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CAPITOLO 16
IL CONFLITTO INTERPERSONALE IN ADOLESCENZA
1. Introduzione
L’importanza del conflitto interpersonale durante l’adolescenza è sottolineata sia dalle
teorie psicologiche che dagli stereotipi correnti. La ricerca conferma che i disaccordi sono
sempre presenti in tutte le relazioni adolescenziali.
Essendo i conflitti un campo ristretto dove si trovano più ampi modelli di interazione
sociale, essi vengono gestiti in un modo che riproduce le proprietà salienti della relazione
(Laursen, Hartup, Koplas, 1996).
Le amicizie sono rapporti volontari e paritari: quando si presenta la necessità di risolvere
un conflitto interpersonale, gli amici devono mettere da parte il proprio vantaggio
immediato per conservare il beneficio duraturo della relazione amicale.
Le relazioni genitore-figlio, invece, sono obbligatorie e gerarchiche: i familiari non sono
vincolati da considerazioni di prudenza per il mantenimento della relazione, di modo che è
più probabile che in caso di disaccordo ogni attore della situazione conflittuale badi più ai
propri vantaggi immediati.
I conflitti sono “episodi sociali distribuiti nel tempo” e comprendono varie componenti
distinte (Shantz, 1987, p. 285): argomento, inizio, intensità, risoluzione ed esito. Hanno
inoltre una struttura sequenziale, per cui una componente (per esempio l’esito) fa seguito
ad un’altra (per esempio la risoluzione) secondo una progressione ordinata.
Nello schema strutturale del conflitto, tipicamente, ci sono: un protagonista e un
antagonista (i partecipanti al conflitto), un tema (l’argomento del disaccordo), una
complicazione (l’inizio del conflitto) che mette in moto l’azione, una crisi (la risoluzione)
e infine uno scioglimento (l’esito). Per “organizzazione del conflitto” si intende la struttura
del dissenso e la maggiore o minore connessione fra le diverse componenti.
Per “dinamiche del conflitto” si intendono i comportamenti specifici e la loro maggiore o
minore prevedibilità in base a un copione.
Le relazioni degli adolescenti con i genitori e con i pari si differenziano in termini di
potere e di permanenza. Il rapporto di potere indica in che misura la relazione è segnata
dalla dominanza (Piaget, 1965), la permanenza esprime la stabilità della relazione
(Murstein, 1970).
Le amicizie sono di solito paritarie e simmetriche. Sono relazioni volontarie: il legame che
si stabilisce in un campo aperto è caratterizzato dalla competizione fra possibili
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alternative. Se per caso gli scambi di una coppia di amici non risultano reciprocamente
vantaggiosi, ciascuno dei due può interrompere la relazione e ricominciarne una nuova con
qualcun altro. La conseguenza è che il conflitto implica un rischio particolare per questo
tipo di rapporti. Gli amici devono tener presente la possibile minaccia che il conflitto porta
al loro legame volontario e riconoscere che quando due persone si dividono il potere è
necessario l’accomodamento.
Viceversa, le relazioni genitore-figlio sono tipicamente asimmetriche e unilaterali.
In termini di potere, si tratta di relazioni verticali, dove il potere non è distribuito alla pari
e i genitori spesso impongono ai figli la propria volontà. Inoltre, la relazione genitore-
figlio è una relazione obbligata: il legame si imposta in un campo chiuso senza alternative.
I processi di gestione del confitto in generale, e la sua risoluzione in particolare, rivestono
un interesse speciale per gli studiosi dello sviluppo, poiché forniscono ai bambini e agli
adolescenti un quadro di riferimento per l’apprendimento dei principi di giustizia (Ross,
1996), per la regolazione dei sentimenti (Fabes ed Eisenberg, 1992) e per la definizione
dell’autonomia personale (Nucci, Killen, Smetana, 1996). Le risoluzioni del conflitto
determinano quei comportamenti specifici che portano a chiudere il disaccordo. Si
possono indicare quattro categorie distinte: negoziato, disimpegno, affermazione di potere,
arbitrato (Laursen e Collins, 1994). I processi di gestione del conflitto rientrano nella più
ampia organizzazione del disaccordo, che comprende le componenti distinte della
risoluzione, dell’esito e del tono affettivo.
Mitigazione, coercizione e ritiro sono tipologie ben note di gestione del conflitto
(Gottman, 1979). La mitigazione implica sentimenti positivi, risoluzioni negoziate e
risultati equi.
La coercizione comporta sentimenti negativi, risoluzioni imposte ed esiti diseguali.
Nel ritiro intervengono sentimenti neutri, soluzioni di disimpegno ed esiti nulli.
La grande maggioranza delle relazioni hanno in repertorio tutti e tre i tipi di copione, ma
c’è grande differenza nella frequenza con cui essi vengono eseguiti. In termini generali, i
copioni che regolano il conflitto dipendono dalle caratteristiche della relazione (Laursen et
al., 1996).
Non avendo il potere di stabilire i termini della risoluzione e consapevoli dei pericoli che il
conflitto implica per un legame volontario, gli amici dovrebbero cercare di ridurre al
minimo l’affermazione di potere e la coercizione, attuando piuttosto il negoziato e la
strategia della mitigazione. Viceversa, la differenza di potere fra genitori e figli
adolescenti è grandissima, mentre il rischio di spezzare la relazione è minimo, cosicché
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affermazione di potere e ricorso alla coercizione dovrebbero essere molto più comuni
rispetto alle strategie morbide e negoziali.
L’adolescenza è un momento particolarmente critico per lo sviluppo delle competenze di
gestione e risoluzione del conflitto. Nel secondo decennio di vita, ad una miglior capacità
negoziale si accompagna la consapevolezza del ruolo notevole che hanno le strategie di
mitigazione nel conservare i legami interpersonali (Selman, 1980). Per la maggior parte
degli adolescenti, ciò cambia le dinamiche del conflitto con gli amici, permettendo la
messa in pratica di un maggior numero di soluzioni reciprocamente soddisfacenti.
Mentre nei rapporti amicali va aumentando la reciprocità, gli adolescenti si sforzano di
provocare un cambiamento simile anche nelle relazioni con i propri genitori (Youniss e
Smollar, 1985): i genitori, da parte loro, spesso oppongono resistenza a queste novità e
questo fa sì che il conflitto cresca, con l’impiego di mezzi coercitivi, mentre si rinegoziano
ruoli e responsabilità dei figli adolescenti (Smetana, 1988). Il risultato finale può essere
una maggiore autonomia dell’adolescente, ma fino a che la relazione rimane obbligata e
verticale, i disaccordi continueranno ad essere contrassegnati dalla coercizione. Di
conseguenza, gli adolescenti devono tollerare, in caso di conflitto con i genitori, un
comportamento che riterrebbero inammissibile da parte degli amici.
Stabilità e rapporti di potere sono elementi che differenziano i rapporti amicali da ogni
altro tipo di relazione (Laursen et al., 1996). Come già fatto notare, affermazione di potere
e coercizione sono soliti fra i genitori e i figli adolescenti perché un comportamento
sgradevole non implica rischi per il mantenimento di queste relazioni, che sono
obbligatorie, e perché la dominanza è sempre un’alternativa possibile quando il potere non
è spartito.
Le condizioni sono diverse nell’amicizia: gli amici sono coscienti della minaccia che il
conflitto può portare ai loro rapporti e sanno di dover evitare la coercizione e
l’affermazione di potere se vogliono che l’amicizia continui. Ogniqualvolta è possibile,
riducono al minimo il ricorso a tattiche di dominio, perché nessuno dei due è in grado di
dettare legge in termini coercitivi, né vuol mettere a repentaglio il rapporto.
Questo non vuol dire che fra gli amici si eviti del tutto la dominanza, ma piuttosto che il
suo uso è sottoposto a speciali limitazioni.
L’argomento discusso occupa la posizione preminente nella strutturazione del conflitto. di
conseguenza può esserci la possibilità che le differenze fra relazioni interpersonali diverse
per gestione e risoluzione degli episodi conflittuali, si confondano con le differenze
riguardanti i temi di contrasto più comuni nei diversi tipi di rapporto.
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La maggior parte degli scontri fra genitori e figli adolescenti riguardano gli attriti intorno
alle routine quotidiane, mentre fra gli amici i problemi più comuni sono quelli relazionali.
Le dinamiche del contrasto con gli amici e i genitori differiscono in un modo che
rispecchia i diversi rapporti di potere e la diversa durata di questi rapporti.
Il fatto di condividere il potere e l’esigenza di salvaguardare il legame sono forti incentivi
per gli amici ad evitare la coercizione e l’affermazione di potere. Viceversa, le strategie
dominanti prevalgono nei conflitti fra genitori e figli adolescenti perché una sola delle
parti detiene il potere e perché il futuro della relazione non dipende dall’equità degli
scambi.
È vero che nei rapporti amicali i temi di conflitto più comuni sono quelli relazionali,
mentre fra genitori e figli dominano gli screzi sulle routine quotidiane, ma le diversità nel
gestire e risolvere il conflitto non dipendono da ciò: indipendentemente dalla questione
affrontata, fra amici si ricorre di più alla strategia della mitigazione, da parte dei genitori,
invece, alla coercizione.
Questo indica che il comportamento degli adolescenti per il conflitto interpersonale è
governato da copioni che sono specifici per ciascun tipo di relazione.
Strategie efficaci per la risoluzione e la gestione del conflitto sono assimilate e
perfezionate negli anni dell’adolescenza, specialmente grazie dell’esperienza di relazioni
intime fra pari.
2. Il conflitto in famiglia
2.1 Introduzione
Durante il periodo dell’adolescenza, come ricorda la letteratura in materia, inizia una fase
di giochi di potere tra genitori e figli: le aspettative dei genitori hanno meno rilevanza per i
figli adolescenti, anche perché uno dei punti di conflitto è proprio il potere all’interno della
famiglia. Il ragazzo adolescente inoltre, grazie al suo sviluppo intellettivo, è in grado ora, a
differenza di quando era bambino, di esprimere ciò che pensa sui genitori. Cresce la sua
capacità di comprensione e il suo peso nella presa delle decisioni. Il modo in cui fa tutte
queste cose influenza i genitori, o meglio, il giudizio che i genitori hanno di lui.
Un tratto caratteristico dell’adolescente è quello di reclamare la propria autonomia e la
propria individualità, ma, nonostante questo, resta comunque ancora profondamente
dipendente dal quadro familiare della sua infanzia (Polmonari, 1997).
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Lo spazio delle relazioni familiari, della struttura familiare, della personalità dei genitori,
si è dimostrato come uno dei fattori determinanti nella crisi adolescenziale.
Come spiega la teoria sistemica, la famiglia può essere considerata come un insieme, un
sistema che non equivale alla somma dei singoli componenti. Di conseguenza, ogni
comportamento di ogni componente della famiglia si riflette sui comportamenti degli altri
membri, soprattutto quando questi sono diversi rispetto a quelli che il resto della famiglia
si aspetta. Quindi, ogni comportamento di un membro della famiglia determina i
successivi comportamenti degli altri individui e di lui stesso, in un continuo susseguirsi di
relazioni legate e dipendenti le une dalle altre.
In ogni famiglia esiste contemporaneamente una tendenza a trasformarsi e una tendenza
omeostatica, cioè rivolta al mantenimento dello stato presente. Queste due tendenze sono
presenti nei momenti di passaggio e di crisi, come è, per esempio, l’adolescenza.
Il compito fondamentale che la famiglia nei confronti dei figli adolescenti è quello di
creare dei processi di individuazione e di autonomia reciproca fra tutti i membri del
gruppo, per poter raggiungere un’interdipendenza matura all’interno delle loro relazioni.
Diana Baumrind, una psicologa sociale nordamericana, ha individuato che ci sono due
dimensioni fondamentali in tutti gli stili parentali:
- l’accettazione, che consiste appunto nell’accettazione, da parte dei genitori, del
figlio/a per quello che è, valorizzandone le qualità senza pretendere di modellarlo a loro
immagine
- il controllo, cioè il guidare il figlio/a, aiutarlo e stimolarlo nelle sue scelte, dettargli
dei ritmi di vita adeguati alle sue caratteristiche. Il controllo si esprime dunque sia sul
piano psicologico, sia su quello del comportamento.
Come già accennato, sussiste un equilibrio precario tra la tendenza al mantenimento di
alcune regole già presenti e le pressanti richieste di mutamenti dentro o all’esterno della
famiglia stessa.
Il conflitto risulta essere tanto più distruttivo quanto più è pervade tutti gli aspetti della
famiglia, tanto più quando tende ad andare oltre il problema in questione per mettere in
discussione i nodi vitali della relazione familiare, quali sono la separazione e l’unità,
l’autonomia e l’eteronomia, l’individuazione e il distacco.
Si possono vedere quali sono i motivi fondamentali che portano al conflitto nella famiglia
con un figlio adolescente. Il primo è chiaramente la condizione di stress che è presente
all’interno della famiglia. Il secondo è la modalità dell’escalation, cioè come la famiglia
riesce ad uscire dalla spirale dei conflitti. La terza modalità è quella che si può chiamare
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triangolazione: il figlio, poiché ha sperimentato delle differenze all’esterno della famiglia,
è il primo a costringere i genitori ad affrontare il problema di come ciascun genitore è
riuscito ad individuarsi, ad essere persona autonoma. Di fatto, egli può, per la prima volta,
valutare e dare dei giudizi sui genitori, sulle loro capacità.
Quando gli adolescenti affrontano questo tipo di problema, cominciano anche ad
intravedere un altro tipo di situazione che è quella della realtà affettiva dei rapporti
all’interno della famiglia, soprattutto all’interno della coppia coniugale. Per la prima volta,
quando si entra in adolescenza, si è capaci di staccarsi dai propri genitori e si riesce a
vederli come coppia.
Un altro tipico conflitto familiare è il problema delle accuse rivolte costantemente agli altri
membri della famiglia.
L’ultimo punto di conflitto è quello che si può chiamare la “simbiosi familiare”, cioè la
difficoltà di rilevare le differenze dei bisogni reciproci. L’adolescente, dal suo punto di
vista, sente la necessità di diventare autonomo, di cercare un modello, di essere differente
dagli altri, di avere una propria identità. Il modello di identificazione possibile è
rappresentato in primo luogo dai genitori. Rispetto a queste due figure e rispetto al gruppo
familiare, l’adolescente si trova però in crisi, perché le accetta, ma fino a un certo punto e
anche loro lo accettano così cambiato, ma solo fino a un certo punto.
Nel periodo dell’adolescenza, alcuni problemi derivano anche dalle modalità con cui la
famiglia si aspetta il distacco del figlio, poiché oltre a questo, viene affrontato anche il
problema del bisogno reciproco, per cui le aspettative che il genitore ha sul figlio si
riflettono sulle aspettative che il figlio ha sul genitore.
L’adolescente rimette in causa la personalità dei suoi genitori: questo è la manifestazione
clinica e comportamentale della riorganizzazione intrapsichica di cui abbiamo parlato in
precedenza, in particolare il rimodellamento delle immagini genitoriali.
L’adolescente deve convincere non solo i suoi genitori, ma in parte anche se stesso, di non
aver più bisogno di loro, del fatto che ormai lui e i suoi genitori sono diversi e che il loro
legame è ora differente da quello che li univa quando era bambino. Nell’evoluzione di
questa relazione intervengono i diversi aspetti del processo adolescenziale: trasformazione
corporea puberale, accesso alla maturità sessuale, risveglio del conflitto edipico ed
esacerbazione di desideri e timori delle relazioni incestuose, rifiuto di aderire
all’immagine di bambino che avevano i genitori, ricerca di identificazione attraverso il
gruppo dei coetanei o l’ammirazione di un estraneo.
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La maggior parte dei genitori sono consapevoli di queste rivendicazioni degli adolescenti e
modificano i loro atteggiamenti e le loro esigenze in funzione dell’evoluzione di questi
ultimi.
Questi naturali conflitti tra genitori ed adolescenti si caratterizzano per la loro estrema
variabilità, per essere spesso centrati sulla figura di un solo genitore e non su tutti e due,
per il fatto che viene mantenuta una relazione soddisfacente in un settore particolare, per la
localizzazione del conflitto sui genitori, mentre sono completamente risparmiati i nonni e i
fratelli.
Quando la contrapposizione fra i due genitori e l’adolescente diviene pesante, totale,
continua, diviene allora un’opposizione generalizzata contro tutti gli adulti, tutta la società,
ecc.
Nel rapporto genitori-adolescenti, è innegabile che lo sforzo di prendere la distanza dai
genitori messo in atto dagli adolescenti sia una probabile causa di conflitto. Perché ci sia
conflitto, tuttavia, ci deve essere, da parte dei genitori nei confronti del figlio, un interesse
reale, fortemente connotato da un punto di vista emotivo; qualora quest’interesse non
sussista, non esiste nemmeno una ragione di conflitto. secondo diversi autori, la mancanza
di conflitto, non viene interpretata dai più giovani come segnale di cura e di vera
comprensione.
In genere, i conflitti fra adolescenti e genitori non riguardano i valori di fondo o le
questioni fondamentali di tipo morale, politico, religioso, ma riguardano soprattutto i
problemi di minor rilievo, come ad esempio il modo di vestirsi, le attività di tempo libero,
l’orario del rientro serale, la disponibilità e l’uso del denaro. In sostanza, molte ragioni di
conflitto sembrano riconducibili alla preoccupazione dei genitori circa le relazioni
sentimentali dei figli, in particolare delle figlie, nella consapevolezza che tali relazioni
comportano ormai, nella maggior parte dei casi, rapporti sessuali completi.
Goodnow (1994) sostiene che sia la mancanza di disaccordo intergenerazionale in
famiglia, durante il periodo adolescenziale, piuttosto che la sua presenza, ad essere
correlata a problematiche attuali o future, poiché un certo livello di disaccordo segnala che
il percorso di autonomia e di differenziazione dalla famiglia di origine è stato avviato
(Kuczynski, Koschanska, 1990). I conflitti familiari, infatti, se affrontati in maniera
efficace, sembrano favorire esiti migliori nel processo di adattamento interpersonale
(Collins, Laursen, 1992) richiesto dai cambiamenti fisici, cognitivi e sociali che si
verificano in adolescenza. Questa trasformazione coinvolge l’intera famiglia che,
attraverso un’impresa evolutiva congiunta (Youniss, 1983; Cigoli, 1985; Youniss e
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Smollar, 1985; Sroufe, 1991) cerca, insieme al figlio adolescente, nuovi pattern di
adattamento. Dalla ricerca di Bastianoni e Briganti (2002), la risoluzione positiva dei
conflitti fra genitori e figli è stata collegata a diversi esiti evolutivi come la formazione
dell’identità, lo sviluppo delle abilità socio-cognitive e lo sviluppo dell’io, mentre le
condizioni che ne riducono ogni funzione positiva sono state identificate nell’intensità,
nella continuità e nell’assenza di intimità e affetto. In questi casi le manifestazioni
conflittuali sono strettamente associate a serie problematiche psicosociali, con un possibile
esordio adolescenziale, ma con prevedibile esordio in età adulta.
Richiamandosi alla tradizionale distinzione operata da Deutsch (1973) tra conflitto
distruttivo e conflitto costruttivo, si può collocare la sua funzione in relazione ai processi
di adattamento o disadattamento implicati. Il conflitto, pertanto, assume connotazioni
funzionali o disfunzionali a seconda del contesto relazionale in cui si manifesta.
Quando si verifica in condizioni intersoggettive di confidenza e intimità, ha una funzione
costruttiva (Cooper, Grotevant, Ayers-Lopez, 1987), viceversa, il conflitto ostile,
incoerente, che scatena sentimenti di rabbia e incomprensione da parte dei figli, accentua
l’isolamento dei figli, riducendo gli spazi di comunicazione intima coi genitori e ogni
forma di contatto interpersonale (Patterson, 1986). Quando, invece, il conflitto viene
affrontato integrando i diversi punti di vista e per mezzo di negoziazioni anziché
imposizioni unilaterali, si verifica un progresso sociocognitivo, e conflitto e coesione
possono coesistere produttivamente.
Come si è visto, le spiegazioni proposte per l’origine del conflitto fra genitori e figli in
adolescenza sono numerose. Alcune fanno riferimento al ruolo di caratteristiche o fattori
interni all’adolescente, come la pubertà e lo sviluppo cognitivo e sociocognitivo; altre a
fattori esterni, come le transizioni normative associate all’età (ad esempio, dalla scuola
media alla scuola superiore) o a caratteristiche dei genitori (come lo stile educativo
adottato); altre ancora sono centrate sulle proprietà della relazione fra adolescenti e
genitori.
2.2 Motivazioni ed attribuzioni di responsabilità nelle situazioni conflittuali
Secondo la ricerca condotta da A.R. Favretto (2001), le motivazioni che i ragazzi
intervistati adducono come causa dei conflitti si riferiscono, innanzitutto, alla conduzione
della vita domestica, ed in particolare alla mancata ottemperanza a due obblighi
fondamentali stabiliti dagli adulti: mantenere in ordine i propri spazi e collaborare alle
faccende domestiche. I conflitti riconducibili a queste due richieste riguardano sia ragazzi
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che ragazze, ma non nella stessa misura e secondo modalità diverse. Le ragazze riportano
più frequentemente tensioni riferite alla collaborazione per il buon andamento dell’intera
vita domestica.
I ragazzi, invece, lamentano soprattutto, anche se non esclusivamente, i rimproveri causati
dalla mancanza di ordine nei propri spazi e alla scarsa disponibilità nell’aiutare le madri
nei piccoli lavori domestici. È interessante notare come ragazzi e ragazze richiamino con
maggiore frequenza l’intervento del padre, e non quello della madre, al momento della non
ottemperanza della norma della collaborazione domestica.
Una seconda fonte conflitto è rappresentata dai controlli agiti sul comportamento dei figli
all’esterno della famiglia. Le uscite troppo frequenti, gli orari di rientro non rispettati, gli
amici non graditi ai genitori, la vita di coppia, l’abbigliamento, rimandano a norme
comportamentali che denotano l’esistenza della richiesta di una maggiore autonomia da
parte degli adolescenti e caratterizzano la resistenza da parte dei genitori a modificare
l’assetto dei rapporti, concedendo maggior potere decisionale ai figli.
C’è, in ogni caso, il riconoscimento di un largo potere decisionale mantenuto dai genitori,
ai quali compete, e questa competenza viene riconosciuta dai ragazzi, il diritto/dovere di
controllare aspetti anche minuti della vita dei figli, assolvendo a compiti di protezione e
educazione. Da diverse interviste quello che emerge non è la contestazione del ruolo di
controllo attribuito ai genitori, ma la contestazione di alcune specifiche forme che esso
assume.
Per quel che riguarda le ragazze, il controllo frequentemente si rivolge sul versante
relazionale.
Un’altra fonte di controllo che genera conflitto tra genitori e figlie è rappresentata dal cibo.
Il conflitto tra genitori e figlie, e più frequentemente tra padri e figlie, scoppia per il
controllo sulla vita affettiva. Per i ragazzi, questo tipo di controllo dei genitori è meno
marcato. Non si fa riferimento all’onorabilità sessuale, quanto all’adeguatezza o meno del
partner. I conflitti si manifestano soprattutto a causa del controllo sulle compagnie
frequentate e, nel caso dei maschi, è agito in misura maggiore dalle madri. Come per le
femmine, per i maschi il conflitto si manifesta quando la frequenza delle uscite è giudicata
eccessiva dai genitori e quando gli orari di rientro non vengono rispettati.
Un altro gruppo di situazioni conflittuali, citato quasi esclusivamente dai maschi, riguarda
l’andamento scolastico e le pratiche di autogestione durante i periodi di occupazione delle
scuole.
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Un’ultima fonte di conflitto, comune ad entrambi i sessi, riguarda l’uso del denaro e la
quantità di denaro ricevuta. Il voler essere più autonomi nel gestire il denaro, oltre a
confermare la rivendicazione di una maggiore indipendenza, mette in discussione le norme
riferite alla buona gestione delle risorse economiche a favore di una gestione rivolta alla
gratificazione immediata dei desideri di consumo.
Emerge, comunque, il riconoscimento e la profonda accettazione del valore della
regolazione dei consumi imposta dai genitori e l’adesione, quantomeno ideale, alle norme
che prevedono il differimento delle gratificazioni.
La presenza di fratelli e/o sorelle, maggiori e minori d’età, aumenta le occasioni di
conflitto con i genitori, impegnati nella parte di mediatori e giudici.
Le motivazioni più spesso presentate riguardano, innanzitutto, l’uso comune degli spazi.
Lo spazio domestico è una risorsa scarsa: per questo si deve regolare l’uso che i fratelli ne
fanno tramite delle norme che derivano da una contrattazione che di solito coinvolge
anche i genitori.
Un secondo motivo di tensione e di conflitto riguarda l’uso degli oggetti e dei capi
d’abbigliamento. Un terzo motivo riguarda la non osservanza della regola generale della
solidarietà e della complicità fra fratelli.
La divisione dei lavori domestici è scarsamente presente come motivo di conflitto.
I ragazzi hanno la tendenza a collocare la tensione creata dalla non osservanza della regola
della collaborazione, da un lato, nel conflitto con gli adulti, piuttosto che con i fratelli,
perché è dai genitori che viene la richiesta d’aiuto; dall’altro nel conflitto con i fratelli per
l’uso ordinato e regolato degli spazi e delle suppellettili comuni.
Per quel che riguarda l’attribuzione della responsabilità relativa ai conflitti, nella
maggioranza dei casi è esterna: i ragazzi individuano, come causa dello scoppiare dei
conflitti, genitori poco comprensivi, troppo possessivi, distratti o nervosi a causa del
lavoro. Oppure colpevoli sono i fratelli, petulanti, delatori, poco rispettosi degli oggetti
altrui, impiccioni, troppo nervosi o prepotenti. Non mancano tuttavia, testimonianze che
collocano il conflitto internamente.
Un’altra recentissima ricerca sulle caratteristiche e sulla diffusione dei conflitti è quella
realizzata da Cicognani e Zani (2003).
Dalle risposte di adolescenti e genitori raccolte dalle due ricercatrici, emerge un basso
livello di conflittualità. Gli scontri, che vengono definiti piuttosto come disaccordi di
opinioni, bisticci o battibecchi, sono di solito causati da questioni banali e di scarsa
rilevanza per la vita quotidiana, come i problemi legati alle regole della casa e al ménage,
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le relazioni all’interno e all’esterno della famiglia, il comportamento dei figli dentro e
fuori casa (per esempio, le faccende domestiche, l’aspetto esteriore, il modo di vestirsi, le
attività di tempo libero, l’orario del rientro serale, la scuola). Inoltre, anche secondo questa
ricerca, genitori e adolescenti non hanno opinioni conflittuali su questioni politiche,
ideologiche, sociali e religiose, sui valori e sulle norme sociali.
Con l’età i conflitti sembrano diminuire in frequenza, ma divenire più accesi, ma non si
capisce bene la direzione che questi assumono nella media e tarda adolescenza.
Comunque, i dati esistenti concordano nell’indicare che il conflitto, valutato per intensità e
frequenza, segue una traiettoria a forma di U rovesciata, raggiungendo il picco massimo
all’inizio dell’adolescenza in coincidenza con la pubertà.
Se si considera, invece, l’andamento del conflitto riguardo ai diversi argomenti, si osserva
come esso si diversifichi a seconda degli ambiti. In particolare, nelle diverse fasi
dell’adolescenza, diventano causa scatenante di conflitto gli argomenti più importanti per
l’autonomia dell’adolescente, argomenti che sono collegati allo sviluppo psicosociale, e
che implicano i temi dell’autorità, delle regole e della responsabilità. Ad esempio, i dati
raccolti su adolescenti italiani di 13 e 15 anni (Bosma et al. 1996) indicano che gli
argomenti più frequentemente citati come argomento di discussioni sono: fare i compiti,
aiutare i genitori nei lavori domestici, le decisioni sulle uscite e sull’orario di rientro
serale, l’ora di coricarsi, l’uso del denaro. Dai 13 ai 15 anni aumentano significativamente
i disaccordi sul tema delle uscite e dei rientri serali. Pochissimi sono gli adolescenti che
riferiscono dissidi su argomenti quali la sessualità, il consumo di alcolici, il fumo, e la
scelta di hobby e sport e la cura del corpo. Una percentuale che oscilla tra il 10 e il 20%
dichiara di avere disaccordi su temi come la privacy, la scelta degli amici, l’andare in
chiesa, l’uso del linguaggio, il look, la scelta dell’abbigliamento, le visite ai parenti. Questi
risultati sono stati confermati anche in una ricerca successiva (Cicognani, 2002).
Dal confronto dei dati delle due ricerche, appare che, dalla prima alla media adolescenza,
ci sia un incremento di conflitto (in particolare sulle uscite e il rientro), seguito da una
diminuzione costante verso la tarda adolescenza.
Rispetto alle differenze di genere, i maschi riportano conflitti più frequenti sulla scuola,
mentre le femmine parlano di più di conflitti sulle visite ai parenti, le relazioni
interpersonali, i lavori di casa, le uscite e l’ora del rientro. Quest’ultimo dato conferma le
maggiori difficoltà delle ragazze a negoziare margini crescenti di autonomia.
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La presenza di differenze di genere nel conflitto è confermata anche da altre ricerche, che
hanno indicato che le femmine sperimentano conflitti in misura maggiore dei maschi
(Montemayor, 1986).
Per quanto riguarda gli argomenti di conflitto con i padri e le madri, Youniss e Smollar
(1985) rilevano che gli scontri fra figlio maschio e madre avvengono su temi come le
regole di comportamento, sulle buone maniere, la scelta degli amici, l’abbigliamento; il
conflitto con il padre, invece, riguarda la scuola, il lavoro, i soldi, il tempo libero e le
questioni pratiche.
Molti autori concordano sulla la maggiore conflittualità del rapporto con la madre, dovuta
alla presenza di comunicazioni più frequenti e significative.
Oltre a ciò, diverse ricerche confermano una maggiore conflittualità della relazione madre-
figlia, soprattutto nella fase intermedia dell’adolescenza. In questa fase dello sviluppo,
infatti, le ragazze adolescenti presentano più intense resistenze e opposizioni di fronte alle
richieste di intimità e confidenza delle madri; queste richieste vengono vissute dalle
adolescenti come intrusioni e violazioni della propria privacy. Questo atteggiamento,
denunciato in particolare dalle madri (Bovini, Zani, 1991), sembra poi attenuarsi verso la
fine dell’adolescenza.
Smetana (Smetana, Asquith, 1994) ha individuato gli ambiti comportamentali rilevanti per
il conflitto in adolescenza e li ha suddivisi in categorie: personali, convenzionali, morali,
prudenziali, multiformi, amicizie. Ha trovato, inoltre, che i conflitti più frequenti si
osservano sui temi multiformi, ossia temi che possono essere interpretati sia come relativi
alle convenzioni sociali, sia come personali. Questo risultato suggerisce che il conflitto
nasce principalmente a causa delle divergenze fra i significati che genitori e figli
attribuiscono ai comportamenti.
I conflitti su temi morali, convenzionali e personali diminuiscono con l’età, confermando
che l’inizio dell’adolescenza è il periodo più conflittuale.
2.3 Le situazioni conflittuali: comportamenti e atteggiamenti
Nella famiglia, i soggetti che entrano in conflitto più frequentemente sono i genitori e i
figli.
Vengono riportati da diverse ricerche, casi in cui il disaccordo tra padri e figli assume la
forma di disputa a causa dell’intervento delle madri.
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I comportamenti dei familiari adulti durante le situazioni conflittuali fra fratelli, coprono
l’ampia gamma delle manifestazioni possibili. I comportamenti variano in misura
maggiore con l’età, piuttosto che essere sensibili alle differenze di genere.
Si evidenzia una leggera accentuazione dei comportamenti improntati alla diplomazia
consapevole nei ragazzi più adulti, e un’accentuazione di comportamenti remissivi e di
abbandono del conflitto da parte dei ragazzi più giovani.
Secondo Favretto (2001), i comportamenti che si manifestano nelle situazioni di conflitto
sono determinati dal carattere dei genitori e dei figli.
I ragazzi più grandi sembrano aver elaborato una consapevolezza più grande in merito alla
possibilità di un loro intervento per modificare le richieste e le aspettative dei genitori,
secondo le più opportune strategie d’azione. Inoltre, attribuiscono spesso l’origine dei
conflitti a motivi di ordine caratteriale o allo scontro tra differenti richieste e opinioni fra
familiari adulti e figli.
I ragazzi più giovani, viceversa, sembrano essere meno convinti di poter modificare la
volontà degli adulti e frequentemente attribuiscono un senso al conflitto a partire dalle
preoccupazioni educative degli adulti stessi.
Tanto più spiccata è l’autonomia raggiunta, tanto più è intensa la convinzione di poter
modificare l’assetto dei rapporti attraverso la trasformazione delle norme familiari; per di
più, è soltanto a partire dalla contestazione delle norme che possono innescarsi i processi
che conducono all’autonomia stessa e all’elaborazione della convinzione di poter
largamente determinare la propria esistenza.
2.4 Il trattamento dei conflitti ed i comportamenti successivi
Le pratiche di trattamento dei conflitti costituiscono una parte importante nella costruzione
del tessuto normativo degli adolescenti.
Per quanto riguarda la famiglia, si può pensare che molti trai membri più giovani
desiderino continuare a mantenere i rapporti al suo interno ricevendo affetto, protezione e
cura.
I conflitti che avvengono in famiglia sono trattati in misura maggiore attraverso la
sopportazione, la coercizione e la negoziazione (Favretto, 2001).
Una forma blanda di coercizione frequentemente attuata consiste nel tenere il muso, cioè
creare una sospensione temporanea dei rapporti per esercitare una pressione psicologica,
nella speranza di correggere l’andamento del conflitto.
L’evitamento assume generalmente due forme:
393
- sospendere temporaneamente l’interazione abbandonando fisicamente il luogo del
conflitto
- sospendere temporaneamente l’interazione, abbandonando simbolicamente la
situazione conflittuale, attribuendo alla controparte la ragione oppure manifestando un
comportamento conforme alle sue aspettative pur rimanendo convinti delle proprie
opinioni e del proprio operato.
La negoziazione è presente soprattutto nelle testimonianze di ragazzi più grandi: è logico
pensare che questo avviene perché per attuare questo tipo di risoluzione ci vogliono abilità
relazionali più sviluppate e di quote di potere e di autonomia nelle relazioni più
consistenti, nonché di una più larga esperienza, utile per comprendere che attraverso
questa pratica si ottengono risultati più soddisfacenti.
Con la negoziazione si assume un atteggiamento flessibile, mentre nella coercizione
l’atteggiamento è più rigido e si proporne di aumentare, o di mantenere nel caso dei
genitori, la quota di potere posseduta, per poter gestire a proprio vantaggio la situazione
conflittuale.
Queste pratiche sono utilizzate in modo combinato e senza la predisposizione di una
specifica strategia. Infatti, sono rare le testimonianze che dimostrano un uso consapevole e
strumentale delle forme di trattamento dei conflitti. Al contrario, molte testimonianze
indicano che c’è l’idea dell’obiettivo immediato da raggiungere, ma non vi corrisponde la
predisposizione di specifiche strategie nella scelta delle forme di trattamento.
Questo significa che la scelta delle modalità per far fronte ai conflitti non segue strategie
studiate accuratamente, ma si realizza nel corso del conflitto stesso grazie a vari
comportamenti, che uniscono le previsioni e le aspettative riferite alle reazioni dei
familiari coinvolti nella situazione conflittuale, la valutazione della propria e dell’altrui
quota di potere nella relazione, gli obiettivi che gli adolescenti, di volta in volta, intendono
cogliere.
Fanno parte del modo di organizzare la reazione alla situazione anche elementi di
personali e relazionale, fra cui il continuo monitoraggio del gioco di azioni e di reazioni
presente in ogni interazione.
La mediazione, in ambito familiare, si avvale quasi esclusivamente dell’intervento delle
madri e, in alcuni casi, di quello, non sempre gradito, dei fratelli.
Si può rilevare anche l’intervento indiretto degli amici e dei partner, i quali hanno
dimostrato di essere validi sostegni per la rielaborazione di quanto accaduto in famiglia.
394
In genere, i ragazzi più giovani consigliano di incrementare il conflitto e spronano le
coetanee ad imporsi per ottenere maggior autonomia; i ragazzi e le ragazze più adulti
consigliano la moderazione e le strategie che prevedono la negoziazione. Infine gli amici
possono rassicurare rispetto all’ansia, all’angoscia e ai sensi di colpa che possono
presentarsi quando si agisce il conflitto.
2.4.1 Lo stile di gestione e gli esiti del conflitto
Il conflitto familiare non è necessariamente negativo, ma in determinate condizioni può
avere funzioni funzionali e costruttive per l’adolescente, facilitando ad esempio lo
sviluppo dell’Io e la maturità psicosociale (Grotevant, Cooper, 1985).
Alcuni autori hanno individuato una serie di strategie di risoluzione del conflitto:
sottomissione, compromesso, intervento di terzi, disimpegno e ritiro. Anche se gli
adolescenti dichiarano di preferire una soluzione al conflitto attraverso il compromesso, le
osservazioni dei comportamenti di adolescenti e genitori in situazioni di interazioni
naturali indicano che i conflitti tendono a essere più spesso risolti tramite la sottomissione
all’autorità del genitore o il disimpegno, invece che attraverso il compromesso
(Montemayor, Hanson, 1985).
Da altre ricerche, si ricava che l’arco di età compreso fra 13 e 15 anni è caratterizzato da
un intensificarsi del conflitto, e questo si esprime con uno stile di conduzione aggressivo
ed esiti di frustrazione ed escalation (cioè quei comportamenti che prolungano e/o
intensificano il conflitto).
È confermata anche l’ipotesi sulla natura più conflittuale del rapporto con la figlia
femmina, anche se soltanto dalle percezioni dei genitori (soprattutto dalle madri, le quali
riconoscono un peggioramento della relazione con le figlie femmine nell’arco di età
considerato.
Gli adolescenti sembrano adottare comportamenti differenti nel corso degli episodi di
disaccordo con i due genitori e mostrano un uso più frequente dello stile aggressivo con il
padre, che dà luogo a esiti di maggiore frustrazione e escalation.
Un ulteriore risultato interessante (Cicognani, Zani, 2003) è che gli adolescenti descrivono
se stessi come meno inclini all’uso del compromesso di quanto lo siano, a loro parere, il
padre e la madre. Tale percezione è confermata anche dai genitori, i quali descrivono
l’adolescente come meno incline al compromesso rispetto a se stessi. Questi risultati
confermano parzialmente le ipotesi derivate dalle prospettive sistemiche, in base alle quali
395
gli adolescenti tenderebbero a sottolineare la separatezza e le differenze fra se stessi e i
propri genitori.
Per quel che riguarda la relazione fra lo stile del conflitto e gli esiti, l’uso di uno stile
negativo sembra favorire esiti di frustrazione e l’intensificazione/prolungamento del
conflitto, mentre l’adozione del compromesso ha come esito una soluzione più positiva e
costruttiva.
2.5 Gli effetti del confitto su adolescenti e genitori
Diversi autori hanno evidenziato il ruolo funzionale del conflitto per lo sviluppo
dell’adolescente.
Ad esempio, secondo Laursen e Adams (2000), i processi di gestione del conflitto e la sua
risoluzione presentano un interesse speciale in ambito evolutivo, perché forniscono ai
bambini un quadro di riferimento per l’acquisizione di principi di giustizia, per la
regolazione di sentimenti e la definizione dell’autonomia personale. Altri dati tuttavia
confermano come elevati livelli di conflitto siano associati a problemi di esteriorizzazione
(delinquenza, devianza, comportamenti a rischio) e interiorizzazione (depressione).
È stato fatto notare, però, che dipende dalla qualità della relazione nella quale avviene,
oltre che dagli attributi degli episodi conflittuali, l’eventualità che il conflitto abbia effetti
positivi o negativi: quando il conflitto ha luogo in una relazione positiva, aperta e calorosa,
i suoi effetti non sono negativi.
3. Il conflitto con gli amici
3.1 I gruppi: una definizione
Nella letteratura sui conflitti, il termine “gruppo” viene usato in diversi modi: in senso
generale, esso indica ogni tipo di attore collettivo in un conflitto (Coser, 1956; Deutsch,
1973); nella psicologia sociale è un insieme di persone, le cui relazioni presentano
caratteristiche diverse dalle interazioni interpersonali (R. Fisher, 1990, pp. 59 ss.); infine il
termine può essere impiegato per definire un raggruppamento di individui senza una
struttura interna e senza una finalità collettiva cosciente (Strassoldo, 1979, p. 31), in
contrapposizione quindi alle organizzazioni.
Ogni attore collettivo in un conflitto è composto a sua volta da sottosistemi ed è allo stesso
tempo capace di “nazione unificata” (Deutsch, 1973).
396
3.2 Conflitto e intergruppo
Gli individui decidono di entrare in un gruppo per soddisfare i propri bisogni materiali,
psicologici e relazionali: i membri di un gruppo definiscono la propria identità in misura
maggiore o minore anche secondo tale appartenenza.
La distinzione tra “noi” e “gli altri” e la disposizione a valutare “gli altri” in maniera
negativa compaiono con il conflitto, oppure possono esserne un fattore facilitante.
Secondo R.J. Fisher (1990), la competizione e il conflitto fra gruppi causano regolarmente
una maggiore coesione interna e favoriscono interazioni distruttive fra gruppi. Perché ciò
avvenga, un certo grado di coesione deve però esistere già prima del conflitto: in caso
contrario, il gruppo correrà il rischio di disgregarsi. A sua volta, un gruppo
sufficientemente coeso tende a mostrare un comportamento particolarmente impegnato nei
conflitti.
Il grado di coinvolgimento dei membri (Coser, 1956, p. 108) e di coesione interna (Shaw,
1981) costituiscono caratteri essenziali della natura di un gruppo.
Per quel che riguarda i conflitti all’interno dei gruppi, Coser (1956) ipotizza che, quando
la personalità dei membri è coinvolta completamente, i conflitti interni subiranno
un’escalazione più rapida, sia perché il coinvolgimento emotivo tende a mettere in gioco
forze diverse rispetto al solo calcolo razionale delle opportunità in un conflitto, sia perché
un conflitto intenso intaccherà più facilmente la base di consenso del gruppo.
3.3 Motivazioni ed attribuzioni di responsabilità nelle situazioni conflittuali
Tra i pari, le regole generali su cui si fonda la vita dei gruppi sembrano essere quelle della
solidarietà e della reciprocità.
Le situazioni di pre-conflitto, di conflitto e di disputa evidenziano l’esistenza di molteplici
norme che riportano nelle singole situazioni le regole generali.
Le testimonianze (A.R. Favretto, 2001) riferite alle relazioni tra pari hanno messo in
rilievo che le situazioni di pre-conflitto sono spesso riferite ad aspettative non rispettate,
come se, con gli amici, a differenza di quanto avviene in famiglia e a scuola, sia legittimo
aver paura che l’espressione evidente dell’inquietudine relazionale, espressa per mezzo del
conflitto, o le dispute conducano alla rottura dei rapporti.
Un ipotesi potrebbe essere quella che esprime come i ragazzi percepiscano i legami di
amicizia più fragili, anche se talvolta più importanti, di altri legami. Si tratta di una
fragilità maggiore rispetto a quella manifestata nei rapporti familiari, poiché questi ultimi,
oltre a essere estremamente istituzionalizzati, hanno in sé anche elementi normativi sui
397
quali si fondano le relazioni che riguardano l’affetto reciproco e gli atteggiamenti di cura.
E sono anche legami più fragili rispetto a quelli che si hanno in ambito scolastico con i
professori. Anche in questo caso i rapporti sono fortemente istituzionalizzati, mostrano
aspetti normativi riferiti all’insegnamento, all’apprendimento con profitto e al controllo
del comportamento. Non prevedono, però, l’espressione di atteggiamenti affettivi e di cura
che molti ragazzi dichiarano di desiderare, comportamenti, questi, che non rientrano nei
doveri del ruolo degli insegnanti.
Si potrebbe di conseguenza pensare che siano la minore istituzionalizzazione dei legami
d’amicizia e il loro fondarsi sull’empatia, che introducono elementi di grande variabilità, a
rendere tali legami molto sensibili alle conseguenze della manifestazione del conflitto, con
il rischio sempre presente della rottura delle relazioni.
Frequentemente sono state riferite situazioni di malessere relazionale non espresso
interamente, situazioni relative all’aspettativa dell’esclusività dell’amicizia caratterizzate
da una forte intensità di sentimenti, evidenziate soprattutto dalle ragazze, e situazioni
riferite alla condivisione degli avvenimenti considerati importanti per la vita individuale e
del gruppo, evidenziate da entrambi i generi. Una cosa, inoltre, che mette in grande
difficoltà la continuità dei rapporti è il pettegolezzo.
Si può individuare un’attenzione particolare rivolta alla cura delle relazioni diadiche e
triadiche e allo sviluppo di un grande senso di responsabilità verso tutti quegli atti che
potrebbero far ridurre la qualità e l’intensità affettiva di queste relazioni. Sono le ragazze
che danno maggior risalto alla responsabilità individuale e all’impegno personale nella
riuscita delle relazioni.
Su questo tema sono state riportate numerose situazioni in cui i conflitti a carattere
organizzativo – uscite in gruppo, preparazione di feste, gare sportive – si collocavano
generalmente nell’ambito delle relazioni prodotte dal non essere di parola.
La regola generale della reciprocità relativa a temi di ordine affettivo e sessuale ha assunto
caratteristiche differenti secondo il genere. Ad esempio, alcune ragazze, molto attente alla
qualità dei legami di amicizia e, allo stesso tempo, in competizione dichiarata per ottenere
le attenzioni dei ragazzi, hanno riferito di conflitti nati dai giudizi espressi in merito
all’onorabilità sessuale di alcune coetanee. I ragazzi, invece, riportano con minore
frequenza l’esistenza di tensioni e di conflitti a causa dei rapporti affettivi. Ma anche per il
genere maschile, questi conflitti nascono per forme di competizione considerate scorrette e
per la non osservanza della norma che impone che se una ragazza è già “impegnata”
affettivamente con un amico è sleale nei confronti di quello stesso amico farle la corte.
398
Infine, un motivo di conflitto è rappresentato dall’uso delle droghe.
Per quanto riguarda l’attribuzione della responsabilità dei conflitti si rileva che le tensioni
nell’ambito amicale prevedono spesso un ripensamento delle motivazioni e delle
dinamiche dei conflitti stessi, ed una disponibilità più alta tra le ragazze a collocare
internamente le responsabilità dei disaccordi. Le ragazze, infatti, indicano come
caratteristiche soggettive che favoriscono i conflitti il “brutto carattere”, l’impulsività,
l’ossessività e il desiderio di esclusività nei rapporti; alcune di queste caratteristiche sono
state rilevate, anche con meno frequenza, anche per i disaccordi presenti in ambito
familiare, dove erano presentate come “naturali”, e quindi scarsamente modificabili.
Viceversa, in ambito amicale sono state descritte come modificabili, e in alcuni casi la loro
modificazione è stata indicata come strumento per porre fine ai conflitti e continuare le
relazioni.
3.4 Le situazioni conflittuali: comportamenti e atteggiamenti
L’espressione del conflitto tra pari copre un’ampia gamma di comportamenti che
sembrano sensibili alla variabile di genere più che ad altre.
Il comportamento più diffuso è la discussione: tranquilla o accesa, prolungata o
velocemente placata, volta in scherzo o trasformata in litigio. Le discussioni accese
possono indicare la grande importanza attribuita alle motivazioni del conflitto.
Un’altra modalità per esprimere il conflitto, soprattutto, anche se non unicamente,
femminile, è mostrarsi per qualche tempo contrariati. Il mostrarsi contrariati può anche
rappresentare un modo per controllare la propria impulsività nel conflitto, per agire forme
di autocontrollo.
Una variante è rappresentata dal non rivolgersi la parola per alcuni giorni, praticata
soprattutto dai ragazzi più giovani.
Alcuni ragazzi hanno sviluppato la consapevolezza che è possibile agire il conflitto anche
attraverso lo scherzo e che per mezzo della “presa in giro” si ottengono alcuni importanti
risultati dal punto di vista relazionale.
Tuttavia è bene ricordare che l’ironia e lo scherzo sono pratiche ambivalenti: si possono
utilizzare per abbassare il livello di conflittualità, ma possono anche essere inserite, e
mascherate, in una cornice relazionale che esprime messaggi aggressivi e conflittuali (G.
Bateson, 1956).
Anche i sentimenti che si provano nel corso dei conflitti rivestono un’ampia gamma: dalla
frustrazione alla rabbia, dalla rivalsa al senso di colpa.
399
Anche i gruppi, e non soltanto i singoli, possono non tollerare il conflitto: per questo
esistono anche nel gruppo drastiche prevenzioni, come l’espulsione dal gruppo. In questo
caso la sanzione applicata a chi si manifesta particolarmente conflittuale e non accetta le
regole del gruppo viene decisa con lo scopo di prevenire futuri conflitti che, mettendo in
discussione le regole, rischiano di minare le fondamenta del gruppo.
3.5 Il trattamento dei conflitti ed i comportamenti successivi
Come già ricordato in precedenza, l’appartenenza all’ambito amicale è caratterizzata in
larga misura dalla volontarietà; di conseguenza le previsioni in merito alla continuazione o
alla rottura dei legami dipendono per gran parte dalla volontà e dall’interesse dei singoli.
Si tratta inoltre di legami semplici ed informali che prevedono, almeno all’inizio, uno
scarso differenziale di potere esplicitamente riconosciuto.
Le modalità di trattamento dei conflitti più frequentemente presenti in quest’ambito sono
la coercizione, l’evitamento, la mediazione, l’arbitrato e la negoziazione.
La coercizione è presente in modo più pronunciato tra i ragazzi più giovani, e si esprime
attraverso il litigio e le urla. Questo modo di trattare il conflitto è cruciale, poiché conduce
o alla rottura dei rapporti, oppure ad altre forme di trattamento, più utili per la loro
continuazione. Si tratta, dunque, di situazioni conflittuali estremamente fluide e flessibili,
in grado di trasformarsi nel volgere di breve tempo. La coercizione che conduce alla fine
dei rapporti si esprime spesso con l’isolamento o l’espulsione dal gruppo dei membri non
graditi.
La fluidità risponde all’esigenza di trattare il conflitto in modo diverso, secondo le
differenti situazioni che si succedono durante la stessa interazione conflittuale.
L’evitamento può sopraggiungere quando i soggetti intuiscono che la negoziazione attivata
in precedenza non ha dato i risultati sperati.
Il gruppo di amici è, per eccellenza, l’ambito in cui si apprende, attraverso la pratica
costante, la negoziazione. La negoziazione può attivarsi attraverso molteplici forme: a
partire dalla richiesta di tradimenti, dal presentare le proprie scuse, dall’invito esplicito o
implicito a ragionare con calma, dal dimostrare la propria disponibilità a recedere dalla
propria posizione. Le infinite opportunità offerte dalle interazioni amicali dalla pratica
della negoziazione rendono l’ambito amicale una vera e propria palestra per
l’apprendimento dell’arte della composizione dei conflitti.
L’intervento dei pari assume frequentemente le forme della mediazione e dell’arbitrato.
400
Il ricorso all’intervento degli adulti in qualità di mediatori o di arbitri è scarso, e si limita a
quello sollecitato presso gli educatori da parte degli appartenenti a gruppi amicali che si
formano nelle istituzioni come, ad esempio, le società sportive.
In sintesi, il trattamento dei conflitti in ambito amicale ha un andamento fluido, adattabile
allo svolgersi delle singole situazioni, e sembra essere influenzato dalla volontà o meno di
continuare il rapporto di amicizia.
Non sembra che la disparità di potere all’interno dei gruppi sia percepita dai ragazzi come
fattore in grado di determinare l’andamento dei conflitti. I riferimenti costanti alle pratiche
di negoziazione, insieme al ricorso limitato all’intervento degli adulti, indicano quanto sia
valorizzante per la composizione del tessuto normativo degli adolescenti trattare i conflitti
in ambito amicale, ambito nel quale le modalità possono essere scelte più liberamente, sia
in funzione della maggiore autonomia di scelta per la continuazione o la rottura dei
rapporti, sia in funzione di un assetto di potere percepito come maggiormente paritario, e
quindi in grado di garantire possibilità di intervento più pronunciate e proficue per la
modificazione delle situazioni e delle relazioni.
4. Il conflitto a scuola
4.1 Motivazioni ed attribuzioni di responsabilità nelle situazioni conflittuali
Anche per l’ambito scolastico, di solito le situazioni conflittuali sono riconducibili a
questioni di ordine normativo, e si differenziano a seconda che gli attori implicati siano
altri studenti o professori. I conflitti si differenziano anche in base al fatto che siano
provocati dalla disobbedienza alle norme manifestata dagli studenti o dagli insegnanti. Si
nota, perciò, l’esistenza di due livelli relazionali importanti nella vita scolastica:
- il livello delle relazioni con gli adulti, che è più formalizzato
- il livello delle relazioni con i compagni, distinte da una scarsa formalizzazione.
Per quanto riguarda i rapporti con i compagni, secondo A.R. Favretto (2001), le
motivazioni al conflitto si possono riferire ai modelli normativi presenti nei gruppi dei
pari. La mancanza di solidarietà mostrata dai compagni può dare origine a conflitti ripetuti
e protratti nel tempo. Altre volte è la competizione per i voti che introduce la riuscita
individuale come valore di riferimento e il corrispondente comportamento strumentale,
cioè rendersi visibili positivamente agli occhi del docente a discapito dei compagni. Sono
questi, in ogni caso, comportamenti che vanno contro i principi di solidarietà richiesti dal
gruppo.
401
Per quanto riguarda il rapporto con gli adulti, invece, secondo la ricercatrice, le
motivazioni più frequentemente addotte come causa di conflitti sono riferite,
generalmente, al profitto. Un’altra abituale situazione di crisi che coinvolge allievi e
professori si riferisce alla mancanza di rispetto che alcuni insegnanti hanno nei confronti
degli studenti. Un’ultima fonte di conflitto spesso riportata dai soggetti della ricerca, si
basa sull’inosservanza, da parte dei professori, delle norme che riguardano l’oggettività
del giudizio e l’adozione di criteri di valutazione uniformi.
4.2 Le situazioni conflittuali: comportamenti e atteggiamenti
Secondo A. Favretto, anche nella scuola le modalità di espressione del conflitto sono
sensibili alla variabile dell’età.
Nei rapporti con i docenti, i ragazzi più giovani privilegiano i comportamenti del tipo
“lasciar correre”, anche se sono comunque presenti le espressioni di conflitto.
I ragazzi più grandi, viceversa, preferiscono la discussione e, soprattutto, la diplomazia.
Lo stesso vale per i rapporti con i compagni, dove le modalità di comportamento nelle
situazioni conflittuali variano soprattutto in base all’età.
In caso di contrasto i più giovani hanno la tendenza a litigare in misura maggiore rispetto
ai ragazzi più adulti. I maschi, in particolare, a volte, manifestano comportamenti così
palesemente conflittuali da richiamare l’attenzione e l’intervento dei professori.
Ma anche tra i ragazzi più giovani sono diffusi comportamenti che hanno lo scopo di
evitare il manifestarsi del conflitto. Questi comportamenti si riferiscono di solito allo
stadio pre-conflittuale.
I ragazzi più grandi affrontano in maniera più consapevole le diverse modalità di
espressione del conflitto. In particolare, sono diffusi i comportamenti che si differenziano
a seconda che il disaccordo nasca con gli amici o verso i compagni per i quali non si prova
simpatia: con i primi si discute, con i secondi si tenta di evitare il litigio, oppure si litiga
soltanto in casi particolari.
Esiste anche a scuola una tendenza che si ritrova nel gruppo dei pari, cioè la tendenza a
manifestare il conflitto nelle relazioni con persone con cui si vuole continuare a mantenere
un rapporto; viceversa, si tende a evitare il conflitto, o a portarlo alle estreme conseguenze,
con i ragazzi con i quali non si ha l’intenzione di continuare la relazione, o con quelli con i
quali il legame è già debole.
402
4.3 Il trattamento dei conflitti ed i comportamenti successivi
Il trattamento delle situazioni conflittuali che vedono coinvolti i ragazzi con i professori, è
solitamente l’evitamento. Sia i ragazzi più giovani che quelli più adulti sanno bene che la
sproporzione di potere è tale da ritenere più prudente non creare situazioni conflittuali,
oppure, nel caso in cui queste siano inevitabili, è meglio uscirne il prima possibile.
Un’altra modalità ricorrente è la sopportazione, che diviene evidente con la repressione
della rabbia e i commenti malevoli nei confronti degli insegnanti.
La negoziazione, invece, è praticata soprattutto dai ragazzi più grandi, ed in particolare
dalle ragazze. Assume una forma che viene chiamata diplomazia: sono sia comportamenti
individuali che di gruppo e, generalmente, serve per raggiungere obiettivi concreti come,
per esempio, un modo diverso per organizzare le interrogazioni.
Per quanto riguarda il comportamento dei professori, la ricerca mostra che questi ricorrono
spesso alla coercizione. Questa è rivelata dall’uso di comportamenti bruschi, di un tono di
voce elevato, talvolta da apprezzamenti poco lusinghieri nei confronti degli allievi.
Tuttavia, anche i ragazzi tendono fare ricorso a questo tipo di comportamento, e anche in
questi casi si ritrovano l’alzare la voce e il dare risposte maleducate. Si tratta di
comportamenti individuali o che comunque coinvolgono un numero ristretto di persone.
Ma è ragionevole pensare che esistano, come in tutti i gruppi di pari, delle forme di
coercizione verso l’esterno che prendono consistenza e importanza a partire dalla forza
relazionale dei gruppi stessi.
Molto frequente è l’intervento dei compagni nelle situazioni conflittuali e quando avviene
assume forme indirette. Solitamente, il consiglio che viene dato più frequentemente dai
compagni è riferito alle pratiche di evitamento, al lasciar perdere. Un consiglio simile
arriva dai genitori.
L’evitamento, dunque, è incoraggiato in base all’idea che un atteggiamento prudente sia il
più adeguato per trattare con i professori.
Soprattutto tra i ragazzi più giovani, quando la coercizione prende la forma di scontro
fisico o verbale troppo acceso, l’intervento mediatore degli insegnanti è decisivo.
Come nelle relazioni con i professori, anche con i compagni sono in particolare i ragazzi
più adulti che manifestano capacità di negoziazione. Nel caso questa non si rivelasse
attuabile, i conflitti si aggraverebbero e sarebbero trattati con l’evitamento o con tentativi
di coercizione.
L’evitamento è messo in atto soprattutto dalle ragazze, in seguito a una negoziazione
fallita: in questi casi, spesso segue la sospensione parziale o totale delle relazioni.
403
La scelta della modalità con cui affrontare il conflitto, molto spesso, è connessa alla
prospettiva di continuare o sospendere la relazione, sia per volontà propria, sia per cause
oggettive come la fine del percorso di studi. Questo avviene soprattutto fra i ragazzi più
adulti, che si dimostrano più abili ed esperti nelle situazioni conflittuali.
In ambito scolastico, quindi, la previsione di continuità della relazione e la valutazione
della differenza di potere fra gli attori, emergono come elementi fondamentali nel
fronteggiare le situazioni di conflitto e nel decidere come condurle.
5. Note conclusive
Le situazioni conflittuali sono soggette a stasi e a rapidi mutamenti e sono sensibili sia a
variabili individuali, come il genere e l’età, sia a variabili strutturali, come lo stato delle
relazioni tra i confliggenti.
Per l’espressione ed il trattamento dei conflitti fondamentale è la percezione soggettiva
delle caratteristiche delle relazioni, ad esempio l’obbligatorietà o i gradi di libertà presenti,
e la volontà e l’opportunità se continuarle o troncarle.
Partecipare a una situazione di conflitto non significa solo esprimere la propria
frustrazione, ma significa anche conoscere e controllare in modo sempre più attento ed
efficace i propri e gli altrui comportamenti e reazioni, ed utilizzare in modo appropriato le
forme di manifestazione e di trattamento dei conflitti socialmente condivisi.
Ad un’età meno elevata, corrisponde una maggiore tendenza ad utilizzare, in situazioni di
conflitti, pratiche di trattamento che possono assumere forme semplici e poco raffinate dal
punto di vista relazionale, come l’evitamento e la coercizione. Ad un’età più adulta,
invece, corrisponde una maggiore esperienza, che permette di ampliare il proprio
repertorio aggiungendo pratiche come la negoziazione in situazioni conflittuali che
presentano elevati differenziali di potere, oppure accettare la mediazione e l’arbitrato dei
pari o addirittura proporsi come mediatori o arbitri.
La variabile di genere appare importante, soprattutto per la motivazione ai conflitti.
Le ragazze sono più attente agli aspetti affettivi delle relazioni e agli aspetti di
responsabilità personale e di ruolo; sono quindi più inclini a scatenare conflitti per motivi
di apparenza e di qualità relazionale. Inoltre, si dimostrano più abili e disponibili dei
coetanei maschi a negoziare con gli adulti, soprattutto con i docenti, in modo da ottenere
gli obiettivi prefissati senza rovinare la qualità dei rapporti.
Sperimentare situazioni conflittuali, dunque, permette prima di tutto di conoscere le
richieste normative presenti nel quotidiano e di verificare la loro resistenza e la possibilità
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di una loro trasformazione; permette inoltre di allargare il tessuto normativo individuale
per mezzo della conoscenza e l’utilizzo adeguato delle varie modalità di espressione e di
trattamento dei conflitti. Permette, in altre parole, di compiere con sempre maggiore
consapevolezza ed abilità le proprie scelte normative e relazionali.