Articolo 5 Open access e archivi istituzionali: opportunità e problemi

Post on 18-Aug-2015

17 views 0 download

Transcript of Articolo 5 Open access e archivi istituzionali: opportunità e problemi

Canali gratuiti. Articolo “Open Access e Archivi istituzionali: opportunità e problemi”.

Grazie alle opportunità offerte dalla rivoluzione digitale, come la velocità nello

scambio di dati tra persone distanti, le università, che trasferiscono le conoscenze

innanzitutto tramite l’insegnamento e la ricerca, si sono rese conto della possibilità di

diffondere e condividere in maniera più rapida le informazioni e i materiali di studio

e di ricerca tramite la rete, tentando anche di attenuare in tal modo la pressione

finanziaria dovuta agli elevati e crescenti costi degli abbonamenti alle riviste

scientifiche. In tal modo si cerca inoltre di dare una risposta strategica al paradosso

della proprietà intellettuale, la quale spesso ha un effetto frenante all’interno del

circuito della comunicazione scientifica, perché introduce, in quanto sistema di tutela

dei diritti d’autore, una situazione artificiale di monopolio sull’opera, la cui durata e

intensità determina un fallimento di mercato, creando barriere all’accesso, che si

aggiunge al fallimento del mercato della conoscenza, essendo essa per sua natura un

bene pubblico, quindi non rivale e non esclusivo. Proprio per ovviare ai problemi

appartenenti a tale tipo di mercato anelastico, dove la ricerca universitaria non può

fare a meno della letteratura scientifica, ma dove contemporaneamente gli editori

delle riviste più importanti impongono i loro prezzi, è nato il cosiddetto movimento

OA. “Open access” è l’espressione coniata nel corso di un meeting finanziato

dall’Open Society Institute (OSI) di George Soros, tenutosi a Budapest il 1 e il 2

dicembre 2001, al quale hanno partecipato studiosi di varie discipline provenienti da

diversi Paesi, ed è citata per la prima volta nel 2002 in un documento pubblico, il

manifesto della Budapest Open Access Initiative (BOAI), che definisce anche le

cosiddette green e gold roads. L’Open Access (accesso aperto, detto anche gold road)

permette ai membri di una comunità accademica di confrontarsi dinamicamente con

quelli di altre nel mondo e comunicare la propria conoscenza al più ampio numero di

persone possibile, rendendo quindi disponibili ai cittadini interessati le nuove

acquisizioni scientifiche, senza ulteriori costi alla collettività. Esso promuove inoltre

la diffusione gratuita dei risultati delle ricerche scientifiche su internet, che sono

valutati secondo il sistema della peer-review (valutazione tra pari o revisione dei

pari), espressione che indica la procedura di selezione degli articoli o dei progetti di

ricerca effettuata attraverso una valutazione esperta eseguita da altri specialisti dello

stesso settore, per verificarne l'idoneità alla pubblicazione su riviste specializzate o,

nel caso dei progetti, al finanziamento.

Altra soluzione è quella (definita green road) dei cosiddetti Archivi istituzionali, o

depositi istituzionali (Institutional Repositories, IR). Gli archivi istituzionali nascono

negli anni Novanta del secolo scorso (caratterizzandosi per il fatto di essere gestiti da

università che raccolgono i vari contributi dei propri ricercatori), per scissione da

quelli disciplinari, che erano intesi come aggregazione di documenti riguardanti

singole discipline e, dopo molti dibattiti sulla loro consistenza e sulle loro

caratteristiche organizzative, nel 1999 nasce anche l’Open Archive Initiative (OAI),

che tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 spingerà l’OA a trasformarsi in un vero e

proprio movimento per l’accesso aperto alla produzione intellettuale di ricerca, nato a

causa della crisi del modello tradizionale di comunicazione. In sostanza si tratta di

centri di diffusione di testi che consentono l’autoarchiviazione immediata dei risultati

della ricerca scientifica prodotta in un’università, grazie al deposito di preprints o

postprints. Le enormi potenzialità offerte da questi strumenti consistono anche nella

possibilità di archiviare tutta la letteratura grigia prodotta nelle università ed utilizzata

ai fini della ricerca e della didattica: tesi, dissertazioni, brevetti, atti di convegni etc.

In Italia, per esempio, da qualche anno è invalso l’obbligo di deposito delle tesi di

dottorato negli IR. La caratteristica dell’interoperabilità che li contraddistingue

permette di ricercare i loro contenuti tramite motori di ricerca generalisti e specialisti,

incrementando la visibilità, il prestigio e la valenza pubblica di un ateneo, attraverso

la diffusione della sua produzione intellettuale. Nel mondo esistono oltre duemila

archivi aperti che è possibile consultare sulla piattaforma OpenDOAR, mentre per

l’Italia esiste la piattaforma PLEIADI. Sempre in Italia, poi, su settantuno università,

oltre la metà si è dotata di un archivio istituzionale e ha aderito alla Dichiarazione di

Berlino, l’accordo internazionale del 2003 cui ha fatto seguito la Dichiarazione di

Messina del 2004, con la quale i rettori delle università italiane recepiscono i principi

del suddetto accordo. Ci sono ancora, come sottolineato dalla stessa Conferenza dei

Rettori delle Università Italiane (CRUI), delle resistenze da parte delle istituzioni che

derivano dalla mancata percezione dell’esatta funzione e dei benefici offerti dagli

archivi istituzionali. Le Università non comprendono che le riviste OA offrono

vantaggi non solo a loro, ma anche a tutti gli attori del sistema editoriale accademico.

Per gli autori, i vantaggi consistono nella maggiore e più immediata visibilità, ma

anche in nuove metriche di valutazione dell’impatto alternative all’Impact Factor; per

i ricercatori nella maggiore facilità di accesso ai dati e ai risultati della ricerca e nella

possibilità di sfruttare appieno nuove tecnologie quali il text-mining e il data-mining;

per gli editori nell’aumento di visibilità, usabilità e impatto delle riviste pubblicate e

degli indici di citazione.

Se si pensa alle biblioteche di ricerca si può capire come queste possano beneficiare

di un’ottica di condivisione, visto che sono costrette spesso a pagare abbonamenti

costosi per mettere a disposizione dell’utenza alcune riviste scientifiche che parte di

quella stessa utenza (come docenti e ricercatori) ha contribuito a creare, rinunciando

così all’acquisto di alcune monografie e innescando un effetto “a cascata” secondo il

quale neanche le case editrici universitarie le pubblicano più, né gli studiosi possono

vedere stampate le proprie tesi in molti campi disciplinari. In alcune università

americane il corpo docenti è giunto a votare delle mozioni a favore del libero accesso,

nella convinzione che le biblioteche di ricerca solo mettendo a disposizione

gratuitamente online le collezioni speciali possano adempiere la loro funzione

principale.

Ci sono però numerose questioni ancora aperte collegate alla condivisione del

sapere online, prima fra tutte quella del diritto d’autore, poi dei controlli di qualità,

della compatibilità dei sistemi di ricerca e di immagazzinamento dei dati, nonché del

reperimento dei fondi necessari per costruire e mantenere in funzione

un’infrastruttura digitale e vari altri aspetti tecnici che vanno considerati per costruire

IR validi. Per quanto riguarda il diritto d’autore sulla piattaforma PLEIADI si legge

che «normalmente l'editore (soprattutto gli editori stranieri) prima di pubblicare un

articolo richiede all'autore di sottoscrivere un contratto. Le tipologie di contratto

variano da un editore all'altro. Per quanto riguarda gli editori italiani, l’articolo 42

della legge 22 aprile 1941, n. 633 sul diritto d'autore stabilisce che l'autore di un

articolo su rivista ha diritto a riprodurlo altrove, purché citi gli estremi della prima

pubblicazione, a meno che non sia stato esplicitamente pattuito il contrario. In

assenza di clausole esplicite nel contratto o in assenza di contratto, l'autore può

autoarchiviare il suo articolo in un deposito istituzionale. In generale possiamo dire

che l'autore può procedere all'autoarchiviazione senza particolari richieste di

autorizzazione nei seguenti casi: 1) se il lavoro che sta depositando è un preprint, un

inedito, un lavoro non ancora sottomesso a una rivista (è tuttavia opportuno chiedere

all'eventuale futuro editore se l'autoarchiviazione può pregiudicare la pubblicazione

dell'articolo); 2) se non ha sottoscritto con un editore o altra figura un contratto di

cessione o trasferimento dei diritti; 3) se l'editore è tra quelli che consentono

l'autoarchiviazione (vd. Sherpa/RoMEO).» (Editori e diritto d’autore, in

http://www.openarchives.it/pleiadi/open-access/diritto-dautore ).

Oggi il diritto d’autore è scomposto in una serie di diritti, dal diritto di pubblicare a

quello di trascrivere, distribuire, noleggiare etc. Per la tutela di ciascuno di essi

esistono vari tipi di accordi. Solo i diritti morali, come il diritto d’inedito e il diritto

ad essere riconosciuto autore di quella specifica opera, sono inalienabili (non

trasferibili) e imprescrittibili (non si estinguono con il tempo). Allo stato attuale gli

editori italiani non si sono ancora pronunciati all’unanimità rispetto

all’autoarchiviazione nei depositi istituzionali, assumendo posizioni diverse. Esistono

infatti diversi tipi di contratti per la pubblicazione di materiale accademico e per

conoscere quali editori hanno adottato politiche favorevoli all’autoarchiviazione, si

possono consultare strumenti appositi, come la banca dati SHERPA/RoMEO.

La banca dati RoMEO (Rights on MEtadata for Open archiving) infatti, permette di

capire molto delle politiche di archiviazione e di copyright degli editori e specifica

quali editori consentono l’autoarchiviazione sia di pre-prints che di post-prints, quali

invece offrono la possibilità di archiviare solo un tipo, oppure nessuno dei due.

Anche l’atteggiamento di quest’ultimo gruppo di editori sta mutando: a volte essi

raggiungono un compromesso con gli autori che desiderano depositare i loro testi in

un IR, ponendo un periodo di ‘embargo’ da far seguire alla pubblicazione della

rivista, di durata variabile (di solito da sei a ventiquattro mesi), nel quale gli articoli

non possono essere resi disponibili in accesso aperto.

Per quanto riguarda il copyright, gli autori possono specificare quali sono i diritti di

utilizzo economico dei testi e le condizioni d’uso grazie a licenze open content come

Creative Commons (CC), tradotte in italiano nel 2004, formate dalla combinazione di

4 tipi diversi di condizioni: attribuzione (devi attribuire la paternità dell'opera nei

modi indicati dall'autore o da chi ti ha dato l'opera in licenza e in modo tale da non

suggerire che essi avallino te o il modo in cui tu usi l'opera); non commerciale ( non

puoi usare quest'opera per fini commerciali); non opere derivate (non puoi alterare o

trasformare quest'opera, ne' usarla per crearne un'altra); condividi allo stesso modo

(se alteri o trasformi quest'opera, o se la usi per crearne un'altra, puoi distribuire

l'opera risultante solo con una licenza identica o equivalente a questa). Le diverse

combinazioni (che comprendono sempre obbligatoriamente la condizione

"attribuzione") danno luogo a 6 tipi di licenza. Ogni licenza si compone di una parte

sintetica (Human readable commons deed), della intera licenza in linguaggio

giuridico (lawyer readable Legal code), e di una parte di metadati (Machine readable

digital code). Queste licenze sono a metà strada tra il modello del copyright con ‘tutti

i diritti riservati’, e il pubblico dominio con ‘nessun diritto riservato’, introducendo il

modello di ‘alcuni diritti riservati’. In questi ultimi anni per esempio, tra i vari tipi di

condizioni d’uso si sta diffondendo il copyleft (secondo la clausola di CC ‘condividi

allo stesso modo’), ossia la copia lasciata, per la quale non è dovuto alcun tipo di

compenso per la riproduzione, la modifica, la distribuzione o la pubblicazione di una

versione perfezionata dello stesso programma.

Anche i controlli di qualità che servono a valutare la ricerca scientifica sono cambiati

con l’introduzione degli IR. Non si basano più solo sull’impact factor, né solo su una

valutazione ex-ante, ma usano una combinazione di indici qualitativi e quantitativi,

che sono oggi indicati nel decreto del Miur n.89/2009. Gli indici prescritti sono: il

numero totale delle citazioni; il numero medio di citazioni per pubblicazione; ‘impact

factor’ totale; ‘impact factor’ medio per pubblicazione, nonché combinazioni dei

precedenti parametri (indice di Hirsch o simili).

In particolare, i controlli di qualità si concentrano su tre fattori: la percentuale di full-

text depositati, il valore scientifico dei contributi e l’accuratezza dei metadati.

Quest’ultima questione è inevitabilmente collegata a quella dell’immagazzinamento

dei dati in un IR. Come per gli Opac, così anche per gli archivi c’è bisogno di una

serie di regole e protocolli da rispettare perché i dati nell’IR siano omogenei anche se

immessi dai singoli autori e quindi universalmente reperibili, utilizzando forme

standard di rappresentazione dei documenti, ad esempio il Dublin Core. Gli Opac e

gli archivi istituzionali tuttavia, pur essendo entrambi strumenti per la diffusione dei

testi e per la condivisione del sapere, restano due strumenti distinti, non

interoperabili. Un altro problema da affrontare per gli IR è la scarsezza di contributi

depositati in confronto all’aumento del numero di archivi, dovuto, secondo uno

studioso come Robert Darnton, alle difficoltà incontrate dai professori nel self-

archiving. Tale problema, a suo dire, si può risolvere con un servizio di supporto ai

docenti e alla gestione degli IR che sia svolto da professionisti dell’informazione,

come i bibliotecari.

Per saperne di più:

CRUI, Linee guida per gli archivi istituzionali, in

http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=1781#

Mauro Guerrini, Gli archivi istituzionali. Open access, valutazione della ricerca e

diritto d’autore, a cura di Andrea Capaccioni, Milano, Editrice Bibliografica, 2010

Piattaforma OpenDOAR, http://www.opendoar.org/index.html

Piattaforma PLEIADI, http://www.openarchives.it/pleiadi/progetto-pleiadi/manifesto

Dichiarazione di Berlino, http://oa.mpg.de/files/2010/04/BerlinDeclaration_it.pdf

Dichiarazione di Messina, http://www.aepic.it/conf/Messina041/viewpaper5af5.pdf?

id=49&cf=1

Per il testo del decreto ministeriale sui controlli di qualità,

http://attiministeriali.miur.it/anno-2009/luglio/dm-28072009-n-89.aspx