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in misura cospicua, la geografia umana francese — è del tutto ignorato da Farinelli. Eppure anche il vecchio Marx si sorprende ad avere, a volte, una qualche idea normativa delle regole secondo le quali procede la dialettica tra sviluppo e integrazione; se da una parte “il processo di scambio delle merci implica relazioni contraddittorie, che si escludono a vicenda”, dall’altra, “lo svolgimento della merce non supera tali contraddizioni, ma crea la forma entro la quale esse si possono muovere. Questo è, in genere, il metodo col quale si risolvono le contraddizioni reali” {Il Capitale, Libro I, Torino, Einaudi, 1975, p. 126). Nulla dunque della contrapposizione antinomica tra valore d’uso e valore di scambio — nella fattispecie che in questa sede interessa, dei prodotti cartografici e della ricerca geografica —, tipica della sociologia “critica” e della sinistra hegeliana da cui deriva.
La problematica agitata da Farinelli con tale perentorietà d’assunti si giustifica, in parte, con la lunga tradizione di geografia descrittiva e positivistica, non solo italiana, da cui si cerca di uscire; di qui la necessità di offrire, oggi, della geografia, un’immagine più “critica”, alla pari con le altre discipline umane. Ma, occorre segnalare, di fronte alla dissoluzione della geografia cui sembra approdare la scepsi filosofica dell’autore — il cui peso viene forse gettato con troppa immediatezza entro i termini circostanziati e scientifici della ricerca geografica — il lettore, partito dall’esame della funzione ideologica della geografia, è trascinato involontariamente a porsi il vecchio, accademico quesito: ma qual è l’oggetto della geografia?
Aldino Monti
Italia liberale
Enzo Ciconte, ’Ndrangheta dall’unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 415, lire38.000.
Nell’autunno del 1992, un pentito di mafia, Leonardo Messina, avrebbe rivelato agli inquirenti due novità assolute dell’universo di affari e di morte alla ribalta: la prima, che nello scompiglio creato dentro la costellazione mafiosa dalle offensive dello Stato sarebbe sorta una specie di federazione di cosche, parallela e concorrente rispetto al vecchio impianto di Cosa nostra, qualcosa denominato stidda per il carattere stellare dell’organizzazione; la seconda, che la stessa Cosa nostra, sia per far fronte agli attacchi delle forze dell’ordine e
della magistratura, sia per arginare il dinamismo dei nuovi venuti, avrebbe intrecciato rapporti più stretti con la camorra napoletana, con la “Sacra corona unita” e, soprattutto, con la ’ndrangheta calabrese. Secondo Messina, alcuni esponenti di spicco delle famiglie regnanti sulle ’ndrine sarebbero stati cooptati nel circuito di Cosa nostra e quindi una parte della ’ndrangheta farebbe corpo, a tutti gli effetti, con la mafia siciliana.
Se queste rivelazioni corrispondono al vero, il tessuto della criminalità associata calabrese avrebbe compiuto — o starebbe per compiere — un ennesimo salto di qualità, per raggiungere ai livelli massimi della criminalità nazionale il ceppo biecamente illustre della malavita con radici sicule. Si trattereb
be, forse, di una specie di identificazione totale coi metodi ed i volumi delinquenziali di un prototipo di società del malaffare di cui per l’addietro la ’ndrangheta aveva ripetuto certe modalità d’azione, certi schemi di sviluppo, ma senza mai confondersi coi suoi connotati e mantenendo ben evidente un profilo proprio, frutto di un itinerario storico originale. Avremmo così l’ulteriore conferma delle tenaci e selvagge qualità di macchina del crimine racchiuse nel fenomeno della ’ndrangheta che Enzo Ciconte, in quattrocento densissime pagine, ci racconta da storico attento e da analista che ne ha intelligentemente penetrato i retroterra antropologici, sociologici e psicologici.
Ciconte ricostruisce cento- trent’anni di vita e di evoluzione di una realtà delinquenziale le
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cui scaturigini hanno probabilmente un passato lontano nei secoli e che, comunque, dal sorgere dello Stato unitario è andata via via intrecciandosi sempre più profondamente con la società calabrese, si è insinuata via via nelle sue strutture economiche, è passata dalla “qualità” di rete criminosa delle campagne all’imponenza crescente di potere malavitoso urbano ed ha finito per tracimare sul terreno delle grandi speculazioni nelle infrastrutture pubbliche e negli insediamenti industriali, legandosi a doppio e triplo filo con grande industria, politica e amministrazione. Per decenni mal conosciuta nella sua fisionomia peculiare, sicché erano devianti le stesse denominazioni “picciotteria” e “onorata società” sotto cui magistrati e poliziotti ne catalogavano la natura, la ’ndrangheta ha avuto e conservato nel tempo il carattere specifico di organizzazione a base famigliare, con riti e liturgie misterici destinati a infondere negli adepti, oltreché un senso di vincolo infrangibile, la consapevolezza di una appartenenza e di una conquistata posizione di “rispetto” sociale come fattori incentivanti, tanto più in una società contadina, povera e, a cagione della conformazione medesima del territorio, soggetta a frustranti isolamenti. Dalle primitive pratiche estorsive, il tessuto delle ’ndrine si è progressivamente dislocato sui fronti più avanzati e più appetibili dei ricatti, dei sequestri di persona e delle più variegate occasioni di illegalità lucrosa, giovandosi a tutto campo delle debolezze, delle complicità e delle arretratezze
del contesto statale nel quale operava. Ciconte ha spogliato centinaia di sentenze di tribunali dall’unità ad oggi, ha frugato negli atti parlamentari e nella pubblicistica, non trascurando la rappresentazione letteraria e il testimoniale “colto” sul significato e l’entità della piaga: ne è venuta fuori una ricostruzione il cui merito non è soltanto di costituire il primo approccio globale ai misfatti di questo potere occulto, bensì anche di fornirne un quadro di esplorazione nelle viscere, ricomposto andando a frugare nelle mille pieghe, più o meno nascoste, delle insolvenze, delle collusioni e delle interessate tolleranze di cui, decennio dopo decennio, la ’ndrangheta si è avvalsa per inquinare in ogni direzione società, economia, vita civile della Calabria. Un processo di progressivo ingigantimento malavitoso nel quale la figura dello Stato e delle sue articolazioni istituzionali hanno ruoli sinistri di complicità dirette o di indolenze oblique, di spazi artatamente aperti al dilagare della violenza determinata a piegare la legge o di estese, sotterranee omertà vissute tra la paura e il prevalere dello spirito imbelle sui doveri d’ufficio, tra losche interessenze e autentici tradimenti degli impegni giurati al servizio della comunità. Prefetti, magistrati, poliziotti hanno scritto, in questa storia crivellata di morti, di sopraffazioni, di insediamenti nella ricchezza a danno del privato e del pubblico, pagine vergognose. Potere sveltamente astuto e preveggente nell’adeguarsi al mutare delle condizioni e dei tempi, la ’ndrangheta si è inserita nelle
fibre dello Stato lavorando di intimazioni e di corruzione, ha saputo gettarsi nella manovra del personale politico e amministrativo con tutte le seduzioni delle proprie egemonie elettorali e della capacità di volgere a proprio vantaggio le falle e le pigrizie delle strutture di garanzia formale della legalità collettiva. Così si sono affermate le protervie di una criminalità covata nel grembo delle latitanze statali e delle immaturità di una borghesia calabrese non mai uscita dall’alveo asfittico delle sue consuetudini di parassitismo inerte e micragnoso. Paradossalmente, quello Stato largamente inteso come un nemico irrimediabile, è stato per tanti versi fattore primario delle truci fortune ’ndranghiste.
I flussi incontrollati di danaro pubblico, il voto di scambio, l’intrallazzo amministrativo, accanto alle inadempienze colossali del riequilibrio economi- co-produttivo, sociale ed ecologico del territorio, hanno dato alla società del crimine opportunità enormi di consolidamento del proprio dominio. Oggi, una generazione di magistrati giovani e anche di poliziotti generosamente sulla breccia tenta di bloccare una valanga che deborda al Nord, si avvale di ramificazioni all’estero, ricicla incessantemente danaro sporco in attività finanziarie (bancarie in specie, e Ciconte sottolinea le responsabilità gravissime del settore in questa materia), uccide spietatamente secondo regole antiche del proprio “ordine”, lacerando la miseria calabra con incessanti fendenti. Non sono i presidi militari sull’A- spromonte e tanto meno gli in
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terventi finanziari a pioggia a poter fermare la piena di questa forza d’urto: il problema sta in una diversa coscienza dei nodi socio-economici e culturali da sciogliere, in una diversa moralità della classe dirigente. Ma, ovviamente, qui si esce dalla storia e si entra, drammatica- mente, nell’attualità che è ancora cronaca: alla quale, però, il lavoro di Ciconte conferisce il respiro di una riflessione tra passato e presente di ineludibile eloquenza.
Mario Giovana
Dianella Gagliani, Mariuc- cia Salvati (a cura di), La sfera pubblica femminile. Percorsi di storia delle donne in età contemporanea, Bologna, Clueb, 1992, pp. 240, lire 28.000 (Quaderni del Dipartimento di discipline storiche).
Il libro, nato con un intento soprattutto didattico, raccoglie gli atti del seminario organizzato, nel dicembre 1990, dal gruppo di lavoro sulla storia delle donne del Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. I singoli contributi mantengono, per lo più, il carattere di interventi seminariali e sono disuguali tra di loro rispetto al lavoro di ricerca che li sostiene. Alcuni, infatti, fanno riferimento a ricerche ad uno stadio avanzato e, in taluni casi, già pubblicate (Anna Rossi- Doria, Victoria De Grazia). Altri, invece, rimandano a ricerche allo stadio di progetto, o in corso, oppure si presentano come ipotesi di lavoro, oppure, infine, suggeriscono una valutazione critica e una proposta
di discussione dei principali nodi teorici affrontati dalle ricerche sulla “sfera pubblica femminile” . Gli interventi sono presentati secondo un ordine cronologico che va dall’inizio dell’Ottocento ai giorni nostri, e sono disposti secondo alcune aree tematiche quali, ad esempio, la rappresentanza, l’associazionismo femminile, il lavoro e l’istruzione, la cittadinanza. Essi fanno riferimento alla situazione italiana, tranne due, quello di Mathilde Aspmair e quello di Maria Clara Donato, che riguardano, rispettivamente, la Germania di Weimar e la Cina. Il libro è arricchito da una bibliografia ragionata, curata da Maria Pia Bigaran, che integra ed offre un inquadramento generale ai riferimenti bibliografici delle singole sezioni.
L’introduzione di Mariuccia Salvati vuole chiarire e problematizzare, ad un tempo, il concetto di “sfera pubblica femminile”, in relazione alle diverse tematiche contenute negli interventi raccolti nel volume. Salvati localizza soprattutto in quell’area di confine e di attrito tra sfera pubblica e sfera privata, lo spazio in cui è possibile rintracciare in epoca contemporanea un ruolo ‘pubblico’ delle donne. Tuttavia, l’inserimento di una dimensione femminile porta con sé una riformulazione del concetto stesso di sfera pubblica. Con esso non si può più soltanto intendere l’ambito delle istituzioni che si occupano del bene pubblico, oppure lo spazio sociale al cui interno si definisce l’opinione pubblica, dai quali le donne sono state tradizionalmente escluse. È ne
cessario far riferimento ad un concetto di sfera pubblica in grado di contemplare tra i suoi attori sia gli uomini che le donne, entrambi responsabilizzati del corretto funzionamento dell’organizzazione sociale. Salvati individua nelle riflessioni di Hannah Arendt, in particolare nel concetto di “mantenimento della vita”, inteso come ragion d’essere della società occidentale, la base teorica per una riformulazione della definizione di sfera pubblica, in grado di includere e di valorizzare il contributo femminile.
I saggi compresi nel volume si collocano all’interno di queste riformulazioni concettuali e di queste ridefinizioni di ambiti di appartenenza. Essi sono organizzati intorno ad alcune categorie analitiche, ed è soprattutto in questo che consiste l’interesse del libro, cruciali per un’indagine sulla presenza femminile nella sfera pubblica. Si tratta, innanzitutto, della categoria di cittadinanza, nella sua triplice accezione di cittadinanza civile, politica e sociale, aspetti che, per le donne, non sempre hanno coinciso storicamente. Come emerge dall’intervento di Maria Pia Bigaran, alle donne italiane vengono garantiti, infatti, i diritti civili e sociali assai prima di quelli politici. Non solo, l’attribuzione dei diritti sociali, attraverso la realizzazione del Welfare State, diventa in molti casi, per le donne, la premessa di un loro coinvolgimento politico. De Grazia mette in luce, ad esempio, che le iniziative assistenziali del fascismo si basano sulla partecipazione delle donne, su “un attivismo sociale femmini
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le” che esprime un paradosso di fondo del regime, riconducibile ad una definizione contradditoria della cittadinanza femminile. Il fascismo, infatti, intende mobilitare politicamente le donne, garantendo loro una presenza pubblica, proprio a partire dalla rivalutazione sociale del loro ruolo domestico svolto nell’interesse dello Stato. Come risulta, inoltre, dagli interventi di Dianella Gagliani e Angela Verzelli, la realizzazione degli obiettivi del Welfare State diventa l’area privilegiata dell’impegno politico delle donne. Tuttavia, non sempre l’estensione dei benefici del Welfare State, che ha sicuramente portato con sé un aumento del lavoro extradomestico delle donne e, quindi, un’espansione della loro presenza pubblica, ha significato un sensibile incremento del numero delle donne sul terreno della rappresentanza politica.
La categoria interpretativa di rappresentanza sta dietro a molti degli interventi di questa raccolta. Un aspetto interessante analizzato in diversi contributi è la relazione che viene stabilita, nel caso delle donne, tra capacità di “autorappresentazione” e di “rappresentazione pubblica”, da un lato, e “rappresentanza politica”, dall’altro. Paola Di Cori dimostra che l’attenzione per le “rappresentazioni di genere”, per una più precisa definizione dell’identità sessuale femminile e per una sua più netta differenziazione da quella maschile, aumenta con l’intensificarsi del dibattito sull’estensione della rappresentanza politica alle donne. Laura Mariani mette in luce, invece,
che l’autorevolezza delle attrici e la capacità di “rappresentazione pubblica” acquisita attraverso la loro arte, risponde ad un’esigenza cruciale dell’eman- cipazionismo, quella di creare una immagine femminile pubblica ed universale. Non sempre, come abbiamo visto, una presenza delle donne sul mercato del lavoro si traduce diretta- mente in una loro presenza anche al livello della rappresentanza politica. Determinante, a questo fine, sembra essere, come emerge da alcuni contributi del volume che riguardano le donne lavoratrici e l’associazionismo femminile, 1’ “autorappresentazione” che queste donne lavoratrici hanno di sé e l’immagine pubblica e la considerazione di cui godono socialmente che, nel loro caso, non è molto elevata. Tuttavia, anche nel caso di donne attive sul mercato del lavoro intellettuale, come le insegnanti, la loro professione, che pur gode di un certo prestigio sociale, non è in grado di emanciparle dalla loro marginalità politica. Simonetta Soldani, ad esempio, a proposito del coinvolgimento delle donne nella scuola a partire dalla riunificazione del sistema scolastico nazionale, analizza la contraddizione vissuta dalle insegnanti di essere, da un lato, escluse dal diritto di voto e di essere riconosciute, dall’altro, come le dispensatrici-garanti delle conoscenze necessarie per esercitare proprio quel diritto.
Un ultimo aspetto, di estremo interesse, presente in molti contributi, è costituito dal rapporto tra moralità e sfera pubblica. La moralità, infatti, è stata spesso la qualità principa
le rivendicata dall’emancipazio- nismo per legittimare un impegno femminile nella sfera pubblica. Ma di quale concetto di “moralità” si tratta? Rossi-Do- ria insiste sul fatto che nella storia del suffragismo sono state presenti, fin dall’inizio, due istanze morali. La prima è legata al concetto di responsabilità individuale e all’esigenza di estendere anche alle donne questo diritto universale, che è alla base della libera scelta morale. La seconda, nasce dall’esigenza di fondare teoricamente una specificità femminile che esprima una differenza, senza essere alternativa all’uguaglianza rispetto agli uomini. Essa si basa sulla convinzione religiosa di una superiorità morale femminile che si esprime, soprattutto, nella capacità di amore e dedizione insita nel ruolo materno che, per volere divino, tutte le donne sono in grado di assolvere. Tuttavia, come appare da molti degli interventi raccolti in questo volume, proprio perché l’istanza morale legata al ruolo materno è radicata più profondamente nella tradizione femminile, ed è quella in cui le donne si sono più facilmente identificate, essa ha finito col prevalere sull’istanza morale fondata sul diritto dell’individualità. Di conseguenza, nelle rivendicazioni femminili, si è teso a legittimare l’ingresso delle donne nella sfera pubblica, valorizzando le qualità di “maternità estesa” e facendo appello alla loro “utilità sociale” come garanti della giustizia e della morale e non piuttosto al loro diritto, come cittadine-individui, di essere responsabilizzate, insieme agli uomini, del buon an-
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damento della società in cui vivono.
Delfina Dolza
Aa.Vv., Dai due versanti delle Alpi. Studi sull’emigrazione italiana in Francia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1991, pp. 154, lire 25.000
Nel suo saggio su Temi, metodi e fon ti nella recente letteratura italiana e francese, Renato Monteleone ripropone gli studi di sintesi sull’emigrazione per superare i limiti delle ricerche microdimensionali e delineare i mercati del lavoro tra Ottocento e Novecento, l’interdipendenza economica di aree contigue separate politicamente come il Cuneese e Marsiglia. L’autore cita inoltre alcuni possibili temi di ricerca: il ruolo dell’emigrazione come “meccanismo di ricostruzione della manodopera”, le sue componenti economiche e politiche per una storia sociale della mobilità operaia, i suoi nessi con l’industrializzazione.
Anche lo studio di Michel Dreyfus, Le fon ti sull’emigrazione italiana in Francia: come e perché?, offre spunti stimolanti intorno alle modalità di ricerca e collega le migrazioni alla storia del movimento operaio. Ribadita la carenza delle fonti rispetto alle diverse ondate migratorie per le distruzioni belliche, le esigenze della clandestinità, gli orizzonti culturali dei curatori di archivio, Dreyfus sottolinea il carattere fuorviarne dei materiali letti senza sufficiente intelligenza critica, la discrepanza tra il peso oggettivo dei fenomeni storici e la lo
ro documentazione, la frammentarietà delle fonti nonostante l’attivismo o per la marginalità sindacale dei lavoratori.
Gli altri contributi non appaiono conseguenti rispetto a tali premesse, presentano i risultati di ricerche indipendenti, salvo la delimitazione di un ambito geografico comune di studio (Piemonte e Francia) e l’accordo di collaborazione nel campo tra le università di Torino e di Aix-en-Provence; in ombra rimangono proprio i caratteri distintivi delle aree di partenza e di arrivo, i loro legami profondi.
Da “La Stampa” e “La Gazzetta del Popolo” degli anni venti si recuperano alcuni elementi dell’emigrazione temporanea e permanente, clandestina e ufficiale, del fuoriusciti- smo (Nicola Giannotti), condizionati però dal controllo governativo sui giornali. Numerosi sono i riscontri documentari necessari per approfondire la conoscenza dell’esodo negli anni tra dopoguerra e dittatura. Censimenti e passaporti, dati demografici e dei renitenti alla leva sono già noti per la scarsa attendibilità, poco significativi rispetto alle peculiarità di paesi come Scarnafigi e Paesana (Lidia Craverso); “un’analisi dettagliata di casi specifici” deve prendere in considerazione anche le interdipendenze con l’esterno nutrite dall’emigrazione. In alcuni casi si ricorre alle lettere per ricostruire le vicende di un gruppo familiare (Manuela Dossetti), in altri si insite sul tema delle catene migratorie e dei legami parentali (Gérard Claude) o della mobilità degli immigrati tra quartieri diversi a Mar
siglia, senza però valutare il peso degli interessi edilizi (Marcel Dottori), sul bilinguismo e l’integrazione religiosa (Jean-Charles Vegliante e Laurent Couder). Si tratta tuttavia, nel complesso, di filoni secondari di ricerca.
Confermata la critica alle fonti, la tendenza comune è quella di limitarsi ad un riassunto del contenuto, senza riconnettere gli avvenimenti particolari con quelli di valenza nazionale ed europea. L’emigrazione sembra così appartenere a secoli diversi rispetto a quelli che hanno generato, ad esempio, la Comune parigina, gli scioperi e le repressioni, la rivoluzione russa, il movimento internazionale per la liberazione negli Usa degli emigrati italiani Sacco e Vanzetti, ed è invece tra Ottocento e Novecento uno dei fenomeni sociali più complessi e articolati. Limitarsi all’esame delle fonti più accessibili rischia di condurre a frequenti ripetizioni su argomenti settoriali; i documenti parlano non solo, e in primo luogo, di chi li ha prodotti, ma anche degli studiosi che vi ricorrono e del loro impegno per approfondire le ricerche.
Franca Modesti
Mario Silvestri, Riflessioni sulla Grande Guerra, Roma- Bari, Laterza, 1991, pp. VIII-206, lire 34.000.
È difficile recensire un libro di questo genere, poiché per molti versi se ne esce, alla fine della lettura, abbastanza sconcertati ed anche un po’ irritati. Scritto da un docente universi
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tario del Politecnico di Milano che non è uno storico ma da anni si occupa anche di storia, il volume è certamente da leggere, pur se in un’ottica ben precisa e, oserei dire, quasi didascalica. Esso infatti si presenta come un fecondo terreno di riflessione ex contrario, istruendoci sul come non si scrive la storia (Paul Veyne, dove sei?), sui metodi da non usare in una corretta ricerca storiografica, sulle opere da non prendere a modello. Un pregio, certo, è innegabile: siamo davanti finalmente ad un lavoro che nel titolo rispecchia i propri contenuti, in quanto si tratta davvero di “riflessioni” sulla prima guerra mondiale, che però denunciano il piccolo difetto di essere un po’ troppo a ruota Ubera e di dar vita ad un coacervo composito di giudizi fortemente opinabili, sia nel merito sia nella cifra stilistica (con una sintassi spesso involuta che a tratti, francamente, lascia perplessi).
L’autore non utilizza fonti di alcun tipo né documenti storiografici (che pure sull’argomento sono decisamente abbondanti) per suffragare le proprie affermazioni, le quali però si mostrano assai nette, decise, generalizzanti, lapidarie, fino a stridere con la carenza di precise linee metodologiche all’interno dell’opera. Vi sono pagine da elevare a paradigma, in cui spiccano riflessioni su temi e personaggi talmente complessi da meritare ben altro sforzo critico-analitico, ben altra penna e, mi sia consentito, ben altra umiltà scientifica e intellettuale. Scoviamo così assiomi scultorei (che non ammettono dialettica e danno il tono dell’intero im
pianto del libro), ad esempio sull’esperienza della rivoluzione francese, sminuita in due battute en passant (pp. 6-8) oppure su Marx, definito “pseudoteorico” tout court (p. 9); sull’evoluzione tecnico-tattica degli eserciti (pp. 10-20) o sul complesso fenomeno dell’imperiali- smo (pp. 19-22); sulla storia russo-sovietica, verso la quale l’autore mostra una singolare superficialità (tra le altre cfr. pp. 41 e 156) oppure su Hitler, la sua figura personale, la sua politica e un intero pezzo di storia europea liquidata an- ch’essa in meno di due sentenziose battute (pp. 155-161); oppure sulla fine e la funzione storica dell’impero austro-ungarico, rimpianto senza grandi sforzi di analisi (p. 191); per finire in apoteosi con disarmanti interpretazioni del colonialismo, tanto eurocentriche da apparire ormai caricaturali, alla fine di questo millennio e dopo tanto impegno storiografico (pp. 198-199) e con aforismi sulle responsabilità nello scoppio del secondo conflitto mondiale, di cui Roosevelt sarebbe stato il principale colpevole... (p. 200). Il tutto condito, d’altro canto, da frequenti spunti “fascinosi” (soprattutto nei passi di cronaca degli avvenimenti, spesso incalzanti e ben condotti, e nell’affresco sulle innovazioni tecnologiche legate agli sviluppi bellici), che rischiano di irretire il lettore meno esperto e di trascinarlo in questa cavalcata che rende semplice e semplicistica la comprensione della storia europea e mondiale, con una troppo greve apoteosi del modello di civiltà bianca, occidentale, destinata a guidare i destini del pianeta.
C’è un solo passo che vorrei presentare al potenziale lettore, scelto tra i tanti che sono costretto a tralasciare per gli evidenti limiti di spazio. A p. 160 Mario Silvestri, dopo aver parlato degli accordi di Monaco, scrive: “Se Hitler fosse morto il 1° ottobre 1938 oggi sarebbe ricordato dai tedeschi come il più grande uomo di Stato germanico dopo Bismarck (...). Al passivo aveva solo [sic!] i suoi atteggiamenti antisemiti e le leggi di Norimberga, che però non si erano ancora tradotte in eccidi e crudeltà, ma solo in vessazioni, da cui è difficile che ogni statista sia esente”. Questa breve citazione vuol essere, paradossalmente, uno stimolo a leggere tutto intero il volume, ad “interrogarlo” con metodo maieutico traendone insegna- menti e avvertimenti sui pericoli che corriamo nel vederci “riscrivere” sotto gli occhi la storia non in maniera profonda, analitica, e storiograficamente “sofferta”, ma attraverso gli ammalianti canti di sirene della semplificazione e dei giudizi dogmatici (che, per di più, trovano Vimprimatur da Laterza). Penso a quanto aleggino lontane da questo libro le acquisizioni della ultima e più valida storiografia, sia italiana che internazionale, sulla grande guerra, e rifletto su quanto stridano queste Riflessioni al cospetto, per esempio, dei risultati, frutto di decennali ricerche e di un metodo da seguire conseguiti da Antonio Gibelli (L ’officina della guerra, Torino, Bollati Bo- ringhieri, 1991, recensito in “Italia contemporanea”, 1991, pp. 517-519).
Enzo Fimiani
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Silvia Inghirami, La predica inutile dei liberisti. La lega antiprotezionista e la questione doganale in Italia (1904-1914), Milano, Angeli, 1991, pp. 176, lire 24.000.
Prevalentemente basato sulla pubblicistica coeva e su fonti edite, questo lavoro delinea alcuni aspetti e problemi della polemica tra liberisti e protezionisti in età giolittiana, non con l’obiettivo di “riaprire ancora una volta il dibattito sul valore del protezionismo ed aggiungere nuovi giudizi alle esaurienti analisi compiute dagli storici dell’economia sullo sviluppo industriale italiano”, bensì piuttosto di “offrire un contributo alla ricostruzione di un brano della storia politica dell’Italia liberale e di ridare voce a personaggi trascurati dalla storiografia” (p. 12). L’accento forte cade sul ruolo svolto nella Lega da uomini come Salvemini, De Viti de Marco, Giretti, Einaudi, Cabiati, Borgatta, Carano Donvito, Prato, Luzzato, i quali, opponendosi “all’autoritarismo statale” e reclamando “la libertà economica”, intesero “perseguire e completare la battaglia di fine secolo per la libertà politica” . Che tale finalità fosse centralissima nella loro azione il libro cerca di dimostrare, analizzando i contenuti soprattutto ideologici del confronto tra le parti e fornendo un corpus argomentativo di notevole interesse (pp. 45-88), da cui si evincono varie ragioni della ‘diversità’ tra il liberismo postunitario, entrato parzialmente in crisi già a metà degli anni settanta ma perdente su tutta la linea solo nella metà de
gli anni ottanta (tariffa del 1887), e quello di periodo gio- littiano, pur nella comunanza di alcuni parametri teorici mutuati da maîtres à penser sul tipo di Ferrara, di Pantaleoni, di Pareto.
Secondo Silvia Inghirami i partigiani della Lega non sarebbero stati incapaci di comprendere la natura dei problemi economici connessi col processo di industrializzazione del paese: li avrebbero invece compresi, giudicandone inaccettabile i costi, dal momento che con l’opzione protezionista lo Stato “si faceva garante di interessi privati, dispensatore di privilegi a gruppi economici organizzati” (p. 10), “strumento delle clientele e di minoranze parassitane”. In alternativa essi avrebbero inteso “proseguire e completare la battaglia di fine secolo per la libertà politica”, trovando convergenti su questo terreno radicali, democratici e socialisti, concordemente impegnati nella “difesa dei diritti delle masse consumatrici, delle maggioranze popolari contro gli abusi delle classi privilegiate” (p. 11; cfr. pp. 89-164). Sul piano concretamente attuativo la Lega non conseguì apprezzabili risultati, ma col suo “progetto di rinnovamento democratico” trasmise i valori della tradizione liberista alle “generazioni successive” (p. 13).
Tutto ciò è sostenuto con passione e con efficacia espositiva, rimovendo però un quesito centrale, a suo tempo già lucidamente posto da Gerschenkron, e non solo da lui: se cioè il modello di sviluppo liberista fosse applicabile al contesto italiano, in che modo e con quale
coerenza, soprattutto tenendo conto dell’ancora complessiva arretratezza economica del paese, della carenza di capitali, della povertà del mercato ecc., ossia di quegli elementi che dovevano essere in qualche modo forzati, e che lo furono, sia pure in ritardo, con il concorso anche dei cosiddetti “fattori sostitutivi”, onde consentire all’Italia di riuscire a collocarsi tra le aree industrializzate dell’Europa.
Paolo Pecorari
Michele Lungonelli, La Magona d ’Italia. Impresa, lavoro e tecnologie in un secolo di siderurgia toscana (1865-1975), Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 197, lire 20.000 (Fondazione Assi).
Aggiungendosi alla sempre più nutrita schiera di storie d’impresa patrocinate negli ultimi anni dalla Fondazione Assi, lo studio di Michele Lungonelli — inserendosi in una tradizione storiografica concentratasi principalmente sulla nascita e lo sviluppo della siderurgia pubblica, e sul percorso imprenditoriale di alcuni grandi commis d ’Etat quali Agostino Rocca e Oscar Sinigaglia — trova una sua originale collocazione ricostruendo le vicende di una delle maggiori e più antiche imprese siderurgiche private, appunto la Magona d’Italia, fondata a Piombino nel 1865. L’asse portante della ricerca è senz’altro rappresentato dall’attenzione costantemente prestata alla dimensione tecnologica, ai processi di innovazione e alla dipendenza dell’impresa
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piombinese dall’estero (prima dalla Gran Bretagna e successivamente dagli Stati Uniti) nel campo della laminazione degli acciai e dei processi di stagnatu- ra. Pur attenendosi senza divagazioni ai canoni interpretativi e stilistici tipici della business history, è tuttavia merito dell’autore non aver rinunciato a tracciare un quadro, sintetico ma efficace, dell’ambiente sociale, culturale e politico nel quale matura e si sviluppa l’esperienza imprenditoriale della Magona. Degne di nota risultano a tale proposito le pagine iniziali dedicate a tratteggiare il profilo delle comunità d’affari straniere operanti nella Toscana dell’Ottocento, dalle quali prenderà avvio, oltre all’impresa siderurgica piombinese, l’avventura mineraria della Monte- catini. Analogamente, pur individuando sin dalla vigilia della prima guerra mondiale una spiccata tendenza dell’azienda (a fronte di una compagine proprietaria composita e priva di forti azionisti di riferimento) alla conduzione manageriale, sotto la guida di due figure dal profilo prevalentemente tecnico quali Emanuele Trigona e Arturo Piccioli, allo stesso tempo Lungonelli non tralascia di rimarcare il ruolo determinante da questi svolto nell’affermazione del fascismo piombinese, con una parabola politica analoga, sia pure in chiave minore, a quella dell’astro nascente della Montecatini, Guido Donega- ni. Significativa sotto questo aspetto appare la carriera politica di Trigona, deputato dal 1925 e poi senatore, sottosegretario alle Corporazioni negli anni 1929-1932, presidente de
gli industriali toscani nonché, dal 1933, presidente dell’Alfa Romeo su incarico dellTri. Dimensione politica e dimensione imprenditoriale dell’attività di Trigona trovano il loro coerente punto di giunzione nella intensa partecipazione alla politica consortile del settore dell’acciaio (del 1928 è la nascita del Consorzio produttori di banda stagnata) e nella crescente istituzionalizzazione, corporativa e non, delle decisioni di investimento e di specializzazione produttiva; da questo punto di vista, di grande interesse si sarebbe rivelata l’analisi del ruolo svolto dalla Magona nelle lunghe lotte degli anni trenta tra ‘pubblici’ e privati sul ciclo integrale e sul piano autarchico, aspetto che viceversa l’autore tralascia inspiegabilmente di affrontare.
Più esaurienti risultano i capitoli relativi al secondo dopoguerra. Qui, rispetto alla rinnovata opzione strategica pubblica del ciclo integrale e alla trasformazione internazionale del settore legate alla nascita della Ceca nel 1951, l’autore sottolinea le forti difficoltà incontrate dal nuovo gruppo dirigente — guidato da Gaetano Casoni, figura di rilievo legata ai gruppi elettrici Sade e Selt-Valdarno, e da Piero Ridolfi, proveniente dalla Vetrocoke di Porto Mar- ghera dopo esser passato attraverso l’Uva e la Fiat — ad adeguarsi al mutato scenario (trasformazioni tecnologiche, competizione stato-privati, progressiva apertura al mercato internazionale), anche in seguito ai contrasti con la Siac Corniglia- no per la fornitura di laminati e alla penalizzazione della Mago
na da parte delle scelte ministeriali volte all’armonizzazione della produzione siderurgica italiana con i programmi europei. Solo in seguito al rinnovamento degli impianti finanziato coi fondi Imi-Erp e all’abbandono della produzione diretta di acciaio, la crisi dell’azienda — culminata nei licenziamenti del 1953-1956 — troverà alla fine degli anni cinquanta un punto di svolta, anche grazie alla riapertura del canale politico rappresentato dalla intensa azione di lobbyng esercitata dal deputato democristiano Giuseppe Vedovato. In questa nuova fase, il rinnovamento del gruppo dirigente in base a connotati manageriali assai più spiccati, l’ammodernamento produttivo sulla base di tecnologia americana, la diversificazione del prodotto e una situazione del mercato internazionale favorevole con domanda in espansione, conducono ad una fase di rilancio “ingegneristico- produttiva”, mentre dal punto di vista delle funzioni aziendali (amministrativa, finanziaria, commerciale) i progressi si confermano lenti e diseguali. Il problema delle “due velocità” di sviluppo dell’azienda si riproporrà infatti anche nella successiva gestione Fazzi-Gar- latti, che pure attraverso la decisa specializzazione della Magona riuscirà ad elaborare una strategia congiunturale in grado di resistere alla forte crisi del settore siderurgico negli anni settanta. La ricostruzione delle vicende dell’azienda si interrompe con l’acquisizione della Magona da parte del gruppo Lucchini.
Stefano Battilossi
Rassegna bibliografica 581
Arnaldo Cherubini, Beneficenza e solidarietà. Assistenza pubblica e mutualismo operaio 1860-1900, Milano, Angeli, 1991, pp. 398, lire 40.000.
Arnaldo Cherubini aggiunge un nuovo importante tassello alla storia dell’assistenza pubblica in Italia alla fine dell’Ottocento. Sono noti i suoi numerosi studi sui metodi assistenziali, sul mutuo soccorso, sulla previdenza sociale e sul rapporto tra medicina e lotte popolari; non stupisce, quindi, la scelta di approfondire gli aspetti storico-giuridici dell’intervento legislativo in materia di beneficenza nella fase cruciale della sua trasformazione da “semplice titolo al soccorso” a diritto riconosciuto. L’autore parte dalla ricostruzione dei provvedimenti legislativi del 1859 che prevedevano la costituzione, presso ogni comune, di una Congregazione di carità, quale ufficio pubblico di beneficenza eletto con voto popolare e deputato all’amministrazione del patrimonio delle opere pie e si inoltra nell’esame del controllo statale di esse. A fianco e in parallelo alla progressiva conquista, da parte dello Stato, di un settore strategico della cosiddetta amministrazione sociale, e importante veicolo di formazione del consenso politico dei ceti più deboli della società, l’autore colloca l’associazionismo mutualistico cattolico e operaio negli anni compresi tra il 1860 e il 1900.
L’analisi squisitamente politica delle vicende che accompagnarono l’affermazione della legge 3 agosto 1862, n. 753, relativa al controllo e alla tutela
delle istituzioni assistenziali, consente di cogliere quanto fosse “indulgente” e cauto, nella fase immediatamente postunitaria, l’atteggiamento della Destra nei confronti di un settore a cui si concedeva la più completa autonomia amministrativa. Diverso impatto sulle forze politiche ebbe la pubblicazione nel 1880 dei volumi della più grande inchiesta sulle opere pie dell’età liberale,mirata a verificare l’entità del patrimonio degli istituti di beneficenza e la correttezza delle gestioni amministrative e contabili. L’imponente ricchezza costituita dal settore assistenziale veniva distribuita — secondo quanto emergeva dalla ricerca — da istituzioni caritative che si connotavano come “enti economici” su cui lo Stato non esercitava un controllo adeguato. Queste, inoltre, venivano gestite da personaggi politicamente rilevanti nelle amministrazioni locali e in grado, quindi, di condizionare ampi settori dell’elettorato attivo, sensibile — come acutamente sottolinea Cherubini — alla funzione di stretto controllo sociale che le istituzioni assistenziali potevano esercitare su quelle sacche della popolazione considerate marginali e dunque potenzialmente criminali.
L’ampio dibattito dottrinale di indirizzo giuspubblicistico che affrontò — soprattutto ad opera di Vittorio Emanuele Orlando — la delicata questione del carattere pubblico che connotava gli organi della beneficenza in ragione dello scopo perseguito e quindi dell’attività svolta, segnò il passaggio della questione “caritativa” dall’an
gusto campo dell’ordine pubblico a quello di una moderna assistenza sociale. In tale contesto l’autore colloca e ricostruisce con efficacia le tappe e gli esiti giuridici e politici della riforma crispina delle “istituzioni pubbliche di beneficenza” del 1890, che si poneva come obiettivo la semplificazione e la delimitazione dei costi dell’amministrazione delle opere pie; la responsabilizzazione degli amministratori; l’applicazione di un più rigido controllo statale; la regolamentazione normativa del domicilio di soccorso; la trasformazione dei fini delle opere pie. La crescita del mutualismo operaio, le cui radici sono ricercate dall’autore nell’associazionismo milanese e piemontese dell’ultimo decennio preunitario, viene ricostruita dettagliatamente tanto nel suo percorso politico volto al riconoscimento giuridico delle nuove organizzazioni, quanto nell’affermazione progressiva dei principi fondamentali della legislazione sociale moderna. Di grande interesse risulta la riflessione di Cherubini sul confronto che le forze politiche più profondamente legate alla cultura popolare e operaia, i cattolici e i socialisti, furono costrette ad effettuare con il fenomeno associazionistico e previdenziale che andò connotandosi, nel tempo, per i suoi caratteri ora squisitamente politici, ora sindacali.
Maria Letizia D’Autilia
Diego Robotti e Bianca Gera, Il tempo della solidarietà. Le 69 società operaie che fondarono la Camera del lavoro di Torino,
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Milano, Feltrinelli, 1991, pp. 288, lire 25.000.
Sulla scorta di un’ampia messe di materiali, dati statistici e informazioni storiche (attinti al patrimonio documentario che sulla galassia del mutualismo è conservato presso l’Archivio di Stato di Torino, l’Archivio storico della Città di Torino, l’Istituto Gramsci, e diverse raccolte e biblioteche pubbliche e private del capoluogo piemontese), gli autori rendono la situazione economico-sociale e il clima politico in cui il mondo operaio torinese decide tra il 1890 e 1891 di fondare la Camera del lavoro. Restano tuttavia in ombra nella ricerca le figure dei promotori e dirigenti delle associazioni mutualistiche, mentre non si dà conto del dibattito che si svolge nel consiglio comunale di Torino sul costituendo organismo e che registra nel febbraio 1891 gli interventi degli esponenti della società politica e dell’intellighenzia cittadina, in primis Edmondo De Amicis.
È però opportuno collegare, come fanno gli autori, la nascita e lo sviluppo della Camera del lavoro al moto di elevazione morale e materiale dei lavoratori e dei ceti popolari coadiuvati dalle società di mutuo soccorso che negli anni successivi all’Unità vanno sorgendo in molte città della penisola come prima elementare forma di organizzazione operaia moderna. Nel 1862 si contano in Italia 443 società (con 111.608 soci effettivi, di cui 10.198 femmine e 202 fanciulli), di cui 133 in Piemonte, 47 in provincia di Torino e 14 nel capoluogo. La pratica
del mutuo soccorso contribuisce a unificare il mondo del lavoro e accresce il peso specifico e l’incidenza dei lavoratori come classe in un universo dominato dalla borghesia capitalistica. Tale pratica, ha osservato Nello Rosselli nel suo classico saggio su Mazzini e Bakunin (Dodici anni di movimento operaio in Italia. 1860-1872, a cura di Leo Valiani, Torino, Einaudi, 1967, pp. 49-50), “se pur di necessità ristretta entro i limiti del sussidio ai soci bisognosi (sola eccezione la cassa di resistenza fra i tipografi)”, si dimostra efficace: “primo addestramento degli operai alla disciplina dell’organizzazione, [la pratica del mutuo soccorso] fece germogliare in essi l’idea che la classe lavoratrice ha interessi suoi propri, che possono essere contemperati, ma sono certo distinti dagli interessi delle altre classi sociali”.
L’avvio della ricerca di Diego Robotti e Bianca Gera è stato il riconoscimento di un “legame, finora scarsamente valorizzato, tra il preesistente associazionismo operaio e la nascente Camera del lavoro di Torino” (p. 5). Di qui gli autori procedono per ricostruire l’apporto delle 69 società di mutuo soccorso che partecipano alla creazione di un organismo unitario che sia espressione degli interessi di tutti i lavoratori torinesi. Robotti e Gera sintetizzano in altrettante schede monografiche la fisionomia e l’attività delle 69 società, fornendo “accanto ai dati storico-istituzionali, [...] notizie sulla vita associativa, sui dibattiti, sull’evoluzione politica interna e, soprattutto, sulle concrete iniziative che [...] dan
no la misura delle reali tendenze di un sodalizio” (p. 93). La Camera del lavoro di Torino incide poi con la sua attività sull’evoluzione interna dell’associazionismo e induce “molti sodalizi a mettere all’ordine del giorno delle loro assemblee temi che erano di fatto politici” (pp. 6-7) favorendo, grazie all’esistenza di una struttura aperta a tutti, la crescita della volontà di partecipazione.
Con i volumi II tempo della solidarietà e II tempo del riposo la Camera del lavoro torinese ha voluto commemorare il centenario della propria fondazione, alla quale prese parte la Cooperativa di consumo e di mutua assistenza Borgo Po e Decoratori, coordinatrice del gruppo di ricerca nel 1990- 1991.
Giancarlo Bergami
Renata Allio, Bianca Gera, Giorgina Levi, Renato Mon- teleone, Gianni Oliva, Il tempo del riposo. Squarci di vita sociale del proletariato torinese di fine secolo, Milano, Feltrinelli, 1991, pp. 117, lire 20.000
I saggi riuniti nel volume col- lettaneo rivisitano le consuetudini, i bisogni e i diversi aspetti del tempo del riposo — scarso invero, e non garantito a tutti né retribuito — degli operai del capoluogo subalpino all’alba della seconda rivoluzione industriale. Si tratta di aperçus seriamente documentati su una condizione di esistenza oppressa dalla fatica e dalla povertà. Particolarmente tormentata e falcidiata dalla pellagra e dalle malattie legate alla denutrizione
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era la popolazione delle campagne non solo piemontesi. In Piemonte anzi i casi di pellagra aumentarono “con lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura, quando alla piccola proprietà contadina, che garantiva condizioni meno peggiori di vita, succedette la grande affittanza e al massaro subentrò il bracciante salariato” (cfr. il saggio di Giorgina Levi, L ’alimentazione dei lavoratori in Piemonte nell’ultimo ventennio del secolo X IX , p. 27).
Il problema della denutrizione, trascurato per decenni dai governanti, diverrà molla e motivo dibattuto di crescita culturale e organizzativa dei lavoratori, che con l’appoggio di personalità (tecnici, avvocati, giuristi, scienziati, medici, igienisti, artisti e intellettuali) della borghesia progressista promuo- veranno “istituzioni da loro controllate quali le società di produzione e di credito, le cantine e le latterie sociali, le stesse casse rurali di prestito, lottando contemporaneamente contro l’evasione scolastica che nelle zone rurali raggiungeva il 70 per cento” (p. 29).
Nuto Revelli e altri ricercatori hanno ragguagliato che nella parca e austera cucina dell’Alta Langa “nel secolo scorso le castagne e la polenta erano la base dell’alimentazione. Il pane non compariva mai a tavola. Non si seminava grano, perciò non si mangiava pane” (p. 30). Così Edmondo De Amicis, nella Carrozza di tutti (1899), era colpito dal disagio dei cocchieri che consumavano durante il lavoro sul predellino della carrozza il pranzo consistente in una minestra fredda di riso e fagioli
consegnata loro dai familiari al capolinea. La fame di Giors, il conducente protagonista della Carrozza di tutti, era stimolata dalla “vista delle trattorie apparecchiate all’aria aperta [...] Ah! esclamava addocchiandole di passata, con che gusto mi ci metterei a sedere!”. Agli spunti deamicisiani sono accostabili analoghe notazioni del romanziere piemontese coevo Luigi Pietracqua.
Ricco di risvolti sociologici e psicologici è il rapporto — affrontato da Gianni Oliva (Sport e classi popolari a Torino negli ultimi decenni del X IX secolo) — tra gli avvenimenti sportivi e le classi popolari del tempo, bene avvertendo con Stefano Ja- comuzzi che “lo sport non influenza le abitudini e le scelte del tempo libero, per altro molto scarso e precario”. Si è lontani dal coinvolgimento di massa negli spettacoli calcistici o ciclistici che sarà proprio dei periodi successivi, sebbene Oliva opportunamente rilevi che sullo scorcio dell’Ottocento “nelle aree urbane del Nord si delineano i tratti di quella che sarà una costante del rapporto classi po- polari-sport: la fruizione passiva, l’osservazione esterna sostituita alla pratica” (p. 63).
Variegato risulta il quadro, tratteggiato nei saggi di Renato Allio (Tra libri e giornali. Letture operaie di fine Ottocento) e Bianca Gera {“Buon senso e buon cuore”: un titolo di libro, un progetto educativo delle biblioteche delle società operaie), delle letture dei lavoratori alfabetizzati e dei libri offerti in prestito dalle biblioteche delle associazioni operaie. Una funzione importante in questo con
testo spetta alle scuole professionali e a quelle società di mutuo soccorso che istituirono anche una biblioteca e “propagandarono incessantemente l’acculturazione presentandola come fattore di promozione e riscatto sociale e come elemento primario di civiltà” (R. Allio, Tra libri e giornali, cit., p. 78). La cultura operaia, che a taluni osservatori appare sfuggente ed è certo poliedrica e problematica, riceve nei saggi di questo volume attenzione partecipe e contorni meglio definiti.
Giancarlo Bergami
Giovanni P irodda, Sardegna, Brescia, La Scuola, 1992, pp. 204, lire 25.000.
L’opera di Giovanni Pirodda fa parte di una collana di letteratura delle regioni d’Italia. Legati tra loro da un disegno ideale unitario teso a dimostrare l’esistenza, nella letteratura italiana, di realtà locali e regionali fortemente differenziate ma anche di momenti culturali molto intensi di dialogo e di scambio, i volumi possiedono tutti una loro piena autonomia. Ognuno di essi, infatti, contiene un’introduzione storico-letteraria di ampio respiro, con riferimenti puntuali al contesto socio-culturale ed un’antologia di testi significativi introdotti e commentati, oltre ad un’eccellente guida bibliografica. Ad ispirare l’operazione editoriale è la convinzione che i paradigmi interpretativi tradizionali ed in primo luogo quello storiografico unitario ed accentrato, siano divenuti insufficienti a dar conto
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di un panorama letterario come quello italiano geograficamente articolato. Senza dimenticare che le più recenti acquisizioni teoriche sottolineano la necessità di porre in relazione il fatto letterario con i movimenti di pensiero ed i circuiti culturali, nelle loro differenti connotazioni locali e nel loro interagire con le dinamiche socio-antropologiche.
Ma veniamo al volume curato da Pirodda. A guidarne l’impostazione è innanzitutto l’esigenza di sfatare alcune immagini ed alcuni luoghi comuni, molto diffusi quando si parla di cultura e di letteratura in Sardegna. Il riferimento è soprattutto ad una certa visione dell’isola come di una terra profondamente arretrata e per ciò stesso del tutto ai margini delle scuole e dei movimenti culturali più importanti a livello nazionale ed europeo; molto vicina a questa un’immagine monolitica e mitica della cultura sarda, fortemente improntata all’affermazione della propria identità etno-storica. Ne discende, quando si debba operare una selezione della produzione artistica, il privilegiamento delle voci rimaste esenti da contaminazioni ‘esterne’ ed il disconoscimento di egemonie culturali e di aree di influenza estranee alla tradizione antropologica e culturale isolana. A giudizio dell’autore, invece, assumere un’ottica pluricentrica e plurilingue è indispensabile quando si vogliano ricostruire le vicende letterarie di un’isola come la Sardegna che nei secoli ha subito l’alternarsi di differenti dominazioni straniere, oltre che di persistenti egemonie culturali e linguistiche. Se in epoca spa
gnola, per esempio, si arriva a scrivere, oltre che in catalano e castigliano, in sardo, in italiano, in latino e in greco, non ci sarà ragione di stupirsi se talvolta è lo stesso autore ad utilizzare lingue diverse. Queste considerazioni, oltre a restituirci l’immagine di una Sardegna per nulla refrattaria alle influenze culturali, ci presentano un quadro assai ricco e variegato degli stessi produttori: letterati ed artisti di rilevanza internazionale, dalla vasta ed enciclopedica cultura, in grado di utilizzare differenti registri linguistici e di passare attraverso stili e generi letterari differenti.
Che di un unico centro non si possa parlare neppure per ciò che riguarda la Sardegna al suo interno è ormai acquisizione indiscussa. Forti differenze infatti sussistono tra le diverse zone interne e fra gli stessi centri urbani. Questa frammentazione del quadro culturale, lungi dal significare marginalità o arretratezza, denota 1’esistenza nel panorama letterario di elementi fortemente eclettici e del continuo interagire di influssi formali di scuola e di produzioni originali autoctone. Esistono inoltre vere e proprie forme di specializzazione artistica, particolarmente evidenti quando si tratta di produzione letteraria in lingua sarda: basti pensare, per esempio, alla distinzione tra la poesia e la prosa che impiegano varietà dialettali differenti, la poesia il lugodorese e la prosa, anche quella teatrale, il campidanese. L’antologia di Pirodda dedica un ampio spazio a questo filone della produzione letteraria in sardo, soprattutto a partire dal Settecen
to, quando acquista notevole rilevanza per la sua grande diffusione sociale e per i legami assai stretti che si stabiliscono tra il produttore ed i fruitori, tra l’artista ed il suo pubblico. La “sardità” di questi artisti, oltre che nell’impiego della lingua sarda in tutte le sue varietà dialettali, si esprime attraverso soluzioni narrative e poetiche di grande impatto emotivo e sociale. I componimenti letterari offrono un quadro desolante di miseria delle campagne sarde, ma spesso particolari coloriture poetiche o sottolineature umoristiche riflettono fermenti di libertà o istanze autonomistiche che trovano in altre sedi la loro più compiuta espressione.
Per concludere, con questo lavoro Pirodda offre una vasta ed approfondita ricostruzione storico-cronologica della produzione letteraria in Sardegna, dedica particolare attenzione all’analisi delle condizioni storico-culturali da cui ‘emerge’ il prodotto artistico e non esclude tutte quelle espressioni culturali un tempo considerate extraletterarie, come la letteratura semicolta o i prodotti dell’arte verbale orale e tradizionale. In quest’ottica trovano ampio spazio quegli autori, non necessariamente letterati ma scrittori di politica, di sociologia e di antropologia, che in questo secondo dopoguerra, in Sardegna, sono stati i protagonisti di un ampio ed approfondito dibattito sulle tematiche autonomisti- che, sul ruolo degli intellettuali e sulla funzione della cultura. Quando negli anni sessanta si apre una stagione di grandi tensioni ideali e progettuali riguardo al futuro dell’isola, anche gli
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intellettuali sardi ricercano e rivendicano un impegno in prima linea per la rinascita materiale e culturale del popolo sardo. Da questa temperie autonomistica, caratterizzata anche da una forte trasversalità dell’impegno politico, risultano certamente influenzati scrittori come Giuseppe Dessi, Salvatore Cambosu, Giuseppe Fiori, Francesco Ma- sala e Maria Giacobbe, la cui produzione non può essere analizzata a prescindere da questo clima. La loro ricerca, infatti, è duplice: da un lato promuovere la conoscenza documentata della realtà sarda con un’ottica tutta daH’interno, dall’altro ricercare soluzioni narrative che si ispirino ai modelli nazionali.
Un’analisi puntuale ed aggiornata delle scelte linguistiche e stilistiche di alcuni scrittori sardi del Novecento è l’oggetto dell’ultimo libro di Cristina La- vinio, Narrare un’isola (Roma, Bulzoni, 1991). L’autrice si interroga sulle ragioni di un destino che accomuna gli scrittori sardi di questo secolo, quello di costruire il proprio mondo narrativo sui luoghi, sulla storia, sui miti e sulla lingua della propria terra d’origine. In realtà si è trattato sempre di un processo più complesso di andata e ritorno: il progressivo allontanamento da una realtà locale vissuta come provinciale ed angusta verso universi linguistici e letterari di più ampio respiro; il ritorno al proprio mondo, nel tentativo di conoscerlo, di documentarlo, di raccontarlo in forma sublimata ma partecipe. In quest’ottica il rapporto dello scrittore sardo con la propria lingua diventa emblematico di una situazione complessa ed
ambigua, che l’autrice cerca di cogliere attraverso l’analisi del tessuto linguistico dei testi di alcuni grandi narratori sardi del Novecento: Grazia Deledda, Giuseppe Dessi, Salvatore Satta ed alcuni altri. Ne emerge un panorama assai variegato di soluzioni individuali, che hanno in comune un continuo lavorio sui testi dal punto di vista linguistico e l’impiego a fini narrativi di dialettalismi o di forme di italiano regionale derivanti dal mondo dell’oralità. Un lavoro d’avanguardia questo di Lavi- nio che, unitamente al testo curato da Pirodda, ci restituisce l’immagine di una letteratura regionale non più intesa come minore o marginale, ma in rapporto di complementarietà con la letteratura italiana.
Luisa Maria Plaisant
Simona Lunadei, Testaccio: un quartiere popolare. Le donne, gli uomini e lo spazio della periferia romana, Milano, Angeli, 1992, pp. 149, lire 26.000.
Roma come Milano città europea: l’amministrazione municipale capitolina sperimenta, negli anni del giolittismo, modelli avanzati di governo della città e di organizzazione sociale laica dei ceti popolari per molti versi analoghi, suppure nella circoscritta area del quartiere, a quelli del capoluogo lombardo e delle grandi metropoli europee. È questo il messaggio che si coglie leggendo il saggio di Simona Lunadei sul quartiere Testac- cio di Roma.
La ricerca, che prende spunto dall’indagine condotta da Domenico Orano nel 1910 su que
sto particolare territorio destinato a diventare area produttiva della città e nello stesso tempo spazio residenziale, costituisce un interessante esperimento storiografico di ricostruzione del- l’indentità collettiva degli abitanti di un quartiere, i quali riescono a conseguire la propria integrazione alla città soltanto in quanto comunità urbana consapevole dei propri luoghi e dei propri spazi di vita. Lo studio, in tal senso svela aspetti inediti e particolarmente significativi del processo di modernizzazione che attraversò la capitale negli anni compresi tra la fine del secolo scorso e la grande guerra soprattutto per la capacità progettuale espressa, secondo linee già sperimentate nelle più importanti metropoli europee, dai cittadini, dagli amministratori, dagli ingegneri e da alcuni filantropi di formazione laica.
Le vicende amministrative e politiche dell’Istituto romano per le case popolari nell’età gio- littiana — l’ente economico, diretto dal socialista Ivanoe Bo- nomi, che affidò agli ingegneri Magni prima e Pirani e Bellucci poi la realizzazione dei progetti per la costruzione dei fabbricati nel quartiere Testaccio — si collocano nel contesto di una nuova cultura delTamministrazione della città, intesa finalmente come luogo di produzione e di consumo, ma anche come sede di socializzazione e di formazione di una cultura urbana e urbanistica al tempo stesso. Gli abitanti del quartiere, riuniti in comitati, inoltre, iniziarono ad “affermare — osserva l’autrice — il valore della continuità tra case, strade e piazze, tra luoghi deputati all’esperienza di vita privata e quelli deputati ad un
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ambito di relazioni allargate. Il quartiere è inteso come uno spazio composito, in cui le case sono solo un elemento della costruzione urbanistica, importante, ma non sufficiente a soddisfare i desideri di incontro e di relazioni”.
Laddove i ceti dirigenti laici e socialisti della giunta capitolina guidata da Nathan nel primo decennio del secolo, difatti, si impegnavano ad applicare i nuovi strumenti amministrativi che in alcune città del Nord come Milano avevano consentito una rapida modernizzazione del tessuto economico e sociale delle aree urbane, gli abitanti di Testaccio, dal canto loro, svilupparono ben presto la coscienza di essere soggetti titolari di diritti che soltanto le istituzioni pubbliche avrebbero potuto riconoscere e assecondare. Elementi di mediazione fondamentali, in questo graduale processo di integrazione dei “testaccini” nella “città amministrativa” e nello Stato, furono alcuni personaggi come Orano che — in linea con una tradizione laica illuminata che interpretava il socialismo umanitario e il riformismo sociale come strumenti di “rieducazione” e di riscatto dei ceti popolari in vista di un loro inserimento nella società civile — ebbero la capacità di orientare e sostenere la costituzione di organismi associativi di base quali furono i numerosi comitati popolari di Testaccio. Protagonisti particolarmente combattivi e sempre più consapevoli dei loro diritti, gli abitanti del quartiere si fecero promotori già nel 1905 di un “Comitato per il miglioramento economico e morale di Testaccio”, che raccolse, fin dalla costituzione, le adesioni di tutte le
organizzazioni laiche della zona quali le associazioni di mestiere, le cooperative, le leghe operaie, le società di mutuo soccorso, i circoli, le associazioni politiche e le numerose associazioni di assistenza create, fino a quel momento, da Orano. Alle iniziative laiche si affiancò, in aperta concorrenza con esse, l’impegno dei padri salesiani nei settori dell’educazione dei bambini e dell’organizzazione del lavoro femminile.
L’attenta ricostruzione della vita delle donne e degli uomini di Testaccio, provenienti per la gran parte dalla campagna romana e dalle regioni più depresse d’Italia, consente, infine, di comprendere di quale natura fossero le difficoltà incontrate da Orano nella realizzazione dell’ampio progetto di trasformazione dei “testaccini” da gruppo socialmente “pericoloso” e indistinto a cittadini consapevoli anche del loro ruolo di elettori. Il filantropo romano, tuttavia, pur perseguendo l’integrazione dei ceti popolari sulla base di quei modelli e comportamenti di vita borghese che dominavano la cultura delle classi dirigenti italiane, non dimenticò mai di trovarsi, al di là di qualsiasi progetto culturale — come sottolinea in più occasioni l’autrice — di fronte a soggetti sociali dotati di una identità propria e di bisogni materiali ed esistenziali irrinunciabili.
Maria Letizia D’Autilia
Italia fascista
Marco Innocenti, L ’Italia del 1943. Come eravamo nell’anno
in cui crollò il fascismo, Milano, Mursia, 1993, pp. 208, lire28.000.
Con questo libro su “un anno in cui succede di tutto” (sono le parole che aprono l’introduzione), Marco Innocenti riprende la formula già sperimentata ne L ’Italia del 1940. Corn ’eravamo nel primo anno della guerra di Mussolini (Milano, Mursia, 1990): quella di una ri- costruzione cronachistica che alterna pubblico e privato, grande politica e vita quotidiana, spaccati di avvenimenti generali e quadri di costume. Il racconto si innerva sui nessi e gli scambi tra i due territori. E se nel 1940 questo gioco di specchi rimandava una immagine complessiva di separazione, talora di contrapposizione, tra il roboante bellicismo del regime ed una società civile riluttante ad abbandonare la routine delle consuetudini piccolo borghesi, nel 1943 le due realtà tendono ad intrecciarsi ed a confondersi. Grande e piccola storia battono cammini paralleli. Al rapido e drammatico tramonto del regime corrispondono lo scoramento e la rabbia della popolazione per l’inasprimento delle condizioni di vita, la mancanza di sicurezza e protezione, l’impotenza di fronte al disastro militare. Ciò che all’inizio della guerra era diviso, ora si ricongiunge: il crollo della dittatura prende corpo in un contesto di crisi nazionale, di cui la precarietà dell’esistenza collettiva ed individuale è solo un segnale, anche se il più facile da cogliere.
Per le ragioni ora dette i due libri — i due anni — vanno letti
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come segmenti di un unico percorso, dentro al quale la diversità del 1943 rispetto al 1940 esige dall’autore un impegno più complesso, tale per cui la formula collaudata nel precedente volume mostra maggiormente i propri limiti. La scrittura si mantiene disinvolta e ricca di umori (anche se non di rado appesantita da eccessivi compiacimenti bozzettistici), ma l’accumulo dei dettagli resta ben al di qua dell’ambizione, che pure affiora, di suggerire una compiuta ‘idea’ dell’Italia del 1943. C’è, per così dire, il catalogo delle situazioni, ma l’affollamento stesso dei particolari ostacola l’organizzazione della materia, condiziona negativamente la dislocazione dei fenomeni in una prospettiva che ne renda palese la diversa rilevanza. Perciò i fattori che concorrono a delineare il quadro della patologia di guerra stentano a collegarsi tra loro e ad acquistare una adeguata capacità esplicativa. E il discorso rischia di incagliarsi nell’aneddoto, di allineare — sono gli spunti più semplici da sceneggiare — gli oggetti della cultura materiale indotti dalla guerra, e di confinare sullo sfondo, o ignorare, i riflessi della mutazione in corso su aspetti quali i ruoli femminili, le manifestazioni della religiosità, gli occhi con cui si guarda al denaro.
Non sono riserve improprie rispetto agli intenti divulgativi del volume. Esse nascono anche dal riconoscimento (già formulato in occasione del volume sul 1940: M. Legnani, La difficile scoperta del fronte interno’, “Italia contemporanea”, 1990, pp. 559-563) che il lavoro di In
nocenti presenta una propria utilità (ed è per certi versi accostabile alle ricostruzioni di Gian Franco Venè) e che potrebbe trarre ulteriori vantaggi da un più diretto contatto con la storiografia. Sorprende, ad esempio, che tra i 91 titoli compresi nella “bibliografia essenziale” che chiude il volume, non sia nemmeno citata la biografia mussoliniana di De Felice, mentre sono massicciamente richiamate le opere di Bertoldi e Montanelli, Petacco e Spinosa e Biagi, quasi a suggerire la convinzione che il campo della divulgazione si sia ormai costruito uno spazio autosufficiente e possa comportarsi in modo del tutto autarchico.
Massimo Legnani
Fabrizio Ciano, Quando il nonno fece fucilare papà, a cura di Dino Cimagalli, Milano, Mondadori, 1991, pp. 184, lire 29.000;Fabio P ittorru, Ciano, i giorni contati, Milano, Leonardo, 1991, pp. 766, lire 40.000.
A quasi mezzo secolo da quel processo di Verona che il Croce avrebbe giustamente definito “un delitto sopra un altro delitto, e cioè un orrore”, sono stati pubblicati questi due nuovi libri sull’argomento. Diciamo subito che quello di Fabrizio Ciano poco o nulla di nuovo porta rispetto a quanto già si sapeva. Alla vicenda connessa al processo e alla fucilazione di Galeazzo Ciano sono dedicate soltanto una quarantina di pagine; il resto riguarda una biografia dell’autore che ha senz’altro il suo interesse ma che poco ha da
spartire col titolo drammatico. Nella narrazione l’autore cerca di assumere un tono equanime, alieno da condanne. Un quadro di carattere shakespeariano è quello della colazione del 19 settembre a Monaco che viene definita “colazione delle ultime illusioni, degli arrivederci, che nel cuore degli adulti erano già addii”; in quell’occasione si incontravano per l’ultima volta Ciano e Mussolini, che “seduti uno accanto all’altro, parlavano tra di loro con lunghe pause”. Alla fine “i Ciano e i Mussolini si salutarono: baci, abbracci, mezzi sorrisi”. Al centro è la figura di Edda Ciano-Mussolini alla quale i figli avevano dato, per la sua energia, il soprannome di “Aquilaccia”.
Diverso è invece il taglio del libro di Fabio Pittorru che narra minuziosamente, romanzandoli, gli avvenimenti intercorsi tra i prodromi della riunione del Gran consiglio del fascismo del 24-25 luglio 1943 e la fucilazione di Ciano e degli altri condannati I’l l gennaio 1944. Anche se la figura di Ciano, assieme a quella della moglie Edda, sovrasta la narrazione, questa finisce col diventare pratica- mente una storia d’Italia che ha senz’altro una sua validità. Ruotano attorno alle vicende anche gli altri personaggi protagonisti di quei mesi drammatici: Mussolini (che l’autore sembra considerare, più che un protagonista principale, un uomo trascinato dagli avvenimenti), la moglie Rachele, la misteriosa Frau Beetz, Grandi, Bottai, Farinacci, Vittorio Emanuele III, Badoglio, Pavolini, Buffarini Guidi, Pisenti, Trin- gali Casanova (e non Casanuo
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va), Carboni, il giudice istruttore del processo Cersosimo e altri. A scapito della narrazione sono alcune volgarità (come quelle concernenti i rapporti amorosi tra Eisenhower e la sua segretariaautista Kay Summersby e Pavo- lini e l’attrice Doris Durante) che avrebbero potuto essere senz’altro evitate.
Per Ciano e per gli altri membri del Gran consiglio che avevano votato per l’ordine del giorno Grandi la sentenza era già preparata in anticipo. “Andremo fino in fondo senza guardare in faccia a nessuno anche se fosse il nostro migliore amico” — urlava il segretario del neo Partito fascista repubblicano all’assemblea di Verona del 14 novembre 1943 — “Non colpire i traditori del Gran consiglio significherebbe concedere l’impunità a tutti i traditori del fascismo. Per uomini come Galeazzo Ciano la sola soluzione possibile è la morte.” Del resto uno dei giudici, il generale della Milizia Montagna, rivelerà alcuni anni dopo: “Recatomi a Verona per prendere visione del fascicolo del processo ho avuto uno scambio di idee con gli altri giudici e col presidente del tribunale e mi sono formato la convinzione che tutto era ormai deciso e che tutto il processo si faccia solo per dare veste di legalità ad una sentenza già stabilita”. Con precisione è narrata anche la tragica sarabanda delle domande di grazia che i cinque condannati (Ciano, De Bono, Pareschi, Gottardi e Marinelli) avevano firmato, domande di grazia che, attraverso il ministro degli Interni Buffarini Guidi, e il ministro della Giustizia Pesenti, giungevano dopo
un lungo viaggio all’ispettore della V zona della Guardia nazionale repubblicana Vianini che, si dice per ordine del suo superiore diretto Ricci, ne firmava il rigetto. E questo avveniva senza che, per volontà di Pavolini, del prefetto di Verona Piero Cosmin e del capo della polizia Tamburini, il destinata- rio Mussolini ne fosse ufficialmente informato. Qui l’autore non avanza neppure il sospetto che tutto si sia risolto in una macabra messa in scena, nella quale l’apparente fuga dalle responsabilità nascondeva in realtà qualcosa di peggio. È infatti alquanto incredibile che, durante la notte fatale, Mussolini non abbia mai chiesto se i condannati avevano presentato domanda di grazia, che Pavolini e compagni abbiano rifiutato di inoltrare le domande stesse, senza la certezza di essere approvati dall’alto e che nessuno tra coloro che, come Pesenti, si dicevano e probabilmente erano contrari sia alle condanne a morte sia al rigetto delle domande di grazia, non abbia avvertito Mussolini, magari per interposta persona, di quanto bolliva in pentola.
Con il colpo di grazia sparato a Ciano e agli altri condannati dal locale comandante della Guardia repubblicana Furlotti si concludeva il dramma. Che il processo e l’esecuzione abbiano avuto il carattere di un vero e proprio assassinio legalizzato è un fatto che non può essere messo in dubbio; questo naturalmente senza coprire le responsabilità dei fucilati di Verona, per alcuni di essi molto pesanti (Ciano era infatti stato l’ispiratore dell’intervento del
l’Italia nella guerra civile spagnola e dell’aggressione contro la Grecia e De Bono e Marinelli erano coinvolti nel delitto Matteotti). Tutti o quasi tutti, se non fossero caduti sotto il piombo dei camerati, avrebbero dovuto rendere conto del loro operato davanti ai tribunali antifascisti. Un episodio sintomatico è quello riportato nell’ultima pagina del libro di Pit- torru. Gottardi, il più ingenuo e forse il più onesto dei cinque, moriva al grido di: “Viva il Duce!”. Riportando il fatto i giornali repubblichini non si rendevano conto dell’aberrazione insita nella condanna a morte di colui che, al momento del trapasso, rivolgeva l’ultimo pensiero all’uomo che egli avrebbe tradito e che era certamente il maggiore responsabile della sua esecuzione.
Franco Pedone
Angelo M ichele Imbriani, Gli italiani e il Duce. Il mito e l ’immagine di Mussolini negli ultimi anni del fascismo (1938- 1943), Napoli, Liguori, 1992, pp. 223, lire 25.000.
Già autore di un saggio sul costituirsi del mito di Mussolini (Il mito di Mussolini tra propaganda e culto di massa. Le origini 1923-1926, “Prospettive Settanta”, 1988, pp. 492-512), Angelo Michele Imbriani ne delinea ora la parabola terminale, da Monaco al 25 luglio 1943. L’indagine riesce quanto mai opportuna, sia perché affronta con piglio di discorso sistematico un tema più volte affiorante, ma quasi solo per accenni, nella letteratura sulla guerra fascista,
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sia in quanto tenta un approccio criticamente sorvegliato a quelle carte di polizia che un uso ormai largamente invalso tende a recepire come ‘fonte universale’ e specchio fedele delle opinioni degli italiani (rimando in proposito alle osservazioni svolte in sede di recensione di Simona Colarizi, L ’opinione degli italiani sotto il regime 1929-1943, Roma-Bari, Laterza, 1991, “Italia contemporanea”, 1991, pp. 519-523).
Lo schema espositivo di Im- briani assume come principale filo conduttore l’intreccio tra gli interventi pubblici di Mussolini, le chiavi interpretative che di essi propongono gli apparati propagandistici del regime, le reazioni del paese così come sono colte e trasmesse dagli informatori dell’Ovra, dalle questure, dalle strutture periferiche del Pnf. Non si tratta tuttavia del paese nella sua totalità, ma, precisa l’autore, di quella parte di opinione “definibile come afascista [...] composta da gruppi sociali diversi, ma soprattutto dai ceti piccolo e medio borghesi, [che] per indole, mentalità, abitudine, valori, inclinava senz’altro al moderatismo” (p. 15). Ne sortisce un resoconto nettamente scandito su due tempi: nel primo, che dal 1938 si prolunga sino al 1941, spicca l’immagine di Mussolini politico abile e saggiamente calcolatore (e in quanto tale protettore affidabile della sorte degli italiani); nel secondo, dall’inverno 1941-1942 alla caduta, la prospettiva progressivamente si rovescia, prende corpo l’antimito, Mussolini appare sempre più come diretto ed esclusivo responsabile non solo
della sconfitta delle armi, ma anche, e prima ancora, delle sofferenze del fronte interno per aver abbandonato, dando mano libera a incapaci e profittatori, la popolazione a se stessa. Altrettanto fideistico era stato il consenso iniziale — sottolinea Imbriani, accreditando la tesi di un non irrilevante appoggio all’atto dell’intervento— altrettanto acritico è il successivo rifiuto. In entrambi i casi — anche questa considerazione è una costante del volume— l’immaginario collettivo prevarica la percezione del personaggio reale, come dimostrerebbe (il libro fa largo spazio ai due episodi) il diffondersi di voci allarmate sulla salute del dittatore nell’estate 1939 (riflesso dell’angosciato oscillare tra pace e guerra) e nell’autunno del 1942 (a fronte del prolungato silenzio pubblico del duce e dell’aggravarsi delle condizioni di vita per effetto dei bombardamenti e delle restrizioni alimentari).
Il passaggio dal mito all’anti- mito non è tuttavia un fenomeno che investa sincronicamente le diverse realtà del paese. Le sue manifestazioni — tutta la seconda parte del saggio procede su questa falsariga — registrano forti variazioni di intensità, culminano tra i ceti medio alti delle grandi città del Nord, sbiadiscono sin quasi all’assenza nelle zone rurali e periferiche (più in generale, nelle regioni meridionali), dove il mito di Mussolini sopravvive a ridosso del crollo del regime. Si tratta di spunti utili, che meritano di essere ripresi nel più ampio discorso su come la società italiana vive le ragioni e le espressio
ni della guerra. Ma sono anche spunti che contraddicono la scelta di privilegiare l’analisi di quell’area definita afascista, presidiata da ceti piccolo e medio borghesi ‘naturalmente’ inclini al moderatismo. Le linee di demarcazione che le fonti propongono, e che Imbriani in definitiva recepisce, tendono piuttosto ad individuare ambiti (sommariamente: città-campagna, Nord-Sud) la cui caratterizzazione complessiva condiziona fortemente le singole figure sociali operanti in ciascuno di essi. Il riferimento complessivo ai ceti piccolo e medio borghesi rischia perciò di costituire solo uno stereotipo sociologico e la loro qualificazione in senso afascista e moderato più una affermazione aprioristica che il risultato dei segnali accumulati dai documenti (sui quali pesano anche assenze particolarmente significative sotto il profilo politico, quali le reazioni alla campagna di Russia).
Massimo Legnani
Gigliola Fioravanti (a cura di), Mostra della rivoluzione fa scista. Inventario, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1990, pp. 360, sip.
Dalla Presentazione di Mario Serio: “[Risulta] che l’archivio della Mostra della rivoluzione fascista è tra i fondi meno consultati e che solo la raccolta di bandiere del movimento operaio, che insieme ad altri oggetti fa parte dello stesso archivio, ha costituito oggetto di catalogazione nell’ambito della mostra ‘Un’altra Italia nelle bandiere dei lavoratori’ [...] La cir
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costanza può addirittura suscitare sorpresa se si confronta con la ricchezza del fondo e con la varietà degli oggetti che lo stesso include, che suggeriscono una molteplicità di direzioni di ricerca, certamente non limitate ai temi della mostra-esposizione quali risultano dalla guida storica, pubblicata nel 1933, a cura di Dino Alfieri e Luigi Freddi, ma riconducibili all’attività della mostra come istituto culturale, che si proponeva di diventare l’archivio storico del fascismo”. Uno stupore, quello di Serio, che è anche il nostro, vista la vasta congerie di studi e libri e libelli e articoli sulla cultura del “tra-le-due-guerre”.
Prima di passare alla utilissima Introduzione di oltre settanta pagine, nella quale la curatrice spiega non solo i criteri che l’hanno guidata nella catalogazione di questa imponente mole di documenti, ma anche, con una sintesi stringente, la ‘storia’ della Mostra della rivoluzione, è opportuno scorrere il sommario. Il volume si compone di cinque parti, più un’appendice e tre utilissimi indici analitici (dei nomi di persona, dei materiali a stampa, dei fondi archivistici consultati). La prima parte comprende la corrispondenza tra chi sovrintendeva alla mostra e le varie federazioni fasciste provinciali, in tutto sedici buste contenenti i carteggi amministrativi. La seconda parte, quella più corposa, costituisce il vero archivio storico della mostra, composto da altre settan- tuno buste. Delle ulteriori sot- tovoci, vanno ricordate: “Carte del Partito nazionale fascista”, con le adesioni ai fasci di combattimento, i carteggi con i fa
sci di tutta Italia (in ordine alfabetico per località, da Abbia- tegrasso, Milano, fino a Zoagli, Genova), nonché una serie di altri documenti con situazioni particolari a La Spezia, nella Campania e così via; e “Carte di diversa provenienza”, con elenchi e documentazione provenienti da periodici come “Il comunista”, oppure dalla Società tipografica L’Epoca, o da fondi e archivi privati. La terza parte comprende i materiali per l’allestimento della III edizione della Mostra della rivoluzione, nel 1942, ed è composta da nove buste. La quarta, intitolata “Esposizione”, comprende documenti di vario genere (carteggi, fotografie, opuscoli e giornali) dall’intervento nella prima guerra mondiale fino al 1944; vi sono poi appendici (buste 102-103) relative al 1895. In tutto, altre settantasette buste. L’ultima riguarda gli apparati fotografici delle tre edizioni della mostra (1932, 1937 e 1942). Infine, le appendici comprendono carteggi amministrativi e percorsi della prima edizione, ma soprattutto (cito dalla Fioravanti, p. 73), “una sommaria ricostruzione di quello che sarebbe dovuto divenire [...] uno dei [...] fonda- mentali strumenti del Centro studi del fascismo, annesso alla mostra, la biblioteca di consultazione [...]. Sono stati, infatti, ricostruiti gli elenchi del materiale bibliografico raccolto, attraverso doni, acquisti e prestiti, per la costituzione di un primo ma cospicuo nucleo bibliografico dell’istituto. Grazie alla microfilmatura dei registri d’accesso, sia quelli degli acquisti che quelli delle donazioni,
della Biblioteca di storia moderna e contemporanea e della Biblioteca nazionale centrale di Roma, è stato possibile riportare i titoli — non verificati — e i numeri di inventario. Il materiale si presenta così in ordine alfabetico e diviso per biblioteche, per ciascuna delle quali vengono segnalate le diverse provenienze (Mostra della rivoluzione fascista e collezione Pennati)”.
Come è noto, la Mostra della rivoluzione doveva svolgersi in un primo tempo a Milano, sotto l’egida dell’Istituto fascista di cultura. Motivi di valutazione politica (vedi alle pp. 15-23 del- l'Introduzione una silloge degli scambi epistolari tra Alfieri, Freddi e i vertici del partito) la fecero spostare a Roma, dove si aprì nel 1932. Tra le numerose informazioni raccolte, significative quelle relative agli inviti alle varie federazioni perché mandassero materiali, ai quali (p. 32) non tutte le città risposero con lo stesso zelo. La mostra avrebbe dovuto chiudere il 21 aprile (natale di Roma) dell’anno successivo; già tuttavia nel 1932, vista l’enorme mole di materiali pervenuti, “cominciò a prendere corpo all’interno del gruppo organizzativo il progetto di costituire attorno all’iniziativa un’istituzione permanente al fine di realizzare, con il nucleo della mostra del decennale, un ‘Archivio storico del fascismo’. Si trattava di un primo abbozzo del futuro Centro studi [...] La struttura permanente, se inevitabilmente avrebbe condotto ad una sorta di Museo storico del fascismo, nelle intenzioni doveva considerarsi un istituto ‘in cammino’ come la rivoluzione fascista, sempre
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aperta e quindi sempre ampliabile” (p. 36).
Servendo per altre manifestazioni il Palazzo delle esposizioni di Roma, la mostra venne chiusa il 28 ottobre 1934, e i materiali trasferiti alla Galleria nazionale d’arte moderna, a Villa Giulia. In occasione del bimillenario di Augusto (1937) si aprì la seconda edizione della mostra, in un tono più sobrio. Un anno dopo essa chiuse, e si fece contemporaneamente luce l’idea di renderla permanente (p. 40). Nel 1942 si svolse la terza edizione per celebrare il ventennale: in tale occasione “la mostra doveva diventare [...] un elemento permanente della più ampia struttura del Centro studi del fascismo”.
Sileno Salvagnini
/ Quaderni del “Cardello”, Collana di studi romagnoli dell’Ente “Casa di Oriani”, nn. 1- 3, Ravenna, Longo Editore, 1990-1992, pp. 171; 138; 235, lire 25.000; 25.000; 30.000.
Istituito nell’aprile 1927 a Ravenna col precipuo obiettivo di costituire un museo-biblioteca che valorizzasse il lascito ideale di Alfredo Oriani (1852- 1909), celebrato quale lungimirante precursore del fascismo, nel 1945 l’Ente “Casa di Oria- ni” venne mantenuto in vita dal Cln ed oggi costituisce un imprescindibile fondo documentario per lo studio dell’intellettuale nazionalista e di taluni aspetti della vita culturale del regime.
Nel primo numero dei “Quaderni” Ennio Dirani ripercorre le vicende dell’ente, affidato da
Mussolini (curatore dell’Opera omnia di Oriani, edita in trenta volumi da Cappelli tra il 1923 ed il 1933) al figlio dello scrittore, Ugo, coadiuvato da un nugolo di consiglieri prescelti sulla base delle aderenze politiche. Dirani studia la mitizzazione di Oriani nel solco della politica culturale fascista, con gli orpelli retorici e le ricorrenze celebrative (culminate nel 1934 con la proclamazione dell’ “anno orianesco”), oltre ad analizzare le posizioni assunte dai più noti intellettuali coinvolti nelle manifestazioni di regime, da Gioacchino Volpe a Mario Mis- siroli. La fortuna postuma di Oriani scemò a partire dal 25 luglio 1943. Ugo Oriani diede prova di lungimiranza rifiutando di aderire alla Rsi, per traghettare la memoria paterna verso più sicure sponde. Nel dopoguerra la dimensione celebrativa lasciò il passo alla critica storica, anche se non mancarono tentativi di ribaltare i canoni interpretativi del ventennio: stavolta in Oriani si ravviserà l’antesignano della democrazia. Il saggio spiega poi le principali tappe della rinascita dell’Ente “Casa di Oriani” e informa sulle sue più recenti attività, con particolare attenzione alla ricca dotazione della biblioteca di storia contemporanea.
Il secondo ed il terzo numero dei “Quaderni”, abbandonato il taglio monografico, alternano studi su particolari aspetti dell’arte di Oriani con saggi storici sullo scrittore faentino. Tra i lavori di maggiore rigore critico segnaliamo un’impegnativa rassegna di Ennio Dirani su I cento anni della “Lotta politica in Italia” di Oriani (1892-
1992), storia politica e culturale dell’opera forse più originale di Oriani: un libro di volta in volta sottovalutato, esaltato, strumentalizzato, rimosso e riscoperto.
Sul terzo numero dei “Quaderni” figura la riproduzione fotostatica del manoscritto intitolato Monografia relativa alla “Società di Mutuo Soccorso fra Operai ed Operaie” di Traver- sara di Bagnacavallo. Il lungo documento — oltre centotrenta pagine — non è che la dettagliata relazione stesa nel 1891 dal segretario del sodalizio sui primi tredici anni di vita dell’associazione. Con tutti i limiti dei lavori redatti per occasioni celebrative (generalmente la partecipazione degli enti mutualistici ad esposizioni nazionali): sovrabbondanza dell’elemento quantitativo a scapito dell’analisi sociale e politica. Meglio sarebbe stato far seguire alla pur diligente monografia uno studio sulla società operaia, sui caratteri della sua funzione aggregativa e sulla natura dei rapporti intrattenuti con il tessuto associazionistico ravennate.
Mimmo Franzinelli
Giuseppe Galzerano (a cura di), Il Tribunale speciale fascista, Salerno, Galzerano, 1992, pp. 95, lire 10.000.
Titolo inaugurale della collana “Atti e memorie di popolo”, edita da Galzerano nell’intento di ripresentare “una letteratura dimenticata, mai tradotta e sgradita, e per proporre testi che sarebbe stato difficile solo pensare in circolazione”, il vo
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lumetto — attribuito a Gaetano Salvemini e stampato su carta sottile in un formato minuscolo, onde facilitarne lo smercio clandestino — contiene la ristampa dell’opuscolo II Tribunale speciale - 1 processi di Roma, pubblicato originariamente a Parigi nel 1932 dalle edizioni di Giustizia e Libertà. Il lavoro risulta strettamente legato alle esigenze del momento politico ed a finalità di opposizione militante al regime, ovvero alla fase della dura repressione giudiziaria di ogni forma di opposizione, con procedure qui contestate per la loro sostanza di illegittimità e di arbitrio. Una dozzina di processi ad anarchici, comunisti, socialisti e democratici sono passati al setaccio con indubbia competenza giuridica per cogliere la metodica violazione dei diritti della difesa e la supina disponibilità del Tribunale speciale ad emanare sentenze gradite al potere mussoli- niano. Con poche eccezioni (i processi Schirru e Zamboni), protagonisti delle odissee giudiziarie furono agitatori politici i cui nomi sono oggi caduti nell’oblio. Anche per questo sarebbe stato opportuno premettere alla ristampa un inquadramento sulle questioni trattate nell’opuscolo edito oramai da sessantanni e qualche cenno biografico.
Alcune pagine introduttive di Giuseppe Galzerano ed una testimonianza di Paolo Vittorelli affrontano nei tratti generali la repressione antifascista e l’azione politico-propagandistica dei fuoriusciti. La principale pecca dell’operazione editoriale consiste nel non avere riprodotto fo- tostaticamente l’opuscolo del
1932, che nella nuova composizione tipografica ha perduto compattezza e tipicità; anche l’impaginazione risulta eccessivamente dispersiva.
Mimmo Franzinelli
Roberto Gentili, Guerra aerea sull’Etiopia 1935-1939, Firenze, Edizioni aeronautiche italiane, 1992, pp. 222, lire 39.000.
Il taglio del volume richiede due discorsi distinti, il primo di riconoscimenti, il secondo di critiche. Innanzi tutto, questa è la prima ricostruzione in assoluto, pregevole per ricchezza di dati e chiarezza espositiva, del ruolo svolto dall’aeronautica italiana nella conquista dell’impero fascista d’Etiopia dal 1935 allo scoppio della guerra mondiale, che segnò la fine delle operazioni “coloniali” italiane, mutando radicalmente la situazione strategica, i compiti dell’aeronautica e i rapporti di forza. Ciò non significa che gli studi precedenti, in particolare di Vincenzo Lioy e del sotto- scritto centrati sulla guerra “ufficiale” 1935-1936, perdano validità; ma si deve riconoscere a Roberto Gentili sia una ricostruzione assai più dettagliata delle operazioni aeree, sia il proseguimento della ricerca negli anni della dura repressione della resistenza abissina, fino al 1939. Sulla base di un lungo e meticoloso lavoro nell’archivio dell’Ufficio storico dell’aeronautica, l’autore illustra gli interventi dell’aviazione italiana quasi giorno per giorno, con ricchezza di cifre e di indicazioni critiche sulla sua gestione e il suo impiego. In secondo luogo
va rilevata l’onestà dell’autore, che, pur confermando i suoi sentimenti di lealtà e ammirazione verso l’aeronautica e gli aviatori italiani, ha saputo trarre dalla documentazione la convinzione che “la realtà storica della conquista dellTmpero è quella di una conquista sanguinaria, che la stupida crudeltà dei capi, primo fra essi Mussolini, ha reso esattamente uguale a quella dell’Ovest americano o ai conflitti in Vietnam o nell’Afghanistan” (p. 4). In particolare l’autore documenta il largo ricorso ai bombardamenti chimici, dandone un elenco giorno per giorno con bersagli e quantitativi, aggiornato fino al 1939; ma fornisce anche molti dettagli sull’efficacia dei bombardamenti con esplosivi tradizionali. Particolare cura è poi dedicata alla ricostruzione del numero e del tipo degli apparecchi impiegati, alle perdite, all’organizzazione dei reparti e ai problemi di vertice, risolti in sostanza con la subordinazione dell’aeronautica alle esigenze dell’esercito. Molto ricco e bene annotato il materiale fotografico.
Questo bel lavoro presenta però un difetto di fondo: la rinuncia a qualsiasi indicazione sulle fonti. Gentili si limita a citare il fondo Aoi dell’archivio dell’Ufficio storico dell’aeronautica (161 buste) e un fondo dell’Archivio centrale dello stato e a fornire un elenco di titoli di volumi e articoli. Nessuna descrizione dei fondi consultati e dei loro limiti, nessun cenno allo stato delle ricerche né alle opere pur largamente utilizzate, nessuna citazione a sostegno delle osservazioni di carattere
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generale sulla guerra, neppure l’indicazione che la massa dei dati forniti proviene dai “diari storici” dei comandi aeronautici (eppure bisognerebbe distinguere tra i “diari” dei reparti di volo, attendibili anche quando compilati con molto ritardo, e quelli dei comandi superiori, più sensibili alle esigenze politiche, come dimostra la minore franchezza nei riguardi dei bombardamenti a iprite). Una scelta francamente incomprensibile, non certo dovuta a pigrizia o superficialità dell’autore, né al desiderio di nascondere o sfumare gli aspetti più brutali delle operazioni (posso dichiarare che i dati che sono in grado di controllare sono esatti). In secondo luogo va rilevato che Gentili ha scelto di fare una cronistoria dettagliata e meritoria delle operazioni aeree più che una loro storia complessiva; per quanto il volume presenti pagine corrette di inquadramento generale sulle vicende della guerra, le sue fonti e le sue conclusioni rimangono molto interne. A titolo di esempio, non basta parlare di subordinazione dell’aeronautica alle esigenze della guerra terrestre se non si studia la guerra italiana in Etiopia nel suo complesso, dai condizionamenti politici alla difficoltà dei movimenti in un ambiente così nuovo e difficile. Sembra più corretto parlare di subordinazione di tutta la campagna a esigenze politiche, prima e dopo la proclamazione dell’impero, cosa in sostanza giusta e accettata dagli stessi comandi aeronautici, le cui proteste nei confronti dell’esercito sono da ricondurre a una visione corporativa più che a una
corretta capacità di analisi delle caratteristiche del conflitto e delle possibilità dei loro apparecchi. E comunque una storia delle operazioni aeree non si può fare senza studiare anche le fonti dell’esercito, anziché limitarsi alle autoglorificazioni di Badoglio. Bisogna però tenere conto del ritardo complessivo degli studi militari sulla guerra in Etiopia e del carattere “pionieristico” della ricostruzione di Gentili per gli anni successivi alla fine ufficiale delle operazioni.
In complesso, un lavoro di grande interesse e utilità, con limiti che sarebbe ingiusto addebitare tutti all’autore, salvo quello imperdonabile della rinuncia alla indicazione puntuale delle fonti della sua così ricca ricostruzione.
Giorgio Rochat
Teresio Gamaccio, L ’industria laniera fra espansionismo e grande crisi. Imprenditori, sindacato fascista e operai nel biel- lese (1926-1933), Vercelli, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli, 1990, pp. III-228, sip.
Pur concentrando la propria attenzione sul biellese, la ricerca di Teresio Gamaccio si sforza di collocare le vicende locali nel contesto più generale dell’intero settore tessile nazionale, che negli anni tra le due guerre conosce un decisivo arretramento dalla posizione di leadership, tenuta nell’industria italiana ancora dopo la prima guerra mondiale. L’autore procede su questo terreno secondo
una partizione cronologica che vede prevalere fino al 1926 i problemi della ristrutturazione degli impianti e della ricerca di mercati esteri di sbocco, concentra negli anni 1926-1933 la drammatica crisi seguita alla deflazione da “quota 90” e alla chiusura delle esportazioni, e sancisce negli anni dell’autarchia (dopo il contingentamento delle importazioni laniere e l’imposizione dell’uso delle fibre artificiali) la definitiva mar- ginalizzazione dei lanieri nella gerarchia del potere industriale nazionale. Adottando i tradizionali canoni di un filone storiografico ormai consolidato, Gamaccio mostra i passaggi attraverso i quali matura negli anni a cavallo della crisi l’intreccio tra scelte imprenditoriali regressive (scarso ammodernamento degli impianti e inadeguata razionalizzazione delle aziende) e questioni di politica economica — in particolare le oscillazioni del sostegno statale tra agevolazioni all’esportazione e commesse pubbliche nella prima metà degli anni trenta — e sindacale, con la drastica compressione dei salari e la più incontrollata intensificazione dello sfruttamento operaio.
Lo studio offre tuttavia le considerazioni di maggior interesse nelle pagine che, in virtù di un minuzioso lavoro di indagine archivistica, scavano più in profondità negli equilibri interni al regime. Emerge allora a tutto tondo la ricchezza e l’asprezza dei contrasti che percorrono il blocco di potere raccolto intorno al fascismo biellese: contrasti tra differenti interessi economici e sociali, tra potere economico e potere politi
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co, e ancora tra istanze centrali e articolazioni periferiche dello stato e delle organizzazioni sindacali, fino a superare talora la dimensione strettamente locale per conseguire un rilievo nazionale. Basti citare il duro contrasto tra industriali, da un lato, Pnf e sindacati fascisti dall’altro, per l’affermazione della propria egemonia nell’area biel- lese verso la metà degli anni venti; lo scontro tra industriali e grossisti (sostenuti questi ultimi dal regime), alla fine del decennio, sulla concentrazione delle strutture per la commercializzazione dei tessuti e l’adozione dei tessuti-tipo; l’aspra vertenza interna alle organizzazioni imprenditoriali che all’inizio degli anni trenta vede lanieri biellesi, lanieri vicentini e Confindustria confrontarsi senza risparmio di colpi sulla politica di intransigente compressione salariale; da ultimo, i duri e ricorrenti conflitti di potere tra organizzazioni imprenditoriali e sindacato fascista, prima intorno al nodo del contratto nazionale e alla questione dei fiduciari di fabbrica, più tardi per la resistenza opposta dal sindacato fascista biellese all’introduzione della nuova organizzazione del lavoro basata sul doppio telaio, posizione ambigua che ne avrebbe causato la normalizzazione e la decapitazione per intervento del centro.
Stefano Battilossi
Vittorio Cappelli, II fascismo in periferia. Il caso della Calabria, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 201, lire 35.000.
Piero Bevilacqua, nella nota introduttiva a questo più che ri
marchevole lavoro, a proposito degli indirizzi storiografici cui spetta il merito di “aver rotto l’incanto” di un conformismo, egli sottolinea, “ormai ripetitivo e privo di sbocchi” — per altro, a suo giudizio (e lo sottoscriveremmo), con una operazione di cultura della storiografia e di metodo “rimasta entro il quadro delle tradizioni cui si contrapponeva o di cui intendeva rinnovare, in sostanza, lo stato d ’animo politico” — si dice convinto di un fatto: ossia, d’essere stati, tuttavia, i “più tardi approcci regionali a introdurre nello scenario della storiografia nazionale le più consistenti novità” sia sotto il profilo del metodo e dei temi che delle categorie interpretative. L’appunto di Bevilacqua è centrato; e il saggio di Cappelli viene a rafforzarne la perspicuità rompendo, per il caso Calabria, con tutta una prassi di ricerca della storiografia locale negli anni sessanta e settanta la quale si ingegnava di adattare lo schema appunto locale a quello politico-ideologico “dominante sulla scena nazionale”; cosicché si avevano strozzature deformanti, riduzioni di processi essenziali per cogliere le specificità di taluni sviluppi di ininfluente marginalità e, soprattutto, esiti di banale “continuismo” rispetto ad una visione della società meridionale il cui ceto dirigente, “eternamente trasformista”, si sarebbe accodato ad un fascismo sbarcato tardi in quelle contrade e mero garante di vecchi assetti di potere, di antichi immobilismi. Cappelli è opportunamente partito (giovandosi anche di una preparazione lungamente coltivata su
questo terreno) dal criterio dello studio dei dati e delle funzioni, con procedure e categorie avalutative che gli hanno permesso di pervenire, usando il caso calabrese come “campione significativo”, ad un modello a nostro avviso assai convincente di indagine basata — per riprendere le sue parole — sulla individuazione “di nessi, compatibilità, scarti, accostamenti e resistenze intorno al rapporto tra centro e periferia” dello Stato. Ne sono scaturite risultanze di significativo momento nella rappresentazione della realtà della regione sotto il regime, in primo luogo tali da far piazza pulita degli stereotipi che negavano il prodursi laggiù, durante il ventennio, di dinamiche istituzionali, sociali, culturali e di costume. Cappelli, mettendo a frutto una fatica laboriosa di disaggregazione di indicatori economici e demografici, operando analiticamente su corredi statistici e su percorsi mobilitativi di presenze individuali e sociali (grazie anche al fortunato incontro con l’archivio prefettizio cosentino ricco di migliaia di carte sulle amministrazioni podestarili), ha potuto in tal maniera proporci un ritratto delle complessità degli impulsi, esterni ed interni, che presiedettero, a datare in parte da spinte affiorate in epoca precedente il fascismo — il primo dopoguerra —, a evoluzioni non secondarie del contesto civile, sociale ed economico calabrese. Ci fu, documenta il saggio, una “modernizzazione autoritaria” del regime che ebbe penetrazione anche nell’area “estrema” della penisola, che introdusse novità sia sotto l’aspetto del dislocarsi
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delle immigrazioni interne sul territorio in relazione agli interventi di carattere produttivo e di bonifica agraria, sia sotto quello delle polarizzazioni urbane create da tali interventi centralistici, dei mutamenti del personale di governo amministrativo e politico e dell’emerge- re di strati di ceto medio, sotto la spinta di disponibilità, già trapelate per l’innanzi, a sostituire il notabilato tradizionale. Nei tentativi di cambiamento, nelle pratiche di gestione del potere da cui furono interessati specialmente i maggiori centri cittadini, un peso rilevante ebbe il ruolo del calabrese Michele Bianchi, quadrumviro della “marcia su Roma” ma con una biografia di sindacalista rivoluzionario estremista, abile edificatore di un sistema egemonico personale nella Calabria delle sue origini, costruito in funzione delle proprie fortune entro il relativamente breve arco di tempo della sua vita (morì, come è noto, di tisi nel 1930) in termini di contrattazione anche col potere centrale. Accanto a lui, nella differenza dei ruoli e del rilievo esponenziale, altri personaggi calabresi rivestirono importanza in questo passaggio della regione attraverso l’esperienza fascista, da Maurizio Maraviglia ad Agostino Lanzil- lo a Luigi Razza. Ma Bianchi svolse una funzione assoluta- mente di particolare evidenza sulla falsariga delle linee direttrici nazionali nel rapporto tra centro e periferia, stimolando tanto quelle attese di “novità” che avrebbero gratificato la borghesia locale, quanto tutti gli elementi di spettacolarità sui quali esse poggiavano le loro
suggestioni, talvolta demagogi- camente risolte in scenari “populistici” dalle tecniche del regime; comunque sempre raccordate strettamente al persistere — Cappelli ce ne avvisa con chiarezza — di una impalcatura generale “di forte persistenza dei tradizionali legami clientela- ri, a base familiare e parentale, sia pure mascherati nei travesti- menti ideologici e politici del regime” .
Due pregi vanno specialmente ancora segnalati nella ricerca dello studioso cosentino: l’attenzione prestata alle biografie di “carriere” dei podestà calabresi, dentro l’esame dell’evol- versi del quadro locale sotto le diverse dinamiche apertesi cogli indirizzi del regime, e l’acuta intelligenza con la quale sono stati da lui colti i termini del problema femminile tra “ ‘femminismo’ e segregazione”; dove l’autore porta in superficie con fine percezione i fermenti generati, contraddittoriamente, dalla mobilitazione della donna, specchio di tensioni latenti non tutte soffocate dalla fondamentale concezione fascista di ancorare il “sesso debole” al proprio destino subalterno dettato da una pretesa inferiorità biologica. Proprio queste pagine sulla condizione femminile e sui soprassalti di autonomia che fecero capolino nella strumentalizzazione del regime dell’apporto delle donne, costituiscono uno dei capitoli più interessanti e seducenti di un libro condotto con mano sicura da cui non solo gli studiosi di storia locale possono ricavare parecchi concreti spunti di riflessione e di metodo operativo.
Mario Giovana
“Storia in Lombardia”, 1989, n. 1-2, pp. 520, lire 35.000.
Indice: Alberto De Bernardi, Presentazione; Ivano Granata, Il Partito nazionale fascista a Milano tra “dissidentismo” e “normalizzazione” (1923-1933)-, Elisa Signori, Il Partito nazionale fascista a Pavia-, Luigi Cavazzoli, Il Partito nazionale fascista a Mantova-, Ada Ferrari, Il Partito nazionale fascista a Cremona: bilancio storiografico e prospettive di ricerca-, Alberto De Bernardi, Capoferri: un leader sindacale nella Milano industriale-, Angelo Bendotti-Giuliana Bertacchi, Gli impiegati delle aziende bergamasche tra sindacalismo rivoluzionario e sindacalismo fascista-, Marco Soresina, Mutue sanitarie e regime corporativo-, Angela Amoroso, Le organizzazioni femminili nelle campagne durante il fascismo-, Gianluigi Della Valentina, Enti economici e controllo politico dell’agricoltura-, Piero Bolchini, Giacinto Motta, la Società Edison e il fascismo-, Maria Luisa Betri, Tra politica e cultura: la Scuota di mistica fascista-, Carlo G. Lacaita, Il Politecnico e il fascismo-, Gianfranco Petrillo, Il fascismo si impadronisce di un ‘istituzione riformista: l ’Umanitaria-, Sergio Onger, Il latte e la retorica: l ’Opera nazionale maternità e infanzia a Brescia (1927-1939); David G. Horn, L ’Ente opere assistenziali: strategie politiche e pratiche di assistenza; Simona Colarizi, Gli italiani e il fascismo: l ’opinione pubblica in Lombardia dal 1930 al 1934.
Una pubblicazione importante, questo fascicolo di “Storia in Lombardia”, che ha raccolto gli interventi più significativi proposti durante il convegno “Il partito nazionale fascista, le organizzazioni di massa e la società in Lombardia”, svoltosi nel 1988 ed organizzato dall’Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Lombardia. Una pubblicazione
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che propone come filone metodologico unificante la ridiscussione delle più classiche interpretazioni del fascismo come fenomeno totalizzante, in grado di plasmare ogni settore della società e di regolare ogni dinamica sociale in un quadro generale economico di sostanziale immobilità. Si tratta di un’interpretazione che appare col passare del tempo e l’approfondirsi degli studi sempre più schematica e semplificatoria, specialmente per un tipo di realtà industrializzata e in continua evoluzione come quella lombarda, destinata infatti a vivere un rapporto molto sfaccettato, articolato e se si vuole contraddittorio con il regime. Ed è proprio per questa ragione che nella pubblicazione si è dedicata particolare attenzione al partito, agli enti locali e agli altri organismi di massa, in quanto diretta- mente coinvolti e anche spesso protagonisti di questa dialettica tutt’altro che scontata. Da qui anche la conferma che probabilmente non esiste un unico punto di riferimento certo e stabile a svariate e multiformi situazioni particolari, tesi suffragata dall’analisi dei tanti casi locali e delle tante conflittualità individuabili nel ventennio sia a livello politico ed istituzionale sia a quello sociale e produttivo. Di conseguenza si è dunque preferito studiare i vari processi di fascistizzazione nelle diverse province lombarde, soffermandosi in modo particolare sui delicati rapporti tra industria e agricoltura e tra città e campagna. Il tutto in un quadro di penetrazione incompleta e parziale del regime, che non è riuscito a mutare le linee portanti dello
sviluppo della società lombarda. E questo fatto porta anche al conseguente ed inevitabile ridimensionamento del peso e dell’influenza dei ‘capi storici’ e dei personaggi di spicco del fascismo regionale. Per spiegare il perché di tale particolarità si è rivelato prezioso lo studio dell’attività dei sindacati del partito, che ha permesso di verificare le capacità di controllo sociale, la dialettica di consenso e dissenso dei diversi ceti sociali al regime e la penetrazione dei processi di nazionalizzazione delle masse. Significative, poi, le diverse relazioni sui rapporti tra potere economico e regime che, illustrando anche le modalità del cosiddetto dirigismo fascista, fanno capire quanto siano stati contraddittori i processi di fascistizzazione delle varie componenti della società lombarda, sostanzialmente non toccate nei loro elementi di fondo, cioè in quel modello industriale che le ha permesso di avere un ruolo di spicco nell’economia nazionale. Valido, infine, anche il contributo delle ricerche sugli enti assistenziali, ricreativi e culturali, che hanno permesso di valutare il peso dei processi di modernizzazione in atto durante gli anni trenta sulle varie strutture pubbliche.
Diego Minonzio
Antifascismo e resistenza
Giancarlo Bergami, Il Gramsci di Togliatti e l ’altro, Firenze, Le Monnier, 1991, pp. 146, lire25.000.
Stimolante studio monografico sui rapporti di Antonio
Gramsci con i comunisti sovietici ed italiani, dall’estate 1922 all’arresto ed alle sofferte meditazioni carcerarie, con osservazioni sulle sovrapposizioni politiche che tanta parte ebbero nelle vicende editoriali delle sue opere. Sullo sfondo delle lotte di corrente tra trotzkisti e staliniani, Giancarlo Bergami si sforza di enucleare — dagli scritti meno conosciuti e dalle dichiarazioni di vecchi militanti — un’immagine alternativa rispetto a quella consacrata dalla vulgata togliattiana.
Travolte dall’imponente evoluzione storica le ragioni dell’imbalsamazione di Gramsci nel sarcofago dell’ortodossia partitica, vengono riproposte e reinterpretate testimonianze apparentemente “minori”, dalle quali trae forma una personalità assai più ricca e multiforme di quella dogmaticamente canonizzata da un cinquantennio di raffigurazioni tendenti a stabilire una lineare ed obbligata discendenza Gramsci-Togliatti (poi estesa al binomio Longo- Berlinguer), secondo Bergami frutto di deliberati intenti strumentali e non sorretta da effettive affinità intellettuali e politiche.
Ad eccezione del primo capitolo (sin qui inedito), le diverse parti di questo studio erano apparse nelle pagine della “Nuova Antologia” . L’ ‘altro’ Gramsci è quello delineato dai ricordi di Alfondo Leonetti e recuperato da Cesare Bermani in una ricerca orale condotta tra i compagni di lotta e di prigionia del dirigente politico sardo: Gramsci raccontato, edito dall’Istituto De Martino nel 1987 e puntualmente rivisitato nella sezione in
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troduttiva di questo lavoro, attenta ai motivi biografici finora rimasti in ombra in quanto non collimanti con le ragioni dell’oleografia.
I rimanenti punti studiati da Bergami coincidono con la diretta partecipazione di Gramsci alla vita del Comintern, con l’attività terzinternazionalista di Togliatti (basata, secondo l’autore, sull’infedeltà alle tesi gramsciane e sfociata — tra compromessi ed opportunismi — nell’appiattimento sulla strategia staliniana) e con la drammatica rottura, consumatasi durante la reclusione, tra Gramsci ed i centri direttivi del Partito comunista d’Italia.
Le vicende editoriali delle opere di Gramsci risulterebbero immancabilmente segnate dalle conseguenze dell’originaria infedeltà di Togliatti al suo compagno di partito: espunto ogni riferimento men che ortodosso, esse dovevano risultare funzionali alle ragioni politiche del “nuovo principe”.
In aperta polemica con il to- gliattismo, Bergami recupera le interpretazioni gramsciane elaborate negli scorsi decenni negli ambienti della cosiddetta opposizione comunista, rivalutando aspetti biografici ed intellettuali dell’animatore dell’ “Ordine Nuovo”. Lo studioso rischia però di offrire a sua volta un’immagine deformata di Paimiro Togliatti, dipinto con le fattezze di un genio malefico che intrattenne con l’eredità di Gramsci un rapporto puramente e cinicamente strumentale. Se è scontato che taluni intellettuali citati da Bergami (da Vittorio Strada a Lucio Colletti) siano indotti dalla “sindrome dell’ex”
a caricare sulle spalle di Ercoli quanto di moralmente riprovevole si possa concepire, meno comprensibili risultano certi eccessi polemici in un giovane studioso che non è costretto ad espiare lontane militanze comuniste, di quando cioè il Pei aveva per segretario un personaggio del quale qui si evocano “complicità e correità con risoluzioni e atti di fondata valenza penale o criminale”.
Mimmo Franzinelli
P aolo Corsini e Gianfranco P orta, Avversi al regime. Una famiglia comunista negli anni del fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. XXI-374, lire40.000.
La cronaca familiare dell’operaio Luigi Abbiati e della sua compagna Antonia Oscar, entrambi giovani socialisti poi aderenti al Pcd’I, perseguitati con i loro figli negli anni del regime fascista, fuori e dentro il carcere e al confino, fino alla morte di lui nella resistenza, è ripercorsa dagli autori sullo sfondo di peripezie e passaggi drammatici della storia coeva e senza cedere alla retorica della politica, alle deformazioni dei giudizi ideologici, o ai vincoli soggettivi dell’autobiografia. Certo l’impegno civile e militante degli Abbiati rappresenta uno spaccato significativo dell’attività dell’antifascismo più consapevole, mentre la loro esperienza, riguardata nella quotidianità della vita familiare, sociale e lavorativa, getta luce sul mondo circostante, ovvero sulla zona opposta e contermine costituita dall’Italia dichiarata
mente fascista e da quella parte del paese che accettava il fascismo pur non condividendone l’ideologia estremistica sopraffattrice.
La vicenda degli Abbiati pone l’esigenza di ritessere la trama di una storia continua della società italiana negli anni del fascismo. Occorre in altri termini liberarsi dagli schemi di uno storicismo più o meno assoluto, come da una predominante ideologizzazione dei fenomeni e soggetti storici, per recuperare una dimensione non separata dei campi di studio del fascismo e dell’antifascismo, entrambi meglio comprensibili e valutabili in riferimento alla più generale storia della società italiana negli anni del regime e alla soggettività concreta degli individui “più che alla rete cospirativa, all’impianto organizzativo, al partito come entità quasi disincarnata e astratta” (p. XIV).
Pare maturo il momento di superare la dicotomia tra le storie dell’antifascismo e del fascismo: un superamento utile non solo dal punto di vista del rinnovamento metodologico-erme- neutico proprio della storiografia, ma pure sotto il profilo di una corretta analisi delle tendenze e dei movimenti di lunga durata che preparano e rendono possibili i mutamenti politici e le trasformazioni sociali. A un approccio di questo tipo l’indagine di Paolo Corsini e Gianfranco Porta contribuisce con apprezzabili risultati e si segnala con quella di numerosi ricercatori che operano sul terreno delle fonti orali, della biografia, della microstoria o della storia materiale nella sua specifica accezione.
Giancarlo Bergami
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Alessandra Baldini-Paolo P alma, Gli antifascisti italiani in America (1942-1944). La “Legione ” nel carteggio di Pac- ciardi con Borgese, Salvemini, Sforza e Sturzo, Firenze, Le Monnier, 1990, pp. XVII-376, lire 40.000.
Il merito principale di questo libro va attribuito alla tenacia dei due curatori che, dopo essere riusciti a mettere mano su un carteggio che neppure lo stesso Pacciardi sapeva di avere in casa (essendo ancora imballato così come era stato portato dalla moglie rientrata in Italia dopo di lui), lo hanno integrato attraverso il lavoro di ricerca negli archivi italiani e stranieri. Questa e altre informazioni apprendiamo dalla prefazione di Renzo De Felice, che giustamente sottolinea l’importanza che questo ritrovamento ha per una concreta rivisitazione dell’antifascismo di matrice liberale e democratica, finora trascurato dagli storici. Non ci sentiamo però di condividere le affermazioni di De Felice, quando egli attribuisce questa lacuna all’“egemonia culturale cattolica e comunista” e quando parla di “ostracismi” messi in atto contro Randolfo Pacciardi e altre personalità. Per quanto riguarda la prima affermazione non è colpa di alcuna egemonia se alcune correnti politiche sono state più attive di altre nel valorizzare l’apporto dato dagli antifascisti a esse aderenti. E quanto alla figura di Pacciardi (al centro dell’intero carteggio), non ci risulta che vi sia stato alcun boicottaggio, a meno che non si dia questo significato alle critiche alla sua azione di mi
nistro della Difesa (1948-1953), quando egli condusse, tra l’altro, un’azione repressiva e discriminatoria nei confronti degli aderenti ai partiti di sinistra, in particolare dipendenti del suo ministero, parecchi dei quali subirono il licenziamento per motivi esclusivamente politici.
Il carteggio è preceduto da una breve testimonianza dello stesso Pacciardi, che illustra brevemente il contesto del carteggio, e da un lungo saggio storico su La legione impossibile, opera dei curatori. Apprendiamo così i particolari della lunga lotta antifascista condotta da Pacciardi: dopo l’esilio divenne leader del Partito re- pubblicano a Parigi e comandante della legione Garibaldi in Spagna. Nel 1940 nella Francia invasa dai tedeschi è ancora in fuga, nel corso della diaspora generale, verso Bordeaux, Marsiglia e Algeri. Da quest’ultima città riesce a imbarcarsi per Cuba, da dove passerà negli Stati Uniti.
Quando Pacciardi arriva a New York, il paese è appena entrato in guerra. Mentre le potenze del tripartito sono all’offensiva, Pacciardi comincia ad adoperarsi per raggruppare tutte le forze antifasciste in un movimento che abbia lo scopo di appoggiare gli alleati. “Se Hitler vince — dichiara — l’Italia diventerà uno stato vassallo e non alleato dei tedeschi”. Tra gli esuli antifascisti italiani l’idea (rimasta allo stadio di progetto) della costituzione di una legione, che operi sul piano militare, era di vecchia data. La sua formazione avrebbe avuto il grande significato politico di dimostrare come non esistesse
identità tra popolo italiano e fascismo. Vi era stato il tentativo fatto a Parigi nel settembre 1939; vi era stato il piano di Emilio Lussu di organizzare, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, un movimento partigiano in Sardegna, con l’aiuto britannico, allo scopo di promuovere un’insurrezione antitedesca e costituire quindi un governo provvisorio nell’isola liberata. Vi era stata infine la proposta, nel febbraio 1941, di Carlo Sforza e Alberto Tarchiani alla Mazzini Society, associazione antifascista fondata nel 1939 a Nothampton (Massachusetts) da Gaetano Salvemini e da altri. Negli Stati Uniti Pacciardi era atteso come l’elemento più accreditato per mettere in atto tale progetto. Dopo un colloquio col colonnello William Donovan, direttore dell’ufficio di New York del Coordination of Information (Coi) — che concede l’autorizzazione, con la pregiudiziale che la costituenda legione sia indipendente da qualsiasi partito politico e non impegni politicamente il governo degli Stati Uniti “sia in forma esplicita che implicita” — Pacciardi si mette subito all’opera. Ed è a questo punto che inizia il carteggio.
Pacciardi vede nella costituzione della legione “il solo fatto che dimostrerebbe l’esistenza di un’Italia antifascista, la sola speranza di essere trattati meglio sul tavolo della pace, il solo tentativo serio per incoraggiare dal di fuori la strenua resistenza degli italiani di dentro e di affrettare la disgregazione politica e militare del regime” (lettera a Salvemini del 6 maggio 1942). Al contrario dei diri-
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genti della Mazzini Society (in primo piano Alberto Tarchiani e Lionello Venturi), egli è contrario a qualsiasi discriminazione nei confronti dei comunisti, mettendo in luce l’anacronismo della posizione dei suoi avversari nel momento in cui in tutta l’Europa prevale l’unità d’azione tra le forze antifasciste. Da questo deriva la sua rottura con l’associazione. La questione è messa nuovamente a fuoco in una lettera inviata a Sforza il 4 gennaio 1943: “Lei ha troppa finezza intellettuale — egli scrive con riferimento ai comunisti — per non capire che si tratta di un movimento internazionale entrato nella storia e che non si può né ignorarlo, né assumere posizioni reazionarie di negazione totale”. Viva contrarietà manifesta Pacciardi anche verso la proposta, che per un momento sembra prendere corpo, della costituzione di una legione austriaca al comando di Otto di Asburgo. L’azione di Pacciardi per realizzare il suo progetto incontra numerose difficoltà. Le masse italo-americane sono ancora prevalentemente filofasciste e filofascista è il quotidiano di lingua italiana “Il Progresso italo-americano”. Lo sbarco anglo-americano in Africa occidentale del novembre 1942 sembra suscitare nuove speranze. Ma si tratta di illusioni di breve durata. “Il Dipartimento di Stato — scrive Pacciardi a Stur- zo il 29 luglio 1943 — ha impedito che io andassi in Africa per formare una Legione. La ragione è evidente: non vogliono impegni con nessuno.” La caduta del fascismo e l’armistizio mutano profondamente la situazione politica. In un comizio te
nuto alla Carnegie Hall di New York Pacciardi lancia un duro atto di accusa agli anglo-americani. Diffidente si dimostra anche verso Sforza che, per rientrare in Italia, ha promesso di non intralciare il re e Badoglio.
Anche Pacciardi vorrebbe tornare in Italia, ma senza subire alcun condizionamento politico. A questo punto sorge un contrasto tra il Dipartimento di Stato, che ritiene che la presenza del leader repubblicano in Italia possa essere utile per contenere la preminenza britannica nella definizione dell’assetto post-bellico, e il Comando alleato, il quale comunica (2 febbraio 1944) che “il governo italiano non gradisce il ritorno del colonnello Randolfo Pacciardi”. Superate le ultime difficoltà, Pacciardi può rientrare in Italia soltanto il 7 giugno e anche la speranza di poter organizzare un gruppo di volontari da paracadutare al Nord in appoggio alle unità partigiane svanisce ben presto. Gli Alleati gli preferiscono il generale Raffaele Cadorna.
Richiamandoci a quanto detto in principio non si può che giudicare lodevole l’opera dei due curatori. Ci sia permesso soltanto un piccolo appunto. Per la maggiore comprensione della materia sarebbe stata utile qualche ulteriore annotazione. A p. 192, per esempio, dove si scrive di un articolo inviato da Tagliacozzo “sul caso Bergamini, Einaudi, Croce e meglio su questo scandalo” o a p. 230 dove si accenna, senza nessun altro riferimento, a un attacco di Salvemini a Croce e Einaudi.
Franco Pedone
G iorgio P etracchi, “Intelligence” americana e partigiani sulla Linea gotica, Foggia, Ba- stogi, 1991, lire 20.000
Sulla Linea gotica (la Grìint- stellung del sistema difensivo dell’esercito germanico, che si estendeva da Pesaro alla costa tirrenica a Nord di Pisa) si combattè un capitolo rilevante della guerra in Italia nella fase cruciale dell’inverno 1944-1945.
Come è noto, tra le forze inglesi e quelle americane nel corso della campagna d’Italia e soprattutto nella fase che coincise con lo stanziamento del fronte sulla gotica si manifestarono alcune non secondarie divergenze di ordine strategico complessivo: privilegiare definitivamente— nella visione statunitense — le operazioni sul secondo fronte, assegnando al teatro italiano un ruolo secondario o prevedere, secondo un progetto più caro a Churchill ed ai britannici— uno sfondamento della gotica che consentisse alle forze alleate di sbaragliare fascisti e tedeschi nell’Italia del Nord, ma anche di puntare verso l’Austria, Vienna, Lubiana e il Centro Europa per “arrestare” di fatto il dilagare dell’Armata rossa nei Balcani e nell’Europa centrale ove l’impero britannico mirava a ricostituire consistenti interessi nella fase postbellica.
Dentro tale quadro strategico di ordine generale, e dentro quello più definito dell’andamento delle operazioni sul fronte italiano, divenuto ormai “secondario” nelle prospettive strategiche alleate una volta abbandonato il progetto di un attacco decisivo sulla gotica, si
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collocano i documenti (in buona parte inediti) raccolti e pubblicati da Petracchi. Il lavoro dell’autore, prezioso per quanto attiene l’individuazione e la segnalazione dei fondi documentari conservati presso i National Archives di Washington, risulta tuttavia piuttosto sbrigativo per quanto si riferisce invece all’analisi dei contenuti dei documenti stessi.
Il reale contributo di novità consiste quindi nelle fonti segnalate e messe a disposizione dei lettori: una serie di documenti prodotti con regolare periodicità, che coprono un arco cronologico che va dal settembre 1944 al maggio 1945, dalla fase cioè nella quale le avanguardie della Quinta armata raggiunsero la linea dell’appen- nino tosco-emiliano ed entrarono quindi in contatto con le formazioni partigiane che operavano in tutta l’area, fino alla fine delle operazioni militari in Italia. Le relazioni (i W eekly Partisan R ep o rts) prodotte dal Servizio informazioni della Quinta armata assumono pertanto un interesse specifico. Assimilabili nella periodicità e serialità ai rapporti di polizia (per esempio, per stare al caso italiano, sia pure nella “trincea” opposta, ai “Notiziari” della Guardia nazionale repubblicana) prodotti dai più svariati enti ed organismi sui diversi fronti nel corso del conflitto, tali materiali costituiscono la testimonianza di come gli alleati, nella fattispecie gli americani, giudicassero la situazione militare ed ancor più specificamente di come essi valutassero la funzione e il ruolo politico e strategico delle forze partigiane attestate
al di là del crinale appenninico nell’Italia occupata dai tedeschi e soggetta alla Rsi, nonché dei problemi politici di rapporto con le forze antifasciste che si prospettavano per l’Italia del dopoguerra.
Gianni Sciola
Chiara Saonara (a cura di), L e m ission i alleate e la resistenza nel Veneto. L a rete d i P ie tro F erraro d e ll’O ss, “Annali” dell’Istituto veneto per la storia della resistenza, Anni 9-10, 1988-1989, pp. 360, lire 44.000.
Nonostante i numerosi studi sulla resistenza, ancora oggi non si conosce molto sulle missioni militari alleate operanti presso le unità partigiane. Al di là di qualche storia romanzata, poco è trapelato sul vero ruolo svolto da queste unità specializzate strettamente legate ai vari servizi di sicurezza degli alleati. Gli archivi hanno adottato una politica severamente restrittiva nell’accesso agli incartamenti, gran parte dei quali, in ogni caso, veniva normalmente distrutta per non fornire notizie in caso di cattura.
Sono proprio queste caratteristiche generali che consentono di apprezzare la pubblicazione di una parte delle carte dell’avvocato Pietro Ferraro, relative alla documentazione quasi completa della vita operativa di una missione dell’Office of Strategie Service (OSS), operante in Veneto dal luglio 1944 sino alla fine delle ostilità.
Nota in codice con il nome di Margot-Hollis, la missione Ferraro aveva svolto un buon lavo
ro, operando a fianco della Brigata ferrovieri Matteotti, e sfruttando al meglio la vasta rete di conoscenze dell’avvocato veneziano, i legami con Nenni e gli ambienti militari, e il capillare lavoro svolto dagli antifascisti, in una regione come il Veneto, di grande importanza per i tedeschi che, attraverso il Brennero, potevano mantenere i collegamenti con l’Italia.
Al di là della possibilità di seguire nei dettagli il funzionamento di una missione militare alleata, la serie completa dei messaggi ricevuti e inviati da Margot-Hollis è una miniera di informazioni sulla dinamica dei movimenti finanziari connessi alla lotta partigiana, sul sistema di rifornimenti mediante aviolancio e sul complesso lavoro di verifica e controllo connesso all’impiego dei bombardieri da parte alleata, alla scelta degli obiettivi e alla valutazione dei danni inflitti all’apparato militare tedesco.
Da segnalare anche la presenza di un certo numero di dispacci sulla situazione in Friuli (divisione Osoppo) e a Trieste, specialmente in merito alle vicende della ‘corsa’ tra neozelandesi e forze di Tito per giungere primi nella città, con alcuni dati sulla proposta dei cetnici di schierarsi a difesa della città giuliana dall’attacco partigiano.
Si tratta di accenni scarni, redatti nel linguaggio sintetico tipico di questo genere di comunicazioni, che sono però utili a delineare un quadro complessivo della lotta partigiana, vista con gli occhi di chi si è trovato ad agire nel punto di congiunzione tra alleati e resistenza,
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dove affluivano informazioni e da dove partivano i rapporti, mentre si sviluppava una lotta complessa, in un ambiente pieno di insidie, come è dimostrato anche dalle numerose perdite registrate dalle missioni.
Di particolare rilievo anche la ricostruzione del quadro completo delle missioni militari operanti nel Veneto. Consultando le varie fonti disponibili e incrociando pazientemente i dati ottenuti, l’autore ha potuto individuare le quasi cinquanta missioni (inglesi, americane, francesi e italiane) presenti nell’area veneta, raccogliendo poi per ciascuna i dati essenziali accompagnati dal necessario supporto bibliografico. Nell’impossibilità di pubblicare l’intero fondo con la stessa completezza dei dispacci radio, è stata fornita una sintesi significativa del materiale disponibile, che offre (come osserva Angelo Ventura nella sua introduzione) una preziosa testimonianza “dell’attività e del m o d u s op era n d i di una missione militare in collegamento con la resistenza” pur non riuscendo comunque a dissipare completamente il “velo di riservatezza” che “rende ancor oggi non ben decifrabili la genesi della missione e i suoi risvolti politici”.
A completamento del lavoro, tre indici diversi (dei nomi di persona, di quelli di enti, formazioni, missioni, radio, campi di lancio e infine di nomi geografici) permettono di individuare subito gli argomenti che interessano.
Antonio Sema
Ivan Tognarini (a cura di), G uerra d i sterm in io e resisten
za . L a p ro v in c ia d i A re zzo (1943-1944), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990, pp. 422, lire 55.000.
Se l’obiettivo che si propone un libro di ricerca storica è quello di portare nuovi elementi e di affrontare campi inesplorati, possiamo senz’altro dire che, con la pubblicazione di quest’opera, il fine è stato pienamente raggiunto. Essa infatti, superando anche i limiti indicati dal titolo, contiene, oltre ad alcuni studi di carattere generale, anche contributi riguardanti la situazione della provincia prima dell’8 settembre.
Il volume raccoglie una parte delle relazioni presentate al convegno internazionale di studi su “Seconda guerra mondiale e sterminio di massa. Stragi e rappresaglie nella lotta di liberazione” (24-28 settembre 1987), promosso dall’amministrazione provinciale di Arezzo. Non sono compresi alcuni interventi che hanno seguito una diversa strada per giungere alla pubblicazione e altri che comparirono in una nuova pubblicazione, an- ch’essa promossa dall’ammini- strazione provinciale.
Le relazioni si possono dividere in tre gruppi: quelle di carattere generale; quelle riguardanti la metodologia della ricerca; quelle concernenti in modo specifico la provincia di Arezzo. Nella prefazione Ivan Tognarini, esaminando il fenomeno delle stragi e delle rappresaglie, giunge alla conclusione che difficilmente esse possono essere interpretate (e tanto meno giustificate) come “risposta immediata, quasi istintiva e irrazionale, agli attacchi ed alle at
tività dei partigiani”, rivelandosi invece come “l’estrema conseguenza dell’applicazione di direttive precise e come esecuzione di piani preordinati da applicarsi laddove venivano localizzati focolai di resistenza, laddove, in un modo o in un altro, i partigiani rivelavano la loro presenza o facevano sentire la loro iniziativa”. Dopo la liberazione della città, il Comitato di liberazione locale venne diffidato dal comando alleato dal raccogliere prove e testimonianze relative alle violenze dei nazifascisti, essendo lo stesso Comitato considerato come un’“agenzia privata” suscettibile di commettere gravi ingiustizie. Fu questo uno dei motivi, e certamente tra i più rilevanti, dell’enorme ritardo nella documentazione di alcuni fatti legati alla guerra di liberazione. La relazione di Enzo Collotti, ( L ‘occupazione tedesca in Ita lia negli anni 1943-1945) dimostra come, pur nel quadro della politica di Mussolini, oscillante sempre tra “la rivendicazione di uno spazio minimale ed i gesti della più passiva subordinazione” all’occupazione dell’Italia, non sia stata risparmiata “nessuna delle caratteristiche delle finalità di assoggettamento politico e di sfruttamento economico che presiedettero alla politica di occupazione del resto dell’Europa”. Lutz Klinkham- mer (Le con cezion i della guerra p artig ian o nei qu a d ri a lti della W ehrm acht) fornisce un elemento finora sconosciuto che dimostra la pressione esercitata dal terrore nazista anche all’interno: quello della fucilazione, anche per trasgressioni minime, di 50.000 soldati dell’armata te
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desca promulgata dai tribunali di guerra. Dalla relazione di Teodoro Sala (T rieste: la risiera d i S. S abba tra s to r ia e p o litica ) apprendiamo tra l’altro alcuni aspetti della contraddittoria politica messa in atto dai tedeschi nella Venezia Giulia, politica che, mentre nelle regioni annesse al Reich era caratterizzata da un’azione di violenta denazionalizzazione, nelle province ri- vieresche assumeva, in funzione antitaliana, il ruolo di rivendicare i diritti dei croati e degli sloveni.
Al secondo gruppo appartengono le relazioni di Gian Pietro Brunetta, L o sguardo p e rd u to , di Gianfranco Casadio, I s e r v iz i cin em atografic i d e l W ar O ffice n e ll’aretino (luglio -settem bre 1944); di Nicola Labanca, D alla fo to g ra fia d i guerra alle f o t o grafie d e l tem p o d i guerra. N o te a m argine d i una ricerca, che riguardano la metodologia della documentazione cinematografica e iconografica. Quella di Casadio, in particolare, tratta dei criteri di addestramento dei cam eram en dell’Unità cinematografica dell’esercito britannico (Afpu), che avevano, tra le varie istruzioni, anche quella di non fare mai apparire il sangue dei soldati britannici per non allarmare le famiglie; tale direttiva non includeva però i soldati coloniali, quelli nemici e i civili massacrati dai nazifascisti. La relazione è corredata da schede relative ai documenti girati da questi cam eram en in provincia di Arezzo; alla relazione di Labanca si riferiscono invece alcune fotografie molto utili per ricostruire la storia dei bombardamenti strategici. Fanno parte di questo
gruppo anche le relazioni di Augusto Antoniella (F o n ti p e r la s to ria d a l fa sc ism o a l d o p o guerra con serva te n e ll’A rch iv io d i S ta to d i A r e z z o ”), d i M ario G. R o ss i (L a resistenza n e ll’aretino: f o n t i d ocu m en tarie e p r o b lem i s to ric i) e di Enzo Gradassi (/ can ti pa rtig ia n i com e d o cu m en to . M a teria li e d analisi dei can ti pa rtig ia n i n e ll’aretino). Nella relazione di Rosa Maria Di Donfrancesco e Piero Ricci ( “E la G erm ania — lo S ta to — co n tin u a ”: e ffe tt i d i sen so in a vvis i p u b b lic ita r i d e l 1944) viene fatta un’analisi semiotica di 18 annunci pubblicati dal quotidiano “La Nazione” dal febbraio al maggio 1944.
L’ultima parte del volume, sulla provincia di Arezzo, comprende le relazioni di Giovanni Verni (A p p u n ti p e r una sto ria della resistenza n e ll’aretin o), di Ivo Biagianti (A n tifa sc ism o , resistenza e stra g i n e ll’aretino), di Giorgio Sacchetti (R en icci: un cam po d i concen tram en to p e r s la v i e anarchici) e di Antonio M. Lombardo, Un caso d i trasgressione sociale. L a borsa nera in p ro v in c ia d i A re zzo (1939-1947). Quella di Verni, dopo un rapido compendio sulla storia del movimento operaio e democratico nell’aretino, dalle origini allo scoppio della seconda guerra mondiale, delinea le caratteristiche della resistenza nella provincia, condizionata dalla prevalenza della corrente cattolica, sia nel Comitato provinciale di concentrazione antifascista sorto in periodo badogliano, sia nel Comitato provinciale di liberazione (succeduto al primo) che promosse il “Raggruppamento Bande Monte Amiata”. Questa
situazione, dovuta anche alle difficoltà che incontravano nella zona i partiti socialista e comunista, fece sì che nelle formazioni partigiane si affermasse la mentalità della guerriglia “sull’uscio di casa”. Per cui l’incontro coi partigiani fiorentini provenienti dal monte Giovi, in prevalenza di orientamento comunista, avrebbe messo allo scoperto le due diverse concezioni: mentre i primi “operavano secondo criteri tattici e strategici ancorati a una visione politica e militare a scala regionale, o quanto meno interprovinciale”, i secondi “erano invece fortemente motivati alla lotta dalle esigenze della difesa delle zone in cui operavano, alle quali erano strettamente legati da vincoli di parentela, amicizie, interessi economici”. I partigiani aretini diedero comunque il loro attivo contributo, particolarmente nelle sanguinose battaglie a cavallo della liberazione del capoluogo, battaglie destinate a frustrare il piano tedesco di protrarre la resistenza sugli Appennini per avere il tempo di completare i lavori di fortificazione della linea gotica.
Nello studio di Sacchetti sono contenute alcune testimonianze sullo spirito di resistenza degli internati di Rennici. La popolazione del campo di concentramento era composta da anarchici, ai quali le autorità badogliane, dopo anni e anni di galera fascista, non avevano saputo offrire niente di meglio del campo di concentramento, e da partigiani slavi, tra i quali erano anche centinaia di minorenni. Tra le prime iniziative del Comitato antifascista vi fu quella di porre in salvo questi
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internati evasi nel marasma successivo all’8 settembre. E, fatto questo assai significativo, sia dal punto di vista umano che da quello politico, questi slavi per la prima volta sentirono “proferire in italiano frasi di comprensione e di solidarietà”.
Il volume è completato da alcuni documenti inglesi, tedeschi e italiani tra i quali i periodici rapporti delle autorità fasciste sul progredire dell’attività del movimento di liberazione e una relazione del generale Taddeo Orlando sull’eccidio di Castel- nuovo dei Sabbioni (4 luglio), con la proposta dei provvedimenti da attuare a favore della popolazione della zona, stremata dalla strage, dalle distruzioni e dall’indigenza.
Franco Pedone
Daniele Borioli, Roberto Botta, I g io rn i della m o n ta gna: o tto saggi su i pa rtig ia n i della P in an -C ich ero , Alessandria, Edizioni WR, 1990, pp. 223, lire 19.000 (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria).
Giovanni Serbandini, B ini, già addetto stampa della VI Zona ligure, richiama i due concetti fondamentali dell’unità e del rigore morale che animava i partigiani della due divisioni operanti sull’appennino ligurealessandrino, la Cichero e la Pinan-Cichero, garibaldine “nella scelta di campo ma socialmente composite e ideologicamente ispirate a uno spiccato senso dell’unità ciellenistica” (p. 64). Di tali divisioni gli autori (ricercatori presso l’Istituto
per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria) ricostruiscono l’attività, la complessa fisionomia ideologica e la composizione sociale dei combattenti. Il libro — che consta di saggi dovuti rispettivamente a Daniele Borioli (II, V, VI, Vili) e a Roberto Botta (I, III, IV, VII) — rappresenta una tappa in un ampio lavoro dedicato alla storia della Pinan- Cichero, studiata nei suoi aspetti di vita quotidiana nei distaccamenti, di “esperienza armata come momento di formazione culturale e morale”.
È sottolineata quindi l’incidenza dell’origine familiare antifascista nelle scelte ideali e pratiche dei giovani partigiani liguri. Non mancano in questo contesto situazioni eccezionali come quella di Umberto Laza- gna, poi capo di stato maggiore della VI Zona, e del figlio Giovanni Battista, vicecomandante della Pinan-Cichero. L’antifascismo di famiglia fortemente strutturato in senso ideologico stimola il giovane Giovanni Battista, studente dell’ateneo genovese, ad “ampliare le proprie conoscenze politiche sino all’approdo comunista e al definitivo distacco dall’antifascismo del padre. La tradizione politica familiare è, dunque, uno stimolo accanto ad altri, li condizionerà ma verrà da essi inesorabilmente messo in discussione e superato” (p. 75).
Gli autori ripercorrono tempi e luoghi della maturazione della coscienza dei partigiani della Pinan-Cichero, illuminando le motivazioni della scelta antifascista e resistenziale. Un antifascismo che “si ricollega al senti
mento di ribellione dei giovani, e lo rende, in ultima analisi, possibile e concreto” (p. 83). Borioli e Botta sollevano l’interrogativo se abbia ancora senso proporre una sto ria socia le della resistenza che trovi nell’esperienza partigiana “il proprio centro narrativo e, allo stesso tempo, non perda di vista i nodi fondamentali della storia della società italiana”. Sebbene non sia data una risposta globale organica, capace di costituire un modo nuovo e pluridiscipli- nare di affrontare la storia della resistenza, sia pure dall’angolo visuale di un’area geografica limitata e di un’esperienza certo notevole come quella della Pinan-Cichero, gli autori fanno compiere a tale indagine un passo avanti nella direzione che alcuni saggi recenti avevano lasciato intravedere.
Respingendo gli schematismi e i condizionamenti di una storia a tesi che spesso si sovrappone, fino a stravolgerle nei loro contenuti, alle volontà, esigenze e aspirazioni reali, si riesce a capire meglio la dinamica e a impostare correttamente il problema aperto di una precisa e circostanziata definizione storica dei venti mesi partigiani. Su questo terreno è possibile rileggere la guerra di liberazione come un’opportunità importante di crescita delle culture, “di confronto tra le mentalità, di contatto tra i ceti sociali, di riformulazione dei ruoli” (p. 12).
Si rivelano le voci e gli itinerari di testimoni e protagonisti cui gli autori danno spazio offrendo un aperçu eloquente dello stato della coscienza del paese a una svolta decisiva del suo cammino. Ne risulta un viluppo
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problematico che la percezione del nemico da parte dei partigiani acutizza e complica alquanto, mentre si delinea una sorta di “dialettica fondante, comune a molti aspetti della vicenda resistenziale, instauratasi tra vertici e base partigiana nello svolgersi concreto dell’ambizioso progetto di educazione politica dei giovani ribelli”. Di qui gli autori colgono e individuano il senso della resistenza, che fu, “per taluni dei suoi protagonisti, anche e soprattutto occasione di emancipazione politica e di riscatto civile; e che segnò, per le giovani generazioni di allora, l’ansia assoluta di differenziarsi da un universo di valori negativi” (P- 98).
L’esame dell’organo ufficiale dapprima della terza divisione Cichero e poi dell’intera VI Zona operativa ligure, “Il Partigiano”, rende conto dei momenti in cui si connota quello che è una sorta di progetto di educazione civica del partigiano che “quasi sempre giunge in montagna sprovvisto di qualsivoglia cultura” (p. 99). Emergono linee di intervento e obiettivi che furono propri non del solo movimento ligure di liberazione e su cui il comando Bri- ganta garibaldina Oreste insisteva nella “Direttiva per il servizio stampa e propaganda”, avvertendo commissari e addetti stampa dei vari distaccamenti a non cadere “in settarismi di qualsiasi genere o in personalismi”, ma a valorizzare l’ispirazione unitaria del “movimento popolare partigiano al quale è affidata la salvezza della Patria”. L’immagine del nemico che ne discende è costruita “sul
la base di riscontri oggettivi, ma anche sull’adeguamento a considerazioni di opportunità e di tattica”; laddove gli scarsi e scarni cenni ’’circa la genesi storico-politica del regime, che affiorano qua e là nei testi destinati all’informazione e all’istruzione dei combattenti, fluttuavano sempre su un piano piuttosto vago” (p. 100).
Attraverso l’uso e l’intreccio di fonti diverse (testimonianze orali, documenti d’archivio pubblici e privati, elaborazioni statistiche computerizzate sui ruolini partigiani, riletture della memorialistica), Borioli e Botta forniscono in conclusione un sondaggio attento a un significativo microcosmo resistenziale senza perdere di vista i nodi della storia italiana contemporanea. Ripercorrere la vicenda dei partigiani, e dell’area di fiancheggiamento attivo, di solidarietà e collaborazione con la lotta di liberazione, comporta per gli autori “indagare le radici culturali ed etiche di buona parte del ceto dirigente politico, sindacale, culturale, economico dei primi decenni dell’Italia repubblicana”. In tale connessione con il dopo essi a ragione vedono “una delle questioni capaci di restituire prepotentemente vitalità a una rinnovata storiografia resistenziale” (p. 12).
L’affermazione dei diritti di libertà, di giustizia e di democrazia allora posti, consentono così di riconoscere gli appuntamenti mancanti con una seria riforma dal basso dell’ordinamento civile e statale in Italia, individuando i problemi rinviati dalle classi dirigenti al governo nel dopoliberazione e fino ai nostri anni.
Giancarlo Bergami
Vanna M ignoli, La resistenza mantovana 1943-1945, Mantova, Istituto provinciale per la storia del movimento di liberazione nel mantovano, 1990, pp. 207, sip.
Gilberto Cavicchioli e Rinaldo Salvadori giustamente scrivevano che “un periodo, i venti mesi della resistenza [mantovana], trattato finora a livello emotivo piuttosto che scientifico, trova finalmente con questo lavoro una propria dignità di periodo storico”. Questo giudizio è fatto proprio da Gaetano Grassi nella prefazione alla presente edizione che sottolinea anche come il volume sia “inserito nel discorso sulla problematica resistenziale, per ciò che concerne tanto l’esplorazione delle fonti finora utilizzate e il necessario confronto con le nuove fonti ancora quasi tutte da scoprire, quanto il taglio dato e da dare alla trattazione dei ‘venti mesi’ con tutti i quesiti interpretativi che essa comporta” .
Stampato per la prima volta nel 1981 in un’edizione curata dal Comune di Mantova, il volume trova ora meritatamente collocazione nella collana dell’Istituto provinciale. Anche se forse sarebbe stato preferibile che, al posto della ristampa anastatica, si fosse proceduto alla stesura di una nuova edizione suscettibile di acquisire nuovi elementi eventualmente emersi nel frattempo, il rilievo nulla toglie al valore dell’opera basata su di una documentazione molto vasta, raccolta, oltre che a Mantova, anche a Milano, a Parma, a Roma e a Modena.
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Già il primo mese dell’occupazione tedesca fu contrassegnato da alcuni episodi di violenza. Il compito di organizzazione e di proselitismo degli antifascisti fu comunque facilitato dall’indignazione provocata dal triste spettacolo delle migliaia di soldati italiani che, catturati dai tedeschi, venivano fatti sostare in attesa della deportazione nei tre campi esistenti alle porte della città. E si deve alla collaborazione della popolazione locale se più di trecentocin- quanta ebrei mantovani poterono sfuggire alla cattura. Anche se il fascismo si andava riorganizzando sotto la veste repubblicana, la situazione non era certamente rassicurante se uno squadrista scriveva al giornale “La Voce di Mantova” lamentando 1’esistenza di “un po’ di infezione badogliana” e la presenza, nella piazza centrale della città, di “gruppi di persone che sparlano del regime passato, presente e futuro, insultano i nuovi iscritti al Pfr, criticano i provvedimenti del nuovo governo, regolano l’andamento della guerra puntando sulla sicura vittoria dei nemici dell’Asse”.
Quanto all’atteggiamento del clero, argomento al quale Mignoli riserva un esame accurato, esso non fu uniforme. Mentre don Primo Mazzolari la sera dell’8 settembre esortava i tedeschi a ripassare le Alpi se non volevano essere ricacciati dalla rivolta degli italiani, il vescovo di Mantova Menna, da sempre ammiratore del fascismo e di Mussolini, invitava la popolazione a “osservare le disposizioni che vengono emanate dalle autorità” e a trattare “con rispetto” le truppe tedesche.
Nonostante la conformazione del territorio mantovano prevalentemente pianeggiante non offrisse un ambiente particolarmente favorevole alla guerriglia, cominciarono anche a costituirsi gruppi armati. Dopo la liberazione di Roma, in particolare, l’attività dei partigiani assunse nuovo vigore.
Molto spazio dedica il libro alle giornate dell’insurrezione precedute, tra gennaio e marzo, da un periodo alquanto critico nel corso del quale numerosi furono gli arresti. In precedenza, però, un duro colpo era stato inflitto ai nazifascisti il 19 e il 20 dicembre 1944 durante la battaglia di Gonzaga, un audace attacco condotto dalle forze garibaldine che avevano portato alla liberazione di cinquanta patrioti e alla conquista di una grande quantità di armi. L’autrice segue con precisione le giornate insurrezionali nelle diverse località. I combattimenti per la liberazione della provincia iniziati il 23 aprile si protrassero per una settimana. Il capoluogo, occupato la sera del 23, fu la prima città alla sinistra del Po a essere liberata.
Secondo il censimento fatto il 1° maggio 1945, risultavano inquadrati in provincia di Mantova 4.496 partigiani, suddivisi tra le Brigate Garibaldi, Matteotti, Fiamme Verdi e autonome. Una di queste ultime era intitolata a Ivanoe Bonomi.
Completa il volume l’elenco dei caduti mantovani nella resistenza, che, come avverte una nota, non può essere considerato definitivo per le lacune nella documentazione disponibile.
Franco Pedone
Giulivo Ricci (a cura di), I l C o m ita to d i L ib era zio n e N a z io nale d i P o n trem o li, Pontremo- li, 1991, pp. 205, sip (Centro aullese di ricerche e di studi lu- nigianesi — Istituto storico della resistenza apuana — Amministrazione comunale di Pontremoli).
Il volume, pur contenendo solo una parte, tra quelle rintracciate, degli atti inediti del Cln di Pontremoli, è un rilevante contributo non solo alla ricostruzione della storia di Pontremoli nell’immediato secondo dopoguerra sino alle elezioni del 1946, ma anche a quella della Lunigiana interna, che fu contrassegnata da una condizione abnorme sia per quanto riguardava i Cln e il movimento partigiano che per la mancanza di un’unitaria direzione politica e di un unico comando militare operativo (cfr. Giovanni Verni, L a resistenza in T oscana, “Ricerche Storiche”, 1987, n. 1). Anche i documenti raccolti nella seconda parte del libro sono inediti e chiariscono sia le deliberazioni del Cln che il comportamento dei suoi componenti, rappresentanti, ovviamente, tutte le forze politiche locali. Questa pubblicazione viene inoltre ad assumere maggior valore se ricordiamo, come fa Giulivo Ricci nell’introduzione, che fino agli anni sessanta venivano dati per dispersi i verbali del Cln di tutti i comuni della Lunigiana. Solo nel 1974 furono ritrovati in una cantina sei deliberazioni del periodo clandestino del Cln di Aulla che, insieme al Cln di Pontremoli, furono gli unici ai quali il Cpln di Apuania delegò la rappresen
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tanza per l’area dell’alta Luni- giana qualificandoli come “Sottocomitato provinciale”. Nel 1975 Giulivo Ricci pubblicò sei verbali del Cln pontremolese, anteriori al 25 aprile e provenienti da fonti private, insieme ad altri due verbali: uno del Cln di Bagnone e l’altro di Filattiera (Avvento del fascismo. Resistenza e lotta di Liberazione in Val di Magra, Parma, 1975). Solo oggi, però, Ricci è in grado di ricostruire la nascita dei diversi Cln locali. Le tardive costituzioni in alcuni centri evidenziano la carente iniziativa politica degli antifascisti luni- gianesi, che venne però compensata dalla posizione strategica e dal ruolo viario della Luni- giana; essa infatti, “interposta come un cuneo tra Liguria ed Emilia”, fu ritenuta oltremodo idonea all’attività della guerriglia. Poco dopo l’8 settembre1943 per iniziativa degli antifascisti di Sarzana, in contatto con il Cpln di La Spezia, si formarono i primi nuclei di resistenza in territorio lunigianese che tra la fine del 1943 e il gennaio 1944 si spostarono nel comune di Tresana e, successivamente, nel parmense, con l’eccezione del gruppo comandato da Bruno Callo. Nel febbraio1944 un altro gruppo di partigiani sconfinò dal versante settentrionale dell’Appennino tosco-emiliano, nell’alto pontremolese e quindi nello Zerasco, accogliendo via via elementi locali e formando il battaglione Picelli. In sostanza gran parte della Lunigiana divenne in breve tempo zona di influenza del Cpln di La Spezia e delle formazioni combattenti spezzine che contavano nelle proprie file nu
merosi lunigianesi. Questo dimostra, secondo il curatore, da un lato l’insufficienza delle forze “indigene” lunigianesi e, dall’altro, l’inadeguatezza dell’azione del Cpln apuano ad allargare la propria influenza alla Lunigiana. Infatti, sul terreno militare, soltanto la Valle del- l’Aulella rimase legata al Comando unico apuano, “peraltro costituitosi soltanto nel gennaio del 1945 con la Divisione Apuana, mentre prima del dicembre 1944 la Divisione garibaldina Lunense, che traeva in qualche modo legittimazione dal Cpln apuano, si riteneva la depositaria del comando militare di zona, anche se non potè conseguire una vera aggregazione né nella ‘Muccini’ sarzanese, né dei ‘Patrioti’ Apuani”. Nella primavera del 1944 era nata anche la brigata Garibaldi 37 bis la quale, in base alla documentazione superstite e alle testimonianze, non risulta avere avuto collegamenti con il Cpln apuano, mentre dalle fonti emerge un legame con il Cln sarzanese e con quello provinciale spezzino. Sebbene questi verbali, pochi quelli del periodo clandestino e più numerosi quelli del post-li- berazione, evidenzino, per esempio, che il peso della De fu prevalente nel primo periodo e perse rilievo nel secondo, durante il quale aumentarono i contrasti tra i rappresentanti dei vari partiti, consentono tuttavia, per dirlo con le parole del curatore, “di formulare ipotesi di lavoro [...] attraverso il quale intraprendere un’elaborazione che, giovandosi anche di altri fondi, serva a quell’auspicata ricostruzione” della storia della lotta di liberazione e del secon
do dopoguerra di Pontremoli e della Lunigiana.
Nicla Capitini Maccabruni
Giovanni Cuccù , I vo e le stelle. Un partigiano sardo in Jugoslavia, Cagliari, Cuec, 1991, pp. 254, lire 28.000 (Istituto sardo per la storia della resistenza e dell’autonomia).
Un libro di memorialistica quello di Giovanni Cuccù, che percorre per tappe rapide gli anni dell’infanzia in un paesino dell’entroterra sardo, della fanciullezza a scuola e nei pascoli ad accudire il misero gregge di famiglia e che focalizza in modo via via più dettagliato l’esperienza del servizio militare, del carcere (per insubordinazione), quindi l’invio in Jugoslavia e la successiva scelta di disertare e di passare alle formazioni partigia- ne slave. L’aspetto più interessante del volume risiede certamente nella descrizione minuta della politica di occupazione dei territori sloveni e croati ove vengono stanziati i battaglioni cui è assegnato lo stesso Cuccù, e nell’analisi dell’azione militare e politica svolta dai partigiani contro le forze nazifasciste oltre che dei rapporti tra i combattenti antifascisti e le popolazioni civili delle zone che divengono teatro delle principali operazioni.
La scelta di campo per “Ivo” (questo il nome di battaglia con il quale viene conosciuto dai compagni anche nei difficili anni di lotta politica condotta nel dopoguerra in patria) è netta, non consente spazio alcuno a mediazioni né a giudizi più sfumati: da un lato i soldati che
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sopportano in prima linea i pericoli e le insidie della guerra, dall’altro, nelle retrovie, gli ufficiali imboscati e i gerarchi della Milizia; quindi, dopo la scelta di abbandonare la divisa e di schierarsi con la resistenza, da un lato i partigiani e le popolazioni dei villaggi che garantiscono la rete delle protezioni e degli approvvigionamenti, dall’altro tedeschi e fascisti e il variegato spettro delle forze collaborazio- niste.
C etn ici, belo g ra d isti (vero e proprio esercito di “guardie bianche” anticomuniste al servizio degli agrari) e d o m o b ra n i (“difensori della patria” che combatterono accanto alle milizie nazionaliste croate degli ustascio di Ante Pavelic) costituiscono una presenza di cui Cuccù non indaga provenienza politica e ragion d’essere e che liquida attraverso una netta condanna, assimilandoli all’unica odiosa categoria dei collaborazionisti. Una serie di forze che la resistenza riuscirà a spazzare via ma non certo ad eliminare in modo definitivo, come le convulse vicende della Jugoslavia negli ultimi anni stanno drammaticamente a dimostrare.
Il lettore che si accosterà alle pagine di “Ivo” vi troverà la straordinaria freschezza (e, ovviamente, anche le ingenuità espressive e le cadute di tono) del narratore popolare, l’attenzione ai particolari apparentemente minuti, la marcata sotto- lineatura della rilevanza degli elementi naturali (i boschi, i campi, il cibo, ecc.) nella determinazione delle scelte individuali e collettive.
Una ulteriore conclusiva considerazione va spesa in tal senso
riguardo al titolo stesso del volume: le “stelle” cui “Ivo” si riferisce sono quelle delle nottate passate in solitudine sul Supramon- te ad occhi aperti a rimirare la volta stellata, ma sono anche quelle dei cieli di Slovenia e di Croazia dei lunghi turni di guardia come soldato del regio esercito e successivamente come combattente partigiano nelle formazioni comuniste. Un legame che, una volta individuato, consente ad Ivo di superare il trauma del distacco dall’isola e dal paese natio, un legame che diviene tanto più solido quando il soldato pastore scopre che i “nemici” che egli è mandato a combattere sono contadini come la sua stessa gente, quando ritrova, al di là delle barriere che dovrebbero impedire ogni possibilità di comunicazione, i ritmi ed i modelli di vita della società rurale al quale è legata la sua formazione e la sua stessa visione del mondo.
Gianni Sciola
Strumenti
“Bollettino d’archivio dell’Ufficio storico della Marina militare”, settembre 1992, pp. 305, sip.
Torniamo a segnalare agli studiosi questo benemerito Bollettino, che riunisce studi in larga parte originali sulla marina militare italiana alla presentazione analitica di fondi importanti dell’archivio del suo Ufficio storico. In particolare questo fascicolo comprende la sesta parte di un ottimo lavoro di Fulvio Cardoni, I l p ro b le m a aeron avale ita liano, che ripercor
re i rapporti tra marina ed aeronautica tra le due guerre mondiali con una sicura conoscenza dei non molti studi disponibili e un grosso apporto archivistico. Vale la pena di riportarne le conclusioni, non nuove, ma ben documentate: questi rapporti “furono qualificati da una costante ricerca di accordo tra le due parti; il prezzo pagato per il raggiungimento di esso fu la tacitazione di ogni effettiva esigenza di funzionalità dell’apparato aeronavale” (p. 52). “In definitiva, l’accordo tra le due armi veniva mantenuto al prezzo dell’inefficienza della macchina militare e per salvaguardare interessi affatto particolari” (p. 40). Interessi che l’autore indica da parte dell’aeronautica “nel continuo timore di essere ridimensionata o soppressa” in virtù della “mancanza di un peso politico corrispondente all’esaltazione propagandistica che di essa faceva il regime” (p. 50) e nel conservatorismo dominante nella marina, ancora legata alla sopravalutazione delle grandi corazzate. Merita una segnalazione pure il contributo di Mariano Gabriele, L a R egia M arina alla riconqu ista d i P a lerm o (se ttem bre 1866), che documenta con minuzia la parte della flotta nella repressione dell’insurrezione palermitana: un tema che dimostra la libertà con cui anche gli ambienti militari affrontano oggi le pagine più amare delle vicende dell’unificazione nazionale. Sorvoliamo su altri contributi pur interessanti e segnaliamo gli inventari analitici dei fondi dell’Ufficio storico della Marina militare sul reggimento San Marco 1935-1946 (a cura di Giovanna
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Lentini) e sul Comando supremo, in realtà l’Ufficio operazioni e piani di guerra 1940- 1943 (a cura di Maria Rosaria Mainini): due momenti di una preziosa attività di riordino e apertura di un archivio di grande interesse e, fino a poco tempo fa, inadeguata valorizzazione. Il Bollettino, come le altre pubblicazioni dell’Ufficio storico della Marina militare, deve essere richiesto in via R. Romei 5, Roma.
Giorgio Rochat
Alessandro Assirelli, Un se co lo d i M anuali H o ep li 1875- 1971, Milano, Hoepli, 1992, pp. 297, lire 12.000.
Attiva da oltre 120 anni, la casa editrice Hoepli è nota al gran pubblico soprattutto per la feconda collana dei manuali che ha raggiunto le considerevoli cifre di 1.791 titob, 4.000 edizioni e un totale di pagine superiore al milione e mezzo. Prosegue a tutt’oggi la fortuna editoriale della prestigiosa collezione, non essendo cessate le nuove edizioni o le ristampe. L’ultimo titolo, il C odice della strada , apparve nel 1971, ma il vero e proprio b o o m è da collocare nel periodo compreso fra il 1875, data di pubblicazio- ne del M anuale d e l tin to re del chimico svizzero Roberto Lepe- tit, ed il 1939, alle soglie di quel secondo conflitto mondiale così disastroso per l’assetto organizzativo della Hoepli che, tra le mille complicazioni, dimostrò la tenacia necessaria a proseguire l’attività e negli anni della ripresa si indirizzò a nuove imprese come quell ’E nciclo
p e d ia (1955-1968) alla cui stesura furono chiamati ben 800 collaboratori. Le premesse di tutto questo si devono far risalire al 1861, anno in cui il quattordicenne Ulrico Hoepli (1847-1935) fu assunto dalla libreria Schabelitz di Zurigo per svolgere le modeste funzioni di apprendista commesso. Pochi anni più tardi il giovane Hoepli si sentì in grado di iniziare il suo “giro del mondo librario” che lo portò a Lipsia, Bresla- via, Vienna, Il Cairo, Trieste e, ultima, Milano, dove ebbe occasione di rilevare la libreria di Teodoro Laengner (1870) e, già nel 1871, dimostrando notevole spirito di iniziativa, diventò editore del regio Istituto lombardo di scienze e lettere. La serietà del suo lavoro gli valse in seguito numerose altre collaborazioni: l’Istituto idrografico di Genova, la Casa Reale, l’Accademia dei Lincei di Roma, l’Osservatorio astronomico di Brera. Nel 1875 prende avvio l’impresa dei manuali e, per imprimere slancio a questa iniziativa, l’editore si affida ad una serie di traduzioni dalla collana inglese “Science Primers”, nota per il buon livello di divulgazione scientifica. Vengono presentati al pubblico italiano i testi di Michael Foster, Archibald Geikie, Joseph Hooker e Norman Joseph Lockyer. Fra gli studiosi italiani prescelti figurano l’antropologo Giovanni Canestrini, traduttore di Darwin, il matematico Salvatore Pincherle, il filologo e orientalista Angelo De Gubernatis, il sociologo Enrico Morselli, Cesare Lombroso, fondatore della scienza crimi- nologica, e l’ingegnere e uomo
politico Giuseppe Colombo. Una parola in più va spesa per quest’ultimo, considerato uno dei protagonisti del processo di industrializzazione dell’Italia del Nord nella seconda metà dell’Ottocento. Il suo M anuale d e ll’ingegnere, dato alle stampe nel 1877, cioè pochi anni dopo l’istituzione del Politecnico di Milano, era un agile compendio di 260 pagine, ma ebbe subito, e continua ad avere, una fortuna singolare. Si è giunti nel 1990 all’82a edizione: due grossi tomi di 4.500 pagine complessive, un indice analitico di 15.000 voci ed un elenco di 163 specialisti della materia. Un lungo e operoso percorso dal manualetto al testo polivalente per ogni settore dell’ingegneria.
I pratici tascabili, grazie all’intuito e alla competenza di Ulrico Hoepli, bene si inseriscono nella fase di transizione che vede l’Italia prodursi in un forte sviluppo industriale dopo anni contraddistinti da difficoltà economiche e arretratezze sociali. Non a caso nel vivo di tale processo, siamo nel 1897, la collana arriva al massimo numero annuo di titoli, ben 59. La fisionomia prevalentemente scientifica del catalogo Hoepli non impedisce comunque che si accolgano numerosi contributi dell’area umanistica. Si è detto innanzi dell’orientalista De Gubernatis cui appartengono L e ttera tura indiana (1883), M ito logia com p a ra ta (1880) e, in collaborazione con Robert Cu- st, L a lingua d e ll’A fr ic a (1885) che si inserisce in quel filone di dizionari, grammatiche e saggi dedicati alle lingue del continente africano cui mirava la politica espansionistica italia
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na. Riscontriamo infatti: P ic co lo d iz io n a rio eritreo (1895) di Alessandro Allori, D izio n a rio e g ram m atica galla -ita liano e ita liano-galla (1892) di Ettore Viterbo e Cesare Garibaldi, M a nuale tigrè-ita liano (1894) di Manfredo Camperio, E lem en ti d i so m a lo (1912) di Enrico Car- coforo. Pur non potendo competere, per numero di edizioni, con le due grandi aree delle scienze pure e applicate, vengono curate anche le discipline legate alle arti, alle lettere, alle scienze sociali, alla storia e alla filosofia. Vi sono poi le opere generali che tanta utilità rivestono per qualsiasi tipo di ricerca. I bibliotecari ben conoscono i manuali bibliografici e biblioteconomici di Giuseppe Ottino, Giuseppe Fumagalli e Julius Petzholdt oppure il R ep e r to r io b io g ra fico universale (1907) di Gottardo Garollo. Gli archivisti, i paleografi, i cultori di storia hanno fatto spesso ricorso agli insostituibili C ron olog ia , cron ografia e calendario p e rp e tu o (1906, 2a ed. 1930) e L exicon abbrevia tu - rarum (1899, 2a ed. 1912, 3a ed. 1929) di Adriano Cappelli. Un’intensa produzione contraddistingue la cosiddetta “serie pratica” di cui vanno a beneficiare le categorie degli artigiani, degli operai, dei commercianti, dei coltivatori o dei semplici autodidatti. Un’Italia finalmente operosa si serve del M an u ale d e l liqu o ris ta (1899) di Antonio Rossi, del P ro n tu a rio p e r la cu batu ra d e i legnam i ( la ed. 1886, 28a ed. 1969) di Giuseppe Belluomini, del L ib ro d e ll’ag rico lto re (1923) di Arturo Bruttini oppure del M anuale d i co rr ispon den za com m ercia le
russa (1920) di Ivan Reeckstin. Continuare a scorrere le pagine di questo catalogo risulta lettura tutt’altro che arida e noiosa. Vi si indovina il mutare di usi, consuetudini, svaghi e passatempi di una popolazione che, al tramonto dell’Ottocento, richiede, ad esempio, i manuali per il gioco degli scacchi o per la tecnica fotografica, chiaro segno di un miglioramento del tenore di vita del paese. Una maggior frequenza nelle attività sportive è an- ch’essa riflesso di nuove conquiste sociali. Si praticano in prevalenza l’atletica, il nuoto e la ginnastica, ma anche il ciclismo, il pugilato, l’alpinismo e il tennis. Assai tempestiva, a proposito, la traduzione italiana di L a w n Tennis di Wilfred Baddeley. L’edizione londinese del 1895 è resa in italiano per i manuali Hoepli nel 1898, due anni prima della disputa del primo torneo di coppa Davis. Si è di fronte insomma ad un vero e proprio p a n o p tico n pedagogico, secondo la definizione di Laura Barile (E lite e d ivu lgazione n e ll’ed ito ria italiana d a ll’un ità a l fa sc ism o , Bologna, Clueb, 1991). L’articolato catalogo, pazientemente ricostruito da Alessandro Assirelli, contiene una P refa zio n e di Giovanni Spadolini, u n ’In tro d u zio n e dello stesso Assirelli, un saggio di Tullio De Mauro (// caso H o ep li) e un utile apparato di indici e analisi statistiche curato da Giancarlo Lunghi per una più netta comprensione della fisionomia e del valore di questa “enciclopedia perennemente viva di scienze lettere ed arti”.
Paolo Maggiolo
“Ragionamenti sui fatti e le immagini della storia”, a. I, 1991.
Il primo numero di “Ragionamenti storia” — per esteso “Ragionamenti sui fatti e le immagini della storia” — esce come omaggio ai lettori dell’ “A- vanti!” e alle biblioteche nel febbraio 1991. Roberto Averar- di e Ruggero Pulletti sono rispettivamente il direttore responsabile e il condirettore. La copertina del mensile presenta su fondo nero tre immagini: un manifesto della Spd di fine Ottocento; una foto di Willy Brandt alla porta di Brandebur- go; la statua della libertà newyorkese. Nell’editoriale il direttore illustra il fine della rivista: “Chi ha paura di fare i conti con la storia? Forse in tanti, più di quanti non si dica. Ma i conti con la storia bisogna farli, oltre la propaganda di partito, oltre l’effimero quotidiano. [...] Riproporsi il passato diventa dunque un’esperienza per capire il presente e preparare il futuro. [...] Cosicché di fronte al susseguirsi di avvenimenti che stanno cambiando il mondo, anziché vederli come una storia che viene mostrata, oggetto di sorpresa e di curiosità, vi sia qualche motivo in più di coinvolgimento emotivo e di riflessione” (p. 3).
Questa “storia rimeditata” (E d ito ria le , n. 3, p. 3) punta sulle vicende del Novecento e specificatamente sulle rotture traumatiche per il movimento operaio. Nella prima annata già prevalente è la scelta degli articoli, più che storicamente programmata, politicamente utile. I temi principali sono la storia del Psi, la formazione del grup
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po dirigente del Pei, le biografie di vecchi e nuovi socialdemocratici (ma c’è pure Gobetti), le tragedie dei totalitarismi, il crollo dell’Urss, i rapporti tra rivoluzione e terrore, Togliatti “che sapeva” e Gramsci riformista.
Categoria rilevante della rivista è la storia politica. “Ragionamenti” insegue — così dice — il filo di un socialismo liberale come chance perduta di una battaglia campale delle idee. “Insomma, in altre parole, centrale diventa il problema di rinnovare profondamente la metodologia degli studi nella direzione di una ricostruzione dei fatti storici innanzitutto di questo secolo, che ponga al centro gli elementi problematici e conflittuali, che mostri la lotta incessante fra differenti concezioni del mondo e della vita che caratterizza l’evolversi della civiltà occidentale (come ha scritto anche “Rinascita”) ” (R. Averardi, E ditoria le , n. 2, p. 3).
Ma se andiamo ad osservare il contenuto dei pezzi, l’impianto complessivo avvicina “Ragionamenti” più ad operazioni di attualità ideologico-giornali- stiche che storico-divulgative. Osserviamo il trattamento divulgativo confrontando prima due novità degli anni ottanta riguardanti l’editoria periodica (oltre all’ingresso della vi- deoimpaginazione): l’attenta ricerca di nuovi pubblici definiti e definibili, che a sua volta ridefinisce prodotti e fruitori; la comparsa delle video cassette, che si inseriscono nella tradizione dell’editoria a dispense. A metà del decennio, poi, come parte integrante di un progetto di strutturazione della doman
da che l’editrice Giunti compie con prodotti similari (“Arte e Dossier”, per esempio), era comparsa “Storia e Dossier”, un tentativo organizzato di divulgazione per il pubblico sollecitato alla storia dai media. Questo per dire che la divulgazione, oltre ad avere bisogno di infinite cautele, ha necessità di una serie di elementi tecnici che, mancando, riducono l’efficacia comunicativa: una casa editrice; una buona rete distributiva — ma questi sono elementi fondanti dell’attività editoriale in generale —; un solido staff redazionale, non di giornalisti ma di professionisti del trattamento dei testi, scritti e iconici; un progetto graficocompositivo. Questi elementi sono quasi assenti in “Ragionamenti”. Se infatti un distributore si trova in poco tempo (Messaggerie periodici), un editore arriva solo l’anno successivo (Editrice Pantheon) e i due aspetti del trattamento e del progetto grafico latitano (nessuno firma la responsabilità di quest’ultimo settore). Se la rivista è attenta alle fonti iconografiche e bibliografiche — un passo avanti rispetto ad un prodotto come “Storia illustrata”, alla quale per tanti versi somiglia —, il trattamento delle immagini è ancora illustrativo del testo scritto (salvo i pezzi di Mario Accolti Gii). Al di là degli appelli al rinnovamento metodo- logico-interpretativo, resta lo schema giornalistico. Questo, funzionale certo alla lotta politica, distorce l’approccio alla storia, inquisendo, decontestualizzando, smarrendosi negli stereotipi e distribuendo giudizi gratuiti (“il suo rapido volta
faccia tipicamente arabo”, come scrive Venerio Cattarli, nei- V E ditoria le n. 11, p. 19). La rivista perciò, nella sua prima annata, veicola un certo manicheismo da guerra fredda, indebolendo così le possibilità divulgative. Se l’esperimento dura si vedrà il seguito.
Mario Lanzafame
Nicoletta Azzi (a cura di), P er la s to ria della c ittà d i M a n to va . F o n ti b ib liogra fich e (1801- 1945), Milano, Angeli, 1993, pp. 253, lire 32.000.
Il lavoro paziente, meticoloso e protratto nel tempo che comportano la ricerca, la descrizione e la classificazione di documenti a stampa sino a farne un repertorio bibliografico, può non essere gratificante per chi lo esegue ma senza dubbio merita un particolare apprezzamento se non altro perché è destinato a facilitare — come opportunamente osserva Franco Della Peruta nell’agile e quanto mai utile volume B ib lio tech e e archivi. G u ida alla con su lta zio ne, Milano, Angeli, 1985, p. 91 — l’impegno intellettuale. È il caso della pubblicazione curata da Nicoletta Azzi che sicuramente costituirà una “fonte” preziosa e ineludibile per quanti vorranno d’ora in poi cimentarsi in studi per meglio conoscere e far conoscere Mantova.
Realizzata con il contributo dell’Istituto mantovano di storia contemporanea e dell’Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia, essa comprende u n ’In tro d u zio n e di Rinaldo Salvado-
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ri — presidente dell’Istituto di Mantova — e le “fonti”, divise in due parti, che raccolgono complessivamente 2.617 indicazioni bibliografiche di opere sulla storia economica, politica e sociale di Mantova apparse nel periodo compreso tra il 1801 e il 1945. Nella prima sono riportate le 2.224 pubblicazioni autonome — con esclusione di quelle di nozze, di partito, sportive e d’arte, degli articoli di giornale non apparsi in seguito come pubblicazioni a se stanti; le opere di carattere squisitamente letterario, le mappe e le carte geografiche e topografiche, i numeri unici e gli opuscoli pubblicitari — che la curatrice ha individuato presso l’Accademia nazionale virgiliana, l’Archivio di Stato, l’Archivio storico del comune, la Biblioteca comunale, il Gabinetto di lettura del Circolo cittadino, tutti con sede nel capoluogo virgiliano, e nelle biblioteche nazionale Braidense e comunale di Milano. La seconda sezione, affidata alla competenza di Fabrizio Dolci (si veda dello stesso autore La sezione “pubblicazioni minori” della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, “Società e storia”, 1978, n. 1), annovera 393 opuscoli societari, degli anni compresi tra il 1870 e il 1900, conservati appunto nel fondo “Pubblicazioni minori” della Biblioteca nazionale centrale di Firenze e, per il periodo 1870- 1881, anche quelli riportati nel catalogo della Biblioteca Ma- gliabecchiana.
Va dunque ascritto a merito di Azzi l’aver realizzato un catalogo che segnala soprattutto agli storici un materiale ampio,
ma spesso ignorato o trascurato, relativo alle vicende del periodo comprendente l’Ottocento e la prima metà del Novecento, ancora privo, per Mantova, di bibliografie generali, se si escludono, per il secolo scorso, i saggi bibliografici ancora inediti di Carlo D’Arco conservati nel locale Archivio di Stato; la bibliografia a cura di Emilio Faccioli collocata in appendice al III volume di Mantova. Le Lettere (Mantova, 1963); e alcune bibliografie su tematiche specifiche: Renato Giusti, Repertorio bibliografico degli studi sul Risorgimento mantovano, “Bollettino storico mantovano”, 1956, n. 3; Mario Vaini, Mantova nel Risorgimento. Itinerario bibliografico (Mantova, 1976).
Ma il volume curato da Azzi si distingue anche per l’implicito invito ad intraprendere nuovi percorsi di ricerca o, comunque, ad approfondire adeguata- mente quelli tradizionali. La ricerca storica, in particolare, sembra ormai avviata in direzione di una specializzazione sempre più selettiva. Il repertorio bibliografico proposto da Azzi, comprensivo di un contributo di Dolci, proprio perché pone le basi per una storia politica, amministrativa, economica e sociale di una prestigiosa città nell’arco di un secolo e mezzo, si colloca a pieno titolo in tale ambito nelle vesti di strumento di lavoro privilegiato.
Una chiara testimonianza della capacità di stimolare l’avvio di una storia della città di Mantova (di cui peraltro si sente da tempo la mancanza) che questa bibliografia possiede e,
nel contempo, un esempio emblematico di utilizzo della stessa proprio per tracciare le tappe dell’evoluzione amministrativa e socio-economica di Mantova negli ultimi due secoli, è offerta dall’Introduzione. In essa Sal- vadori sintetizza opportunamente una serie di suoi studi recenti; il risultato è costituito da un testo molto denso nel quale egli ripercorre in modo problematico e, per certi aspetti, suggestivo, le vicende del più piccolo capoluogo padano a partire da quando smette i panni di capitale di Stato, che aveva indossato per quattro secoli, e sino al secondo dopoguerra. Se, come la saggezza di un proverbio suggerisce, “il buon giorno si vede dal mattino”, certamente il volume di Azzi fa ben sperare che il progetto a più riprese formulato di una “nuova” storia politica, economica e sociale di Mantova si trasformi quanto prima in una pregevole realtà.
Luigi Cavazzoli
Unione stampa periodica italiana, Guidò della stampa periodica italiana. IX edizione 1991-1992, Roma, Uspi, 1991, vol. I, pp. 1021, vol. II, pp. 403, lire 70.000.
Errori e lacune sono propri quasi di ogni strumento bibliografico, sebbene dal loro numero e dalle loro caratteristiche dipenda, almeno in parte, il valore del risultato. Ben consapevoli di questo sono i curatori della nona edizione — la prima risale al 1969 — della Guida della stampa periodica italiana, che indicano anche alcune ragioni delle imprecisioni e della par
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zialità delle rilevazioni di questo tipo, dalla “pessima tenuta dei registri stampa presso i tribunali”, al “sistema adottato dall’Istat per la rilevazione annuale della stampa periodica”, all’ “abbandono da parte delle Prefetture di ogni ‘controllo’, sia pure di natura statistica, sulla stampa”, alla “non attuazione da parte delle regioni di una ‘indagine conoscitiva’ sulla stampa locale che l’Uspi ha ripetutamente, ma inutilmente propugnato”.
Nonostante le inevitabili lacune, il repertorio dell’Uspi è di notevole utilità per chiunque voglia avere, per i fini più diversi, una visione complessiva dei periodici contemporanei. Basti pensare che vengono indicate le informazioni principali (titolo, periodicità, nome del direttore, eventuale ente editore, indirizzo, inclusione tra le testate lette da “L’eco della stampa”) su circa 14.000 testate (il totale non è indicato, e la cifra è una stima approssimativa dei nomi compresi nell’indice che da solo occupa 120 pagine).
Prima di descrivere meglio l’articolazione dei due volumi, vale forse la pena di notare, limitandosi al settore delle riviste di storia, un fatto forse significativo. Ci riferiamo non tanto alla mancanza di alcune note testate a diffusione nazionale (da “Storia urbana” alla “Rivista di storia economica” a “Ricerche di storia politica”), ma all’assenza di circa la metà delle riviste pubblicate dagli istituti della resistenza. Considerando l’impegno profuso dalla rete associativa nel suo complesso nella produzione di riviste, pur assai eterogenee tra loro per im
postazione, scopi perseguiti e risultati culturali e scientifici, sarebbe forse opportuno chiedersi se l’esclusione dalla Guida non rappresenti una “spia” del mancato raggiungimento dei risultati che sarebbe lecito attendersi da un’attività tanto centrale. Particolarmente grave sarebbe infatti se la circolazione delle riviste “confezionate” dagli istituti restasse confinata ai ristretti circuiti rappresentati dai diversi contesti locali o dalla rete associativa stessa.
Tornando alla pubblicazione dell’Uspi, il primo volume, dopo lo statuto e gli organi statutari, riunisce le informazioni in dieci parti: quotidiani (elenco alfabetico e per regione); periodici locali e di informazione (elenco per regione) e periodici politici; periodici per i giovani e fumetti; periodici specializzati (suddivisi in 62 categorie); periodici aziendali, sindacali, associativi e di categoria; agenzie di informazione; stampa periodica italiana all’estero; Rai-Ra- diotelevisione italiana; pubblicità sulla stampa quotidiana e periodica.
L’undicesima e la dodicesima parte vengono pubblicate nel secondo volume. La prima riguarda le articolazioni della Presidenza del Consiglio dei ministri (dipartimento per l’Informazione e l’Editoria) e del ministero per i Beni Culturali e Ambientali le cui attività sono direttamente correlate alla stampa; l’ultima parte riunisce una documentazione riguardante la legislazione sulla stampa, la disciplina delle imprese editoriali, norme e disposizioni fiscali e postali, l’ordinamento della professione di giornalista, la
Federazione nazionale stampa italiana, le associazioni regionali di stampa, le statistiche della stampa periodica, l’accordo Uspi-edicoland. Il volume, che si chiude con altri indirizzi utili, rappresenta quindi una raccolta di informazioni particolarmente ampia e di sicuro interesse.
Paolo Ferrari
Maria Garbari (a cura di), Giornali e giornalisti nel Trentino dal Settecento al 1948, Rovereto, Poncheri, 1992, pp. 341, lire 45.000.
Si tratta di un volume di storia del giornalismo trentino e contemporaneamente anche di controllo bibliografico per tutta la stampa giornalistica d’informazione della zona, dalle sue origini settecentesche al 1948. È composto infatti da una prima parte di saggi di storia del giornalismo trentino firmati da Maria Garbari (che guarda all’argomento con un’ottica concentrata sulla storia istituzionale nel suo rapporto con la libertà di stampa), da Gianni Faustini (che si dedica alle tipologie giornalistiche) e da Sergio Benvenuti (che invece si ritaglia il più vasto campo di una storia politica del giornalismo nel Trentino), e da una seconda parte che raccoglie schede bibliografiche molto dettagliate di tutti i giornali trentini posseduti dalle due maggiori biblioteche della provincia: quella di Trento (depositaria del diritto di stampa) e quella di Rovereto.
I confini tipologici delle pubblicazioni periodiche comprese in questo catalogo sono riferiti
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alla definizione di giornale (new spaper) che viene data dallo standard descrittivo Isbd(S), imperniata su due caratteristiche: quella della frequenza almeno settimanale e quella contenutistica dell’attenzione a fatti ed argomenti di interesse corrente e generale. Ispirata all’Isbd(S) anche una prima parte descrittiva ed identificante delle schede, che viene però integrata da una seconda parte di note molto dettagliate registranti, oltre a tutte le variazioni negli elementi basilari della descrizione, anche informazioni di tipo più storico che catalografico, come le sequenze cronologiche dei direttori, dei redattori responsabili, ecc. Molto utili al quadro d’insieme anche le 77 pagine di riproduzioni fotografiche delle testate — o di altre pagine significative — dei periodici a catalogo, che ne illustrano le caratteristiche tipografiche e formali.
Roberto Antolini
Istituto regionale per la storia DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE nelle Marche, C ata logo della s ta m p a p erio d ica delle b ib lio tech e d e ll’Is titu to regionale e deg li I s titu ti associa ti, a cura di Silvana Salati, Ancona, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, 1992, pp. 255, sip.
Si tratta di un catalogo collettivo dei periodici posseduti dalle biblioteche degli istituti marchigiani che svolgono sia la funzione di conservazione di materiale storico salvato dalla dispersione (a partire dai fogli delle prime forze politiche e delle leghe d’inizio secolo), sia
quella di documentazione attiva del presente, raccogliendo materiale contemporaneo che non si ferma alla storia politica, ma che si rivolge anche al più vasto spettro della storia sociale, economica, culturale, della mentalità, delle donne, ecc. Approntando in questo modo quel- l’ampio inventario della stampa periodica corrente intesa come bene culturale, come insostituibile fonte per una storia del presente, che spesso oggi ci manca non solo per il più lontano passato, ma anche per anni abbastanza vicini.
Catalogo nato dunque con fini pratici di consultazione e di documentazione locale, ma che, data la scelta catalografica operata dalla curatrice Silvana Salati, assume anche elementi di interesse biblioteconomico più generale. Per la descrizione infatti è stato usato lo standard internazionale Isbd (S) messo a punto per favorire lo scambio automatizzato delle informazioni ed una leggibilità dei dati che si elevi, come ponte, al di sopra delle lingue e delle tradizioni descrittive nazionali. Standard che, se pur tradotto in italiano dall’Iccu (cfr.: International Standard Bibliographic Description for Serials. International Federation of Library Associations and Institutions, Revised ed., ed. italiana a cura dell’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, Roma, Iccu, 1990), ed adottato ormai da qualche anno anche dalla Bni, pur tuttavia non conosce ancora nel nostro paese quell’ampia diffusione che sola potrebbe ovviare, generalizzando la conoscenza degli elementi di
base, ad una certa complicazione nella lettura dei prodotti catalografici ad esso ispirati.
Il catalogo marchigiano è uno dei primi confezionati nel nostro paese in conformità alle norme dell’Isbd(S) e per questa operazione dunque la curatrice ha avuto pochi esempi italiani a cui rifarsi. A parte il volume di commento di Rosella Dini, infatti (Isbd(S): in trodu zion e ad esercizi, Milano, Editrice bibliografica, 1989), sono ancora rari i casi utili per raccogliere una casistica adeguata e sufficientemente rigorosa. Tra questi vale la pena ricordare almeno il C ata logo d e i p e r io d ic i della b ib lio teca d e l C en tro d i d o cu m en tazion e (a cura di Carlo O. Gori, Pistoia, Comune di Pistoia, 1983), l’ottima parte catalografica, anche questa curata da Gori, del volume L e cu lture d e l sessa n to tto : g li anni sessanta, le riviste , il m o vim en to di Attilio Mangano (Pistoia, Comune di Pistoia. Centro di documentazione - Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 1989) ed il C ata logo d e i p e r io d ic i corren ti della B ib lio teca nazionale universitaria d i T orino (con la collaborazione dell’Istituto di studi sulla ricerca e la documentazione scientifica del Cnr, Torino, Regione Piemonte. Assessorato alla cultura, 1990).
Roberto Antolini
Elisa Frasson (a cura di), C atalogo dei p eriod ic i p o ssed u ti dalla A ccadem ia pa tav in a d i scienze lettere e d arti, Padova, Cleup, 1992, pp. 190, lire 20.000.
A chiunque sia capitato di affrontare anche il più semplice
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lavoro di ricerca o tesi di laurea non sarà certamente sfuggita l’importanza dei cataloghi di periodici. Tali repertori, se pri- cisi ed aggiornati e, possibilmente, di facile accesso presso biblioteche e centri di documentazione, consentono in tempi brevi l’esatta localizzazione della bibliografia periodica di cui si necessita. Purtroppo non tutte le biblioteche, anche dotate di un patrimonio librario di cospicuo interesse, sono state finora in grado di allestire il catalogo a stampa delle proprie riviste o di aggiornare quello già esistente. A singole lacune possono sopperire alcune recenti compilazioni collettive che si stanno dimostrando di grande utilità e pratica consultazione. Ci si riferisce al C ata logo co lle ttivo nazionale delle p u b b lica z io n i p erio d ich e realizzato nel 1990 dall’Istituto di studi sulla ricerca e documentazione scientifica, organo del Cnr, al C ata logo d e i p e r io d ic i corren ti delle b ib lio tech e lom b a rd e pubblicato dalla Regione Lombardia fra il 1985 e il 1989, al C ata logo co lle ttivo d e i p e r io d ic i delle b ib lio tech e p iem o n te s i apparso
nel 1987 a cura della Regione Piemonte. È superfluo sottolineare l’importanza di questi censimenti, ma va precisato che si tratta pur sempre di strumenti che non possono esaurire l’intero panorama bibliotecario nazionale e talvolta operano programmatiche selezioni nella raccolta dei dati. Per questi motivi si accolgono con favore iniziative come questa dell’Accademia patavina, istituto che comprende una biblioteca specializzata in atti accademici altrimenti non reperibili presso maggiori organismi della stessa città universitaria. L’ente ha radici profonde. Sorse nel 1599 come Accademia dei Ricovrati e, tra i suoi fondatori, basti ricordare il solo nome di Galileo. Presenze illustri in epoche successive furono Carlo Rezzonico (papa Clemente XIII), Albrecht von Haller, Théodor Mommsen, Giambattista Morgagni, Ludovico Antonio Muratori, Giuseppe Jappelli, san Gregorio Barbarigo, Alessandro Manzoni, Vincenzo Monti, Giovanni Pascoli. La secolare istituzione dei Ricovrati fu unita dal Senato veneto nel 1779
alla più recente Accademia di arte agraria. Ebbe così luogo l’Accademia di scienze lettere e arti, ora Patavina. Il particolare carattere del materiale raccolto dall’Accademia patavina è frutto del regolare scambio fra gli “Atti e memorie”, prodotti in sede, e le pubblicazioni periodiche di numerosi atenei e società culturali italiane e straniere, corrispondenza che spesso potè proseguire anche in epoche in cui i rispettivi paesi di appartenenza escludevano le normali relazioni politico-commerciali. Il C ata logo segue, a otto anni di distanza, un precedente C ata lo g o d e i p e r io d ic i (Padova, 1984) considerato una redazione provvisoria. Il nuovo strumento risulta di più facile lettura e denota maggiore precisione nella consistenza delle raccolte e nell’indicazione di annate lacunose. Dei 1.387 titoli elencati, 944 appartengono a riviste cessate, 443 a testate correnti. Un numero cospicuo di richiami e di rinvìi, ben 619, agevola le ricerche e moltiplica le possibilità di accesso all’informazione.
Paolo Maggiolo