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“Che cosa è il lavoro, per te?” DAL CATALOGO DELLA MOSTRA
LAVORO/LAVORI.
ATTIVITA’ IMPIEGO MESTIERE PROFESSIONE FATICA IMPEGNO
Fotografie di Uliano Lucas
Bergamo, Il filo di Arianna, 2000
Promossa dalla Biblioteca “Di Vittorio” e dall’Isrec Bg1
Il rapporto tra fotografia e lavoratori è sempre stato molto stretto, anche se per diverso tempo –
fino almeno alla diffusione della macchina fotografica non solo ai livelli sociali più alti – è stato
mediato dalla committenza. La scarsa presenza sui giornali operai, almeno fino alla prima guerra
mondiale, del documento fotografico come denuncia sociale deriva da varie cause, tecniche in
primo luogo, ma anche di ordine "psicologico". Come ha già avuto modo di ricordare Paolo
Spriano, "esiste una coscienza professionale per la quale le stesse categorie che più si danno
un'organizzazione di resistenza sindacale, dai tipografi ai ferrovieri, dai metallurgici agli edili,
hanno vivissimo l'orgoglio della propria qualificazione di mestiere […], a dare di sé un'immagine
proba, se non piccolo-borghese almeno di estrema dignità di aspetto esteriore". I lavoratori, cioè,
per interi decenni si servono della fotografia solo nel momento in cui sono “classe” e rivendicano
la loro appartenenza di genere, per cui le immagini più frequenti si riferiscono ai congressi delle
organizzazioni operaie o del partito socialista, alla celebrazione del 1° maggio o ad alcuni scioperi
esemplari. Deve essere chiaro che queste fotografie non danno una immagine compiuto della vita
dei lavoratori, dentro e fuori la fabbrica.
Così, il lavoro – come luogo fisico e come soggetto unificante e qualificante un’intera categoria di
persone – o è sottinteso, con l’esibizione davanti all’obiettivo dello strumento con cui si opera,
oppure appare solo quando a commissionare la fotografia sono i padroni (che spesso poi
1 Il volume presenta le fotografie e i testi esposti in occasione della mostra Lavoro/lavori. Attività impiego professione mestiere fatica impegno. Fotografie di Uliano Lucas, inaugurata al Teatro sociale di Bergamo il 20 aprile 1999, con il patrocinio dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo.
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preferiranno riprendere l’interno delle fabbriche, i macchinari e, soprattutto, i prodotti finiti senza
la “poco estetica” presenza di chi occupa quotidianamente quegli spazi).
Eppure la grande potenzialità del nuovo mezzo appare subito chiara anche agli organizzatori
sindacali, che ne apprezzano la facilità di riproduzione a basso costo e quindi lai capacità di
comunicazione, perché il linguaggio visivo permette di superare – almeno apparentemente – i
forti vincoli della lingua scritta.
Non è qui il caso di ripercorrere le pagine illuminanti di Accornero, Sapelli, Quintavalle, Bigazzi e
Borzani (solo per citarne alcuni) sul valore della fotografia come importante fonte per studiare il
lavoro e il movimento operaio, ma non appare fuori luogo ricordare che la Cgil nazionale affidò
proprio ad uno dei maggiori studiosi della fotografia, Ando Gilardi, il settore iconografico del
nuovo settimanale “Lavoro”, che uscì, pur con alterne vicende, dal 1948 fino ai primi anni
Sessanta.
L’idea di questa mostra di Lucas - uno dei maggiori reporter italiani, che ha sempre avuto
un’attenzione particolarissima verso i lavoratori e il movimento sindacale - nasce da un percorso
di ricerca sulla memoria del lavoro che ha preso l’avvio con una mostra fotografica, allestita nel
1988 sempre dalla Biblioteca “Di Vittorio” e dall’Istituto bergamasco per la storia della
Resistenza e dell’età contemporanea, intitolata Uomini macchine lavoro. Il lavoro dei bergamaschi dalla
fine Ottocento agli anni Cinquanta, a cui ha fatto seguito, nel 1994 (sempre utilizzando le fotografie
raccolte principalmente negli archivi familiari), Il pane degli altri. Emigrati e immigrati nella provincia di
Bergamo dalla fine Ottocento ai giorni nostri, dedicata all’analisi del lavoro svolto fuori dalla propria
terra d’origine La presentazione di queste ricerche in numerosissime e diverse realtà, avvicinando
un numero elevato di studenti, la contemporanea raccolta delle storie di vita dei vecchi militanti
della Cgil, la pubblicazione di contributi alla storia del sindacalismo bergamasco e la preparazione
di dossier didattici: tutto questo, da un lato ci ha offerto un positivo riscontro rispetto alla
possibilità di recuperare e trasmettere almeno i segni del lavoro, come è stato fino a qualche
decennio fa; dall’altro ha evidenziato lo scarto che ormai esiste tra il lavoro di oggi (meglio
sarebbe dire “i lavori”) e la sua capacità di rappresentarsi.
Già dalla metà degli anni Sessanta era apparso chiaro che per continuare a rappresentare il
lavoro (espressione che ha due sensi, che legano già dal punto di vista della parola l’impegno del
sindacato confederale con l’attività di Uliano Lucas) non bastava un’immagine di qualità
tecnicamente accettabile: ci voleva un fotografo che da pur bravissimo operatore riuscisse a
cambiare il proprio ruolo sociale; un intellettuale, che, alla luce di un impegno civile preciso,
utilizzasse nelle sue opere uno sguardo politico. Lucas, con (pochi) altri appartiene a questo
gruppo.
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Ma i nostri giorni vivono un nuovo cambiamento e ci viene richiesto un ulteriore sforzo
di immaginazione: saltano i termini generali di definizione del lavoro e per questo concetto – di
cui, non a caso, il titolo di questa mostra riporta una lunga serie di sinonimi: attività, impiego,
mestiere, professione, fatica, impegno… - non esiste più un’immagine-simbolo che lo richiami
immediatamente.
Insomma, con un esempio banalissimo, se pensiamo al lavoro degli operai della Dalmine,
probabilmente solo pochissimi, al di fuori degli addetti, sanno che è svolto quasi completamente
a videoterminale.
Bisogna compiere un nuovo ragionamento rispetto al lavoro, al di là delle crisi millenaristiche di
chi ne prevede la sempre più vicina fine, studiando e sperimentando ruoli, tempi e orari,
qualifiche e formazione, estendendo i diritti e la solidarietà: un dibattito già in corso, ma che
diventa ogni giorno più importante e non più rimandabile, nella Cgil, nel sindacato e tra gli
imprenditori, certo, ma anche tra gli operatori scolastici e in tutta la società. Anche la fotografia,
da “strumento di lotta politica e di critica civile dall’interno”, diventa occasione di analisi,
documento per conoscere, per vedere, primo passo del capire.
L’incontro con Uliano Lucas è stato illuminante in questo percorso: abbiamo potuto vedere una
straordinaria serie di immagini in cui lui racconta l’Italia del lavoro - dagli stabilimenti
completamente automatizzati dell’estremo Nordest e dell’industria della ceramica del modenese,
dalla Dalmine alle cave di ardesia dell’alta Val Brembana, al mercatini rionali del meridione,
passando per gli autogrill, gli artigiani dell’Italia centrale e la fatica del lavoro agricolo, i laboratori
dell’Istituto Mario Negri, le nuove professioni nel campo dei servizi, la moda, ma anche i
venditori ambulanti africani e gli artisti di strada.
Sono fotografie esemplari. E qui l’aggettivo non ha un valore estetico o artistico, si
riferisce piuttosto alla forza espressiva che comunicano: nella molteplicità delle mansioni, nella
varietà geografica dei luoghi ripresi, soggetto assoluto delle immagini sono gli uomini e le donne
che lavorano. Sembra una puntualizzazione ovvia, quasi banale, ma dietro la quale sta la scelta
politica, militante si sarebbe detto una volta, quasi controcorrente nella sua coerenza che quando
si parla di lavoro, è sempre da chi lo compie, da chi “fa fatica” che bisogna partire. Pare quasi un
ritorno a quei "pellegrini del sole" (W. Settimelli), a quei fotografi ambulanti che inventarono, tra
fine Ottocento e inizio Novecento, il realismo sociale.
Proprio l’efficacia di questa testimonianza ci ha spinto a tentare, se pure con tempi
ristrettissimi, di raccogliere impressioni e considerazioni da chi sta riflettendo da tempo su questi
temi, ma anche da persone che sono impegnate, prima ancora che politicamente, nella battaglia
civile e sociale che richiede il vivere con completezza il nostro tempo. Quello che abbiamo
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ricevuto è pubblicato nelle pagine che seguono, insieme ad alcuni testi raccolti direttamente tra
alcuni lavoratori: ci sembra che il risultato sia un’interessante antologia di pareri, una galleria di
definizioni attente e mai banali.
A tutti un ringraziamento particolare. Un ringraziamento va anche alle tante persone che, non
potendo accettare la nostra proposta, hanno comunque risposto con gentilezza, riaffermando
stima per Uliano Lucas e apprezzamenti per l’iniziativa: permetteteci di ricordarli, in un ordine
assolutamente casuale: Nilde Jotti, Mario Rigoni Stern, Laura Balbo, Antonio Tabucchi,
Giovanna Ginex, Giulio Sapelli, Norberto Bobbio, Antonio Bassolino, Carlo Maria Martini,
Massimo Cacciari, Francesco Rosi, Carla Fracci e Pietro Ingrao.
Angelo Bendotti, direttore dell'Isrec Bg, e Eugenia Valtulina, responsabile della Biblioteca "Di Vittorio" Cgil
Bergamo
Testi di:
1. Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil
2. Giovanni Agnelli, presidente onorario della Fiat
3. Giovanni Barbieri, segretario della Cgil di Bergamo
4. Gad Lerner, giornalista
5. Maria Grazia Meriggi, storica
6. Marcello Cini, scienziato
7. Pino Ferraris, sociologo
8. Vittorio Valli, economista
9. Aris Accornero, sociologo
10. Mekdese Mariam Tewedros, impiegata in un’azienda metalmeccanica
11. Riccardo Bellofiore, economista
12. Francesco Rutelli, sindaco di Roma
13. Alessandro Natta, ex segretario del Partito comunista italiano
14. Adriano Visintin, operaio metalmeccanico
15. Giulio Pirola, operaio metalmeccanico
16. Pietro Bandassari, operaio metalmeccanico
17. Giuseppe De Rita, presidente del Cnel
18. Guido D’Agostino, assessore alla cultura di Napoli
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19. Gennaro Palazzo, operaio metalmeccanico
20. Elisa Cavagna, addetta mensa
21. Carlo Donadoni, operaio metalmeccanico
22. Adam Smith (“che aveva già capito tutto due secoli fa”) ricordato dall’economista
Giorgio Lunghini
23. Ivan Della Mea, presidente dell’Istituto Ernesto De Martino
24. Francesco Indovina,
25. Antonio Pizzinato, senatore
26. Bruno Cartosio, storico
27. Guido Chiesa, regista
28. Roberto Carminati, operaio metalmeccanico
29. Elisa Martinelli, operaia metalmeccanica
30. Cristina Belotti, operaia tessile
31. Mario Agostinelli, segretario generale della Cgil Lombardia
32. Francesco Garibaldo, direttore dell’Istituto per il lavoro di Bologna
33. Gueye Amadou, operaio tessile
34. Claudio Sabattini, segretario generale della Fiom Cgil
35. Adolfo Pepe, storico
36. Bruno Invernici, operaio alimentarista
37. Mario Fojadelli, magazziniere.
38. Margherita Hack, astronoma
Spesso, durante le celebrazioni che accompagnano le ricorrenze della Cgil, vengono
organizzate mostre fotografiche con materiale tratto dagli archivi. Ebbene, è curioso notare come
le fotografie documentino una progressiva rimozione del tema del lavoro.
Fino alla prima guerra mondiale, quasi ovunque viene rappresentata soprattutto l’attività
lavorativa delle persone: il luogo di lavoro, i piazzali, i capannoni con le macchine in funzione, i
lavoratori “dai campi e dalle officine”. Anche nelle foto che ritraggono gli scioperi o,
semplicemente, i momenti di festa, con tutti gli operai che indossano gli abiti buoni e la catena
dell’orologio che spunta dal taschino, al centro dell’obiettivo è sempre il luogo di lavoro, quasi a
testimoniare un bisogno di riconoscimento collettivo e, nello stesso tempo, il senso di
appartenenza a una classe sociale e a una coscienza politica e sindacale. Poi, tra le due guerre,
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negli anni della repressione fascista, c’è una comprensibile censura, perché sono altri i luoghi che
connotano l’identità collettiva.
Dal 1945 in poi, la gran parte delle fotografie degli archivi sindacali ritrae cortei, con gente
in festa, fiori e lunghe file di bambini, che si tengono per mano. Le foto mostrano soltanto
iniziative sindacali: cortei, scioperi, comizi. Ricompaiono gli abiti del lavoro, soprattutto le tute,
ma non si vede mai, o quasi mai, il luogo di lavoro, la fabbrica.
Certo, il motivo principale di tale rimozione è costituito dal fatto che negli anni Sessanta e
Settanta il luogo di lavoro era diventato soprattutto la sede di uno scontro sociale molto aspro,
tanto che le fabbriche erano diventate praticamente inagibili per gli esterni. Ma non credo si tratto
solo di questo.
Negli ultimi anni, infine, spariscono anche le piazze e i luoghi aperti, e la maggior parte
delle fotografie documenta iniziative sindacali in teatri e sale cinematografiche: grandi palchi della
presidenza, striscioni, slogan, persone che parlano al microfono e facce di dirigenti sindacali che
ascoltano. Come se ormai non ci fosse più alcuna necessità di osservare e studiare il lavoro, come
se si sapesse già tutto ciò che bisogna sapere, definitivamente.
A mio parere dobbiamo non tanto riaffermare l’importanza fondamentale del lavoro
professionalmente ricco, ma deve anche essere sfatata l’opinione, diventata quasi luogo comune
tanto diffuso quanto falso che l’attività lavorativa umana sia ormai inutile o residuale rispetto a
quella svolta dalle macchine e dalle nuove tecnologie.
Stiamo assistendo invece a una profonda trasformazione del lavoro, dei suoi contenuti e
delle forme e dei modi in cui è organizzato, determinata dallo sviluppo delle tecnologie
informatiche, ma anche da un cambiamento avvenuto nella società e nel rapporto tra società,
mercato e individui. Un cambiamento sia della quantità e qualità sia dei contenuti del lavoro
necessario, della sua organizzazione, dell’immagine che hanno di sé i lavoratori e di quella che ne
hanno i molti – troppi – che non lavorano.
Un cambiamento così radicale di abitudini e idee da richiedere uno straordinario sforzo di lettura
anche da parte della sinistra, con la sensibilità che ha sempre dimostrato per il mondo del lavoro,
ma con la modestia di chi sa di doversi dotare di strumenti interpretativi completamente diversi.
L’occhio di Uliano Lucas registra con grande precisione e sensibilità il lavoro di oggi e,
dunque, mostra implicitamente lo scarto con il passato. Lucas lo ha fatto, da apprezzabile
testimone del suo tempo, anche per Genova in tempi recenti, mostrandoci una città nella quale i
grandi insediamenti e le figure storiche dei camalli e degli operai sono sostituite da forme e
soggetti del lavoro assolutamente impensabili solo pochi anni.
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Anche per questo una mostra come questa organizzata dalla Biblioteca “Di Vittorio” della CGIL
di Bergamo e dall’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, può
essere più efficace di molti dibattiti.
Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil
Il lavoro è quella fondamentale dimensione dell’agire umano con la quale ogni
persona esprime la sua intelligenza, le sue conoscenze, la sua capacità di iniziativa e la
sua creatività nel soddisfare, da sola o con altri, i bisogni propri e altrui.
Non a caso nelle società in cui più forte è il riconoscimento del lavoro come valore
etico, sociale e civile e come occasione di promozione civile, lì è anche più radicata
l’idea di libertà degli individui, più tenace è la pianta della democrazia, più
determinato è il cammino verso la riduzione delle iniquità e verso il miglioramento
del benessere generale.
Giovanni Agnelli, presidente onorario della Fiat
Da sindacalista che opera da qualche lustro in un territorio “a vocazione industriale”, a contatto
diretto con il mondo del lavoro in continua variazione ed in rapporto con lavoratori che hanno,
in molti casi, vissuto sulla loro pelle i rapidi cambiamenti imposti dalle dure leggi del mercato,
guardo alla mostra di Uliano Lucas non solo come al tentativo di documentare per immagini il
lavoro degli uomini, ma soprattutto vedo in questo sforzo la voglia di descrivere e raccontare
pezzi di vita che riguardano moltissime persone della nostra epoca, impegnate in attività non
sempre gratificanti eppure così necessarie e importanti per loro stesse oltre che per l’intera
comunità.
Di fronte alle fotografie di Lucas, provo emozioni molto simili a quelle che mi assalivano quando,
piccolo piccolo, seduto in terra in mezzo a molti cugini, ascoltavo il mio baffuto nonno mugnaio
raccontare fantastiche storie o episodi di vita vissuta, che quasi sempre facevano riferimento al
suo lavoro.
In queste occasioni l’ho sentito parlare del suo mestiere, quasi privilegiato rispetto a quello molto
più duro e ingrato dei contadini e dei braccianti presso i quali si recava per prelevare il grano e
per riportare il macinato. Erano racconti che avevano il probabile scopo di rafforzare i vincoli
familiari, tenendo viva la memoria del nostro diretto passato, ma anche – ho riflettuto poi – di
farci conoscere le condizioni presenti e l’ambiente sociale nel quale saremmo cresciuti.
Le sue parole, in un dialetto ormai smesso, mi hanno insegnato di un mondo, quello contadino
della pianura lombarda degli anni Cinquanta – che stava rapidamente cambiando, incalzato dai
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prepotenti effetti dell’industrializzazione che l’avrebbe poi completamente annullato nel giro di
pochi anni, azzerando, con le forme più brutte di sfruttamento e miseria che lo segnavano
indelebilmente, importanti pezzi di una cultura vecchia di secoli.
Può apparire incongruente accostare i miei ricordi personali all’importante lavoro di Lucas. Ma
sono convinto che non ci siano vie privilegiate per raccontare quel che eravamo e per cercare di
capire chi siamo oggi; fondamentale (quasi un dovere per un’organizzazione come la Cgil) è
produrre o comunque favorire occasioni culturali di rilevantissima importanza, che offrano
elementi di conoscenza a tutti coloro che si interrogano sui processi in atto nel mondo del lavoro
e sulle trasformazioni sociali.
La voglia di fermare nella nostra mente e di comunicare con parole, scritti, disegni, incisioni o
immagini non solo le cose viste, ma anche i fatti vissuti, i sentimenti provati, credo che gli uomini
l’abbiano sempre sentita, in tutti i periodi. Mi pare di poter dire che questa voglia è tanto più
forte, quando si è in presenza di profondi cambiamenti e si ha la sensazione di trovarsi davanti ad
una sorta di immenso buco nero, la cui forza di gravità attrae e fa sparire molte delle cose
materiali e immateriali che hanno accompagnato e segnato il vissuto dei singoli e della comunità.
Poter intervenire per evitare che questo fenomeno “divori “ la memoria collettiva e la
nostra stessa identità è un’esigenza impellente di ordine culturale e al contempo un obbligo
sociale: mi sembra che questo sia l’intento che ha portato la Biblioteca “Di Vittorio della Cgil di
Bergamo e l’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea – che
hanno per scopo proprio quello di cercare di impedire la dispersione della memoria del nostro
passato –a sostenere questa iniziativa, perché le fotografie di Uliano Lucas ci aiutano a capire
meglio il presente, segnato da tante inedite novità che riguardano il mondo del lavoro e i tanti
lavori, nuovi o uguali da secoli, che lo compongono.
Giovanni Barbieri, segretario della Cgil di Bergamo
Sfogliando e selezionando le fotografie per questa mostra sulle mille sfaccettature del lavoro oggi
in Italia, è capitato a me e a Uliano Lucas di restare bloccati da un dubbio. Quale scegliere fra i
due operai alle prese con la carne che mangiamo tutti i giorni (già, ci sono anche i fabbricatori di
carne)? L’anziano operatore dei mercati generali di Milano che in un gioco di chiaroscuri appare
quasi oppresso dalla mole di quarti bovini allineati da movimentare? O il macellatore di bovini
colto nell’atto di scuoiare col suo coltellaccio la bestia appena uccisa, senza che nel suo gesto
possa leggersi violenza alcuna, bensì la pazienza di una complessa, misconosciuta professionalità?
Insomma, chiedevo a Uliano: Vuoi mostrare la fatica fisica, oppure l’amore per il proprio lavoro?
Su di un simile dilemma, una volta, a sinistra si sarebbe potuto impostare addirittura un dibattito
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teorico: all’interno del modo di produzione capitalistico, sono l’alienazione e la subalternità della
prestazione salariata che vanno enfatizzate? Non invece il sapere incorporato e compresso nella
stessa prestazione manuale, da liberarsi come naturale dispiegamento e sviluppo delle forze
produttive? Tale è la contraddizione implicita nelle fotografie di quelle povere mucche, e degli
uomini che le lavorano. Sicché alla fine abbiamo creduto giusto esibirle entrambe. Da uno che si
chiama Uliano ci si aspetta per forza l’omaggio alla Classe. Al nucleo d’acciaio che paralizzando o
animando l’universo metallico della fabbrica può determinare i cicli di funzionamento del
Sistema. Di più, aggregare attorno alla propria centralità produttiva e culturale l’insieme dei
soggetti subalterni, rispetto ai quali esercita un’indiscussa funzione di guida. Poiché solo
attraverso la sua dittatura e quindi la sua liberazione potrà darsi (in seguito, chissà quando) la
liberazione dell’umanità intera. Ma con queste fotografie diverse Uliano Lucas – che pure di
operai di fabbrica ne ha ritratti e continua a ritrarne molti – tradisce felicemente le aspettative di
suo padre, il capo partigiano Giorgio, che con quella specie di marchio indelebile rappresentato
da un nome inusuale voleva rendere omaggio a Vladimir Ilic Uljanov, detto “Lenin”.
Parlare al plurale, sostituire a “Classe” “operai”, a “Lavoro” “lavori” (cancellando le maiuscole
della retorica e dell’iconografia), non rappresenta una perdita per la sinistra, né la semplice
ammissione della sconfitta operaia che reca in Italia la data simbolo dell’autunno 1980, quando si
infranse la resistenza di Mirafiori. Al contrario, queste fotografie ci narrano una complessità che è
sì frantumazione ma che è pure arricchimento. Che comunque “è”, e come tale va riconosciuta.
Perché il moltiplicarsi delle diversità all’interno del mondo del lavoro dipendente, se da un alto
rende improponibile l’illusione di una nuova cultura unificante come quella del movimento
operaio di cui Uliano e tanti di noi ci sentiamo figli, dall’altro non annulla la possibilità che
nuovamente tornino a manifestarsi inedite forme di solidarietà collettiva, questa volta tra soggetti
diversi poco propensi a farsi omologare da una comune identità. Certo, è più difficile, come
sempre il nuovo, ma che senso avrebbe star fermi ad aspettare, illudendosi che riaffiori prima o
poi la vecchia talpa? Spaziamo, dunque, grazie alle immagini di attività troppo spesso rimosse,
date per scontate, sminuite, entro questa diversità che come un caleidoscopio ci appaiono prive di
un baricentro. E che però non sono puri frammenti, privi di filo conduttore.
Resta, com’è doveroso, il bambino cameriere a Palermo, simbolo di un lavoro minorile che al Sud
non accenna a scomparire. Restano le catene di montaggio della Fiat dove i robot non hanno
modificato più che tanto l’organizzazione tayloristica del lavoro, e le sue presse che ancora non
hanno risolto il problema del frastuono, anche se adesso magari è più facile incontrarvi una
donna operaia.
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Tutt’altro che desueta appare l’immagine del vecchio dipendente della Berco, simbolo di una
classe operaia anagraficamente invecchiata in officina e spaccata al proprio interno fra chi ce l’ha
fatta sudando doppio con il proprio lavoro e con la moglie anch’essa a servizio, e chi è invece
ancora costretto a mantenere la famiglia con il solo reddito di fabbrica (ma sarà proprietario di
appartamento, o dovrà pure pagare l’affitto?). Accanto ad esse, ecco le nuove immagini che
testimoniano di una moltiplicazione dei lavori più duri e subalterni così funzionali all’opulenza
della nostra società: il lavavetri di via Turati a Milano; le lavoranti del “sommerso” tessile senza le
quali non esisterebbero Benetton e il “made in Italy” della moda. Ma perché non riconoscere, fra
gli accidentali percorsi individuali, maschili e femminili, degli anni Ottanta, anche quelli in ascesa?
Gli sguardi intenti di chi si è costruito un personalissimo controllo sulla propria prestazione
lavorativa, il patrimonio delle nuove tecnologie quali strumento del disagio e della fatica fisica
(non sempre, sia chiaro, e non per tutti)?
Analoghe contraddizioni, le foto di Uliano Lucas rilevano nel sempre più vasto campo delle
attività di servizio.
Dove dominano a mio avviso immagini di speranza, evocazioni di qualcosa che ancora non c’è
ma che pure ha molto a che fare con la passione per il proprio lavoro: l’accompagnatrice
volontaria del servizio psichiatrico di Trieste dove la legge 180 viene magistralmente applicata (è,
questa, un’esperienza che Lucas segue da anni con passione militante); l’assistente sociale
modenese alle prese col mistero dell’handicap; l’infermiere del reparto rianimazione della
Cittadella. Se dovessi indicare in sintesi il contributo che a noi tutti viene da questa bella mostra
fotografica, direi che con essa Uliano Lucas ci invita a superare quell’immagine pauperistica del
lavoro dipendente, da cui troppo spesso la sinistra è apparsa afflitta. Troppo spesso, nel
sottolineare i pur gravi problemi salariali e normativi che riguardano le classi subalterne, abbiamo
costruito delle caricature fino a ritrovarci incapaci di conoscere gli uomini e le donne in carne ed
ossa, così come sono diventati (non dimentichiamo) anche grazie alle conquiste del movimento
operaio.
Gad Lerner riflette su una mostra di Uliano Lucas, da “L’Illustrazione italiana”,
n.80/1991, suggerito dallo stesso Lucas
Il lavoro rappresenta cose diverse e tutte importanti per me: una storica del movimento
operaio, una donna che si è formata alla fine degli anni Sessanta, che è nata in un piccolo centro
rurale di tradizione antifascista ma ha sentito fin da ragazzina l’aspirazione a confrontarsi con
scenari grandi, conflittuali, cosmopoliti, un'aspirazione che avrebbe assunto le forme della
costruzione di una “vita d’avanguardia” se la politica travolgente del 1968 non l'avesse radicata in
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un terreno collettivo e condiviso. Il lavoro è innanzitutto l’attività che continua a definire
l’identità più forte di ogni individuo: non perché altri non siano egualmente importanti ma perché
sul come si organizza, si valorizza il lavoro e se ne ripartisce il prodotto si può ancora, a mio
parere, definire il carattere progressivo o regressivo di una società. Il lavoro è insieme fonte di
identità e di conflitto: questo rende le lotte del lavoro vitali per qualsiasi democrazia, perché “il
muschio non cresce sui sassi che rotolano”, come diceva uno slogan dei lavoratori americani
migranti degli anni Dieci. Le attuali difficoltà delle lotte operaie a rendersi visibili sullo scenario
dei media sono dovute, secondo me, solo alle sconfitte che esse hanno subito innanzitutto sul
terreno dell'organizzazione del lavoro, del potere sui modi di lavorare nei luoghi fisici della
fabbrica e dell'ufficio e poi anche, inevitabilmente, sul terreno del salario. E non a un presunto,
recente declino del lavoro, che si è solo differenziato come ha sempre fatto nella ormai
bicentenaria storia del capitalismo.
Ma lavoro è anche il piacere di svolgere bene il proprio mestiere (la ricerca sulle fonti storiche)
con orgoglio artigianale. Ed è anche l’insieme dei gesti quotidiani della cucina, dell’apparecchiare,
del trasformare un bisogno elementare in un piacere e in un’isola - nella vita affrettata di ogni
giorno - di eleganza e ritmo nell’apparecchio della tavola, nei sapori, nei profumi...
Maria Grazia Meriggi, storica
Lo stadio più elevato del capitalismo preconizzato da Marx ["Il pieno sviluppo della
società capitalistica…viene raggiunto soltanto quando... tutte le scienze sono catturate al servizio
del capitale.[..] Allora l'invenzione diventa un'attività economica e l'applicazione della scienza alla
produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa"] è
cominciato nella seconda metà del Novecento con la comparsa di una sempre più estesa
produzione di merci non materiali. Non solo cresce l'investimento nella produzione per il
mercato di servizi, ma soprattutto cresce quello nella produzione di informazione . Capitali
sempre più ingenti vengono investiti sia per produrre nuova informazione destinata alla
produzione di altre merci (innovazione di prodotto e di processo, know-how, organizzazione del
lavoro, ma anche marketing, pubblicità, e soprattutto software di tutti i tipi) che per produrre
informazione direttamente "consumata": dai mezzi di comunicazione di massa (radio, TV,
giornali, spettacolo, nastri, dischi, fino ai servizi della rete telematica odierna). Due sono le
trasformazioni fondamentali che questo mutamento ha indotto sull’organizzazione del lavoro e
sulla natura stessa dell’attività lavorativa. La prima è stata quella di creare una miriade di nuovi
mestieri, professioni, specializzazioni frammentando in un caleidoscopio di funzioni e di compiti
la figura del lavoratore salariato, che perde così la coscienza di appartenere a una classe con
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interessi antagonistici rispetto a quelli del capitale, e trasforma il carattere della sua prestazione da
partecipazione in una attività collettiva strettamente collegata con quella degli altri lavoratori a
rapporto di lavoro individuale con l'imprenditore. La seconda, che l'accompagna, è stata quella di
permettere, grazie al carattere immateriale dell'informazione, che non richiede di essere
trasportata fisicamente ma può essere facilmente trasmessa anche a grandi distanze, il
decentramento della produzione in una molteplicità di luoghi diversi.
Marcello Cini, scienziato, riassunto da L’ape e l’architetto, Milano 1976.
La proposta di riflettere sul lavoro è affascinante ma difficile, complicata ed anche un
poco vaga ed indeterminata. Uliano Lucas è mio amico da una vita e quindi l’invito mi giunge con
una maggior forza di coinvolgimento.
Io sono convinto che il lavoro che si trasforma, si complica, si divarica dentro la crisi del
fordismo non ha rappresentanza e non ha rappresentazione. Un gruppo di prestigiosi sociologi
francesi ha ammesso che il lavoro "è un oggetto della ricerca che si nasconde e che si sgretola". Si
potrebbe dire che il lavoro oggi si proietta sulla scena sociale come "ombra": come
disoccupazione, cioè come inquietudine per il lavoro che "non c'è"; come lavoro post-fordista,
cioè come l'enigma di un lavoro che "non è più" quello del passato. Non c'è ricerca empirica sulla
dimensione di esperienza esistenziale concreta, vissuta del lavoro. D'altro canto la soggettività di
chi lavora, senza il conflitto, rimane latente o soccombente. Negli ultimi venti anni siamo passati
dalla centralità operaia all'assenza operaia. La società del lavoro è così sconvolta e travolta dalla
radicalità dei mutamenti tecnologici, sociali e culturali da essere irriconoscibile perché in via di
estinzione? Oppure sono le categorie degli analisti e il clima culturale che appannano lo sguardo e
distraggono l'attenzione rispetto al lavoro? Non credo a quei futurologi che ci dicono della fine
del lavoro o dell'imminente abolizione del lavoro. Una costruzione di immensa portata storica è
finita: la vicenda più che centenaria del socialismo politico come progetto di trasformazione
sociale radicata nella condizione del lavoro subordinato, appare, almeno nel presente, conclusa.
Con il crollo del comunismo ed il mutamento genetico delle socialdemocrazie i legami "storici"
tra lavoro salariato e politica si sono interrotti. Ed il lavoro è scomparso come "soggetto" dallo
spazio pubblico: è caduto nella condizione di oggetto opaco abbandonato alle tecniche
manageriali o alle tecniche dell'amministrazione organizzativa o statale. Il contratto dei
metalmeccanici, quando penetra le seste o settime pagine dei giornali, è illustrato con i busti dei
sindacalisti o con fotografie di operai scattate venti anni fa: Uliano Lucas è riuscito ad estrarre
dall'ombra i volti imprevisti e nuovi dei giovani che si arrangiano lavorando nelle mille e mille
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pieghe della complessità sociale? Me lo auguro vivamente, ma senza aver visto, come è possibile
parlare o scrivere altro?
Pino Ferraris, sociologo
Il lavoro è la leva che ha sollevato il mondo
Vittorio Valli, economista
Il giovane che cerca il primo impiego dovrebbe accettare qualsiasi lavoro, purché dignitoso, e
provarlo per un po’. Così imparerà almeno una cosa molto importante: che cosa è il lavorare, cioè
entrare in un mini-sistema sociale, agire come parte di un collettivo, conoscere delle consuetudini,
rispettare delle regole, sapere che c’è un ordine normativo e simbolico, che ci sono delle gerarchie
con dei capi e dei gregari, capire come si crea la solidarietà e come nascono i conflitti. Il lavorare
è comunicazione ed è interazione. Impararlo vuol dire apprendere una socievolezza e
sperimentare una socializzazione; e questo non è meno importante dell’imparare un determinato
lavoro, sia come mansione che come mestiere.
Aris Accornero, sociologo
Essere complici per raggiungere un fine, guardarsi negli occhi per cercare la giusta
sintonia, trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda per ottenere determinati risultati e per prevenire
eventuali errori.
Credere nella persona che ti sta accanto senza soffermarti su particolari che potrebbero
intralciare il fine ultimo. Rendersi conto che ogni collaboratore prima di tutto è un essere umano,
degno di rispetto e ammirazione. Incentivare e confortare con parole e gesti chi si trova alle
prime armi.
Essere ottimisti.
Secondo me questo è il lavoro.
Mekdese Mariam Tewedros, impiegata in un’azienda metalmeccanica
E' difficile parlare di lavoro di questi tempi. Si è passati, per lo meno a sinistra, da una
visione che riconduceva tutto a una malintesa 'centralità' onnicomprensiva del lavoro - che poi
non era altro che il primato di una particolare, transeunte, figura sociologica di lavoratori, quando
non, peggio, il primato del partito che si arrogava la rappresentanza unica del mondo del lavoro -
a una visione, quella che oggi domina ovunque, che invece proclama addirittura la 'fine' del
lavoro, come valore e come realtà. Il lavoro come tutto, e il lavoro come niente, contraddizione
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che ben esprime la natura duplice, e in certo senso mostruosa, di questo nostro modo di essere
sociale, duplicità che a ben vedere convive oggi nella dilatazione contemporanea del tempo di
lavoro per chi ce l'ha, e della disoccupazione per chi ne è escluso. E' certo che la riduzione
dell'essere umano a solo lavoro è caricaturale, come se si potesse non tener conto della
dimensione della cura o della contemplazione; caricaturale come lo è l'idea opposta che del lavoro
si possa o si debba fare a meno, delegandolo alle macchine quando non a una nuova classe
'servile', per ritagliarsi un 'altrove' liberato dal lavoro. Il lavoro è stato, ma a guardare
attentamente, è ancora 'centrale,' in un senso solo, limitato, temporaneo, ma importantissimo: che
da questa dimensione si deve passare, trasformandola, se si vuole fare della società e della politica
qualcosa che non dipenda dalle 'cose', dai mercati, dalle macchine, dal denaro. Qualsiasi 'riforma'
che accetti che il lavoro sia una dimensione dipendente e residuale è una mossa gattopardesca,
che cambia tutto senza che al fondo cambi nulla. Bisognerebbe forse fare penitenza: ricominciare
a parlare di lavoratori, e non di lavoro. Loro sono sempre lì, anche quando sono muti o
ammutoliti, anche quando li si vuole cancellare con un tratto di pena o una fine elaborazione.
Soggetti di relazioni sociali, che non si esauriscono nella produzione ma vengono prima e vanno
oltre, non snodi umani di un meccanismo. Portatori di un sapere e di una pratica di cui il capitale
continua ad aver bisogno per valorizzarsi, e sorgente di quel profitto che il denaro non sarà mai
in grado di far feticisticamente sgorgare da se stesso. Fondamento materiale di quella liberazione
del lavoro senza la quale una autentica sinistra - movimento sociale e forza politica che non può
accettare come dati naturali lo sfruttamento e il mercato senza snaturare se stessa - manca dell'aria
per respirare, e non è in grado di fare un solo passo.
Riccardo Bellofiore, economista
Credo che pochi come Uliano Lucas abbiano saputo mettere con tanta efficacia la propria
arte e la propria tecnica - elevatissime entrambe - al servizio di un impegno di testimonianza del
presente. Dal complesso della sua opera, nell’arco degli ultimi decenni, emergono con
straordinaria vivacità e nettezza i volti e i momenti della storia dell’Italia del dopoguerra.
Una storia che è naturalmente anche e soprattutto la storia del lavoro degli italiani, di
come la fatica, l’impegno e le lotte degli uomini e delle donne del nostro Paese abbiano cambiato
l’Italia e siano a loro volta profondamente cambiati. E’ giusto seguire la traccia del lavoro - o
meglio dei lavori, come si usa a ragione dire adesso - per capire di più la nostra comune vicenda.
Da quel Paese ancora per tanta parte contadino e rurale del dopoguerra al boom industriale degli
anni Cinquanta e Sessanta, dall’esplosione della coscienza operaia all’irrompere di nuove figure e
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di nuove professioni, fino alla difficile matassa dell’oggi: il lavoro che manca, la crisi del “posto
fisso”, le nuove tecnologie, il dualismo tra lavoro autonomo e lavoro dipendente.
Troppo spesso le scelte e i dibattiti della politica procedono per astrazioni, in una logica
gravemente autoreferenziale. La realtà quotidiana dell’amministrare - ma anche serie operazioni
culturali come questa di Uliano Lucas e di chi ha organizzato la sua mostra - ci riportano alla
concretezza dei problemi, ai drammi e alle gioie dei cittadini di una “Repubblica fondata sul
lavoro”.
Francesco Rutelli, sindaco di Roma
Se lavoro è relazione, identità, lotta democratica, allora lavoro è anche Primo Maggio, o, meglio,
tanti Primo Maggio.
Un percorso discontinuo, di vittorie e sconfitte, di messaggi e silenzi, di pacatezza esibita e di
violenza subita, mai interrotto, irreversibilmente inciso nella coscienza civile.
L’onta, forse più inspiegabilmente tollerata di un governo democratico, rimane quella ancora non
sanata di un'Inghilterra che ha provato a togliere voce al lavoro zittendo il Primo Maggio.
E’ quest’onta l’anticipo di un futuro senza lavoro, o l’azzardata mossa di un liberismo
presuntuoso?
Perché lavoro non è solo, come alcuni vorrebbero, “lavorare”.
Lavoro è quella straordinaria interazione tra uomo e natura che la trasforma e che, mentre si
compie, fa società. L’uomo che crea e modifica, attraverso il lavoro, le condizioni della sua vita e
che, per questo, entra in relazione con altri uomini che progettano una vita comune.
Conflitti, poteri, cittadinanza sono passati e passano dal lavoro, al punto che le Costituzioni
antifasciste l’hanno elevato a cardine del patto sociale, a diritto primario, condizione della pace.
E, come era già avvenuto con la Rivoluzione Industriale e con l’organizzazione taylorista della
produzione, con grandi trasformazioni che chiamano in causa addirittura le coordinate spaziali e
temporali entro cui si compie il lavoro di ognuno, anche oggi la sfida diventa quella di mettere in
campo un soggetto collettivo che concorra ad orientare il cambiamento ed a fornire nuova linfa
al processo democratico.
Succede proprio ora, nelle pieghe di una precarizzazione e di un attacco ai diritti su scala
mondiale, che riportano indietro le lancette del conflitto e che richiedono allo stesso sindacato
coraggio intellettuale, iniziativa politica e un terreno di risposta adeguato.
Quale è, infatti, il percorso reale perché oggi – come auspicava Engels – l’uomo diventi “umano”
attraverso il lavoro?
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Un lavoro fatto di fatica e di creatività, due aspetti tra loro confliggenti, tenuti separati nella
società delle classi, e ricomposti solo nell’aspirazione e nelle battaglie dei lavoratori organizzati.
Lavoratori destinati per questa via a diventare persone “attraversati dal suono”, gli uni degli altri,
come, etimologicamente, prevede una convivenza tra eguali.
Di fronte ad una nuova generazione, resa invisibile dalla mancata esperienza e dalla negazione sia
della fatica che della creatività quando manca il lavoro, come raccoglieremo la sfida di una
umanizzazione della società, se non tornando caparbiamente e lucidamente a rivendicare diritto e
ragioni del lavoro?
Ci sarà ancora, per le ragazze ed i ragazzi di oggi, di tutte le razze e di ogni luogo del Mondo, una
successione di Primo Maggio con i vestiti a festa, che sostituiscono orgogliosamente, nelle piazze
dove si svolge la vita di tutti i giorni, gli indumenti del lavoro?
Spero di sì. E’ l’augurio che mi sento di fare per il millennio che si apre.
Mario Agostinelli, segretario della Cgil Lombardia
Ora che vivo qui, nel Ponente ligure, in un paesaggio bellissimo e dolce che di per sé
induce all’ozio della vacanza; ora che vivo con il carico degli anni, oltre gli ottanta, e quello degli
acciacchi, in grande solitudine debbo dire che, ciò nonostante, io continuo a lavorare in modo
continuo e metodico. Non più - è chiaro - con gli assilli e le ansie, la passionalità e la dedizione di
un impegno politico, che è stato senza limiti e che è durato per una intera esistenza.
Ma se io considero le mie forze, fisiche e intellettuali, quelle di ieri e quelle di oggi, non
direi che il mio sforzo, e la fatica siano meno intensi che in passato. E’ forse più giusto affermare
che sono invece meno utili socialmente! Insomma, il mio lavoro - di ricerca storica e letteraria, di
scrittura e futura memoria, di insegnamento e divulgazione culturale - vale per una cerchia molto
ristretta di persone e soprattutto vale per me, ma è, o almeno mi sembra, obbligante quanto
poteva essere ieri l’attività in Parlamento o nel Partito comunista.
Ho sempre pensato che per l’uomo il lavoro è qualcosa di essenziale, di necessario, non
solo per l’acquisizione dei mezzi indispensabili per vivere, per soddisfare i bisogni personali, e
quelli della collettività, ma anche per costruire, per affermare e difendere la propria identità. Certo
il valore in assoluto - ne sono più che mai convinto - è la persona umana.
Ma il lavoro è un valore fondamentale.
L’umanità deve essere liberata dallo sfruttamento, dalla alienazione, dal carico opprimente
della fatica . Ma nessun progresso della scienza e della tecnica libererà mai l’uomo e la donna
dall’impulso e dal gusto del lavoro, nemmeno se dovessero divenire ancor più rapide e radicali le
trasformazioni, pur enormi e inaudite, che si sono compiute nel corso di questo secolo.
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Ma ora, intanto, e non per caso la questione primaria nel mondo continua ad essere e
acutamente quella dell’occupazione, e non solo perché per milioni e milioni di esseri umani è più
che mai esigenza vitale, discrimine duro e secco tra vita e morte, ma perché anche nelle nostre
orgogliose metropoli del benessere, del consumismo, dello stato sociale senza un lavoro si può
finire nell’angustia e nella sofferenza della povertà, e non si diventa comunque una persona in
senso vero e pieno.
Si può cambiare il campo, le forme, l’organizzazione, i tempi ed anche inventare nuovi
lavoro, Si può fare ricorso a surrogati, a mascherature, come spesso accade con i cosiddetti
hobby, e perfino con qualche passatempo, ma il lavoro è una funzione del vivere. Il lavoro dico
con quel tanto di travaglio, di tensione, di agonismo che sempre deve esserci nel fare, nel
costruire, nel creare qualcosa, magari modestissima come accade a me, che godo certamente
molto del grande otium che mi è stato concesso, ma che sento sempre forte il bisogno di un
qualche lavoro.
Alessandro Natta, ex segretario del Partito comunista italiano
Nel 1971 ebbi modo, durante alcune ricerche Censis, di mettere a fuoco la consistenza che in
Italia a quell’epoca aveva il lavoro sommerso, arrivando a delle stime delle sue diverse
configurazioni: lavoro a part-time, lavoro stagionale, secondo lavoro di già occupati, lavoro in
appalto. Oggi so bene che c’è ancora, e tanto, lavoro sommerso, specialmente nel Mezzogiorno;
ma non mi sembra più un fenomeno necessario e caratterizzante, anche se se ne parla e scrive
molto. Oggi mi sembra necessario sottolineare che il lavoro si vada “molecolarizzando”, cioè
distribuendo su innumerevoli forme di lavoro indipendente, autonomo, professionale,
consulenziale, di piccolissima e quasi personalizzata imprenditorialità. Il che da una parte rende
generici i discorsi sul cosi detto post-fordismo, dall’altra rende vani gli sforzi per volontaristiche
condensazioni associative, sindacali, contrattuali. Non so dove e quando partirà il processo di
neocondensazione, ma credo di poter escludere che esso avrà come protagonisti gli operatori
sociali e politici tradizionali.
Giuseppe De Rita, presidente del Cnel
Ho un rapporto di amore odio con il lavoro, nel senso che mi piace e mi interessa ciò che
faccio (insegno, scrivo, ricerco), ma nel tempo stesso ho forti tentazioni a sottrarmi ad esso.
Alla radice deve esserci il rifiuto ad una identificazione totalizzante tra ciò che sono e ciò
che faccio, e questo mi sembra un bene, ma se sono (anche) altro da ciò che faccio, cos’è e cosa
vuole veramente questo altro da me che lavoro?
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Probabilmente liberarsi, scaricarsi di dosso il lavoro-dovere, inseguire il lavoro-piacere
(esiste?) o alla fine solo il piacere del non lavoro (dopo che si è lavorato una vita o metà di essa)?
Non lo saprò mai, di questo passo, e intanto lavoro e mi stanco, sempre di più!
Guido D’Agostino, assessore alla cultura di Napoli
Il tema del “lavoro” pare difficile da trattare, in parte per le modificazione che hanno
investito le “forme” del lavoro stesso, ma soprattutto perché pare sfuggire ad ogni
possibilità di essere governato sia a livello individuale che collettivo.
Si può affrontare la questione da molti punti di vista: del passaggio dal lavoro ai lavori; degli
effetti della tecnologia; della professionalità richiesta; della sua remunerazione; dal punto di
vista di chi il lavoro non riesce a conquistarlo o lo ha perso; ecc. Ciascuno di questi fornisce
un taglio che arricchisce il quadro ma nel contesto di questa pubblicazione mi è sembrato
utile, e spero che lo sia anche per chi legge, qualche breve considerazione sulla relazione oggi
esistente tra trasformazione delle condizioni tecniche-organizzative del lavoro e la sua
collocazione nel contesto dell’organizzazione sociale.
Inizierei con il sottolineare come oggi si prospetti un cultura della “tecnicizzazione” del
lavoro; dicendo questo non ci si riferisce alla crescita del contenuto tecnologico in ogni
forma di erogazione del lavoro, ma piuttosto al tentativo di desocializzare il rapporto di lavoro.
Il lavoro sempre più, nella vulgata di questo periodo, è considerato una variabile dipendente
dal meccanismo di mercato che determina quantità, modalità e remunerazione del lavoro.
La nostra società non si spoglia della tensione prometeica; anzi affronta territori che
sembravano impossibili (fino alla clonazione e all’ingegneria genetica), e afferma che l’uomo
non conosce che i confini che esso stesso si da. In tutti i campi l’umanità è protesa ad
affermare la sua capacità progettuale, ad esprimere una propria intenzione, tranne che per
quanto riguarda la vita economica-sociale: in quest’ambito l’uomo appare impotente.
E' la mano invisibile del mercato l’unica forza che regola quanto, chi, dove. Qualsiasi
progettualità è dismessa.
Eppure la “progettazione sociale” è il costrutto forte della organizzazione sociale. Forme
felici o aberranti non sono “casuali”, ma l’esito di un progetto, anche se opaco o offuscato
da una nube ideologica. Così gli effetti sociali determinati dalla mano invisibile del mercato
non sono l’esito dell’assenza di un progetto, ma la concreta realizzazione di una intenzione
sociale, cioè di un progetto, anche se invisibile e non immediatamente riconoscibile dato il
suo carico di simboli e di ideologia.
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Se alcuni tentativi di “progettazione sociale” espliciti sono stati caratterizzati da fallimenti
(non solo il “socialismo realizzato” ma anche, si dice, il welfare), anche la “sofferenza” del
sistema di mercato è l’esito del fallimento di un progetto sociale.
Ciò che va messo in evidenza, quindi, è che ogni forma di organizzazione sociale e ogni
esito (positivo o negativo) di tale organizzazione è l’espressione, comunque, di un progetto
sociale. E’ un errore, o piuttosto l’esito di una sconfitta culturale, l’affermazione che un
progetto sociale esibito sia foriero solo di fallimenti, mentre la sua assenza garantirebbe un
esito positivo, ancorché (sic!) non perfetto, del mercato (cioè del suo progetto implicito).
Queste poche e asseverative (mi scuso) notazioni hanno a che fare con il lavoro e con il
rapporto di lavoro.
Il lavoro è stato il terreno non solo di uno scontro tra interessi contrapposti, ma di due
progetti: uno strumentale da parte dell’impresa e del capitale, l’altro di liberazione, da parte
del movimento dei lavoratori. Ambedue questi progetti hanno assunto forme e contenuti
diversi, in ragione dei rapporti di forza, degli strumenti disponibili (tecnologie,
organizzazione ...), del livello di sviluppo, dell’esistenza o meno di una esercito di riserva,
ecc. Per capirci, organizzazione fordista o post-fordista sono le forme che in specifici
contesti incarnano il progetto strumentale. La spoliazione di ogni consapevolezza del
processo produttivo operato dalla massima parcellizzazione del lavoro alla catena di
montaggio (che ha prodotto, tuttavia, l’unificazione sociale e culturale dei lavoratori), non è
diversa, in termini di progetto strumentale, della ricomposizione operata in parte nel sistema
post-fordista. Si tratta di soluzioni adatte a specifiche fasi di sviluppo, anche tecnologico, che
permettono di declinare in modo diverso la sottomissione del lavoro e la sua trasformazione
a mero strumento.
Soluzioni diverse? Sicuro! Migliori o peggiori? Gli elementi di giudizio da mettere in campo
sono diversi: il singolo o l’insieme dei lavoratori; il salario o la quota di prodotto sociale
attribuito al lavoro; l’autogestione o la sicurezza e continuità del lavoro; il reddito o la salute;
ecc.
Se fa parte delle regole del gioco della nostra organizzazione sociale che il capitale e l’impresa
tendano ad imporre il proprio progetto, che viene presentato come “necessità tecnica”,
quello che sconcerta è l’accettazione anche ideologica di tale “necessità tecnica”, senza
nessuna controindicazione. La “ragione del capitale” non trova nessuna contrapposizione di
sostanza, la sua natura sociale e storica si trasforma in un dato di natura, qualsiasi progetto di
liberazione si infrange sullo scoglio della “ragione tecnica”. Si può trasformare il mondo
fisico, si può dare forma nuova a quello biologico, si può esplorare l’universo, si possono
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progettare e realizzare nuove e più potenti tecnologie, ma non si può cercare di progettare
una società di liberi e uguali, o almeno una società che abbassi disuguaglianze, oppressione,
povertà e miseria sociale. Il mondo sociale appare come inviolabile con proprie leggi di
sviluppo che sono le uniche che non è possibile modificare.
Eppure non si può non essere consapevoli che quelle leggi sono l’incarnazione di un
progetto di sottomissione e non di libertà, un progetto di riduzione del lavoro a merce.
Il lavoro concreto e necessario nelle sue quantità, qualità, remunerazione e modalità di
erogazione è determinato da una ragione tecnica che non si può discutere, risponde ad una
legge che se infranta determina conseguenze negative per tutti: non a caso si dice che “il
mercato si vendica”, come un Giove intangibile dai bisogni umani.
La necessità tecnica si articola nel tempo, per cui oggi flessibilità, contratti di formazione
lavoro, lavoro in affitto, lavoro a domicilio, part-time, lavoro “atipico”, telelavoro, e
quant'altro, sono appunto necessità tecniche, non espressione di forme di organizzazione
sociale che possono essere modificate.
La desocializzazione del lavoro ha finito per permeare ogni discorso sul lavoro.
Così il dato di costrizione individuale: accettare un lavoro sottopagato per poter mangiare,
diventa un dato della politica di sviluppo per il Mezzogiorno (“meglio un lavoro sottopagato
che nessun lavoro”, ha affermato un uomo di governo, dove il “buon senso” si sposa con un
cinismo governativo agghiacciante). Così la flessibilità, l’ideologica “gestione del proprio
tempo di lavoro”, viene esaltata come un elemento di liberazione (anche in ambienti di
sinistra) offuscando tutti i dati di insicurezza e di incertezza che genera e la sua sostanziale
dipendenza.
La catena di montaggio era orrenda (è ancora orrenda, infatti contrariamente a quello che si
pensa esiste ancora) nessuno, credo, ne può avere nostalgia, ma il suo superamento non ha
costituito un momento di liberazione, non ha liberato i lavoratori dalla loro catena di
necessità, di insicurezza, di soggezione. Contro quella forma sociale di erogazione del lavoro
i lavoratori hanno combattuto, un uguale conflitto va aperto sulle nuove forme sociale di
erogazione del lavoro. Le difficoltà di questo conflitto non sono soltanto nella
trasformazione della fabbrica (la massa aggregata di lavoratori), ma soprattutto nella cultura e
nella sua costruzione mistificata, che fa sembrare tecnico quello che è sociale.
Una cultura che si alimenta di “facezie” che ripetute all’infinito dai mezzi di comunicazione
di massa diventano delle verità non discutibili. Così non finiamo di lodare l’economia della
“piccola impresa” mentre quotidianamente abbiamo notizie di fusioni di grandi gruppi e
della formazioni di grandi potentati industriali e di servizi, in tutti i settori portanti e che
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avranno un enorme peso economico, sociale e culturale sulla nostra vita Così la giusta
considerazione dei distretti industriali offusca il fatto che dentro il distretto industriale molto
spesso si sviluppa un’impresa che della produzione dei diversi segmento del distretto è
capace di assorbire a suo fine tutte le potenzialità da una parte della produzione e dall’altra
del mercato, per cui il distretto finisce per essere il frazionamento produttivo di un “grande”
impresa. Il successo di un giovane imprenditore che sulla base del suo geniale intuito o della
sua capacità tecnica, ha saputo mettere su un’impresa da miliardi di dollari, diventa il
“modello” per tutti giovani che non trovano lavoro: “fatti imprenditore di te stesso” questo
è il consiglio, insomma un “arricchitevi tutti! Cosa aspettate!”.
I bassi salari creano sviluppo e occupazione, questo è il nuovo credo. Del resto gli Stati
Uniti insegnano: “Il costo del lavoro non è più una voce determinante nei bilanci delle
imprese”; questo importante risultato ha avuto qualche esito sociale: il reddito delle famiglie
più ricche negli ultimi 20 anni è aumentato del 30%; il reddito del quinto delle famiglie più
povere si è invece ridotto del 6% nello stesso periodo. L’autrice dello studio da cui sono
ricavati questi dati sommari commenta: “per i meno ambienti sembra non esserci speranza”.
E’ certo che la forma delle prestazioni richieste al lavoratore sono cambiate, non credo che
sia questo il problema; questo cambiamento sta dentro l’evoluzione della tecnologia,
dell’organizzazione e dello sviluppo. Questi cambiamenti si possono descrivere in tanti modi,
di seguito se ne propone uno, non si tratta dell’unica modalità con la quale osservare questi
fenomeni, ma di quella che pare più strettamente collegata alle precedenti osservazioni.
La prima riguarda le trasformazioni del lavoro in fabbrica, si tratta di modificazioni relative
alle stesse mansioni, alle condizioni ambientali, all’uso di tecnologie più avanzate, alla
riduzione della fatica fisica (talvolta accrescendo quella psichica), ad una partecipazione
meno parcellizzata al processo produttivo, ecc. Non è vero che la fabbrica fordista sia
scomparsa, ma è vero che oggi il lavoro in fabbrica è spesso (non sempre) meno peggio che
nel passato. La conseguenza è la richiesta di una maggiore duttilità e flessibilità professionale,
che sicuramente, in molti casi, rompe la monotonia di una mansione ripetitiva richiedendo
un maggior coinvolgimento. E’ vero che in molti casi le mansioni si arricchiscono ma in altri
si impoveriscono. Insomma si tratta di modificazione complesse e articolate, che si muovono
in diverse direzioni: non c’è un unico indirizzo di marcia se non quello di un aumento di
produttività continua che determina una continua diminuzione della quantità di lavoro
necessario. Una diminuzione definita fisiologica, ma su questo si tornerà più avanti.
Ma c’è un punto che pare di grande rilievo: nelle nuove forme di organizzazione della
produzione, come è noto, tende ad affermarsi sempre più il just in time, non una produzione
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per il “magazzino” ma direttamente, secondo la richiesta, per il mercato. La merce prodotta
non deve cioè giacere. Lo stesso criterio si applica alla “merce lavoro” anch’essa deve essere
just in time: la quantità di lavoro impiegata deve tendere ad essere strettamente legata
all’andamento di breve periodo del mercato. Da qui le forme di lavoro interinale, la richiesta di
flessibilità e ogni invenzione in grado di far corrispondere l’eventuale andamento a
fisarmonica del mercato con quello del lavoro impiegato. Va detto, e non è cosa da poco,
che un sistema di questo tipo ovviamente può realizzarsi soltanto in una situazione di offerta
di lavoro sovrabbondante o, con altre parole, con alti tassi di disoccupazione. Si potrebbe
sostenere che da una parte il sistema di produzione (niente di personale!) “crea” la
disoccupazione, questa permette una utilizzazione della forza lavoro secondo il criterio prima
indicato.
In molti settori, nella logica del just in time di ridurre i rischi, di pagare meno il lavoro, ecc., si
è molto sviluppato il “terzismo”, cioè l’assegnazione di segmenti di lavorazione ad aziende
esterne che spesso costituiscono delle dipendenze improprie dell’impresa “madre”. In
generale gli obblighi dei terzisti verso l’impresa madre sono notevolissimi e spesso anche
costosi (in termini di penali), mentre quelli dell’impresa madre verso i terzisti sono nulli. Il
terzismo si fonda sull’ideologia del “farsi imprenditore di se stesso” e prospera sulla
cosiddetta gestione autonoma del proprio lavoro, e di quello di molti membri della famiglia,
una nota situazione di quello che è stato definito autosfruttamento e di sfruttamento, nel
caso ci fossero, dei pochi dipendenti. Si tratta di una sorta di accumulazione primitiva che
può dare luogo talvolta, anche se non frequentemente, a significativi sviluppi dell’impresa.
Si muove nella stessa direzione, quella di ridurre il costo di lavoro (“il costo del lavoro non è
più una voce determinante nei bilanci dell’impresa”, vedi sopra), l’espulsione dall’impresa di
una serie di funzioni di servizio. Si tratta di una modalità attraverso la quale si asciugano i
costi aziendali. Una quota dello sviluppo del terziario, come è noto, non è altro che
l’autonomizzazione di funzioni che prima erano interne all’impresa industriale (ogni
considerazione post-industriale con questo dato dovrebbe fare i conti).
Anche il lavoro nel terziario si è molto modificato nella stessa direzione e con le stesse
modalità di quello di fabbrica, forse è più accentuato in questo settore la polarizzazione tra
attività che hanno visto crescere contenuti e professionalità e attività che hanno visto invece
abbassare drasticamente il loro contenuto professionale.
È possibile affermare che mentre l’occupazione in fabbrica e in ufficio tende a non crescere
(talvolta diminuisce), il lavoro effettivamente impiegato date le diverse forme di flessibilità
esistenti, note e ignote, aumenta. Quello che cresce e l’impiego di forza lavoro (non
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occupazione nella forma tradizionale) di tutte quelle attività in cui è il lavoro stesso il suo
prodotto (il “lavoro di cura” in modo esemplificativo). Non paia paradossale che nel
massimo livello dello sviluppo tecnologico cresca il lavoro che possiamo definire “servile”.
Le ragioni che stanno alla base della dilatazione di questo segmento del mercato di lavoro
sono molteplici: una sorta di autopromozione da parte di chi non riesce a entrare in un
settore del mercato del lavoro più strutturato; una domanda crescente di questi servizi
determinata dal prolungamento della vecchiaia, dalla non espansione (contrazione anche?)
dei servizi sociali in ragione della crescente domanda; da una certa polarizzazione della
distribuzione della ricchezza che permette ai più favoriti di richiedere servizi .
Che si tratti del settore più aleatorio, meno garantito e a più bassi salari è noto. I volumi che
hanno decantato le “professioni del 2000” sono spesso agghiaccianti: nel loro baluginio di
situazioni, di possibilità, di meraviglie descrivono prevalentemente situazioni di “lavoro
servile” o mitiche possibilità che non possono, per loro natura, che essere di pochi, di
molto pochi. Che dentro questa articolazione sia possibile, a pochi, trovare delle nicchie di
alta redditività, è possibile e certo, ma questo costituisce l’elemento che alimenta la speranza
(vana) di molti.
Fermo restando che esistono delle aree geografiche nelle quali tra offerta e domanda di
lavoro è possibile riscontrare un certo equilibrio, in generale si può dire che l’attuale
funzionamento del mercato del lavoro non garantisce né livelli di occupazione adeguati, né
sicurezza di occupazione, né partecipazione significativa al processo di valorizzazione.
Il cambiamento, da quando i lavoratori hanno assunto consapevolezza di sé, è stato sempre
una miscela di innovazioni tecnologiche, di rivendicazioni di migliori condizioni di lavoro,
compreso il salario, di risposte di riorganizzazione a tali richieste. Una sorta di “circolo
virtuoso”, che ha permesso non solo di migliorare le condizioni di lavoro, ma di accrescere la
“dignità” sociale del lavoratore. Questo non vuol dire che non siano individuabili periodi e
situazioni di arretramento che, tuttavia, erano vissuti come tali: sconfitte. La consapevolezza,
più o meno diffusa, di una tale sconfitta ha sempre costituito la necessaria base da cui
ripartire per riaffermare il “diritto” al lavoro e alla dignità del lavoratore. Dentro questo
processo non sono mancate né grandi trasformazioni tecnologiche, né grandi modifiche
organizzative. Ma anche se queste oggi fossero di portata maggiore e avvenissero ad una
accresciuta velocità, ciò non giustificherebbe quella che si è definita desocializzazione del
lavoro.
Il contesto tecnologico e le trasformazioni in atto sopporterebbero benissimo un progetto di
organizzazione sociale fondato su equità, sicurezza sociale, eliminazione della povertà e
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dell’ansia per l’incerto futuro, maggior benessere generalizzato, parziale liberazione dal
lavoro. Anzi, potrebbero essere assunti come un’opportunità per assestare l’organizzazione
sociale ad un più alto livello di libertà e giustizia. Una riduzione dell’orario di lavoro può
essere sostenuta non tanto come un rimedio alla disoccupazione, ma come un elemento di
liberazione possibile; la sicurezza del lavoro o del reddito non può essere considerata una
scoria del passato ma un portato dello sviluppo e della sua utilizzazione sociale.
Ma tutto questo non è dato naturalmente, non può che essere supportato da un progetto
sociale, dalla rinunzia dell’ineluttabilità delle leggi di mercato.
Si ritorna all’inizio.
Francesco Indovina, docente all'Istituto universitario di Venezia
Con lo sviluppo della divisione del lavoro, l’occupazione della stragrande maggioranza di coloro
che vivono di lavoro, cioè della gran massa del popolo, risulta limitata a poche semplicissime
operazioni, spesso una o due. Ma ciò che forma l’intelligenza della maggioranza degli uomini è
necessariamente la loro occupazione ordinaria. Un uomo che spenda tutta la sua vita compiendo
poche semplici operazioni non ha nessuna occasione di applicare la sua intelligenza o di esercitare
la sua inventiva a scoprire nuovi espedienti per superare difficoltà che non incontra mai... In ogni
società progredita e incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran
massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda
cura di impedirlo.
Adam Smith (“che aveva già capito tutto due secoli fa”) ricordato dall’economista
Giorgio Lunghini
Tutto ciò che attiene a un uso dinamico della memoria ci offre, quotidianamente,
coscienza materiale per capire meglio la nostra storia: passata e presente. Conosco abbastanza il
lavoro di Uliano Lucas per poter dire che la sua è una fotografia "in funzione di". Per noi
dell'Istituto Ernesto de Martino che da tempo fatichiamo una ricerca ad ampio raggio sul tema
lavoro/non lavoro, iniziative come quella che ha portato a questa mostra sono tanto preziose
quanto utili. C'è il lavoro "vecchio" che scompare e ci sono nuovi lavori, nuove professionalità,
nuove "arti" (nel senso della bottega artigiana rinascimentale) che configurano nuove e diverse
soggettività e collettività produttrici. C'è, dunque, molto da ricercare, per capire e per conoscere
e il lavoro di Uliano Lucas è certo un approccio importante, fondamentale direi, per cominciare.
Ivan Della Mea, presidente dell’Istituto Ernesto De Martino
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Sapevamo che cos'era il lavoro. Ne conserviamo l'idea: la fatica, il salario, la fabbrica, i compagni
e i capi, l'orologio, i cancelli, l'andare e il tornare...Non che la realtà attuale non corrisponda più a
quell'idea, che è ben fondata, depositata nella coscienza di generazioni da anni di pratiche ripetute
e tramandate; il fatto è, invece, che il lavoro sta cambiando, è cambiato in questi quindici anni più
di quanto era cambiato nei cinquanta precedenti. Ed è cambiato anche quel lavoro di fabbrica che
aveva prodotto l'idea forte, dominante appena ricordata.
Naturalmente, anche prima, non tutto il lavoro era lavoro dipendente e di fabbrica, tanto meno di
grande fabbrica; né, ora, la fabbrica è sparita dal nostro orizzonte. Il lavoro era ed è sporco e
pulito, vecchio e nuovo, faticoso e anche "bello" in molti modi diversi. E' più che mai una realtà
dalle mille facce, che non conosciamo abbastanza. Abbiamo bisogno che il nuovo venga non solo
analizzato dagli specialisti, ma che venga detto anche in modi semplici, che venga fatto vedere. E'
necessario che le nuove esperienze di lavoro diventino familiari, oltre che a chi è direttamente
coinvolto, anche agli occhi degli altri, perché certe loro qualità possano essere riportate a quello
che già sappiamo e certe altre arricchiscano il bagaglio di quello che conosciamo. Vedere,
conoscere sono l'inizio di un processo minimo di riappropriazione collettiva.
E', infatti, in ultima analisi, una questione di potere. Anche in questa come nelle precedenti
rivoluzioni industriali, attraverso la ridefinizione dei modi, tempi e contenuti del lavoro e del
controllo di sé da parte dei lavoratori passa una generale riorganizzazione sociale. Non tutti sono
oggi protagonisti allo stesso modo. Quale sarà il posto del lavoro dipenderà anche da quanto le
realtà, i problemi e la cultura stessa dell'innovazione diventeranno patrimonio condiviso della
maggioranza della popolazione, i lavoratori.
Bruno Cartosio, storico
Il lavoro costituisce un momento fondamentale per la realizzazione della propria personalità e,
contemporaneamente, la condizione per collettivamente operare per progressivamente
conquistare diritti sociali, quali i diritti di cittadinanza, essenziali per il riscatto e l’emancipazione
dei lavoratori salariati
Antonio Pizzinato, senatore
Il lavoro rende liberi.
(sui campi di concentramenti nazisti)
Lavorare stanca.
(Cesare Pavese)
Il lavoro si difende lavorando.
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(slogan della marcia di 40.000 impiegati, intermedi e operai contro lo sciopero alla FIAT nell’autunno 1980)
Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è
l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa
realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento
dell’operaio, l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come
estraniazione, come alienazione.
(Karl Marx)
Il lavoro fa sentire l’uomo come Dio. E, come su Dio, si può dire tutto e il contrario di tutto. Ma,
mentre Dio è morto, il lavoro resta il grande mistero dell’uomo. E la principale causa della sua
oppressione e sfruttamento.
Per quanto mi riguarda, cresciuto nella religione del lavoro, rimango sospeso tra fede e dubbi.
Guido Chiesa, regista
Lavorare per conoscere, lavorare per liberare, lavorare per trasformare, lavorare per includere.
Quando ho scelto di fare lo psichiatra cercavo un lavoro che mi avvicinasse alla conoscenza dell'
Uomo, dell'Altro ( ma anche di me stesso )-
La curiosità di conoscere e di conoscersi, la volontà di affrontare le paure verso il me stesso ed il
me altro sconosciuto, diverso, folle.
Ho capito solo dopo anni che in quella scelta avevo accettato spontaneamente quello che Franco
Basaglia aveva chiamato "il rischio dell'incontro".
Per lui era stata la scelta di confrontarsi con il malato "reale" segregato in manicomio, mettendo
tra parentesi la "malattia" e svelando finalmente nel processo del "praticamente vero" l'autentico
oggetto del lavoro dello psichiatra: il soggetto sofferente ed il suo rapporto con il corpo sociale;
da quella scelta e da quell'incontro diede inizio a quell'eccezionale trasformativo lavoro anti-
istituzionale.
Ma non sapevo ancora quanto scegliere questa professione e questo modo di praticarla avesse a
che fare con la divisione del lavoro e la relativa relazione di violenza e di dominio fondata su di
essa: tutta la vita sociale è segnata da questa divisione attraverso la quale il potere continua a
schiavizzarci , ma è uno stato di cose che viene di norma subìto ed accettato acriticamente.
Per comprendere il nostro lavoro di "tecnici della salute" è indispensabile riuscire a cogliere
quanto la nostra posizione non sia solo tecnica ma anche politica: la stessa relazione terapeutica
rimane sempre una relazione di dominio se tra medico e paziente non c'è reciprocità ma
dipendenza, mentre il rapporto cambia se è basato sulla fiducia e sullo "scambio".
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Ho potuto capire con l'esperienza come sia importante ed etico confermare quotidianamente
quella scelta di campo verso il "paziente-persona" e rinunciare al mandato sociale di escludere,
segregare, medicalizzare.
Possiamo cercare di cambiare il nostro ruolo rifiutando quello che il potere ci da' e assumere
quello che invece ci viene dato dal rapporto con i nostri pazienti.
Possiamo accettare di essere deboli con i deboli per tentare una trasformazione verso una nuova
scienza dell'uomo, un nuovo umanesimo.
Dobbiamo però assumerci il rischio di incorrere nelle sanzioni previste dal sistema che non
accetta cambiamenti che minino la struttura sociale e la norma da essa stabilita.
E allora per lavorare, per liberare e trasformare bisogna (come ci insegna ancora Franco Basaglia),
prendere le distanze dal pessimismo della ragione e realizzare quotidianamente l'ottimismo della
pratica.
Ma lavoro vuoi dire anche possibilità di lotta all'esclusione sociale.
Poter lavorare diventa un eccezionale strumento naturalmente "terapeutico" che porta, attraverso
un cambiamento di vita, a migliorare la coscienza di sé e ad allargare il proprio mondo di relazioni
sociali.
Bisogna saper mobilizzare le risorse umane riconoscendo che curare significa anche (o
soprattutto?) valorizzare, abilitare, emancipare.
Bisogna lavorare per il passaggio da un mondo di assistenza sociale inefficace e distruttivo al
mondo dell'impresa sociale, promuovendo non laboratori protetti ma reale produzione di attività
di mercato.
Per questo c'è bisogno di formazione culturale dei soggetti e c'è bisogno di operatori pubblici che
sappiano diventare motori di cooperazione e collaboratori dell'imprenditorialità.
Carlo Minervini, psichiatra
Il lavoro è: speranza, occupazione, benessere, consumo, egoismo.
Il lavoro è: fatica, umiliazione, disoccupazione, nero, minorile, miseria, disagio.
Il lavoro è: dignità, cultura, tolleranza, partecipazione, confronto, solidarietà, lotta, legalità.
Il lavoro è la vita di ogni giorno.
Roberto Carminati, operaio metalmeccanico
Il lavoro mi dà una capacità economica che mi permette di vivere decorosamente.
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Constato però che l’energia e il tempo della mia attività lavorativa non sono direttamente
proporzionali alle soddisfazioni economiche, sociali e culturali che ne traggo.
Elisa Martinelli, operaia metalmeccanica
Nella società capitalista basata sull’appropriazione dei mezzi di produzione e sullo sviluppo
crescente dei macchinari, il lavoratore si trova triplamente alienato.
PRIVAZIONE. Il lavoro si rivela come fonte di ogni ricchezza. Eppure il lavoratore non gode
dei frutti del suo lavoro. Il prodotto che crea appartiene non a lui ma ad un altro. Nella vita
quotidiana, nel mercato, questo prodotto fatto da lui gli è estraneo. E lo domina.
DISUMANIZZAZIONE. Nella fase produttiva macchinari e automazione riducono la
partecipazione soggettiva del lavoratore. Non è più come l’artigiano che modella i suoi soggetti
come vuole. A questo livello la forma del futuro oggetto è stabilita anticipatamente dai computer.
Il lavoratore è come “un pezzo di carne in mezzo all’acciaio”.
DEPERSONALIZZAZIONE. Le condizioni di lavoro sono tali che il lavoratore non dispone di
abbastanza tempo per manifestare altrimenti la sua vita. Poco o niente divertimento, escluso dalla
sfera culturale, il sistema lo schiaccia e tende a ridurre i suoi bisogni al minimo fisiologico:
nutrirsi, dormire per poter riprendere il lavoro l’indomani. Questo conduce piano piano al
soffocamento delle sua capacità intellettuali e creativa. Quasi robotizzato, tutto quello che c’è di
umano in lui si addormenta…
Ma il lavoro è anche e soprattutto un modo di realizzarsi, perciò nonostante tutto è un male
necessario.
Gueye Amadou, operaio tessile
“Lavorare stanca” non è il titolo di una poesia di Pavese, ma il motto di tante persone che ogni
mattina, allo squillare della sveglia si alzano, bevono un caffè e senza muovere un solo muscolo
facciale salgono in macchina per recarsi al lavoro. Sto parlando di chi il proprio lavoro non lo
svolge come scelta ma come bisogno primario per continuare a vivere. Ma cos’è il lavoro, oltre il
bisogno primario?
Persone che vivono un terzo della propria vita in una ambiente che spesso è poco piacevole, a
stretto contatto con altri che non si arriva mai a conoscere. E’ così difficile costruire un ambiente
lavorativo in cui oltre che produrre, possiamo creare comunicazione, scambio e partecipazione?
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Non è un altro pianeta, ma se uscissimo da quel guscio di rassegnazione, egoismo,
individualismo, riusciremmo a capire che fonte di energia potrebbe essere il nostro posto di
lavoro. E’ anche vero che ci sono ambiti lavorativi in cui i ritmi di lavoro sono alienanti e proprio
per questo non dobbiamo restare così indifferenti ma manifestare il nostro disappunto a un certo
sistema.
Sono pienamente convinta che il progresso e il benessere portino le persone alla solitudine ma
star soli non è naturale, guasta il buon senso e forse è quello che qualcuno vuole, perché gli
individui soli lavorano di più, non condividono niente e comprano a più non posso per riempire
il proprio vuoto.
Non sono in depressione, a me la primavera fa sempre il solletico ma quando vedo ogni giorno
sul posto di lavoro così tanta indifferenza penso che la macchina che ho di fronte non sia poi così
diversa dalle persone. Proviamo a parlare con la gente di cosa ne pensa del lavoro, le risposte
sono quasi sempre: “Cosa vuoi che sia, oltre che far andare la macchina”, oppure “Io aspetto solo
la fine del turno” e ancora “Il mio capoufficio almeno non rompe le scatole”.
Se tutto questo significa sentirsi vivi, ho paura del futuro; se le lotte dei nostri padri ci hanno
portato a questo, spero solo che nella malinconia che nasce vedendo il risultato, si celi un pò di
speranza, affinché qualcuno possa cogliere la voglia di tornare a lottare per una vita in cui il
lavoro non serva solo come strumento di affermazione sociale ma soprattutto ad elevare le virtù
umane e civile delle persone.
Cristina Belotti, operaia tessile
Il lavoro è uno spazio di aggregazione e di comunicazione e di ricerca delle proprie aspirazioni.
Nel lavoro noi esprimiamo gran parte delle nostre potenzialità. Contemporaneamente in esso ci
accorgiamo di vivere anche le nostre contraddizioni.
Gennaro Palazzo, operaio metalmeccanico
Il lavoro per me oggi significa autonomia e socializzazione. Il lavoro permette di avere un
reddito, senza il quale nella attuale società si è inevitabilmente limitati e condizionati.
Sul posto di lavoro è possibile uno scambio interpersonale tra lavoratori, anche di diversa
provenienza etnica, attraverso il dialogo e il confronto delle diverse esperienze acquisite. Il fatto
che diverse culture operino per una collaborazione attiva, che superi anche le barriere del
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pregiudizio culturale, frutto dell’ignoranza, trasformano il posto di lavoro in una palestra di
convivenza civile e democratica.
Elisa Cavagna, addetta mensa.
Il lavoro è un dovere verso se stessi e nei confronti delle persone che ti sono più vicine
Carlo Donadoni, operaio metalmeccanico
Il lavoro: se non ce ne fosse bisogno, sarebbe meglio
Adriano Visinitin, operaio metalmeccanico
Il lavoro è un impegno verso la mia coscienza e verso l’azienda che mi paga
G. Battista Giuliani, operaio metalmeccanico
Per me il lavoro è così alienante che è un semplice trascorrere di orario, che comincia alle 14 e
finisce alle 22.
Giulio Pirola, operaio metalmeccanico
Il lavoro è uno strumento che mi permette di vivere autonomamente.
Vorrei che fosse un ambiente di reciproco rispetto, un posto dove si possa migliorare la propria e
altrui capacità e conoscenza culturale.
Pietro Baldassari, operaio metalmeccanico
Da bambino continuavano a dirmi che “quando sarai grande, andrai a lavorare e guadagnerai
tanti soldi”. Bene!…Adesso che sono grande e lavoro (una fortuna al giorno d’oggi), da quella
frase ho idealizzato che, se dovessi lavorare solo per guadagnare del denaro per vivere, smetterei
subito di farlo!!!
Per me il lavoro va oltre il guadagno.
Con il lavoro posso conoscere me stesso, valutando i limiti della mie capacità, ed ampliare
l’orizzonte delle conoscenze tecniche ed umane.
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E’ utile a confrontarmi su qualsiasi campo con i miei compagni di lavoro, conosco nuove culture
e modi di vita, a volte discuto animatamente su particolari questioni convinto, comunque, che
anche in questo modo posso aver imparato qualcosa.
Mi dà la possibilità di conoscere i disagi di persone delle quali, standomene nel mio “limbo” (casa
e amici) ignoravo l’esistenza.
La ricerca nel lavoro di queste cose è per me la molla che tiene viva la voglia di consumare ore
della mia vita lavorando.
Bruno Invernici, operaio alimentarista
Il lavoro è l’operare umano attraverso il quale l’uomo modifica l’esistente sulla base della propria
volontà e capacità.
In questo ci mette di suo, tempo, energia, intelligenza.
Il lavoro è indubbiamente un rapporto economico, un mezzo per soddisfare i propri bisogni, ma
è anche un valore e quindi uno stile di vita.
E’ un elemento qualificante per la persona e per la vita, una necessità. Cosa sarebbe l’uomo e
cosa sarebbe la vita senza il lavoro?
Qualcuno l’ha definito un’arte, l’arte del vivere.
Forse è la definizione più completa.
Mario Fojadelli, magazziniere
Ciò che colpisce oggi, così come colpiva gli osservatori all’inizio del secolo, è il fatto che
coesistano disoccupazione e penuria nell’offerta di beni e servizi; il senso comune non riesce a
coniugare le due cose e il più tiepido senso di giustizia viene scosso da tale constatazione. Gli
specialisti e gli studiosi forniscono innumerevoli spiegazioni di come tale realtà si produca e si
riproduca ma al fondo si riapre una questione che sembrava sepolta sotto le macerie del
comunismo e del crollo del muro di Berlino: il senso delle nostre società. E’ una domanda
inquietante perché le scienze che studiano l’uomo ci hanno insegnato, sulla base di una
imponente documentazione empirica, che gli esseri umani soffrono e si ammalano ogni qualvolta
si produce nella loro vita una perdita di senso. Un libro recente di ricerca sugli Stati Uniti ci
racconta gli effetti sulle persone della perdita di senso delle loro vite. Generalmente la perdita di
senso è un caso estremo studiato dagli psichiatri su singole persone ma sembra di poter dire che
siamo entrati in una fase nella quale le persone “normali” sperimentano”, collettivamente una
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condizione di deprivazione di senso delle loro vite singole ed associate e che per ciò stesso non
solo loro, singolarmente, ma la società intera soffre.
C’è chi ha tentato testardamente di evitare il problema negando al lavoro un ruolo centrale nella
vita degli esseri umani; secondo costoro l’importanza che viene attribuita al lavoro è un residuo
del passato, in realtà l’unica cosa che conta è avere un reddito per vivere la “vita vera” che è fuori
dal lavoro e che è naturalmente piena di valori e significati. Una qualsiasi analisi sociale sugli
ultimi venti anni, in qualunque paese del mondo, dimostra la natura di pregiudizio ideologico di
tale posizione. La “vita vera” è la dimensione interiore del nostro rapporto col mondo, rapporto
che avviene dando senso al mondo attraverso il nostro operare, il lavoro appunto. Ma il nostro
rapporto col mondo è duplice, nella cultura antica il mondo è insieme natura naturans e natura
naturata; noi, come singoli ma anche come società siamo parte integrale, attiva, della natura. Il
lavoro, nel duplice senso di una attività trasformativa e di una produzione di senso, è quindi il
nostro modo specifico di esistere nel mondo.
Francesco Garibaldo, direttore dell’Istituto per il lavoro di Bologna
Il lavoro è storia, identità, fisionomia, professionalità, intervento sui processi; è elemento
costitutivo della soggettività, personale e collettiva. Esso può subire attacchi e mutilazioni,
attraverso la crescente precarietà che produce incertezza sociale, proprio mentre l’impresa vuole
affermare il suo punto di vista come unico; il lavoro non è una merce come le altre, il suo valore
d’uso è insostituibile, oltre che essere fonte di diritti. E infatti le nuove soggettività che emergono
in tutti i livelli della società, a partire dai giovani, presentano come centrale il problema della loro
autodeterminazione, siano essi operai, impiegati o tecnici, donne e uomini. La composizione di
queste esigenze diverse, ma tese a obiettivi comuni, offre l’occasione di una nuova solidarietà che
può trovare forma solo in soggettività collettive che si autodeterminano.
Il lavoro e le sue condizioni sono forza possibile per una nuova comunità che trasformi il mondo,
affermano l’irriducibilità delle lavoratrici e dei lavoratori a un sistema – quello capitalistico – che
con modalità diverse nel corso della sua storia ha sempre riconfermato la sue origine oppressive,
la sua logica fondamentale di appropriazione privatistica.
E’ il problema sempre presente della libertà.
Claudio Sabattini, segretario generale della Fiom Cgil
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Osservare il lavoro e le sue trasformazioni durante questo secolo, attraverso le immagini, da
quelle fotografiche a quelle artistiche, suscita un duplice ordine di riflessioni.
La più immediata ed emotivamente forte rinvia all’inestricabile carico di sofferenze, di
fatica fisica, di coartazione del corpo e dell’anima che si diffonde dalle immagini di bambine,
donne, giovanetti, uomini colti e rappresentati nel buio delle minierei, nella sospensione dei lavori
edili, nei campi bruciati dal sole, nelle prima manifatture o nelle grandi fabbriche meccaniche e
tessili.
Questo filo non si spezza neppure quando la pluralità dei modelli del lavoro come fatica
viene progressivamente sostituita dal prevalente modello del lavoro come impegno di massa nella
fabbrica meccanizzata e alla fatica muscolare si sostituisce l’impegno produttivistico sulle
macchine.
Una seconda e più meditata riflessione rinvia ad uno degli aspetti centrali della storia del
Novecento: la costruzione del diritto sociale, la formazione della dignità individuale e morale, la
partecipazione all’organizzazione sindacale e politica come fenomeni connessi e largamente
derivati dall’esperienza personale e collettiva del lavoro.
In altri termini la costruzione della democrazia politica e della stessa dimensione nazionale
della comunità civile è passata attraverso le lotte e l’elaborazione delle rivendicazioni e dei diritti
del lavoro come affrancamento dalla soggezione, dalla precarietà, dall’assenza di ruolo nella
storia.
Certo una riflessione conclusiva sul futuro indica come la “virtualità” contenuta nel lavoro del
nostro secolo rischia di spezzarsi nella prospettiva dei nuovi lavori del ventunesimo secolo.
L’elemento che più richiama la mia attenzione riguarda, per un lato, un ritorno alle forme
pre-novecentesche di precarietà come caduta del diritto del lavoro; per un altro la scissione tra la
motivazione alla crescita e al controllo intellettuale non solo del lavoro ma del processo
lavorativo e l’insignificanza del lavoro ai fini della formazione morale e politica dell’individuo e
della collettività.
Adolfo Pepe, storico
Il lavoro negli anni Trenta, quando ero ancora bambina, era quasi sempre fatica. Ricordo le
lavandaie della campagna fiorentina chinate sul greto, d’inverno con le mani arrossate dai geloni,
a sbattere i panni sulla pietra, e gli scalpellini, d’estate, sotto il sole a picco, che martellavano la
pietra, protetti da un cappelluccio di carta di giornale.
Le macchine erano poche e roba da “ricchi”. Si camminava tanto, per andare a lavorare e
per andare a scuola. C’era il tram, ma quando possibile se ne faceva a meno, per risparmiare il
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“cinquantino”, la mezza lira, importante anche per i più privilegiati, che guadagnavano “Mille lire
al mese” come diceva una famosa canzone.
E anche il mio lavoro era fatica, malgrado sia un lavoro per pochi fortunati, un lavoro che
diverte e dà soddisfazione.
Negli anni Quaranta quando ho cominciato a osservare al telescopio, passavo le lunghe
notti d’inverno, dalle sei di sera alle sei di mattina, nella cupola, all’aperto, con l’occhio incollato al
telescopio per corregerne i movimenti e ottenere buone fotografie dei corpi celesti oggetto del
mio studio. E così abbiamo seguitato almeno fino alla fine degli anni Sessanta. Oggi tutto è più
facile e comodo. Il computer lavora per noi, comanda e segue il moto del telescopio. Al freddo in
cupola non ci sta più nessuno. Seduti comodamente al caldo possiamo osservare le immagini
fornite dal telescopio su uno schermo televisivo, che può essere situato in una stanza vicina alla
cupola, o anche a migliaia di chilometri di distanza, come quando il telescopio si trova su un
satellite in orbita attorno alla Terra.
Per questo mio, e per tanti altri tipi di lavoro, manuale o intellettuale, qualcuno rimpiange
i bei tempi antichi: “Quanto erano più poetici!”
Io credo invece che se guardiamo indietro a trenta, quaranta, cinquanta anni fa, abbiamo
fatto molta strada, in tutti i sensi. Viviamo più a lungo e in migliore salute, siamo diventati
cittadini e non più sudditi, e chi come me ha conosciuto il fascismo, fa bene a ricordare che “la
peggio democrazia è sempre preferibile alla migliore delle dittature”.
E per questa nostra recente esperienza dobbiamo offrire la nostra solidarietà a tutti coloro
che fuggono dalla fame e dalle dittature, sperando di trovare da noi una vita più dignitosa.
Margherita Hack, astronoma