stress, che non muta
nonostante l’ansiogeno variare delle altre condizioni.
Riguardo alla gestione del “gioco di equilibrio” tra il bisogno di appartenenza al gruppo e il
bisogno di distinzione e personalizzazione, possiamo ricordare la metafora del gruppo di
praticanti come uno stormo di uccelli, dove ognuno si muove per conto suo, pensando al
suo movimento, ma tenendo conto anche di “mantenere una forma nell’insieme” o la
concezione del rapporto maestro-allievo come un rapporto di reciproca solidarietà:
“C'è un travaso di nozioni, che colloca il maestro come colui che emette, eroga, e l'allievo come colui che
riceve, che raccoglie. Ma evidentemente non ci sarebbe nessun maestro senza degli allievi! E chi riceve non è
soltanto un ricettore passivo, ma a sua volta dà senso e significato al lavoro didattico: diventa allora, anche lì,
una solidarietà e una trasmissione reciproca di acquisizioni ed elaborazioni delle acquisizioni. E questo dilata
il confine di una relazione di ricezione asimmetrica, nell'ottica di una solidarietà dello stesso tipo della
relazione tra allievi.”
Ricordo, sempre riguardo al rapporto appartenenza-distinzione, quanto riportato da
un’allieva circa la sensazione di fatica che si fa per relazionarsi anche con persone che
inizialmente non attirano, però è una fatica che lei decide di sostenere perché ne vale la
pena.
“Il T’ai Chi Ch’üan mi ha cambiata perché ora cerco di accettare tutti così come sono: ci sono tante persone,
ognuna diversa dall'altra: c'è quella gentile, quella simpatica, quella antipatica, quella che quando la guardi
pensi “questa mi sta proprio…” però la devi accettare e così la conquisti! E ti accorgi che in fondo non era
tutto così male come pensavi!”
L’ultimo aspetto dell’identità da analizzare, o meglio da esplicitare, riguarda la scoperta e il
disvelamento cosciente di sé agli altri, che è anche uno dei punti focali della ricerca:
riguardo alla scoperta di sé abbiamo visto come il T’ai Chi Ch’üan promuova la
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consapevolezza di sé sotto molti aspetti: una consapevolezza psicofisica. Anche il
disvelamento cosciente di sé agli altri sembra molto ampliato da questa pratica:
“Quando facciamo il Ch’i Kung l'emozione viene fuori! All'inizio era molto forte, perché il tuo corpo quasi
rifiutava le cose; questo è un lavoro che muove quello che è il tuo profondo. Però dopo lasciandosi andare,
con l'aiuto dell'esperta, io ho capito tante cose: che bisogna lasciarsi andare e non trattenere le emozioni, per
far vedere che o sei forte o sei debole.”
“La capacità di autocontrollo aumenta, però in alcuni casi può essere interpretata male perché uno si
autocontrolla ma in realtà non si sta autocontrollando ma si sta in qualche modo castrando. Il T’ai Chi Ch’üan
non ha influito nel senso di “mi cucio la bocca perché se no direi chissà che cosa”. Per spiegare meglio il
concetto di autocontrollo posso fare l’esempio del tennis. Ho iniziato a fare il T’ai Chi Ch’üan quando stavo
ancora lavorando, quindi sotto stress incredibili, io al tennis ero una furia! Mi rendevo conto io stesso e gli
altri dicevano che quando ero in campo ero irriconoscibile, proprio una cosa esagerata, quando uscivo dal
campo ero la persona più buona del mondo. Ecco, da quando ho iniziato a praticare T’ai Chi Ch’üan questa
cosa qui mano a mano è sparita, nonostante fosse il periodo più stressante dal punto di vista lavorativo.
Sicuramente con il T’ai Chi Ch’üan non ho acquisito l’autocontrollo, inteso in senso di controllo volontario,
ma sono migliorato perché mi ha sciolto la tensione emotiva, in generale.”
“Prima dovevo scaricare la tensione sbottando, altrimenti stavo male fisicamente, adesso riesco ad evitare di
farlo, parlo più tranquillamente rispetto a prima e così riesco a controllare meglio la mia rabbia.”
4.7. I risultati: analisi tra i gruppi
Analizzando le interviste degli allievi mi sono accorta fin dalle prime categorie della grande
diversità di questo gruppo di intervistati rispetto al gruppo dei maestri, non solo, come è
ovvio, per la diversità dei contenuti tra i due gruppi, ma anche per la differenza di
“omogeneità interna” ai due gruppi, per cui i maestri mi sono sembrati molto più simili tra
loro rispetto a quanto risultano essere gli allievi tra loro: in sintesi, nelle interviste degli
allievi si riscontrano molte più differenze individuali di quelle che si trovano nel gruppo dei
maestri. Considerando poi che diversità significa anche ricchezza e complessità, riusciamo
a cogliere questo dato generale nelle interviste degli allievi: è difficile creare un discorso
univoco, valido per tutti loro, proprio per l’eterogeneità interna di questo gruppo; e questo
si riflette anche sulla ricchezza dei dati disponibili. Quello che ho fatto è stato comporre un
collage avvicinando tra loro i colori che mi apparivano simili!
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Naturalmente questa eterogeneità interna al gruppo degli allievi è dovuta, almeno in parte,
al fatto che l’influenza del T’ai Chi Ch’üan nella vita di un allievo ha degli effetti molto più
vari rispetto agli effetti che ha sui maestri: tra gli allievi c’è una differenza di base
importante, che non c’è tra i maestri, riguardante la loro attività professionale (per alcuni
maestri, l’insegnamento del T’ai Chi Ch’üan non è l’attività lavorativa primaria, ma nelle
interviste non sono emerse differenze tra loro riguardo all’identità professionale, anche
perché venivano intervistati su questo aspetto della loro attività).
Un’altra caratteristica generale che differenzia i due gruppi è che negli allievi rilevo una
maggiore propensione, rispetto ai maestri, a cogliere le differenze individuali esistenti tra i
praticanti del gruppo; per esempio gli allievi enfatizzano maggiormente che non si può
discutere a livello generale sul tipo di investimento affettivo messo in atto dalle varie
persone del gruppo: sottolineano un po’ di più le differenze rispetto a quanto facciano i
maestri. Questo non significa però che non notino le somiglianze, ma marcano anche la
differenza tra persone del loro gruppo di pratica. Si può supporre che questa differenza tra i
due gruppi intervistati sia attribuibile al fatto che il maestro (per il suo ruolo) è “dall’altra
parte”: si relaziona più al gruppo nell’insieme che non all’individuo; gli allievi invece si
relazionano con le persone, perché sono parte del gruppo. Ci tengo a sottolineare, però, che
questa differenza è molto sottile, perché sia gli allievi che i maestri si riferiscono, nelle loro
interviste, sia a “facce”, sia a “cori”: l’impressione è però che tra i maestri prevalga
l’attenzione ai cori, piuttosto che alle facce. Vediamo prima un’allieva e poi un maestro,
confrontandoli sulla stessa domanda su che tipo di emozioni circolano nella relazione tra
allievi:
“Si può proporre lo stesso trattamento terapeutico, però è come andare dal sarto: ognuno porta la stoffa che
ha, quindi l'abito che ne verrà fuori dipenderà dalla stoffa iniziale. Senza nessun tipo di giudizio sulla stoffa
più preziosa o meno. Ognuno è fatto come è fatto e ognuno riesce a entrare in contatto con le parti più
profonde di sé a seconda di quello che trova dentro di sé. Queste arti possono favorire il contatto, l’interezza,
questa possibilità di rigenerazione più profonda: perché si entra in questi stati più profondi della mente,
perché si scioglie il corpo,… Poi, a livello emozionale, che cosa io posso sentire alla fine della forma di T’ai
Chi Ch’üan è una cosa molto mia, individuale, molto diversa da chi mi sta di fianco!”
“Non lo so. Penso che c'è chi ci crede ed è più portato: ci sono alcune persone che sono molto (userei la
parola) “intrippate dentro”, che ci credono, e con chi ci crede provano delle cose belle. Poi però ci sono quelli
un po' più superficiali. Però c'è un bel rapporto, emozionale non lo so. Ho visto che ci sono rapporti di
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amicizia: poi le emozioni in che direzione vanno non lo so, però sicuramente non sono negative. Penso che
siano più positive, in senso buono.”
Possiamo ipotizzare che i maestri siano più propensi a sottolineare le somiglianze tra allievi
anche per una questione educativa: se la finalità del T’ai Chi Ch’üan è l’integrazione con il
Tutto, i maestri dovranno dare il buon esempio nel sentire, nel riconoscere e nel sostenere
una profonda integrazione! In effetti, nelle interviste, i maestri riportano di avvertire, di
sentire questa integrazione, questa “armonia con il tutto”. Gli allievi sono consapevoli di
questa finalità del T’ai Chi Ch’üan, ma non ne fanno parola, almeno relativamente alle loro
sensazioni personali: è come se dicessero “ci credo, e spero che prima o poi anch’io
avvertirò questa sensazione, ma per ora non sono ancora riuscito a sentirlo nel profondo,
oppure ci sono riuscito in modo fugace”.
“Certe volte mi congratulo con me stessa perché vedo che riesco a fare l'esercizio come va fatto, alla ricerca di
quello che può essere questo Ch’i benedetto! E certe volte ho la consapevolezza che non so fare niente!
Questo anche come paragone con chi ne sa più di te.”
Nonostante questa differenza, però, abbiamo visto come in entrambi i gruppi ci sia una
forte integrazione del T’ai Chi Ch’üan con gli altri aspetti dell’identità personale: si
inserisce bene nella vita quotidiana sia dei maestri che degli allievi.
Un’altra differenza tra i due gruppi riguarda la “densità” delle frasi: per accorgersene basta
guardare l’arcobaleno di colori sulla copia cartacea che ho utilizzato per analizzare le
interviste dei maestri! Ogni frase di queste interviste è sottolineata con tanti colori diversi,
perché in ogni frase riscontravo stralci utili per l’analisi di varie categorie del razionale:
questo significa che i maestri riportavano, in molte delle loro frasi, un pensiero che
integrava insieme molte categorie del T’ai Chi Ch’üan. Nelle riposte degli allievi accade
diversamente, cioè ogni loro frase risponde a una categoria di analisi, senza grandi
sovrapposizioni con altre categorie: il loro discorso risulta molto più ancorato alle domande
da me poste e si legge quindi, negli allievi, una minore integrazione tra i vari aspetti del
T’ai Chi Ch’üan. Questa mi sembra una conseguenza naturale della maggiore esperienza
dei maestri nell’ambito del T’ai Chi Ch’üan, che in questo senso riportavano un pensiero
già parzialmente pensato e organizzato prima dell’intervista.
Riguardo alle somiglianze, mi sembra utile riportarne alcune che ho riscontrato tra allievi e
insegnante corrispondente: innanzitutto mi ha colpita la corrispondenza tra la concezione
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del T’ai Chi Ch’üan che ha il maestro e i suoi allievi. Intendo dire che se un maestro
predilige l’aspetto marziale del T’ai Chi Ch’üan rispetto all’aspetto meditativo o
relazionale, anche i suoi allievi mostrano di prediligere lo stesso aspetto. Quello che mi
sono chiesta a tale proposito è se gli allievi abbiano scelto il maestro più rispondente a ciò
che cercavano (una disciplina più marziale, più meditativa,…) o se questa corrispondenza
di concezione derivi dall’apprendimento, cioè dalla trasmissione di una tradizione di scuola,
che passa “di padre in figlio”, e in questo caso da maestro ad allievo. Considerando le
interviste, direi che in alcuni casi è vera la prima ipotesi e in altri casi la seconda: gli allievi
che si sono avvicinati al T’ai Chi Ch’üan senza averne una conoscenza pregressa (sono la
maggioranza) hanno appreso questa concezione dal maestro, perché non erano alla ricerca
di qualcosa di preciso. Altri allievi, che si sono avvicinati al T’ai Chi Ch’üan conoscendolo,
in parte erano alla ricerca di una disciplina meditativa, ma in parte hanno anche cambiato la
loro concezione avvicinandola a quella del maestro.
Ci sono varie somiglianze più specifiche tra insegnante e allievi corrispondenti: alcune mi
hanno colpita particolarmente e le riporto di seguito.
Maestro: “Penso che T’ai Chi Ch’üan faccia bene alle persone che sono molto dinamiche, perché lì è un’oasi
di pace per loro!”
Allieva: “Mi aiuta a normalizzare i tempi: è la mia oasi di pace!”
Maestro: “È difficile spiegare, diceva il maestro Chang, a uno che non ha mai visto il mare quanto sia salato!”
Allievo: “è solo ripetendo in continuazione le tecniche che si acquisisce la consapevolezza e si trovano poi
alcune cose che non è possibile insegnare: come si fa a spiegare l’energia? O a spiegare come sentire
l’energia?”
Insegnante: “la cosa che per me è diventata fondamentale è quella di lavorare su di me per integrarmi con
l’altro. E a volte l’altro mi ha insegnato tante cose diverse. Ecco condivido che si pratichi il T’ai Chi Ch’üan
da soli per migliorare, ma mi fanno veramente ridere quelli che lavorano sull’aspetto esteriore e quindi la loro
finalità è solo di fare il T’ai Chi Ch’üan bello! Se non c’è altro, è pura forma, tutto bello da vedere, ma tanto
vuoto…”
Allieva: “Insegnare... deve trasmettere, più che altro, perché insegnare la forma è un conto, ma è il contenuto
che deve essere imparato! Perché ci sono dei ragazzi che sono capaci, sono tutti eleganti, però quando li vedi
esercitare li vedi vuoti e lì subentra la capacità dell'insegnante di trasmettere i contenuti! Altrimenti è come
fare un balletto!”
141
Maestro: “la cosa importante, soprattutto con gli anziani, è che il T’ai Chi Ch’üan è una disciplina basata sulla
scommessa di avere qualcosa di nuovo da imparare! E questo è stato l’elemento distintivo, ho notato, per
l’aumento dell’autostima e della vitalità stessa della persona.”
Allieva: “Mi sento una scolara che va a scuola e impara. Mi sento la voglia di imparare e vorrei essere più
brava e capire di più, ma purtroppo è un po’ difficile, però, piano piano, insomma...!”
Maestro: “è molto importante praticare all’unisono … è anche un modo per sentire l’energia di gruppo, perché
praticando insieme all’unisono, non sono più una cellula separata, ma faccio parte di un organismo più
grande.”
Allieva: “quello che caratterizza la forma lunga è proprio quello di muoversi come tanti uccelli in volo nel
cielo, in cui il movimento di ciascuno tiene conto degli altri. Cioè: è importante lavorare individualmente nel
raffinare le proprie tecniche, ma è molto importante anche imparare a muoversi insieme agli altri.”
Maestro: “Il genio fa il vuoto: e allora può saltare da qua a là, vede tutto, l’inizio e la fine e tac! In un secondo
ha l’intuizione! Questo è il vuoto della mente nel T’ai Chi Ch’üan.”
Allieva: “il T’ai Chi Ch’üan può avere degli effetti di rallentamento delle onde cerebrali; pare che nella
prevalenza di onde Alfa ci sia una maggiore creatività e una migliore flessibilità mentale.”
Altro allievo: “Attraverso quell'approccio, il T’ai Chi Ch’üan apre a una molteplicità di sfumature diverse, a
una possibilità di interpretazione ulteriore. Ti permette una capacità di vedere le cose in maniera più ampia,
più ricca, perché non è definita in modo stretto, ma evocata per analogia. È un allenamento delle ulteriorità
dei significati: è stimolato il circolo ermeneutico.”
4.8. Conclusioni della ricerca
Il T’ai Chi Ch’üan è considerato da tutti gli allievi un ottimo strumento per conoscere se
stessi a molti livelli, per ri-conoscersi e contemporaneamente per modificarsi, ma senza che
questa modificazione passi attraverso il controllo razionale: è una modificazione spontanea,
che avviene poco alla volta e naturalmente, non si capisce bene per quali motivi, anche
perché risulta difficile isolare i vari fattori. E se questa modificazione di sé non è ancora
spontanea, cioè richiede impegno e fatica, le persone sperano, ma soprattutto hanno molta
fiducia nel fatto che prima o poi diventerà facile, naturale: ci credono! Hanno sviluppato
fiducia in sé, negli altri e nel T’ai Chi Ch’üan.
142
Questo significa che gli strumenti che il T’ai Chi Ch’üan offre ai suoi praticanti per
modificarsi, nell’apprendimento della disciplina così come nello sviluppo globale della loro
persona, si riferiscono a un insieme di modalità di autoregolazione e di eteroregolazione.
In particolare, un ruolo importantissimo è lo sviluppo delle capacità soggettive di
autoconsapevolezza, intesa da maestri e allievi come capacità di percepire il proprio stato
corporeo di tensione psicofisica e, come secondo step evolutivo, capacità di allentare queste
tensioni.
Riguardo alle modalità di eteroregolazione offerte dalla pratica del T’ai Chi Ch’üan ricordo
in particolare il ruolo delle relazioni con i compagni “di pari livello” e con il maestro.
Questi due tipi di relazioni sono rappresentate dagli allievi come molto significative, anche
se in modo diverso: potremmo dire che non cambia la quantità dell’investimento affettivo,
ma la qualità, perché il maestro è vissuto come una persona che dovrebbe sostenere, i
compagni sono vissuti come persone con le quali ci si vuole (o ci si può) integrare, in una
relazione di solidarietà reciproca. Se vogliamo usare una metafora, usata anche da qualche
intervistato, le relazioni in palestra sono raffigurate come una grande famiglia. Il maestro è
quello che si avvicina di più al genitore: gli allievi lo raffigurano (a volte nelle descrizioni
reali e a volte nella loro immagine ideale) contemporaneamente vicino come una figura
materna e potente come una figura paterna, al di là del sesso reale del maestro o della
maestra. I compagni sono come i fratelli: c’è un rapporto di parità e reciprocità, c’è la fatica
dell’accettazione, c’è il sostegno reciproco e c’è la dimensione ludica.
Un altro strumento potentissimo che il T’ai Chi Ch’üan offre a chi lo pratica è la capacità di
entrare in uno stato di supercoscienza, che permette di tenere insieme la dimensione di
autoregolazione e di eteroregolazione: con la pratica, nei livelli più alti di sviluppo, si può
raggiungere uno stato di integrazione di vari aspetti di sé, di integrazione tra sé e gli altri e
di integrazione di sé e degli altri con il Tao, il Tutto: “Cielo e Uomo uniti, una sola cosa”.
Questo, in sintesi, mi sembra lo strumento più potente del T’ai Chi Ch’üan: offre una
possibilità di integrazione molto forte e contemporaneamente molto ampia!
Ciò che è emerso dalla ricerca è che per ottenere questa integrazione, il T’ai Chi Ch’üan
non opera una cancellazione degli aspetti divergenti (intesi come aspetti “strani” e anche
spiacevoli di sé, ma anche di altri membri del gruppo e di altre “cose e persone” del
143
Mondo), ma li contiene accettandoli. Potremmo dire che c’è una forte integrazione tra la
teoria classica del T’ai Chi Ch’üan, che afferma una co-esistenza e una complementarietà
tra gli opposti (nel Tao) e la pratica del T’ai Chi Ch’üan: ciò che ogni praticante si propone
di ottenere è appunto un contenimento di tutto in sé e di sé nel tutto!
Anche il rapporto tra T’ai Chi Ch’üan e flessibilità del comportamento affettivo merita una
nota conclusiva: nella strutturazione della mia ricerca mi aspettavo di trovare una relazione
significativa tra il ruolo dell’autoconsapevolezza corporea e l’aumento della flessibilità del
comportamento emotivo; non solo ho riscontrato questa relazione, ma ne ho rilevata anche
un’altra inattesa. Dalle interviste emerge infatti che la flessibilità emotiva è sviluppata
anche da un'altra variabile intrinseca al T’ai Chi Ch’üan: l’integrazione tra il sé e il tutto,
che permette al soggetto uno stato di consapevolezza “oggettiva”, una visione più chiara e
più completa (perché tiene insieme punti di vista diversi) di tutto ciò che esiste nel Mondo.
Un altro aspetto emerso (e sempre sulla via della maggiore integrazione) è che l’identità di
praticante di T’ai Chi Ch’üan è molto ben integrata con la propria identità globale, sia per i
maestri che per gli allievi. Il T’ai Chi Ch’üan è un’armonia! E un’armonia è composta da
un insieme di melodie, così ben intrecciate tra loro che risulta difficile per l’orecchio
isolarle una dall’altra! Il T’ai Chi Ch’üan suona come una di queste melodie: è in continuità
con le altre melodie della vita quotidiana, si intreccia con loro, sia per i maestri che per gli
allievi.
Come e dove si intrecciano, dunque, emozioni e identità? La mia risposta è:
nell’integrazione.
Entrambi i costrutti hanno un effetto di integrazione tra i vari aspetti di un individuo:
connettono mente e corpo, connettono il sé con gli altri e probabilmente connettono anche
molti altri aspetti.
Entrambi gli aspetti (identità ed emozioni) sono profondamente intrecciati in ogni persona:
nelle interviste, per esempio, è difficile per i soggetti isolare gli effetti che il T’ai Chi
Ch’üan ha avuto sulle variabili che rientrano nell’area delle emozioni e su quelle nell’area
dell’identità (alcuni esplicitano verbalmente questa difficoltà); ma questo era prevedibile,
perché sono costrutti che hanno origine da un pensiero con un’intenzione “scolastica”.
144
Contemporaneamente, l’identità e le emozioni di un individuo subiscono effetti di
integrazione o di dis-integrazione a seconda delle vicissitudini della vita. Il T’ai Chi
Ch’üan, in quest’ottica, si pone come uno strumento che facilita l’integrazione.
La domanda che rimane aperta è soprattutto quella sugli altri sport: uno sport che non ha le
implicazioni di un’arte marziale, che tipo di integrazione ha con l’identità e le emozioni dei
suoi praticanti? Qual è la differenza, in termini psicologici, tra il T’ai Chi Ch’üan e altri
sport in generale e soprattutto rispetto agli sport della società occidentale attuale?
Prima di riassumere le conclusioni in forma grafica, vorrei riferire qualche nota anche
riguardo alla reazione dei maestri alla situazione di intervista, perché mi è sembrato
interessante e curioso il modo di alcuni di loro di rapportarsi ad essa. Innanzitutto, sono
rimasta stupita dalla disponibilità con cui hanno accettato di partecipare alla mia ricerca:
tutti i maestri che ho contattato, anche quelli raggiunti telefonicamente senza una
conoscenza pregressa e senza referenze, si sono dichiarati subito molto interessati; alcuni di
loro, che non ero riuscita a raggiungere al primo tentativo, mi hanno ricontattata incuriositi
e hanno accettato volentieri di approfondire l’argomento che proponevo loro. Questo
atteggiamento testimonia quanto già discusso prima riguardo alla loro appassionata
curiosità e alla loro costante ricerca di modi per approfondire la loro conoscenza del T’ai
Chi Ch’üan. Oltre a questo desiderio di ricerca, vorrei mettere in luce anche un altro
atteggiamento interessante: alcuni insegnanti mi hanno espresso il desiderio (alcuni anche
la preoccupazione) di rivedere la trascrizione dell’intervista e alcuni mi hanno chiesto di
apportare delle modifiche per rendere il discorso più preciso rispetto ad una discussione
orale. Personalmente, ritengo che queste preoccupazioni siano dovute al desiderio di
“rifinire” meglio le idee espresse: riconosco in questo desiderio di precisione un’ulteriore
prova del loro forte investimento affettivo sull’arte del T’ai Chi Ch’üan, un voler
controllare che nessuno possa usare le loro parole contro non tanto loro (sapevano fin
dall’inizio che le risposte sarebbero rimaste anonime!), ma contro la loro disciplina; lo vedo
come un desiderio di proteggere il T’ai Chi Ch’üan da interpretazioni che potrebbero
distorcere la sua millenaria essenza, perché il T’ai Chi Ch’üan deriva pur sempre da una
filosofia lontana da noi. Bisogna trattarlo con cura, come si tratta un libro antico, con la
cura di un artigiano che trasmette il suo lavoro, la sua arte, i suoi attrezzi: una tradizione!
145
Le conclusioni della mia ricerca hanno preso anche una forma grafica: ho riportato questa
forma tra gli allegati (allegato numero 2). All’interno del grande contenitore, il Tao, che
integra tutto ciò che contiene, c’è l’arte marziale del T’ai Chi Ch’üan, che integra i suoi vari
praticanti (i cerchietti gialli), siano essi maestri o allievi, in un gruppo. Alcuni praticanti
sono un po’ più inseriti nella disciplina del T’ai Chi Ch’üan, altri lo sono un po’ meno; e a
questo corrisponde un diverso grado di integrazione dell’identità di praticante nella propria
identità globale. Dalla mia ricerca emerge che il T’ai Chi Ch’üan ha effetti (le frecce rosse e
blu) sull’identità e sulle emozioni dei praticanti, e che questi vanno nella direzione di una
maggiore integrazione.
Quello che mi sorprende, anche perché non è nato da un’intenzione consapevole, è che il
cerchio si chiuda così armonicamente dal titolo d’inizio ai titoli di coda! Mi spiego meglio:
guardando questa figura, che rappresenta le mie conclusioni, mi chiedo … ma non è questa
figura molto simile a quella che rappresentava l’inizio, il fior di prugno?
146
CONCLUSIONI DEL PERCORSO
In questa parte intendo approfondire, a conclusione del percorso, il significato che ha avuto
per me lo svolgimento di questa tesi.
Innanzitutto mi ha permesso di approfondire molti aspetti del T’ai Chi Ch’üan, quest’arte
che è entrata nella mia vita e mi ha entusiasmata sempre più, da questi pochi anni in cui
l’ho incontrata. Mi ha permesso di cogliere le somiglianze e le differenze tra il mio modo di
viverla e quello di altri allievi, e mi ha permesso di conoscere il pensiero di alcuni allievi e
maestri che non credo avrei potuto apprendere in altri modi. Parlando con loro e rileggendo
il loro pensiero, mi sono sorpresa e ho provato un sentimento di empatia con loro per la
profondità delle “conoscenze emozionanti” che avevano deciso di condividere con me;
l’emozione che si prova nel capire una parte importante della vita di un’altra persona è
molto forte: ho sentito la mia vita entrare in contatto con la loro! E ho pensato che mi
piacerebbe riuscire a sentire con questa stessa profondità le sensazioni che mi descrivevano,
soprattutto relativamente alla pratica del T’ai Chi Ch’üan! C’è tempo … credo che
l’importante sia vedere la strada!
Dal punto di vista della Scienza Psicologica, questo lavoro mi è servito per integrare gli
apprendimenti (almeno alcuni!) che hanno accompagnato questi anni universitari: forse è
proprio per questo lavoro che ho fatto su di me, che l’integrazione è diventata anche un
leitmotiv importante di questa tesi.
Quello che però mi ha colpita di più è stata la semplicità e al contempo la stranezza con la
quale ho “chiuso il cerchio”: nel momento in cui ho provato a tracciare una
rappresentazione grafica delle conclusioni mi è venuta in mente questa immagine a cerchi
sovrapposti, interagenti e integrati uno con l’altro, che ho descritto prima e ho inserito in
questo volume come allegato numero 2. Non è stato particolarmente difficile immaginarla!
E soprattutto, come un’illuminazione improvvisa, dopo qualche ora ho intuito la
somiglianza tra questa figura disegnata a mano e la rappresentazione stilizzata del fior di
prugno, simbolo del Kung fu, da me prescelta (nel senso di “eletta” rispetto ad altre e nel
senso anche di “scelta prima” di aver organizzato il lavoro di tesi) anche come simbolo
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grafico dell’identità come integrazione. Allora mi sono sorpresa! E mi sono chiesta i motivi
di queste due scelte, così simili, ma anche così “casuali” per rappresentare la stessa cosa!
La conclusione che ho trovato è che nel mio profondo, l’integrazione abbia proprio questa
forma: un fiore, con un centro e tanti petali intorno! Questa nuova consapevolezza di
qualcosa di nuovo e di mio è il risultato che qui e ora mi sembra quello più importante e
che mi fa assaporare uno stato di commozione e soddisfazione! Ringrazio chi ha voluto
condividere con me questo “stato dinamico” e chi mi ha permesso di raggiungerlo
attraverso questo percorso: in molti modi diversi, con comportamenti di sostegno, di
vicinanza, di disponibilità, di altruismo, di gratuità!
I miei ringraziamenti vanno a Gianna e Alfredo, i miei genitori, che mi hanno aiutata in
mille e uno modi, in tutta la vita come in questa tesi, e a Ivan, il mio fidanzato, che mi ha
sempre sostenuta e aiutata!
I miei ringraziamenti vanno ai miei maestri (di vita!) attuali e del passato: sono maestri di
Arti Marziali, di Psicologia, di Musica, di tutte le Scuole che ho frequentato nella mia vita!
I miei ringraziamenti vanno agli amici, che sono tutte le persone (inclusi gli zii e mia
cugina) che mi hanno accompagnata sulla via, per un tratto lungo o breve, ma comunque
significativo e intenso!
I miei ringraziamenti vanno a tutte le care persone che sono state disponibili a partecipare a
questa ricerca, dimostrandomi affetto, sostegno e collaborazione: all’interno dell’Università
la professoressa Caterina Gozzoli e la dottoressa Chiara D’Angelo. Fuori dall’università: il
maestro Santini (che è anche il mio maestro!), il maestro Cuturello, il maestro Fassi, il
maestro Gandini, il maestro Pagliari, la maestra Bianchi, il maestro Schiavone, il maestro
Valenza (per me sono tutti maestri!). E gli allievi: Paola, Davide, Franca, Carla, Paolino,
Daniele, Antonella. Tutte queste persone (davvero tutte, nel senso di ognuna di loro!) hanno
condiviso con me una parte della loro vita che ha cambiato anche la mia!
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