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2014 numero 9 Ottobre
Email: euterpe48@gmail.com
Picciotti carissimi,vasamu li mani.
Diario di viaggio 2014 (di Enzo Motta)
Questa volta insieme a moglie e nipotina
intraprendo il mio imperdibile viaggio estivo in
Sicilia, in traghetto con auto al seguito.
A bordo si conferma una mia impressione che negli
anni mi ha via via allietato: i meridionali (specie gli
emigrati) hanno sempre meno da invidiare ai
"nordici" quanto a pulizia, abbigliamento e
comportamenti (specie dei bambini). Inoltre (questo
poi anche sulle spiagge dell'Isola) noto che le
quarantenni (e oltre) di evidente matrice
meridionale hanno delle figure aggraziate; si vede
che la globalizzazione del "fitness" sta facendo
scomparire le sfasciate matrone di un tempo.
Ad Agrigento troviamo l'atmosfera familiare di
sempre fra parenti amici e vecchi compagni di
scuola (61 anni dalla maturità!). Ma non posso
impedirmi di notare i segni di un progressivo
degrado della città.
Diciamo prima delle cose buone: una Valle dei
Templi sempre unica, con lo spendido giardino
della Kolimbetra (FAI) dove l'attivissimo e
appassionato direttore raffadalese Giuseppe Lo
Pilato (che speriamo di avere presto in visita a
Savona) organizza indimenticabili pomeriggi di
musica etnica, in una valletta fra gli agrumi
sovrastata dal Tempio dei Dioscuri, (e dove altro si
può godere il fascino travolgente di un meraviglioso
tramonto ascoltando note che sembrano venire
dall'antica Grecia?)
Per iniziativa delle Autorità ecclesiastiche e di una
associazione di giovani guide volontarie, belle e
preparatissime sono visitabili il Duomo
(parzialmente puntellato per motivi di stabilità), il
Museo Diocesano, la grandiosa Biblioteca
Lucchesiana, e diverse chiese e monasteri di grande
fascino.
Il resto è in una situazione allarmante, che vogliamo
denunciare con forza: un dissesto idrogeologico
frutto di incompetenza, imprevidenza, edilizia
selvaggia(fino a qualche anno fa non c'era neanche
un Piano Regolatore) sta facendo slittare parti della
città, antica e nuova (diverse famiglie sono da
tempo fuori di casa loro).
La Passeggiata, che ha sempre offerto ai turisti la
vista di tutta la Valle dal Viale della Vittoria, è
transennata per lavori attualmente fermi, strade e
marciapiedi trasformati in trappole.
Palazzi prestigiosi in totale abbandono (uno nella
città alta è crollato anni fa), affascinanti facciate
barocche erose dal tempo e dagli agenti atmosferici
(in particolare quello del palazzo dei liguri
Marchesi del Carretto), molti eleganti negozi del
centro chiusi, scarsa nettezza urbana, un depuratore
sempre da realizzare.
C’è, e si sente, la crisi economica, ma anni di
politica clientelare hanno portato a questo; speriamo
nei giovanissimi che abbiano lo spirito delle guide
di cui ho detto sopra; attendiamo da loro una
ventata di rinnovamento che indirizzi correttamente
la Pubblica Amministrazione e incoraggi i privati ad
investire nel turismo.
Il mondo culturale si sta muovendo; non devono
passare sotto silenzio gli interventi di autentici
apostoli della città, quali il "nostro" Matteo Collura,
Mario Gaziano, Paolo Cilona,e tanti altri.
Purtroppo è scomparso da poco, ultranovantenne (il
tempo non perdona) il Prof. Enzo Lauretta
siracusano di origine ma da decenni agrigentino di
adozione, Presidente del Centro Nazionale Studi
Pirandelliani biografo di Pirandello (con "Storia di
un personaggio fuori di chiave" che presentò in un
affollatissimo Ridotto del Chiabrera molti anni fa) e
organizzatore delle "Giornate Pirandelliane" che
coinvolsero studenti di tutta Italia (ve n'è una
commossa testimonianza in altra parte di questo
numero).
Tutt'altra musica ad Alcamo, sede quest'anno con
Castellammare del Golfo dell'incontro degli italiani
(e dei Siciliani) nel Mondo organizzato
dall'infaticabile coppia Rosa Di Bella e Pietro Paolo
Poidimani definiti ormai degli autentici etnologi.
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Molte le eccellenze spesso poco note ai "media" che
hanno ricevuto significativi riconoscimenti. Fra tutti
ricordiamo la Parrocchia "Ecce homo" di Cinisi
(segnalata da noi perché gemellata con la
Parrocchia di Legino), che opera, in mezzo a mille
comprensibili difficoltà, nel paese di Peppino
Impastato, attraendo i visitatori sul percorso dei
"Cento Passi" e contribuendo a scalfire una
mentalità mafiosa che resiste da secoli.
Gli incontri sono avvenuti nel Palazzo Civico di
Alcamo e nel castello di Castellammare del Golfo:
quest'ultima cittadina è molto nota come centro
turistico e merita la sua fama.
Per contro Alcamo è conosciuta solo come
importante centro vinicolo, ma c'è ben altro, grazie
ad una elìte di intellettuali alcamesi, capitanata da
un Sindaco, Sebastiano Bonventre, chirurgo di
fama, docente universitario e non compromesso coi
centri di potere e di speculazione.
La città - cinquantamila abitanti- con il suo
impianto medioevale, le torri delle antiche famiglie,
le vestigia delle mura, le strade rilastricate coi
marmi della vicina Custonaci, i suoi musei, le belle
chiese e soprattutto col restaurato Castello dei Conti
di Modica, merita una visita peraltro molto
gratificante e si aggiunge, grazie al "fiuto"
dell'amico Poidimani, alle città dell'Ennese e della
Madonia di cui ho già parlato (a proposito Gangi
quest'anno è stato dichiarato il primo fra i borghi
più belli d'Italia!).
Prima di ripartire abbiamo avuto il piacere di
bagnarci nelle acque dell'incantevole Scopello e,
costeggiando la riserva dello Zingaro, di andare a
mangiare il couscous nella sempre bellissima S.
Vito Lo Capo (a proposito: la gastronomia siciliana,
già ottima - vini compresi - progredisce
ulteriormente mantenendo un valido rapporto
qualità-prezzo).
Infine una veloce visita a Palermo (dedicata alla
nipotina) dove ho riscontrato novità molto
piacevoli: posti auto coperti e custoditi, niente
affatto cari, pullman scoperti per diversi giri della
città, la pedonalizzazione di molte delle aree del
centro, e, parzialmente, anche della via Maqueda e
dei Quattro Canti, i "risciò" con gli autisti - guide
turistiche, e, allo Steri (Palazzo Chiaramonte) già
sede dell'Inquisizione, l'apertura di quasi tutte le
celle coi graffiti dei prigionieri, anche qui con guide
giovani e preparatissime.
Il tempo è trascorso veloce.
Ci attende il traghetto per il ritorno.
I SICANI
Si conclude con questa 3° puntata l’articolo
dell’amico Lorenzo Turturici che ringraziamo
per la collaborazione.
La conquista da parte dei Greci segnò la fine di
questa civiltà, inglobando e mutando gli usi e le
tradizioni dei siculi che ne facevano parte.
Gli Iblei si collocherebbero quindi in un periodo
pre-ellenico
Quando l’isola divenne una provincia romana,
Ragusa e Modica vennero classificate decumane,
erano cioè obbligate a pagare a Roma la decima
parte dei raccI Sicani della Sicilia orientale
Le testimonianze storiche ci dicono che
inizialmente i Sicani occuparono l’intera isola, ma
nel XIII sec. a.C., a seguito dell’arrivo dei Siculi,
dovettero spostarsi verso occidente stanziandosi ad
ovest del fiume Himera (Salso).
Contestualmente si incrementarono le popolazioni
di alcuni centri arroccati sulle alture interne, come
Polizzello, Monte San Mauro, Sabucina, Monte
Dessueri, Butera e soprattutto Pantalica.
Ad incrementare il numero degli abitanti di queste
roccaforti non possono essere stati i Siculi, come
taluni studiosi sostengono, ma riteniamo che siano
stati quei Sicani della Sicilia orientale che per tanti
anni erano vissuti a contatto con i Micenei di
Thapsos e di Villasmundo, i quali non vollero
allontanarsi dalla loro terra, mentre i Siculi, come si
evince dai loro primi insediamenti, privilegiarono le
coste (Zancle, Naxos, Suraka, Katane) e le terre
pianeggianti (Leontinoi).
Di contro si assiste al perdurare dell’architettura
funeraria della tomba a tholos lungo la fascia
meridionale dell’isola che, partendo da Augusta, va
a Monte Campanella (Milena), Monte Ottavio,
Monte S. Vincenzo (Caldare), Sant’Angelo
Muxaro, fino ad Anguilla (Ribera).
Il massiccio incremento della popolazione sicana di
Pantalica diede vita alla cultura omonima che
gli storici hanno ripartito in tre fasi ampiamente
documentate:
1) Pantalica Nord (1270 - 1000 a.C.)
Il corredo funerario venuto alla luce è ricco di
oggetti bronzei (coltelli, rasoi, fibule ad arco di
violino o semplice), forme fittili e metalliche
ispirate al repertorio egeo. Si afferma il tornio e la
ceramica di colore rosso e alcuni esemplari seguono
la cultura di Thapsos (ceramica rossa con lunghi
piedi tubolari). Sulla parte più alta del sito si trova
l’anaktoron, il quale fu ritenuto fino a poco tempo
fa un palazzo, ma oggi è riconosciuto come un
ampio magazzino con annessa fonderia.
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2) Cassibile (1000 - 850 a.C.)
Compare la ceramica dipinta a motivi piumati, le
fibule sono con arco a gomito o ad occhio con
spillo rettilineo; compaiono le asce a cannone.
3) Pantalica sud (850 - 730 a.C.) La ceramica si
ispira allo stile geometrico; compaiono frequenti
anelli, bottoni, spirali a disco e l’ oinochoè trilobata;
la fibula è più sottile e legolti. I principali centri dei
Sicani sono Iccara, l’odierna Carini, Inico , l'Isola
San Nicola di Licata, Indara, ribattezzata come
Naro e Camico, probabilmente l’ odierna
Sant’Angelo Muxaro
Sui Monti Sicani esistono infinite tracce di questo
popolo, ceramica, strumenti di lavoro e decorazioni
da Sant'Angelo Muxaro a Himera, da Morgantina a
Caltabellotta. In una recente pubblicazione il prof.
Alessi aveva spiegato come le poche ossa umane
casualmente rinvenute nel 1996 in una grotta
carsica di S. Angelo Muxaro assieme ad altre ossa
animali e ad un singolare corredo funerario, non
sono di individui qualsiasi, ma di un bambino e un
giovane guerriero di 3.200 anni fa, quasi certamente
facenti parte di una potente classe elitaria locale.
È questo in sintesi il risultato cui sono pervenuti,
dopo approfondite e sofisticate analisi scientifiche,
l’archeologo Giuseppe Castellana, il Centro di
Antropologia molecolare per lo studio del DNA
antico al Dipartimento di Biologia dell’Università
di Roma, Tor Vergata, ed il prof. Francesco
Mallegni docente di paleontologia umana e di
antropologia alle Università di Pisa e Palermo
Tracce visibilissime della loro presenza si trovano
a Calbellotta.
Le quattro necropoli che circondano la città ne
attestano la loro presenza riconducibile all’età
del bronzo antico.
Necropoli - Cappuccini
Necropoli - S. Marco
Necropoli - Monte delle Nicchie
Necropoli - S. Paolo
Sul vicino monte Gulèa in età protostorica si formò
il primo nucleo di un insediamento che, estesosi
prima al contiguo terrazzo S. Benedetto e poi ai
villaggi vicini, diede vita alla città di Inycon.
L’acropoli inizialmente sorse sulla cima del
monte Gulèa, ma intorno al XIII sec. a.C. la sede
reale venne trasferita sulla vicina rupe
denominataCamico, oggi Gogàla, eponimo del suo
illustre sovrano, Cocalo.
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Il 6 agosto è scomparso Enzo Lauretta, presidente
e fondatore
del Centro
Nazionale
Studi
Pirandellia
ni di
Agrigento e
sta a noi,
docenti e
studenti
che
abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo, continuare
a coltivare il seme della conoscenza che ha diffuso
nelle migliaia di giovani nei 50 anni di attività di
convegni.
Ma solo chi ha partecipato ad un incontro
pirandelliano organizzato da lui può comprendere
l’emozione condivisa da tanti giovani, entusiasta e
soprattutto autentica che ogni anno si rinnovava. La
prolusione iniziale innescava un meccanismo
emozionale che rimaneva vivo per la durata di tutti i
giorni del convegno nei circa mille giovani
partecipanti. Qual era il segreto? Il coinvolgimento,
la preparazione offerta agli studenti nelle giornate
pirandelliane antecedenti che Lauretta curava
personalmente. Accendeva una scintilla che avrebbe
avuto alimento nello studio e poi nel confronto
finale del convegno, quando i giovani ascoltavano
insigni relatori, ma proponevano anche personali
chiavi di lettura.
Anche il nostro liceo ha avuto l’occasione di
partecipare alla kermesse pirandelliana negli ultimi
10 anni e ha avuto l’onore di ricevere due premi per
lavori ispirati alle tematiche predilette dal grande
scrittore agrigentino, proiettate nella nostra
complessa, spesso drammatica attualità.
Ma la lezione di Lauretta si perpetua nei giovani
anche dopo la sua morte.
Il successo del film L’escluso, girato dai ragazzi del
liceo Cuoco di Napoli liberamente ispirato a uno dei
primi romanzi dello scrittore siciliano -che era
giunto finalista nella rassegna tenuta a battesimo da
Lauretta a Palermo - ha confermato il suo intuito
critico e verrà proiettato nella competizione
cinematografica nazionale «Napoli film festival».
Una soddisfazione, un modo come un altro per
restituire dignità a Napoli e a tutto il Sud d’Italia in
un momento così difficile soprattutto per i ragazzi.
* docenti liceo scientifico e linguistico Cuoco-
Campanella, Napoli
Benvenuti in Sicilia la perla dell'Islam
LA ROSA scagliò il Jihad alla spiga. Così in
Sicilia, al tempo degli emiri.
È la guerra del giardino contro il grano, ancor più
dell'epopea della conquista saracena, a raccontare al
meglio la scena antropologica e culturale
dell'orizzonte
siciliano.
Salvatore
Tramontana,
nel suo saggio
L'Isola di Allah descrive la trama di
religione, legge e
potere.
Ed è una vicenda di
mura, commercio e
zappa.
Il seminativo cede il
passo ai fiori giunti da
Qayrawan.
Quello dei fiumi e dei vulcani è il paese dove,
parafrasando Goethe, fioriscono le allimuniyya.
La coltivazione degli agrumi, nella terra arsa dal
sole, impegna l'idea superiore del "giardino
mediterraneo"; l'orto di agrumi i cui frutti
(decorativi, diventeranno commestibili dopo
successivi innesti), duellando contro l'arsura del
paesaggio naturale, confermano l'irriducibile gara
tra campagna e città: una scelta di campo tra ruralità
e urbanizzazione.
Il parco contro le sterpaglie, dunque; le irrigazioni
in luogo della dispersione delle acque; i vigneti,
perfino, a svantaggio dei cereali a significare
un'idea di politica che realizzasse un modello di
stabilità oltre alla memoria delle razzie.
Quel che nel sentimento popolare fu «tutto un
vendemmiar di teste e un mietere di colli».
Lo spazio «sostanzialmente sottratto alla
produzione cerealicola« (i giardini descritti da Ibn
Hawqal presso Balharà, oggi Ballarò) è già il
racconto di un'identità.
I picciotti del Profeta edificano il palazzo di Ja'far a
Maredolce, con il parco intorno, e tracciano le
mappe.
Questi saraceni — che non sono ancora "i mori
dell'Opera dei Pupi", contemporanei alle Crociate
— pongono sigillo al sentimento dei secoli a venire
per tutta la Umma islamica.
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Il poeta Muhammad Iqbal, nel 1931, durante il suo
viaggio dal Pakistan verso l'Inghilterra,
costeggiando Mazara del Vallo destinerà all'isola,
"la perla dell'Islam" da lui mai visitata, il saluto di
nostalgia e resurrezione di un «mondo che fu morto,
oggi tornato vivo».
In tema d'Islam non c'è mai un singolo eroe,
piuttosto un'epoca.
Tramontana, anche alla luce dell'esito spirituale,
oggi tema di attualità, affida alle fonti e alle
citazioni dal Diwan di Ibn Hamdis, il più
affascinante tra i capitoli del limes mediterraneo per
restituire così — senza sconfinare in ambito
teologico — il senso di «un piano superiore e
nascosto».
Tramontana accompagna il lettore sul ciglio del
cratere di Etna dove, grazie alla cronaca di Ibn Said,
«la masse incandescenti hanno le sembianze dei
figli di Adamo».
I siciliani di Allah vestono "camicie di ferro" e
portano scudi rotondi.
Impugnano spade scandinave. Oppure indiane.
Come quella di cui riferisce Abulfeda: «Pesa 170
mithqal e molto essa ha ferito innanzi al Profeta di
Allah».
Combattono e riposano, i picciotti, a Ballarò, «ricco
di polle e rivi» — scrive Tramontana — «che vanno
a ingrossare il Wadi Abbas».
Oggi si chiama Oreto.
È un rigagnolo, una colatura di miasmi più che un
fiume.
La siccità ha sopraffatto la frescura.
Salvatore Tramontana è stato ordinario di Storia
medievale all'Università di Messina.
Fra le sue opere ricordiamo Antonello e la sua città
(Palermo 1981), L'effimero nella Sicilia normanna
(Palermo 1981), La monarchia normanna e sveva
(Torino 1986), Lettera a un tesoriere di Palermo
sulla conquista sveva di Sicilia (Palermo 1988), Gli
anni del Vespro. L'immaginario, la cronaca, la
storia (Bari 1989), Vestirsi e travestirsi in Sicilia.
Abbigliamento, feste e spettacoli nel Medioevo
(Palermo 1993), Il mezzogiorno medievale.
Normanni, svevi, angioini, aragonesi nei secoli XI-
XV (Roma 2000), Capire il Medioevo. Le fonti e i
temi (Roma 2005) e per Einaudi, Il Regno di Sicilia.
Uomo e natura dall'XI al XIII secolo («Biblioteca di
cultura storica», 1999) e L'isola di Allah. Luoghi,
uomini e cose di Sicilia nei secoli IX-XI 2014).
NOTE DI ROBERTO ALAYMO
L’espressione chiave è Gratitudine Sospesa.
Tutto il sistema del consenso oggi è fondato su
quello: la Gratitudine Sospesa.
C’era una volta il voto di scambio nella sua forma
primitiva. Io do un pacco di pasta a te, tu dai il voto
a me. Sistema tribale, ripugnante; ma efficace,
perché approfittava dello stato di bisogno del
cittadino. Nel meridione d’Italia il voto d’opinione
ha cominciato a estinguersi allora.
Già negli anni Sessanta si favoleggiava su forme
più elaborate: io do una scarpa a te, tu dai il voto a
me, io do l’altra scarpa a te. Storia o leggenda che
fosse, era un primo tratto evolutivo del sistema. Un
pionieristico tentativo di fidelizzazione dell’elettore.
La seconda scarpa arrivava dopo il successo
elettorale, ma il contratto doveva ritenersi sciolto
già alla consegna; e semmai poteva rinnovarsi alla
tornata elettorale successiva. Né si poteva
pretendere che un paio di scarpe potesse garantire
più di un voto alla volta.
Il passo successivo è stato la promessa di un posto
di lavoro. E stavolta a tutto danno dell’erario, senza
esborso di denaro da parte del candidato. Per un
vero lavoro magari sì: la famiglia intera poteva
votarsi a una devozione elettorale perpetua nei
confronti del benefattore. Ma era tutto troppo
aleatorio. Nessuno poteva garantire che il
beneficiato si mantenesse fedele elezione dopo
elezione. Il sistema era perfettibile, e difatti
l’evoluzione definitiva è degli ultimi vent’anni.
Un’evoluzione che in Sicilia ha avuto il suo
pionieristico laboratorio d’applicazione.
Un’evoluzione che ha un nome: Gratitudine
Sospesa.
Nell’inconcludenza amministrativa di questi anni
c’è da una parte l’inadeguatezza di una generazione
dirigente, ma dall’altra pure un disegno preciso.
Certo, l’immobilità è una scelta facile. Chi non
mangia non fa molliche, chi non fa non falla,
eccetera. Tuttavia la paralisi che pesa sulla
comunità è frutto pure di un calcolo. Il cui risultato
è proprio la sospensione della gratitudine. È dalla
saldatura fra inefficienza e tornaconto personale che
nasce lo stallo sociale con cui ci misuriamo ogni
giorno.
La svolta evolutiva è stata l’avvento del precariato.
Forse tecnicamente non è stato inventato in Sicilia,
ma di sicuro è qui che il precariato ha trovato il suo
massimo livello di applicazione. Poi, come spesso
succede, i risultati del laboratorio Sicilia sono stati
estesi al resto del Paese. Coi risultati che si vedono.
(Prima parte di due, segue)
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L’amico Giuseppe Tizza da Düsseldorf ci
segnala , questo studio dell’ Arch. Mor Temor.
Finora, secondo me, nessuno ha pensato a dare
al Ponte sullo Stretto il suo vero valore. Tutti i
progettisti hanno solo pensato a
un ponte tradizionale, per far passare i passeggeri da
una parte all`altra. Il ponte a unica campata (3.300
m) che e` stato considerato dai progettisti il
migliore tra tutti le proposte, non e` mai stato
realizzato finora, perché tantissimi ricercatori hanno
approfondito l`argomento e hanno cercato di dare
una risposta. Voglio menzionare qui alcuni di loro.
Gli autori dell`articolo “Aspetti geologici e di
stabilita`per il Ponte sullo Stretto di Messina”
Alessandro Guerricchio e Maurizio Ponte
(Universita` di Reggio Calabria), hanno concluso la
loro ricerca con l`affermazione: “In caso di sisma
di particolare energia, la struttura potrebbe essere
coinvolta in fenomeni gravitativi di importanti
dimensioni. Un eventuale, anzi probabile,
meccanismo di instabilita` che dovesse coinvolgere
il versante su cui insiste la torre dal lato della
Calabria, produrrebbe una sollecitazione di tipo
impulsivo sulla struttura, con serissime
conseguenze sulla stabilita` strutturale”.
L`autore dell`articolo “Mistakes and Erroneous
Solutions in Urban Planning: The Project for a
Bridge over the Straits of Messina”, Guido
Signorino (Universita` di Messina) ha scritto: “Mi
limitero` a sintetizzare alcune delle molte ragioni
per cui il progetto appare del tutto anti economico,
sia a livello locale, sia a livello nazionale. A livello
locale, il ponte riduce il benessere a causa dei costi
ambientali e di congestione; i costi ambientali
del ponte si riferiscono al suo impatto sulla
ecosfera urbana: a) la riserva naturale di Ganzirri
(di interesse Comunitario) sara` irrimediabilmente
danneggiata; b) piu` di 5 milioni di m3 di residui
dei lavori di scavo sono localizzate in posizioni
molto pericolose, sulle pendici dei monti Peloritani,
adiacente alla parte residenziale della citta`.
Inoltre, il ponte sara` costruito a 15 km dal centro
della citta`, per un totale di 25,7 km di tunnel
ferroviario e stradale e viadotti che collegano
il ponte con le zone piu` centrali della citta`.
La conclusione dell`analisi economica del progetto
e` sicuramente negativa, a causa di: a) errori nelle
previsioni di traffico; b) sottovalutazione dei costi
di investimento, c) imprecisioni in analisi costi-
benefici; d) le conseguenze negative per il bilancio
pubblico e per l`economia siciliana”.
Da quanto sopra citato, appare evidente che il
governo italiano debba sforzarsi per cercare un
alternativa molto più conveniente, economicamente
e finanziariamente sostenibile, al tempo stesso
socialmente piu` desiderabile. E io, forse, ne ho
una. Un ponte basato su Piattaforme Galleggianti
Abitate. I ponti ordinari e le gallerie (sotterranei e sommersi)
sono stati studiati e valutati per risolvere il
problema dello Stretto di Messina da vari
ricercatori. Senza dubbio si e` concluso che tali
strutture non sono in grado di rendere fattibile il
sogno italiano. Per realizzare il Ponte e` necessario
pensare diversamente. Si tratta di un concetto unico
nel suo genere, venuto al mondo grazie a tre anni di
laboriose ricerche fatte dal sottoscritto sulle
strutture galleggianti. Le caratteristiche principali
del Ponte Galleggiante Abitato proposto da me
come alternativa per risolvere il problema
dello Stretto sono le seguenti:
1) Si usa l`acqua come fondamenta per le trave
e il pilone del ponte. La configurazione proposta si
basa su piattaforme galleggianti di calcestruzzo
armato, in cui lo spazio interno in queste
piattaforme verrà destinato ad attività commerciali,
uffici, alberghi, parcheggi, parchi, ecc. Inoltre, si
possono costruire anche case a schiera nello spazio
a forma di ellisse che costituisce le due travi in
acciaio a forma di archi. La
fondazione galleggiante e` stata scelta come
soluzione a causa della profondita` dell`acqua che
supera i 100 metri, la presenza delle falde attive
sulle coste messinese e calabrese, e la probabilita`
di un forte terremoto. Il Ponte offre piu` di
3.000.000 mq di spazio abitabile.
2) La possibilita` di costruire gran parte
del Ponte (le Piattaforme Galleggianti) in un
cantiere navale, verranno poi trascinate nella loro
posizione galleggiando sull`acqua, risparmiando
cosi nei costi e nei tempi di costruzione.
3) Il Ponte Galleggiante Abitato verrà finanziato
dalla vendita delle unità abitative, più di 3.000.000
m² di spazio abitabile.
4) Il vantaggio economico ottenuto dalla
costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina si
fara` sentire a livello nazionale, a seguito del
miglioramento dei mezzi di passaggio tra Reggio
Calabria e Messina, facilitando il rapido sviluppo
regionale su entrambi i lati dello Stretto, in
particolare nel settore dell`industria e del turismo.
Durante la costruzione, nascerà un boom economico
locale. Le varie attività a sostegno della costruzione
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del ponte mobiliteranno una quantità enorme di
fondi e forze che porteranno benessere alla regione.
5) Grazie alle piattaforme galleggianti, la posizione
del Ponte Galleggiante Abitato
sullo Stretto di Messina non dipenderà più dalla
distanza minima tra la Sicilia e la Calabria.
Il Ponte Galleggiante potrebbe essere costruito a
pochi chilometri dal centro della città di Messina. Il
totale di 25,7 km di gallerie ferroviarie e stradale
che e` stato suggerito per collegare le zone più
centrali della città di Messina non sarà necessario.
6) Produzione d’energia elettrica sfruttando i
correnti dello Stretto. I turbini vengono installati su
i sette corpi galleggianti, sulle parti sommersi dal
acqua a profondità pari circa a 20 - 30 metri.
La soluzione del vetro fotovoltaico colorato si
integra perfettamente al Ponte Galleggiante,
migliorando l'isolamento e allo stesso tempo
producono energia pulita e gratuita, in loco, grazie
al sole.
7) L`impatto ambientale del Ponte Galleggiante e`
di molto inferiore rispetto a quello degli altri
progetti proposti.
Il progetto del Ponte Galleggiante Abitato e`
stato inviato al Ministero delle
infrastrutture italiano il 15 novembre 2009.
Il 13 Novembre 2012 l`architetto Mor Temor ha
incontrato a Roma i tecnici della Societa` Stretto di
Messina, l`ing. Giuseppe Fiammenghi, direttore
tecnico della Societa` Stretto di Messina SPA, ed
l`ing. Sparatore. Soggetto del incontro: Il Ponte
Galleggiante Abitato sullo Stretto di Messina.
Durante l'incontro Mor Temor ha consegnato il
progetto del ponte Galleggiante alla Società Stretto
di Messina.
Con tutto ciò Enzo Motta ricorda che da sue
indagini fra siciliani e calabresi emigrati, si
ritiene che sia meglio farne a meno.
IL PAESE NATIO DI UN CARO AMICO
TRIPI patria di Emilio Sidoti
Una mappa della Sicilia Nord Orientale risalente al
IV° sec. a.C.
In evidenza Abakainon (Tripi) Tyndaris (Tindari)
Naxos (Giardini Naxos) Mylai (Milazzo)
Tauromenion (Taormina) Agathyrnon (Capo
d'Orlando) Tissai (Randazzo) Adranon (Adrano)
Kentoripa (Centuripe) Ameselon (Regalbuto)
Agyrion (Agira) Imachara (Catenanuova) Capytion
(Capizzi) Herbita (Nicosia) Engyon (Gangi) Henna
(Enna) Katane (Catania) Amestratos (Mistretta)
Aitna (Paternò) Tyrakinai (Troina) Kephalodion
(Cefalù) Halaiba (Tusa) Kalè Aktè (Caronia)
Apollonia (S. Fratello) Halontion (Longi)
L'antica città sicula di Abakainon, posta su un
altopiano oggi nel comune di Tripi, a dominio della
valle percorsa dalla strada di collegamento tra la
riviera ionica e quella tirrenica e di un vasto
territorio che si estendeva dalla fascia costiera tra
Milazzo e Patti, fino alle cime dei Peloritani e agli
altipiani orientali dei Nebrodi.
Il sito della città è ora sicuramente identificato e
corrisponde alla frazione Casale, subito a
settentrione dell’attuale comune di Tripi, su un
altopiano che dai monti Nebrodi si estende verso il
mare.
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Tale zona pianeggiante, detta appunto il Piano, era
in realtà una sorta di fortezza naturale, facilmente
difendibile, essendo compresa tra due valli laterali,
del torrente Novara a est e del suo affluente
Tallarita a ovest, e chiusa a sud dall’altissima
acropoli del Castello e a nord dal Pizzo Cisterna.
Alla luce delle attuali conoscenze si pensa che sia
stata la più importante città stato di questa zona in
epoca pre-romana. Prima in conflitto con i Sicani e
poi con i sopraggiunti greci, negli anni successivi al
450 a.C. la città fu impegnata a tenere a bada la
sempre più potente Siracusa, ma quando Dionigi nel
396 a.C. fondò Tindari, Abakainon perse parte del
suo territorio, forse quello compreso fra il fiume
timeto e il fiume di Oliveri, e vide gravemente
minacciata la sua indipendenza.
Alleata ora con i cartaginesi ora con i siracusani per
conservare la propria libertà, nel 262 a.C. fu
occupata dai Romani che la elevarono a
"municipium" e la chiamarono Abacaenum o
Abacaena.
Pur perdendo l’indipendenza, essa continuò a essere
una città laboriosa e prospera, e seguitò a battere
moneta come accadeva fin dal V° secolo.
La fine della città è attribuita ad Augusto nel 36
d.C., che la distrusse per il mancato aiuto, e una
qualche successiva calamità naturale cancellò poi le
ultime tracce rimaste.
Di essa rimangono comunque avanzi di mura, resti
di abitazioni ellenistiche e romane, tombe,
terracotte, armi ed altri oggetti a testimonianza della
sua prosperità. Rimangono soprattutto le monete
coniate con il nome della città, le cui più antiche
risalgono al 460 a.C.
Nel periodo arabo e normanno un insediamento più
a monte, in un luogo più sicuro per l'epoca, diede
origine a quello che oggi è il paese di Tripi.
La Chiesa Madre
Alessandro Barbero
Federico II, l’incontro di civiltà
Esecrato dal Papa, additato come l’Anticristo,
l’imperatore favorì i rapporti tra Cristianesimo e
Islam. Forse anche per questo piaceva a Dante che,
pur collocandolo nell'inferno fra gli eretici, lo
chiama “loico e clerico grande”.
«E vidi salir dal mare una bestia piena di nomi di
bestemmia»: così, con una citazione
dell’Apocalisse, papa Gregorio IX aprì la bolla in
cui denunciava i delitti dell’imperatore Federico II,
che i suoi ammiratori chiamavano stupor mundi.
A dar retta al Papa, Federico considerava Cristo un
impostore, metteva in dubbio la sua nascita da una
vergine, e preferiva l’Islam al Cristianesimo.
Non c’è da stupirsi se molti fedeli credettero di
riconoscere in lui l’Anticristo, che doveva mettere il
mondo a ferro e fuoco preannunziando la fine dei
tempi. I più convinti erano i seguaci dell’abate
Gioacchino da Fiore, il mistico calabrese che aveva
profetizzato per il 1260 la rovina dell’Anticristo e
l’avvento di un’età nuova. Quando, nel 1250, si
sparse la notizia che Federico II era morto - senza
aver conquistato il mondo, come avrebbe dovuto
fare l’Anticristo - il francescano Salimbene da
Parma non voleva crederci, e si disperò: la profezia
era sbagliata, l’Anticristo non era lui e bisognava
ricominciare ad aspettarlo.
Attraverso il clamore delle testimonianze
contrastanti, delle maledizioni apocalittiche e degli
elogi cortigiani, par d’intuire che nei suoi ultimi
anni Federico II si trasformò davvero in un tiranno
malefico, come accade ai despoti abituati male da
troppi decenni di potere e inaspriti dai fallimenti.
Fece ammazzare tanta gente, e spesso senza buoni
motivi: così si offuscò la leggenda dell’imperatore
dotto e splendido, che fondava università,
promulgava codici di leggi, costruiva meraviglie
9
come Castel del Monte, assisteva a esperimenti
scientifici e nei ritagli di tempo scriveva di suo
pugno quel De arte venandi cum avibus che non è
solo un manuale di falconeria ma un vero trattato di
zoologia.
Castel del Monte
Ma almeno una delle accuse che i Papi scagliavano
contro lo stupor mundi suscita piuttosto la nostra
ammirazione, e anziché contribuire alla leggenda
nera alimenta semmai il mito d’un Federico lontano
e superiore rispetto al suo tempo: e sono i rapporti
che intrattenne col mondo musulmano. Certo, oggi
siamo lontani dagli entusiasmi di Jacob Burckhardt
che vedeva in lui il primo uomo moderno; ma
certamente Federico fece tutto quello che poteva per
contrastare il clima da scontro di civiltà in cui il
mondo europeo e mediterraneo era precipitato
all’epoca delle crociate. I musulmani Federico li
aveva in casa, giacché prima d’essere imperatore
era re di Sicilia. Certo, non erano più i tempi in cui
gli scrittori arabi esaltavano la Sicilia come la
provincia più ricca del mondo islamico, e neppure
quelli di suo nonno Ruggero II, nella cui cancelleria
lavoravano fianco a fianco notai latini, greci, ebrei e
arabi. All’inizio del suo regno Federico aveva
ancora al suo servizio qualche funzionario arabo,
però battezzato. Dotti musulmani a Palermo non ce
n’erano più; ma c’erano alcuni dotti ebrei, cui
l’imperatore commissionò traduzioni dall’arabo.
Federico aveva una gran voglia di discutere con i
sapienti islamici, e scrisse al sultano del Marocco
ponendo una raffica di quesiti filosofici e scientifici,
cui sperava che i dotti di laggiù potessero
rispondere. Uno di loro, Ibn Sabin, in effetti gli
rispose, anche se in tono piuttosto sostenuto,
invitandolo a impadronirsi un po’ meglio della
terminologia filosofica, e osservando che se aveva
tanta sete di verità avrebbe fatto meglio a
cominciare convertendosi all’Islam.
Ma se non c’erano più dotti, la Sicilia di Federico II
era ancora piena di contadini musulmani, impoveriti
e vessati dopo la riconquista cristiana. Molti di loro,
riparati nelle zone montagnose e poco accessibili di
Monreale e del Val di Noto, erano in stato di
ribellione endemica. Federico cercò di reintrodurre
le colture in cui erano più esperti, come l’indaco, lo
zucchero, l’henné, ma soprattutto pubblicò leggi in
loro favore, per impedire che fossero maltrattati dai
suoi funzionari. Musulmani ed ebrei dovevano
avere la possibilità di rivolgersi alla giustizia come
tutti gli altri sudditi, e non bisognava che fossero
trattati diversamente dai cristiani né sottoposti a
vessazioni. Ma quando i ribelli delle montagne
catturarono il vescovo di Agrigento e lo tennero
prigioniero per un anno, Federico perse la pazienza.
È forte la tentazione di definire pulizia etnica le
ripetute campagne che i soldati del re condussero in
Sicilia, al termine delle quali c’erano pochi
musulmani nell’isola e prevalentemente di classe
agiata. Un grande storico del mondo mediterraneo
come David Abulafia ha proposto, non credo con
molta ragione, di vedere nella guerriglia dei
saraceni le remote origini della mafia; semmai è più
curioso scoprire che Federico, per ripopolare le
campagne devastate, organizzò il trasferimento in
Sicilia di grossi contingenti di emigranti reclutati in
Piemonte, e che da loro discendono gli abitanti di
Corleone.
Ma il punto cruciale è che i saraceni catturati, se
rifiutavano di convertirsi al Cristianesimo, non
vennero messi a morte com’era abituale in clima di
crociata, ma risistemati in Puglia, la provincia più
amata da Federico, dove il re donò loro una città.
A Lucera, dove la cattedrale era opportunamente
crollata e il vescovo s’era dovuto trasferire altrove,
vennero risistemati 15.000 musulmani, e fra di loro
l’imperatore reclutò una guardia di fedelissimi.
Per i polemisti di parte papale, quei saraceni che
accompagnavano Federico sui campi di battaglia
erano la prova che l’imperatore preferiva Maometto
a Cristo. Del resto, quando dopo molte insistenze
l’imperatore si era deciso a partire per la crociata,
non aveva rovinato tutto mettendosi d’accordo col
sultano e trasformando Gerusalemme in una città
aperta, dove cristiani e musulmani avevano
ciascuno i propri spazi? Da entrambe le parti gli
integralisti, che non mancano mai, erano inorriditi.
Per noi tutto questo è piuttosto la prova che lo
stupor mundi, per quanti delitti abbia commesso,
era un uomo che sulla convivenza tra fedi diverse
aveva saputo andare avanti, e non solo rispetto al
suo tempo.
10
Un'illuminante storiella araba.
Ogni parola, prima di uscire dalla bocca di chiunque
dovrebbe attraversare il vaglio di tre porte.
Sulla prima porta sta scritto: è vero?
Sulla seconda porta sta scritto: è necessario?
Sulla terza porta sta scritto: è gentile?
Conosco persone che, se questa storiella fosse
convertita in legge, sarebbero costrette a rimanere
in perpetuo silenzio. E mica per la prima porta:
soprattutto per le altre due.
Catania di notte con eruzione dell’Etna - agosto 2014
LA SICILIA COME METAFORA
Di me come individuo, individuo che
incidentalmente ha scritto dei libri, vorrei che si
dicesse: «Ha contraddetto e si è contraddetto»,
come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante
«anime morte», a tanti che non contraddicevano e
non si contraddicevano. La Sicilia come metafora, p. 88
“Il più grande peccato della Sicilia è stato ed è
quello di non credere nelle idee, qui che le idee
muovano il mondo non si è mai creduto. Ci sono
naturalmente delle ragioni, di storia, di esperienze,
però è questo che ha impedito sempre alla Sicilia di
andare avanti, il credere che il mondo non potrà
mai essere diverso da come è stato. Ora siccome
questa mancanza di idee ormai si proietta su tutto il
mondo, in questo senso per me la Sicilia ne è
diventata la metafora”.
(LeonardoSciascia, intervista RAITVcultura).
A volte mi capita di pensare al mio paese, come si
è trasformato nel tempo, e vedo un quadro che non
mi piace. Amo il mio paese e questo mi dà il diritto
di poterlo criticare; lo faccio nella speranza che
migliori, anche se mi provoca dolore farlo. Il mio
paese sembra in stato di abbandono, basta fare una
passeggiata per i suoi quartieri per accorgersi del
degrado in cui versano; tante case abbandonate al
degrado e all’incuria. Ricordare quei posti pieni di
vita sino a pochi anni or sono, mi fa venire un nodo
alla gola e mi chiedo il perché di tutto questo senza
riuscire a darmi una risposta. Penso che gli
appartenenti ad una comunità debbano vivere a
stretto contatto l’uno con l’altro, ogni via, ogni
cortile deve essere vissuto insieme; la vicinanza
crea solidarietà, si diventa tutti un po’ parenti,
assistiamo invece ad un progressivo allontanamento
tra le persone, si preferisce vivere in estrema
periferia o addirittura in campagna diventando tante
isole. Il lavoro che da noi non è mai stato
sufficiente, oggi è quasi scomparso in vari settori:
agricoltura, edilizia, commercio, artigianato.
Naturalmente a subire di più questa situazione sono
le fasce più deboli e i giovani. Tutto questo nella
totale indifferenza di chi ha amministrato, di chi
amministra e di quelle associazioni locali che
dovrebbero battersi per creare le condizioni per la
socializzazione e la condivisione, organizzando e
suggerendo iniziative da attuare. Anche
politicamente questo paese sembra andare alla
deriva nella totale rassegnazione e indifferenza
generale.
Chi ha governato lo ha fatto senza amore mentre i
cittadini assistevano a questo degrado quasi
disinteressatamente, curando soltanto il proprio
orticello. Ha ragione Leonardo Sciascia; i siciliani
sono convinti che le idee non potranno mai
cambiare le cose, che nulla potrà essere diverso di
come è stato e quindi è normale essere rassegnati e
indifferenti, anche se qualcuno propone ai politici
un cambiamento, un nuovo modo di amministrare
con trasparenza. Odio gli indifferenti.
Sono convinto che vivere significhi essere
combattenti, vedo soltanto persone che sanno solo
lamentarsi, protestare, accusare, recriminare.
Mai qualcuno che si chieda: se avessi fatto il mio
dovere, se avessi combattuto per le mie idee, se
avessi dato l’esempio, se non fossi stato egoista e
indifferente, sarebbe successo tutto quello a cui
assistiamo sbigottiti oggi?
L’indifferenza ha causato sempre dolore e disastri
nella nostra nazione: siamo stati indifferenti quando
i fascisti marciarono su Roma, siamo stati
indifferenti con chi ci ha fatto vivere negli anni di
piombo, siamo stati indifferenti davanti a tutte le
stragi, siamo indifferenti alla mancanza di futuro
per le nuove generazioni e siamo indifferenti al
degrado della politica.
Ecco perché odio gli indifferenti.
Roberto Salvo Castrum Racalmuto Domani
11
Nella bandiera siciliana campeggia in bella mostra
il simbolo di una testa femminile con tre gambe
piegate (triscele) e mosse direttamente dal capo.
In araldica questa raffigurazione prende il nome di
trinacria.
La testa rimanda chiaramente alle gorgoni, mostri
della mitologia greca di aspetto mostruoso, ali
d'oro, mani con artigli di bronzo, zanne di cinghiale
e serpenti al posto dei capelli.
Esse erano tre e rappresentavano le perversioni:
Euriale rappresentava la perversione sessuale, Steno
la perversione morale e Medusa (la più famosa,
unica mortale tra le tre e custode degli Inferi) la
perversione intellettuale.
Anticamente il nome della Sicilia era quello di
Triquetra o Trinacria.
Questo perchè, a differenza della classica forma
tonda di tutte le altre isole, la Sicilia ha una
configurazione geografica strana.
E' caratterizzata da tre promontori, Pachino, Peloro
e Lilibeo e tre vertici che quasi istintivamente
rimandano al triangolo.
Ed è probabilmente in epoca ellenistica che la
cultura greca, colma di dei, semidei e mostri
mitologici, coniò il simbolo della gorgone con tre
gambe attaccate direttamente alla testa associandolo
piano piano alla nostra terra ed i misteri che la
avvolgevano (se non sbaglio un tempo la fine del
mondo con tanto di colonne d'ercole erano molto
più vicine alla Sicilia di quanto possiamo oggi
immaginare).
Ma dove trae origine questo simbolo? Ce ne sono
mai stati di simili nella storia dell'uomo? In questo gli studiosi sono concordi nel ribadire che
la trinacria sia un antico simbolo religioso orientale
che rappresentava il dio del sole nella sua triplice
forma di primavera, estate e inverno.
Remote monete (del VI e IV secolo a.C.) lo
testimoniano. Esse provenivano quasi tutte da città
dell'Asia Minore, come Aspendo in Panfilia, Olba
in Cilicia, Berrito e Tebe nella Troade.
Il simbolo si sarebbe quindi diffuso in occidente
attraverso i greci che con le tre gambe marchiavano
diverse monete (a esempio quelle di Atene del VI
sec a.C., ma anche successivamente nelle urbe di
Paestum, Elea, Terina, Metaponto e Caulonia).
In Sicilia, invece, pare essere stato Agatocle (in
Siracusa) ad usare il simbolo sulle monete e forse
(questo dato non è certo) come sigillo personale.
E' solo in epoca romana che la trinacria perde il
suo intrinseco significato religioso per diventare
esclusivamente il simbolo geografico della Sicilia.
In quell'epoca a Palermo la gorgone con tre gambe
appare nel suo aspetto definitivo sulle monete. Ma
al posto dei serpenti, la testa della gorgone è
decorata con tante spighe. Spighe di grano che
tributavano alla Sicilia il suo ruolo di granaio
dell'antico impero romano. Sicilia sinonimo di
fertilità e prosperità.
Ma perchè è stata usata la testa di una gorgone? La domanda che alcuni di voi potrebbero porsi è:
ma perchè, se il significato religioso della trinacria
non c'era più, si continuò ad usare una immagine
mistica come quella della gorgone?
La gorgone, amici miei, è un dettaglio tipicamente
siciliano.
In tutte le altre rappresentazioni, le gambe erano
legate tra loro attraverso un cerchio o un punto.
E la "Trichetria" è fortemente legata alla mitologia
greco orientale. I nostri avi erano soliti decorare
tempi, vasi e case con maschere e raffigurazioni
pittoresche per scongiurare, allontanare o annullare
influssi maligni. Proprio come il gesto delle corna
che noi usiamo per esorcizzare il male.
Per il siciliano doc, religioso e superstizioso per
tradizione familiare, la trinacria è un talismano
portafortuna.
Vogliamo concludere questo articolo spiegando
anche il perché del giallo e del rosso presenti nel
vessillo ufficiale della regione Sicilia.
Il giallo ed il rosso stanno a rappresentare
rispettivamente il coraggio delle città di Palermo e
poi di Corleone, che per prime si sollevarono contro
i francesi durante i vespri siciliani del 1282.
12
La Duca il
narratore
della città
Rosario La Duca (Palermo, 22 giugno 1923 –
Palermo, 23 ottobre 2008) è stato uno storico
dell'arte, ingegnere, docente e politico italiano.
È stato considerato il più grande conoscitore della
storia e dell'evoluzione della città di Palermo.
La città ha imparato a conoscerla fin da bambino,
attraversandola a piedi in lungo e largo. Abitava in
via Trieste, zona stazione, e l' asilo che frequentava
era al Papireto, in via D' Ossuna, due chilometri più
in là.
Il padre, un colonnello grand' invalido di guerra, lo
mandava a scuola con il fratello a piedi, in
osservanza dei suoi principi educativi spartani.
E quando i due ragazzini, vedendo i loro amichetti
della buona borghesia che venivano condotti a
scuola in automobile, hanno cominciato a
protestare, il padre li ha presi per mano e li ha
portati nei catoi a guardare da vicino la miseria di
quella Palermo degli anni Trenta.
Catapecchie, ragazzini scalzi, madri che
spidocchiavano le loro creature, tanfo, moccoli al
naso e vestiti a brandelli. «In un attimo ci siamo resi
conto di essere dei bambini privilegiati e abbiamo
abbassato la cresta».
Rosario La Duca, grande storico della città, esperto
d' arte, morto a 85 anni ieri mattina all' ospedale
Cervello dove era stato ricoverato quattro giorni fa,
ci raccontava questo e altri ricordi d' infanzia
intercalandoli con storie di personaggi e di
monumenti.
La narrazione sul sacco di Palermo e su quel che è
scampato al furore della malapolitica scorreva sul
filo della logica stringente di chi tutto sapeva su
ogni pietra della città; i ricordi invece andavano a
venivano come onde sulla riva.
E la voce un po' si incrinava di nostalgia. Quel via
vai dall' asilo per Rosario La Duca è stato l' inizio di
una passeggiata per le vie di Palermo durata oltre
ottant' anni.
Non capiva le migliaia di suoi concittadini che
trascorrono gran parte del loro tempo imbottigliati
nel traffico dentro quelle che lui definiva «scatole di
latta».
Solo la morte ha fermato lo scalpitio del suo passo
lesto. Dal vivere la città è stato naturale il passaggio
al raccontarla. Sono così nati decine di libri che ci
hanno aiutato, ci aiutano e ci aiuteranno a conoscere
la nostra storia, il turbinio di trasformazioni, le tante
stratificazioni che collocano un manufatto sopra un
altro e un altro ancora, cambiando continuamente i
connotati urbanistici.
Da "Palermo felicissima" scritto con Sciascia a "Da
Panormus a Palermo".
E ancora, i tre volumi de "La città passeggiata", gli
altri della collana "Palermo ieri e oggi", "La città
perduta", un atto di dolore per gli scempi edilizi, e
una sfilza di altri titoli.
Il professore, ex docente di Storia dell' architettura,
oltre a scrivere libri ne ha collezionati migliaia, che
ha sistemato negli otto stanzoni della sua tana che si
affaccia su piazzetta Santo Spirito, al Cassaro.
Un tempio dove viene venerata la storia di Palermo
e della Sicilia. Preziosi testi antichi e opere
moderne.
Il pezzo forte è la ricca collezione cartografica su
Palermo, centinaia di disegni che marcano le tante
città che si sono succedute nei millenni.
Tutto questo patrimonio, schedato al computer, lo
ha lasciato in eredità alla Facoltà teologica, con i
diritti d' autore, gli arredi, le anfore e ogni altra cosa
che contiene.
Quanta umanità in quella casa.
L' ultima volta che ci siamo andati per intervistarlo,
dopo averci mostrato i libri e le tavole - la più antica
del Cinquecento - ci ha condotto in un cortile sotto
il sole, un giardino d' inverno infoltito da una gran
varietà di ficus. In un angolo, l' orto, basilico e altri
aromi in grossi vasi da cui penzolavano decine di
coloratissimi peperoni.
«Annata buona», fu il compiaciuto commento dello
storico, forse il più erudito vissuto in città.
La visita finì sul limitrofo terrapieno della Regia
Zecca. Fece da cicerone alla sporcizia disseminata:
plastica, cartacce, foglie al vento e materassini.
«Non lo hanno pulito nemmeno quando è passato il
carro di Santa Rosalia», disse con tono indignato.
Era dispiaciuto per quella Palermo che aveva visto
scomparire, seppellita prima da una colata di
cemento e poi dall' incuria di una catena di
amministratori che non l' hanno mai amata. «Sono
vissuto in due Palermo diverse - disse –
La linea di demarcazione tra una e l' altra ha una
data precisa: il 1940.
13
Una precede lo scoppio della guerra e l' altra,
completamente diversa, lo segue.
Nella prima Palermo il rapporto tra centro urbano
ed espansione esterna era di uno a uno.
Nella seconda il rapporto si è dilatato a dismisura. Il
cemento ha inghiottito la Conca d' oro».
La sua preoccupazione non era solo per le ferite
paesaggistiche, ma temeva i guai che la spoliazione
del verde avrebbe potuto arrecare. «Dio non voglia -
aggiunse - ma se dovesse capitare un' altra
inondazione come quella del 1931, ci troveremmo
dentro un disastro apocalittico, perché le colline
cementificate dalle costruzioni non sarebbero più in
grado di assorbire l' acqua piovana che scenderebbe
a valle come una valanga».
Aveva provato a fare politica per porre un freno alla
distruzione della Sicilia: eletto nelle file comuniste
all' Ars, deluso da quella esperienza era tornato ai
suoi studi.
Quando gli abbiamo chiesto il perché quel ben di
dio raccolto in tuta la vita fosse destinato in qualche
modo alla Chiesa ci ha dato una spiegazione che
mette a nudo la fragilità delle nostre istituzioni nella
tutela dei beni artistici.
Lo storico aveva bussato alle porte della Regione,
per la quale aveva curato il restauro di Palazzo dei
Normanni negli anni Settanta, ma nessuno era stato
in grado di dargli alcuna garanzia.
Nel frattempo era entrato in contatto con il
cardinale Pappalardo che l'aveva coinvolto nella
ristrutturazione della Facoltà teologica.
Affascinato dalla personalità del prelato e
constatato l' amore con cui nella Facoltà venivano
trattati i libri, ha ritenuto di optare per quella scelta.
Nel testamento, il cui curatore è Ninni Giuffrida, è
specificato che la sua casa-museo deve restare a
disposizione dei cittadini e suggerisce di farne un
istituto di studi teologici.
«Non potevo sopportare l' idea - ci disse - che tutto
quello che amo finisse ammucchiato in qualche
scantinato della Biblioteca regionale».
Scrupoloso fino all' estremo, aveva dettato perfino il
suo necrologio: «è morto un uomo giusto che ha
amato immensamente la sua città».
« Una città non nasce mai per caso. La
configurazione del sito le imprime i propri tratti
indelebili, ma è il rapporto tra l'ambiente e gli uomini
che vi si sono insediati a segnare il destino. »
(Rosario La Duca, Prefazione a Palermo città d'arte)
In Piazza Duomo, a Catania, una statua di un
elefante che sorregge un obelisco egizio prende il
nome di Liotru o Diotru ed è il simbolo della città.
Si narra che il famigerato elefante venne chiamato
Liotru in onore di un mago: Eliodoro, detto anche
Diodoro, Liodoro, Lidoro, ed anche Teodoro.
Eliodoro visse intorno al 725 d.C quando Catania
era una provincia bizantina dell'Impero Romano
d'Oriente. Eliodoro aspirava a diventare il vescovo
di Catania ma non riusciva ad affermarsi. Un giorno
però conobbe uno stregone ebreo, che gli insegnò
arti magiche e lo convertì al giudaismo.
Si racconta che una notte Eliodoro si recò presso il
sepolcro degli eroi ed iniziò ad evocare il diavolo,
grazie a un misterioso scritto che gli era stato
consegnato dallo stregone ebreo.
Satana infine apparve e gli chiese cosa volesse.
Eliodoro gli comunicò le sue ambizioni ed il
demonio rispose: “Se rinneghi la fede in Cristo, ti
pongo a fianco uno della mia corte, Gaspare, che
sarà tuo servo, e ti conferirò poteri magici.”
Fu così che Eliodoro accettò ed ottenne poteri
sovrannaturali. Fu lui stesso a costruirsi
magicamente l'elefante, con la lava dell'Etna.
A cavallo della magica creatura girava per la città,
facendo scherzi e dispetti alla popolazione.
L’elefante veniva utilizzato, inoltre per i suoi lunghi
viaggi da Catania a Costantinopoli. Eliodoro era
veramente perfido.
Si racconta che andasse al mercato e comprasse
tutto quel che gli piaceva, pagando con ori e
diamanti, ma quando se ne andava, i preziosi si
trasformavano in sassi.
Una volta convinse il nipote del vescovo a puntare a
una corsa di cavalli, facendolo vincere.
14
Ma al momento della premiazione il cavallo
vincente parlò rivelando che in realtà era Satana
stesso al servizio del mago per lo scherzo, e poi
sparì.
Eliodoro venne per tale ragione condotto in carcere,
ma riuscì a riguadagnare la libertà corrompendo le
guardie con l'offerta di tre libbre d'oro.
Anche questa volta utilizzò una grossa pietra
all'apparenza d'oro, che in seguito riacquistò la sua
forma naturale.
Fu Condannato a morte da Costantino ma nel
momento in cui stava per eseguirsi la sentenza, egli
domandò in grazia una catinella d'acqua: vi tuffò la
testa e sparì misteriosamente, dicendo: " Chi mi
vuole, mi cerchi in Catania ! ".
Nuovamente ricondotto dinanzi al boia per aver
dato fuoco al “di dietro” della moglie di Eraclio, un
ministro di Costantino, Eliodoro, mentre stava per
ricevere il colpo di grazia, si rimpicciolì, entrò per
la manica destra del carnefice e ne uscì dall'altra,
gridando: "
Scampai la prima volta; questa è la seconda. Se mi
volete, cercatemi a Catania! ".
E disparve ancora, facendosi trasportare dagli spiriti
nella inquieta città.
Fu il vescovo Leone detto il Taumaturgo che,
celebrando una messa propiziatoria riuscì a ridurre
il mago Eliodoro in un mucchio di cenere.
Il suo elefante rimase vivo ed è ora simbolo della
città di Catania.
A parte le leggende, si ritiene che originariamente la
statua dell’elefante sia stato oggetto di culto in un
tempio di riti orientali della Città.
Stranamente è poi precipitato dal suo altare ai
primordi del Cristianesimo e venne portato fuori le
mura, dove rimase per più secoli. In seguito dopo
essere stato dimenticato per diverso tempo, venne
ricondotto in città dai padri Benedettini del
monastero di S. Agata e posto ad adornare un antico
arco.
Nel 1508, però, essendo stato completato il vecchio
Palazzo di Città, l’arco venne abbattuto e l'elefante
fu posto sul prospetto della parte nuova
dell'edificio, con la seguente iscrizione:
Ferdinandus. Hispaniae utriusque. Siciliae. Rege –
Elephans erectus fuit a Cesare Jojenio – Justitiario –
MDVII Dopo il terremoto del 1693, l'elefante fu
nuovamente abbandonato, finchè, nel 1727,
l'olandese Filippo d'Orville, trovandosi di passaggio
da Catania, sollecitò che esso venisse innalzato
insieme all'obelisco egizio che adesso lo sormonta
nella famosa Piazza Duomo. Alessandra Cancarè
Nuovo record mondiale di traversata a nuoto
dell’atleta Giovanni Brancato.
A fine agosto il sessantenne medico nutrizionista è
riuscito nella ineguagliabile impresa della traversata
a nuoto pinnato in soli 8 giorni dalla francese Ile
Porquerolles alla costa settentrionale della
Sardegna.
Molte le difficoltà quali la forza del mare, avverse
condizioni meteo e vento intenso, ma Brancato, a
cui non mancano certo determinazione e grinta, ha
percorso bracciata dopo bracciata le 140 miglia fino
all’agognata meta della spiaggia di Stintino.
Un’altra grande prova e uno storico trionfo dello
“Squalo delle Lipari” come è stato ribattezzato il
dott Brancato, Siciliano di natali ora Alassino di
adozione.
PROVERBI E MODI DI DIRE
I proverbi si contraddicono. È in ciò che si cela la
saggezza dei popoli.
Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati, 1957
E’ bona donna, ch’idda ca’un parla.
E’ cchì niscìu lu casdararu?
E’ cchiù facili ca lu porcu acchiana la ‘ntinna.
Ed’è lu sali e fà li vermi.
E’ megliu un cani amicu, cà n’amicu cani.
Essiri comu lu scrafagliu ‘nni la stuppa.
Essiri figliu di la gaddina bianca.
Essiri friscu e tenniru.
Essiri scrittu a libru nivuru.
E si li cannola e li maccarruna stuffanu,
figuramunni…….
Fa beni e scordatillu…..fa mali e pensaci.
Fa ca t’agghiorna e non ca ti scura.
Facci senza culuri: o farsu o tradituri.
Facci cunn’è vista è disiata….facci c’hè vista
e schifiata.
Fa cuntu cà vinni.
15
Fari beni a ccù nun lu canusci…
facci mali ca mancu lu capisci
Fari oricchi di mircanti.
Fari un trunzu di mala figura.
Fari vidiri li surci virdi.
Fatti ‘ngrata..ca si circata. nun ti fari munnizzedda,
ca ti jettanu cu la cuffitedda.
Fatti ‘nomina’ e và curcati.
Fatti virrutu ca si sirvutu.
Fidarisi è bonu…nun fidarisi è megliu
Figli nichi guai nichi, figli granni guai granni.
Figli nfidili, jenniri sbirri, nori grattalori e mariti
“bboia” a lu capizzu.
Figlia di gatta, si nun muzzica gratta.
Fimmina ca a lu caminari annaca l’anca, si buttana
nunn’è picca cci manca.
Fimmina ca s’impupa e fa tuletta o è
nnamurata o cajorda netta.
Fimmina e ventu…….cancia ogni mumentu.
Fimmina ‘mpiegata, si nunn’è tuccata è
maniata.
Fimmini, fulmini e ‘rrizzittaculu di
puci…sunnu li ‘nnimici di la santa paci.
Finennu l’amuri, resta lu pintimentu e lu
duluri.
Finìu a fetu.
Finìu a schifiu.
Finìu a tri tubi.
Finìu a meccu cunfusu…o megliu:
cù acchiappa un turcu è sò. *
Finu a quannu c’è hiatu, c’è spiranza.
Focu di paglia.
Frati e soru finu a quannu su schetti, a la
maritata si notanu li difetti.
Frati, jumi e parrini sunnu tri mali vicini.
Friscu comu li rosi.
Frivareddu è curtuliddu……ma nun c’è cchiù
tintu d’iddu.
Frivaru metti la frevi a li tirrena.
Fuiri nunnè ‘vriogna’…ma sarvamentu di vita.
Fumamu e jemu ‘nculu a lu cuvernu.
Fumu e dannu su malannu.
Fussi ca’ fussi.
Futti e futtitinni.
Futti, futti ca’ Diu pirduna a tutti.
* Enzo Motta ha scoperto che questo detto riguarda
una rivendicazione “sindacale ” che i capibarca
trapanesi espressero al vicerè spagnolo, che
pretendeva di avocare alla corona i berberi da loro
catturati.
Un brano da
"L'arte di
Annacarsi"
di Roberto
Alaymo
...C’era un
pasticcere
palermitano,
tale Gulì, che
alla fine
dell’Ottocento
decise di
specializzarsi.
Nel suo laboratorio di corso Vittorio Emanuele si
mise a produrre quasi esclusivamente frutta candita.
Come molti siciliani di tenace concetto, aveva
deciso di contraddire l’opinione più radicata.
Allora come oggi, tutto il mondo nutriva nei
confronti della frutta candita un sentimento
comune: la ripugnanza. Non la voleva nessuno.
Se c’era, veniva scartata accuratamente.
Non si conosce il motivo per cui Gulì si convinse
del contrario, che ci fosse all’orizzonte un boom di
richieste per la frutta candita.
Sta di fatto che il suo laboratorio si ritrovò in breve
tempo intasato di zuccata e mandarini imbalsamati.
Col magazzino pieno e sull’orlo della bancarotta,
ebbe un’intuizione che gli consentì di riciclare tutto
quel ben di dio.
Prese spunto da un dolce di origini molto più
antiche, la cassata, quella che oggi viene chiamata
cassata al forno: un involucro di pasta frolla
ricoperto di cannella e zucchero a velo che
custodisce il cuore di ricotta e cioccolato.
Su questa base lavorò di fantasia, imbarocchendo il
tutto con glassa di zucchero, pasta di mandorle e
naturalmente montagnole di frutta candita a fare da
guarnizione.
Libero ognuno, poi, di scartare la decorazione e
assaporare il resto.
Il risultato venne prontamente denominato cassata
siciliana in modo da sbaragliare anche l’ombra della
concorrenza da parte dell’umilissima cassata
originale, che si trovò da un momento all’altro
privata della propria identità.
La fortuna del nuovo dolce e del suo inventore fu
quella di trovare subito un formidabile veicolo
promozionale.
La facoltosa famiglia dei Florio, che a Palermo
ospitava regnanti e aristocratici di tutta Europa, fece
della nuova cassata il suo dono di rappresentanza.
16
Questi ospiti partivano da Palermo come altrettanti
involontari testimonial, convinti che quel
coloratissimo coacervo di zuccheri rappresentasse la
Sicilia più vera.
E ne incarnava, invece, soltanto la facciata.
Prodotti tipici siciliani: il gelato di campagna
(storia e ricetta)
Sembra un gelato come tutti gli altri, ma in realtà
non lo è: si tratta del gelato di campagna, dolce
della tradizione siciliana.
A Palermo, ad esempio, viene abitualmente
consumato nel periodo del Festino di Santa Rosalia
e fa capolino sulle bancarelle insieme a calia e
semenza.
Dolce coloratissimo ed invitante già al primo
sguardo, il suo ingrediente principale è lo zucchero
ed ha la caratteristica di sciogliersi in bocca, proprio
come un gelato vero e proprio.
Si potrebbe definire come una sorta di torrone
tenero e solitamente è a tre colori, che richiamano il
tricolore.
Oltre allo zucchero, tra gli ingredienti principali c'è
anche il pistacchio, che gli conferisce il tipico
colore verde (più o meno brillante), mentre bianco e
rosso sono ricavati da coloranti vegetali.
A completare la bontà del gelato di campagna
contribuiscono mandorle, cannella e frutta candita,
altri sapori tradizionali della Sicilia.
Il gelato di campagna è di origine araba; in seguito,
venne preparato nei monasteri (cosa che accadeva
spesso per i dolciumi) e si diffuse molto nel 1860,
per acclamare l'arrivo di Garibaldi e l'annessione
all'Italia.
Da allora, è sempre presente e inconfondibile, in
tutte le feste popolari.
Nel corso del tempo, questo prodotto tipico
siciliano si è aggiornato, ha cambiato colore e si è
affinato nell'aspetto, ma non ha per questo perso il
suo legame la tradizione, rimanendo sempre fedele
alla sua versione originale.
Ingredienti:
zucchero 1 kg
pistacchio 100 gr
mandorle macinate 150 gr
mandorle sgusciate 150 gr
acqua 100 gr
cannella q.b.
frutta candita (a piacere)
coloranti vegetali
Procedimento:
Per preparare il gelato di campagna, mettete in un
tegame l'acqua e scioglietevi lo zucchero: portate ad
ebollizione e continuate a rimescolare. Quando lo
zucchero farà il caratteristico "filo", aggiungete le
mandorle macinate e continuate a mescolare.
Unite anche le mandorle intere, i pistacchi, la frutta
candita a dadini e la cannella. Dividete il composto
e coloratelo con i diversi coloranti vegetali, quindi
sistemate le diverse parti in un unico stampo dalla
forma affusolata, che va posto in frigo per 12 ore.
Togliete dallo stampo, tagliate a fette e servite.
Dal sito medicinaedialogo curato dalla dott.sa
Maria Vittoria Brizzi Tessitore
Capire l'insonnia
L’insonnia, considerata uno dei mali del secolo, è
un disturbo notevole visto che il sonno è una
necessità non soltanto assoluta ma anche istintuale
dell’organismo. Se tale esigenza non viene
soddisfatta può costituire una minaccia per la salute.
Il numero delle persone che ne soffre è altissimo
come pure quello di tranquillanti, neurolettici,
ipnotici tesi al trattamento.
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Accenniamo ai diversi periodi della vita umana.
Capire l’insonnia del neonato è competenza, oltre
che del medico, anche dei genitori, della madre in
particolare visto il rapporto solitamente privilegiato
che ella ha con la propria creatura.
Quest’ ultima può opporsi all’allontanamento sia
fisico che psicologico della mamma rifiutando, non
soltanto di nutrirsi ma anche di riposare.
Una maternità rifiutata, sia apertamente che
nell’inconscio, può creare nel bambino degli
squilibri comportamentali duraturi anche nel tempo
futuro.
Sono invece, generalmente, considerati soltanto
episodi, i bruschi risvegli dei piccoli durante la
notte.
Mi riferisco al “pavor nocturnus” durante il quale il
bambino si sveglia, urla, si siede sul letto in preda a
stato ansioso e di terrore.
Di solito bastano poche parole rassicuranti per
calmare la situazione ma l’aver constatato un
disagio inconscio nel figlio, farà certamente
meditare i genitori consapevoli. In seguito, durante
l’età scolare e fino all’adolescenza, iniziano a
ravvisarsi nell’essere umano, speranze e
inquietudini che verranno poi allo scoperto durante
la prima giovinezza caratterizzata dalle reazioni più
varie, non di rado violente. Fra turbamenti e sensi di
colpa, il giovane che, per le difese dell’età conosce
di rado una insonnia completa, avrà, comunque, il
sonno turbato e disturbato.
L’inconscio non perdona, emerge sempre anche in
Freud che di inconscio si intendeva, lo ha posto in
una zona limite della coscienza.
Gli adulti e gli anziani, quando sono posti di fronte
agli inevitabili fallimenti della vita possono (forse
più facilmente che nell’età precedente) cadere in
forme depressive. Queste impediranno loro di
riposare.
Se però il loro “io cosciente” sarà aiutato a
esercitare la ragione e a dare per scontati gli alti e i
bassi dell’ esistenza, essi rientreranno nella realtà
che durante la crisi rifiutavano.
Tale rientro sarà un ulteriore investimento sulla
vita, forse anche una sfida all’insonnia. Per
ricominciare da capo.
A qualsiasi età.
Terapia La cura farmacologica, se necessaria, sarà
prescritta dopo la comprensione da parte del
medico, dei problemi del malato e potrà variare,
perciò, di tipologia e posologia in rapporto alla
necessità di ogni singolo paziente.
PILLOLE DI CINEMA
“Belluscone – Una storia Siciliana”,
Protagonista una Palermo popolare che si nutre di
mafia, di musica neomelodica, di mezze frasi e di
feste di piazza - il nuovo film di Franco Maresco,
prodotto da Rean Mazzone e dalla sua Ila – Palma.
Diciamolo subito, giusto per fugare ogni dubbio: il
film è bello, a tratti geniale, ma la bravura di
Maresco è nota e Belluscone non è altro che una
sintesi di un modo di fare cinema a cui il regista
palermitano ci ha abituato da anni.
O meglio, ha abituato il suo pubblico.
Che fino ad ora non è stato mai numeroso.
Adesso, con questo film lo diventerà senz’altro un
po’ di più e il segreto sta nel titolo, dedicato a
Silvio, e in una spolverata berlusconiana qua e là,
che conferisce alla pellicola mareschiana quel
lasciapassare d’immagine, che l’ha fatta salutare al
Festival del cinema di Venezia con un tripudio di
applausi.
Insomma, in parole povere, l’intelligenza di Franco
Maresco ha saputo dare ad un film dei suoi la
lettura berlusconizzante, che in un Paese come
l’Italia è il miglior modo per diventare visibili.
E infatti, per adesso tutti (o quasi) ne parlano.
Ovviamente dal centrodestra piovono le solite,
scontate, critiche. Da parte delle macerie di sinistra,
invece, arrivano parole d’elogio all’indirizzo del
regista e del suo lavoro. Insomma, tutto secondo
copione.
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Ma il palermitano Maresco i copioni li stravolge.
E così, il film è l’occasione non tanto per ricordare
la solita storia dei presunti contributi di Stefano
Bontade e della mafia palermitana all’ascesa dell’ex
Cavaliere di Arcore (quella è la cornice), ma per
tratteggiare il rapporto che con lui ha avuto da
sempre il popolo palermitano, un rapporto misto di
idealizzazioni e speranze, di osanna e di protezione.
Insomma, “Silvio santo subito”, come recitava un
cartello in uno dei meeting palermitani di Forza
Italia del “bel tempo che fu” non è una boutade, ma
quello che pensavano in tanti. E c’erano i sorrisi
rassicuranti dei Miccichè e dei Cammarata, quando
Angelino Alfano e l’ultima generazione di azzurri
non erano manco nel grembo di mammà.
Ed eccezion fatta per la parte interpretata nel film
da Tatti Sanguineti, sono due gli attori d’eccezione
in questa pellicola.
Uno si chiama Marcello Dell’Utri, che con
Berlusconi è stato il fondatore di Forza Italia:
l’inseparabile amico palermitano di Silvio che
mandò da lui ad Arcore Vittorio Mangano ad
accudire la fattoria e i suoi figli.
L’altro protagonista, che ruba la scena a tutti, è
Ciccio Mira, impresario di cantanti neomelodici e
organizzatore di spettacoli di piazza nei quartieri
popolari di Palermo.
Maresco è rivoluzionario molto più di quello che la
sinistra ha compreso, perché nel suo film riabilita
Dell’Utri, attualmente ospitato nelle patrie galere,
assegnandogli un ruolo che lo rende simpatico al
pubblico.
L’ex senatore azzurro, infatti, seduto su un trono
comincia a svelare alcuni misteri d’Italia che
afferma di condividere con Silvio, quando il
registratore si rompe per un guasto tecnico e l’audio
va via. Insomma, un banale guasto diventa
un’occasione mancata per scoprire alcuni celebri
buchi neri della storia democratica del nostro Paese.
E Dell’Utri vola nell’Olimpo del cinema, come
colui che da palermitano si presta a giocare il ruolo
assegnatogli dal regista, molto più intelligente
rispetto agli isterici piagnistei dei dirigenti
forzitalioti di oggi.
Ma Ciccio Mira è il re incontrastato del film. È lui il
vero protagonista, altro che Berlusconi. Pontifica
sulla mafia a mezze parole, legge i messaggi “agli
ospiti dello Stato” che parenti e amici dei detenuti
gli consegnano durante i concerti nelle feste di
piazza, viene intercettato mentre parla con un boss
del mandamento mafioso di Porta Nuova e non fa
mistero delle sue idee, quando dice che la vecchia
mafia, quella di una volta, era altra cosa rispetto a
quella di adesso. Per non parlare delle trasmissioni
sull’emittente Tsb dedicate ai nuovi talenti della
musica partenopea. Insomma, un istrione.
Un grande attore consumato di se stesso, che
interpreta se stesso nel migliore dei modi, bucando
il video nell’interpretazione-verità tanto cara al
regista fin dai tempi in cui faceva coppia con
Daniele Ciprì.
Insieme a Mira ci sono anche i cantanti neomelodici
a raccontare se stessi. E a litigare fra loro.
Ma tanto poi ci pensa il duo Ficarra e Picone a
“mettere pace”. Niente di nuovo sotto il sole. È
Palermo.
È quello che avviene giornalmente in una città che
si nutre di grandi offese, di silenzi, di mezze parole,
di omicidi, di vendette e di strette di mano
chiarificatrici.
E Ciccio Mira è la faccia di questa Palermo, che già
alcuni anni or sono proprio il duo Ciprì e Maresco
avevano dipinto in “Enzo, domani a Palermo”,
raccontando quell’Enzo Castagna, impresario di
pompe funebri e al tempo stesso impresario
cinematografico, finito pure lui in gattabuia per il
solito “errore giudiziario”. In pratica, il “gemello”
di Mira. Quella volta, però, il film non ebbe la
stessa visibilità. Mancava l’ultimo tocco. Mancava
il riferimento a Silvio.
E Berlusconi? Dovrebbe ringraziare e disporre la
messa in onda del film in prima serata su Canale
Cinque. Sarebbe il minimo per ringraziare Franco
Maresco e per far stare zitte le moltitudini di oche
starnazzanti di cui spesso si circonda.
Se ci fosse ancora Dell’Utri al suo fianco, di certo
così sarebbe…
Oltre al prestigioso premio Orizzonti, Belluscone ha
portato a casa il Premio Arca CinemaGiovani e,
solo due giorni fa, il riconoscimento come
migliorFilm della Critica assegnato dal SNCCI,
Sindacato Nazionale Critici Cinematografici
Italiani, diviso con Anime nere di Francesco Munzi
e The Look of Silence di Joshua Oppenheimer
(quest’ultimo insignito in Laguna col Gran Premio
della Giuria).
E in sala? Bene anche su quel fronte.
Grande successo alla prima nazionale al
Nuovofilmstudio, dove Tatti malgrado una brutta
frattura, non ha voluto mancare per presentare e
commentare il suo film, raccontando del back stage
e delle difficoltà della produzione.
Mentre malgrado un modesto impegno della
distribuzione il film indipendente sta riscuotendo un
notevole successo Una riprova dello spazio che il
Cinema deve ritagliarsi nel panorama del grande
spettacolo italiano.
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Diamo il benvenuto al Capitano di Vascello,
Vincenzo VITALE, nuovo Comandante della
Capitaneria di Porto di Savona.
Milazzese, come il nostro indimenticato Stefano
Bertè e come il grande Luigi Rizzo da noi
recentemente commemorato.
Un altro benvenuto al nuovo Comandante della
Compagnia dei Carabinieri di Savona il Cap. Dario
RAGUSA, agrigentino e figlio di un compagno di
infanzia del presidente Enzo Motta.
APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
NUOVOFILMSTUDIO presenta
Una rassegna di film su AMBIENTE,
ALIMENTAZIONE, STILI DI VITA
Giovedi 2 ottobre L’Economia della felicità
Giovedi 9 ottobre Plastic Planet
Giovedi 16 ottobre Canned Dreams
Tutti gli spettacoli avranno inizio alle ore 21,00
INGRESSO LIBERO
Sabato 25 ottobre 2014, alle ore 16,30 Nella Sala Rossa del Comune di Savona
gentilmente concessaci presenteremo il libro di
poesie del nostro Angelo Guarnieri:
TEMPO NOSTRO
Letture di Bepi Benzo
E’ atteso l’intervento degli autori delle prefazioni
Adriano Sansa, magistrato e poeta e della
psichiatra Grazia Depau
Letture di Bepi Benzo
Venerdì 3 Ottobre alle ore 17:00
OFFICINE SOLIMANO
SALA NUOVOFILMSTUDIO
Asl2 savonese, Comune di Savona, Ministero della
Salute, Ordine dei Medici di Savona, Ordine degli
Psicologi della Liguria, Federazione Italiana di
Sessuologia Scientifica, European Federation of
Sexology
Giovani e sexting: nuove realtà, nuovi problemi,
nuove sfide educative
Il fenomeno sempre più diffuso del sexting (l'invio
di foto e video sessualmente espliciti o di testi a
sfondo sessuale attraverso i nuovi media) fra i
giovani sta ponendo tutta una serie di nuovi
problemi e interrogativi.
In questo incontro rivolto a genitori, insegnanti,
operatori socio-sanitari il fenomeno verrà analizzato
alla luce delle più recenti indagini nazionali,
mettendone in luce i pericoli, da quelli più evidenti
come il cyberbullismo o l'adescamento on-line, a
quelli più nascosti, poiché dietro a comportamenti
apparentemente liberi e volontari può celarsi una
pressione e un condizionamento che risulta
particolarmente accentuato - e sofferto- per il sesso
femminile. Si discuterà sulla necessità di un'azione
educativa di fondo che consenta ai giovani da un
lato di sviluppare la consapevolezza dei rischi,
dall'altro di rafforzare le capacità personali e
interpersonali necessarie per vivere le relazioni
sentimentali e sessuali in modo costruttivo e
responsabile.
Relatore:
Dott. Piero Stettini (Psicologo psicoterapeuta
Centro Giovani ASL 2 Savonese, Docente di
Psicologia Generale e Psicologia Clinica presso
l'Università di Genova e Professore al Master di
Sessuologia Clinica di II livello presso l'Università
di Pisa).
Sarà presente personale esperto della Polizia di
Stato (Specialità Polizia Postale e Comunicazione).
Santuzzo