Post on 15-Feb-2019
1. ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO E RELAZIONI INDUSTRIALI
INDICE TESTI
2018
• Cinque parole chiave e una decina di storie per riprendere la discussione sulla qualità del
lavoro, Firenze
2017
• Partecipazione diretta e produttività: un legame positivo, con L. Pero, ISMO
• Il futuro della contrattazione: professionalità, produttività, partecipazione
• La partecipazione dei lavoratori nelle imprese, Fondazione Unipolis
• Organizzazione del lavoro e relazioni industriali. Una rassegna degli studi degli ultimi venti
anni in Italia, ECOLAV
2016
• Come è cambiato il lavoro nei luoghi di lavoro, Fondazione Tarantelli
2015
• Partecipazione diretta e produttività, quale futuro nelle Relazioni industriali in Italia?, con
Giuseppe Della Rocca, AREL
• Continuità e discontinuità nelle esperienze di partecipazione dei lavoratori all’innovazione
produttiva. Partecipazione istituzionale e partecipazione diretta, con Giuseppe Della Rocca,
ECOLAV
2014
• Il nuovo lavoro industriale tra innovazione organizzativa e partecipazione diretta, con L.
Pero, ASTRID
2013
• La contrattazione della produttività. Piani, non solo premi, QRS
2007
• Il lavoro e le professioni nell’era di Internet, S&O
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Cinque parole-chiave e una decina di storie per riprendere la discussione sulla qualità
del lavoro1
Anna M. Ponzellini
Una versione riveduta di questo lavoro è pubblicata in: G. Mari, A. Cipriani e A. Gramolati, Lavoro
4.0. La Quarta Rivoluzione Industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, Firenze
University Press, Firenze, 2018.
Abstract
La tesi di questo contributo è che il concetto di qualità del lavoro merita una comprensione più analitica e ragionata delle dimensioni che ne sono coinvolte, soprattutto di quelle che perdurano nel tempo. Ciò anche in funzione di un miglioramento della rappresentanza degli interessi dei lavoratori, a tutt’oggi ancora concentrata e forse inevitabilmente, sui temi del salario e della gestione delle crisi. Più che porsi la domanda se la qualità del lavoro sia, anche attraverso le tecnologie, migliorata o peggiorata – a cui si rischia di dare risposte banali - il testo si interroga su quali siano le dimensioni attraverso le quali sia possibile analizzare e valutare la qualità della vita di lavoro. Vengono quindi considerate cinque dimensioni-chiave – sapere, intelligenza, partecipazione, senso, libertà – così come appaiono dall’osservazione ravvicinata del lavoro nei luoghi di lavoro e dal rapporto dei lavoratori col lavoro. L’obiettivo non è quello di costruire una vera e propria tassonomia ma solo di avviare un discorso sulla qualità lavoro e sul significato che il lavoro ha nella vita concreta delle persone. Per meglio chiarire gli aspetti che si vogliono analizzare, vengono portati esempi raccolti nel corso di molte ricerche empiriche e interventi di consulenza sul cambiamento organizzativo, sull’impatto delle tecnologie, sul rapporto col lavoro di giovani e di donne (senza del tutto eluderne i lati in ombra). La conclusione che viene tratta è che - sebbene le tecnologie abbiano col tempo migliorato enormemente aspetti del lavoro come l’ergonomia e l’ambiente e facilitato la libertà di tempo e di spazio per chi lavora e seppure nell’insieme preferenze e aspettative dei lavoratori siano mutate in relazione al cambiamento del mix dei soggetti presenti nei luoghi di lavoro - in definitiva non è affatto mutato ciò che i lavoratori considerano un “buon lavoro”. Questo perché le dimensioni-chiave della qualità del lavoro sembrano affondare le loro radici nei bisogni umani fondamentali.
1 Questo lavoro prosegue idealmente un lavoro precedente di analisi dell’evoluzione delle forme di
organizzazione del lavoro dagli anni Settanta in poi, nell’ottica della Relazioni industriali (Ponzellini A. M., Organizzazione del lavoro e relazioni industriali. Una rassegna degli studi degli ultimi 20 anni in Italia, in «Economia e lavoro», n. 1, 2017, pp. 147-164). Rispetto al lavoro precedente, che faceva un confronto nel
tempo, qui provo ad individuare e tematizzare alcune dimensioni della qualità del lavoro anche alla luce della mole non indifferente di ricerca empirica e interventi di consulenza nei luoghi di lavoro svolti da me e da altri su
questo tema negli ultimi anni.
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Introduzione. Il lavoro nei luoghi di lavoro e la sua qualità Come è successo anche in passato di fronte alle svolte tecnologiche, da quando si è cominciato a parlare di Industria 4.0 l’attenzione degli studiosi e delle parti sociali si è concentrata sul prevedibile impatto delle tecnologie sul lavoro in termini di quantità e dimensioni dell’occupazione, cioè sui lavoro “a livello macro” (employment). Ma i cambiamenti globali dei mercati e l’innovazione tecnica stanno soprattutto modificando il lavoro “a livello micro”, ovvero il contenuto del lavoro (work). Quello che potremmo chiamare “il lavoro nei luoghi di lavoro”.
Tra l’altro, solo una analisi più approfondita di quanto avviene concretamente nei luoghi di lavoro - come le tecnologie modificano i processi, quali nuove competenze digitali sono richieste agli operatori, quali specialismi vengono integrati nei nuovi algoritmi e quali non sono (ancora) standardizzabili, come le vecchie competenze si adattano e si sviluppano dentro il cambiamento tecnico reale, se crescerà la routine o l’autonomia, se le tecnologie aumenteranno le opzioni disponibili per rapporti di lavoro disegnati sulle preferenze individuali - può dare risposte verosimili anche sul futuro dell’occupazione e sul dilemma della polarizzazione del mercato del lavoro che stanno tanto appassionando gli studiosi e le agenzie economiche nazionali e internazionali.
La domanda che si pone questo testo è se le innovazioni tecniche - ma anche i mutamenti del rapporto col lavoro dei soggetti presenti sul mercato del lavoro - stanno cambiando ciò che, con termine generico e in parte ambivalente, intendiamo per “qualità del lavoro”. Prima di poter rispondere a una domanda, apparentemente banale, come quella se sia migliorata o peggiorata negli ultimi anni la qualità del lavoro, è infatti necessario esaminare quali siano le dimensioni della qualità del lavoro che importano ai lavoratori. In effetti, la qualità del lavoro è un concetto multidimensionale ed è anche in parte una definizione mobile, nel senso che è possibile che nel tempo si modifichino le sue dimensioni di riferimento, probabilmente anche in ragione dei cambiamenti culturali, del mutare delle ideologie del lavoro, del cambiamento del mix di soggetti presenti nel mercato del lavoro.
Alcuni concetti-chiave, tuttavia, ritornano nel tempo a confermarci l’esistenza di un nucleo solido di caratteristiche attorno a cui ruota la definizione di ciò che, per i lavoratori, costituisce “un buon lavoro”. In un lavoro del 1979, J.C. Taylor del Tavistock Institute – che aveva già pubblicato con Davies un testo che è considerato una sorta di bibbia dell’approccio socio-tecnico alla progettazione dell’organizzazione del lavoro, Design of Jobs – ripartisce le qualità del lavoro in poche dimensioni estrinseche (wages, working conditions, hours) e in molte intrinseche (individual power, employee participation in the management, fairness and equity, social support, use of one’s present skills, self-development, a meaningful future at work, social relevance of the work or product, effect on extra-work activities): alcune di queste ultime – come potere individuale, partecipazione, prospettiva di senso, impatto sulle attività extra-lavorative – appaiono a distanza di quasi quarant’anni assolutamente moderne, e costituiscono vere e proprie riscoperte degli approcci più recenti all’analisi del lavoro.
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Approcci più convenzionali, come quelli della Fondazione europea di Dublino o di Isfol 2, hanno visto via via mutare nel tempo i fattori utilizzati per descrivere il lavoro. Fondazione di Dublino ha pubblicato la prima delle quadriennali European Working Conditions Surveys (EWCS) nel 1990 come “Survey on the Work Environment”, concentrandola dunque sugli aspetti della salute e dell’ambiente di lavoro, che in quegli anni erano in primo piano. Successivamente ha consolidato alcune alle aree-base di indagine - physical environment, workplace design, working hours, work organisation and social relationships at the workplace – aggiungendovi però via via dimensioni che riguardano gender, job security and insecurity, work-life balance, employee participation. In questo modo, ha segnalato l’importanza di tenere monitorati i cambiamenti che, nei ventiquattro anni tra la prima e la sesta indagine, sono intercorsi nel mercato del lavoro, nelle esigenze delle imprese e nelle aspettative dei lavoratori (Eurofound, 2015).
La tesi di questo lavoro è che il concetto di qualità del lavoro merita una ridiscussione contestualizzata ai tempi che viviamo e una comprensione più ragionata delle dimensioni che ne sono coinvolte, soprattutto di quelle che perdurano nel tempo. Ciò anche in funzione di un miglioramento della rappresentanza degli interessi dei lavoratori, a tutt’oggi ancora concentrata sui temi del salario e della gestione delle crisi (forse inevitabilmente). Saranno considerate cinque dimensioni-chiave, che a nostro parere ben rappresentano da un lato le aspettative e preferenze dei lavoratori ma anche alcune “buone” risposte delle organizzazioni, a dimostrazione di strade che è possibile percorrere per migliorare il lavoro. Per meglio chiarire gli aspetti che si vogliono analizzare, verranno portati esempi raccolti nel corso di recenti ricerche qualitative (studi di caso e interviste) e interventi sull’impatto delle tecnologie, sul cambiamento organizzativo, sul rapporto col lavoro di giovani e di donne (senza del tutto eluderne i lati in ombra). Essendo l’obiettivo del lavoro ricostruire quale sia “in potenza” la buona qualità del lavoro, l’analisi non va evidentemente considerata una descrizione delle attuali condizioni di lavoro nella loro generalità.
1. Sapere. La ricomposizione del “sapere operaio” non bastava all’operaio di Uddevalla
Per molto tempo, il concetto di qualità del lavoro è stato più o meno sovrapposto a quello di professionalità. Tutto il movimento internazionale della quality of working life (QWL) degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso – gli esperimenti sociotecnici, la Volvo di Kalmar, le isole di montaggio all’Olivetti, il progetto Utopia del sindacato scandinavo dei grafici, il progetto Saturn alla General Motors, fino al programma governativo tedesco di umanizzazione del lavoro (Program Forschung zur Humanisierung des Arbeitslebens) descritto da Kern e Schumann (1984) – man mano procedeva l’automazione spostavano la loro attenzione dalle condizioni ergonomiche (fatica, monotonia, rischi per la salute) a un’idea di qualità del lavoro identificata in larga misura come miglioramento del contenuto delle mansioni. Strumenti come job rotation, job enlargement e, specialmente, job enrichment erano incaricati di realizzare un disegno di espansione della qualità del lavoro che avrebbe condotto il sapere collettivo operaio a realizzare il controllo del ciclo produttivo: in qualche modo, lo sviluppo degli skills operai e la riappropriazione della conoscenza della produzione diventavano sinonimo di
2 Isfol considera come dimensioni della qualità del lavoro: ergonomia, complessità, autonomia, controllo, salario;
e come dimensioni della professionalità: qualificazione, competenze, discrezionalità (ISFOL, 2015).
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democrazia nel lavoro.
La stessa più importante survey periodica sulla occupazione nel Regno Unito, attiva dalla metà degli anni Novanta ad ora – Skills and Employment in Britain – radica la sua analisi del cambiamento del lavoro nei mutamenti nella composizione e qualificazione della professionalità: pur distinguendo tra competenze tecnico-specialistiche (broad skills) e competenze orizzontali (generic skills), l’approccio appare quello dell’analisi dei processi di qualificazione/dequalificazione, forse in ossequio all’idea prevalente nelle relazioni industriali, funzionale alla tradizionale contrattazione sindacale del salario, che il livello di qualificazione costituisca il principale, se non l’unico, “prezzo” del lavoro,3.
Questa idea che il miglioramento della qualità del lavoro debba consistere soprattutto in una ricomposizione – il superamento di quella che in senso più ampio Harry Braverman (1974) chiamava la fine dell’unità tra l’ideazione e l’esecuzione prodotta dall’applicazione del organizzazione scientifica del lavoro – o forse, più modestamente, in un arricchimento della professionalità, perdura ancora ora, e non solo nel mondo sindacale. Una ideologia che ha le sue radici nelle lotte operaie contro il taylorismo e nella utopia della ricomposizione delle conoscenze di mestiere frantumate dalla catena di montaggio che si svilupparono negli anni Settanta e Ottanta in Europa e USA (Butera, 1972)4. Una utopia che appare tanto più difficile da riproporre ora negli stessi termini, dato che ormai, persino nella manifattura, le conoscenze e le tecniche incorporate nei processi di produzione di un’auto, di un mobile o di un panettone non hanno quasi più nulla in comune col sapere e con gli attrezzi dei vecchi mestieri5.
L’operaio di Uddevalla. In realtà, come emerge da una conferenza di qualche anno fa sull’esperienza della Volvo, già l’operaio di Uddevalla non considerava tanto importante la conquista della nuova polivalenza permessa dalla “produzione in parallelo” delle automobili, che aveva sostituito la linea di montaggio in sequenza: anche se indubbiamente, sul piano della salute del lavoro, variare i tempi-ciclo faceva una forte differenza e questo rendeva
3 La survey contempla comunque anche altre dimensioni della qualità del lavoro: training, job control and participation, work effort and well-being, attitudes to work, workplace change. 4 Un progetto che tuttavia il sindacato italiano e la sinistra di quegli anni non capirono e forse, secondo alcuni, non vollero neppure che si realizzasse (Trentin, 1997) 5 In ogni caso, questo progetto di ricomposizione restò tutto interno al mondo industriale, dato che l’operaio-massa costituiva il soggetto sociale che forniva spunti concreti per la costruzione dell’ideologia. E, a ben vedere, il trattamento che l’automazione avrebbe più tardi riservato alle mansioni d’ufficio sarebbe stato comunque diverso: da un lato, pc, telefono personale e posta elettronica avevano eliminato definitivamente la figura della dattilografa e quasi completamente quella della segretaria, dall’altro gli impiegati addetti alla contabilità e alla gestione amministrativa, così come tecnici e disegnatori, con l’introduzione dei nuovi programmi software videro piuttosto uno sviluppo che un impoverimento delle loro professioni (anche se il loro numero si ridusse in modo consistente). Ancora diversa la situazione nei servizi, dove tranne rari casi non esistevano vere e proprie professioni: nella distribuzione commerciale, registratori di cassa, codici a barre e lettori ottici avevano effettivamente prodotto la divisione (tayloristica?) tra le attività dei cassieri e quelle dei rifornitori degli scaffali, ma nessuna cassiera rivendicò mai la ricomposizione di quella mansione (come l’addetto alla frittura delle patatine del fast-food non sembra rimpiangere la perdita di una presunta professione di cuoco di cui non ha memoria). Persino le nuove figure degli addetti ai call-centre – le cui mansioni per qualche verso furono standardizzate secondo una logica tipicamente tayloristica – testimoniano come sia difficile impoverire troppo la professionalità degli addetti ai servizi, anche perché di questi è sempre stato necessario salvaguardare i compiti spiccatamente relazionali.
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l’esperienza assolutamente valida, per gli operai fare sempre la stessa cosa, sia pure con tempi-ciclo molto lunghi, risultava comunque monotono. In aggiunta, l’operaio della Volvo non pensava affatto che il saper assemblare un intero veicolo gli avrebbe consentito di ricostruire una professionalità spendibile fuori dalla fabbrica: perché il nuovo sapere - che sicuramente si produceva e si accumulava – era un sapere collettivo, organizzativo, non spendibile fuori dall’ambiente tecnico-organizzativo dove era prodotto (non conduce a svolgere tout court le mansioni proprie del vecchio artigiano di mestiere, né del tecnico del processo o dell’ingegnere progettista, forse in parte solo quello del manutentore nei sistemi tecnici meno complessi) (Sandberg, 2013).
Riflettendo sull’esperienza della Volvo anche alla luce di alcune più recenti esperienze di ricerca nelle fabbriche tedesche, in quella stessa conferenza il sociologo tedesco Martin Kulhmann indicava che invece “la situazione è differente se le persone sono coinvolte in un progetto di miglioramento che dà a loro una reale possibilità di sviluppare il proprio lavoro, l’intero processo e le proprie condizioni di lavoro: a suo parere, è questo alla fine ciò che volevano anche i lavoratori di Uddevalla e che costituisce ancora adesso una parte importante dell’idea che hanno i lavoratori di cosa sia un buon lavoro6”. E aggiunge che “del lavoro in team, i lavoratori tedeschi apprezzano soprattutto la possibilità di decidere chi può prendersi un giorno di permesso o come pianificare insieme le ferie” (ibidem, pp. 51-52).
Come si vede da questa discussione, nuovi termini vengono usati per descrivere la qualità del lavoro: non più solo quelli del sapere e della polivalenza ma quelli del coinvolgimento, dell’influenza del lavoratore sull’organizzazione del lavoro, della possibilità di prendere decisioni. Si tratta di una qualità di lavoro declinata non più solo come “sapere” ma piuttosto come “potere”. Questa nuova descrizione di ciò a cui aspirano i lavoratori lascia inoltre emergere l’importanza che rivestono per la qualità del lavoro anche alcuni fattori esterni, come il rapporto tra tempo di lavoro e altri tempi della vita, che sono completamente slegati dal contenuto del lavoro.
La stessa idea di Bruno Trentin su come dovesse essere un nuovo modello di lavoro era in qualche modo più ampia della semplice ricomposizione delle mansioni, almeno al tempo de La città del lavoro: “un lavoro dotato di capacità polivalenti, capace di esprimere liberamente e arricchire un proprio sapere (e un suo “come fare”), capace di adattarsi ai mutamenti e agli imprevisti e soprattutto di risolvere problemi…” (Trentin, 1997, p.17). Sia pure incentrato sull’arricchimento del sapere, questo modello fa già riferimento a competenze non necessariamente legate alla qualifica ovvero a competenze che adesso chiameremmo orizzontali, come la “capacità di risolvere problemi”.7 E’ però l’accenno alla libertà (“esprimere liberamente”) che, a mio avviso, proietta ancora più avanti il suo progetto per il lavoro.
2. Intelligenza. La nuova organizzazione del lavoro vuole intelligenza, in cambio da’
riconoscimento
6 The Good Work fu proprio il nome del progetto per il nuovo modello di organizzazione della produzione (assemblaggio in parallelo) sperimentato tra il 1989 e il 1993 alla Volvo di Uddevalla (Kalmar) in Svezia. 7 Per avere una idea della modernità della riflessione di Bruno Trentin, basta dire che la “capacità di risolvere problemi complessi” è la competenza che il World Economic Forum in Future of Jobs & Skills considera in testa alla domanda di competenze delle imprese proiettata al 2010 (WEF, 2016).
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Quello che affermano sia Bruno Trentin che Martin Kuhlmann - che “ciò che vuole di più l’operaio è risolvere problemi...” - è in realtà anche la grande sfida della nuova organizzazione del lavoro. Nelle grandi imprese, soprattutto ma non solo manifatturiere, dove sono stati introdotti paradigmi organizzativi ispirati alla lean organisation - il just in time, la lotta agli sprechi, il miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi - il contributo consapevole e motivato dei lavoratori è considerato uno dei pilastri del nuovo modo di produrre. Ciò che viene richiesto agli operai di linea non è solo uno sforzo aggiuntivo nel tradizionale lavoro manuale ma un vero e proprio contributo cognitivo in termini di attenzione ai problemi e di ricerca di soluzioni nella logica del miglioramento continuo.
L’operaio di Pomigliano. Da quando è stato introdotto il WCM, l’operaio di un team dei montaggi alla FCA di Pomigliano ha visto un notevole miglioramento ergonomico e una riduzione della monotonia attraverso la possibilità di rotazione delle postazioni, ma soprattutto sperimenta un ingaggio della sua intelligenza e della sua affidabilità nel controllo della qualità. Usare la testa e non solo le mani costituisce indiscutibilmente un job enrichment, anche se prestare attenzione ad ogni singola operazione e a ciascuna unità di prodotto lavorata aumenta il livello di responsabilizzazione ed è causa di stress, come rileva l’indagine della FIM-CISL. Eppure il contributo cognitivo e la responsabilizzazione che vengono richiesti sono probabilmente la ragione per cui il 93% dei lavoratori di Pomigliano “sentono di contare di più” e sono più soddisfatti di quelli che lavorano in altri stabilimenti FCA dove il WCM non è ancora applicato, o almeno non del tutto (Neirotti, 2015).
Come emerge da questo caso, l’impegno della propria intelligenza è immediatamente legato alla significatività attribuita al proprio lavoro e, in definitiva, al proprio valore. L’intelligenza dunque porta la qualità del lavoro su un piano diverso, non più necessariamente riferibile ad una competenza e anche maggiormente individualizzato: infatti, se esperienza e sapere possono essere declinati sia sul piano del singolo che su quello collettivo, l’intelligenza è un talento e un comportamento individuale, anche per chi lavora in un team. Gli strumenti più sistematici che usa la lean organisation per integrare nei processi l’intelligenza dei lavoratori sono i sistemi di suggerimenti e i gruppi di qualità8. Questi sistemi sono applicati con intensità diversa nei vari contesti: un sistema di suggerimenti può essere banalizzato in formule tipo la scatola delle idee ma più spesso, dove vengono applicati forme evolute di lean, esiste un ciclo di suggerimenti strutturato che procede attraverso la raccolta, la selezione, la eventuale sperimentazione della proposta, a volte la premiazione dell’autore o del team.
L’operaia di Elica. L’operaia che produce cappe da cucina su una linea di montaggio di Elica, dove il WCM è stato introdotto progressivamente a partire dal 2010, sa che il suo suggerimento può eliminare i movimenti superflui, gli sforzi fisici non necessari e abbassare il rischio di infortuni e quindi rendere migliore la sua giornata lavorativa. Che qualcuno ascolti le sue osservazioni su come ridurre gli sprechi di materiale o come migliorare il prodotto (cosa che, oltretutto, le sta a cuore, visto che anche lei cucina..) la fa sentire orgogliosa di sé. Ha
8 Negli ambienti impiegatizi e professionali delle grandi imprese sono attualmente diffuse anche le engagement survey - una formula un po’ più evoluta di ascolto dei dipendenti rispetto alle più note indagini del clima organizzativo - che raccolgono le proposte di cambiamento espresse dai dipendenti: tuttavia, la finalità motivazionale di questo strumento appare di gran lunga superiore alla richiesta di contributo all’innovazione (come si evince anche dal fatto che sono ideate e gestire dai responsabili HR e non da quelli delle line).
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partecipato a iniziative di formazione e a programmi di job rotation che le hanno fatto comprendere bene il funzionamento del ciclo del prodotto e sa che se la sua proposta di miglioramento sarà selezionata, le verrà dato l’incarico di coordinare un piccolo gruppo, formato non solo dai colleghi di linea ma da responsabile di reparto, manutentori, ingegneri e analisti, che esaminerà la fattibilità della modifica e, nel caso, la metterà in sperimentazione (Pero e Ponzellini, 2015).
Siamo qui di fronte a uno sviluppo della prestazione dell’operatore industriale che va almeno in parte in direzione del superamento della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale9. Non solo nel senso del contributo cognitivo richiesto agli operatori di linea ma anche nel senso che, nei nuovi siti manifatturieri, operai e ingegneri lavorano nello stesso ambiente fisico e in alcune situazioni spalla a spalla. Inoltre, i nuovi sistemi di manifattura 4.0 che si stanno diffondendo nei grandi impianti industriali sono dotati di sofisticate interfacce tecnologiche che consentono la sistematica messa in comune delle competenze specialistiche di tecnici e ingegneri con l’esperienza degli operai, creando attraverso queste contaminazioni una conoscenza d’impresa condivisa.10
Naturalmente, non bisogna sorvolare sul fatto che anche nei nuovi paradigmi industriali i tempi-ciclo delle mansioni restano in genere brevi e il ritmo controllato dall’automazione in modo non dissimile alla vecchia OSL (organizzazione scientifica del lavoro). Nonostante gli incontestabili miglioramenti dell’ergonomia che hanno accompagnato lo sviluppo di queste innovazioni, il lavoro di linea resta dunque ripetitivo e i ritmi serrati. Eppure, con la richiesta ai lavoratori di un contributo cognitivo, si compie un passaggio fondamentale: il “lavoratore senza volto” del taylor-fordismo (Zuffo, 2004) attraverso il suo contributo di intelligenza diventa quantomeno “visibile”. E questo, secondo Axel Honneth (2017), è il passaggio indispensabile per ottenere riconoscimento.
I professional del Comune di Alessandria. Il gruppetto di contabili, informatici e tecnici, dipendenti del Comune di Alessandria, che nel 2012 si trovarono nel pieno del dissesto del Comune e con l’annuncio di 300 esuberi, non sapevano che nei mesi successivi avrebbero affrontato la più avventurosa sfida alle loro intelligenze. Fu loro l’iniziativa di lanciare, con il supporto del sindacato, un piano di eliminazione degli sprechi - pratica connessa ai sistemi di lean organisation - in cui tutti i dipendenti erano invitati a inviare proposte di risparmio o a segnalare opportunità di incremento delle entrate. Con un lavoro serrato e appassionato, in meno di tre mesi e una quindicina di incontri, riescono ad affrontare aspetti che aspettavano da anni una soluzione: viene modificato l’appalto delle pulizie, rifatti i contratti telefonici (con forti recuperi rispetto a vecchissimi contratti che non erano mai stati rivisti), ridotto l’uso della carta, praticamente eliminate le spese postali, affrontato il problema della riduzione delle spese di energia. I risparmi, contabilizzati per singola voce e approvati dalla Giunta, consentiranno di ridurre quasi completamente la necessità di esuberi (Ponzellini, 2016)
Mettere in gioco la propria intelligenza rappresenta una sfida per chi lavora – perché non sempre si riesce a prevedere se si sarà o no all’altezza del compito - non stupisce che produca stress, come spesso viene raccontato quando si parla dei nuovi paradigmi
9 Se non la fine della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, questi sviluppi sanciscono quantomeno la definitiva inconsistenza dei sistemi di classificazione tradizionali. 10 FCA ha raccolto, attraverso le osservazioni dei tecnici e l’esperienza operaia ben 22 mila best practices applicative, che costituiscono il patrimonio di competenza dell’azienda e vengono usate quando si deve pianificare un nuovo sito.
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organizzativi. Tuttavia, la non molta ricerca empirica fin qui realizzata sulle reazioni dei lavoratori a queste forme di ingaggio cognitivo conferma una buona soddisfazione dei lavoratori (Pero, Ponzellini, 2015; Pero, 2015). Prestare la propria intelligenza è un rischio ma la gente ha voglia di correrlo, sembrerebbe...
3. Partecipazione11. Uno spazio da costruire tra autonomia e controllo
Il fatto che l’ergonomia, il modo di produrre e lo stesso prodotto possano essere messi in discussione e migliorati a partire da una mia idea – come succede a Pomigliano, a Melfi, a Termoli, in Elica o, a volte, anche in un Comune - viene descritto dai lavoratori come senso di “contare di più”. In questa percezione ha sicuramente un peso il rendersi conto di avere il potere di influire sulla propria mansione, di ridurne la faticosità o migliorarne le attrezzature. Ma s’intravvede soprattutto la risposta a un bisogno di riconoscimento più ampio di sé come soggetti, la reazione alla espropriazione dell’autonomia personale prodotta dalla subordinazione: una risposta che ha a che fare con la nuova antropologia del lavoro, caratterizzata dall’avanzare di processi d’individualizzazione nel rapporto con la vita e col lavoro. Usare la propria testa oltre alle braccia, contare di più e sentirsi protagonisti apre la strada a una nuova dimensione della qualità del lavoro, quella della partecipazione.
La partecipazione diretta nasce innanzitutto come pratica manageriale di coinvolgimento: nelle organizzazioni più competenti è ormai consolidata la consapevolezza che se si vuole ottenere fluidità e velocità della produzione, eliminazione delle scorte, degli scarti e degli sprechi, miglioramento continuo della qualità è indispensabile avere collaboratori attivi, motivati e “in gioco” e che questo significa non fermarsi alla razionalizzazione dei processi ma introdurre forme più avanzate di management delle risorse umane. Il coinvolgimento dei lavoratori sugli obiettivi aziendali si attua innanzitutto attraverso un sistema d’informazione continua (sugli obiettivi, sui risultati, sui problemi, sui cambiamenti, sulle tecniche adottate, etc.), finalizzato ad aumentare la chiarezza degli obiettivi del lavoro e la motivazione dei lavoratori.
Negli ambienti del lavoro di massa – come i montaggi nella manifattura, i call centre, i grandi ambienti commerciali – il coinvolgimento si realizza spesso attraverso il sistema del lavoro in team: la squadra funziona contemporaneamente come struttura organizzativa semiautonoma, centro di controllo, ambito di sviluppo delle competenze (non più solo manuali e tecniche ma anche cognitive e comportamentali) e di creazione di conoscenza condivisa. Nei casi più avanzati, il team è anche ambito di autogestione dei tempi di produzione e dell’orario di lavoro. Siamo qui di fronte a un nuovo modo di concepire il lavoro, al quale viene concessa
11 Qualcuno trova (ancora) intrigante la presunta contrapposizione novecentesca tra coinvolgimento e partecipazione (Cattero 2016). Che “coinvolgimento” significhi un’azione top-down del management e “partecipazione” un’azione bottom-up del dipendente - sotto forma di risposta all’azione manageriale, di adesione culturale spontanea o di vera e propria iniziativa - ce lo confermano oltre che il buon senso, il dizionario italiano e un po’ di teoria manageriale. Le ragioni per cui alcuni di noi preferiscono usare indifferentemente l’uno o l’altro di questi termini (Ponzellini e Della Rocca, 2015; Della Rocca, 2017) non sono solo perché questo è ormai l’uso delle agenzie internazionali (employee involvement and participation è il termine usato da Eurofound) ma perché, fuori dalle rispettive retoriche, i confini tra le due forme sono, alla prova dei fatti, del tutto labili e quello della partecipazione/coinvolgimento si potrebbe forse definire un clima più che una pratica strutturata o una azione/reazione consapevole.
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più autonomia ma anche più responsabilizzazione.
L’operaio di Eisenach. L’operaio della Opel di Eisenach 12 che lavora nel sistema del Gruppenarbeit sa di appartenere a una autonoma “unità sociale” che gli fornisce una precisa identità collettiva. Il team in cui lavora funziona in base ad una delega che riguarda i rispetto e la qualità dei programmi di produzione, la distribuzione del lavoro tra i membri, i cambi turno, la standardizzazione del processo, l’utilizzo ottimale degli impianti ivi inclusi i compiti di manutenzione, l’obiettivo dell’azzeramento delle differenze interne di rendimento. Oltre a programmi di formazione continua, generalisti e specifici alla mansione, ha accesso a “qualificazioni sociali” come lavoro di gruppo e gestione dei conflitti. Rispetto al collega di FCA, ha uno spazio di partecipazione più ampio: intanto può candidarsi a “portavoce” (team leader) attraverso un concorso interno, inoltre il suo team leader sarà nominato formalmente dall’azienda ma su proposta sua e degli altri componenti del team (Cattero, 1995).
Lo spazio di autonomia che si realizza nei team - in molti casi ancora limitato, soprattutto se visto nell’ottica di una definitiva emancipazione del lavoro - potrebbe rappresentare un primo nucleo di quella più ampia democrazia del lavoro che sembrano promettere alcuni sviluppi di Industria 4.0: le nuove tecnologie e soprattutto Big data e accessi facilitati alle informazioni consentiranno infatti un massiccio empowerment “di fatto” delle strutture di base e dei singoli lavoratori e, promuovendo tutte le forme di coordinamento orizzontale e di cooperazione tra i dipendenti, metteranno finalmente fuori mercato le forme tradizionali di coordinamento gerarchico (Bartezzaghi et al., 2017). Uno sviluppo organizzativo che la lean production aveva promesso ma poi realizzato solo in parte.
L’agente di Polizia municipale. L’agente di Polizia locale di uno dei Comuni dell’Associazione di comuni dell’Andrianese, a nord di Bari, fa parte della “Community degli agenti”, comunità professionale che si è costituita da qualche anno tra gli agenti di polizia dei 14 Comandi di Polizia municipale, finalizzata a individuare le pratiche migliori e renderle omogenee sul territorio. Partecipa a iniziative di incontro e di training, si confronta con i colleghi degli altri Comuni sulla individuazione dei problemi e delle soluzioni operative e, attraverso un gruppo whatsapp, risponde al lancio di questioni da risolvere, aiuta i colleghi con suggerimenti in tempo reale, mette in comune le sue esperienze. La comunità di pratiche si è rivelata una modalità di organizzare il lavoro che “ha creato entusiasmo negli agenti e rafforzato la determinazione dei comandanti” (Ponzellini, 2017a).
A differenza dei team, le comunità di pratiche sono quasi sempre generate bottom-up da una iniziativa di piccoli gruppi di dipendenti - in genere professional che condividono un insieme di metodologie tecnico-specialistiche - che poi si estende anche trasversalmente a più aziende13: la loro particolarità è infatti quella di appoggiarsi sul web e sull’uso dei social networks, strumenti che permettono una rapida comunicazione tra i membri ma soprattutto consentono che iniziative locali diventino in poco tempo reti globali. Per questa ragione, piuttosto che un’identità legata alla cultura aziendale, gli appartenenti ad una comunità di pratiche condividono una forte identità professionale. Se in futuro, come sembra, le tecnologie renderanno sempre meno coeso ed importante il riferimento ad una impresa, questi ambiti di partecipazione professionale potrebbero rivelarsi interessanti fulcri di
12 Lo stabilimento non è più attivo dagli anni Novanta. 13Le prime a formarsi sono state quelle degli informatici nella condivisione degli sviluppi software, ma sono note quelle tecnici di perforazione dell’Eni, molte communities nell’ambito medico, etc.
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organizzazione del lavoro e delle competenze.
Un’esperienza realmente partecipativa è dunque riconoscibile dove esista una delega, esplicita o implicita, del potere decisionale che comporta qualche forma di “empowerment” del dipendente (Piccardo, 1995): in base a questa il lavoratore acquisisce spazi di autodeterminazione collettivi o individuali. Se l’intelligenza fornisce visibilità e riconoscimento al singolo, il coinvolgimento in un gruppo, in una comunità o in generale in una azienda produce autonomia, senso di appartenenza e identità collettiva.
Tuttavia, bisogna tenere conto anche delle parti in ombra di questa operazione di delega. Un team ha una sua autonomia ma funziona anche, sia pure indirettamente, come ambito di controllo tra pari, dove l’assenteista o il lavativo – ma anche chi è meno veloce nel lavorare (o nel capire) - non deve più rispondere solo al responsabile del personale o al capo ma anche alla pressione dei suoi compagni, soprattutto se sono in gioco standard produttivi, target da rispettare e premi collettivi. Nelle organizzazioni basate sul lavoro in squadra, quindi al controllo gerarchico si sostituisce quello del gruppo dei pari, a sua volta “corroborato” dalla attività di team-building esercitata dal team leader14.
Il passaggio a forme più sofisticate di controllo è, d’altra parte, una tendenza generale delle nuove organizzazioni. Secondo Duncan Gallie (2001), l’accentuata divisione del lavoro prodotta dal taylorismo e la forte pressione della supervisione diretta hanno creato nei lavoratori una demotivazione generalizzata: questa è la ragione per cui ormai da tempo il management è impegnato a passare dal “controllo al committment”, offrendo ai dipendenti più ampia qualità intrinseca del lavoro sotto forma di sviluppo professionale e delega di responsabilità sulle decisioni concernenti la propria attività e in questo modo sperando di ottenere adesione agli obiettivi dell’organizzazione e impegno. Identità e committment costituiscono dunque la forma di controllo con cui le organizzazioni cercano di sostituire le vecchie forme di gerarchia.
La partecipazione si pone dunque allo snodo di uno scambio tra un potere (l’autonomia conquistata dai team e dai singoli nelle decisioni concernenti il lavoro) e un controllo (interiorizzato sotto forma di identificazione nei valori dell’impresa o subito dalla pressione dei pari). Uno scambio che può essere reso trasparente, anche più di quanto le organizzazioni non siano disposte a fare, e va valutato di volta in volta. Ma che non rende la strategia partecipativa in sé meno interessante.
4. Senso. Cercare un ”meaningful job” anche quando di lavoro non ce n’è La soggettività irrompe nel lavoro. Il rapporto che le persone hanno nei confronti del lavoro è variato nei Paesi occidentali nel corso degli ultimi decenni lungo una scala che vede via via attenuarsi l’orientamento strumentale e materialistico a favore di un orientamento “post-materialistico”, caratterizzato dalla grande importanza attribuita ad obiettivi come la realizzazione di sé, la crescita personale o una vita significativa, in luogo di obbiettivi di ordine e sicurezza: questo è quanto emerge dai confronti longitudinali dall’indagine periodica
14 Paradossalmente, mentre nel lavoro standardizzato e diviso il sindacato ha accumulato competenza nell’evitare lo sfruttamento attraverso regole precise, dove il lavoro è meno costretto non è facile limitare l’auto-sfruttamento del singolo che subisce la pressione del gruppo (Sandberg, 2013).
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European Values Survey15. Questo significa che se, da un lato, il lavoro in Europa costituisce ancora un importante organizzatore di identità, tempo e sviluppo di sé, dall’altro, gli obiettivi degli individui di espressione di sé e di qualità della vita stanno assumendo maggiore importanza delle loro preoccupazioni per la sopravvivenza (Inglehart, Welzel 2005).
Sono i paesi più ricchi e le giovani generazioni ad essere i più permeati da questo nuovo spirito dei tempi, in base al quale il lavoro dovrebbe soprattutto permettere agli individui di esprimere se stessi e di realizzare buone relazioni sociali, in coerenza con quella “crescita della consapevolezza, dell’autonomia e dell’autodeterminazione universali” che è stata sottolineata da Habermas (1987). Insomma, giovani e scolarizzati arrivano nel mercato del lavoro con aspettative alte di realizzazione professionale e desiderio di dare prova di sé, cercano un lavoro “che abbia senso” (meaningful job), che risponda ai propri valori, vogliono imparare, pretendono riconoscimento (Lebano et al., 2010). Sono in molti a non accontentarsi di “un lavoro qualsiasi”.
MC, free-lance. Quarantenne, criminologa (con dottorato e master in uso di applicativi d’avanguardia) esperta in software di business intelligence, svariate collaborazioni pluriennali alle spalle ma sempre a termine, dichiara che la stabilità è il suo traguardo più importante, anche se poi si contraddice un po’ affermando “non sono disposta a rinunciare alle mie aspettative per un lavoro qualsiasi”. Negli ultimi anni, mentre aveva in corso collaborazioni part time (per sua scelta), ha lavorato saltuariamente tramite la piattaforma Upwork, guadagnando discretamente su brevi commesse di data-visualization. Forse anche perché i suoi contratti di collaborazione si sono svolti in ambienti molto diversi – dalla sicurezza, al marketing informatico, alle applicazioni statistiche, alla ricerca sociale - per lei la qualità del lavoro è la professionalità intesa come saper fare: mettere in moto le metodologie che conosce per realizzare il lavoro che le viene chiesto. Ciò che le ha tolto questo passare da un lavoro all’altro ed essere periodicamente lasciata a casa, è il riconoscimento del suo valore, una sua identità professionale (intervista mia, 2017).
Mettendo i fondamenti dell’”economia dell’identità”, il premio Nobel George A. Akerlof porta le prove del fatto che per un individuo identità, norme e ideali sono riferimenti altrettanto importanti degli interessi economici e spiega che i lavoratori dovrebbero essere impiegati in attività con cui si identificano e in organizzazioni di cui condividono la mission (Akerlof e Kranton, 2012). Un sistema di valori di riferimento da ritrovare anche nel proprio lavoro è importante per molte persone, non solo per giovani o professional.
CDS, operaio di verniciatura. Lavora in un reparto dove si recuperano le impurità e si prepara la vettura per la verniciatura finale. Quando fu introdotto il WCM in azienda fu colpito dall’idea della lotta allo spreco, che dice: “Mi parve simile al mio modo di operare a casa, dove cerco di non sprecare l’acqua e l’energia elettrica..”. Ha molto apprezzato gli interventi ergonomici ma soprattutto ammette di essersi lasciato coinvolgere nei nuovi sistemi di partecipazione, perché si sente valorizzato. Ha partecipato, in quanto delegato, alla progettazione del processo produttivo per la realizzazione della Panda dove ragionava con gli ingegneri sui metodi migliori, sugli attrezzi più adatti. Pensa che il fatto che un operaio possa dare suggerimenti per
15 Secondo Inglehart (1977), esistono due principali ambiti di aspettativa di soddisfazione dei bisogni attraverso il lavoro: quello “strumentale” (o delle aspettative estrinseche) che comprende le attese materiali e di sicurezza come il reddito, la stabilità dell’impiego e la salute e sicurezza sul posto di lavoro e quello “espressivo” (o delle aspettative intrinseche) che include le attese sociali e simboliche, come buone relazioni e benessere sul posto di lavoro, autonomia, successo nella carriera e sentimento di essere utile socialmente.
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migliorare il prodotto o il processo produttivo sia come “avere una nave con due timoni, uno manageriale e uno operaio, che vanno in sinergia perché hanno obiettivi comuni” (Erlicher, 2015).
A differenza che nel caso precedente, dove MC attende una risposta al senso che cerca nel lavoro come possibilità di esprimere e vedere riconosciuto un proprio specifico valore, per CDS la risposta alla ricerca di senso viene trovata nel sentimento di appartenenza alla comunità aziendale, vista come una unità che contiene sia i valori dell’impresa che quelli dei lavoratori. Questo caso consente di comprendere meglio la classificazione organizzativa tra lavoratori insider (più motivati e produttivi) e outsider (più distanti e meno produttivi) elaborata da Akerlof e Kranton a partire dalla dicotomia psicologica tra motivazioni intrinseche ed estrinseche: in questo schema CDS rappresenta un evidente caso di insider. Da questi ragionamenti, l’appello degli autori a realizzare efficienza organizzativa per mezzo di “incentivi identitari”, sia attraverso la comprensione dei riferimenti identitari e dei valori del lavoratore, sia attraverso la creazione di una identità organizzativa condivisa (Akerlof e Kranton, 2012).
5. Libertà. Scegliere tempi, luogo e modi di lavorare. Attraverso il lavoro, realizzare
sviluppo umano
Declinata nel lavoro, la libertà si annuncia subito attraverso aspetti che non hanno a che fare col contenuto del lavoro: il tempo e il luogo. A differenza di altre dimensioni della qualità del lavoro, la libertà di scelta del quando e dove lavorare è strettamente legata alle possibilità aperte dalle tecnologie, un percorso recente ma che lascia presagire sviluppi veloci: la tecnologia letteralmente “libera” molte posizioni di lavoro e molti lavoratori dal vincolo taylor-fordista del tempo-luogo unico per il lavoro. Le tecnologie si sono rivelate davvero abilitanti per l’autonomia spazio-temporale e l’equilibrio tra vita e lavoro delle persone sono tecnologie ormai consolidate (più da terza che da quarta rivoluzione industriale), come le ICTs: programmi pc, smartphone, tablets, possibilità di connettersi alla rete aziendale da casa o comunque da remoto e poi badge per la rilevazione delle presenze, software per la gestione dei turni della flessibilità, dispositivi per pc che rilevano l’inizio e la fine dell’attività, applicativi che consentono i controlli a distanza (Ponzellini, 2007). Strumenti non ancora utilizzati in tutte le loro possibilità – forse perché le barriere che incontrano non sono tanto tecniche ma sociali e di regolazione - e che saranno certamente potenziati dalle nuove opportunità aperte dalla possibilità di stivaggio, estrazione e analisi delle informazioni, dalla creazione di algoritmi sempre più sofisticati che cambieranno molte attività gestionali, dall’intelligenza artificiale, da innumerevoli piattaforme on-line commerciali, tecniche e di entertainment, previste da Industria 4.0.
LP, impiegata di un servizio di terziario avanzato. LP ha 38 è lavora da 4 anni con contratto a tempo indeterminato in una società milanese che fornisce di pacchetti di flexible benefits di welfare alle aziende tramite una piattaforma. Abita fuori Milano, ha due figli. In azienda si occupa di caricare le fatture di acquisto dei beni per cui si può chiedere rimborso e anche, saltuariamente, di rispondere alla linea verde telefonica di assistenza clienti. Da un paio d’anni ha aderito alla opportunità che ha in azienda di lavorare da distante per 4 giorni al mese: in genere opta per due mezze giornate settimanali e lavora da casa, così riesce ad organizzare meglio la vita familiare (anche se non gode del vantaggio del ridurre i tempi del pendolarismo). Le mezze giornate sono in genere il martedì e il giovedì ma a volte cambia giorno a seconda di
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riunioni di lavoro o anche di impegni familiari, deve solo mandare un messaggio con 48 ore di anticipo al suo responsabile. La nuova routine le sembra abbia migliorato la sua vita lavorativa, non ha perso efficienza nel lavoro e, se potesse aumenterebbe il numero di giornate da effettuare a distanza. (Italia Lavoro, 2015)
Le tecnologie danno risposta al desiderio comune a tutti i lavoratori di rompere la gabbia della fabbrica e del cartellino e aprono la possibilità per molte donne e caregiver di superare la sofferenza del dover mantenere separati luoghi di cura e luoghi di lavoro. A un secolo e mezzo di distanza, si profila la possibilità di un ritorno a quella prossimità tra lavoro e vita – la cascina sul campo, la casa sopra la bottega – che aveva caratterizzato il mondo pre-industriale. Un ritorno in avanti, s’intende, che apre una prospettiva non ancora ben delineata, fatta di sovrapposizione di confini tra lavoro e attività extra-lavorative, di difficile autogestione del tempo, di nuova urbanistica e nuovo abitare, di libertà e solitudine. La fine della fabbrica, la de-spazializzazione del lavoro certamente non avverrà subito per tutti, anche se soluzioni di lavoro mobile, lavoro da remoto, smartworking si vanno diffondendo a macchia d’olio e la stessa Pubblica amministrazione ha un piano di telelavoro per il venti per cento dei suoi dipendenti. Avevamo visto sopra che anche nella manifattura - dove il lavoro è mediamente molto vincolato e per molte posizioni non è materialmente (ancora) possibile delocalizzare il lavoro - ciò che interessa molto i lavoratori è comunque poter decidere almeno in parte sul proprio orario di lavoro: prendersi un permesso anche all’ultimo momento, scegliere e scambiare il turno, decidere delle proprie ferie è spesso previsto nella normativa di funzionamento dei team (Cattero, 1995). Una dose di “libertà di scelta” dell’orario di lavoro è tra gli aspetti più importanti della qualità di un posto di lavoro. Purtroppo il sistema di regolazione contrattuali degli orari in Italia è ancora molto convenzionale e rigido, probabilmente per limitare le possibilità di abuso della flessibilità da parte delle imprese, ma questo di fatto limita anche le possibilità di scelta dei lavoratori. Altrove non è così.
L’operaio di Endress, Bassa Baviera. Lavora in una azienda di strumenti di precisione, produzione su piccoli lotti o su commesse molto variabili nel tempo. Il lavoro è a giornata ma con possibilità di scegliere quando collocare il proprio orario: da un minimo di 4 ad un massimo di 10 ore, tra le 6 e le 20. Ha la passione per lo sci da fondo, fa parte come altri colleghi di lavoro della squadra locale e nei tre messi invernali si allena quotidianamente. In questi mesi, entra in fabbrica verso le undici dopo l’allenamento, fa una doccia, va in mensa e alle 12 comincia a lavorare. Il suo team ha target di produzione settimanali – ben visibili a tutti - che variano a seconda dell’andamento delle commesse e quanto e quando produrre nelle varie giornate lo decidono collettivamente i membri della squadra col team leader: se la domanda è alta, in alcuni casi anticipano l’orario del mattino, in altri vanno a lavorare anche il sabato, l’importante è che venga rispettato il delivery time dei prodotti. Le ore fatte in più le recuperano con un sistema di banca-ore che permette sia di superare l’orario quando l’azienda lo chiede (fino a +50 ore nei sei mesi), sia di lavorare ore in meno (fino a -50) quando ne hanno bisogno per ragioni personali. All’interno del team si distribuiscono le ferie e si gestiscono i permessi, anche quelli improvvisi per ragioni familiari (Pero e Ponzellini, 2015).
Libertà nel lavoro comporta anche qualcosa di più ampio della possibilità di esprimere una preferenza o anche di scegliere le proprie condizioni di lavoro. Esprimere a fondo la propria libertà nel lavoro significa ottenere opportunità di sviluppo umano, nel senso del potenziamento di alcune capacità fondamentali degli individui (capabilities, secondo il termine
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coniato da Sen, 1985 e Nussbaum, 2013). Se usiamo questo approccio, possiamo interpretare la libertà nel lavoro come la condizione in cui esistono tutti gli “elementi necessari per un funzionamento autenticamente umano” (Nussbaum, 2013:74). Molti di questi elementi - l’appartenenza, lo sviluppo dell’immaginazione e del pensiero, la dignità, la possibilità di avere una vita emotiva, un rapporto di riconoscimento con gli altri, l’espressione della propria visione etica - vanno ben oltre l’idea corrente di una emancipazione tramite le competenze lavorative. Qualche segnale è leggibile nell’empowerment dei ruoli che si sta verificando in alcune situazioni organizzative. E’ un tema da riprendere.
Conclusioni. Una qualità fatta di libertà e partecipazione? Non solo competenze (come nell’ideologia del riscatto al lavoro diviso del taylor-fordismo) ma intelligenza e riconoscimento, coinvolgimento, senso e libertà: questo è quello che cercano i lavoratori e alcune risposte ci sono, per lo meno nelle grandi organizzazioni. Il contributo in intelligenza consente all’operaio di saltare il fosso della separazione tra esecuzione ed ideazione del suo lavoro, lo fa diventare visibile e riconoscibile come persona anche se ne aumenta la responsabilizzazione. La delega di potere che gli viene conferita dal management nei team e in altri ambienti partecipativi struttura una partecipazione che è insieme autonomia organizzativa e (auto)controllo. Per quanto questi passaggi non eliminino i vincoli del comando e della subordinazione, per chi lavora si aprono la possibilità di trovare nel lavoro senso e identità, tanto più solide nella misura in cui il lavoratore potrà condividere la mission dell’azienda, portare i propri riferimenti di valore nell’attività lavorativa, trovare un lavoro significativo per sé. Oltre gli spazi di scelta del tempo e del luogo nella quotidianità del lavoro, il passaggio verso la “libertà nel lavoro” – come radicale emancipazione - appare qualcosa di più complesso e anche di più difficile da definire. Che rapporto sembra esserci tra la qualità del lavoro e la tecnologia? Le tecnologie, che col taylorismo sembravano avere rubato il sapere e impoverito il lavoro ma che nel tempo hanno anche ridotto enormemente la sua faticosità e i suoi rischi per la salute, nelle rivoluzioni più recenti sembrano influire positivamente almeno su alcune dimensioni della qualità del lavoro. Da un lato, sono soprattutto le tecnologie di ultima generazione a migliorare le possibilità e la qualità della partecipazione, mettendo a disposizione una quantità molto più ampia di informazioni anche ai livelli bassi come base per una (democratica?) condivisione della conoscenza. Dall’altro, già con le ICT - attraverso il supporto di dispositivi mobili, di internet e degli applicativi che consentono di svolgere lavoro a distanza - è aumentata la libertà di scelta riguardo al tempo e al luogo di lavoro. Anche se nel tempo le aspettative dei lavoratori per la qualità del lavoro sono aumentate, in definitiva non sembra che siano tanto le tecnologie o le mode culturali a mutare ciò che i lavoratori considerano un buon lavoro. Certamente la possibilità di scegliere orario e luogo di lavoro è diventata più importante da quando le donne sono entrate nel mercato del lavoro oppure la ricerca di un meaningfull job, che è cresciuta al crescere della ricchezza e della scolarità, è un obbiettivo importante per i più giovani. Tuttavia, in generale, le dimensioni-chiave della qualità del lavoro sembrano affondare le loro radici in bisogni umani fondamentali: come abbiamo visto in apertura, la maggior parte dei fattori dell’elenco stilato dai socio-tecnici - potere individuale, partecipazione, prospettiva di senso, impatto sulle
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attività extra-lavorative – non sono affatto differenti da quanto è stato possibile ricostruire ora a distanza di quarant’anni.
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Partecipazione diretta e produttività: un legame positivo
Luciano Pero, Anna M. Ponzellini
Un versione riveduta di questo lavoro è stata pubblicata in M. Carcano, R. Ferrari, V. Volpe, La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, Guerini Next, Milano, 2017.
1. Il complesso rapporto tra produttività, innovazione e partecipazione
Il rapporto tra produttività, partecipazione al lavoro e innovazione tecnologica e organizzativa è uno dei temi più discussi e controversi nella storia della società industriale. Sin dagli inizi infatti i sostenitori dell’idea che i salti di produttività dipendano principalmente da fattori interni alla unità produttiva (e quindi dalla partecipazione degli addetti) si sono contrapposti ai sostenitori dei fattori esterni, come la ricerca scientifica e l’acquisizione di nuove tecnologie dall’esterno.
Già nel ‘700, in epoca illuminista, si è sviluppata una lunga discussione sulle fonti del progresso tecnico. Secondo alcuni erano gli scienziati e la ricerca scientifica che generavano l’innovazione produttiva, altri invece sostenevano che molte e decisive scoperte tecniche nascevano invece dagli artigiani e dalla loro partecipazione diretta al lavoro. La scuola razionalista francese di Diderot si contrapponeva allora alla scuola empirica anglosassone. Ma la discussione è continuata anche nel secolo successivo, l’800, senza tuttavia arrivare a conclusioni definitive. Infatti ambedue le scuole trovavano esempi di progresso tecnico e di crescita di produttività originati sia all’esterno che all’interno delle imprese. Il limite di questo dibattito era che esso restava concentrato sulla fonte della innovazione tecnica, senza toccare il punto del contributo dei singoli o dei gruppi al sistema produttivo nel suo insieme.
Questo tema iniziò invece a diventare centrale con la rivoluzione taylorista. Infatti si iniziò a studiare più a fondo il rapporto tra lavoratori e produttività solo dopo il 1930, quando il fordismo ebbe elaborato gli strumenti concettuali e tecnici per fare misure precise sia della produttività globale, sia della produttività individuale. I noti esperimenti di Elton Mayo, negli anni ’30 alla General Electric, evidenziano tra l’altro che un buon clima aziendale e i buoni rapporti interpersonali del capo con i collaboratori innalzano senza dubbio la produttività aziendale. Su questa strada la psicologia umanistica americana studia negli anni ’50 e ’60 il rapporto tra singolo individuo e organizzazione, scoprendo diversi modi in cui l’azienda può sollecitare la motivazione personale al lavoro e combattere l’alienazione e la caduta di produttività. A seguito di queste ricerche le diverse scuole manageriali americane propongono di intervenire con diversi strumenti, come ad esempio gli incentivi salariali, i cottimi, i premi economici, le prerogative e i riconoscimenti professionali, la progressione di carriera, etc. Tutte queste riflessioni e questi metodi si basavano però su un presupposto tipico del fordismo, cioè che il lavoro consiste nello svolgere una mansione, cioè un insieme di compiti predefiniti, rigidi, non modificabili dalla persona. In quell’epoca lavorare è occupare una mansione e obbedire al capo, con un rapporto uno a uno con la gerarchia aziendale. La produttività dipendeva dalla tecnologia, dalla bravura del capo, dall’impegno e destrezza della persona. Non era previsto il lavoro in gruppo poiché le persone erano coinvolte esclusivamente dal capo, anzi, altri tipi di rapporto erano considerati fonte di pericolo. Le politiche del personale erano orientate a migliorare il clima aziendale e a gestire gli incentivi, le carriere e il welfare.
La situazione è cambiata profondamente agli inizi degli anni ’90 sotto la spinta di due grandi forze: il toyotismo e le tecnologie ICT e Internet. Il toyotismo ha rivalutato l’iniziativa autonoma dei lavoratori con il miglioramento continuo, i suggerimenti e il lavoro in gruppo; l’ICT e Internet hanno reso possibile la diffusione rapida e trasversale di notevoli quantità di informazioni. L’effetto congiunto della sperimentazione di nuove forme organizzative, basate su ruoli dinamici e su team informali, invece che su mansioni rigide, e di nuove tecnologie di comunicazione che facilitano e abbassano i costi della
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elaborazione e diffusione di informazioni, ha cominciato a innovare l’organizzazione e la produttività sin dalla fine degli anni ’90, soprattutto negli USA.
Nel 2004 una ricerca americana (Black, Lynch, 2004), nel chiedersi che cosa aveva generato il grande balzo in avanti della produttività negli USA nel decennio 1994-2004, avanzava l’ipotesi che la causa si dovesse ricercare non tanto (o soltanto) nelle nuove tecnologie ICT e Internet, ma soprattutto nelle nuove forme di organizzazione del lavoro che esse avevano consentito. In altre parole, le nuove tecnologie rendono possibile e abilitano nuove forme organizzative più performanti. La produttività, in breve, è aumentata non tanto perché le e-mail hanno abbassato il costo della spedizione delle lettere per via tradizionale, ma poiché le e-mail, così semplici, immediate e a basso costo hanno “abilitato” nuove forme di organizzazione del lavoro come ad es. il team work, che è intrinsecamente più produttivo rispetto alle forme gerarchiche precedenti. La ricerca di Black e Lynch suggeriva non solo il concetto di “tecnologia abilitante” (oggi molto diffuso) ma anche l’idea che il coinvolgimento e la partecipazione diretta dei lavoratori aumentasse significativamente la produttività aziendale attraverso la promozione di nuove forme di organizzazione del lavoro. Tra l’altro tutte le ricerche sui paesi più avanzati che hanno un forte sviluppo nel periodo 1995-2005 hanno rilevato una notevole diffusione sia del lavoro di gruppo di tipo informale, con punte del 60% degli occupati in USA e Svezia, sia per quello di tipo formalizzato, con punte del 7-8% in Germania e USA.
La rapida diffusione dopo il 2000 di nuove forme organizzative e di coinvolgimento diretto dei lavoratori nelle imprese di punta dei paesi industrialmente più avanzati, ha poi dato luogo a diversi filoni di ricerca che hanno approfondito il tema da vari punti di vista. A nostro avviso i tre filoni più importanti sono: le ricerche empiriche della Fondazione di Dublino sulla diffusione delle nuove forme organizzative e di partecipazione (Eurofound, 2015); gli studi sulla High Performance Organization (A. De Waal, 2012); le ricerche sull’evoluzione organizzativa del settore automotive (Lippert e altri, 2014, Campagna e altri, 2015).
Sulla base di queste ricerche la nostra ipotesi di rapporto attuale tra produttività, partecipazione e innovazione può essere sintetizzato nei seguenti punti.
– La partecipazione diretta dei lavoratori si può definire come la possibilità data dall’azienda alle persone di intervenire nel ciclo di lavoro in modo intenzionale e finalizzato, utilizzando i gradi di discrezionalità già presenti nel loro ruolo, oppure con nuovi spazi di autonomia appositamente definita e formalizzata. Nel primo caso parliamo di forme deboli di partecipazione, nel secondo di forme forti.
– Non c’è un rapporto meccanico e positivo tra partecipazione e aumento di produttività. Questa può aumentare se la partecipazione diretta riesce a migliorare le performance con qualcuna delle possibili strade: ad esempio la riduzione degli sprechi, un utilizzo più efficiente delle tecnologie, nuove forme organizzative intrinsecamente più efficienti, una innovazione più rapida e meno costosa etc. Ma non c’è un rapporto diretto e certo.
– Sia la partecipazione che l’aumento di produttività e l’innovazione richiedono una forte intenzionalità: esse hanno successo se c’è una forte convinzione sia nel management che nei lavoratori e se il processo è ben guidato e regolato.
– Nella attuale contingenza storica, in cui sono disponibili molte nuove tecnologie (si pensi a Industry 4.0), ma in cui la loro applicazione efficace richiede notevoli cambiamenti di cultura, di organizzazione e di competenze professionali, la partecipazione diretta può contribuire a dare successo al processo di cambiamento e ad evitare crisi, intoppi o derive nel processo stesso.
– L’innovazione organizzativa procede più speditamente e raggiunge più facilmente gli obiettivi di miglioramento se essa viene introdotta non con modalità top-down ma con il coinvolgimento diffuso dei lavoratori. Dall’analisi di vari casi emerge che il coinvolgimento delle persone nei progetti di innovazione ha spesso un doppio effetto positivo: in primo luogo accelera il cambiamento, conducendo al successo
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in tempi più brevi, in secondo luogo facilita il miglioramento delle performance di produttività, qualità, tempestività e flessibilità, che sono alla base del progetto di innovazione.
2. Le pratiche più diffuse di partecipazione diretta in Italia
In Italia le forme di coinvolgimento dei lavoratori e di partecipazione diretta al processo produttivo si sono
diffuse con ritardo rispetto ad altri paesi, sia per le caratteristiche strutturali del nostro sistema produttivo,
centrato su piccole e micro imprese, sia per i ritardi culturali di tutti gli attori. In particolare la cultura della
piccola azienda famigliare italiana è di tipo gerarchico e poco incline all’innovazione.
La crisi 2008-15, tuttavia, ha stimolato fortemente la parte più dinamica delle imprese a intraprendere
percorsi innovativi sia per quanto riguarda le tecnologie che l’organizzazione. C’è stata così una
accelerazione dell’innovazione in questa parte più dinamica del sistema, valutata nel 30% delle imprese
private. In questi settori si è osservato sia lo sviluppo di forme deboli e informali, come il lavoro in team, la
polivalenza e la rotazione, sia l’adozione strutturata di nuovi modelli organizzativi formalizzati basati su
team, team leader e su sistemi di suggerimenti ”forti”.
Alcuni casi aziendali di partecipazione diretta:
aa)) IL TEAM OPERAIO nello stabilimento FCA di Pomigliano
Negli stabilimenti FCA la microstruttura organizzativa che costituisce il perno dei nuovi paradigmi
organizzativi basati su una applicazione avanzata della Lean production è il team operaio. A questo
modello basato sul team, FCA è arrivata al termine di un lungo percorso nel quale all’integrazione tra le
funzioni lungo il processo (produzione, ingegneria, manutenzione e logistica) che era stata introdotta
con la “fabbrica integrata” negli anni Novanta, è seguito il coinvolgimento del livello operaio con un
sistema strutturato di suggerimento e la partecipazione ai gruppi di miglioramento previsto dal World
Class Manufacturing (WCM) dopo il 2006 (Bartezzaghi, 2015). Infatti, il WCM, rispetto ad altri sistemi di
Lean, ha la caratteristica di affiancare ai classici pilastri tecnici altrettanti pilastri manageriali: questi
principi da un lato sollecitano i manager a curare ergonomia, sviluppo delle competenze, motivazione
dei dipendenti e, dall’altro, sollecitano il contributo cognitivo, e non più solo manuale, degli operatori e
la loro funzione di controllo relativamente ai processi e ai prodotti.
In FCA il nuovo team viene inizialmente sperimentato a Pomigliano, all’interno di un vasto processo di
change-management, che mira a trasformare la cultura aziendale, e poi viene diffuso nelle altre
fabbriche. I team di Pomigliano (ma ormai in tutti gli stabilimenti FCA) sono squadre di sei operai
guidati da un team-leader, figura non gerarchica ma di primus inter pares. I team leader sono stati
selezionati con cura in base alla competenza tecnica ma anche in base alle capacità relazionali e di
leadership. Il WCM non ha modificato sostanzialmente il ritmo vincolato della linea: il tempo di
ciascuna operazione, anche dopo accurati interventi ergonomici, è rimasto molto basso (poco più di un
minuto) e il lavoro ha subito una elevata standardizzazione. Tuttavia, l’organizzazione basata sui team
ha modificato “oggettivamente” il processo decisionale spostandolo verso il basso e i ruoli operai: il
team è destinatario di una delega effettiva, anche se limitata, che riguarda il potere di intervento su
alcuni cambiamenti organizzativi, come la rotazione delle mansioni, la decisione di quando fermare la
linea e la raccolta dei suggerimenti.
Non a caso, come testimonia una ricerca importante della FIM Cisl sulle opinioni degli operai sul WCM
(5000 questionari ai lavoratori di 24 stabilimenti del gruppo FCA-CNHI), l’introduzione del nuovo
sistema gode di un sostanziale consenso sociale: soddisfazione per il netto miglioramento delle
condizioni ambientali ed ergonomiche nelle nuove fabbriche e “senso di contare di più” prodotto dal
4
coinvolgimento nel sistema dei suggerimenti per il miglioramento continuo. Anche se a questi aspetti
positivi si affianca la percezione di un “aumento dello stress”, che non è chiaro se sia dovuto alla
progressiva saturazione dei tempi piuttosto che ad un “maggiore ingaggio cognitivo” (Pero, 2015).
L’esperimento dei team operai è in evoluzione. Oggi nella nuova FCA, il team funziona sostanzialmente
come microstruttura di produzione, di controllo della produttività, di soluzione di problemi e come
ambito di sviluppo professionale. È costruito attorno alla figura del team leader, che è di fatto la figura-
chiave del nuovo sistema, al centro di tutta la gestione. Anche se è figura operaia, esso occupa solo
saltuariamente una postazione di lavoro, il suo ruolo consiste nella capacità di insegnare ai nuovi, di
motivare, di tenere insieme la squadra: caratteristiche che ne fanno una sorta di "coach per la
produttività". Sono dunque soprattutto i team leader piuttosto che gli operatori a costituire la grande
novità della nuova organizzazione in FCA ed è intorno a questa figura che è stata ampliata l’autonomia
dei lavoratori e la loro partecipazione diretta al lavoro (Ponzellini, 2017).
bb)) LA COMUNITA’ PROFESSIONALE degli agenti di polizia municipale dei Comuni del nord-barese1
Dal 2010 le Polizie municipali dell’Associazione di 14 Comuni del nord-barese (PIT 2 Nord-Barese) con
Andria capofila, sono state coinvolte in programmi di miglioramento organizzativo interno e di
miglioramento delle relazioni col pubblico (in particolare con i giovani del territorio sul tema della
sicurezza stradale). L’obiettivo era quello di costruire procedure comuni per l’operatività relativa alla
gestione dell’infortunistica stradale, uniformare i sistemi informativi, creare una cultura comune tra gli
operatori, ridefinire le competenze e razionalizzare i costi. L’iniziativa è stata dei sindaci, in particolare
del sindaco del Comune capofila – ma l’unità di intenti è stata molto elevata nonostante il gran numero
di enti coinvolti e il fatto che le giunte avessero colori diversi - e attuata attraverso l’uso di fondi
comunitari per la formazione e il supporto di una consulente in funzione di responsabile di progetto.
L’obiettivo di raggiungere la gestione associata dei servizi delle diverse Polizie locali è stato raggiunto
attraverso la progettazione di un percorso miglioramento che prevedeva innanzitutto la definizione di
una mission comune, che consisteva nell’instaurare coi cittadini un rapporto di fiducia tale da farli
diventare “co-produttori della sicurezza sul territorio”. Operativamente, la scelta è stata quella di
coinvolgere direttamente gli agenti di tutti i 14 Comandi, prima alla stesura delle nuove linee-guida del
servizio, poi attraverso un approccio incrementale, ad una completa integrazione operativa attraverso
la attivazione di una vera e propria “community degli agenti” che si confronta sulla individuazione dei
problemi e su soluzioni operative condivise. A completamento di questa nuova struttura organizzativa
virtuale, è stato attivato un Gruppo whatsapp delle polizie locali, che funziona per fini professionali
come scambio di informazioni e di suggerimenti operativi e per offrire aiuto reciproco alla soluzione dei
problemi che ciascuno incontra nello svolgimento della propria attività sul campo.
Anche se il tratto distintivo dell’esperienza è costituito dalla creazione della community, l’approccio
spiccatamente partecipativo di questa esperienza ha poi prodotto ulteriori risultati, questa volta al
livello dei comandanti, che si sono offerti di fornire gratuitamente e a mettere in rete contributi tecnici
su vari problemi e ad attivare laboratori tematici specialistici nei diversi Comuni su falso documentale,
1 Il caso aziendale è ripreso da A.M. Ponzellini (2016), “Partecipazione dei lavoratori al miglioramento
organizzativo”, in C. Dell’Aringa e G. Della Rocca, a cura di, Lavoro pubblico fuori dal tunnel?, Bologna, il
Mulino.
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gestione dei conflitti, sicurezza delle strade e dei cantieri in caso di eventi, problemi giuridici dei
comandanti. In conclusione, il progetto “ha creato entusiasmo negli agenti e rafforzato la
determinazione dei comandanti”.
In questo caso, la partecipazione dei dipendenti è attivata top-down da una precisa strategia delle
amministrazioni seguita, in seconda battuta, dai comandanti. Questa pratica tuttavia fa leva sul
coinvolgimento diretto degli operatori, ai quali viene richiesto di attivarsi personalmente alla messa in
comune di saperi ed esperienze per la ridefinizione delle procedure e dell’organizzazione del proprio
lavoro, fino a raggiungere l’obiettivo della creazione di una comunità professionale competente e
coesa. Nel progetto sulla sicurezza stradale si può rilevare una ulteriore forma di partecipazione, che in
questo caso riguarda gli utenti.
cc)) LA FORMAZIONE MIRATA ALL’INNOVAZIONE in Arneg
ARNEG di Padova è uno dei principali produttori italiani di impianti e attrezzature frigorifere per
Supermercati ed è uno dei più grandi produttori europei. Si tratta di una “multinazionale tascabile” con
27 siti produttivi e commerciali. La sede storica di Padova è il sito principale con circa 750 addetti
dedicato al montaggio di banchi frigoriferi e degli impianti refrigeranti collegati. Dopo il 2000 Il
fatturato è cresciuto rapidamente seguendo l’aumento del mercato e delle esportazioni, anche grazie a
un aumento delle gamma dei prodotti e alla loro customizzazione. Nel 2005, a fronte di una sorta di
“esplosione” della gamma, l’azienda ha avviato un progetto di innovazione ispirato alla lean production
con l’obiettivo di adeguare il sistema alla nuova domanda dei supermercati, che richiedono elevata
personalizzazione, innovazione di prodotto , riduzione dei costi e soprattutto rapidità di consegna.
Nel 2008 il progetto aveva raggiunto solo in parte i suoi obiettivi, poiché la difficoltà di diffusione dei
nuovi metodi e la forza delle abitudini rendeva difficile raggiungere in pieno tutti i benefici attesi.
Questa difficoltà aveva condotto l’azienda in una situazione critica, al punto che la Direzione aveva
cominciato a studiare l’ipotesi di delocalizzare la fabbrica in un paese dell’Est Europeo.
Per uscire dallo stallo, a fine 2008, la Direzione e i Sindacati concordano di lanciare un progetto di
formazione di massa rivolto a tutti i lavoratori con lo scopo di completare il progetto avviato ma anche
di sperimentare nuove forme di organizzazione del lavoro e di partecipazione dei lavoratori.
L’accordo col sindacato prevedeva un Piano di formazione per tutti gli operai e i tecnici (circa 600
persone) basato su un seminario di 3 giornate, per gruppi di 20 persone, da svolgere in parte in aula e
in parte in Reparto sulle linee di montaggio.
Il corso sin proponeva di spiegare il perché del cambiamento, di illustrare la nuova fabbrica lean, di
sperimentare in fabbrica il lavoro in team e la polivalenza, di aiutare i lavoratori a ripensare il proprio
ruolo e a dare suggerimenti. La scelta dei metodi didattici si è orientata su metodi diversificati,
coinvolgenti ed attivi: discussioni in aula, giochi di ruolo, esperienze di teamwork sulla linea di
montaggio, visite guidate al nuovo reparto, uso di strumenti del miglioramento continuo. Il corso è
diventato progressivamente un laboratorio del cambiamento e un luogo di team-bulding e di
suggerimenti tecnici e gestionali, ben accolti dalla Direzione. Il clima di fabbrica è cambiato in meglio
man mano che il piano formativo avanzava, le linee produttive di 5-6 persone si sono trasformate in
team operai che si aiutano reciprocamente e governano il flusso produttivo.
I risultati finali sono stati molto soddisfacenti. Da un lato, il progetto lean è stato portato a termine, ma
dall’altro la produttività aziendale è cresciuta notevolmente riportando la situazione in positivo. Infine è
cresciuta la partecipazione dei lavoratori e l’ipotesi della delocalizzazione è stata abbandonata.
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3. Una tipologia euristica della partecipazione diretta
La grande varietà delle pratiche di partecipazione oggi in sperimentazione possono essere sintetizzate in 8
forme tipiche che cercano di cogliere gli elementi essenziali delle pratiche in relazione alle finalità e ai modi
di partecipazione. Si tratta di una tipologia euristica, ricavata dalla razionalizzazione dell’esperienza sul
campo, che può essere ancora completata e migliorata. Nella Figura 1 le forme tipiche sono lette in base a
due assi: la finalità (gestione o innovazione) e il tipo di contributo (individuale o di gruppo). Tra le varie
forme di partecipazione esiste un intreccio e un reciproco sostegno.
Figura 1. Forme tipiche di partecipazione diretta più diffuse. 2
OBIETTIVI DELLA PARTECIPAZIONE
GESTIONE INNOVAZIONE
MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE
IND
IVID
UA
LE I. Delega su obiettivi con
rotazione e polivalenza concordata
I. Formazione mirata e campagne di innovazione
II. Suggerimenti
DI G
RU
PP
O II. Team di lavoro
III. Orari a Menù e smartworking IV. Social network informali
III. Gruppi di miglioramento
IV. Comunità e reti professionali
FORME DI PARTECIPAZIONE DIRETTA ALLA GESTIONE
I - Delega su obiettivi e empowerment dei ruoli anche con la job rotation
Sin dagli anni Novanta, nelle ricerche della Fondazione Europea di Dublino la crescita della delega su
obiettivi ai singoli lavoratori era individuata come una delle forme più semplici di coinvolgimento e
partecipazione.
Oggi questa forma è sicuramente uno dei capisaldi della innovazione sul posto di lavoro, soprattutto se collegata a nuovi spazi di autonomia del lavoro. L’autonomia, infatti, fornisce al singolo lavoratore la possibilità di concordare con gli altri la rotazione delle postazioni e quindi di scegliere un proprio percorso di apprendimento e di sviluppo professionale.
II - Teamwork con polivalenza e rotazione autogestita. Non si tratta soltanto del lavoro in gruppo
informale, oggi molto diffuso, ma soprattutto di sistemi strutturati in cui il team ha obiettivi e spazi di
manovra e autonomia ben definiti. La formalizzazione è basata sulla definizione dei risultati e delle
responsabilità del team relativamente a distribuzione dei compiti, rotazione delle mansioni, diffusione delle
conoscenze, aiuto reciproco, eventuale gestione del tempo, riconoscimento di una leadership di
coordinamento (o team leader). La diffusione di team strutturati provoca di solito l’arretramento della
gerarchia di basso livello. I sistemi basati su team operativi formalizzati sono poco diffusi nel nostro paese,
dove invece sono diffusissimi i team informali. Questi ultimi sono spesso molto richiesti nelle PMI, ma
2 La tipologia è ripresa da un articolo pubblicato su MONDOPERAIO, L. Campagna, L. Pero, “La partecipazione non è un
lusso borghese”, n.3 marzo 2017.
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purtroppo sono poco riconosciuti e quindi non riescono a produrre gli stessi benefici dei team strutturati.
Negli accordi sindacali il teamwork è previsto quasi esclusivamente nelle imprese a proprietà tedesca, come
ad esempio gli accordi Italdesign, Ducati e Lamborghini. In alcuni gruppi della grande distribuzione, i team
sono riconosciuti come unità di governo degli orari di lavoro e di scelta dei turni da parte del singolo.
III - Sistemi di gestione della flessibilità spazio-temporale con condivisione tra azienda e lavoratore: orari
a menù e smart working3
Si tratta di sistemi formalizzati che realizzano una gestione delle variazione di orario e di luogo del lavoro in
modo parzialmente condiviso tra azienda e lavoratori: orari a menù a scelta, banca ore alla tedesca, team
che autogestiscono i turni, forme di part-time a menù, lavoro “agile” da distanza in forme concordate
attraverso apparati elettronici come tablet, PC, smartphone. Vari sistemi formalizzati di orari a menù sono
stati attivati nel decennio scorso in alcuni casi esemplari, come ZF Marine di Padova e Italiana Assicurazioni
di Milano. Dopo il 2010 sono aumentati sia i casi di orari a menù strutturati, ad es. nei call center e in IKEA,
sia gli accordi che prevedono una più elevata flessibilità degli orari. In questi casi l’aumento di flessibilità
produttiva prevede diversi tipi di compensazioni per i lavoratori; come ad esempio più salario oppure più
scelta per permessi e giorni di riposo (Endress-Hauser di Pessano con Bornago). Recentemente si sono
moltiplicati gli accordi di regolazione dello smart working cioè del lavoro a distanza per gli impiegati e i
tecnici, in un luogo scelto dal lavoratore, ma in modi, tempi e con obiettivi concordati con l’azienda.
IV - Social network informali
In molte aziende viene riusata all’interno la capacità sociale ormai ampiamente diffusa di utilizzo dei social
network e di chat (come Whatsapp). Queste modalità vengono consentite e favorite dalle imprese, spesso
in modo del tutto informale, con lo scopo di supportare i lavoratori nelle soluzioni di problemi ordinari e
quotidiani in modo molto rapido, semplice e soprattutto efficace. L’effetto complessivo è quello di stabilire
nuovi canali di comunicazione diretta, trasversale e orizzontale tra gli operatori per il problem solving, che
spesso scavalca la linea gerarchica e contribuisce all’autonomia professionale e alla partecipazione diretta
dei singoli.
FORME DI PARTECIPAZIONE DIRETTA ALL’INNOVAZIONE
I - Campagne di informazione e formazione sui programmi di innovazione: si tratta in primo luogo di
pratiche di comunicazione diretta, basata non solo su strumenti a una via (depliant, comunicati, news, siti,
volantini) ma soprattutto su modalità di interazione diretta tra attori del progetto e lavoratori, con
possibilità di ascolto e di risposta personalizzate. Rientrano in questa formula gli incontri di start up, i
workshop, i focus, i seminari interattivi, rivolti a tutti i lavoratori. L’utilizzo di queste formule è molto diffuso
nel lancio dei progetti di Lean evoluta. Esse sono molto usate ad esempio nelle fabbriche dei gruppi Fiat e
Luxottica. Nel caso Luxottica le RSU, sono state regolarmente coinvolte in queste iniziative. In altri casi
come ad esempio Arneg di Padova e Polti di Como, i workshop di coinvolgimento sono stati lo strumento
principale di un progetto innovativo condiviso tra aziende e sindacati. Rientrano in questa forma tecnica
anche gli interventi formativi che nascono dal piano d’innovazione e che sono necessari a “abilitare” la
partecipazione.
3 Può apparire discutibile l’inserimento di soluzioni di flessibilità dell’orario tra le forme di partecipazione. Tuttavia,
indubbiamente, orari a scelta e smart-working fanno parte di un percorso di allargamento dell’autonomia, individuale
o collettiva, dei lavoratori.
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II - Sistema di gestione dei suggerimenti dei lavoratori per migliorare il processo. Si tratta non della
tradizionale cassetta delle idee, ma di un ciclo strutturato di miglioramento che parte con la formazione dei
lavoratori, sollecita la loro capacità di individuare il suggerimento e di rappresentare la soluzione, prevede
la messa in atto delle soluzioni, e infine si conclude col riconoscimento al proponente. Il sistema dei
suggerimenti richiede due condizioni essenziali: 1) un passaggio di know how tecnico dagli specialisti ai
lavoratori per renderli capaci di elaborare la proposta tecnica; 2) la trasparenza e il monitoraggio del ciclo di
gestione del suggerimento, con un cambio di atteggiamento del management che deve diventare
disponibile a dare un feed-back a tutti con conseguenti riconoscimenti. Il sistema strutturato dei
suggerimenti dei lavoratori è diventato dal 2008 uno dei principali fattori di successo del WCM nel Gruppo
FCA e del Gruppo AUDI (Lamborghini e Ducati di Bologna). Secondo alcune stime il sistema dei suggerimenti
può contribuire a ridurre i costi di trasformazione industriale sino a valori intorno al 5-6% annuo. Nella
fabbrica FCA di Pomigliano, i suggerimenti nel 2014 hanno raggiunto un picco superiore a 30
suggerimenti/anno per singolo operaio (Pero, 2015).
III - Attivazione di Gruppi di progetto per migliorare o innovare singole aree produttive, in cui gli esperti
sono a diretto contatto con i lavoratori coinvolti dentro il team di progetto. In questi casi c’è una
collaborazione diretta tra ingegneri e operai, che produce un passaggio di conoscenze reciproco.
L’attivazione di cantieri di miglioramento in singole aree produttive è uno degli strumenti fondamentali di
applicazione del WCM nel gruppo FCA e in generale nelle applicazioni recenti della Lean. Nel caso Luxottica
l’adozione di nuove isole di produzione è preceduta sempre da gruppi di sperimentazione con ruolo
paritario di tecnici aziendali e di operai che mettono a punto le soluzioni e le sottopongono alla prova dei
lavoratori.
IV - Comunità professionali e social network per l’accumulo e sviluppo del know how (o comunità di
pratiche). Si tratta di una delle forme più evolute e complesse di partecipazione diretta. La comunità di
pratiche è una comunità aperta, formata liberamente dai dipendenti senza alcun carattere gerarchico ma
basata su relazioni orizzontali. La comunità ha la missione di accumulare, sviluppare e utilizzare know how
produttivo aziendale con una strumentazione molto evoluta di social network e una interazione complessa
tra diversi ruoli, persone e professioni. In alcuni casi assorbe il sistema dei suggerimenti.
Il caso più strutturato di comunità professionali in Italia è quello del Gruppo ENI, dove le comunità sono
partite dall’accumulo di know how sulle tecnologie base del Gruppo - come la ricerca di idrocarburi, la
perforazione e il trasporto - e si sono poi espanse a quasi tutti i settori aziendali.
4. Partecipazione diretta e relazioni industriali nell’Impresa
Le pratiche di coinvolgimento e di partecipazione diretta riguardano i lavoratori, non necessariamente il
sindacato. Come si è visto anche dai casi, a volte interi percorsi d’innovazione organizzativa, anche di lunga
durata, sono stati introdotti dal management al di fuori del confronto sindacale. Questo accade, non solo
perché le direzioni aziendali spesso considerano queste decisioni come ambito di prerogativa manageriale,
ma anche per il frequente disinteresse dei rappresentati dei lavoratori, o forse per la loro incapacità o
incertezza, nel governare i processi di cambiamento. Le cause di questo fenomeno si possono individuare
sia nella cultura delle relazioni industriali, basata su approcci conflittuali e di “rivendicazione continua”, sia
nel timore che queste pratiche possano mettere in crisi le attuali rappresentazioni dei lavoratori. Molti
rappresentanti infatti temono di essere soppiantati dai team leader e dal management intermedio
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nell’ascolto dei lavoratori e nella capacità di risolvere i loro problemi.
Tuttavia, la nuova organizzazione del lavoro e le pratiche di coinvolgimento dei dipendenti al miglioramento
non sono di per sé causa di depotenziamento del ruolo delle RSU. Si potrebbe piuttosto dire che l’impatto
che hanno sulle relazioni sindacali può essere addirittura positivo. Molto dipende dall’assetto e dalla
tradizione che si è consolidata in precedenza. Il che spiega come due sistemi di lean production e di
coinvolgimento sostanzialmente simili, come quelli di FCA e di Luxottica, coesistano con sistemi aziendali di
relazioni industriali assai diverse: di meditata e continua consultazione dei rappresentanti prima e durante
il cambiamento in Luxottica e di prudente e modesto coinvolgimento dei rappresentanti In FCA. Spetta
quindi alle parti sociali decidere quale approccio adottare, tenendo però presente che l’innovazione può
anche essere un’opportunità per un nuovo e più ampio ruolo della rappresentanza e dell’intero sistema
delle RI aziendali. In questo quadro, che presuppone anche il cambiamento del clima dei rapporti in azienda
e la conquista di un piano di fiducia reciproca, alla partecipazione diretta (dei lavoratori) potrebbe
affiancarsi la partecipazione organizzativa (dei rappresentanti), ovvero la adozione di pratiche di
coinvolgimento delle RSU sulle decisioni macro e micro che riguardano il processo di innovazione con
particolare riferimento ai cambiamenti che riguardano come è organizzato il lavoro. Praticamente, un
sistema di partecipazione che trae impulso dal basso (Pero e Ponzellini, 2015).
Ciò significa, almeno nei casi migliori, realizzare una gestione congiunta management-rappresentanti
dell’organizzazione “quotidiana” del lavoro: interventi sui processi, piccole modifiche degli orari, soluzioni
di problemi imprevisti ma anche costruzione condivisa di piani di recupero della produttività, definizione
degli obiettivi a cui legare il sistema premiante, sperimentazioni di innovazioni con verifiche a tempi certi.
In questo nuovo quadro, la contrattazione vera e propria – il consueto periodico rinnovo del contratto
aziendale – avrebbe più che altro il senso di valutare e consolidare gli esiti dei processi di innovazione e di
distribuirne i risultati economici: nell’accordo si formalizzeranno le nuove regole dell’organizzazione, si
definirà l’entità dei premi previa verifica del raggiungimento degli obiettivi, si contratteranno i benefits di
welfare, i passaggi di livello.
A oggi, nel suo insieme, il sindacato non sembra avere una strategia su un possibile nuovo modello di
partecipazione nell’impresa. Anche nel dibattito tra gli studiosi non tutte le voci coincidono. Anche a causa
della evidente crisi della rappresentanza sindacale, il dilemma è soprattutto a riguardo della partecipazione
dei rappresentanti. Alcuni s’interrogano sul fallimento – ma anche sul possibile rilancio - del vecchio
sistema di relazioni aziendali partecipative del tipo di quelle promosse negli anni Ottanta dal Protocollo Iri,
basato su “commissioni paritetiche” di consultazione impresa-sindacato: si ripercorrono così le parabole di
Electrolux e Finmeccanica (Famiglietti, 2015) o si riconsiderano le possibilità di formule di co-gestione alla
luce della recente introduzione in Ducati e Lamborghini della Carta globale di rapporti di lavoro di
Volkswagen (Telljohann, 2015), immaginando la possibilità che le RSU italiane e il nostro sistema di
contrattazione di secondo livello possano riprodurre in qualche modo il sistema istituzionale del doppio
canale di rappresentanza e della codeterminazione consolidato da decenni in Germania (Ponzellini, 2017).
Qualcuno propone una riedizione delle “commissioni congiunte” purché dentro un quadro di competenze
dei vari livelli di partecipazione molto stringente: a queste spetterebbe il compito di indirizzare e governare
il processo di innovazione (concordando i tempi, i modi e l’attivazione delle forme di partecipazione) ma
non di intervenire nel progetto di innovazione (che resterebbe di titolarità del management aziendale) né in
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quello dei suggerimenti e delle altre pratiche di partecipazione diretta (che resterebbero di titolarità dei
lavoratori) (Carcano e Pero, 2016).
Per qualche aspetto, il momento è promettente. Non a caso, in questi ultimi anni è ritornato anche il
dibattito sulla opportunità di una legge che prefiguri una strada verso quella “partecipazione strategica” –
presenza di lavoratori negli organi societari e partecipazione alle decisioni dell’impresa - da più parti
auspicata (Baglioni, 2001 e 2015; Carrieri, Nerozzi e Treu, 2015). Restano tuttavia aperti problemi non da
poco. Innanzitutto, quale potrebbe essere il rapporto tra organismi consultivi e contrattazione? Ma
soprattutto, quale il rapporto tra la vera novità che parrebbe realizzarsi con i nuovi paradigmi organizzativi
– ovvero la partecipazione diretta esercitata dai lavoratori attraverso i team di lavoro e le altre formule di
coinvolgimento – e il vecchio sistema delle relazioni industriali d’impresa? Nel caso si volesse trovare la
risposta in un sistema come quello tedesco, si deve tenere presente non solo l’opportunità di introdurre il
doppio canale di rappresentanza ma anche la necessità – se si vuole andare oltre l’esperienza partecipativa
“volontaristica” italiana degli anni Ottanta e Novanta - di un quadro normativo che stabilisca i diversi ambiti
di competenza del Consiglio d’azienda (codeterminazione in materia di organizzazione e condizioni di
lavoro) e del sindacato (contrattazione), in modo che al Consiglio d’azienda siano riconosciuti pieni diritti di
partecipazione, ovvero diritti di codecisione e di veto, almeno su alcune materie (Della Rocca, 2017).
In conclusione, nelle sue formulazioni più evolute, la partecipazione dei lavoratori nell’impresa potrebbe
rappresentare la nuova cittadinanza nel lavoro: partecipazione degli operatori, come strumento sia per
aumentare lo spazio di libertà e di espressione di chi lavora che per migliorare produttività e qualità dei
prodotti e dei servizi, partecipazione dei rappresentanti alla gestione dell’organizzazione, sia per migliorare
l’efficienza dei processi che per creare i presupposti per una buona contrattazione di secondo livello.
Bibliografia
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svolta”, in C. Dell’Aringa, C. Lucifora e T. Treu (a cura di), Salari, produttività, disuguaglianze. Verso un
nuovo modello contrattuale? Bologna, il Mulino
11
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diretta”, in Carrieri D., Nerozzi P., Treu T. (a cura di), cit.
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Della Rocca, a cura di, Lavoro pubblico fuori dal tunnel?, Bologna, il Mulino.
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ultimi venti anni in Italia”, Economia&Lavoro, n.1.
Telljohan V. (2015), "Le nuove piste di Lamborghini e Ducati, in D. Carrieri, P. Nerozzi, T. Treu (a cura di), cit.
1
IL FUTURO DELLA CONTRATTAZIONE: PROFESSIONALITA’,
PRODUTTIVITA’, PARTECIPAZIONE
Anna M. Ponzellini
Una versione rivista di questo testo è uscita come: “Il futuro della contrattazione: professionalità, produttività, partecipazione”, in A. Berrini (a cura di), Oltre il Novecento. Declinare crescendo o crescere cambiando?, Roma, Ediesse, 2017
Quando si parla di lavoro, si tende a pensare al mercato del lavoro, al difficile incontro tra domanda
e offerta, alla disoccupazione di lunga durata, ai giovani che non trovano un posto: il lavoro a
livello macro, l’“occupazione”. Qui invece parleremo del contenuto del lavoro, delle condizioni in
cui le persone lavorano, di cosa concretamente fanno, delle loro preferenze, del cambiamento
organizzativo, delle pratiche manageriali, dei saperi necessari e di quelli obsoleti, della produttività
del lavoro: il lavoro a livello micro, in altre parole “il lavoro nei luoghi di lavoro”. Cercheremo di
raccontare cosa sta cambiando, a partire da tre aspetti costitutivi del lavorare: la professionalità, la
produttività, la partecipazione. Potremo così rendere visibili le sfide che si aprono e delineare, per
quanto possibile, quale potrebbe essere in tutto ciò il ruolo della rappresentanza collettiva e delle
relazioni industriali.
1. PROFESSIONALITÀ
Lo scenario
Prima di analizzare cosa sta cambiando nel mondo delle competenze, è utile riguardare i grandi
cambiamenti dell’economia e del mercato del lavoro. Agricoltura e industria hanno ceduto il posto
al settore terziario, che ormai nei paesi avanzati occupa dai due terzi ai nove decimi dei lavoratori.
Anche grazie alla domanda crescente di lavoro nei servizi, le donne hanno preso uno spazio
importante nel mercato del lavoro. A Milano, che possiamo considerare un indicatore, sia pure
avanzato, delle tendenze del nostro mercato del lavoro, non solo il tasso di attività delle donne è
pari o superiore a quello delle maggiori capitali europee ma le più giovani sono già più occupate dei
loro coetanei maschi. E a Milano nove donne su dieci lavorano nel terziario, per quanto in modo
decisamente polarizzato: le italiane, tipicamente knowledge workers del terziario avanzato mentre
le straniere, prevalentemente impiegate nei servizi domestici (Cicciomessere e Zanuso, 2016).
Comunque, nell’insieme, i milanesi sono occupati nel terziario già per l’80%, una tendenza in linea
con quella delle economie più avanzate del pianeta.
Non a caso una recente inchiesta del New York Times, raccontandoci The jobs Americans do (i
lavori che fanno gli americani), ci informa che dobbiamo modificare la nostra rappresentazione di
cosa sia attualmente la working class: l’idea del giovane operaio maschio bianco col casco che
lavora in fabbrica va rimpiazzata con quella di una donna ispanica di mezza età che svolge servizi
alle persone. Negli USA ormai agricoltura e industria assorbono poco più del 10% della forza
lavoro e tra le 12 professioni che, secondo il Bureau of Labor Statistics, cresceranno di più nei
2
prossimi dieci anni ve ne sono 7 che riguardano l’area socio-sanitaria: fisioterapisti e assistenti
fisioterapisti, terapisti occupazionali e aiuto terapisti occupazionali, assistenti domiciliari, infermieri
e assistenti medici (NYT, Feb. 23, 2017).
Anche da noi, il lavoro operaio ha smesso da tempo di essere centrale lasciando spazio all’emergere
di una pluralità di altre figure - commesse, camerieri, addetti alle pulizie, badanti, educatori, figure
tecniche, professionals - perché la tecnologia ha assorbito molto lavoro manifatturiero e andrà
avanti a farlo. Anche altri mestieri oltre a quelli operai, come la cassiera del supermercato o lo
sportellista bancario, sono in via di sostituzione dallo shopping online e dall’home-banking. Mentre
difficilmente le tecnologie potranno sostituire o rendere più efficienti i servizi di cura, cosi come è
successo nella produzione industriale - la gran parte del lavoro di cura è incomprimibile, soprattutto
per gli aspetti relazionali ed emotivi - e sarà forse in queste professioni che, come negli Usa, si
espanderà di più l’occupazione nei prossimi decenni.
Nelle imprese questi grandi trend sono confermati dal costante ridursi dei lavori operai ma sempre
più anche dal venire meno delle posizioni esecutive negli uffici: le previsioni del World Economic
Forum (Tab. 1), che analizzano l'andamento della domanda delle occupazioni e delle competenze al
2020, ci confermano la perdurante erosione delle figure operaie ma soprattutto predicono il crollo
del lavoro impiegatizio operativo (WEF, Future of Jobs, 2016).
Tab. 1. I trends delle professioni, secondo il WEF
Quanto alle competenze richieste (Tab.2), le capacità fisiche sono in via di scomparsa e questo già
lo sapevamo. Tuttavia, in molti settori, soprattutto quelli manifatturieri, c’è una riduzione enorme
d’importanza anche dei tradizionali saperi di contenuto, che in gran parte sono ormai integrati nelle
macchine e nei programmi. Persino le competenze tecniche diventano meno importanti, mentre
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cresce l’importanza delle competenze di processo e di sistema (capacità di tenere d’occhio ambiti
più ampi della propria posizione), accanto a quelle manageriali (capacità di coordinamento e di
leadership) di cui si parla già da tempo. Accanto alla “capacità di risolvere problemi complessi”,
che continua a essere in cima alla graduatoria delle skill più richieste dalle aziende, si conferma la
centralità delle competenze sociali (altrimenti dette comportamenti o life competencies). Nella
indagine Isfol sulle competenze, le skill personali sono così enumerate: affidabilità, capacità di
pianificare, capacità di lavorare in autonomia, capacità di lavorare in gruppo, capacità di risolvere
problemi complessi (Isfol OAC, 2011).
Tab. 2. Le skills piu’ richieste, secondo il WEF
Cosa vogliono i lavoratori in termini di professionalità?
Esprimere a fondo le proprie conoscenze, le proprie capacità professionali, la propria esperienza
lavorativa (ma anche di vita) è sempre stato importante per i lavoratori: ciò che sanno fare è la loro
ricchezza e, inoltre, il lavoro costituisce per tutti una delle più grandi opportunità di lasciare la
propria impronta nel mondo. E’ per questo, molto meno per i soldi, che vogliono che il loro
contributo ottenga riconoscimento.
Chi lavora vuole quindi mantenere le proprie competenze evitando il rischio che diventino obsolete,
ma anche arricchirle imparando cose nuove e tentando strade diverse: l’impiegabilità
(employability) non a caso è, oltre all’occupazione, uno dei massimi obiettivi nelle politiche del
lavoro europee (e sempre più importante man mano che le vite lavorative si allungano). Con
l’aumento della scolarità, questa esigenza delle persone di veder valorizzata e sviluppata la
professionalità sta diventando centrale. Nel caso di laureati e professionals è particolarmente
evidente: quando hanno possibilità di scegliere tra due posti di lavoro, scelgono quasi sempre quello
dove possono imparare di più.
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Chi lavora vuole anche trovare senso nel proprio lavoro, sia che si tratti di una occupazione
complessa di cui siano evidenti ciò che viene prodotto e le conseguenze che ha sulla realtà, sia di
una occupazione semplice e operativa perché comunque vi è uno spazio di discrezionalità nei modi
in cui la si esercita – la puntualità, la gentilezza, la precisione, l’adesione all’obiettivo - che può
essere interpretato e valorizzato (anche per questo è importante allargare lo spazio di influenza delle
persone nel lavoro, come vediamo più sotto parlando di partecipazione).
Che implicazioni hanno questi sviluppi e queste aspettative per la rappresentanza e per la
contrattazione?
Dopo la grande intuizione dell’inquadramento unico negli anni Settanta, negli ultimi trenta anni i
sistemi di inquadramento dei nostri contratti nazionali si sono rinnovati molto poco e non sono
comunque riusciti a tener dietro ai cambiamenti della domanda aziendale di competenze. Vi sono
alcuni sistemi che sono addirittura rimasti rigidi come allora, senza neppure quel passaggio dai
“livelli” alle “fasce” (broadbanding) che consentisse maggiore mobilità e maggiore differenziazione
retributiva. Nel frattempo, quello sviluppo dell’organizzazione del lavoro che aveva segnato il
progressivo passaggio dalle mansioni ai ruoli – ovvero a interpretazioni individuali delle attività da
svolgere, in luogo di rigide prescrizioni dei compiti - veniva recepito esclusivamente dai sistemi
manageriali di valutazione. Questi ormai da tempo sono applicati (solo raramente contrattati) su
aree sempre più ampie di lavoratori, ben oltre i dirigenti e i quadri per cui erano stati
originariamente introdotti. In molte aziende, insomma, le procedure di valutazione costituiscono
ormai un sistema parallelo di misura della professionalità, nonché la base per la gestione degli
avanzamenti di carriera.
In effetti, i cambiamenti organizzativi più recenti implicano ruoli sempre più ampi, mestieri e
professioni a banda larga (broad professions), di cui la parte agita non è che la punta dell’iceberg
(Butera, 2016), implicano, come abbiamo visto anche dalle previsioni del WEF, prevalenza delle
competenze trasversali su quelle di contenuto e massima polivalenza: in questo senso, non possono
certamente essere recepiti da sistemi di classificazione nati per mettere al centro le professioni
statiche e riconoscibili del fordismo e le loro qualifiche standard. I tradizionali inquadramenti sono
destinati a perdere peso: non è un caso che FCA voglia introdurre un inquadramento a tre livelli per
tutto il personale. La strada giusta della contrattazione è dunque quella di spostare la misura della
professionalità – quella delle conoscenze, delle abilità e dei comportamenti - sui sistemi di
valutazione. E contrattarne almeno i criteri. Bisogna anche accettare l’idea che le competenze siano
in parte difficili da oggettivare e che possano essere oggetto di valutazione discrezionale da parte
del management.
La contrattazione deve spostare la propria attenzione sui sistemi che valutano il merito senza timori,
anche perché la possibilità di avere a disposizione in assoluta trasparenza sempre più dati oggettivi
su titoli, esperienze e prestazioni di ciascun lavoratore, è ormai una realtà quantomeno nelle grandi
organizzazioni. E’ un fatto questo che può non piacere a chi difende la privacy a tutti i costi, ma che
in compenso garantisce la massima equità. Criteri di valutazione delle persone basati sul merito e
procedure di valutazione - della professionalità, delle performance e del potenziale - in grado di
garantire l’equità dovrebbero costituire la nuova frontiera della contrattazione nazionale e aziendale
della professionalità. Può essere anche l’occasione per contrattare le regole dei percorsi di carriera,
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sostituendo le vecchie pratiche della contrattazione aziendale dei passaggi di qualifica (spesso solo
“quantitative” e non di rado clientelari) con criteri trasparenti per lo sviluppo: non un
riconoscimento della professionalità attraverso un generico premio ma attraverso piani individuali
di sviluppo delle competenze che includano i supporti di formazione, la rotazione e la mobilità
professionale, la valorizzazione dell’esperienza, gli assessment periodici del potenziale...
Per esempio, gli assessment del potenziale (o bilanci delle competenze) - in Francia obbligatori per
legge per tutti i lavoratori dipendenti a 45 anni e poi ogni dieci anni – sono particolarmente utili a
fronte dell’invecchiamento della popolazione lavorativa: consentono di fare il punto sul grado di
obsolescenza delle proprie competenze, fare un piano di formazione o di mobilità, tentare altre
strade nell’imprese o fuori per non perdere impiegabilità.
A essi potrebbero essere collegati anche veri e propri piani di recupero della scolarizzazione. In
Finlandia, una legge stabilisce la possibilità di una “seconda chance” di formazione scolastica per i
lavoratori che non sono riusciti a prendere il diploma di scuola superiore o la laurea (se correlati alla
loro posizione di lavoro): i costi sono divisi in tre tra Stato (che non fa pagare le tasse), impresa
(che mette una parte delle ore di permesso) e lavoratori (che mettono in resto). Un sistema non
molto diverso dalle nostre vecchie 150 ore, allora mirate al conseguimento dell’obbligo scolastico.
Senza dire che l’integrazione al lavoro di lavoratori stranieri a bassissima scolarità potrebbe rendere
a tutt’oggi utile quell’istituto contrattuale che negli anni Settanta e Ottanta ha cambiato la vita di
molti lavoratori italiani immigrati dal Sud e dalle campagne.
Attraverso questo istituto (le 150 ore) - o comunque attraverso i Fondi interprofessionali – sarebbe
possibile lanciare una campagna di alfabetizzazione digitale di massa, che comprenda
l’addestramento all’utilizzo di dispositivi digitali come smartphone e tablet, alla navigazione su
internet e all’uso dei social media, come skills di base per tutti i lavoratori per ottimizzare la
transizione alle nuove forme di organizzazione del lavoro previsti da Industria 4.0.
2. PRODUTTIVITA’
Lo scenario
Il basso tasso di crescita della produttività in Italia è una questione ancora irrisolta che, tuttavia, non
possiamo imputare alla crisi – per quanto negli ultimi anni abbia sicuramente accentuato la caduta
del Pil - visto che la produttività ha cominciato a declinare prima, a partire dal 2003, inducendo a
pensare che probabilmente abbiamo a che fare con un dato strutturale per il nostro Paese. Come si
vede dalla tabella che segue (Antonioli e Pini, 2013), fatta 100 la situazione degli USA nel 2000, il
differenziale di produttività dell’Italia, già elevato nel primo periodo, aumenta ancora durante la
crisi (mentre si è ridotto per Germania e Regno Unito) e risulta prevalentemente correlato alla
produttività oraria piuttosto che al tasso di attività.
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Tab. 3 Andamento della produttività in Italia 2000-2011, secondo Antonioli-Pini (2013)
Isolando gli aspetti esogeni – come il sistema del credito, le infrastrutture, l’inefficienza della
pubblica amministrazione - che pure in Italia hanno un’influenza non da poco sulla efficienza delle
imprese, le analisi econometriche evidenziano che una produttività ridotta risulta correlata con
ridotta dimensione d’impresa, scarsa innovazione tecnologica e organizzativa e assunzioni di
lavoratori temporanei: per queste ragioni, alcuni autori ipotizzano che la causa possa essere fatta
risalire alla qualità della classe manageriale e in particolare alla assenza di meritocrazia nella
selezione dei dirigenti aziendali (Pellegrino e Zingales, 2014; Lucifora e Origo, 2015).
Altri autori si soffermano sulla mancata innovazione organizzativa, che resta evidente a volte anche
in caso di buoni investimenti tecnologici: è questa, d’altra parte, la critica che da sempre viene
avanzata al sistema delle imprese dalla Banca d’Italia (e ultimamente anche dalla BCE di Mario
Draghi). L’esistenza di una relazione positiva tra produttività e cambiamento organizzativo e
manageriale è provata dagli studi sulle pratiche di lavoro ad alta produttività (High Performance
Workplace Practices): per esempio, le ricerche di Black e Lynch (2004 e 2012) attribuiscono
incrementi consistenti della crescita dell’industria americana negli ultimi trent’anni a pratiche tipo:
formazione, lavoro in team, delega manageriale, coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni,
partecipazione agli utili e premi di produttività. A partire dal 1997, le HPWP sono diventate oggetto
di survey periodiche anche da parte della Fondazione europea di Dublino, che raggiunge la
conclusione che l’uso di queste pratiche ha prodotto “incrementi estremamente significativi della
produttività del lavoro, riduzione dei costi operativi, maggiore condivisione delle conoscenza dei
processi produttivi e soluzione dei problemi”. Anche studi italiani confermano questa relazione
(Leoni, 2008).
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E’ molto evidente che la carenza di innovazione organizzativa – e quindi tutta la parte di mancata
produttività che ha origine da ciò – debba essere questione di diretto interesse per le relazioni
industriali, perché il modo con cui viene organizzato il lavoro ne rappresenta un aspetto cruciale.
Tuttavia, sappiamo che non sempre la cultura sindacale e dei lavoratori è stata sensibile al problema
dell’efficienza e della competitività delle aziende. Dopo la crisi che abbiamo attraversato, è più che
mai importante che il sindacato assuma una posizione chiara su questo punto: la produttività è un
problema (anche) del sindacato? Il sindacato deve chiederselo e darsi una risposta una volta per
sempre. Se la risposta è positiva, l’obiettivo di incrementare la produttività delle singole aziende (e
dell’intero sistema produttivo) dovrebbe diventare uno dei motori delle relazioni industriali
d’impresa.
La contrattazione della produttività: storia e limiti di una stagione contrattuale durata oltre
vent’anni
Secondo la Banca d’Italia, a vent’anni di distanza dall’Accordo del 1993, al sistema contrattuale
che ha introdotto si può attribuire il merito di aver moderato la dinamica salariale ai fini delle
aspettative inflazionistiche ma certamente non quello di aver realizzato un grande successo nel
diffondere la contrattazione di secondo livello, che è rimasta invece contenuta soprattutto al Sud e
al di fuori dai settori industriali (D’Amuri, Giorgiantonio, 2014). In effetti, a oggi, l’effettiva
diffusione e incidenza della contrattazione di secondo livello è modesta: solo nel 15,8% delle
aziende sopra i 10 dipendenti risulta essere presente un accordo di secondo livello, ivi compresi i
contratti collettivi territoriali (Istat, 2015). Naturalmente molto dipende dalla forte presenza nel
nostro Paese di imprese di piccole dimensioni, meno raggiungibili dal sindacato. Se invece
consideriamo le aziende sopra i 50 dipendenti, il settore industriale e il Nord, i dati mostrano un
diffusione della contrattazione dei premi di risultato molto più ampia: secondo un’indagine di
Federmeccanica nel 2005 ben l’85% degli addetti di imprese sopra i 50 addetti del settore
metalmeccanico percepiva un premio variabile di risultato.
Se guardiamo al contenuto degli accordi, secondo OCSEL CISL - che ha analizzato 3600 accordi a
partire dal 2009 – il salario si evidenzia come il secondo tema più contrattato (in testa vi è la
contrattazione delle crisi aziendali): tra il 2009 e il 2014, il 32% degli accordi riguarda la
negoziazione del salario. Tra le voci retributive, quelle variabili sono presenti nell’88% degli
accordi, nel 44% però vi sono solo voci fisse. La maggior parte (57%) dei premi di risultato prevede
più indicatori: quelli tecnico-produttivi sembrerebbero i più diffusi. Il tema organizzativo più
presente risulta la flessibilità dell’orario di lavoro (OCSEL, 2015).
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L’Osservatorio sulla contrattazione aziendale della Cisl Lombardia – che ha raccolto e analizzato
quasi 2000 accordi a partire dal 2005 - ci dà qualche informazione aggiuntiva sulle modalità con cui
viene contrattato il salario variabile: i premi sono in prevalenza uguali per tutti (non parametrati
sull’inquadramento) ma in ogni caso calcolati in base alle giornate di presenza; le formule premianti
si basano su una pluralità di indicatori (mediamente da 2 a 4) sia di bilancio che organizzativi;
qualità, assenteismo e produttività sono le aree di indicatori più presenti. Nel 2015 il valore medio
dei premi lombardi risultava circa di 1100 euro all’anno, con un calo notevole rispetto all’anno
precedente che aveva fatto registrare una media di 1500 euro, tenendo però presente che nello
stesso periodo sono notevolmente aumentati gli accordi sul welfare aziendale (Caprioli, 2015).
Oltre a questo, della contrattazione della produttività sappiamo che, l’incidenza dei premi variabili
contrattati sul salario è piuttosto bassa, in media non supera il 5%. E soprattutto che,
differentemente dal loro scopo – che doveva essere quello di rendere variabile il salario
all’andamento delle performance aziendali - l’entità dei premi tende a rimanere persistente nel
tempo. In sintesi, il bilancio di questa esperienza di contrattazione risulta piuttosto modesto. Per
certi aspetti, l’introduzione da parte del Governo a partire dal 2008 di incentivi alla contrattazione
di secondo livello (aziendale e territoriale) sotto forma di defiscalizzazione e decontribuzione, non
ha migliorato molto la situazione: analizzando le pratiche contrattuali successive a quegli interventi,
alcuni autori hanno addirittura coniato il termine “accordi cosmetici”, per indicare il ricorso delle
parti sociali a facili collegamenti dei premi a generici indicatori di produttività o di redditività,
come mero espediente per accedere agli incentivi di legge (Tronti, 2010; Antonioli e Pini, 2013).
Tuttavia, questi giudizi sono forse eccessivamente severi: la contrattazione del salario aziendale si è
in questo ventennio pienamente realizzata nelle aziende di medio-grandi nei settori industriali e in
una parte dei servizi e ha comunque il merito di avere consolidato nella cultura delle relazioni
industriali l'idea della variabilità del salario aziendale, anche se a volte quasi simbolica. E sembra
persino che i governi abbiano imparato la lezione, visto che gli ultimi interventi legislativi (2016 e
2017) introducono norme volte a migliorare gli aspetti più deboli di questa contrattazione: la scarsa
diffusione nelle imprese minori, allargando gli incentivi agli accordi territoriali per le piccole
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imprese e alle imprese dove mancano le RSU; la scarsa variabilità del salario al variare della
performance d’impresa, inserendo nel dispositivo legislativo il vincolo di indicatori che misurano
gli effettivi incrementi della performance.
Bene soprattutto hanno fatto gli ultimi governi a collegare in modo esplicito gli interventi di
detassazione dei premi aziendali all’innovazione organizzativa e alla partecipazione dei lavoratori,
perché è proprio su questo aspetto che, in realtà, si è consumato il vero fallimento della lunga
stagione contrattuale seguita all’Accordo del 1993: da vent’anni si dice che si contratta la
produttività perché si contrattano premi legati ai risultati aziendali, senza rendersi conto che
contrattare la produttività significa innanzitutto contrattare la riorganizzazione dei fattori produttivi
in modo da ottenerli quei risultati! Non a caso, tutte le indagini evidenziano che una correlazione tra
premi e produttività, quando esiste, è comunque molto debole: d’altra parte, l’andamento della
produttività italiana negli ultimi venti anni che abbiamo visto sopra è lì a confermarci che non basta
dare premi per aumentare la produttività (Ponzellini, 2013).
A questo proposito l’esperienza del pubblico impiego è emblematica. Da vent’anni le riforme della
Pubblica amministrazione che si sono succedute hanno enunciato obiettivi di efficienza, qualità dei
servizi al cittadino, semplificazione e trasparenza e hanno pensato di poterli raggiungere non tanto
cambiando le strutture organizzative, il sistema del comando, i processi e l’organizzazione del
lavoro ma semplicemente introducendo sistemi di valutazione e premi collettivi e individuali e
confidando che l’esistenza stessa di un premio fosse stimolo sufficiente perché i lavoratori
potessero rendere efficiente un vecchio pachiderma burocratico: nel migliore dei casi, Davide
contro Golia.
La svolta: il cambiamento organizzativo come base per una nuova contrattazione della
produttività
Intendiamoci, l’incentivo salariale ha certamente una sua funzione motivazionale nell’indurre il
lavoratore a contribuire al raggiungimento degli obiettivi di performance, in ragione dell’ambito di
discrezionalità che mantiene nello svolgere la sua mansione, nel senso di quello spazio residuo che
automazione, procedure e programmi non sono stati in grado di integrare: di quel di più che può
venire dall’esperienza, da uno sforzo meglio finalizzato, da una competenza acquisita, da un talento
inespresso... Ma al singolo lavoratore non si può chiedere di modificare i processi, intervenire sulle
condizioni organizzative complessive, ribaltare la logica gerarchica, semplificare le procedure... Per
questo ci vuole un disegno di riorganizzazione.
La “vera” contrattazione della produttività significa proprio concentrare l’attenzione dei
rappresentanti dei lavoratori e dei manager su questo ridisegno: sulle leve per individuare le
inefficienze e sui modi per migliorare la qualità. E non invece su indicatori più o meno complessi di
misurazione da collegare al sistema premiante, come si è fatto finora. All’interno di questo
ridisegno, di nuovo il ruolo delle singole persone potrà diventare cruciale (lo vediamo più sotto
quando parliamo di partecipazione) ma il ridisegno organizzativo complessivo, le tappe del
processo di miglioramento, i malfunzionamenti e gli imprevisti della gestione quotidiana vanno
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costruiti e guidati dagli attori del sistema di relazioni industriali.
Questo nuovo approccio alla contrattazione della produttività vale per tutti i settori: industria,
pubblica amministrazione, banche, grande distribuzione, lavoro nei servizi. Come abbiamo visto
sopra a proposito delle pratiche organizzative ad alta performance, vi è una relazione molto intensa
tra l’introduzione di un mix efficace di innovazione organizzativa e gestionale e la performance
aziendale. A differenza di quella, che abbiamo visto essere molto debole, tra sistemi retributivi
premianti e produttività. Insomma, non sono i premi a far salire la produttività ma gli interventi di
riorganizzazione dei processi di lavoro. Soprattutto, secondo noi, quando attuati con il
coinvolgimento dei lavoratori. Se siamo quindi d’accordo che l’innovazione organizzativa è il
presupposto indispensabile per l’uscita dalla crisi, dobbiamo tener presente che governare
l’innovazione organizzativa nei luoghi di lavoro richiede di rivoluzionare l’approccio alla
contrattazione di secondo livello, spostando l’asse dalle tradizionali piattaforme per gli aumenti
salariali a piani concreti per lo sviluppo della produttività.
D’altra parte, il recente accordo (gennaio 2016) tra le Confederazioni sindacali sulla riforma delle
Relazioni Industriali sembra raccogliere alcuni stimoli in questo senso, sia quando afferma che “la
contrattazione di secondo livello ha l’obiettivo di realizzare il miglioramento delle condizioni di
lavoro con la crescita della produttività, competitività, efficienza, innovazione organizzativa,
qualità, welfare contrattuale, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”, sia quando sottolinea
l’opportunità di “strumenti per valorizzare l’esperienza e la conoscenza delle lavoratrici e dei
lavoratori nell’ammodernamento dell’organizzazione del lavoro..”, sia quando insiste sulla
formazione delle risorse come “una delle leve principali per l’innovazione”.
Si tratta di interpretare al meglio questa nuova unità di intenti delle Confederazioni, mettendo a
punto un vero e proprio “ciclo della contrattazione della produttività”, in cui le parti sociali si
pongano, in un precisa sequenza, alcune domande: 1. Come aumentare la performance aziendale? 2.
Come collegare la retribuzione alla performance? 3. Come collegare gli incentivi pubblici a
“questa” contrattazione? Questo approccio implica che prima di tutto sia messa mano
all’organizzazione delle aziende e che tutto il processo di produzione o di servizio vada vagliato e
ottimizzato, fase per fase. Quali sono i fattori da porre al centro dell’attenzione negoziale per
incidere realisticamente sul miglioramento dei risultati aziendali? Un possibile elenco comprende:
- modifiche dei processi produttivi che migliorino i flussi, semplifichino le procedure,
eliminino sovrapposizioni e sprechi;
- piani di miglioramento delle condizioni ergonomiche, di sicurezza e di benessere nel lavoro;
- aumento della flessibilità della produzione e del servizio, anche attraverso l’ampliamento
della scelta dell’orario di lavoro come leva per un buon equilibrio vita-lavoro e per la
rimozione delle cause dell’assenteismo;
- piani di sviluppo delle competenze, attraverso la formazione prevista dai fondi, training on
the job, rotazione delle posizioni, trasparenza nei sistemi di carriera;
- progressivo ampiamento dell’autonomia degli operatori, attraverso delega, lavoro in team,
progettazione congiunta dell’organizzazione del lavoro, partecipazione di tutti al
miglioramento.
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La messa in campo di uno o più interventi di questo tipo prevede un periodico monitoraggio dei
piani e la misurazione accurata dei risultati che producono in termini di performance per l’impresa.
Ciò implica la definizione ex-ante di indicatori di misura idonei: per esempio, i risparmi sui costi
ottenuti dalla riduzione degli sprechi, la riduzione dell’assenteismo ottenuta dall’introduzione di
orari più conciliabili, il miglioramento del delivery time ottenuto attraverso l’autoorganizzazione
dei team di lavoro, etc. Solo dopo, sarà possibile costruire il sistema premiante che collega questi
miglioramenti della performance alla distribuzione del salario. Questo passaggio presuppone che
esista anche una strategia distributiva, la quale potrà variare a seconda delle circostanze: premi
collettivi o individuali? uguali per tutti o parametrati sui livelli? interamente variabili o in parte
garantiti?
Il terzo passaggio, e a questo punto dovrebbe essere facile, ed è quello di richiedere l’incentivo
pubblico in base all’accordo sul sistema premiante. Correttamente, nella legge di stabilità 2016, la
detassazione dei premi è stata vincolata più rigorosamente ad azioni concrete per il miglioramento
della produttività. In effetti il decreto interministeriale 25 marzo 2016 va oltre il generico richiamo
a produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, e cita esplicitamente gli specifici
incrementi (soprattutto organizzativi) che devono essere misurati: aumento della produzione;
risparmi dei fattori produttivi; miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi tramite
la riorganizzazione dell’orario di lavoro non straordinario e il ricorso al lavoro agile. Introducendo
inoltre il vincolo alla “misurazione e verifica degli incrementi” (criterio dell’incrementalità).
3. PARTECIPAZIONE
Innovazione organizzativa e lean production: un nuovo ruolo per chi lavora?
Le organizzazioni basate sulla filosofia del toyotismo o del lean manufacturing, la produzione è
organizzata sulla base di precise metodologie - come il Total Quality Management (TQM), il Total
Productive Management (TPM), il Just in Time (JIT), i Kaizen - che si pongono l’obiettivo di
migliorare la performance aziendale attraverso la riduzione della gerarchia, l’eliminazione dei
magazzini, la fluidità e velocità dei processi, la riduzione degli sprechi, il miglioramento continuo
della qualità. Si tratta di nuovi modelli di organizzazione introdotti soprattutto nelle produzioni
manifatturiere e nei servizi su larga scala, comunque in ambienti a forte concentrazione di lavoro
esecutivo – fabbriche, negozi della distribuzione organizzata, call centers, grandi catene della
ristorazione – dove è necessario recuperare margini aggiuntivi di produttività non più soltanto dallo
sforzo fisico degli operatori mirato alla semplice esecuzione di compiti preordinati ma da un loro
contributo attivo, intelligente e parzialmente discrezionale, mirato al miglioramento dei target
produttivi e di servizio. Si tratta di una filosofia gestionale innescata da ragioni d’impresa e spinte
dalle condizioni della competizione globale, ma che, a differenza del fordismo - che aveva a cuore
il lavoratore soprattutto come consumatore di beni e si preoccupava quindi che percepisse un
reddito adeguato – tende a vedere nel dipendente un potenziale partner per il successo dell’impresa,
in quanto persona dotata di intelligenza e di passioni.
I nuovi sistemi si fondano sull’idea che, anche nel lavoro esecutivo e a maggior ragione nei lavori
professionali, esista un margine di discrezionalità che non può essere integrato dalla tecnologia e
che la messa a disposizione di questo spazio da parte delle persone che lavorano costituisca un
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contributo importante per la performance aziendale. Per questa ragione, la nuova organizzazione
prevede che gli operatori intervengano in molti modi, che vanno spesso oltre il ruolo definito dai
mansionari e con azioni che presuppongono l’uso di capacità cognitive complesse e non solo di
semplici operazioni manuali: per esempio, agli operai sono richiesti piccoli interventi di
manutenzione o piccole variazioni delle procedure, di cooperare con i colleghi per la soluzione di
problemi legati alle tecnologie o al funzionamento dei processi, di prendersi cura dei materiali e
degli attrezzi di lavoro, di risparmiare sui consumi energetici, di prevenire guasti alle macchine ed
infortuni. Inoltre, in tutti i sistemi tipicamente generati dal toyotismo, una delle formule più diffuse
di coinvolgimento consiste nella richiesta agli operatori di dare suggerimenti per migliorare la
qualità dei processi e dei prodotti.
Certamente, nei sistemi industriali la promessa “anti-taylorista” di abolire il lavoro in sequenza su
linea di montaggio e mansioni parcellizzate in tempi ridotti non è stata mantenuta Ponzellini e Della
Rocca, 2015). Tuttavia, nei sistemi manifatturieri e soprattutto nell’auto – dove sono stati introdotti
paradigmi organizzativi molto strutturati come il WCM della Fiat, il TPS della Toyota, il Lean
production system di Volkswagen – la nuova organizzazione dei processi è aperta a qualche forma
di delega verso il basso e consente anche agli operai dei montaggi di arricchire le proprie mansioni
(attraverso la polivalenza e l’uso di dispositivi digitali), di veder diminuito il ruolo della gerarchia
(attraverso il lavoro in team orizzontali guidati da un team leader “primus inter pares”), di poter
avere qualche influenza sull’organizzazione del lavoro (attraverso il sistema dei suggerimenti e/o la
partecipazione a gruppi di progetto o di miglioramento) (Campagna e Pero, 2011). Più raramente,
sia in alcuni casi industriali sia, più spesso, nelle attività commerciali e di servizio, ai team di
lavoratori è consentito anche di operare interventi autonomi di aggiustamento degli orari di lavoro,
naturalmente sempre all’interno dei target di produzione e degli standard di risultato previsti (Pero,
Ponzellini 2015).
Le formule di coinvolgimento e di partecipazione dei lavoratori collegate all’introduzione della
Lean production sono stati sperimentate anche nella pubblica amministrazione: per esempio, già a
partire dalla fine degli anni Novanta, nel Regno Unito. Una indagine recente di Forum PA sui
diversi comparti pubblici ha consentito di evidenziare, non senza qualche sorpresa, l’esistenza di
diverse esperienze partecipative nel lavoro pubblico anche in Italia. Alcune di queste come
estensione di metodiche manageriali strutturate ispirate al miglioramento continuo (sistemi di
suggerimenti o proposte, settimane del miglioramento, gruppi di miglioramento, ecc.) e a logiche di
tipo motivazionale. Altre, forse più interessanti, nate spontaneamente o quasi per iniziativa di
gruppi di tecnici o manager e rivolte alla soluzione di problemi concreti: cambiamento e
semplificazione di procedure attraverso gruppi interfunzionali di progettazione, messa a punto di
strumenti di comunicazione con l’utenza che coinvolgono direttamente i destinatari, comunità
professionali trasversali agli enti e ai comparti. In qualche caso, a seguito di una delega manageriale
formale ma in altri anche a seguito di una informale “occupazione” dal basso di spazi di intervento
organizzativo (Ponzellini, 2017b).
Le pratiche di coinvolgimento e partecipazione
La partecipazione è un tema caro agli studiosi di relazioni industriali. Tra questi, è stato soprattutto
Guido Baglioni ad approfondirne le varie forme: la partecipazione diretta dei lavoratori al
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cambiamento organizzativo, quella che qui prendiamo in considerazione, secondo la sua
classificazione sarebbe “partecipazione operativa” (Baglioni, 2001). La letteratura manageriale
indica queste forme di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori come EPI (Employee
Involvement and Participation). Ma quali sono in concreto queste pratiche? Bisogna tenere presente
che i sistemi di lean production sono per definizione sistemi molto strutturati, basati su “pilastri” di
gestione rigorosamente definiti. Per questa ragione, le formule di coinvolgimento dei dipendenti
nelle aziende che hanno introdotto questi nuovi sistemi sono poche, replicabili e ben consolidate. Le
principali sono:
- sistemi guidati di suggerimenti, tipicamente introdotti in tutte le esperienze di lean: hanno un
enorme successo tra gli operatori, che sentono di avere finalmente una voce sul miglioramento
dei processi di lavoro, delle proprie condizioni di lavoro e, a volte, anche dei prodotti;
- lavoro in team, che costituisce una nuova modalità di organizzazione del lavoro, introdotta in
grandi industrie come la Fiat ma anche in Ikea e altre aziende della grande distribuzione o nei
call centres. I team sono guidati da un team-leader, figura non gerarchica di primus inter pares;
al team è delegato un potere di intervento su piccoli cambiamenti organizzativi come
distribuzione dei ruoli, rotazione delle mansioni, training; nei casi più evoluti, all’autogestione
del team sono delegate anche decisioni inerenti la qualità della vita delle persone, come
l’organizzazione delle ferie, gli straordinari, la flessibilità dell’orario, lo scambi turni.
- gruppi di qualità, attivati in base a proposte che vengono dai lavoratori, così come “gruppi di
progettazione interfunzionali” o “gruppi ad hoc per la soluzione di problemi”, a cui possono
partecipare e dire la loro anche i lavoratori esecutivi;
- sessioni periodiche di informazione e proposta, a livello di reparto e ufficio, in cui vengono
presentati e discussi gli obiettivi di produzione e di servizio e le innovazioni organizzative, in
modo da permettere ai dipendenti di poter influire sulla presa di decisioni (questo è, per
esempio, il caso di Luxottica). Oppure “briefing”, brevi riunioni di confronto sui programmi e
di discussione di problemi, per esempio una mezz’ora una volta alla settimana, o dieci minuti
all’inizio del turno, a seconda degli ambienti produttivi (Pero, Ponzellini 2014; Ponzellini,
2017b).
Si tratta di pratiche analizzate all’interno degli studi che fanno riferimento all’approccio High
Performace Work Organisation (HPWO), quindi nell’ottica tipica degli studi di management
(Lynch, 2012; Leoni, 2012; Eurofound, 2012) e certamente hanno in comune la caratteristica di
essere promosse dal management dell’impresa e non dal sindacato. Per questo gli studiosi si
dividono tra chi ne enfatizza la portata di cambiamento dei modi di lavorare e delle condizioni dei
lavoratori (partecipazione) e chi tende ad appiattirli sulla mera pratica, più o meno sofisticata, di
gestione delle risorse umane (coinvolgimento). In realtà, si tratta di cambiamenti certamente
realizzati a intensità variabile nei diversi ambienti tecnologici e nelle concrete esperienze aziendali:
fin dalle origini, nelle esperienze di applicazione del toyotismo esistono infatti versioni più spinte
verso la autoregolazione operaia e versioni in cui i margini di autonomia degli operatori appaiono
più ristretti e più che di autoregolazione si deve forse parlare di “auto-razionalizzazione” (Cattero,
1995; Ponzellini, 2017b). Il limite principale delle EPI non sta forse tanto nella “profondità” a cui
arriva il processo di attivazione dei lavoratori ma nell’”estensione”, limitata, che hanno a tutt’oggi
queste pratiche: nella gran parte dei casi non escono dal perimetro della grande fabbrica
manifatturiera e sono diffuse a tappeto, per ora, nel solo settore dell’auto.
14
Vanno però considerati almeno due aspetti che ci inducono a monitorare con attenzione questi
sviluppi e, ove possibile, a favorirli. Innanzitutto, non si tratta di pratiche completamente ascrivibili
all’ambito della gestione delle risorse umane, cioè classicamente mirate a favorire la motivazione
dei lavoratori, il cambiamento di alcuni comportamenti come lo spirito di collaborazione,
l’attenzione alla qualità, la focalizzazione sugli obiettivi... Si tratta piuttosto di pratiche che vanno
anche oltre questo ambito e tendono a cambiare l’organizzazione stessa del lavoro: la distribuzione
delle mansioni, i ruoli, lo sviluppo delle competenze, le relazioni tra gli operatori, le relazioni
gerarchiche, il modello di coordinamento. In secondo luogo, nelle esperienze più avanzate, la
delega manageriale produce un vero e proprio spostamento di potere verso il basso: e questo è
quello a cui non solo ha sempre mirato la politica sindacale di “riappropriazione del controllo sul
ciclo produttivo” ma a cui mira anche la spinta soggettiva all’autonomia che proviene dalla nuova
classe dei lavoratori della conoscenza.
Perché dunque guardare con favore a queste pratiche di partecipazione diretta, anche se (per ora) di
provenienza manageriale? La ragione è presto detta. A guidare queste esperienze, infatti, non è
soltanto l’obiettivo delle imprese per ottimizzare i costi e migliorare la qualità usando in modo più
“denso” le risorse umane, quanto sempre più la risposta positiva che esse ottengono da parte degli
stessi lavoratori: i lavoratori non aspettano altro che qualcuno finalmente li “veda” e che consenta
loro di contare di più dentro l’impresa.
In sintesi, qual è il loro impatto sul lavoro? Come abbiamo detto, si tratta di pratiche a prevalente
iniziativa manageriale, a bassa formalizzazione, a bassa negoziazione.. ma in tutti i casi si tratta di
pratiche collettive. Il loro esito sul lavoro va sia nella direzione del migliorare l’efficienza
organizzativa che in quella di aumentare la qualità del lavoro. In alcuni casi, anche se non in tutti, è
evidente un vero e proprio ampliamento dello spazio d’influenza/controllo dal basso: detto in altri
termini, si verifica un vero e proprio trasferimento verso gli operatori di una parte del potere
manageriale nella progettazione e nella organizzazione dei processi di lavoro. La partecipazione,
quando non si limita alla mera pratica motivazionale, può anche cambiare il rapporto tra prestazione
e ricompensa (e quindi il contratto implicito tra impresa e lavoratore): una prestazione “partecipata”
remunera non solo in termini di salario ma in molti casi anche in sviluppo delle conoscenze, in
aumento dell’autonomia, in miglioramento dell’equilibrio vita-lavoro (Ponzellini, 2017a).
Che rapporto costruire tra partecipazione diretta e relazioni industriali nell’impresa?
Il fatto che, nei sistemi di coinvolgimento/partecipazione, sia il manager a dare risposte ai bisogni
dei lavoratori è spiazzante per i tradizionali equilibri delle Relazioni industriali italiane. La riprova è
nel fatto che, per esempio, dove funziona il lavoro in team e il team leader acquisisce
inevitabilmente il ruolo di riferimento per i compagni di squadra, i rappresentanti sindacali spesso
non sanno bene come comportarsi e, a volte, finiscono per sentirsi inutili (più raramente per entrare
in conflitto).
In realtà, il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori sta proprio nell’orientare queste pratiche in modo
da promuovere la partecipazione migliore: quella dove c’è effettiva delega di potere e dove gli
operatori – che sono quelli che detengono in ultima istanza il sapere del lavoro – possono
sviluppare una influenza individuale e collettiva sull’organizzazione del lavoro, sullo sviluppo delle
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competenze, sulla conquista di autonomia nei modi e, possibilmente anche nei tempi, del lavoro.
Come si vede, la nuova organizzazione del lavoro – partecipazione al miglioramento, flessibilità
degli orari, mobilità e polivalenza – non depotenzia affatto gli RSU ma apre la possibilità per un
nuovo e più ampio ruolo della rappresentanza e dell’intero sistema delle RI aziendali. In questo
quadro, che presuppone anche un cambiamento del clima dei rapporti con le aziende e la conquista
di un piano di fiducia reciproca, la tradizionale contrattazione potrebbe essere affiancata, o meglio
preceduta, da forme di gestione congiunta management-rappresentanti dell’organizzazione
“quotidiana” del lavoro: interventi sui processi, piccole modifiche degli orari, soluzioni di problemi
imprevisti ma anche costruzione condivisa di piani di recupero della produttività, definizione degli
obiettivi a cui legare il sistema premiante, sperimentazioni di innovazioni con verifiche a tempi
certi. In questo nuovo quadro, la contrattazione vera e propria – la stipula dei periodici contratti
aziendali – è a seguire, sugli esiti dei processi di innovazione: nell’accordo si formalizzeranno le
nuove regole dell’organizzazione, si definirà l’entità dei premi previa verifica del raggiungimento
degli obiettivi, si contratteranno i benefits di welfare, i passaggi di livello, etc.
Prendendo in prestito da Aristotele – “cittadino è colui che insieme partecipa al governare e
all’essere governato” - la partecipazione dei lavoratori nell’impresa potrebbe essere la nuova
cittadinanza nel lavoro. Partecipazione degli operatori (diretta), come strumento sia per aumentare
lo spazio di libertà e di espressione di chi lavora che per migliorare produttività e qualità dei
prodotti e dei servizi. Partecipazione dei rappresentanti alla gestione dell’organizzazione, sia per
migliorare l’efficienza dei processi che per creare i presupposti per una buona contrattazione di
secondo livello. Un tale progetto presuppone uno sforzo consistente per professionalizzare i
rappresentanti dei lavoratori e per far diventare abituale la formazione congiunta managers-
rappresentanti.
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1
Fondazione Unipolis --Seminario “La partecipazione dei lavoratori nelle
imprese”- 14 novembre 2016
Intervento della prof.ssa Anna M. Ponzellini – AISRI
In una versione riveduta, questo contributo è stato pubblicato in Fondazione Unipolis, La
partecipazione dei lavoratori nelle imprese. Realtà e prospettive verso nuove sperimentazioni, Il
Mulino, 2017
Intanto, molti ringraziamenti per l'invito, anche da parte dell'attuale Presidente dell'AISRI, prof. Mimmo
Carrieri. L'AISRI, ricordo, è l'Associazione Italiana degli Studiosi di Relazioni Industriali e ovviamente ha
molta attenzione sul tema della partecipazione, tanto che ha deciso di mettere in calendario annualmente un
seminario sulla partecipazione. L'ultimo è stato fatto a Venezia a metà ottobre e, dato il tema, non mi
stupisco che fossero presenti diverse persone che sono qui anche oggi.
Come studiosa, sono attratta dalla ricerca, quindi partirei dalla indagine che è stata fatta da Unipolis sulle
esperienze di partecipazione nelle aziende. Mi è sembrata molto interessante, direi anche molto preziosa,
perché è una raccolta di casi. Vi sono belle descrizioni di casi, alcuni conosciuti altri meno, che sarà
opportuno far circolare, perché c'è bisogno di informazioni, materiali, strumenti con cui allargare la
riflessione. Questa raccolta di casi però mi ha dato abbastanza la sensazione che, quando si parla di
partecipazione, c'è sempre - credo anche qui oggi – un certa ambiguità nei modi di intendere la
partecipazione. In altri termini, mi sembra che per “partecipazione” intendiamo tante cose diverse. Detto
per inciso, mi ha stupito, per esempio - ma lo vedo fare anche da altri ormai – vedere inclusi nella
partecipazione anche gli accordi di welfare aziendale e devo prendere atto che da un po' di tempo qualsiasi
accordo salariale a livello aziendale è considerato partecipazione.. Anche andando alla partecipazione vera e
propria, c’è la “partecipazione diretta”, quella che coinvolge direttamente i lavoratori, e poi la
“partecipazione sindacale” che coinvolge invece i rappresentanti dei lavoratori, sia a livello organizzativo
come anche a livello strategico, nei board delle imprese (di questa ultima si è parlato molto anche a proposito
delle occasioni più o meno perse dal punto di vista legislativo). Si può distinguere tra la partecipazione
“istituzionale” e quella “informale”. Ecco, a me sembra che forse valga la pena di soffermarsi sui modi
diversi della partecipazione o comunque cercare di specificarli prima di parlare della partecipazione in modo
generale, perché poi qualsiasi messaggio, conclusione o via di uscita o prospettiva, possa essere meglio
compreso. Parlare di partecipazione in modo generico e retorico non aiuta le buone politiche.
Dopo questa premessa, vorrei soffermarmi solo su due questioni. Lascio quindi perdere la partecipazione alla
governance delle imprese, su cui ho sentito anche importanti interventi e contributi al dibattito oggi. La
prima questione di cui vorrei parlare è quella della partecipazione organizzativa, anche un po' perché è il mio
ambito, visto che mi occupo di organizzazione del lavoro e di relazioni industriali e d'impresa. Allora, la
partecipazione organizzativa, anche se prevede alla base quel flusso di informazioni e di confronti tra le parti
sociali che in genere nelle grandi imprese diamo per scontato, è qualche cosa di diverso dal sistema di rituale
consultazione sulle grandi decisioni d’impresa (andamento dei mercati, strategie di prodotto, prospettive
dell’occupazione, ecc.). È invece il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori alle decisioni della
“quotidianità” dell'impresa. Il prof. Treu poco fa parlava proprio dell’importanza per la vita delle aziende del
day-by-day, si tratta esattamente questo: sono le decisioni che, a partire dal target produttivo della settimana
o del mese, riguardano gli straordinari (i sabati di straordinario, o comunque dove sia meglio collocare le ore
straordinarie), il cambio-macchina, il turno in più, la rotazione, le sostituzioni, l’affiancamento del nuovo
2
arrivato, la flessibilità degli orari, la programmazione delle ferie.. Queste sono le decisioni che sono alla base
del la partecipazione organizzativa.
Ora dire che questa partecipazione, queste necessità d'impresa e questi spazi di co-decisione tra chi
rappresenta il lavoro e chi rappresenta l'impresa, si possa risolvere dentro quel sistema che oggi io ho sentito
ricordare più volte qui come il “sistema delle commissioni paritetiche” – comitati e commissioni per le pari
opportunità, la formazione, la sicurezza, l’inquadramento o altre variamente denominate (terrei per un attimo
a parte il caso Ducati e Lamborghini, perché è un caso molto più istituzionalizzato, perché c'è una Carta del
lavoro che non è stata inventata dal nostro sistema delle relazioni industriali) - ecco io credo che non sia
possibile. Anzi, a distanza di trent'anni, dobbiamo dire che nella maggioranza dei casi quel sistema lì non ha
funzionato.
È un fatto che porto alla vostra discussione, se ne è discusso anche in AISRI ma qui porto ovviamente il mio
punto di vista. Questo sistema non ha funzionato sia perché non incide sulle concrete decisioni organizzative,
sia perché ha finito per alimentare impropriamente le piattaforme e i tavoli negoziali. Nel senso che tenere
appaiati e continuamente in sovrapposizione il sistema della contrattazione con il sistema della decisione
day-by-day non funziona. E chiunque sta nelle imprese vede che questa cosa non può funzionare, tanto è
vero che regolarmente un sistema ammazza l'altro: o finisce per prevalere la contrattazione continua e la
conseguente conflittualità (più o meno latente) o, al contrario, si verifica una delega su tutto alle decisioni del
management. Per questo, a mio parere, non è che si tratta soltanto di invocare il passaggio dalla retorica del
conflitto alla retorica della cooperazione: si tratta di vedere se è possibile definire dei confini tra co-decisione
e contrattazione.
Ora il sistema tedesco, che invochiamo spesso, che forse però non tutti conosciamo nei suoi dettagli,
stabilisce che alcune materie non sono materie di contrattazione. Tutto ciò che riguarda l'organizzazione del
lavoro non è materia di contrattazione. Sono gli ambiti di confronto densissimo e quotidiano e di decisione
congiunta tra chi rappresenta il lavoro e chi rappresenta l'impresa. E questo apre la prospettiva di andare a
definire dei confini. Secondo me, non abbiamo più molto ancora da rilanciare nel vecchio sistema perché
abbiamo avuto grandi imprese, qui ne abbiamo più di una davanti, che hanno sperimentato cose egregie, però
non hanno creato un modello. E quindi siamo di fronte alla necessità di entrare più nel merito di come
funziona il sistema decisionale, trarne le conseguenze e discriminare maggiormente tra le varie opzioni, in
modo da crearlo, questo modello. È chiaro che questo richiama tutto un discorso che è già stato fatto qui, ad
esempio dal prof. Treu, dell'opportunità di introdurre un doppio canale di rappresentanza: il doppio canale
potrebbe delimitare questi due ambiti diversi che definiscono dove c'è partecipazione organizzativa nel senso
del coinvolgimento dei rappresentanti nelle decisioni che riguardano gli aspetti della organizzazione del
lavoro e dove invece, con piena legittimità, il sindacato può esercitare i suoi diritti a contrattare, rinnovare
periodicamente i contratti aziendali. Su questo punto, mi fermo qui.
Il secondo punto è invece quello del perché si parla di partecipazione proprio adesso, proprio in questi ultimi
tempi. A parte le vicende legate al revival della possibilità di un'apertura legislativa sulla partecipazione (in
particolare di quella strategica), si sta parlando molto di partecipazione in questo periodo perché è in primo
piano la diffusione della partecipazione diretta, ovvero di tutte le forme in cui i lavoratori sono coinvolti a
dare il loro contributo – di competenza, di esperienza, di intelligenza - agli obiettivi dell’impresa. Questo è
successo perché finalmente le organizzazioni – e segnatamente i nuovi paradigmi organizzativi ispirati alla
Lean Production – si sono rese conto che la partecipazione dei lavoratori è la chiave di volta del
funzionamento organizzativo e del miglioramento continuo.
Ora, da noi tutto il discorso del Toyotismo, della Lean, è arrivato tardi, però poi è arrivato. Nel mondo delle
grandi imprese è ormai da qualche anno che - pur in aziende con modelli di relazioni industriali molto
diversi, basti citare FCA contro Luxottica per esempio - ci andiamo a confrontare con i paradigmi
3
organizzativi che scelgono di mettere al centro i lavoratori: ce li mettono con maggiore o minore autonomia a
seconda di come si è deciso di spingere sul cambiamento ma certamente si osserva una delega del potere
manageriale, l’alleggerimento dei livelli gerarchici, un empowerment di chi lavora e una centralità delle
risorse umane che tocca ogni ambiente di lavoro, compresa la produzione.
Di cosa parliamo quando parliamo di partecipazione diretta? Per intenderci - adesso forse dico cose che
conoscete già perfettamente - parliamo del lavoro in team, dei gruppi di miglioramento, della raccolta dei
suggerimenti e delle proposte. Il lavoro in team è una delle innovazioni più interessanti, non dico solo come
modalità cooperativa, parlo del team come vera e propria struttura organizzativa: che prevede rotazione,
polivalenza, riduzione della catena gerarchica, e quindi, nei casi migliori, ampliamento del potere verso il
basso, dello spazio di influenza dei lavoratori attraverso il team. Un potere che si eserciterà con ampiezze
differenti, nessuno può essere ottimista fino in fondo su queste strategie, però che certamente per chi lavora
vuol dire crescita professionale, possibilità di scegliere se ruotare o meno, e anche, dove il team funziona,
scelta sull'uso del proprio tempo – la flessibilità del mio orario: se posso arrivare un po’ dopo, quando fare le
ferie, quando prendere un permesso - all'interno di un organismo di pochissime persone. I team, dunque,
come piccoli centri decisionali. Altre forme sono i gruppi di progetto, i suggerimenti dal basso, la lotta agli
sprechi e le altre formule del miglioramento continuo. Modalità diverse verranno avanti in modo molto più
veloce nei prossimi anni, prevedibilmente, a cominciare dal manifatturiero, ma si vede già adesso come sta
cambiando anche tutto il settore terziario. Pensate anche alle esperienze di questi ambienti della
cooperazione, come le squadre delle cassiere della grande distribuzione, per esempio, che son proprio state
sperimentate prima nelle cooperative e adesso sono il modello tipico di tutta la grande distribuzione, da Ikea
a Auchan. Pensate anche ad altri ambienti non necessariamente solo di lavoro esecutivo - come ad esempio
le aree del marketing, della progettazione tecnica, il commerciale, ecc. – come anche qui sta cambiando, o
potrebbe cambiare, il modo di lavorare.
Se è vero che questa che chiamiamo in modo un po' vago ma ormai rituale, l’Industria 4.0, condenserà e
velocizzerà l'innovazione che c'è in corso, bisogna sapere che c'è un versante organizzativo di questa corsa
alla tecnologia di cui si tiene pochissimo conto. Persino, mi sembra, nel Piano Calenda. Eppure, il
cambiamento organizzativo - di cui si parla pochissimo, ahimè, quando si trattano gli incentivi
all’innovazione - sarà indispensabile per regolare l'impatto sul lavoro dell’introduzione delle tecnologie più
avanzate, siano esse la robotica, la digitalizzazione spinta dell’IOT o le stampanti 3D. Vale a dire, per dare
risultati pieni all’innovazione dal punto di vista della produttività da un lato e della qualità del lavoro
dall'altro: che, beninteso, sono i due piani del Lavoro 4.0 che vanno tenuti strettamente insieme. In ogni caso,
quello che vediamo è che i nuovi sistemi organizzativi basati sulla partecipazione sono molto graditi a chi
lavora. Non è che i lavoratori non capiscano che si tratta di sistemi che hanno una tensione molto forte sugli
obiettivi di produttività dell'impresa. È che vogliono lo stesso essere ingaggiati e coinvolti, e sapere perché
lavorano, vogliono essere considerati nel lavoro che fanno. Quindi c'è un gran futuro su questo piano e, forse
proprio a partire da lì, quindi dal basso, si potrebbe costruire il secondo livello della partecipazione, quello
dei rappresentanti. Se c'è una sperimentazione da fare, io la farei in questa direzione. Grazie.
1
Organizzazione del lavoro e relazioni industriali. Una rassegna degli
studi degli ultimi venti anni in Italia
Anna M. Ponzellini
Una versione rivista di questo lavoro è stata pubblicata come “Organizzazione del
lavoro e Relazioni industriali. Una rassegna degli studi degli ultimi venti anni in
Italia”, in Economia e Lavoro, n.1, 2017 pp.147-164
ABSTRACT
Il saggio è una rassegna critica degli studi e delle ricerche che negli ultimi venti anni hanno
analizzato i nuovi paradigmi organizzativi, manageriali e del lavoro e della risposta (o non
risposta) che hanno avuto dal sistema delle relazioni industriali. Ne esce un quadro che vede
un lungo periodo di disinteresse sia da parte degli studiosi sia da parte della contrattazione,
interrotto recentemente dalla centralità assunta dalla questione della produttività nella crisi e
nei nuovi paradigmi di lean organisation. La rassegna mette in evidenza il tema emergente
della partecipazione diretta dei lavoratori, introdotta su iniziativa del management e ancora
poco integrata nel sistema di relazioni industriali. La partecipazione forse potrebbe
rappresentare il nucleo di un “nuovo paradigma del lavoro”, in grado di fare fronte alla
domanda di flessibilità delle imprese e di qualità della vita dei lavoratori. Sembra però
necessario un nuovo quadro di regole che superi il sistema di relazioni di lavoro fordista
novecentesco.
The essay is a critical review of those studies and researches that in the last twenty years
analysed the change in organisation, management and labour paradigms, together with the
response (or lack of it) they had from the system of industrial relations. The resulting picture
shows a long period of neglect, both by scholars and by collective bargaining, recently
interrupted by the key role played by the issue of productivity both with regard to the
economic crisis and in the new paradigms of lean organization. The review especially
highlights the emerging issue of employee direct participation, introduced by manager
initiative and still poorly integrated into the industrial relations system. Employee
participation could indeed be at the core of a "new paradigm of work", able to meet the
company demand for flexibility and the workers’ aim for a better working life. Still, a new
framework of rules growing out of the twentieth century Fordist labour relations system
appears necessary.
1. Cinque parole-chiave: innovazione organizzativa, flessibilità,
produttività, qualità del lavoro, partecipazione
All’imponente processo di innovazione tecnologica avviatosi all’indomani delle grandi
ristrutturazioni industriali degli anni Settanta e Ottanta e culminato negli anni Novanta e nei
primi anni Duemila con i processi di automazione industriale e con la rivoluzione informatica
e del web, non si è accompagnata in Italia – lo denunciano anche importanti agenzie
economiche come Bankitalia e Ocse - una adeguata stagione di innovazione organizzativa e
2
gestionale che consentisse al nostro sistema produttivo di far fronte alla sfida della
competizione imposta dalla globalizzazione dei mercati. Anche le relazioni industriali, che
nella stagione del fordismo avevano immaginato di poter opporre alla catena di montaggio la
forza del “controllo operaio del ciclo produttivo”, sul tema dell’organizzazione del lavoro
sono state in questi ultimi decenni prevalentemente assenti. Tantoché, paradossalmente, sono
adesso la lean production e il capitalismo post-fordista a ritenere imprescindibile il contributo
competente e motivato dei lavoratori.
La lunga crisi della produttività - stagnante già a partire dai primi anni Novanta e poi, dal
2003, decisamente in calo - ha alla fine portato in primo piano il rapporto cruciale tra la
necessaria riorganizzazione dei fattori produttivi e la competitività del sistema Paese. Una
volta riconosciuti che, oltre ad un ottimale livello tecnico, sono drivers fondamentali della
produttività aziendale l’innovazione dell’organizzazione del lavoro e una gestione evoluta
delle risorse umane, bisogna ammettere che entrambi questi fattori costituiscono un tema
complesso sul piano delle relazioni industriali perché comportano una ridefinizione dei
confini tra prerogativa manageriale e regolazione contrattuale. Questa difficoltà è stata
“nominata” nelle relazioni industriali italiane degli ultimi venti anni nella forma controversa
della "flessibilità del lavoro". A livello macro, bloccata nell'equilibrio irrisolto tra la
flessibilità dell'uso del lavoro da parte del capitale e le garanzie per i lavoratori (flexicurity).
A livello micro, bloccata dalla difficoltà del sindacato a superare la logica del potere di veto
sulla organizzazione del lavoro e a portarsi piuttosto sul piano della gestione concordata delle
risorse. Questo mentre contemporaneamente gran parte degli altri Paesi – e non solo
Germania o Paesi nordici - potevano giovarsi di formule di gestione congiunta
dell’organizzazione nei luoghi di lavoro che consentivano al sistema di relazioni di lavoro di
confrontarsi positivamente con la performance d’impresa e la competitività del sistema
produttivo. Nel frattempo, nelle relazioni industriali a livello d’impresa la cosiddetta
“contrattazione della produttività” ha finito per identificarsi completamente, ed
ambiguamente, con gli accordi aziendali di retribuzione variabile, che con la produttività
hanno mantenuto negli ultimi vent’anni un legame più che altro simbolico.
A questo va aggiunta una ulteriore occasione mancata per il sistema di relazioni industriali
italiano degli ultimi anni. Mentre, infatti, da un lato le direzioni di aziende e pubbliche
amministrazioni si stanno da tempo confrontando con la necessità di un sempre maggiore
coinvolgimento e motivazione delle persone che vedono ormai essere fattori centrali per la
performance delle organizzazioni e, dall’altro, cresce dal basso una domanda di protagonismo
e responsabilizzazione che proviene da una forza lavoro progressivamente più scolarizzata, il
tradizionale sistema di rappresentanza sindacale fatica sia a tenere dietro a queste nuove
esigenze organizzative, sia a gestire questo nuovo bisogno sociale (a cui finisce più
facilmente per dare risposta il management) e non sembrano delinearsi ancora da parte del
sindacato idee e proposte efficaci per rendere effettiva la partecipazione dei lavoratori
all’impresa.
Nondimeno in tutti questi anni, e anche nell’ultimo decennio, molti i filoni di studio contigui
agli studi di relazioni industriali - dagli studi di management a quelli di teoria organizzativa,
dagli studi macro-economici a quelli di economia d’impresa - hanno continuato ad occuparsi
del rapporto che esiste tra l’innovazione organizzativa, la flessibilità del lavoro e il
coinvolgimento dei lavoratori con la performance delle aziende (non solo naturalmente quelle
manifatturiere ma anche quelle dei servizi, compresa la pubblica amministrazione). In molti
casi, ne è anche stato analizzato l’impatto sulle condizioni di lavoro, sulla professionalità e
3
sulla soddisfazione dei lavoratori. Questo mentre, negli stessi anni, gli studi di relazioni
industriali in senso stretto si concentravano soprattutto, o esclusivamente, sulla contrattazione
salariale (ora in parte su quella, contigua, del welfare aziendale).
Questo saggio intende fare una rassegna critica degli studi e delle ricerche – collocati in senso
lato nell’ambito degli studi di relazioni industriali - che in questi ultimi venti anni hanno preso
in esame le nuove pratiche manageriali e organizzative e la partecipazione dei lavoratori,
osservandoli, da un lato, alla luce dei necessari recuperi di produttività che possono
contribuire a far uscire il nostro sistema economico dall’emergenza della crisi e, dall’altro,
alla luce di possibili miglioramenti delle condizioni dei lavoratori e della qualità della vita di
lavoro.
Si prenderanno dunque in considerazione:
• gli studi che analizzano l’impatto dei nuovi paradigmi organizzativi ispirati alla lean
production e alle più recenti strategie del capitalismo globale sulle condizioni di
lavoro e sulla partecipazione dei lavoratori, anche in relazione al possibile emergere
di un modello di lavoro post-fordista;
• gli studi che analizzano la risposta dei sistemi di relazioni di lavoro a queste
innovazioni e in particolare gli studi e le ricerche sulla contrattazione aziendale della
organizzazione del lavoro, della flessibilità e della produttività, anche in relazione al
possibile emergere di un nuovo disegno delle relazioni industriali d’impresa.
2. Il lavoro cambia: si delinea un nuovo paradigma organizzativo?
Gli anni Novanta e i primi Duemila: al centro, le figure del post fordismo
Mi si perdonerà se prendo questa riflessione sugli studi sull’organizzazione del lavoro un po’
più alla lontana, c’è una ragione. Com’è noto, negli studi sul lavoro gli ultimi anni del
Novecento e i primi del nuovo Millennio sono stati prevalentemente dedicati a riflessioni "di
passaggio d'epoca": si è così scritto molto sulla fine del lavoro novecentesco o comunque
sulla fine dei "trenta gloriosi" (Accornero, 1997; Manghi, 2002; Dore, 2005; Negrelli, 2013;
Baglioni, 2014) e sull'avvento del cosiddetto "post-fordismo" e dell’”economia della
conoscenza” (Drucker, 1996; Castells, 1996; Rullani, 2004). Nonostante il passaggio d'epoca
nel lavoro fosse prevalentemente nominato come il passaggio dal paradigma taylor-fordista
dell'operaio-massa a un nuovo paradigma organizzativo, paradossalmente in quegli anni non
ci fu affatto una ripresa degli studi sull'organizzazione del lavoro. Gli studi sull’economia
della conoscenza misero piuttosto la lente sulle nuove figure del lavoro, i cosiddetti
“lavoratori della conoscenza” (Butera, Donati e Cesaria, 1997; Prandstraller, 2001; Pais,
2003). Di queste nuove figure – all’inizio si erano imposti soprattutto gli informatici, in
seguito anche le altre figure del cosiddetto terziario avanzato – interessavano agli studiosi
intanto le caratteristiche soggettive che più le distinguevano dall’operaio fordista (scolarità,
competenze, nuovi orientamenti nei riguardi del lavoro). Ma soprattutto colpivano, dei
knowledge workers, gli inediti rapporti col mercato del lavoro, ovvero la crescita, parallela –
anche se non sovrapponibile - del lavoro autonomo (Bologna, 1997; Negri e Vercellone,
2007; Banfi e Bologna, 2011) e del precariato (Fullin e Magatti, 2002; Fellini, 2003; Gallino,
2007), che apparivano essere i tratti distintivi del nuovo lavoro cognitivo.
4
Di conseguenza, l’analisi del lavoro post-fordista è rimasta per lo più sganciata dai contesti
organizzativi tradizionali - come la fabbrica, l’ufficio, il negozio, la corsia ospedaliera - e
mancò l’interesse a visitarne i contesti organizzativi nuovi e quelli che stavano cambiando.
Perfino analisi più recenti che mettono in relazione la concentrazione territoriale dei
“cervelli” con la crescita dell’economia dell’innovazione nel panorama mondiale (Moretti,
2013) vanno difficilmente a vederne le implicazioni organizzative dentro i luoghi di lavoro (e
i non-luoghi, visto che molto di questo lavoro professionale è di fatto virtuale). Insomma, con
qualche eccezione che vedremo in seguito, la sociologia del lavoro italiana degli ultimi
decenni sembra mettere in primo piano aspetti del mondo del lavoro di grande interesse per le
politiche occupazionali e del welfare e per l’analisi delle trasformazioni del capitalismo, ma
almeno apparentemente estranei all’impresa e dunque giustamente ignoti alle (e ignorati
dalle) relazioni industriali che sono da sempre radicate nei luoghi di lavoro. L’”occupazione”
piuttosto che il “lavoro”. Naturalmente questo non vuol dire che da parte dell’accademia sia
calato negli ultimi anni l’interesse allo studio delle organizzazioni, ma le varie declinazioni
del cambiamento organizzativo – dai modelli di produzione a specializzazione flessibile al
toyotismo - sono state studiate più nei loro rapporti macro, col mercato e con le istituzioni,
che per i loro effetti sulle condizioni e i modi di lavorare e sul contenuto del lavoro (De Masi
e Bonzanini, 1988; Sapelli, 1990; Trigilia, 2007). Gli stessi studi manageriali – i quali,
all’opposto, hanno avuto molta fortuna proprio dagli anni Novanta ad oggi – hanno
prevalentemente limitato il loro interesse da un lato alle figure dei managers e dei quadri
(Istud, 1991 e 2014; Od&M 2012; Manageritalia, 2013), dall’altro allo sviluppo degli
strumenti di Human Resource Management (Nacamulli, 2003; Boldizzoni, 2003; Solari,
2004): strumenti utili alla gestione del personale nelle varie fasi della vita aziendale - dal
reclutamento, alla formazione, alla carriera, al rewarding – ma che, curiosamente, sembrano
tenersi alla larga dalle implicazioni connesse alla concreta organizzazione dei processi e delle
pratiche di lavoro.
Durante tutti gli anni Novanta e nei primi anni Duemila le uniche eccezioni a quella generale
rimozione del tema dell’organizzazione del lavoro1 dagli studi e dalla pratica delle relazioni
industriali (ci sarebbe da chiedersi: “Prima dagli studi e poi dalla pratica delle relazioni
industriali o viceversa?”) sono due filoni di studio piuttosto diversi tra loro. Il primo è
rappresentato dagli studi sul settore automotive e in particolare sulla Fiat e sui suoi primi
tentativi di uscire dal fordismo attraverso il passaggio all’automazione e alla “fabbrica
integrata” (Cerruti e Rieser, 1991; Bonazzi, 1993; Negrelli, 2000; Fortunato 2001). Gli
interrogativi che pose questa fase di ricerca furono stimolanti anche per il dibattito
successivo, concentrandosi soprattutto su una questione centrale per le relazioni industriali di
quegli anni ovvero sulle ragioni, forse inaspettate, del consenso operaio al cambiamento,
nonostante non fosse chiaro agli analisti quanto degli aspetti negativi del taylor-fordismo
fosse stato effettivamente risolto: allora si rispose che l’adesione dei lavoratori
all’innovazione era dovuta esclusivamente al miglioramento delle condizioni fisiche del
lavoro prodotte dall’automazione e si decretò, forse un po’ sbrigativamente, un saldo non
positivo nel percorso di emancipazione del lavoro, stante il comprovato aumento della
responsabilizzazione degli operatori a fronte di una crescita solo modesta della loro
autonomia e professionalità (Bonazzi,1993 e 2002; Negrelli, 2011).
1 Leggo con piacere che la pensa come me Riccardo Zuffo, anche se più specificamente a proposito del
dibattitto sul taylorismo e sul suo superamento, quando afferma che “.. in particolare per l’Italia
potremmo parlare di una letteratura che non c’è: Taylor è stato fatto oggetto di una operazione di
rimozione culturale durata diversi decenni” (Zuffo, 2013: 262).
5
Il secondo filone è rappresentato da Federico Butera e dal suo gruppo, con ricerche e
riflessioni sulle nuove “service professions”, ovvero sulle occupazioni dei lavoratori cognitivi
addetti ai servizi interni alle imprese (e alle altre organizzazioni, anche pubbliche) i quali
operano in autonomia e su posizioni di discreta responsabilità, non importa se con status
dipendente o indipendente: secondo questo approccio, queste attività - che includono da un
lato il lavoro della conoscenza in tutte le sue accezioni, dall’altro il lavoro di relazione col
cliente interno ed esterno - circoscriverebbero un modello di lavoro del tutto innovativo e in
grado di superare sia il lavoro artigiano tradizionale, sia quello delle occupazioni industriali e
burocratiche del XX secolo, sia quello delle classiche professioni liberali (Butera,1987;
Butera e Failla, 1992; Butera, Donati e Cesaria, 1997; Butera 2014). A questo filone di studi
appartengono anche alcune ricerche sui modi di lavorare emergenti nelle nuove occupazioni
impiegatizie - tutta la gamma della nuova organizzazione del lavoro cognitivo: lavoro per
progetti, lavoro in network, comunità professionali via web, lavoro a distanza – che
cominciano a mettere in luce la crescente debolezza degli istituti di regolazione del lavoro
tradizionali, prima di tutto quelli legati all’orario e al luogo di lavoro, a fronte di paradigmi
organizzativi radicalmente cambiati (Ponzellini, 2007).
A cavallo della crisi: lean manufacturing, WCM e la riscoperta del lavoro operaio
Sarà solo la crisi e la conseguente ripresa di attenzione alla fabbrica, anche in chiave storica
ed etnografica – dalla ricostruzione delle vicende della vecchia Olivetti (Butera e De Witt,
2011; Bricco, 2014; Di Vico e Viesti, 2014), alle descrizioni delle nuove fabbriche globali
come luoghi di “produzione intelligente” (Berta, 2014; Signoretti, 2014), alla riscoperta delle
piccole imprese come “luoghi dell’anima” (Sapelli, 2013) - a riuscire a riportare l’attenzione
degli studiosi dentro i luoghi della produzione, sugli importanti cambiamenti in corso nei
modi di organizzare la produzione e i servizi, sul loro impatto sulle pratiche di lavoro e sulle
condizioni materiali degli operatori, sul contenuto stesso del lavoro. E’ così in anni più recenti
– più o meno, dal 2013 in avanti – si è sviluppato un dibattito interessante in grado di distrarre
l’attenzione delle relazioni industriali dalla pratica ormai logora della concertazione dei
grandi problemi dell’occupazione e del welfare e di obbligarle a mettere a fuoco le novità del
lavoro “dentro” i luoghi di lavoro.
Finalmente il lavoro operaio riprende la scena. O meglio, il lavoro esecutivo nelle sue diverse
declinazioni, visto che a questo punto alcune figure terziarie “di massa”, come gli operatori
dei call centre e gli addetti della grande distribuzione, diventano oggetto di interventi di
riorganizzazione in modo non dissimile dagli operatori dell’industria. Cosa è successo? Dopo
che la “via bassa” ai recuperi di produttività praticata quasi dappertutto dal sistema delle
imprese per tutti gli anni Novanta e i primi anni Duemila - tramite automazione labour-
saving, lavoro straordinario, aumento dei ritmi, lavoratori precari – ha cominciato a mostrare
la corda, la grande impresa, la catena distributiva, il grande call centre sono stati costretti a
optare per un ripensamento complessivo del disegno organizzativo della produzione o del
servizio che consentano loro di restare nel gioco competitivo della globalizzazione.
Non è ancora sufficientemente studiata la transizione organizzativa nell’impresa della
distribuzione organizzata o nel call centre (benché alcuni abbiano sbrigativamente parlato di
neo-taylorismo 2 ), ma per quanto riguarda l’industria manifatturiera la gran parte del
2 Vedi per esempio, Eliana Como a proposito del lavoro nel call centre (2006).
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cambiamento avviene sotto l’egida del lean manufacturing, il noto modello di gestione della
produzione basato sullo snellimento delle strutture mediante l’accorciamento delle linee di
comando, sulla fluidità dei processi, sulla riduzione degli sprechi, sul miglioramento
continuo. Questo sistema di produzione inventato da Taiichi Ohno per Toyota già negli anni
Ottanta – sulle cui implicazioni lo stesso ebbe modo di riflettere in un libro più recente (Ohno,
2004) - si propagò in Occidente nei successivi due decenni ma in Italia si sviluppò
pochissimo, quasi solo nei transplant giapponesi o nelle consociate italiane di multinazionali
svedesi e tedesche (in qualche caso solo nominalmente, come nella Fiat “della fabbrica
integrata” degli anni Novanta). Ci vorrà la crisi a imporre un cambio di passo alle aziende,
sempre più prese nella stretta tra innovare o soccombere: sistemi avanzati di produzione
snella cominciano così a diffondersi con maggiore regolarità, coinvolgendo oltre che i grandi
gruppi industriali – tra cui Luxottica e anche Fiat a partire dal 2005 – altre grandi e medie
aziende del settore farmaceutico, alimentare, dell’elettrodomestico.
La rivoluzione portata dagli attuali sofisticati sistemi di lean manufacturing va ben oltre
l’impatto dell’automazione degli anni Novanta. Già nelle sue premesse metodologiche – si
veda per esempio la minuta articolazione dei ruoli degli operatori in sistemi come il WCM - si
annuncia cruciale per le relazioni di lavoro, in ragione del cambiamento che comporta nelle
pratiche del lavoro esecutivo: il just in time e la lotta agli sprechi, il miglioramento della
qualità dei prodotti e dei processi hanno infatti bisogno del contributo consapevole e motivato
di tutti gli operatori, indipendentemente dal ruolo ricoperto nei processi di produzione. E’
forse a partire da questo punto che si può parlare con buone ragioni dell’avvento in fabbrica
del post-fordismo: infatti il fordismo, all’opposto, aveva significato l’azzeramento del
contributo dell’intelligenza operaia, la strutturazione di un “inflessibile sistema operativo”
(Accornero, 1997) formato da “operai senza volto” (Zuffo, 2004), in sostanza aveva
considerato il lavoro come il residuale umano di un’automazione tecnica incompleta. La
produzione snella invece parte proprio dalla presa d’atto che esiste una parte del lavoro non
sostituibile dalle macchine (almeno per ora) e sceglie di ottimizzarne l’impiego mettendo al
lavoro, oltre alle braccia, l’intelligenza, il sapere informale e i comportamenti degli operatori.
Per fare questo “smonta” il sistema tradizionale del comando gerarchico, allargando la delega
ai livelli inferiori: l’empowerment dei livelli esecutivi si realizza nell’affidare agli operatori
una serie di compiti aggiuntivi di maggiore responsabilità (nel caso degli operai, la soluzione
di piccoli problemi legati alle macchine, espletamento di una parte della manutenzione
ordinaria, la decisione di quando fermare la linea) o nell’aumentare il loro contributo
cognitivo e la loro funzione di controllo relativamente ai processi e ai prodotti (individuazione
dei problemi, suggerimenti per la qualità, per il miglioramento dell’ergonomia, per
l’eliminazione degli sprechi). Gli operatori diventano quindi gli artefici cruciali del successo
di paradigmi organizzativi fondati sulla qualità e sulla rapidità, tipo “zero scorte, zero scarti”
nei sistemi manifatturieri o dei nuovi modelli di vendita “snella” della grande distribuzione
organizzata, e per questo vengono coinvolti in formule di organizzazione del lavoro che
potremmo chiamare “partecipative”.
Il dibattito attuale: è possibile far coesistere competitività e qualità del lavoro?
Questa centralità diversa delle persone-lavoratori nel processo di produzione del valore tocca
un aspetto socialmente ben più interessante del generico miglioramento della qualificazione o
delle condizioni salariali che hanno improntato l’azione sindacale nei luoghi di lavoro negli
ultimi decenni: implica la possibilità di costruire un sistema diverso di relazioni di lavoro, sia
nel senso di un più intenso orientamento delle politiche del personale al coinvolgimento dei
7
lavoratori sia, e ancora più interessante dal nostro punto di vista, nel senso di una possibile
svolta in senso partecipativo negli assetti delle relazioni industriali a livello d’impresa.
Come si sa, le chiavi di lettura dell’impatto dei nuovi modelli organizzativi sono diverse e
tendenzialmente bipolari: i commenti variano da chi si entusiasma per il nuovo protagonismo
dei lavoratori a chi, all’opposto, denuncia l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro.
Non c’è dubbio che molti degli obiettivi posti dall’utopia della “fine della divisione del
lavoro” (Kern e Schumann, 1984) restano lontani dall’essere raggiunti all’interno dei nuovi
paradigmi del toyotismo o di sistemi analoghi. E resta certamente da chiedersi quante delle
promesse dell’approccio socio-tecnico – che si proponeva la “progettazione congiunta” tra le
parti sociali di organizzazioni produttive in grado di creare un equilibrio tra fattori tecnici e
fattori sociali (Emery e Thorsrud, 1969; Butera, 1972; Della Rocca, 1982) - siano state
realizzate o siano realizzabili. O quanto delle sperimentazioni dell’Industrial democracy
nordica o del movimento tedesco della Umanizzazione del lavoro - che suggeriva il possibile
avvento di un modello neo-artigianale di autogestione operaia – possano trovare risposta nelle
recenti esperienze “reali” di riorganizzazione dei processi di lavoro (Cattero, 1995).
Tuttavia, per alcune domande meno radicali - quanto siano migliorate ergonomia, salute e
sicurezza, quanto si stia realizzando un effettivo arricchimento professionale delle
occupazioni esecutive e, soprattutto, quanto all’aumento della responsabilizzazione degli
operai corrisponda anche un aumento del loro controllo sull’organizzazione del lavoro –
potrebbero esserci qualche risposta più confortante. Per far luce su questi quesiti bisogna
prendere atto che, allo stato attuale, le indagini e gli studi italiani sull’impatto del lean
manufacturing sulla condizione di lavoro sono ancora poche. Tra questi vanno certamente
citati i contributi di Bruno Cattero (1995, 2007) e di Riccardo Leoni (2012, 2014). Il primo –
che ha analizzato a più riprese il settore automotive e il lavoro in team (in particolare in
Germania e Italia) – nelle sue riflessioni più recenti conclude che l’impatto del lean
manufacturing sulla distribuzione del potere all’interno della fabbrica resta ambivalente e
richiama la necessità di una revisione dell’intero edificio regolativo e delle relazioni
industriali e, in particolare, sottolinea l’importanza che può avere la negoziazione del lavoro
in team come strumento per la regolazione dell’intensificazione del lavoro (Cattero, 2007). Il
secondo - che è stato tra i precursori in Italia negli studi sul legame tra innovazione
organizzativa e performance d’impresa – vede al centro del cambiamento prodotto dai nuovi
paradigmi proprio la costruzione di polivalenza e policompetenza degli operatori e individua
come condizione qualificante per questa costruzione una “progettazione partecipata” dai
lavoratori delle condizioni per aumentare l’efficienza economica e le reciproche contropartite
(Leoni, 2014).
Negli ultimi anni, non a caso, ad attrarre l’attenzione degli studiosi è ancora una volta il
settore auto, e in particolare la Fiat del dopo 2005 quando è stato introdotto una particolare
variante del sistema lean, il Wcm. Una prima analisi sulla nuova Fiat, condotta da Giancarlo
Cerruti (2012) è piuttosto pessimista sulle possibilità di successo sociale dei nuovi paradigmi
organizzativi soprattutto perché a innovazioni tecniche e di processo radicali non si sono
accompagnati adeguati incentivi per i dipendenti e una ridefinizione delle relazioni di lavoro
in senso maggiormente cooperativo. Successivamente, sempre in Fiat, una ricerca importante
(5000 questionari ai lavoratori di 24 stabilimenti del gruppo FCA-CNHI) della FIM Cisl sulle
opinioni degli operai sul WCM raccoglie dati, pur tra molte cautele, maggiormente ottimisti:
le risposte mostrano un sostanziale consenso sociale al cambiamento, la soddisfazione per il
netto miglioramento delle condizioni ambientali ed ergonomiche nelle nuove fabbriche, il
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“senso di contare di più” prodotto dal coinvolgimento nel sistema dei suggerimenti per il
miglioramento continuo, anche se a questi aspetti positivi si affianca la percezione di un
“aumento dello stress” che non è chiaro sia dovuto alla progressiva saturazione dei tempi
piuttosto che ad un “maggiore ingaggio cognitivo”3 (Pero et Al., 2015). Nello stesso periodo,
sul tema del WCM in Fiat la rivista Economia & Lavoro ospita un interessante dibattito,
introdotto da Leonello Tronti, in cui si confrontano sui nuovi paradigmi organizzativi, ma
anche più in generale sui temi dell’economia della conoscenza, della partecipazione dei
lavoratori e delle relazioni industriali, voci e approcci disciplinari diversi (Tronti, 2015).
Il lavoro in team, le comunità di pratiche e le altre forme della partecipazione dei lavoratori
L’aspetto che riporta il tema dell’innovazione organizzativa al cuore delle relazioni di lavoro
è dunque l’attivazione dei lavoratori attraverso diverse formule di coinvolgimento: sessioni
informative periodiche sui target di produzione, sul funzionamento del ciclo, sui nuovi sistemi
di organizzazione e controllo della produzione nel manifatturiero; formazione tecnica e
organizzativa diffusa, gruppi di miglioramento in molti settori; gruppi di progettazione dei
servizi nelle cooperative sociali; autogestione dei turni nella grande distribuzione, etc.
La microstruttura organizzativa che spesso costituisce il perno del nuovo paradigma è il team.
Il lavoro in team si sperimenta e si diffonde anche nella grande distribuzione e nei call
centres, dove l’innovazione organizzativa ha riguardato concentrazioni consistenti di
operatori di professionalità omogenea, ma trova la sua applicazione paradigmatica soprattutto
nel tradizionale lavoro operaio di linea. Il team operaio è un assetto organizzativo che, anche
nelle esperienze avanzate di lean manufacturing, quantomeno nelle non molte realtà studiate,
risulta implementato con intensità diversa e diverso grado di delega: la geometria variabile su
cui è costruito – più o meno numeroso, volontario o imposto, con team-leader scelto o subito,
con rotazione più o meno ampia delle posizioni, con o senza delega rispetto alla gestione dei
tempi di produzione – può avere un esito molto differente sul grado di controllo del lavoro e
sulla qualità della vita dei lavoratori, mentre anche il ruolo e le prerogative del team leader
risultano diversi nelle diverse esperienze (Cattero, 1997; Campagna e Pero, 2001; Pero e
Ponzellini, 2015; Ponzellini e Della Rocca, 2015). Sui team, sulle nuove formule di
coinvolgimento dei lavoratori e, in generale, sulle esperienze di riorganizzazione aziendale a
forte impatto sul lavoro introdotte nelle aziende negli ultimi anni esistono alcuni interessanti
raccolte di studi di caso aziendali: per esempio, quelli sulla polivalenza nelle isole di
produzione in Brembo e sull’incentivazione delle competenze trasversali operaie in Tenaris-
Dalmine (Leoni, 2014), quelli sui workshop informativi in Luxottica, sui gruppi di
miglioramento in Elica o sul “patto logistico” in OMB (Pero e Ponzellini, 2015), quello sulla
flessibilità e gli orari a menù in ZF (Pero, 2002) oppure sui team in Lamborghini e Ducati
(Telljohan, 2015).
Il sistema di relazioni all’interno dei team e, più in generale, nei gruppi di lavoro e di
progettazione evidenzia, tra l’altro, il possibile ampliarsi di pratiche di cooperazione tra gli
individui, che hanno un segno radicalmente innovativo rispetto al taylorismo e agli schemi di
lavoro tipici delle burocrazie novecentesche. Benché a volte si tratti di sistemi più dichiarati
che effettivamente consolidati nella pratica, i nuovi metodi promuovono la circolarità non
gerarchica delle informazioni, la condivisione delle conoscenze e la creazione di comunità di
3 Questo risultato fa curiosamente il paio con le opinioni espresse a suo tempo dagli operai della Toyota
i quali giudicavano il loro lavoro insieme “massacrante” e “creativo” (Oyama et al. 1985 )
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pratiche (anche tramite social media), formule di affiancamento e coaching tra pari e anche il
reciproco supporto ai bisogni personali (per esempio, attraverso scambi e autogestione dei
turni e delle ferie).
Recentemente Richard Sennet (2013) ha fatto importanti riflessioni sul naturale bisogno di
scambio dei soggetti, sull’importanza della risorsa “cooperazione” per le organizzazioni e per
la sopravvivenza dell’intera società. In modo simile, ci si chiede se l’uso dei social media
nelle aziende non possa rappresentare l’occasione di una svolta radicale delle organizzazioni
da modelli basati sulla gerarchia e il controllo verso modelli basati sul contributo delle
persone e la partecipazione (Bartezzaghi, 2012). Va aggiunto che lavorare in gruppo, essere
coinvolti sugli obiettivi di produzione, partecipare alla soluzione dei problemi risponde al
perdurante desiderio dei lavoratori di contare nel proprio lavoro - magari di questi tempi non
tanto più collettivamente quanto come individui - in linea con quanto evidenziano indagini
come l’European Values Survey che fotografa il progressivo spostamento del significato del
lavoro negli ultimi decenni dagli aspetti più “strumentali” a quelli più “espressivi”, tipici del
post-materialismo: per intenderci, dal reddito e dalla sicurezza del posto alla realizzazione di
sé e alle buone relazioni con capi e colleghi (Inglehart, 1997; Ponzellini, 2011).
Nate a valle di strategie manageriali di riorganizzazione delle produzioni o di nuovi
orientamenti nella gestione del personale – quindi sostanzialmente originate dall’iniziativa
d’impresa – e non sempre contrassegnate in modo collettivo, queste formule di partecipazione
sono certamente diverse dai tentativi di autogestione operaia degli anni Settanta. Va però
sottolineato che, anche nei casi in cui il cambiamento non è mediato dalle relazioni industriali
ma principalmente frutto di una nuova filosofia imprenditoriale e manageriale, l’adesione dei
lavoratori a questi stili di gestione è elevata e si incomincia forse a segnare un confine non
solo tra aziende tradizionali e aziende “intelligenti” (Berta, 2014) ma anche tra aziende
guidate dal mito dell’efficienza e imprese “generative”, dove “si possano superare la
dimensione individualistica della seconda metà del XX secolo per creare valore condiviso”,
(Gherardi e Magatti 2014: p.161), dove la dimensione economica torna a saldarsi con quella
sociale, prevale la cultura artigiana, il radicamento territoriale e una gestione umana delle
persone.
Strutture organizzative basate sulla cooperazione e la diffusione delle conoscenze in qualche
modo analoghe al team operaio cominciano a prendere piede nelle aziende anche ai livelli
qualificati, soprattutto tra le professioni tecniche – ingegneri di varia specializzazione,
tecnologi, informatici – ma anche tra project managers, formatori e responsabili delle risorse
umane: si tratta delle “communities of practices” on-line. Ispirandosi probabilmente
all’esperienza delle comunità di pratiche che si sono tradizionalmente sviluppate in ambito
sanitario, tra gli insegnanti o all’interno di alcune grandi aziende come strumenti di
apprendimento organizzativo (Wenger, 2000) e condividendo repertori di conoscenze non
dissimili da quelli tipici delle professioni liberali, le comunità di pratiche (CoP) di nuova
generazione sfruttano la diffusione delle telecomunicazioni e dei social media per tenere in
contatto professionals che spesso lavorano in aziende (e continenti) diversi. Ne favoriscono
scambio delle informazioni e dei trucchi del mestiere e il vicendevole supporto nella
soluzione di problemi tecnici. Benché alcuni studi riscontrino livelli insufficienti di capitale
sociale e di fiducia in questo tipo di relazioni professionali in quanto si svolgono
prevalentemente in assenza di occasioni face-to-face (Soda, 2003), in alcune aree
professionali le CoP sono ormai consolidate. Di questa esperienza di frontiera nei modi di
lavorare e di collaborare resta di grande interesse il fatto che, a differenza dei team operai, le
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CoP sono per lo più comunità nate dal basso, per iniziativa di singoli piuttosto che per
iniziativa manageriale, e che nel tempo continuano ad essere autogestite dai propri membri.
Il futuro prossimo. Nuovi artigiani e Industria 4.0
Negli ultimi tempi, sulla scorta del grande progetto Industrie 4.0 varato dal governo tedesco
già nel 2011 e mirato a mantenere l’egemonia di questo Paese nel settore manifatturiero (sia
come utilizzatore che, forse soprattutto, come esportare di tecnologie avanzate), si è
sviluppata anche in Italia una grande attenzione alla cosiddetta “quarta rivoluzione
industriale”. Essa prevede la totale automazione ed interconnessione del manufacturing,
attraverso una applicazione estesa di tecnologie digitali sotto forma di sistemi ciber-fisici,
apps applicate alle macchine, internet delle cose, cloud computing per la progettazione,
raccolta ed uso di grandi apparati di dati. Obiettivo è la realizzazione della cosiddetta
“fabbrica intelligente” (smart factory), nel senso di una fabbrica completamente digitalizzata.
Benché sia lodevole la decisione del sindacato tedesco di presidiare la nuova rivoluzione
tecnologica – IG Metall è presente sulla piattaforma di Industrie 4.0 fin dall’inizio - per
verificarne passo passo l’impatto sui lavoratori, alla prova dei fatti non è ancora chiaro quale
sarà il senso che prenderanno i profondi cambiamenti tecnologici in corso nella manifattura
(ma non solo), né quindi le conseguenze che avranno sull’occupazione, sul contenuto e sulla
qualità del lavoro. Assisteremo al diffondersi di sistemi d’ingaggio cognitivo pervasivi anche
ai livelli bassi di qualifica piuttosto che ad una progressiva standardizzazione anche delle
professioni più qualificate? Aumenteranno le routine o l’autonomia? La crescente esigenza di
flessibilità dei sistemi minerà la qualità della vita e il work-life balance dei lavoratori o
aumenteranno le opzioni disponibili per rapporti di lavoro disegnati sulle esigenze e
preferenze individuali? I mercati del lavoro interni alle imprese andranno verso la
polarizzazione delle professioni o piuttosto verso la loro omogeneizzazione?
Abbiamo a disposizione ancora poca ricerca empirica su questa nuova tematica, e non solo in
Italia4. Possiamo comunque segnalare l’interessante indagine di Torino Nord-Ovest che ha
realizzato interviste in una ventina di grandi stabilimenti manifatturieri dove è in corso una
rivoluzione digitale – tra cui Comau, Alstom, Ansaldo, Fincantieri, Kuehne Nagel, Ferrari,
Ducati ed altri - con lo sguardo di chi è soprattutto interessato a capire cosa sta succedendo
nel lavoro e nelle professioni. I risultati non disegnano uno scenario univoco: alcune
professioni scompaiono (soprattutto quelle intermedie), altre si digitalizzano (in diverse
fabbriche gli operai già usano il tablet), altre ancora perdono le caratteristiche del mestiere
(come quelle dei costruttori di treni, il cui sapere artigianale viene standardizzato in
operazioni semplici ma ai quali è richiesta massima digitalità, cooperazione, attenzione alla
soluzione dei problemi), altre ancora si creano, come gli analisti dei dati, gli addetti al
controllo, i media-users (Magone e Mazali, 2016).
Nelle pieghe di questa rivoluzione, si modificano enormemente anche figure estranee al
lavoro subordinato. Il saper fare artigiano, radicato in mestieri antichi e in territori specifici, si
coniuga ora con la tecnologia digitale – e in particolare con la stampante 3D capace di
plasmare un oggetto come se stampasse un foglio di carta – e dà origine ad una nuova figura,
quella dei makers o autoproduttori, in grado da soli e a bassi costi di progettare, produrre,
vendere (talvolta anche finanziare tramite crowdfundng) i loro prodotti tramite la rete.
4 Anche perché in questi mesi (primavera-estate 2016) è evidente una tendenza a nominare come Industria 4.0
qualsiasi cambiamento tecnico e organizzativo in corso e questo non facilita analisi più puntuali.
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Imprenditori-produttori che disegnano e progettano e designers e creativi che “si sporcano le
mani” nel fabbricare direttamente gli oggetti che hanno ideato (Micelli, 2011).
3. La lenta risposta delle relazioni industriali alla nuova organizzazione del
lavoro. Con sorpresa finale, forse.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, al centro della tematica del cambiamento
organizzativo vi sono due questioni del massimo interesse per le relazioni industriali: quella
della produttività e quella della partecipazione. La necessità di essere competitivi sui mercati
globali genera la spinta verso l’innovazione organizzativa e verso la flessibilità nell’uso del
lavoro. D’altra parte, sono proprio i nuovi paradigmi organizzativi a promuovere un ruolo più
ampio e inedito degli operatori nel realizzare il successo del prodotto o del servizio. Questo
nuovo assetto pone questioni nuove alle relazioni industriali tradizionalmente plasmate sul
lavoro fordista novecentesco, a cui gli studiosi cercano di dare risposte. In particolare, due
piani delle relazioni industriali sono coinvolti:
- il primo riguarda i contenuti della contrattazione aziendale visti attraverso la lente delle sfide
aperte dall’innovazione organizzativa e in particolare cerca di esaminare se e come la
contrattazione di nuovi modi di organizzare il lavoro possa costituire un volano per la
produttività;
- il secondo guarda in modo più ampio al sistema di relazioni di lavoro e si chiede come sia
possibile adeguarle in modo da favorire e guidare i processi di coinvolgimento dei lavoratori,
affiancando alla contrattazione un sistema di partecipazione.
La difficile partita della contrattazione della flessibilità e della produttività nei luoghi di
lavoro
Le raccolte e gli studi sulla contrattazione ormai da anni sono soprattutto concentrati sul
misurare il grado di diffusione della contrattazione di secondo livello, nell’intento, che
tuttavia oggi appare piuttosto datato, di misurare il risultato dell’impegno assunto dalle parti
sociali a sviluppare questo livello di contrattazione nel Protocollo Interconfederale del 1993.
Per quanto riguarda i contenuti, il salario di produttività è stato sicuramente l’istituto più
contrattato nei vent’anni che ci separano dal Protocollo anche se, a partire dalla crisi e in
particolare dopo il 2010, questo primato è stato messo in discussione dalle intese sulle
ristrutturazioni aziendali e sugli ammortizzatori sociali. Inoltre, in anni recentissimi – a partire
circa dal 2012 - la contrattazione salariale dei premi di risultato si è intrecciata alla
negoziazione di salario indiretto, sotto la forma di benefits, servizi e istituti in vario modo
legati al cosiddetto “welfare aziendale” (Cesos, vari anni; Ocsel, 2012 e 2015; Caprioli 2012;
Ponzellini et Al., 2015).
Al contrario, come abbiamo visto, il tema che qui ci interessa – che è quello
dell’organizzazione del lavoro - è stato a lungo quasi invisibile all’interno delle relazioni
industriali (gli stessi studiosi di Relazioni industriali se ne sono occupati molto poco) e non
stupisce che per molti anni dopo la metà degli anni Ottanta sia stato un tema così poco
presente nelle piattaforme sindacali, anche quelle aziendali. In realtà, abbiamo visto sopra
quanto gli studi testimonino un’elevata correlazione tra innovazione organizzativa e
perfomance aziendale: le pratiche qualificate come High Performance Work Practices dalla
Fondazione europea di Dublino – la formazione, il coinvolgimento dei lavoratori nella
12
condivisione delle conoscenze e nella soluzione di problemi, il lavoro in squadra e le nuove
forme di ricompensa – hanno un impatto positivo sia sulla produttività del lavoro che sulla
riduzione dei costi operativi (Leoni, 2012; Eurofound, 2012), tantoché alcuni studi americani
attribuiscono addirittura il 30% della crescita dell’industria americana proprio alle HPWP
(Lynch, 2012).
Ma quanto sono effettivamente contrattate queste nuove forme di organizzazione del lavoro?
E in che rapporto stanno con la più diffusa formula della contrattazione dei premi di
produttività? La prima cosa che balza all’occhio è che le grandi reingegnerizzazioni aziendali,
più o meno ispirate ai sistemi “lean”, non sono quasi mai (state) oggetto di contrattazione.
Anche le diverse formule di coinvolgimento dei lavoratori che ne conseguono – sistemi di
suggerimenti, gruppi di qualità, workshop informativi, spesso anche i team di lavoro –
rientrano raramente nei capitoli negoziali e restano per lo più applicazioni informali, gestite
unilateralmente dal management.
Piuttosto, in questa fase e soprattutto a partire dall’avvento della crisi, l’aspetto della
organizzazione del lavoro che sta registrando un aumento sostenuto nella contrattazione
aziendale è quello delle flessibilità (Caprioli, 2015). È un tema che riguarda tutte le aziende,
anche quelle in crisi essendo queste in molti casi le situazioni dove vanno affrontati processi
di riorganizzazione (un esempio interessante di questa contrattazione sono gli schemi di
redistribuzione del lavoro in molti contratti di solidarietà). Per le organizzazioni lean, in
particolare, la flessibilità del lavoro costituisce un’esigenza fondamentale: esse infatti sono
concepite per rispondere alla necessità da un lato di evitare ogni possibile spreco (dalle scorte
di magazzino, alle fermate di produzione, ai resi), dall’altro di adeguarsi alla grande
variabilità - di gamma e temporale - della domanda di mercato dei loro prodotti e servizi e
questi obiettivi sono raggiungibili soltanto facendo ricorso all’uso flessibile di tutte le proprie
risorse tecnologiche, di processi e di lavoro.
Tuttavia, un uso più flessibile del lavoro finisce per chiamare in causa la revisione degli
istituti contrattuali tradizionali, principalmente quelli relativi agli orari di lavoro ma anche la
mobilità tra posizioni, la polivalenza e, in parte, gli istituti salariali. Questo scollamento tra
l’apparato normativo-contrattuale fordista e le esigenze delle nuove organizzazioni post-
fordiste è destinato imporsi in un futuro prossimo al centro delle relazioni industriali. Com’è
infatti possibile rispondere alla sfida della velocità e della flessibilità con le norme rigide e le
one-best way contrattuali pensate per l’operaio-massa? Non c’è dubbio che la regolazione del
lavoro debba seguire il paradigma organizzativo e non viceversa (Butera, 2014). Casomai,
potremmo chiederci se ci sia già un paradigma emergente e se possa essere quella proposta
dalla filosofia della lean production la nuova organizzazione del lavoro su cui creare la nuova
regolazione. Senza dire che dobbiamo chiederci quale possa essere il nuovo soggetto di
riferimento nel post-operaismo: il “service worker” di Federico Butera (2014), il “nuovo
artigiano” di Stefano Micelli (2011), il “free-lance” del Quinto stato di Sergio Bologna
(2011)?
Resta il fatto che, secondo l’indagine della Cisl Lombardia, dal 2010 al 2015 gli accordi sulle
flessibilità degli orari, alcuni dei quali anche in deroga delle norme stabilite dai CCNL, sono
al secondo posto tra i temi della contrattazione di aziendale (Caprioli, 2015). E si possono
considerare nella contrattazione delle flessibilità anche altri istituti che sfidano la rigidità del
modello standard di lavoro, come le misure di organizzazione del lavoro mirate a migliorare il
rapporto tra vita e lavoro: il part time, lo smartworking-telelavoro, l’orario giornaliero
13
flessibile o la possibilità di scegliere i propri turni di lavoro (orari a menù) risultano negoziati
con maggiore intensità, seppure hanno una diffusione più modesta (Caprioli, 2012). Va
aggiunto che, per quanto ancora a uno stadio iniziale, in alcune aziende e settori è possibile
riconoscere un orientamento della contrattazione di secondo livello tendente ad armonizzare
le flessibilità richieste dai sistemi produttivi con quelle gradite ai lavoratori, secondo un
approccio negoziale cosiddetto a somma positiva o “win-win” 5 (Pero 2002; Biliotti, 2012;
Pero e Ponzellini, 2015)6: un approccio che in altri sistemi di relazioni industriali, come ad
esempio quello tedesco, risulta ormai una prassi consolidata nella definizione delle norme
dell’orario di lavoro.
E’ più difficile rispondere alla domanda su quanto la contrattazione dell’innovazione
organizzativa e delle flessibilità siano intrecciate con la cosiddetta “contrattazione della
produttività”. In realtà, e paradossalmente, molto poco. Come è stato osservato, l’iniziativa
sindacale nella contrattazione dei premi di risultato è del tutto slegata dalla contrattazione di
quei fattori che potrebbero realisticamente incidere proprio sul miglioramento dei risultati
aziendali, come l’innovazione organizzativa, il coinvolgimento dei lavoratori sugli obiettivi di
qualità, l’introduzione di sistemi di carriera basati sul merito, il miglioramento delle
condizioni ergonomiche e l’ampliamento della scelta dell’orario di lavoro come leve per la
rimozione delle cause dell’assenteismo (Ponzellini, 2013).
In generale, insomma, l’innovazione organizzativa non solo continua a essere modesta nel
nostro sistema produttivo ma, anche quando viene introdotta nei luoghi di lavoro, tende a non
costituire un tema negoziale. Forse prevale il timore di molte aziende di vedere invaso il
proprio ambito d’iniziativa in un contesto di relazioni sindacali che faticano ad uscire dalla
cultura della rivendicazione. Forse pesa anche la mancanza nella cultura sindacale di una
strategia di respiro su queste tematiche e anche un certo disinteresse dei sindacalisti per i temi
non direttamente legati al salario: a parte i casi di ristrutturazione, negli accordi aziendali si
trovano cenni alla organizzazione del lavoro quasi solo a proposito di flessibilità degli orari
(Ocsel, 2012 e 2015; Caprioli, 2015; Ref/Italia Lavoro, 2016) e, oltretutto, in questi casi i
negoziati sono prevalentemente incentrati sul sistema delle maggiorazioni salariali (legate agli
straordinari, ai turni aggiuntivi, alle deroghe sui sistemi di flessibilità multi-periodale o alla
vera e propria creazione di “premi di flessibilità”) piuttosto che sulle nuove condizioni
professionali e sulla qualità del lavoro. Sembra quindi che le parti sociali finora non abbiano
saputo cogliere l’opportunità di un progetto comune di rilancio della produttività che faccia
leva su innovazione organizzativa, lotta agli sprechi, miglioramento continuo, sviluppo delle
competenze e coinvolgimento dei lavoratori (insomma, su tutto l’arsenale dei nuovi sistemi di
lean production) anche come base per un nuovo modo di contrattare le retribuzioni di risultato
a livello aziendale (Ponzellini, 2013).
Partecipazione sindacale e partecipazione “diretta”: un possibile ridisegno delle relazioni
industriali d’impresa?
6 Nonostante ciò e nonostante anche più in generale la flessibilità possa essere negoziata in modi che la rendano
non penalizzante o addirittura vantaggiosa per chi lavora – pensiamo alle esperienze di polivalenza professionale o
all’aumento dei turni che spesso si combina con le preferenze di alcuni gruppi di lavoratori - nel linguaggio
sindacale, “flessibilità” ha assunto un significato negativo che prescinde dal suo reale impatto sulle condizioni di
lavoro e da cui appare difficile rimontare.
14
Come abbiamo visto, le nuove esperienze, non frequenti ma significative, di organizzazione
del lavoro ispirata alla partecipazione nascono all’interno di complessi processi di
riorganizzazione aziendale, di nuove strategie di HRM e/o di nuove filosofie imprenditoriali.
Non nascono dall’iniziativa sindacale. Anche il segno del loro rapporto con il sistema di
relazioni industriali non è chiaro: a volte procedono del tutto autonomamente, a volte
coesistono con relazioni sindacali collaborative (e si alternano con la contrattazione
tradizionale), a volte (ma raramente) si integrano in un sistema di relazioni di lavoro che
assegna deliberatamente uno spazio consistente alla partecipazione dei rappresentanti
sindacali proprio nella gestione congiunta del cambiamento organizzativo - quella che Guido
Baglioni (2001) chiamerebbe “partecipazione organizzativa” - e in questi casi siamo più
vicini all’idea ispiratrice della democrazia industriale.
La mancanza di una “collocazione” istituzionale delle esperienze partecipative rappresenta un
fattore critico per la loro diffusione. D’altra parte, anche la persistenza di una cultura
sindacale conflittuale appare tra le ragioni del loro difficile decollo nella realtà italiana
(Campagna e Pero, 2011). Non sono pochi i casi in cui le RSU hanno capito e condividono le
logiche del coinvolgimento dei lavoratori nei team, nei sistemi di suggerimenti e nei gruppi di
qualità. Al contrario, il sindacato esterno sembra più titubante nell’accettarle, timoroso di
sottomettersi agli obiettivi imprenditoriali e tende a limitarne la portata, spesso finendo per
depotenziarne proprio gli aspetti sociali. In generale sia i rappresentanti sindacali sia i
sindacalisti soffrono per la mancanza di modelli a cui ispirare la loro azione nelle aziende
dentro un quadro partecipativo. Per esempio, dove funzionano i team di lavoro, la figura del
team leader può in qualche modo sovrapporsi con quella del rappresentante dei lavoratori se
non vengono chiariti le diverse competenze e ruoli. Eppure, la domanda che pone
l’organizzazione partecipata alle relazioni industriali appare chiara: è possibile un modello di
organizzazione del lavoro in grado di tenere insieme la competitività dell’impresa e le sue
ragioni di flessibilità con il coinvolgimento, l’allargamento dello spazio di controllo e il
miglioramento della qualità della vita dei lavoratori? E ancora, quale riassetto è richiesto al
sistema di relazioni industriali novecentesco, plasmato invece sulla rigidità
dell’organizzazione e sulla subalternità apatica del lavoratore fordista?
Nel suo insieme, il sindacato non sembra avere una strategia su questo e anche nel dibattito
tra gli studiosi non tutte le voci coincidono (si veda, tra l’altro, il recente dibattito promosso
da Astrid, poi confluito in Carrieri, Nerozzi e Treu, 2015). Da un lato, c’è chi tende a
concludere che la partecipazione diretta, in quanto concerne temi di carattere micro-
organizzativo, si connoti comunque per un “profilo basso” (Antonioli e Pini, 2005).
Dall’altro, c’è chi ritiene che proprio a partire da queste formule di coinvolgimento e di nuovo
protagonismo dei lavoratori sia possibile costruire “a partire dal basso” un nuovo sistema di
relazioni di lavoro in azienda (Pero e Ponzellini, 2015).
Altri s’interrogano sul fallimento – ma anche sul possibile rilancio - del vecchio sistema di
relazioni aziendali partecipative del tipo di quelle promosse negli anni Ottanta dal Protocollo
Iri, basato su “commissioni paritetiche” di consultazione impresa-sindacato: si ripercorrono
così le parabole di Electrolux e Finmeccanica (Famiglietti, 2015) o si riconsiderano le
possibilità di formule di co-gestione alla luce della recente introduzione in Ducati e
Lamborghini della Carta globale di rapporti di lavoro di Volkswagen (Telljohann, 2015),
immaginando la possibilità che le RSU italiane e il nostro sistema di contrattazione di
secondo livello possano riprodurre in qualche modo il sistema istituzionale del doppio canale
di rappresentanza e della codeterminazione consolidato da decenni in Germania.
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E’ possibile che a qualcuno sembri che il modello della partecipazione sindacale alla
definizione dell’organizzazione del lavoro attraverso commissioni paritetiche prefiguri una
strada verso quella “partecipazione strategica” – presenza di lavoratori negli organi societari e
partecipazione alle decisioni dell’impresa - da più parti auspicata (Baglioni, 2001 e 2015;
Carrieri, Nerozzi e Treu, 2015). Restano tuttavia aperti problemi non da poco. Innanzitutto,
quale il rapporto tra organismi consultivi (di fatto decisionali, quantomeno nel caso tedesco) e
contrattazione? Ma soprattutto, quale rapporto tra la vera novità che parrebbe realizzarsi con i
nuovi paradigmi organizzativi – ovvero la partecipazione diretta esercitata dai lavoratori
attraverso i team di lavoro e le altre formule di coinvolgimento – e il vecchio sistema delle
relazioni industriali d’impresa?
Siamo finalmente a una svolta? Organizzazione del lavoro e partecipazione dei lavoratori
riguadagnano interesse nelle relazioni industriali
Come si è visto, se si vogliono realizzare le speranze di una nuova democrazia del lavoro
aperte dall’organizzazione post-fordista la posta in gioco per il sistema delle relazioni
industriali è radicale e comporta un ridisegno sostanziale della struttura delle relazioni nei
luoghi di lavoro. Purtroppo, com’è stato osservato, anche nelle esperienze di nuova
organizzazione del lavoro fin qui realizzate in Italia, l’intreccio tra la contrattazione e la
partecipazione e il ruolo e i modi della contrattazione necessitano di un ripensamento (Della
Rocca, 2015; Ponzellini e Della Rocca, 2015).
Dopo un lungo periodo di divisioni sindacali e di progressivo indebolimento di tutti gli attori
delle relazioni industriali, negli ultimi mesi (primavera-estate 2016) qualcosa sembra
cambiare, anche se forse è presto per decretare l’inizio di una nuova stagione. La definizione
all’art.12 della legge di stabilità 2016 - che rinnova e rende strutturale il regime di
agevolazione fiscale per i premi di produttività che era già previsto per gli anni 2013-2014 –
fornisce l’occasione per l’avvio di un importante confronto prima tra i sindacati e poi tra
questi e le associazioni datoriali, a cominciare da Confindustria. In effetti, ben più dei decreti
analoghi che l’hanno preceduto, l’art.12 vincola l’erogazione dei premi e dei benefit di
welfare a precisi indicatori di innovazione organizzativa e di partecipazione dei lavoratori e
dei loro rappresentanti: in questo modo, non solo promuove l’ampliamento della
contrattazione decentrata ma orienta le relazioni di lavoro a livello d’impresa alla ricerca
congiunta del miglioramento delle performance aziendali. Non a caso, nel gennaio 2016,
Cgil-Cisl-Uil firmano un protocollo unitario sulle Relazioni industriali in cui si parla di
“progettazione negoziata” dell’organizzazione del lavoro, di “formazione congiunta RSU e
management aziendale”, di “valorizzare l’esperienza e la conoscenza delle lavoratrici e dei
lavoratori nell’ammodernamento dell’organizzazione del lavoro, accorciando le filiere
gerarchiche e promuovendo la capacità di autodeterminazione di forme innovative, quali i
gruppi di lavoro, di progetto, e i team”. A luglio, il processo di convergenza avviato conduce
alla firma di un accordo tra sindacati e Confindustria: la materia è apparentemente secondaria
(le modalità per la contrattazione dei premi di risultato anche nelle imprese senza
rappresentanza sindacale) ma il senso di una svolta delle relazioni industriali si legge tra le
righe. E soprattutto sembra che, condividendo l’opportunità di una “progressiva
valorizzazione della contrattazione di secondo livello, anche sotto il profilo dello sviluppo
della cultura del coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro”, le
parti sociali colgano l’importanza che innovazione organizzativa, partecipazione dei
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lavoratori e qualità del lavoro riprendano finalmente il giusto spazio nelle relazioni tra
imprese e lavoratori. Purché naturalmente non restino solo parole.
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Cortina
1
COME È CAMBIATO IL LAVORO NEI LUOGHI DI LAVORO
Anna M. Ponzellini
Uscito su WP Fondazione Tarantelli, n. 4/2016
http://www.centrostudi.cisl.it/approfondimenti/working-papers-f-tarantelli/311-wp-
fondazione-tarantelli-n-4-il-lavoro-cambia-cambiano-le-relazioni-industriali.html
1. I nuovi soggetti del post-fordismo nelle imprese
All’incirca vent’anni fa diventò chiaro che la (presunta) unità del mercato del lavoro fordista attorno al
lavoratore “maschio-capofamiglia” era definitivamente tramontata insieme al Novecento. Alla fine del
secolo, infatti, erano ormai quasi due decenni che anche il mercato del lavoro italiano aveva cominciato a
femminilizzarsi e, pur se i dati della partecipazione delle donne italiane continuano a restare più bassi della
media dei Paesi avanzati, le famiglie “dual earners” sono progressivamente diventate il riferimento
necessario (anche se non sempre tenuto in conto) per ogni politica del lavoro (Saraceno, 2007).
Nello stesso periodo, oltre alla femminilizzazione, a caratterizzare il passaggio verso quel mondo del lavoro
diverso che per comodità abbiamo cominciato a chiamare “post-fordismo” (e che ancora adesso non
riusciamo a definire meglio di così) assistiamo alla fine della centralità della figura dell’operaio (e alle
correlate ma secondarie figure dell’”impiegato esecutivo” e dell’”impiegato di concetto”) e all’espandersi di
figure con mansioni e qualifiche più differenziate, come commesse, cassiere, addetti ai fast food, operatori
dei call centre, addetti alle pulizie, badanti, educatori, figure tecniche e professionali di varia competenza
(Istat, vari anni; Istat-Isfol, 2015). L’articolazione delle qualifiche scompagina la tradizione classificazione
tra le categorie di lavoratori previste dal nostro sistema giuridico – operai, impiegati, quadri e dirigenti – ma
anche i confini tra lavoro manuale e intellettuale, tra ideazione ed esecuzione del lavoro (Braveman, 1974) e
finisce per rendere obsoleti gran parte dei sistemi di inquadramento contrattuale, spingendo le aziende a
introdurre propri sistemi di valutazione della professionalità.
Il terzo cambiamento viene rappresentato dalla fine della centralità assoluta del lavoro dipendente, che
diventa evidente soprattutto nella significativa crescita – per quanto concentrata al Nord, nelle grandi città e
nel settore terziario - del lavoro autonomo professionale1 (Bologna e Fumagalli, 1997). Si tratta di un
fenomeno scambiato in un primo momento per il mero risultato delle politiche di flessibilizzazione dei
rapporti di lavoro della metà degli anni Novanta che hanno condotto al diffondersi di collaborazioni che
spesso nascondevano (e nascondono) l’elusione delle norme del lavoro subordinato. A distanza di tempo,
però, è chiaro che si tratta di un fenomeno che sembra avere anche origini diverse: da un lato, e soprattutto
per i laureati per cui da sempre scarseggia la domanda sul nostro mercato del lavoro, la necessità di
“ingegnarsi a offrire servizi sul mercato per emanciparsi da uno stato di bisogno, dall’altro però anche il
desiderio di affermare un progetto, un’idea, un proprio disegno di realizzazione..” (Bonomi, 2004). Il
risultato, soprattutto in alcuni settori, è un mercato del lavoro interno alle imprese segmentato tra lavoro
1 In valori assoluti i lavoratori autonomi italiani sono circa 5milioni e mezzo contro circa 17milioni di lavoratori
dipendenti, di questi, forse la metà è rappresentata da professionisti, tra iscritti agli ordini e non ordinisti (partite Iva
iscritti alla gestione separata Inps). A oggi (2016), un giovane su quattro entra nel mercato del lavoro aprendo una
partita Iva. Il fenomeno del lavoro autonomo di seconda generazione è particolarmente significativo in Italia
(rappresentano il 25% degli addetti contro il 16% della media europea) rispetto al resto d’Europa, anche se negli anni
della crisi e in concomitanza del Jobs Act si sta registrando un calo di questa componente del mercato del lavoro.
2
subordinato, collaborazioni precarie, consulenze a partita Iva, spesso senza vere e proprie soluzioni di
continuità (Fullin, 2004, Fellini, 2010).
Infine, un segmento importante del lavoro dentro le imprese è rappresentato dai lavoratori stranieri2. Com’è
noto, l’occupazione straniera è particolarmente significativa in agricoltura e soprattutto nel terziario. Nel
terziario, l’”effetto sostituzione” della manodopera italiana è più evidente e gli stranieri rappresentano ormai
una componente decisamente più elevata degli autoctoni nei servizi alle famiglie, nella ristorazione (anche
come indipendenti) e nei servizi alle imprese (pulizie e logistica). Nelle occupazioni industriali, gli stranieri
hanno sostituito i lavoratori autoctoni in una parte del lavoro operaio qualificato in produzione, ma
soprattutto hanno il monopolio dei lavori non qualificati nei servizi interni alle imprese (pulizie, carico e
scarico, mense, ecc.) (Ambrosini, 2011).
2. Come sono cambiati i mercati del lavoro interni alle imprese?
Se il fordismo ci aveva abituato a organici concentrati e stabili e a carriere durature (anche tutta la vita),
l’automazione, la fine della grande impresa, la terziarizzazione dell’economia e la flessibilizzazione dei
rapporti di lavoro ci hanno già da tempo consegnato mercati del lavoro in cui la domanda è scarsa e sono
aumentati precarietà e turn-over3. L’instabilità dei rapporti di lavoro che caratterizza i nuovi occupati ha
avuto tra gli altri l’effetto perverso di un generale disinvestimento formativo sui nuovi arrivati, che ha finito
per causare una riduzione del know-how delle imprese, come ha argomentato lo stesso governatore delle
Banca d’Italia, al congresso di Bari della Confindustria (2013). In questo contesto, quando è scoppiata la
crisi per molte imprese l’unica via d’uscita considerata è stata quella del blocco dei salari, dell’abbattimento
del costo del lavoro attraverso la precarizzazione, dell’aumento dello sforzo richiesto ai lavoratori stabili:
quella che l’Europa indica come la “via bassa” al recupero della produttività (Fondazione europea di
Dublino, 2003). La “via alta” per aumentare le performance delle aziende sarebbe quella di investire in
ricerca e sviluppo per aumentare la qualità e la varietà dei prodotti e dei servizi. Tuttavia, che il nostro
sistema soffra proprio di un grave deficit di innovazione è diventato purtroppo evidente nell’incapacità
dell’economia negli ultimi anni ad assorbire i giovani che si laureano, nonostante il loro numero sia
contenuto rispetto alla media dei paesi avanzati (e non solo): sono loro a pagare di più, costretti ad una
ondata migratoria di nuovo tipo o ad accontentarsi di lavori precari e malpagati (Balduzzi e Rosina, 2011).
Negli ultimi venti anni, quindi, l’imperativo del recupero di produttività nelle imprese è passato attraverso
ogni forma di flessibilità del lavoro: dal lavoro a termine, alla mobilità interna, a una flessibilità degli orari
intesa sostanzialmente come aumento delle ore straordinarie. Anche per questa ragione, nel mondo sindacale
italiano, l’idea di “flessibilità” è venuta a connotarsi come somma di caratteristiche negative, è diventata una
specie di nemico da combattere. Tuttalpiù, come nel caso degli straordinari o della mobilità interna, ne viene
colto il potenziale di monetizzazione, utile per tenere viva la contrattazione aziendale.
In realtà, la flessibilità nell’uso del personale è ormai una caratteristica “strutturale” dell’organizzazione
d’impresa. Se parliamo di orario di lavoro, per le imprese di servizi l’imperativo è quello di rispondere
all’estrema varietà dei flussi di clientela/utenza nella giornata, nella settimana e nell’anno: si pensi ai servizi
commerciali, ai call centre, alle cooperative di servizi alle persone, attività che devono ormai rispondere ad
una domanda che va progressivamente verso le h.24. Analogamente, per le imprese manifatturiere,
l’integrazione globale dei mercati, l’azzeramento dei magazzini e la personalizzazione dei prodotti
2 Gli ultimi dati Istat ci dicono che, nonostante la crisi, l’occupazione straniera è in crescita e si concentra ormai con
evidenza nelle occupazioni che non interessano più gli italiani (Istat, 2016). 3 Il modello del “mercato interno chiuso” (Doeringer e Piore, 1971), tipico della grande fabbrica fordista, è stato
progressivamente sostituito da un mercato più aperto, con maggiore mobilità in ingresso e in uscita, ma decisamente
segmentato in “cerchi concentrici” differenziati in ragione della sicurezza del lavoro, quindi con un gruppo “core” di
lavoratori a tempo indeterminato al centro e cornici esterne più o meno ampie di lavoratori saltuari e irregolari
(Atkinsons, 1984).
3
richiedono una programmazione flessibile durante l’arco dell’anno e continui aggiustamenti (anche a
brevissimo anticipo) dei volumi produttivi rispetto all’andamento delle commesse. La necessità di ampliare
alcune e ridurre altre linee di prodotto a seconda della quantità e qualità della domanda, rende tra l’altro
cruciale la fungibilità dei lavoratori nei processi di lavoro e lascia immaginare che nei prossimi anni si
registrerà una progressiva dinamica verso una maggiore mobilità interna tra mansioni e ruoli: la formazione,
soprattutto quella sul posto di lavoro, e la rotazione delle posizioni sono destinate a diventare leve molto
importanti per questa nuova flessibilità organizzativa.
In questi mercati del lavoro aziendali, qual è la domanda delle imprese? Le imprese vogliono ottimizzare la
produttività del lavoro e dai lavoratori si aspettano basso assenteismo, flessibilità d’orario e di funzione,
sviluppo delle competenze, attenzione alla qualità e alla riduzione degli sprechi e dei tempi morti. E, per
contro, cosa vogliono i lavoratori e le lavoratrici degli anni Duemila, quale è la qualità della vita di lavoro a
cui aspirano? La gente vuole innanzitutto lavorare bene, il supporto di una buona ergonomia e, comunque, un
buon clima nelle relazioni con capi e colleghi. Poi vogliono imparare: aumentare le proprie competenze
professionali e la propria reputazione nel lavoro e mantenere una buona impiegabilità, anche in vista di una
possibile mobilità esterna. E vogliono conciliare il lavoro con le proprie esigenze e routine di vita: per questo
è importante, nella crescente flessibilità, avere qualche possibilità di scelta del proprio orario, poter usufruire
di permessi in caso di esigenze improvvise e, quando la mansione lo consente, lavorare anche a distanza.
Infine, le persone vogliono partecipare: poter dire la propria sull’organizzazione del loro lavoro (e anche
oltre), contare di più, ottenere riconoscimento.
3. Ma le relazioni industriali nel post-fordismo sono davvero cambiate?
Come si vede dall’ultimo paragrafo, le esigenze degli attori in gioco sono ben evidenti.. Le relazioni
industriali dovrebbero essere lì a mediarne gli interessi, a superare i conflitti. In realtà, il sistema delle
relazioni industriali – come anche il diritto del lavoro e le politiche del lavoro – sembra non riuscire a tenere
dietro non solo al cambiamento dei mercati e dei paradigmi organizzativi delle imprese ma anche al
differenziarsi dei soggetti del mercato del lavoro e ai grandi mutamenti dei consumi e degli stili di vita.
Solo in tempi molto recenti ha preso qualche forma più decisa il cambiamento delle grandi regole del lavoro:
secondo Tiziano Treu (2015), una riforma del lavoro durata vent’anni, in direzione di un paradigma –
comunque mai pienamente raggiunto - di flexicurity. Si sta realizzando così un sistema di governo del
mercato del lavoro in cui, a livello della singola impresa, sono aumentate decisamente sia la flessibilità in
ingresso (attraverso la articolazione della forme del rapporto di impiego con le leggi Biagi nei primi anni
Duemila) sia, da poco, quella in uscita (con la riforma dell’art 18 dello Statuto). Con l’intesa però che queste
nuove flessibilità del mercato del lavoro “interno” delle imprese siano controbilanciate da maggiori tutele dei
lavoratori nel mercato del lavoro “esterno”, attraverso indennità di disoccupazione e politiche attive per
l’occupazione e l’occupabilità. Una riforma del lavoro che sancisce, almeno in parte, un alleggerimento – e
comunque una maggiore universalità - delle politiche passive del lavoro (trasferimenti monetari) mentre
promuove le politiche attive (incontro domanda offerta, formazione, accompagnamento alla ricollocazione),
anche se in misura ancora insoddisfacente. Considerata in senso lato, la riforma del lavoro degli ultimi anni,
in quanto promotrice di un welfare occupazionale di tipo universalistico, sancisce anche la fine della
esclusiva tutela del lavoro subordinato e un (moderato) a allargamento delle tutele all’area dei lavoratori
autonomi (soprattutto collaborazioni, partite Iva).
I contratti nazionali di lavoro, invece, sembrano soffrire di grande immobilismo normativo. Tranne che in
pochi settori, risulta praticamente immutata dagli anni Settanta in avanti la regolazione degli inquadramenti.
Senza sostanziali cambiamenti anche il sistema degli orari, ancora incardinato su orari giornalieri e
settimanali anziché sugli orari annui introdotti negli altri Paesi e per il quale ogni deviazione dallo standard
8x5 è oggetto di meticolosa monetizzazione, ogni orario ridotto (quello che con termine impreciso
4
chiamiamo part time) sottoposto a tetti e a vincoli. Mentre restano ancora sostanzialmente stabili, a parte la
fine degli automatismi, i sistemi di determinazione del salario (tanto da porre oggi pressanti interrogativi,
dato il rischio del protrarsi della deflazione).
La contrattazione aziendale si è comportata meglio. La pressione del cambiamento organizzativo e dei
mercati ha incontrato, se non altro, il buonsenso dei rappresentanti e la loro volontà di contribuire a dare
risposte organizzative che migliorino performance aziendale, sicurezza occupazione, buone condizioni di
lavoro. Dall’Accordo interconfederale del 1993, la contrattazione aziendale ha continuato ad espandersi,
anche se ha subito una flessione negli anni della crisi (Archivio della contrattazione Cisl Lombardia, vari
anni; Ocsel, vari anni). Tuttavia, come sappiamo la contrattazione decentrata tocca solo una parte delle
aziende, circa il 16% (Istat-Cnel 2015) a cui non corrisponde più del 30% dei lavoratori. Gran parte di
questa, comunque, non va oltre la definizione dei premi aziendali, mentre ciò che riguarda l’organizzazione
del lavoro – dagli orari, alla mobilità interna, allo sviluppo delle competenze – risulta ancora poco negoziata
(Ponzellini, 2016).
In conclusione, tutto il sistema delle relazioni di lavoro e il ruolo del sindacato appaiono in ritardo e
evidenziano confusione e un gran bisogno di ripensamento.
4. Il ruolo del sindacato per migliorare la vita di lavoro. E, insieme, qualche indicazione per una
riforma della contrattazione
Se sia le aziende che i lavoratori hanno interesse a dare una svolta al modo di lavorare, c’è da chiedersi: “Ma
l’innovazione organizzativa non potrebbe essere un gioco win-win, ovvero dove si vince entrambi?”.
In effetti, ci sono molti ambiti dove si potrebbero costruire soluzioni condivise. Un primo è quello degli
orari. Le esigenze delle imprese di flessibilità dell’orario potrebbero trovare un maggior riscontro se
contemporaneamente fosse ampliata la possibilità dei lavoratori di scegliere quando e quanto lavorare, di
avere opzioni alternative nell’orario di ingresso e di uscita, nelle modalità degli stacchi e dei recuperi, nella
scelta dei turni. Le imprese potrebbero mettere a disposizione schemi-orario diversificati tra cui il singolo
potrebbe scegliere, secondo il modello degli “orari a menù” (Pero, 2004).
Per raggiungere questo obiettivo, la contrattazione dovrebbe innanzitutto dare la flessibilità - sia quella che
viene da una parte sia quella che viene dall’altra - per scontata. Dovrebbe fissare più che altro regole-quadro,
per esempio monti-ore annui piuttosto che un orario settimanale o mensile, entro cui si potrebbero
concordare orari adatti ai diversi processi di lavoro ma anche orari personalizzati. Le possibilità per i
dipendenti di conciliare la propria quotidianità col lavoro ne uscirebbero migliorate. Per raggiungere questo
obiettivo naturalmente dovrebbe essere rafforzata soprattutto la contrattazione decentrata ma sarebbe anche
opportuno che si scrivessero regole-quadro, valide per tutte le aziende e quindi anche quelle più piccole, nel
contratto nazionale. Tra queste per esempio, la definizione di orari su base annua, le regole di reciprocità tra
datore di lavoro e lavoratore nell’accesso alla flessibilità, gli ambiti entro cui i lavoratori potrebbero operare
le loro scelte, ecc.
In secondo luogo, la mobilità e le competenze. La necessità dell’impresa di potenziare le competenze dei
lavoratori, di facilitare la condivisione delle conoscenze, di costruire “organizzazioni che apprendono” e
anche di dotarsi di una più ampia mobilità interna del lavoro potrebbe avere il suo corrispettivo nella voglia
dei lavoratori di imparare e nel loro bisogno di mantenere/aumentare la spendibilità sul mercato delle loro
competenze: ciò, sia nella prospettiva di una carriera che li porti verso altri ruoli o altre aziende, sia anche
semplicemente nella prospettiva del progressivo invecchiamento in azienda e del conseguente amplificarsi
del rischio dell’obsolescenza dei propri saperi professionali.
5
Anche questo è tema eminentemente di contrattazione aziendale, perché è nei luoghi di lavoro che le
competenze si costruiscono. Tuttavia, può essere utile che i contratti nazionali (ri)definiscano le regole di
base per una formazione continua efficace, introducano strumenti per l’assessment periodico delle
competenze e la gestione delle carriere, pongano le condizioni di base per l’utilizzo flessibile della
professionalità (anche nei suoi rapporti coi sistemi di inquadramento).
In terzo luogo, la partecipazione. Sappiamo che l’esigenza dell’impresa di coinvolgere i lavoratori sugli
obiettivi di produttività può incontrare il desiderio dei lavoratori di partecipare e di essere protagonisti del
proprio lavoro. Il ruolo del sindacato, in questo caso, è quello da un lato di rappresentare questo desiderio di
partecipazione, dall’altro però di predisporre le condizioni perché vi sia un effettiva delega manageriale e
quindi reale trasferimento del potere decisionale verso il basso (sia verso i singoli che verso i team di lavoro),
in modo che chi lavora possa sul serio contare.
Va sottolineato che questo tema della partecipazione “diretta” ha implicazioni importanti sulla
partecipazione del sindacato alle decisioni dell’impresa, ovvero sulla partecipazione “rappresentativa”, in
quanto proprio a partire dal basso, si potrebbe ricostruire un sistema di relazioni di lavoro compiutamente
partecipative. La nuova fase della produzione flessibile implica infatti la definitiva uscita dalle relazioni
conflittuali che hanno caratterizzato la fase fordista delle relazioni industriali (il cui compito era definire le
regole e i prezzi dell’utilizzo standard della forza lavoro) e l’ingresso in un sistema di relazioni cooperative
che affrontino “processualmente” (e in maniera mai definitiva), i temi della quotidianità aziendale: la
flessibilità oraria e la mobilità; lo sviluppo delle competenze; la conciliazione e la qualità della vita;
l’invecchiamento attivo; la distribuzione degli incrementi della performance d’impresa.
Dal punto di vista del sistema di relazioni industriali, l’intreccio tra partecipazione dei dipendenti e
partecipazione dei rappresentanti può mettere le basi per un sistema di co-decisione nei luoghi di lavoro, che
si sviluppi parallelamente al tradizionale sistema contrattuale (Ponzellini e Della Rocca, 2015). Anche questa
tematica della partecipazione, nelle sue articolazioni, merita un quadro normativo a livello di contratto
nazionale.
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bilancio”, in Atti del XI Seminario di Bertinoro-Bologna del 22-23 ottobre 2015
Partecipazione diretta e produttività. Quale futuro nelle Relazioni industriali in
Italia?
Anna M. Ponzellini, Giuseppe Della Rocca
Questo lavoro è stato presentato al Seminario AREL, 29 ottobre 2015 e, in una versione
riveduta, pubblicato in T. Treu e C. Dell’Aringa (2016), Contrattazione collettiva,
partecipazione, rappresentanza: quale futuro per le relazioni industriali?, AREL, OL/2
1. Produttività e partecipazione.
Si parla e si discute di partecipazione in generale per condividere uno sforzo comune per rispondere
alla crisi economica e finanziaria e in modo particolare a una crisi di produttività del sistema-Italia.
Il rapporto tra parti sociali viene considerato un importante tassello per consentire la ripresa
economica e occupazionale. Le domande esplicitate da molti riguardano i modi e le forme per
realizzare una convergenza tra imprenditori e sindacato: quali strumenti e procedure utilizzare; se la
contrattazione collettiva debba ancora essere l’unico e più importante strumento per consentire un
piano di azione comune tra sindacato e imprenditori; come, e se sia possibile, realizzare una
mobilitazione più ampia in grado di coinvolgere la larga base dei lavoratori.
Su parte di questi temi si è oggi concentrato il dibattito, in particolare sul piano istituzionale. Si
veda come esempio la messa a punto della legge di stabilità 2016 che richiama la possibilità di
motivare il lavoro e le imprese attraverso forme di detassazione e incentivi salariali di produttività
attraverso formule che hanno come riferimento l’innovazione organizzativa e la flessibilità come
leva per la ripresa economica. Queste e altre iniziative mantengono come riferimento il metodo
della contrattazione collettiva, anche se qualcuno, come gli scriventi, mette in dubbio che i premi di
produttività siano lo strumento più idoneo per stimolare la produttività e che la contrattazione dia il
quadro di riferimento più facilmente agibile per realizzare un forte coinvolgimento dei lavoratori ad
incrementare la produttività del sistema.
Il tema di questo intervento è proprio la partecipazione diretta dei lavoratori all’innovazione
tecnico-produttiva, come leva sia per la produttività che per la qualità del lavoro. Da un po’ di
tempo le prassi e anche le analisi sui cambiamenti dell’organizzazione del lavoro nell’industria
manifatturiera e nei servizi mettono una certa enfasi su tale fenomeno come principale fattore di
aiuto alla crescita della produttività, nonostante si tratti di una pratica che poco, o solo
indirettamente, ha a che fare con la contrattazione salariale degli incentivi di produttività e, in
generale, con il sistema di relazioni Industriali. Le domande che quindi si deve porre chi è
intenzionato a dare nuovo impulso al metodo delle Relazioni Industriali sono molteplici:
innanzitutto se queste ultime possano accompagnare e favorire questo processo di partecipazione
dal basso, quali rischi e quali aspetti debbano essere presidiati, dove sia meglio lasciare al
management una propria autonomia e dove debbano invece intervenire; in secondo luogo, quale
percorso adottare, se la partecipazione dei lavoratori vada attivata attraverso il metodo della
contrattazione collettiva oppure attraverso regole separate di partecipazione o addirittura attraverso
programmi di intervento pubblico.
2. La partecipazione diretta.
Cos’è e com’è definita e circoscritta la partecipazione diretta? Il termine non è sempre chiaro nelle
sue implicazioni. Possiamo però innanzitutto distinguere la partecipazione “diretta” che coinvolge i
lavoratori da quella “indiretta” che coinvolge i loro rappresentanti (non a caso quest’ultima viene
anche indicata come “rappresentativa”. In un nostro recente articolo pubblicato su Economia e
Lavoro (Ponzellini e Della Rocca, 2015), senza ricorrere a una definizione che vuole essere
conclusiva, la partecipazione diretta viene distinta da quella istituzionale e definita, in via
preferenziale, con esempi tratti dall’esperienza empirica: forme di partecipazione individuale o di
gruppo esercitate dai lavoratori durante e per mezzo del loro lavoro, nella micro organizzazione, e
rivolte in primo luogo al miglioramento organizzativo. In sintesi, la partecipazione diretta
costituisce sì una leva per migliorare produttività ma, allo stesso tempo, un canale che risponde al
desiderio dei lavoratori di contare ed essere protagonisti del proprio lavoro. Da questo punto di vista
è diversa da quel tipo di partecipazione organizzativa che agisce attraverso il canale e la delega ai
rappresentanti dei lavoratori o delle organizzazioni sindacali, a suo tempo definita da Guido
Baglioni (2001) tra le varie forme di partecipazione nell’impresa.
La Commissione Europea (Eurofound, 2013) si riferisce alla partecipazione diretta come “employee
Involvement” e ne distingue due diversi livelli (influenza del lavoratore sul proprio compito e sulla
organizzazione del lavoro nel suo complesso). Come si vede, si tratta di una definizione non del
tutto simile alla traduzione italiana di involvement (coinvolgimento) che richiama solo una
dimensione passiva della partecipazione: coinvolgimento e partecipazione diretta stanno invece su
un continuum e, quantomeno nelle sue formulazioni più evolute, la partecipazione diretta può essere
definita come attiva perché presuppone una delega di potere decisionale (più o meno ampia) da
parte dell’azienda al personale operativo, una maggiore autonomia, il riconoscere una prassi di
lavoro che presuppone la possibilità di andare oltre le procedure e gli standard previsti
dall’organizzazione formale.
Più che dal punto di vista teorico appare semplice comprendere la partecipazione attraverso esempi
di tipo empirico (Pero e Ponzellini, 2015), che mettono in rilievo come essa si concentri sugli
aspetti intrinseci, sui contenuti del lavoro, invece che sugli aspetti estrinseci come sono ad esempio
le qualifiche, gli orari, i premi incentivanti e di produttività. Sono dimensioni della partecipazione
diretta:
• “sistemi guidati di suggerimenti”, tipicamente introdotti in tutte le esperienze di lean: hanno
un enorme successo tra gli operatori, che sentono di avere finalmente una “voice” sul
miglioramento dei processi di lavoro e a volte dei prodotti (alla Fiat Pomigliano, 13mila
suggerimenti in un anno);
• “lavoro in team”, nuove modalità di organizzazione del lavoro introdotte in grandi industrie
come la Fiat ma anche in Ikea e altre aziende della grande distribuzione o nei call centres: i
team sono guidati da un team-leader, figura non gerarchica di primus inter pares. Ai team è
delegato potere di intervento su piccoli cambiamenti organizzativi, distribuzione dei ruoli,
rotazione delle mansioni, training e, a volte, anche decisioni inerenti la qualità della vita
delle persone, come le ferie, gli straordinari, la flessibilità dell’orario, lo scambi turni.
• “gruppi di progettazione interfunzionali”, a cui possono partecipare e dire la loro anche gli
operatori; “gruppi di qualità” attivati in base a proposte che vengono dai lavoratori.
• “sessioni periodiche informative” diffuse a tutti i lavoratori, per reparto o ufficio, in cui
vengono presentati e discussi gli obiettivi di produzione e di servizio e le innovazioni
organizzative, in modo da permettere ai dipendenti poter influire sulla presa di decisioni
(questo è, per esempio, il caso di Luxottica che ha, almeno nell’immaginario mediatico-
sindacale, un modello imprenditoriale opposto a Fiat). Oppure “briefing”, brevi riunioni di
confronto e discussione di problemi e dei programmi, una mezzora una volta alla settimana,
o dieci minuti all’inizio del turno.
Si tratta di pratiche vicine a quelle che gli studi manageriali, per esempio in Italia Riccardo Leoni
(2008), hanno definito, in varie versioni, HPWP High Performance Work Practices. Le differenze
con queste ultime sono spesso terminologiche ma non lo sono negli item, se si esclude la
valutazione individuale. Nel caso del HPWP, la valutazione è considerata come un efficace
strumento di comunicazione e partecipazione individuale in tutti quei casi in cui sono enfatizzati i
colloqui individuali, lo scambio di informazioni e di proposte tra supervisore e operatore per
migliorare le prestazioni operative e l’organizzazione del lavoro. Quello che accomuna queste
pratiche è che si tratta praticamente sempre di misure di iniziativa manageriale
3. La partecipazione diretta nel quadro delle Relazioni Industriali
Queste forme di partecipazione proprie dall’azione imprenditoriale danno luogo a una serie di
interrogativi che riguardano il sistema di relazioni industriali italiano e il ruolo della contrattazione
collettiva. I temi sono quelli della eventuale regolamentazione della partecipazione diretta per
mezzo della stessa contrattazione collettiva; la costituzione di organismi paritetici sulle nuove forme
di organizzazione distinti dagli accordi contrattuali; la costituzione, anche in Italia, come in
Germania, del doppio canale di rappresentanza con il riconoscimento istituzionale della
partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori come nuovo ambito entro cui gestire la
partecipazione diretta; programmi di intervento pubblico non direttamente vincolati da procedure di
tipo contrattuale.
• La contrattazione come regolazione ma anche come supporto alla partecipazione
Non tutti sono d’accordo che la contrattazione collettiva, in questo caso di secondo livello e
aziendale, funzioni come strumento adeguato per la partecipazione. Le osservazioni sono
due. La prima riguarda la compatibilità tra innovazione tecnico-organizzativa e
contrattazione. Ad esempio, Della Rocca (2015) ha spiegato – citando anche la storica
esperienza delle isole di montaggio alla Olivetti - che la contrattazione non si addice al
processo di innovazione che per sua natura è discontinuo, sperimentale, soggetto anche a
fallimenti, il cui successo sta nella massima plasmabilità, informalità e continua
ridefinizione degli obiettivi e nelle forme. L’innovazione organizzativa è soggetta non di
rado a ritorni improvvisi sulle posizioni di partenza o su altre non previste, il risultato spesso
non è conosciuto a priori, non può essere predefinito e premiato ex ante, né il processo di
cambiamento può essere vincolato da una procedura contrattuale. La seconda osservazione
riguarda la propensione che ha sempre avuto la contrattazione a regolamentare i fattori
esogeni e non endogeni del lavoro e dell’organizzazione. Si contrattano il premio di
produttività, gli inquadramenti, la presenza di comitati paritetici anche se i risultati del
cambiamento lasciano a desiderare, la qualità del lavoro rimane poco soddisfacente così
come la motivazione dei lavoratori e i risultati tecnici organizzativi.
• Organismi paritetici sindacati impresa come facilitatori della partecipazione diretta. Hanno
da sempre costituito, in Italia, la via di uscita per regolamentare la partecipazione e
mantenere allo stesso tempo la contrattazione collettiva entro la dimensione formale del
canale unico. Anche in questo caso sono conseguiti attraverso accordi di secondo livello;
soluzione quest’ultima in parte sperimentata con il Protocollo Iri (1984) e consolidata in
quegli anni in famosi accordi aziendali, come Zanussi- Electrolux e Gruppo Finmeccanica.
Sono soluzioni tuttavia che spesso hanno finito di ingessare i processi di cambiamento e di
partecipazione diretta entro una eccessiva burocratizzazione attraverso la moltiplicazione di
“tavoli”, “organismi bilaterali” e “commissioni paritetiche”. Recentemente forme di
regolazione autonoma di questo tipo sono state introdotte dalle parti sociali negli
stabilimenti italiani del gruppo Volkswagen - come Ducati e Lamborghini, dove sono state
introdotte la “carta dei diritti” e le “commissioni tecniche”.
• La partecipazione istituzionale come supporto alla partecipazione diretta
Per alcuni, il modello giusto entro il quale gestire la partecipazione diretta sarebbe il
modello tedesco con la separazione tra procedure e ambiti di contrattazione e procedure e
ambiti di partecipazione. Nei CCNL, in Germania, formalmente non è riconosciuta la
contrattazione di secondo livello, né organismi sindacali, ma sono riconosciuti Consigli di
azienda eletti dai lavoratori, con diritti di codeterminazione e di veto su materie inerenti
l’organizzazione del lavoro. I rappresentanti dei lavoratori discutono di solito le linee-guida
dell’innovazione e ne monitorano i risultati intermedi e finali, fuori dalla contrattazione. Si
tratta di una soluzione molto impegnativa e sino a oggi estranea alla tradizione, cultura e
prassi - piuttosto conflittuali - delle relazioni industriali italiane. Scegliere questa strada
significherebbe optare per uno sconvolgimento per legge dell’insieme delle Relazioni
Industriali.
Soluzioni più moderate emerse dalla discussione sono state:
- ipotizzare una legge che regoli la possibilità di optare congiuntamente e in modo
volontario in azienda tra parti sociali su alcune materie inerenti la partecipazione
invece che farne oggetto di contrattazione e contrapposizione conflittuale. Tale area
di neutralità reciproca dovrebbe prendere piede anche attraverso la costituzione di
comitati e commissioni eletti da tutti i lavoratori, in parte simili ad esperienze di tipo
finanziario, o inerenti l’ambiente o la salute;
- le stesse soluzioni di cui al punto precedente potrebbero essere regolate dai CCNL
con una procedura di partecipazione finalizzata al miglioramento della produttività,
alla partecipazione diretta e all’obbligo di cooperazione tra azienda e rappresentanze
sindacali. Procedura che delimita due funzioni senza arrivare al doppio canale che
però esclude dalla contrattazione aziendale i temi dell’ organizzazione del lavoro
(comprese le mansioni, l'orario) ed introduce l’idea di "sperimentazione" per
migliorare la produttività e la qualità del lavoro.
• Programmi pubblici per la produttività e l’umanizzazione del lavoro
Programmi sperimentali, promossi dai Governo, di incentivazione alle nuove forme di
organizzazione e di miglioramento della qualità del lavoro. Esempi di questo tipo esistono in
Europa (molto noti quello irlandese e quello tedesco) e prevedono esenzioni fiscali per le
imprese che vi partecipano, che possono prevedere formule di partecipazione diretta. Il
progetti sono formulati dalle imprese e prevedono una approvazione del potere pubblico.
Non necessariamente richiedono un accordo sindacale anche se gli esiti, e solo in questo
caso, possono essere verificati dalle organizzazioni sindacali. Tali programmi richiedono
una chiara formulazione delle finalità e degli obiettivi, dei processi, del grado di
partecipazione dei lavoratori. Le linee guida di tali programmi, il modo in cui sono attribuiti,
i criteri di selezione e valutazione degli esiti da adottare possono essere oggetto di
concertazione nazionale tra parti sociali rappresentative di un singolo settore. E’ esclusa la
necessità di ricorrere alla contrattazione aziendale nel merito del programma. Non sono, di
conseguenza, vincolati a priori all’adozione di istituti contrattuali e retributivi tradizionali,
come i premi di produttività. Le parti sociali a livello aziendale, solo sulla base degli esiti
ottenuti e se lo ritengono opportuno, sono libere di negoziare in seguito i fattori esogeni del
cambiamento (salari e inquadramenti).
Referenze
Baglioni G. (2001), Lavoro e decisioni nell’impresa, Bologna, il Mulino
Della Rocca G. (2015), “Produttività e qualità del lavoro, modi e dilemmi”, in Quaderni di
Rassegna Sindacale, n°2
Eurofound (2013), htpp:/www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2012/72/en/1/EF1272EN.pdf).
Leoni R. (2008), a cura di, Economia dell’innovazione. Disegni per l’innovazione, pratiche
organizzative e performance d’impresa, Milano, Franco Angeli.
Pero L., Ponzellini A.M. (2015), “Il nuovo lavoro industriale tra innovazione organizzativa e
partecipazione diretta”, in Carrieri D., Nerozzi P., Treu T. (a cura di), La partecipazione incisiva.
Idee e proposte per la democrazia possibile nelle imprese, Bologna, Il Mulino
Ponzellini A.M., Della Rocca G. (2015), “Continuità e discontinuità nelle esperienze di
partecipazione dei lavoratori all’innovazione produttiva. Partecipazione istituzionale e
partecipazione diretta”, in Economia e Lavoro, n° 3
1
Continuità e discontinuità nelle esperienze di partecipazione dei lavoratori
all’innovazione produttiva. Partecipazione istituzionale e partecipazione diretta
Anna M. Ponzellini e Giuseppe Della Rocca
In una versione riveduta, questo lavoro è stato pubblicato come: “Continuità e discontinuità
nelle esperienze di partecipazione dei lavoratori all’innovazione produttiva. Partecipazione
istituzionale e partecipazione diretta”, in Economia e Lavoro, n.3, 2015
Abstract
Negli anni ‘70 si assiste ai primi segnali di crisi del modello fordista di produzione dovuta alla diffusione
dell’elettronica, alla differenziazione dei mercati e destandardizzazione dei prodotti e soprattutto alla crisi di
consenso da parte della forza lavoro verso un modo di lavorare povero e dequalificato. Imprenditori,
sindacati e Governi - in particolar modo nei paesi scandinavi e in Germania - diedero luogo a programmi
congiunti di partecipazione “istituzionale” per la sperimentazione di nuove forme di organizzazione del
lavoro. A oltre quarant’anni di distanza, i nuovi paradigmi organizzativi ispirati al toytismo e al lean
manufacturing ripropongono in modi diversi il coinvolgimento dei lavoratori, prevalentemente attraverso il
lavoro di gruppo e i sistemi di suggerimenti dal basso per il miglioramento continuo. Diversamente dalle
precedenti, si tratta di esperienze di partecipazione “diretta” il cui unico o prevalente canale di promozione,
per quanto riguarda l’Italia, è l’impresa. Il confronto tra queste due esperienze e l’analisi delle ragioni del
successo e dell’insuccesso dell’una e dell’altra possono consentire una migliore comprensione delle vie che
si aprono alle parti sociali e alle relazioni industriali per contribuire il miglioramento della produttività e
insieme della qualità del lavoro.
During the ‘70s, manufacturing production starts to experience the crisis of work organization systems
based on Taylor and Ford rules of production, due to the diffusion of electronic (process and product), the
change from standard to a more diverse product market and, above all, due to the employees’ discontent
over poor and unskilled jobs. Employers, Unions and Governments of some countries - like Scandinavia and
Germany - started joint programmes of what is known as “institutional” participation to implement new
form of work organization. After forty years, organisational innovation inspired by the Toyota production
system of lean manufacturing are promoting a new version of employee involvement, mainly through
teamworking, and worker suggestion systems for continuous improvement. Contrary to what happened in
that case, until now the main channel of implementation of these new forms of “direct” participation in Italy
has been management or employer action. Comparing these two different experiences and analysing success
and failures can give the social partners the opportunity for a better understanding of possible Industrial
relations strategies to adopt in order to reach both productivity and employee quality of working life.
1. Introduzione
In questo periodo di crisi economica e di denuncia della bassa produttività del sistema Italia è ricomparsa la
discussione, oltre che la ricerca, sull’innovazione produttiva e sui nuovi metodi di organizzazione del lavoro.
Come sempre la discussione oscilla tra coloro che enfatizzano il cambiamento e tendono a considerare
l’ultima soluzione come quella vincente e coloro che ne danno una visione pessimistica sottolineando il
permanere, in fin dei conti, della vecchia logica della divisione funzionale dell’organizzazione, della
parcellizzazione e dequalificazione del lavoro. In particolare nel settore manifatturiero un importante ruolo di
innovazione è oggi dato dall’introduzione dei metodi che appartengono all’area della lean production. Tra
2
questi, il World Class Manufacturing (WCM) adottato da Fiat a partire dal 2008 in sostituzione del modello
industriale di Fabbrica Integrata, che aveva un’alta valenza tecnologica più che organizzativa Secondo i suoi
promotori, il WCM - applicazione evoluta dei principi della lean production - propone una definizione molto
rigorosa delle tecniche e dei metodi (non solo tecnici, ma anche manageriali) di produzione, garantisce una
maggiore continuità del flusso, un uso più mirato delle tecnologie, una partecipazione dei lavoratori per il
miglioramento e il controllo della produzione, una verifica dei risultati con sistemi standardizzati di audit e
di valutazione.
L’intento di questo articolo non è tanto quello di entrare nel merito della contrapposizione tra ottimisti e
pessimisti rispetto al miglioramento della condizioni di lavoro. Riteniamo infatti assodato che, a partire dagli
anni ‘70 con la crisi endogena del taylorismo (Butera, 1972), vi sia stato un progressivo miglioramento delle
condizioni ergonomiche e anche delle competenze del lavoro, così come sia cambiato il grado di
integrazione tra funzioni, ruoli e posizioni di lavoro in particolare nel settore manifatturiero nei paesi
dell’Ocse. Obiettivo più specifico di questa discussione è invece quello di soffermarsi sul significato e sul
grado di continuità o discontinuità della partecipazione del lavoro ai processi produttivi.
Il termine “partecipazione” è soggetto a varie modalità di lettura e a questioni, che in parte si cercherà di
chiarire. In primo luogo se, ad esempio, partecipazione e coinvolgimento siano tra loro sinonimi. Se, e in che
modo, la partecipazione dia luogo ad una maggiore discrezionalità e condivisione di potere al lavoro
esecutivo rispetto agli altri livelli gerarchico-funzionali dell’organizzazione. Se per partecipazione si intenda
una maggiore comunicazione attraverso suggerimenti, briefing e altre forme di comunicazione o se sia
invece anche inerente le decisioni che hanno a che fare con l’arricchimento e la progettazione delle mansioni
o se, ancora, sia legata ad aspetti di gestione del personale come le retribuzioni connesse alla prestazione
individuale e/o alle performance dell’impresa. In secondo luogo, se e fino a che punto la partecipazione sia
inerente i rapporti tra parti sociali. Ad esempio di recente la Fondazione europea per la qualità della vita di
lavoro di Dublino, nelle sue indagini sulle condizioni di lavoro, ha coniato il termine partecipazione diretta
distinguendola dalla partecipazione istituzionale, quella che siamo abituati a conoscere, perché prevista per
legge o da regole esterne all’impresa e che consente la partecipazione delle rappresentanze elette dai
lavoratori.
Un utile esercizio per rispondere a queste domande potrebbe essere quello di riflettere sull’esperienza di oggi
rispetto ad altre, in questo caso quella che ha caratterizzato gli anni ’70, di forte partecipazione istituzionale,
per individuarne le principali differenze e gli aspetti di continuità. In tale prospettiva è utile riassumere e
confrontare questi due momenti dell’innovazione dell’organizzazione del lavoro. Da un lato, la formula,
degli anni ‘70, delle nuove forme di organizzazione del lavoro attraverso i gruppi autonomi o semiautonomi
di lavoro e altri aspetti come la rotazione, l’allargamento e l’arricchimento delle mansioni rivolte al
miglioramento della discrezionalità e della professionalità del lavoro. Dall’altra, lean production,
suggerimenti e team di lavoro: un modello produttivo composto da molti ingredienti del precedente modello
ma rivolto al miglioramento dell’intero sistema, con un flusso più stringente per evitare gli sprechi e con un
più intenso ricorso a procedure formali come leve per promuovere il miglioramento continuo dei processi.
Entrambe le esperienze cercano di coniugare il tema della produttività dell’impresa con quello della
partecipazione e della qualità del lavoro: una questione da sempre controversa, certamente per quanto
riguarda gli ultimi 50 anni, nell’ambito delle nuove forme di organizzazione del lavoro industriale. Si tratta
di cambiamenti che, anche simbolicamente, hanno contraddistinto due epoche diverse e sono a loro volta
diversi, nonostante alcune similitudini, visto che nei primi è forte l’enfasi sul miglioramento della qualità del
lavoro e sulla partecipazione sindacale, mentre nei secondi è maggiore l’enfasi sul miglioramento continuo
dell’organizzazione e sulla produttività dell’intero sistema. Nel primo caso l’avvio e la diffusione sono
avvenuti soprattutto sulla spinta del movimento operaio sindacale con un riconoscimento esplicito, in alcuni
Paesi, dai Governi attraverso programmi specifici, istituiti dagli stessi, di miglioramento della qualità del
3
lavoro e della produttività; mentre per il WCM e le altre esperienze di cambiamento del lavoro originate
dalla filosofia della organizzazione snella, il principale promotore e, in alcuni casi, unico canale di
implementazione e diffusione, è stata l’impresa.
2. Le “nuove forme di organizzazione del lavoro” degli anni ‘70 e la partecipazione
istituzionale
Le nuove forme di organizzazione del lavoro degli anni ‘60 e ‘70 hanno cercato di conseguire maggiore
produttività attraverso il miglioramento della qualità del lavoro in alcuni Paesi Ocse, quali ad esempio quelli
scandinavi, Germania, Olanda, Stati Uniti e in parte Gran Bretagna e Canada (Della Rocca, 1982). Da un lato
le nuove forme di organizzazione rispondevano per gli imprenditori a esigenze di produttività, in un contesto
di cambiamenti tecnologici nei prodotti e nei processi (grazie alla diffusione dell’elettronica), di mercato
(con una maggiore varietà della gamma dei prodotti), di schemi di organizzazione (più flessibili rispetto alle
esigenze di un mercato ormai saturo di prodotti standard e uniformi). Dall’altra, queste forme di innovazione
organizzativa rispondevano anche ad una crisi di consenso verso un modo di lavorare povero di capacità
professionali e di gestione dei processi di produzione: crisi resa anche esplicita dai conflitti di lavoro e dalla
crescita del potere contrattuale del sindacato. Di qui la diffusione di programmi di governi, di istituzioni (ad
esempio la Fondazione Europea di Dublino) e di associazioni che avevano come principale finalità
l’implementazione e lo sviluppo della Qualità della Vita di Lavoro (QWL).
In alcuni paesi, ad esempio quelli scandinavi, i sindacati si rendevano conto dei limiti della loro stessa
partecipazione ai Consigli di amministrazione o ai Comitati di direzione, nella misura in cui la
partecipazione a questi organismi non poteva di per sé cambiare la qualità del lavoro in modo significativo
ad un operaio comune. Anche scienziati sociali come Emery e Thorsrud (1969) sostennero che solo con la
partecipazione dei lavoratori al miglioramento delle condizioni del lavoro sarebbe stato possibile conseguire
risultati soddisfacenti. Sulla base di queste conclusioni, l’attenzione si spostò sulla partecipazione dei
lavoratori alla progettazione delle mansioni e dell’organizzazione, e principalmente sui gruppi autonomi e
semiautonomi di lavoro (Davis, 1966). Particolare attenzione fu dedicata, in questi paesi, ai risultati degli
esperimenti del Tavistock Institute di Londra realizzati nelle British Coal Mines, dove i lavoratori avevano
organizzato essi stessi compositi gruppi di lavoro assumendo anche la responsabilità della produzione. Una
tassonomia del grado di intensità di queste forme di autoregolamentazione la ritroviamo in Gulowsen (1966).
Di qui la diffusione dell’idea di gruppo autoregolamentato, le cui esperienze di matrice istituzionale più
conosciute, tra i paesi più sopra citati, sono state quelle di Svezia e Germania. Nel primo caso l’innovazione
negli stabilimenti automobilistici Volvo e in altre aziende e il programma del sindacato dei lavoratori
manuali, che va sotto il nome di Industrial Democracy del 1971, trasformato in legge nel 1976. La legge
stabilisce il diritto del lavoratore, oltre che a contrattare, a partecipare e autodeterminare il proprio lavoro
(Associazione svedese degli imprenditori, 1978). Del secondo esempio sono note le esperienze nei settori
automobilistico, siderurgico ed elettronico e il programma governativo di Umanizzazione del lavoro
(Program Forschung zur Humanisierung des Arbeitslebens) del 1978.
Le esperienze sono un vero e proprio arcipelago di innovazioni e sono difficilmente classificabili. Scompare
comunque dagli assemblaggi la linea lunga e al suo posto intervengono inizialmente dei sotto assemblaggi
indipendenti, composti da pochi operai (sino a 30) per arrivare a gruppi o unità di lavoro più piccoli il cui
principio distintivo è la responsabilità di produrre un prodotto o sottoprodotto completo. In alcuni casi questo
si traduce in un aumento di autonomia che va dalla possibilità di decisione (parziale o totale) sulla
distribuzione interna dei compiti e su compiti addizionali del gruppo, ai metodi di produzione individuale,
alla scelta del proprio coordinatore interno, sino a poter influenzare i metodi di produzione in generale, a
poter definire la qualità e le quantità di produzione e così via. Si tratta di fasi di quella che si può chiamare la
frontiera dell’autoregolamentazione: l’autonomia progressiva sul collaudo e rettifica della qualità del
4
prodotto, sulla manutenzione ordinaria di parte delle macchine e delle attrezzature, sull’interdipendenza nelle
informazioni e nella rotazione tra posti. Molti aspetti consentivano l’allargamento e l’arricchimento delle
mansioni individuali oltre che la rotazione.
L’esperienza forse più significativa di autoregolamentazione operaia è stata quella della sperimentazione allo
stabilimento automobilistico Volvo di Kalmar, in cui si arrivò all’abolizione delle linee a ritmo vincolato
dalla macchina o dal convogliatore e al ritorno del montaggio su banconi individuali con un allargamento o
arricchimento delle mansioni e con tempi di lavorazione individuale per unità di prodotto superiori ai 10
minuti. L’integrazione del gruppo non viene più imposta dal ritmo vincolato, ma attraverso l’indicazione da
parte dell’azienda di standard e obbiettivi di produzione da conseguire per l’intero gruppo, con un premio
collettivo legato al loro raggiungimento. L’esperienza di Kalmar fu chiusa perché ritenuta poco produttiva
mentre anche altre esperienze analoghe furono riviste. Il cambiamento di rotta nell’organizzazione aziendale
fu dovuto al successo dell’industria giapponese e dei modelli di organizzazione lean, che supplirono alla
scarsa efficacia e coordinamento del flusso di produzione e agli eccessivi sprechi dei magazzini intermedi
che il precedente sistema autoregolato comportava. Durante la sperimentazione, infatti, la mancanza di un
ritmo vincolato dalle macchine impediva che si realizzasse un’integrazione tecnico-produttiva completa: gli
operai agivano in base agli spazi di discrezionalità consentiti e diventava difficile, in un sistema
autoregolamentato, il controllo dei tempi complessivi del flusso del processo di produzione.
In quegli anni la partecipazione istituzionale del sindacato svolse un’importante funzione di sussidiarietà e di
incentivazione delle nuove forme di organizzazione del lavoro. Il ruolo del sindacato come promotore del
cambiamento dell’organizzazione del lavoro si basava su un forte riconoscimento istituzionale dei diritti di
partecipazione accanto a quelli di contrattazione. Così almeno si legge dall’esperienza internazionale e, in
particolare, i casi di Svezia e Germania sono a testimoniare questo principio: il cambiamento dei metodi e
dell’organizzazione del lavoro non può essere il risultato di un conflitto e di un negoziato, ma di un rapporto
di partecipazione tra parti sociali e, per questo, i cambiamenti dell’organizzazione del lavoro sono intervenuti
entro una cornice istituzionale che separa le procedure e gli attori della contrattazione da quelli della
partecipazione. Non a caso, sia nei Consigli del lavoro tedeschi che nei Comitati misti di gestione nei Paesi
scandinavi, le parti sociali per conseguire decisioni congiunte sono soggette a specifici vincoli (obbligo di
astensione dal conflitto) e a riconoscere i risultati della sperimentazione come prioritari rispetto a quelli
contrattuali.
Le ragioni di questa separazione possono essere più d’una. L’argomentazione più ricorrente è quella che
l’innovazione congiunta considera la necessità di avere un rapporto di fiducia tra le parti e il reciproco
riconoscimento del comune interesse a migliorare la produttività e la qualità del lavoro, condizione questa
non sempre ottenibile al di fuori di un quadro legislativo e istituzionale. Ma esistono altre ragioni per tenere
separate partecipazione e contrattazione, la più importante e dirimente è che la contrattazione è uno
strumento poco adeguato per accompagnare il processo di innovazione. L’innovazione, com’è ovunque
riconosciuto, prevede un percorso per prova ed errore, i cui risultati non possono essere previsti ex ante sia
per quanto riguarda le caratteristiche della nuova organizzazione che delle nuove condizioni di lavoro.
L’innovazione è un percorso incerto, nel quale una delle possibilità può essere, come in tutte le
sperimentazioni, di tornare al punto di partenza.
Il grado di successo di un’innovazione organizzativa va infatti valutato non solo sui risultati finali ma anche
sui risultati intermedi durante la sperimentazione; quindi la gestione del cambiamento richiede alle parti
sociali non solo di condividere interessi comuni ma anche spazi di verifica congiunta per decidere sulle
numerose alternative che di solito intervengono durante il percorso. I risultati finali di un processo di questo
tipo bypassano il tavolo negoziale vero e proprio perché gran parte delle soluzioni viene conseguita prima
dell’attività di negoziazione vera e propria. Vi è poi un’ultima ragione. Per tutelare o incrementare la qualità
del lavoro è necessario un sindacato che abbia come finalità il controllo non solo degli effetti
5
dell’organizzazione sui lavoratori (orari, qualifiche, tempi e ritmi), ma del merito stesso del cambiamento
organizzativo. Un sindacato, come dice l’esperienza scandinava, che cerca di intervenire anche sulle cause
che danno origine a condizioni di lavoro e a lavori poco qualificati e competenti.
Il caso italiano non è assimilabile a quello dei Paesi citati. La contrattazione, come unica funzione prevista
nelle relazioni Industriali, fa sì che preferibilmente il sindacato sia indotto a contrattare la fenomenologia
della condizione operaia e non le sue cause. Non è parte del DNA del sindacato italiano la disponibilità ad
essere coinvolto in modo istituzionale nella progettazione di nuove forme dell’organizzazione del lavoro.
Limite che non ha escluso comunque l’adesione occasionale ad interventi di implementazione di nuove
forme di organizzazione. L’esempio, ancora oggi citato, di miglioramento della qualità del lavoro e di
lungimiranza del sindacato è quello di Olivetti. Negli anni ‘70 i sindacati alla Olivetti sono stati tra i primi a
rivendicare una diversa organizzazione del lavoro, come raccontano Federico Butera e Giovanni de Witt
(2011), in un clima sindacale, quello della Federazione Lavoratori Metalmeccanici di Torino, descritto da un
altro autore come “di ricerca della difficile utopia del possibile” (De Amicis, 2010). L’accordo del 1971 è il
primo in cui un’azienda si impegna preventivamente con i sindacati ad arricchire il lavoro. I sindacati
lamentavano i danni alla salute psicologica dei lavoratori e i limiti della loro crescita professionale provocati
dal lavoro parcellare e dequalificato. La direzione fu pronta a coinvolgere sindacato e lavoratori: un’azienda
aperta, molto dissimile nelle politiche del personale dalla maggioranza delle aziende italiane, con un
management e staff tecnici non solo pronti, ma anche buoni conoscitori sia delle dimensioni tecnico-
organizzative che delle politiche e degli strumenti di implementazione della qualità del lavoro.
Nonostante queste premesse, è importante notare che l’accordo del 1971 in Olivetti non è un accordo sulla
codeterminazione dell’organizzazione del lavoro, né definisce una responsabilità del sindacato nella
conduzione del progetto che porterà alla revisione del lavoro agli assemblaggi delle macchine da calcolo e
alla costituzione delle Unità di Montaggio Integrate (UMI), chiamate, in generale, Isole di montaggio.
Nonostante i risultati siano stati considerati positivi dal sindacato - in particolare, è bene ricordarlo, nel caso
di produzione della Logos 50/60 fu superata l’idea della lavorazione su ritmo vincolato di linea e il lavoro di
montaggio fu trasferito su banconi, con una soluzione in parte simile a quello della Volvo - il progetto di
riorganizzazione era e rimaneva dell’azienda. Il sindacato anche in questo caso scelse la via di impegnare
l’azienda in modo prioritario non sui contenuti dell’innovazione ma sui temi contrattuali tradizionali -
passaggi di categoria, indennità, richiesta di elevati tempi di addestramento, organici - senza necessariamente
incidere sulle prerogative e poteri manageriali.
3. Le esperienze recenti di lean manufacturing e la partecipazione diretta
I processi produttivi ispirati al lean manufacturing e, più in generale, i nuovi modelli di organizzazione
introdotti nelle produzioni (o nei servizi) su larga scala e in ambienti a forte concentrazione di lavoro
esecutivo – che si tratti di fabbrica, di call center o di grande magazzino – richiedono, per il loro pieno
funzionamento il contributo attivo e intelligente dei lavoratori alla realizzazione dei risultati produttivi. A
differenza anche del recente passato, infatti, le nuove metodologie non sono tanto guidate dall’obiettivo
(come nel caso della Fabbrica Integrata sperimentata da Fiat alla fine del secolo scorso) di ottimizzare il
sistema tecnico, secondo la filosofia dominante nella fase dell’automazione, che tendeva ad assoggettare gli
aspetti sociali e gli assetti organizzativi al primato delle tecnologie labour-saving; all’opposto, sono spinte
dall’idea della centralità dell’organizzazione e dall’importanza della scelta organizzativa (Bartezzaghi e
Brivio, 2013).
Infatti, per questo sistema di produzione che fonda la propria efficienza sul principio della differenziazione
del mercato e dei servizi, l’enfasi posta sull’organizzazione è obbligata per garantire la perfetta correlazione
tra beni prodotti e domanda di mercato: secondo Benjamin Coriat (1991) è un pensare a all’inverso rispetto
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al mercato e ai metodi della produzione di massa di Taylor e Ford finalizzati invece a ridurre i costi di beni
con quantità progressivamente crescenti e con un numero ristretto di prodotti standard. Il principio che più di
ogni altro contraddistingue questa organizzazione è proprio la partecipazione dei lavoratori. Infatti, un
sistema produttivo che cerca di assecondare la domanda del cliente nei tempi e nella qualità, facendo ricorso
a risorse tecnologiche, di magazzino e di spazi sempre meno ridondanti non può fare a meno
dell’intenzionalità e affidabilità attiva del lavoro.
I nuovi sistemi di produzione si concentrano particolarmente su quei processi in cui il lavoro umano rimane
non sostituibile dalla tecnologia e hanno l’obiettivo di estrarre margini importanti di produttività non più
soltanto dallo sforzo fisico degli operatori mirato alla semplice esecuzione di compiti preordinati, ma da una
collaborazione attiva, intelligente e parzialmente discrezionale, mirata alla realizzazione di target produttivi e
di servizio. Insomma, benché schiettamente guidata dagli interessi del capitale e non da una rivalutazione di
quella “progettazione organizzativa partecipata”, ispirata all’approccio socio-tecnico promosso ormai molti
anni fa dal Tavistock Institute di Londra proprio come antidoto al determinismo tecnologico, questa nuova
filosofia organizzativa riconosce, pur all’interno di processi organizzativi e di sistemi di controllo molto
strutturati, l’importanza cruciale dei lavoratori e del loro contributo per il successo dell’impresa.
Anche se l’applicazione della lean nel manifatturiero prevede ancora ritmi vincolati in modo sequenziale con
tempi individuali ridotti, la produzione è organizzata sulla base di metodologie come il Total Quality
Management (TQM), il Total Productive Management (TPM), il Just in Time (JIT), i Kaizen che hanno
come obiettivi comuni la flessibilità della produzione, la riduzione degli sprechi e il miglioramento continuo
e che, proprio in funzione di questo, richiedono agli operatori di intervenire in molti modi, che vanno spesso
oltre il ruolo definito dai mansionari con azioni che presuppongono l’uso di capacità cognitive complesse e
non solo di semplici operazioni manuali: per esempio, agli operai è spesso richiesto di effettuare piccoli
interventi di manutenzione, di effettuare in autonomia piccole variazioni delle procedure, di cooperare coi
colleghi per la soluzione di problemi legati alle tecnologie o al funzionamento dei processi, di prendersi cura
dei materiali e degli attrezzi di lavoro, di risparmiare sui consumi energetici, di prevenire guasti alle
macchine ed infortuni, etc. Inoltre, in tutti i sistemi tipicamente generati dal toyotismo una delle formule più
diffuse di coinvolgimento consiste nella richiesta agli operatori di dare suggerimenti per migliorare la qualità
dei processi e dei prodotti. Più raramente, sia in alcuni casi industriali sia, più spesso, nelle attività
commerciali e di servizio, ai team di lavoratori è consentito di operare interventi autonomi di aggiustamento
degli orari di produzione e/o di lavoro, anche se naturalmente sempre all’interno dei target di produzione e
degli standard di risultato previsti (Pero, Ponzellini 2015).
È giusto chiedersi fino a che punto esperienze di questo genere possano essere considerate effettive
esperienze di partecipazione. Per capire cosa sta realmente succedendo, occorre però sgombrare il campo da
alcuni approcci fuorvianti. In primo luogo, sarà utile rinfrescare l’uso delle parole. Nell’analizzare le forme
di partecipazione dei lavoratori, e in particolare di quella che chiamiamo “partecipazione diretta”, nel senso
di non mediata dai rappresentanti sindacali, si usa spesso la vecchia contrapposizione tra coinvolgimento e
partecipazione, a significare un ruolo attivo piuttosto che passivo degli operatori nel sistema produttivo.
Tuttavia, usare queste due espressioni come una (ideologica) dicotomia non aiuta a capire i cambiamenti che
stanno avvenendo nel ruolo degli operatori: cambiamenti che stanno probabilmente lungo un continuum che
va da forme in cui è prevalente una azione eterodiretta (dal management, dalla cultura d’impresa, etc.) a
forme in cui esistono e sono misurabili spazi di effettiva autonomia organizzativa (talvolta collettiva, qualche
volta nelle recenti esperienze, anche individuale).
A riprova di questo, ad una certa distanza dal dibattito italiano, la Fondazione europea di Dublino usa il
termine “coinvolgimento dei dipendenti” (employee involvement), distinguendone due dimensioni principali
mutuate dalle ricerche di Duncan Gallie (2001): l’autonomia nei compiti (task discretion) - ovvero
l’influenza che i dipendenti possono esercitare sui propri compiti immediati - e la partecipazione
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organizzativa (organisational participation) - ovvero l’influenza che essi esercitano sull’organizzazione del
lavoro (Eurofound, 2013). La Fondazione considera dunque le due dimensioni lungo un scala, ma
ricomprende entrambe nel coinvolgimento.
In secondo luogo, giova distinguere tra pratica HRM (la cui finalità è gestire le persone in quanto risorse) e
struttura organizzativa (la cui finalità è distribuire le attività e coordinarle). Molte delle pratiche innovative
che in qualche modo sono state introdotte dai nuovi paradigmi di produzione e di servizio orientati alla
rapidità, alla qualità e all’efficienza (“zero scorte, zero scarti”) - come il lavorare in team, il coinvolgimento
periodico degli operatori in sessioni di informazione sui cicli produttivi, la formazione, la valutazione, i
premi collegati ai suggerimenti per il miglioramento continuo – sono state analizzate all’interno degli studi
che fanno riferimento all’approccio High Performace Work Organisation (HPWO), quindi nell’ottica tipica
degli studi di management (Lynch, 2012; Leoni, 2012; Eurofound, 2012). Ma sarebbe sbagliato appiattire la
portata innovativa di questi cambiamenti dei modi di lavorare sulla mera pratica, più o meno sofisticata, di
gestione delle risorse umane. Accanto agli aspetti tipicamente gestionali, che certamente esistono e sono tesi
a favorire la motivazione dei lavoratori, i nuovi modelli produttivi hanno infatti cambiato l’organizzazione
stessa del lavoro: la distribuzione delle mansioni, i ruoli, lo sviluppo delle competenze, le relazioni tra gli
operatori, le relazioni gerarchiche, il modello di coordinamento. Cambiamenti certamente realizzati a
intensità variabile nei diversi ambienti tecnologici e nelle concrete esperienze aziendali: fin dalle origini,
nelle esperienze di applicazione del toyotismo esistono infatti versioni più spinte verso la autoregolazione
operaia e versioni in cui i margini di autonomia degli operatori appaiono più ristretti e “la autoregolazione
più finalizzata alla (mera) autorazionalizzazione” (Cattero, 1995).
Un buon esempio dell’utilità di questa distinzione emerge dallo schema del lavoro in team, in particolare
analizzando il classico “team operaio”. La squadra operaia non è una formula motivazionale, è una struttura
organizzativa: prevede una certa distribuzione delle mansioni che include anche un sistema di rotazione e di
polivalenza, modalità di relazione cooperativa tra gli operatori, abilità estranee alla mansione tecnica come la
capacità di cooperare, compiti non inerenti al ruolo tradizionale operaio come formulare suggerimenti, a
volte compiti di gestione dei tempi o dell’uso delle tecnologie e prevede l’introduzione di un ruolo
particolare che è quello del team leader. Anche la squadra delle cassiere in un grande magazzino non è una
formula motivazionale, è una microstruttura che ha deleghe precise: nell’adeguare gli orari di lavoro ai flussi
di clientela, nel gestire le sostituzioni, nel formulare proposte di miglioramento.
Per venire all’esperienza Fiat, nelle realtà dove il WCM è più avanzato - come negli stabilimenti di
Pomigliano, Melfi, Sevel - è evidente un netto miglioramento della qualità del lavoro: quella più visibile è a
livello di ambiente di lavoro e di ergonomia ma, attraverso la rotazione delle mansioni e l’introduzione del
sistema dei suggerimenti per il miglioramento, si è verificato anche un discreto ampliamento dei ruoli operai.
Il sistema dei suggerimenti (che piovono a centinaia, come in tutte le realtà aziendali dove è stato introdotto)
ha indubbiamente incontrato il favore dei lavoratori e ha contribuito a creare quel “senso di contare di più” di
cui parla la ricerca Fim-Cisl (Cipriani et al., 2014), proprio perché in fondo risponde al bisogno
fondamentale delle persone di essere soggetti e protagonisti della propria vicenda lavorativa ed esistenziale.
Dalla stessa indagine, nella percezione del cambiamento da parte degli operai, altri aspetti emergono come
più critici, tra questi un possibile aumento dello stress, forse per l’”ingaggio cognitivo”, forse per
l’eliminazione dei tempi morti. Il WCM non ha modificato sostanzialmente il ritmo vincolato della linea e il
tempo di ciascuna operazione, anche dopo accurati bilanciamenti ergonomici, è rimasto molto basso (poco
più di un minuto). Tuttavia, il nuovo sistema non solo ha ottenuto un maggior consenso operaio in virtù di
miglioramenti delle percezioni “soggettive” dei lavoratori – motivazione, soddisfazione, espressione di sé –
ma ha modificato “oggettivamente” il processo decisionale spostandolo verso il basso e i ruoli operai.
Resta comunque complicato dare oggi una valutazione del team operaio. Nella nuova Fiat, il team – formato
da sei persone più un operaio team leader - funziona come microstruttura di produzione e controllo della
8
produttività (intesa come rapidità e soluzione di problemi) e in qualche misura come ambito di sviluppo
professionale. È costruito attorno alla figura del team leader, che è di fatto la figura-chiave del nuovo
sistema, al centro di tutta la gestione HR: i team leader sono selezionati con cura, seguono un training molto
approfondito che prevede anche esperienze in altri stabilimenti e sono oggetto di costante coinvolgimento.
Come in altre organizzazioni, anche in Fiat il profilo di competenze del team leader è incerto: non sono più
centrali quelle tecniche, prevalgono quelle manageriali. Anche se è figura operaia, raramente occupa una
postazione di lavoro, il suo ruolo consiste a tempo pieno nella capacità di insegnare ai nuovi, di motivare, di
tenere insieme la squadra: caratteristiche che ne fanno una sorta di "coach per la produttività". Tuttavia, lo
spazio di autonomia del team è limitato alle fermate della linea (che accadono raramente) e alle decisioni su
come organizzare la rotazione delle postazioni (chi ruota e le cadenze della rotazione): non è poco ma non è
abbastanza.
La valutazione dell’impatto sul lavoro dei nuovi metodi ha aperto un interessante dibattito. In passato, i
cambiamenti del lavoro esecutivo collegati al post-fordismo sono stati valutati, con occhio più o meno
pessimista, oltre che sul miglioramento delle condizioni di lavoro - su cui tutti gli studiosi convengono - sulla
base di criteri riferiti ad alcune dimensioni della professionalità: sostanzialmente, il prevalere del cosiddetto
job enrichment rispetto al cosiddetto job enlargement, oppure lo scarto tra l’aumento (comprovato) della
responsabilità e l’aumento (non evidente) dell’autonomia (Bonazzi, 1993; Negrelli, 2000). Proseguendo su
questa strada e premettendo che sarebbe opportuno avere a disposizione analisi più approfondite, si possono
fare alcune parziali osservazioni sui cambiamenti prodotti dalle innovazioni organizzative più recenti. Nelle
realtà osservate, la responsabilità individuale del lavoratore appare aumentata dovunque, l’autonomia invece
è più critica, vista la pervasività dei sistemi di controllo in parte incorporati nell’automazione, in parte nel
controllo sociale proprio del lavoro in team. Tuttavia, una certa delega verso il basso del potere manageriale
appare evidente e rappresenta l’aspetto indiscutibile del passaggio al post-fordismo.
L’ampliamento del ruolo degli operatori - che siano operai delle linee di montaggio o operatori nei servizi -
non spazia solo dall’uso delle capacità cognitive (di analisi e di problem solving) a quello dei talenti
trasversali (come la capacità di cooperare), ma comprende anche dimensioni diverse e meno codificabili dai
tradizionali sistemi di classificazione professionale e attraverso la vecchia lente del job enrichment. Intanto,
l’organizzazione è al centro e lo sviluppo si realizza più come sviluppo organizzativo che come sviluppo
professionale (nel senso tradizionale del lavoro artigiano). In secondo luogo, i nuovi sistemi organizzativi
sembrano funzionare come leve di potenziamento di alcune delle capacità dei lavoratori, un potenziamento
che in qualche modo non è distante dal senso che ha dato loro Amartya Sen (1985).
Se i nuovi sistemi prevedono il coinvolgimento della soggettività dei lavoratori, si potrebbe obiettare che
essa è manipolabile attraverso le pratiche di gestione delle risorse umane e può darsi che in parte lo sia, ma
non si dovrebbe fare torto alle persone considerandole (paternalisticamente) meri strumenti al servizio degli
obiettivi degli altri. Contribuire alla creazione di valore per l’azienda può essere una scelta, non implica
necessariamente la passiva adesione al progetto aziendale. In questo senso, crediamo che si possa parlare di
partecipazione.
4. Alcune considerazioni conclusive
Nella prima parte dell’articolo abbiamo “riletto” gli esiti delle sperimentazioni del movimento per la qualità
del lavoro negli anni ‘70, nella seconda parte i risultati delle recenti esperienze d’innovazione organizzativa
trainate dall’approccio della lean production. Non c’è dubbio – come osserva Cattero (1995) – che le
esperienze più recenti di cambiamento dell’organizzazione del lavoro e di coinvolgimento dei dipendenti non
siano che un “lontano parente” di quella utopia dell’autogestione del lavoro operaio che si auguravano Kern
e Schumann (1984) e di quella frontiera dell’autoregolamentazione, in fondo mai pienamente realizzata, del
9
programma di Umanizzazione del lavoro operaio in Germania e dei gruppi autonomi e semiautonomi alla
Volvo e in altre realtà nordeuropee.
In realtà, quella degli anni ‘70 fu una stagione fervida ma breve. Al termine del decennio era già chiaro che
le promesse dell’approccio socio-tecnico, di creare nuovi schemi di organizzazione del lavoro e nuovi ruoli
professionali che tenessero in equilibrio le esigenze del sistema tecnico-produttivo e i bisogni sociali
attraverso la “progettazione congiunta” tra management e rappresentanti dei lavoratori, erano tutt’altro che
facili da realizzare. Da un lato, infatti, non si erano fatti i conti con la strada che avrebbe preso il capitalismo
globale e con i vincoli sempre più stringenti imposti dalla competizione del mercato che entra nelle fabbriche
e s’impone all’organizzazione della produzione: una concorrenza inimmaginabile alla Volvo degli anni ‘70 e
a cui solo sistemi sofisticati di risparmio sugli sprechi di produzione e innovazione anche micro dei processi,
come quelli introdotti dai sistemi di lean manufacturing, hanno potuto rispondere. Dall’altro, la stessa utopia
dell’autoregolamentazione era messa alla prova dal progressivo indebolimento, in tutto il mondo occidentale,
delle istituzioni di rappresentanza del lavoro. Non a caso, delle diversità tra le due esperienze e i due
momenti storici che abbiamo analizzato colpisce innanzitutto il fatto che, pur avendo molti obiettivi simili
siano state guidate la prima dal movimento dei lavoratori, la seconda dalle scelte del management.
In generale, possiamo concludere che nelle esperienze di nuova organizzazione del lavoro degli anni ‘70 -
guidate dalle parti sociali attraverso la partecipazione istituzionale - l’enfasi era innanzitutto posta sul
conseguimento, a livello collettivo, della qualità del lavoro attraverso l’introduzione di gruppi di lavoro
semiautonomi e l’incremento delle capacità professionali individuali. Di qui la riduzione e la scomparsa delle
linee di assemblaggio lunghe, sostituite con linee di produzione e di montaggio più corte, sotto assemblaggi
con pochi addetti, sino ad arrivare a unità di lavoro più piccole. Soprattutto nella loro versione più radicale,
queste esperienze non ebbero successo perché ritenute poco efficienti a causa della scarsa efficacia dei flussi
aziendali e degli eccessivi sprechi di stoccaggio. Hanno contribuito in ogni caso ad avviare una stagione di
sperimentazione e di riflessione sul cambiamento delle mansioni e ruoli (prevalentemente tecnici), come
sull'importanza del lavoro di gruppo.
Diversamente, nelle esperienze più recenti di organizzazione lean – guidate prevalentemente dalle strategie
manageriali - l’enfasi è posta sulla partecipazione diretta dei lavoratori all’efficienza dell’organizzazione nel
suo complesso: flessibilità della risposta al mercato, riduzione degli sprechi e miglioramento continuo del
processo e del prodotto. Nel lavoro operaio, anche se i progressi ergonomici relativi alle singole postazioni
sono evidenti, i tempi standard di esecuzione di ogni compito restano ridotti e i ritmi di lavoro strettamente
vincolati alle macchine. L’organizzazione del lavoro si basa sui team di lavoro, responsabilizzati al
raggiungimento dei target quanti-qualitativi di produzione e dotati di relativa autonomia nella rotazione delle
mansioni e in altri (limitati) ambiti decisionali, tra cui a volte quelli che riguardano l’adeguamento dei tempi
di produzione/servizio con i tempi personali. Quantomeno nel caso italiano, si tratta di un modello di
organizzazione e di partecipazione che non è quasi mai oggetto di contrattazione. Il coinvolgimento della
rappresentanza dei lavoratori avviene solo nei casi in cui esistono rapporti strutturati di fiducia tra le parti e, a
livello internazionale, nei Paesi con una radicata prassi e regole di partecipazione istituzionale.
La domanda che possiamo farci a questo punto è quanto sia possibile, nel caso delle recenti innovazioni
organizzative guidate dai sistemi lean manufacturing, migliorare l’equilibrio tra esigenze tecnico-produttive
e bisogni ed aspettative sociali, per dirla alla Coriat (1991), passare dal “coinvolgimento sollecitato” al
“coinvolgimento negoziato”. Possiamo cominciare con l’osservare che esistono casi di applicazione dei
nuovi modelli più o meno evoluti sul piano sociale. Alcuni, come a oggi sembrerebbe anche quello adottato
da Fiat, appaiono francamente titubanti rispetto allo spazio da dare alla partecipazione dei lavoratori, alcuni
si sono fermati a metà, altri addirittura sono tornati indietro. Sarebbe però sbagliato “derubricare” i
cambiamenti dell’organizzazione del lavoro e dei ruoli operativi realizzati attraverso i nuovi modelli di lean
production al mero livello di tools di Human Resources Management per accrescere la motivazione al lavoro
10
o a mere formule di passivo coinvolgimento. Senza vederne i concreti, ancorché angusti, spazi di
empowerment dei lavoratori – nel senso letterale di “delega e trasferimento di potere” (Piccardo, 1995) -
dacché le persone vengono messe in grado di operare scelte, per quanto parziali, che li riguardano
direttamente.
Possiamo giudicare gli spazi aperti alla partecipazione dall’esperienza più recente con sguardo ottimista o
pessimista, come succede da trent’anni nel dibattito degli studiosi. È importante però giudicare anche con
occhi nuovi, adatti ai cambiamenti antropologici del lavoro che sono avvenuti in questi decenni. Il primo e
più importante è che la dimensione della partecipazione che allora si coniugava in modo prevalentemente
collettivo - uno spazio di potere collettivo sulle prerogative manageriali - si deve declinare adesso anche
rispetto ad un’idea di accrescimento della libertà individuale. In questo senso, per esempio, l’aumento della
responsabilità individuale sui risultati del lavoro può costituire un incremento, e non una riduzione, della
libertà e della qualità del lavoro. In sintesi, se i fattori utilizzati negli anni ‘70 per giudicare gli spazi di
partecipazione erano il “controllo operaio” (come esercizio di potere collettivo) e la professionalità (il mito
del sapere operaio e del mestiere) adesso, per poter connotare come “realisticamente partecipativo” un
assetto organizzativo è più importante usare fattori che descrivono anche ambiti di potenziamento collettivi e
individuali nuovi: l’apprendimento di capacità organizzative (trasversali), il contare di più
nell’organizzazione, il controllo sul proprio tempo e quindi sull’equilibrio tra lavoro e vita personale.
Di certo, il clima sociale in cui si realizza il cambiamento non è il più adatto a massimizzarne l’impatto
sociale, data la riduzione del potere della rappresentanza del lavoro e, in particolare per il caso italiano, data
la cronica carenza di un clima di fiducia tra le parti che permetta di negoziare contestualmente innovazione
organizzativa, miglioramenti della qualità della vita e espansione della democrazia. Va tuttavia segnalato che
in paesi in cui vige la distinzione formale tra azione partecipativa e azione contrattuale, le innovazioni che
promuovono la partecipazione diretta sono spesso governate ricorrendo a forme di partecipazione
istituzionale. La partecipazione istituzionale come procedura separata dalla contrattazione permette, infatti,
che si instauri un rapporto di fiducia tra le parti, che il percorso di cambiamento proceda per prova ed errore
senza risultati stabiliti ex ante come spesso viene previsto da una procedura contrattuale. La partecipazione
istituzionale potrebbe quindi dare maggiore impulso alla partecipazione diretta proprio perché consente
maggiore flessibilità e evita il ricorso al conflitto, ma nello stesso tempo può permettere alla rappresentanza
del lavoro maggiori diritti di intervento e di veto sulle prerogative manageriali.
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1
Il nuovo lavoro industriale tra innovazione organizzativa e partecipazione diretta
Luciano Pero e Anna M. Ponzellini
Una versione riveduta di questo lavoro è stata pubblicata in D. Carrieri, P. Nerozzi e T. Treu (a cura
di), La partecipazione incisiva. Idee e proposte per rilanciare la democrazia nelle imprese, Il Mulino,
Bologna, 2015
1. Introduzione
Pratiche d’innovazione organizzativa indirizzate al miglioramento della produttività e della qualità
– le cosiddette High Performance Work Practices (HPWP)1 – da tempo sperimentate in molti Paesi
europei e in Nord-America, si stanno diffondendo sia pure lentamente anche nel nostro sistema
industriale. Questa diffusione avviene di solito in parallelo alla scelta di introdurre sistemi lean e di
qualità totale e di snellire le strutture con l’accorciamento della linea di comando. Come indicano la
letteratura economica e manageriale e le periodiche indagini della Commissione europea, nelle aziende
dove sono state introdotte queste pratiche avanzate di innovazione dei processi e di gestione delle
persone - come il lavoro in team, la formazione, il coinvolgimento dei lavoratori nei processi di qualità,
la flessibilità degli orari di lavoro e i sistemi premianti – sono stati realizzati incrementi estremamente
significativi della produttività del lavoro e in generale delle performance di impresa2.
La letteratura manageriale, unita alla quotidiana osservazione delle aziende, permette di
aggiungere che l’innovazione e in generale le HPWP hanno un impatto tanto maggiore sulla
performance delle imprese quanto più sono accompagnate da un grado elevato di partecipazione dei
lavoratori3. In particolare, i risultati sulla produttività sono maggiori se i lavoratori, non solo sono
coinvolti nell’obiettivo di cambiamento, ma sono anche chiamati a cooperare alla realizzazione dei
1 Secondo la definizione della Fondazione europea di Dublino (Eurofound) le High Performance Workplace Practices sono
«pratiche di innovazione che includono lean management, lavoro in squadra, flessibilità degli orari, riprogettazione
dell’organizzazione delle mansioni e coinvolgimento dei lavoratori» (Eurofound, Work organisation and innovation, 2012
http://www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2012/72/en/1/EF1272EN.pdf). 2 Cfr. F. Butera, Options for the future of work, in F. Butera F. et al. (eds.), Options for the future, London, Coogan, 1987;
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73; Eurofound, Work organisation and innovation, cit.; Eurofound,Working time flexibility: implications for productivity and
working conditions, 2012, http://www.eurofound.europa.eu/publications/htmlfiles/ef1250.htm.; A.M. Ponzellini, Piani non
solo premi, in «Quaderni di Rassegna Sindacale», n. 2, aprile-giugno, 2013. 3 D. Gallie (ed.), Employment Regimes and the Quality of Work, Oxford, Oxford University Press, 2007; A. Bryson (ed.)
Advances in the Economic Analysis of Participatory and Labor-Managed Firms, Emerald Group Publishing Ltd, 2012; I.
Lippert, Corporate Governance, Employee Voice, and Work Organization, New York, Oxford University Press, 2014.
2
risultati attraverso qualche forma di delega organizzativa che comporti contemporaneamente maggiore
autonomia del lavoro e aumento della responsabilità4.
A parere degli autori, va attivamente incoraggiata una svolta del sistema produttivo italiano in
direzione della strategia «high road» di cui parla l’Agenda di Lisbona, se si vuole che sia
definitivamente abbandonata la vecchia via italiana al recupero di produttività, basata sull’aumento
della flessibilità esterna (lavoro precario), della saturazione dei tempi (tagli delle pause, aumento dei
ritmi e dei carichi) e delle ore lavorate (straordinari). Con la crisi, questa strada non solo ha
definitivamente mostrato la corda, ma è costata la vita di molte piccole-medie imprese, e a volte anche
di grandi imprese, che non si sono per tempo dotate di sistemi organizzativi e gestionali (e anche di
sistemi sociali) adatti a reggere la competizione globale.
Tuttavia, percorrere questa strada significa per il nostro sistema industriale affrontare il problema
di una riconversione delle relazioni industriali, a livello d’impresa, in direzione della partecipazione
piuttosto che del conflitto, di un nuovo ruolo e nuove competenze per gli organismi di rappresentanza,
di nuove regole per la contrattazione aziendale ispirate a un governo più flessibile delle relazioni di
lavoro.
Naturalmente, come questo stesso volume testimonia, anche gli studi delle relazioni industriali da
tempo sottolineano, con accenti diversi, la necessità una svolta verso forme più strutturate di
partecipazione: tuttavia, il mainstream del dibattito si è in questi anni concentrato sulle forme di
partecipazione «più alta», quelle cioè che coinvolgono non tanto i lavoratori ma i loro rappresentanti5.
L’approccio centrato su queste forme di partecipazione «alta», e che di solito richiedono un sostegno
legislativo, rischia però di sottovalutare sia il legame con la performance d’impresa, sia l’aspirazione
dei lavoratori in prima persona a contare di più nel lavoro.
In questo articolo esaminiamo alcuni casi interessanti di innovazione organizzativa, condivisa in
varie forme tra management e sindacato, nei quali è stato possibile realizzare incrementi misurabili di
performance ed insieme una migliore qualità della vita di lavoro e una maggiore partecipazione dei
lavoratori. In primo luogo analizzeremo il caso A, di un’azienda del settore moda, dove notevoli
miglioramenti della produttività e della qualità dei prodotti e dei processi sono stati ottenuti attraverso
una filosofia delle relazioni di lavoro basata sul coinvolgimento delle RSU e dei lavoratori, che prevede
un percorso continuo di informazione, formazione, condivisione e negoziazione delle scelte
organizzative. Seguirà il caso B, un’azienda che con l’introduzione del Wcm ha attivato un sistema
molto avanzato di qualità basato sui suggerimenti e su gruppi di miglioramento aperti a tutti i
lavoratori, accompagnandolo con una tradizione di eccellenza nella gestione delle risorse umane.
Infine, il caso C è quello di una PMI che non solo ha sperimentato molto precocemente i principi del
toyotismo, già a partire dagli anni ‘90, ma ha soprattutto scommesso sui risultati di performance
prodotti da un percorso avanzato di partecipazione dei lavoratori, diffusa a tutti i livelli.
L’analisi di queste esperienze ci permetterà di descrivere diverse forme che assume la
partecipazione diretta, il suo contributo alla produttività, il suo impatto sulle condizioni di lavoro. Ci
4 K. Sisson, Partecipazione diretta al cambiamento organizzativo, in L’impresa al plurale, in «Quaderni della
partecipazione», n. 2, 1998; D. Antonioli e P. Pini, Partecipazione diretta, partecipazione indiretta e innovazioni tecnico-
organizzative, in «Quaderni Rassegna Sindacale», n. 2, 2005, pp.195-225; L. Pero e A.M. Ponzellini, Innovazione
organizzativa, produttività, partecipazione dei lavoratori, Paper presentato al Seminario AISRI-AIEL, Roma, La Sapienza,
18 ottobre 2013; F. Butera, Automation, in «International Encyclopedia of Social Sciences», second edition, Elsevier, 2014,
in corso di pubblicazione; .
5 G. Baglioni, Lavoro e decisioni nell’impresa, Bologna, il Mulino, 2001; M. Carrieri e G. Militello, Il cammino incompiuto:
i sindacati e la partecipazione dei lavoratori, in «La rivista delle politiche sociali», n. 1, 2014.
3
permetterà, inoltre, di avanzare qualche domanda sul suo rapporto con l’attuale sistema di
rappresentanza dei lavoratori in azienda.
2. Informazione, formazione e coinvolgimento: il caso A
2.1 La storia dell’azienda
L’impresa è una tipica azienda italiana di successo del sistema moda, che produce oggetti di
complemento dell’abbigliamento personale tipici del Made in Italy. Essa era già un’azienda di successo
negli anni ’90, ma è riuscita non solo ad adattarsi molto bene alla internazionalizzazione economica
dopo il Duemila, riconfermando le proprie posizioni di leadership nel settore, ma si anche è trasformata
in una vera multinazionale globale di tipo nuovo. L’impresa è riuscita allo stesso tempo a inserirsi nei
nuovi mercati dei paesi emergenti (Asia, Oceania, Sud America), e a mantenere i mercati dei paesi
sviluppati di Europa e Nord America, per mezzo di una innovazione di prodotto, un allargamento dei
marchi, un ampliamento della gamma.
Questa profonda trasformazione, da azienda «artigianale», situata nei distretti paesani del Made in
Italy, a multinazionale globale di tipo nuovo, è avvenuta rapidamente nel decennio scorso. La
trasformazione, tuttavia, ha conservato molte caratteristiche tradizionali del Made in Italy, individuabili
in una forte continuità del design, in soluzioni tecnologiche e di materiali di alta qualità, in lavorazioni
con impronta artigianale, nella fedeltà e attaccamento dei lavoratori all’azienda. I risultati raggiunti, se
osservati dal punto di vista del business, sono eccezionali: il fatturato è più che raddoppiato in dieci
anni, le quote di mercato sono accresciute o mantenute, i margini sono aumentati, e comunque sono
elevati, la gamma ampliata, le catene di vendita di proprietà espanse in nuovi paesi.
2.2 L’approccio all’innovazione
In primo luogo l’aumento rilevante dei volumi e dei pezzi prodotti (che è più che raddoppiato in
dieci anni) è stato realizzato completamente in fabbriche di proprietà: infatti, sia la gestione
tradizionale e storica, sia quella attuale di tipo globale non hanno mai ceduto alle sirene
dell’outsourcing e hanno tenuto ferma la scelta di mantenere all’interno, non solo il marketing e la
progettazione, ma l’intero ciclo produttivo. Si opera sempre con la regola del «tutto fatto in casa». Il
raddoppio dei volumi prodotti è stato quindi ottenuto da un lato con nuove fabbriche in Cina e America,
e dall’altro con una forte pressione sulle fabbriche italiane per produrre di più, all’interno di una
sostanziale stabilità di organico. Le ricette di terziarizzazione quasi completa del sistema di produzione
tipiche dell’abbigliamento (come ad esempio Benetton o le «grandi firme») non sono quindi state
adottate, e il network produttivo è oggi molto più simile a quello di Zara che a quello delle grandi
firme.
In secondo luogo, oltre all’aumento dei volumi, le fabbriche sono state sottoposte a esigenze
pressanti (e anche stressanti) di modifica delle tradizioni produttive, allo scopo di rispondere alle
esigenze del nuovo mercato globale. Esse implicano l’ampliamento di gamma (più che triplicata),
l’avvento di nuovi sistemi di marketing basati su eventi di moda puntuali (che si esauriscono in pochi
giorni), la diffusione del sistema di ordini «just in time» di pochi pezzi da parte dei negozi (lotti
minimi).
In sostanza questa esigenza di rapida trasformazione del modo di produzione è stato realizzato dal
management attraverso numerosi progetti di innovazione, riassumibili in tre filoni.
- Una rapida diffusione dei sistemi di lean-production. In questo caso tuttavia la lean, come è
ovvio in una produzione di moda, non può essere applicata con una formula top down, come
nell’ambiente automotive, ma deve essere «leggera» e adattabile.
4
- Una flessibilizzazione elevata del sistema di produzione, che richiede sia un ricorso sempre più
frequente agli istituti di flessibilità del CCNL (flessibilità positiva, negativa e straordinario
incentivato), sia la variazione frequente dei turni di lavoro, lo spostamento di lavoratori tra i
diversi siti, la modifica del layout delle officine. In pratica le fabbriche sono in continuo
cambiamento.
- Una intensificazione delle tecniche di controllo di qualità e di prevenzione dei difetti che si
sommano alla pressione per l’aumento della produttività e flessibilità delle fabbriche.
2.3 Le modalità di partecipazione dei lavoratori
Allo scopo di accelerare l’innovazione, l’azienda ha sviluppato pratiche diffuse in tutti i poli
produttivi di sistematica e precisa informazione a tutti i dipendenti sui progetti innovativi in corso, e di
approfondita formazione sui nuovi metodi di qualità, flessibilità e produttività per le RSU e i lavoratori
coinvolti. In questo percorso l’azienda ha elaborato un vero e proprio modello scalare di
partecipazione, basato su tre «gradini» successivi con i quali si propone di coinvolgere tutte le persone
nei processi innovativi. In breve si prevede una sorta di progressione nel coinvolgimento dei lavoratori
man mano che le innovazioni vengono applicate nelle fabbriche, passando per interventi successivi con
obiettivi crescenti: informazione sistematica e frequente a tutti i lavoratori; formazione mirata ai
lavoratori coinvolti, ai tecnici e alle RSU; coinvolgimento diretto dei team di miglioramento e dei team
operai.
2.4 Le relazioni industriali
Tutte queste pratiche e le iniziative di formazione e coinvolgimento, comunicate a tutti e condivise
con i sindacati, sono diventate uno «stile», con cui si gestisce l’innovazione, e un ingrediente
essenziale per il successo del cambiamento. L’approccio alle relazioni industriali è quindi di tipo
partecipativo. Tuttavia, oltre alle «prassi» citate sopra, sono stati stabiliti, in diversi accordi e Contratti
Integrativi Aziendali, nuovi istituti e nuove regole di conduzione e concertazione che possono essere
considerate una sorta di «quasi modello» di una partecipazione aziendale a «bassa formalizzazione». In
primo luogo sono state definite varie Commissioni bilaterali (tra cui centrale è la Commissione
Organizzazione del lavoro) e regole di informazione e comunicazione che consentono e regolano la
condivisione dei progetti innovativi e soprattutto la gestione della flessibilità degli orari e della mobilità
interna. In secondo luogo sono state formalizzate nel contratto aziendale un insieme di micro-regole per
la gestione di aspetti non secondari della partecipazione dei lavoratori, quali ad esempio la
riorganizzazione dei lay-out dei reparti, i trasferimenti interni, la costituzione delle isole di lavoro, il
part-time (entrata e uscita), le ferie, i permessi e le chiusure annuali, il job-sharing, le informazioni alle
RSU etc. In terzo luogo, è stato definito un articolato sistema di welfare aziendale, con un accordo ad
hoc, che è gestito da una Commissione Bilaterale Azienda-Sindacati. Nel sistema di welfare stabilito
dall’accordo aziendale, viene regolato lo scambio fondamentale tra performance complessive di qualità
delle fabbriche e servizi di welfare erogati. Il sistema di welfare si sta sviluppando progressivamente ed
è basato anch’esso su una consultazione sistematica dei lavoratori.
2.5 Conclusioni
In conclusione, in questo caso si può osservare come una azienda manifatturiera, che ha necessità di
accelerare e di intensificare l’innovazione tecnico-organizzativa per avere successo nei nuovi mercati
globali, abbia accentuato e approfondito un proprio modello di partecipazione aziendale, centrato sul
coinvolgimento diffuso dei lavoratori e delle RSU nella partecipazione diretta ed organizzativa nelle
5
fabbriche. Lo scopo è di sostenere la trasformazione da azienda distrettuale a rete globale di
produzione, con elevate performance di produttività, qualità e flessibilità. Molta minore enfasi è stata
data invece sugli accordi di lungo periodo e sulla partecipazione strategica. A questo tipo di
partecipazione può essere forse ricondotto solo il sistema di gestione paritaria Azienda-Sindacato per la
gestione del welfare aziendale, che oramai sembra divenuto un sistema stabile, anche se le scelte
strategiche di sviluppo sono decise al di fuori di questi schemi.
2. I gruppi di miglioramento: il caso B
2.1 La storia dell’azienda
L’azienda produce cappe da cucina destinate ai principali produttori mondiali di elettrodomestici,
come Whirlpool, Bosch e General Electric. Ha circa 2700 dipendenti di cui la metà fuori Italia. Negli
stabilimenti marchigiani sono concentrati poco meno di 1000 dipendenti: gli operai – principalmente
donne – sono il 70% della forza lavoro, gli altri in gran parte sono tecnici e ingegneri della Ricerca e
Sviluppo e impiegati addetti all’amministrazione, al marketing e al commerciale. Il caso B colpisce per
due ragioni. La prima è che quest’azienda ha ormai da alcuni anni al suo attivo alcuni dei premi più
prestigiosi per la gestione delle risorse umane: per cinque anni consecutivi Top-Employer Italia e nel
2011 addirittura il primo premio in Europa come Great place to work. La seconda ragione è che, pur
appartenendo a un comparto produttivo (quello degli elettrodomestici) e avendo i suoi principali
impianti in un territorio (quello marchigiano) che stanno risentendo pesantemente della crisi, sta
tuttavia registrando una buona tenuta dei mercati e discrete performance economiche che, tra l’altro,
l’hanno portata a collocarsi nel segmento Star della Borsa italiana.
2.2 L’approccio all’innovazione
Dal 2010, l’azienda ha adottato il programma World Class Manufacturing (WCM)6, secondo il
sistema messo a punto dal Gruppo Fiat, ma con una interpretazione del programma che vede da un lato
cruciali l’integrazione dei processi e la sincronia (allineamento) dei vari reparti, dall’altro il
coinvolgimento attivo dei lavoratori. Tanto che, mentre nel sito più importante l’implementazione del
sistema ha già coinvolto sette linee di produzione (circa il 40% degli addetti industriali), sta partendo la
partecipazione delle aree non industriali, comprese quelle della sede centrale. E’ molto significativo che
questo sforzo di riorganizzazione sia stato intrapreso parallelamente ad una razionalizzazione degli
impianti e delle risorse che ha anche comportato un ricorso alla cassa integrazione.
Al centro del particolare schema di WCM applicato, vi è un sistema di «suggerimenti dei lavoratori
per il miglioramento del processo produttivo». In pratica, tutti i lavoratori sono invitati a dare
suggerimenti o proporre progetti finalizzati a migliorare la produzione, inoltrando le proposte al
responsabile interessato – non necessariamente il proprio capo diretto – tramite moduli forniti dalla
direzione. Quando ne viene approvata l’implementazione, spetta al lavoratore, con l’eventuale
assistenza del manager interessato, mettere insieme un gruppo che possa sperimentarla. Il gruppo di
miglioramento può essere la stessa squadra addetta a quella particolare linea di produzione, ma anche
un gruppo misto trasversale alle linee o addirittura ai reparti e partecipato da addetti di tutti i ruoli che
sono necessari per implementare l’innovazione (dagli operai addetti alla produzione, ai responsabili di 6 Com’è noto, questo programma, derivato dalle intuizioni giapponesi della lean production e del miglioramento continuo,
integra una serie di consolidate metodologie (dal Total Quality Control, al Just in Time, al Cost Deployment), con l’obiettivo
di migliorare la produttività aumentando l’efficienza dei processi e la qualità dei prodotti e eliminando gli sprechi. Un
passaggio importante del programma è il coinvolgimento e l’auto-attivazione dei lavoratori nel processo di soluzione e
prevenzione dei problemi.
6
linea, ai manutentori, agli addetti al magazzino, etc.). Non solo, la direzione incoraggia tutte le volte
che è possibile i gruppi interdipartimentali. Ne deriva che i gruppi incaricati di sviluppare le idee di
miglioramento – che possono variare da 4 a 15 componenti a seconda della dimensione
dell’innovazione - sono spontanei e volontari (virtualmente tutti possono partecipare), sono poco
strutturati (nel senso che vengono fatti ad hoc e poi disfatti), godono di ampia autonomia (nel decidere i
vari passaggi per la messa in campo della innovazione, il numero delle riunioni, etc.), in genere non
hanno un leader.
L’adozione del WCM e del sistema dei suggerimenti sta contribuendo a modificare la cultura
organizzativa. La direzione ammette che la struttura aziendale è ancora piuttosto gerarchica ma
l’esperienza dei gruppi di miglioramento sta allenando i capi alla delega e sta abituando gli operatori
all’autonomia, all’iniziativa, al networking, al lavoro di squadra.
2.3 Le modalità di partecipazione dei lavoratori
A giudizio del management, la transizione verso una cultura partecipativa è stata la vera sfida di
questo programma che l’azienda voleva centrato proprio su un cambiamento continuo proveniente dalla
osservazione e dalla esperienza diretta dei lavoratori. Il processo non è stato immediato ma, a distanza
di tre anni, il bilancio risulta pienamente positivo. Nel tempo il programma si è arricchito di nuovi
strumenti: per esempio, nella prima fase erano i manager a sollecitare i suggerimenti e le proposte
effettuate erano molte, ma disordinate e superficiali. Di conseguenza si è deciso di fornire ai lavoratori i
manuali e tutto il corredo di informazioni necessarie a verificare la fattibilità delle proposte.
Attualmente il numero dei suggerimenti è calato ma la qualità delle proposte è migliorata tantissimo.
Sono anche state moltiplicate le opportunità formative per i lavoratori, finalizzate ad aumentare la
competenza tecnica e organizzativa, ma anche a migliorare la fiducia in loro stessi. L’autonomia e la
competenza dei lavoratori nei suggerimenti è aumentata anche perché sono stati introdotti sulle linee
coinvolte nel WCM schemi di job rotation che consentono ai lavoratori una più ampia comprensione di
quello che fanno i loro colleghi di linea e di reparto. Inoltre, l’accesso all’intranet aziendale, attivabile
con un software dedicato a mappare le idee e i progetti in corso, a valutarli in base ad una serie di
indicatori e raccogliere commenti e feed-back, ha contribuito a migliorare la partecipazione e la
capacità di costruire proposte appropriate. Tant’è che, negli ultimi tempi si stanno moltiplicando
iniziative autonome da parte di singoli che, prima di avanzare al manager il suggerimento, lo testano di
propria iniziativa, talvolta coinvolgendo i colleghi di lavoro: l’azienda non frena questo processo, anzi
lo segue con attenzione. Inoltre, una ragione particolare di adesione dei lavoratori al nuovo metodo (ci
è stato riferito che chi non è ancora coinvolto invidia molto i lavoratori già inseriti nel programma
WCM) è dovuta al cambiamento delle condizioni materiali di lavoro. Le postazioni di lavoro e
l’ergonomia sono fin dall’inizio molto migliorate, ma ora c’è la possibilità di cambiare ogni sezione del
processo di produzione, e quindi modificare le proprie condizioni di lavoro nel caso in cui siano
insoddisfacenti, grazie ad una procedura specifica che stimola ad avanzare delle proposte anche sul
miglioramento della salute e della sicurezza in qualsiasi stadio dei processo. Alcune delle innovazioni
introdotte fin qui hanno avuto il risultato di eliminare i movimenti superflui e gli sforzi fisici non
necessari e di ridurre i fattori di rischio, di infortunio e lesioni. Un altro impatto del programma è
proprio costituito dal drastico abbattimento degli infortuni, che ormai tendono a zero. Ma è aumentato
anche il comfort di alcune posizioni di lavoro: in molte posizioni attualmente gli addetti lavorano seduti
anziché in scomode posizioni in piedi.
7
2.4 Le relazioni industriali
Circa il 25% dei dipendenti è iscritto al sindacato, il sindacato maggioritario è la Fiom CGIL. Nel
2008, alla vigilia dell’avvio del programma WCM, l’azienda ha firmato con quattro sigle sindacali un
accordo aziendale-quadro molto avanzato, i cui punti sono stati costruiti attraverso un prolungato
processo di discussione tra sindacato e lavoratori favorito dalla stessa azienda..Il dialogo tra RSU e
direzione del personale – che riguarda sia l’avanzamento dell’implementazione del WCM, sia le
prospettive dei mercati e dell’occupazione – è continuo: sono diffuse e puntuali le informazioni
tecniche sui processi, i target di produzione e gli andamenti dei mercati; sono periodicamente raccolti i
feed-back sulle innovazioni; i risultati del processo di miglioramento sono misurati e diffusi attraverso
periodiche presentazioni che danno conto di ciascuna proposta. Se ne può dedurre che anche le
relazioni industriali sono un aspetto positivo del caso B, anche se non è del tutto chiara la relazione tra
queste e l’esperienza dei gruppi di miglioramento che resta un progetto di iniziativa spiccatamente
manageriale.
2.5 Conclusioni
I buoni risultati della pratica innovativa – in questo caso, i gruppi di miglioramento – sono dovuti a
un processo di coinvolgimento attivo degli operatori che non è stato difficile in un’azienda
caratterizzata da relazioni di lavoro tradizionalmente improntate alla fiducia tra le parti e all’assenza di
conflitto sindacale. Ma il successo è stato indubbiamente favorito dalla contemporanea
implementazione di pratiche manageriali contigue, come il miglioramento dell’ambiente, del layout e
dell’ergonomia, la formazione dei lavoratori, la sperimentazione di forme di job rotation,
l’introduzione di pacchetti di welfare aziendale. In particolare, l’investimento formativo si è dimostrato
cruciale per costruire la cultura aziendale e la possibilità di agire sulle proprie condizioni di lavoro ha
messo le basi per un nuovo protagonismo dei lavoratori.
3. La partecipazione diffusa: il caso C
3.1 La storia dell’azienda
L’azienda C è una di quelle tipiche PMI italiane che, pur nella crisi, sfidano la competizione
internazionale aumentando l’export e facendo apprezzare in tutto il mondo prodotti ad altissima
tecnologia. Produce valvole in piccola serie, di tecnologia molto sofisticata, soprattutto per il settore
automotive; sui mercati esteri realizza circa l’80% del fatturato. L’azienda ha sede a Brescia e
attualmente ha 140 dipendenti, oltre il 60% dei quali sono impiegati, tecnici e ingegneri. La storia
dell’azienda è legata a quella del suo fondatore, laureato in economia che all’inizio degli anni Ottanta -
secondo il tipico «modello Lumezzane» – mette insieme un piccolo capitale e decide di creare una
impresina di minuteria meccanica per il mercato locale. Oltre ai bulloni, produce regolatori di pressione
per le bombole di uso domestico e col tempo comincia ad esportare in Olanda, in Giappone, in
Marocco, in Cina. Ma sono proprio i cinesi che ad un certo punto gli portano via il business delle
valvole per bombole domestiche. La svolta è inevitabile: vende il marchio e decide di alzare la gamma
entrando nella nicchia delle valvole per metano e GPL per auto, anche rischiando l’instabilità di un
mercato fortemente dipendente dalle politiche pubbliche. I nuovi prodotti richiedono forti investimenti,
una decisiva innovazione dei processi e anche nuove competenze dei dipendenti. Si tratta di sfide a cui
l’impresa arriva preparata. Già all’inizio degli anni Novanta, l’imprenditore tramite i suo clienti aveva
visitato una fabbrica giapponese per imparare i primi rudimenti del toyotismo: i tabelloni dove esporre i
traguardi di produttività, la conoscenza dei dati della produzione per dare consapevolezza agli operai, il
8
controllo sulla qualità dei pezzi. Della lean production e del WCM vengono soprattutto apprezzati da
subito gli aspetti del coinvolgimento dei lavoratori e della trasparenza nelle relazioni di lavoro, che
appaiono cruciali non solo per migliorare la produttività ma, come dichiara l’imprenditore «per
combinare l’efficienza (più velocità a minor costo) col superamento del conflitto tra capitale e lavoro
attraverso il rafforzamento della voce di chi lavora». Nel giro di qualche tempo nell’impresa si delinea
un «nuovo modello di industria» – di ispirazione olivettiana – basato su prodotti ad alta tecnologia (che
non subiscano troppo l’andamento ciclico dell’economia) e su sistemi organizzativi radicalmente nuovi
ed un modo nuovo di intendere le relazioni di lavoro. Il modello è stato rafforzato dal fatto che in questi
anni di crisi la nuova formula, basata su un mix di innovazione e partecipazione, ha permesso
all’azienda non solo di passare (quasi) indenne dalla crisi, ma anche di aggiudicarsi alcune gare per la
progettazione e fabbricazione di valvole molto sofisticate e innovative per varie aziende leader di
mercato.
3.2 L’approccio all’innovazione
Dal punto di vista dei prodotti, l’azienda ha sviluppato capacità di innovare continuamente e di
andare via via verso prodotti più sofisticati, anche spostandosi su mercati più difficili. Dal punto di
vista dell’innovazione dei processi, è interessante notare che i principi della lean production sono stati
reinterpretati in modo originale. Da un lato c’è certamente l’appiattimento della gerarchia tradizionale,
dall’altro la struttura delle decisioni viene decentrata in modo articolato, secondo grappoli/clusters in
base non a funzioni, ma a temi. Sono così stati creati gruppi interdipartimentali ad hoc per la gestione,
che coinvolgono di volta in volta e flessibilmente tutti i ruoli necessari: per esempio, il «patto
logistico» è un team che sostituisce l’egemonia del commerciale nella programmazione della
produzione, negoziando quanta scorta tenere tra le varie figure (commerciale, responsabile produzione,
responsabile qualità, tecnici, etc.); il «comitato prodotti» si occupa dello studio di nuovi prodotti; e poi
c’è il «gruppo kanban» per ridurre le scorte di magazzino; il «gruppo Smed» per ridurre i tempi di
attrezzaggio. Anche il coinvolgimento degli operai è pervasivo e superiore ad altri casi di applicazione
della lean, a cominciare dalla trasparenza informativa che è molto elevata, come si vede dai cartelloni
nei reparti. Gli operai sono coinvolti in varie formule di job enrichment: per esempio, una parte della
manutenzione viene fatta in produzione, inoltre agli operai è richiesto di fare alcune attività di
attrezzaggio in modo da ridurre i tempi di cambio. Interventi di formazione e informazione hanno reso
possibile a tutti di capire come funziona il processo di produzione e quali sono i costi, quanto vale
un’ora di attrezzaggio, un'ora di fermo-macchina, il costo delle giacenze di magazzino. In questo modo,
«sono gli operai per primi che capiscono il controllo di gestione e adeguano di conseguenza i
comportamenti» e sono gli operai che per primi «scovano i problemi» (visto che uno dei principi della
lean è non nascondere i problemi). Non a caso, tutti i miglioramenti sono venuti dalla creatività dal
basso, i tempi morti sono quasi azzerati, con le soluzioni trovate dai lavoratori c’è stata una impennata
della produttività e una forte riduzione delle scorte di magazzino (da 11 milioni a 6 milioni di
magazzino in un anno), l’abbattimento dei costi, con riduzione degli sprechi, l’accorciamento dei tempi
di consegna, il miglioramento della qualità, l’aumento della capacità di innovare i prodotti.
3.3 Le modalità di partecipazione dei lavoratori
In breve, ciò che ha trainato l’azienda è una visione rivolta contemporaneamente ai mercati e ai
prodotti, ma anche ad una nuova idea d’impresa: il coinvolgimento di tutte le persone che lavorano –
management, tecnici, operai, amministrativi, commerciali, RSU – è il focus attorno a cui ruota il
modello organizzativo stesso, secondo una idea di «fabbrica partecipativa». La partecipazione dei
lavoratori è favorita dalla circolazione delle informazioni, ma soprattutto da cospicui investimenti
9
formativi rivolti ai tecnici e anche alle RSU. Ha il suo nucleo portante nei vari gruppi ad hoc di
progettazione e trasversali alle funzioni (Patto logistico, Gruppo produzione, Gruppo qualità, etc.). Ma
si sviluppa anche dal basso attraverso team operai informali, cooperazione tra reparti, diffusa
polivalenza (anche verso mansioni superiori, come la manutenzione e l’equipment), interventi di
problem solving, suggerimenti. Anche le decisioni congiunte tra team di direzione e sindacato ha uno
spazio nella fabbrica partecipativa. Si tratta di un assetto partecipativo articolato, ma anche in sviluppo.
Negli ultimi anni, infatti, sul piano della partecipazione, l’azienda sta sviluppando nuovi progetti, tra
cui la messa a punto di una formula di partecipazione finanziaria, in particolare di partecipazione agli
utili, ritenuta preferibile al «vecchio» premio di risultato contrattato col sindacato.
3.4 Il ruolo delle relazioni industriali
Nei confronti dei rappresentanti sindacali non vi sono barriere alla conoscenza e alla trasparenza: le
RSU sono normalmente coinvolte dal team manageriale nelle decisioni, anzi per aumentare l’efficacia
di questa partecipazione sono stati fatti corsi di lettura bilanci di molte giornate. Anche la
contrattazione aziendale si svolge con regolarità: esiste un accordo che prevede un premio aziendale
(tradizionale), un premio di risultato (con formula distribuzione degli utili, solo nel caso di aumento dai
500mila in su, usufruendo del regime fiscale al 10%), un pacchetto welfare (tra cui buoni-benzina e
assicurazione per copertura sanitaria). A margine, l’azienda sta studiando anche la misurazione delle
performance individuali. I buoni rapporti con le RSU appaiono comunque più un corollario di una
sistema orientato alla trasparenza e alla partecipazione di tutti, piuttosto che il fulcro delle relazioni di
lavoro. Inoltre, non ci sono praticamente rapporti con i sindacati esterni.
3.5 Conclusioni
Ci piace designare questo caso come di partecipazione diffusa. Fuori da schemi formali o da
adesioni a classificazioni precostituite della partecipazione, questa azienda ha voluto dare il segno della
possibilità di una «fabbrica partecipativa», ovvero di una esperienza produttiva e sociale plurale: tutti
contano e cooperano ai risultati dell’impresa e al miglioramento delle condizioni di lavoro,
dall’imprenditore, ai team tecnici e manageriali, ai lavoratori singoli o in squadra, ai rappresentanti
sindacali. Le forme di partecipazione attivate nel caso C sono di vari tipi: da quella diretta a quella
indiretta (rappresentativa), da quella operativa a quella organizzativa (così ampia in taluni casi da
preludere a quella strategica) e a quella finanziaria.
4. La partecipazione dei lavoratori come leva per il miglioramento delle performance e della
qualità del lavoro
Dai casi illustrati e da molti altri esempi noti e presenti nel nostro paese, si ricava l’evidenza che la
partecipazione diretta dei lavoratori ai processi dell’impresa non solo assume diverse forme nei vari
contesti (come ci si poteva aspettare), ma imbocca anche percorsi diversi per aumentare la
competitività dell’impresa e migliorare la qualità del lavoro e della vita di fabbrica.
Infatti, in certi casi la partecipazione diretta è un ingrediente fondamentale per portare a un rapido
successo i progetti di innovazione tecnologica e organizzativa che cambiano il modo di produzione e il
sistema aziendale, per adeguarlo alle esigenze della competizione globale e dei nuovi mercati mondiali.
In questi casi (vedi casi A e C) la partecipazione è finalizzata a sostenere lo sforzo innovativo e a
cambiare il modello produttivo, assicurando performance nuove e più evolute (più velocità di risposta,
maggiore rapidità di lancio di un nuovo prodotto, più qualità, più produttività). In altri casi invece la
partecipazione diretta è incanalata verso obiettivi più specifici e limitati, ma sempre essenziali e critici
10
per il business model dell’azienda, come ad esempio la puntualità nella consegna delle commesse e la
adattabilità alle variazioni di mercato attraverso una maggiore flessibilità. In altri casi ancora, il ricorso
alla partecipazione diretta e alla delega al team operaio della gestione del tempo, riesce a conseguire
una flessibilità del sistema produttivo che con altri metodi sarebbe irraggiungibile. Nel caso B, la
partecipazione viene invece incanalata nel sistema dei suggerimenti all’interno del team operaio, che si
rivelano efficaci nel perseguire contemporaneamente la riduzione dei costi di produzione e il
miglioramento della qualità del prodotto.
C’è tuttavia un aspetto comune alle diverse strade che è di capitale importanza: il punto è che tutte
le strade riescono in qualche modo ad aumentare significativamente le performance aziendali, in
particolare produttività, qualità e flessibilità, senza produrre un peggioramento della fatica e delle
condizioni di lavoro di fabbrica. Anzi, sorprendentemente, queste condizioni vengono migliorate in
modo significativo, come gli stessi lavoratori riconoscono.
Il fenomeno che emerge dai casi osservati è molto diverso da quello evidenziato da molta letteratura
industriale dei decenni scorsi, nella quale si sottolineava come il miglioramento del clima aziendale e
un miglior trattamento retributivo o relazionale dei lavoratori producesse qualche punto di aumento
della produttività diffusa, a causa di un maggior impegno di tutti, sullo stesso identico processo
produttivo. Nei casi esaminati invece la partecipazione diretta porta un forte contributo alla modifica e
innovazione del sistema di produzione, perché contribuisce a modificare strutturalmente e
profondamente la fabbrica. A seconda dei casi, le innovazioni portano infatti a un incremento delle
performance complessive perché modificano i flussi, semplificandoli, oppure riducono le perdite e gli
sprechi di energia, di materiali, di movimentazione etc., oppure rendono più efficienti le macchine e il
loro uso, o più flessibile la produzione, modificando rapidamente gli orari di lavoro, o consentono di
trovare nuove soluzioni tecnico-organizzative più efficienti di quelle pensate dalle tecnostrutture.
In tutti questi casi, la partecipazione diretta dei lavoratori conduce ad aumenti di produttività,
qualità e flessibilità, perché contribuisce, insieme agli investimenti aziendali e a nuove competenze, a
modificare e innovare i processi di lavoro e il prodotto finale. Emerge una sorta di sinergia tra
investimenti e partecipazione diretta, nei contesti industriali attuali, caratterizzati allo stesso tempo da
alta complessità tecnologica, elevata complessità gestionale e nuove competenze richieste (prodotta ad
esempio dalla esplosione di gamma combinata coi tempi stretti di risposta).
A causa di questa complessità tecnologica, di competenze e gestionale, oggi la partecipazione
diretta è una sorta di amplificatore o moltiplicatore dell’investimento aziendale, nel senso che senza
partecipazione molti investimenti producono meno benefici di quelli attesi o possibili. E viceversa, con
la partecipazione molti investimenti, anche modesti, vengono potenziati e amplificati nei benefici.
Questo risultato è ovviamente legato anche alle nuove tecnologie ICT e del web che supportano questo
effetto di amplificazione in quanto tecnologie abilitanti.
In sintesi, la produttività cresce non per un fatto di clima, di impegno o di buone relazioni col
personale, ma per le innovazioni apportate dalla combinazione virtuosa di investimenti aziendali, nuove
tecnologie abilitanti, crescita delle competenze e partecipazione.
Un aspetto importante è il fatto che, oltre alla produttività, cresce anche la qualità della vita di
lavoro e migliorano le condizioni di lavoro (rumore, fatica, sicurezza, etc..). Anche questo fenomeno è
riconducibile alla combinazione virtuosa di investimento aziendale e moltiplicatore partecipativo. Esso
è visibile con tutta evidenza, per esempio, nel team operaio: nel team o nelle isole - come si vede nel
caso A - una autogestione intelligente della rotazione sui job tra tutti i membri porta a minor fatica (per
la più equa distribuzione dei movimenti di lavoro), a più qualità (per i reciproci controlli sul processo),
a più suggerimenti (per la cooperazione interna) e di conseguenza a più produttività.
Questa tesi può essere supportata anche da analisi quantitative sugli incrementi di produttività
ottenibili con il binomio partecipazione-investimento. In vari casi, gli incrementi di performance sono
stimati tra valori che oscillano dal 10 al 35% dei costi diretti industriali nel giro di 3-5 anni. Si tratta di
11
valori molto elevati non ottenibili con i metodi tradizionali del taglio dei tempi fordista o dei premi
salariali o delle buone relazioni di lavoro.
5. La partecipazione diretta nel percorso di democrazia industriale
Le esperienze di partecipazione che abbiamo analizzato – il coinvolgimento informativo e
formativo nel caso A, i gruppi di miglioramento in B, i gruppi ad hoc e il coinvolgimento diffuso in C –
sono sostanzialmente esperienze di «partecipazione diretta», nel senso che generalmente coinvolgono i
lavoratori «prima» o anche «indipendentemente» dai loro rappresentanti sindacali. Anche se, nella
generalità dei casi osservati, le relazioni sindacali sono buone, la contrattazione aziendale attiva e i
rappresentati dei lavoratori abitualmente coinvolti in procedure di informazione e consultazione.
Tranne che nel caso dei gruppi di miglioramento dell’azienda B (basati su una metodologia abbastanza
strutturata, come prevede il WCM) ci troviamo di fronte a modalità di partecipazione a bassa
formalizzazione. Si tratta, nondimeno, di forme di partecipazione non individuali ma collettive, nel
senso che i lavoratori esercitano la loro partecipazione all’interno di strutture collettive più o meno
formalizzate, come team, gruppi di qualità, gruppi ad hoc o all’interno della fabbrica concepita come
«fabbrica partecipativa».
Anche al di là dei casi analizzati, le nuove modalità di partecipazione diretta appaiono trainate dalle
esperienze di innovazione organizzativa generate in senso lato dai principi del toyotismo e dei nuovi
modelli industriali, che vedono una necessaria continuità tra gli obiettivi aziendali di qualità, sicurezza,
risparmio dei costi e il contributo consapevole e competente dei lavoratori. Una diffusione che
comincia ora a diventare visibile in Italia dove giunge al seguito delle multinazionali, soprattutto
svedesi e tedesche7 e dalle esperienze della lean nel settore auto, ivi compresa quella del WCM Fiat8,
ma che si sta propagando anche alle PMI più innovative. Il successo di queste esperienze partecipative
va dunque collegato, più che all’onda lunga delle nuove relazioni industriali avviate negli anni Ottanta
dal Protocollo Iri9, a strategie di gestione delle risorse umane di iniziativa manageriale particolarmente
innovative, ispirate al HRM e alle HPWP nate oltreoceano10.
Se il primo driver della partecipazione diretta è la necessità del contributo attivo e competente dei
lavoratori che il nuovo capitalismo della produzione snella richiede per la competizione globale, un
secondo fondamentale driver è sicuramente il desiderio dei lavoratori di contare di più nel lavoro. In
tutti i casi analizzati, la soddisfazione dei lavoratori di sentirsi interpellati nel raggiungimento di
obiettivi specifici e tangibili e, a maggior ragione, di poter influire sulle loro condizioni di lavoro, sulla
fatica, sull’ambiente, sull’ergonomia, etc., risulta molto evidente. La gran parte dei lavoratori accetta
con entusiasmo soprattutto l’invito a dare suggerimenti (piovono a migliaia in tutti i casi analizzati!) e a
risolvere i problemi del ciclo produttivo. La gran parte dei lavoratori è contenta di partecipare a tutta la
7 L. Pero e L. Campagna, Innovazione organizzativa e partecipazione diretta, cit. 8 L. Pero et al., L’evoluzione dei sistemi di produzione e l’organizzazione del lavoro nelle fabbriche: l’applicazione del Wcm
in Fiat, Paper presentato al Congresso AIIG, 26 ottobre 2014. 9 Esperienze simili, anche se non certamente collegabili, sono state alla fine anni Settanta e inizio anni Ottanta quelle delle
«conferenze di produzione» proposte dal sindacato milanese in alcune grandi fabbriche e più recentemente riproposte dal
sindacato dei lavoratori della conoscenza negli enti di ricerca. 10 Cfr. B. Becker, B. Gerhart, The impact of human resource management on organizational performance, in «Academy of
management», n.4, 1996, p. 779-801; L. Lynch, The evolving nature of high performance work practices in the United
States, cit.; N. Bloom, J. Van Reenen, Management practices, work-life balance and productivity, cit.; D. Gallie (ed.),
Employment Regimes and the Quality of Work, cit.; S.E. Black, L. Lynch, What’s driving the new economy? The benefits of
workplace innovation, cit. Casomai, come anche in altri casi riportati dalla letteratura nazionale, l’apertura alla
partecipazione dei lavoratori può essere il portato di una specifica cultura imprenditoriale, quella che Mauro Magatti ha
denominato dell’«impresa generativa» ovvero fondata su un «modello di partecipazione creativa e produttiva che pone al
centro al persona e la sua capacitazione» (M. Magatti e L. Gherardi, Una nuova prosperità, Milano, Feltrinelli, 2014, p.164)
12
formazione necessaria a comprendere meglio il funzionamento dei processi per poter dare contributi
più competenti (caso B e caso C). Moltissimi, anche se non tutti, si sentono ingaggiati e valorizzati dai
percorsi di rotazione e di job enrichment. Dove vi è stato un coinvolgimento capillare dei lavoratori
sugli obiettivi e sui costi ed è stata favorita la conoscenza dei meccanismi di controllo di gestione, i
suggerimenti arrivati da parte degli operai riguardano persino le scelte strategiche (caso C). In genere,
uno scambio importante tra lavoratori e impresa sta nel rapporto tra maggiore autonomia e maggiore
responsabilizzazione: i lavoratori accettano volentieri di essere corresponsabili dei risultati, a patto di
poter avere sotto controllo, almeno in parte le loro condizioni di lavoro11. Un altro scambio che
funziona è quello tra responsabilizzazione ed aumento delle competenze. In generale, soprattutto nelle
aziende dove la partecipazione è il risultato prima ancora che di un nuovo sistema organizzativo di una
cultura che permea tutta l’azienda - come nel caso A e nel caso C - risulta confermata l’idea di Sennett
che «le capacità di collaborazione delle persone sono di gran lunga maggiori e più complesse di quanto
la società non dia loro spazio di esprimere»12. In conclusione, pur senza negare il fatto che una certa
letteratura manageriale sottolinea con eccessiva ridondanza il rapporto tra coinvolgimento dei
lavoratori, clima aziendale e performance d’impresa, nei nostri casi la qualità della vita lavoro e le
competenze risultano davvero migliorate e la partecipazione dei lavoratori, per quanto spesso in
modalità ancora del tutto informali, non si ferma ad un passivo coinvolgimento.
Resta aperta la questione del rapporto tra partecipazione diretta e partecipazione via-rappresentanti
dei lavoratori (indiretta o rappresentativa). Dalle nostre osservazioni non risulta nessun conflitto ma,
indubbiamente, in tutti i casi finora analizzati la prevalenza della iniziativa manageriale è evidente. I
rappresentanti dei lavoratori appaiono più cauti, o forse più incerti, rispetto al proprio ruolo all’interno
della fabbrica. In generale, il sindacato sembra giocare di rimessa: è a causa dell’incertezza ad operare
in un ambiente collaborativo e non conflittuale? Oppure è dovuto alla mancanza delle competenze
necessarie ad affrontare la complessità dei problemi e delle strategie aziendali? Oppure c’è una sorta di
difficoltà a riconoscere l’aspirazione dei lavoratori a contare di più?
In conclusione, sia per il sindacato come per le imprese, si apre una fase nuova in cui le politiche
degli uni e degli altri devono adeguarsi al nuovo modello produttivo dell’era
dell’internazionalizzazione. Il sindacato deve capire che ruolo ricoprire in questa nuova epoca storica e
deve anche ripensare un sistema di rappresentanza aziendale che non può essere più a lungo concepito
come mero terminale del sindacato nei luoghi di lavoro. Per l’impresa c’è necessità di riconoscere
maggiormente i contributi dei lavoratori alla performance13, ma anche costruire un sistema socio-
produttivo che valorizzi il lavoro non solo attraverso il salario – o, come si sta cominciando a fare,
attraverso benefits di welfare aziendale - ma anche attraverso lo sviluppo delle conoscenze, delle
carriere, dell’autonomia, dell’equilibrio vita-lavoro secondo i principi-guida dei nuovi high-road jobs14.
Infine, vi è un problema comune non solo ai sindacati e alle imprese, ma all’intera comunità nazionale:
c’è l’esigenza di rendere sostenibili nel lungo periodo, attraverso una governance più matura, questi
meccanismi partecipativi in quanto stanno rivelandosi un ingrediente indispensabile della competitività
del sistema Italia.
11 Come si è visto in un lavoro precedente, il sistema del team operaio tedesco – che si sta diffondendo anche da noi-
prevede una larga autonomia sull’orario di lavoro (L. Pero e A.M. Ponzellini, Innovazione organizzativa, produttività,
partecipazione dei lavoratori, cit.) 12 R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 41. 13 A.M. Ponzellini, Piani non solo premi, cit. 14 I. Lippert, Corporate Governance, Employee Voice, and Work Organization, cit.
1
La contrattazione della produttività: piani, non solo premi
Anna M. Ponzellini
Una versione riveduta di questo lavoro è uscita in Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 2/2013
Abstract
Per oltre vent’anni la contrattazione aziendale della produttività si è concentrata sulla
retribuzione. La crisi, lo stallo della produttività e la competizione globale indicano alle relazioni
industriali che la strada da percorrere è quella della contrattazione dell’innovazione organizzativa
finalizzata agli incrementi di performance e che i premi aziendali e gli incentivi pubblici alla
contrattazione vanno indirizzati a questo obiettivo. Pratiche efficaci di innovazione nei luoghi di
lavoro – la formazione, la flessibilità e la de-standardizzazione degli orari, il lavoro in team, il
coinvolgimento dei lavoratori – possono aumentare enormemente sia performance e competitività
aziendali che qualità del lavoro. E’ però necessario che le relazioni industriali a livello d’impresa
riconquistino fiducia, recuperino competenza e si aprano alla partecipazione sindacale.
For over twenty years, collective bargaining at company level has focused on pay. Economic crisis,
stalled productivity and global competition suggest the best road ahead for labour relations is to
concentrate on performance-oriented innovations in work organisation. Reward systems and
government tax incentives should be addressed to the same goal. High performance practices set at
workplace – training, non-standard and flexible hours, lean organisation & team working,
employee involvement – can result in a significant raise of productivity and business
competitiveness, together with the quality of working life. Yet, company level industrial relations
must regain trust, recover skills and open to trade-union participation.
Premessa
Quando si parla di contrattazione della produttività vengono immediatamente in mente gli accordi
aziendali sui premi di risultato. Quelli di noi che li hanno studiati - per quanto mi riguarda fin dalla
loro comparsa nella contrattazione, che fu alla fine degli anni Ottanta e comunque prima
dell’accordo del ’93 – sanno molte cose di questi accordi: gli indicatori di performance a cui sono
collegati, le formule specifiche, l’entità dei premi, le condizioni di distribuzione della retribuzione.
E in molti modi hanno tentato di classificarli. Ne sono stati sviscerati le (incerte) proprietà
motivazionali e l’impulso dato al sistema di informazione e consultazione dei lavoratori. A suo
tempo, non sono state poche le discussioni sollevate in merito all’opportunità del passare dal salario
fisso al salario variabile (e, in termini più ideologici, anche in merito alla fine del salario come
“variabile indipendente”) anche se, più recentemente, è lo stesso sindacato a far circolare manualetti
in cui si spiegano gli indicatori che si possono meglio utilizzare per costruire un buon sistema
premiante. Qualcuno periodicamente si spinge a provare a misurare l’impatto dei premi sulla
performance della singola azienda (con esiti incerti) o almeno la relazione che esiste a livello macro
tra retribuzioni e produttività (anche qui, con esiti perlomeno ambigui).
Tuttavia, di fronte alla richiesta di riflettere attorno alla produttività e alla sua contrattazione, mi
chiedo se abbia senso parlare di “questa” contrattazione… A mio parere no e cercherò di
spiegarlo.
Oltre vent’anni di premi di produttività. E la produttività?
Nella contrattazione aziendale della produttività, finora il fuoco è stato sul “retribuire”. Che il
premio fosse collegato alla performance – grande intuizione delle relazioni sindacali degli anni
Novanta - è via via diventato secondario e simbolico (nel senso che è servito a giustificare il fatto
2
che si trattasse di un “premio” e non semplicemente di un aumento di salario), mentre i fattori che la
produttività la determinano sono stati ben poco negoziati. Tutt’al più, sono stati usati come
misuratori. In effetti, i sistemi premianti prevedono la scelta degli indicatori più adatti a misurare il
raggiungimento (solitamente inerziale) di qualche obiettivo di redditività o di qualità. I sindacati
fanno formazione ai rappresentanti aziendali in cui si spiegano gli indicatori. Le aziende
propongono l’algoritmo. Le buone formule si propagano dalle aziende maggiori a quelle minori...
Tutto bene. Purché non si faccia confusione, pensando che in questo modo si sta contrattando la
crescita della produttività: quello che si sta contrattando è solo del salario (per quanto legato ai
risultati). In realtà, la negoziazione aziendale non si occupa affatto, o solo molto raramente, di
come riorganizzare i fattori produttivi per migliorarli sul serio questi risultati.
Allo stesso modo, considerare – come hanno fatto ripetutamente i nostri governi - la detassazione e
la decontribuzione dei premi un modo per aumentare la produttività sembra abbastanza privo di
senso, visto che negli accordi i richiami a indicatori di “produttività, efficienza, efficacia, qualità”
hanno quasi sempre un valore meramente simbolico. A maggior ragione quando i premi sono
costruiti appositamente in funzione di poter accedere agli incentivi di legge: “accordi cosmetici”
come sono stati pittorescamente definiti (Antonioli e Pini 2012).
Concentrare la contrattazione sugli strumenti per recuperare produttività, non sugli
indicatori
Mi sembra chiaro invece che, se si vuole agire sul serio sulla produttività delle aziende, bisogna
rispettare una sequenza. Prima definire in che modo, in quali ambiti aziendali, con quali strumenti
organizzativi, gestionali, di relazioni di lavoro, etc. si possa recuperare produttività. Dopo collegarvi
un sistema premiante. E solo alla fine pensare agli incentivi pubblici, che a questo punto avranno
qualche probabilità in più di essere mirati e quindi efficaci.
Le domande che devono porsi le parti sociali – a livello della singola azienda – sono:
1. Come aumentare la performance aziendale?
2. Come collegare la retribuzione alla performance?
3. Come collegare incentivi pubblici alla contrattazione?
In sintesi, il problema attuale delle relazioni industriali a livello d’impresa non è quello di trovare
dei buoni indicatori di produttività ma operare in modo da raggiungerla, una buona produttività.
Definire semplicemente degli obiettivi di produttività, di redditività o di qualità, come a volte si fa
volonterosamente, se tutto resta come prima - il layout, la tecnologia, il sistema di qualità,
l’organizzazione delle pause, la rigidità degli orari, il sistema gerarchico – serve assai poco. Al
contrario, è l’intero processo di produzione, che si tratti di beni o di servizi, che va vagliato e
ottimizzato, fase per fase. Le parti sociali devono seguire tutto il percorso, condividerlo e misurarlo.
Ogni azienda deve pianificare il proprio sistema, anche se analisi e diagnosi possono anche essere
estese a interi settori e sotto-settori.
In questo modo si ottengono:
- aumenti reali e misurabili di produttività
- coinvolgimento dei lavoratori e quindi incremento della motivazione e del benessere
- partecipazione del sindacato e quindi stabilità e fiducia delle relazioni di lavoro
Nelle esperienze migliori già succede così (a qualche buon esempio di relazioni industriali a livello
aziendale faremo riferimento nei paragrafi successivi). Persino nelle pubbliche amministrazioni,
nella breve fase di rinnovamento che si è verificata negli anni Novanta (e anche dopo, ma solo in
pochi casi virtuosi), è almeno in parte successo così: il sistema premiante è stato la leva – se non il
pretesto – per interventi mirati ad alcuni cambiamenti, anche radicali, che erano necessari
all’organizzazione aziendale. Bisogna ripartire da queste esperienze.
La sfida della produttività obbliga a innovare radicalmente le relazioni industriali a livello
d’impresa
3
Nel dibattito sulla crisi e sui modi con cui uscirne, l’allarme per la crescente perdita di competitività
dell’intero sistema produttivo italiano è in primo piano. Istat ci fa sapere che negli ultimi venti anni
la produttività del lavoro italiana è cresciuta pochissimo (lo 0,9% medio annuo tra il 1992 e il 2011)
ma soprattutto che la crescita ha cominciato a rallentare a partire da periodi non sospetti ovvero già
dal 2003. Che ci troviamo di fronte a problemi di tipo strutturale è reso evidente anche dal fatto che,
nello stesso periodo, la produttività del capitale – il grado di efficienza del capitale investito, la
qualità del management e della governance aziendale – è addirittura peggiorata (Cipollone 2012).
Siccome poi quando si parla di produttività è necessario tener conto anche delle componenti
esterne, non va dimenticato che queste ultime appaiono particolarmente critiche nel nostro Paese a
causa della bassa efficienza dei servizi pubblici, della mancanza di infrastrutture, della lentezza
della giustizia e della farraginosità della burocrazia…
E’ opportuno che le relazioni industriali si facciano carico di tutti i fattori, interni ed esterni, che
determinano la produttività. Tuttavia, dato che in questa sede vogliamo aprire una discussione sulla
contrattazione aziendale, ci concentreremo sulle componenti su cui le aziende possono avere un
controllo diretto: in particolare la produttività del lavoro ma non solo questa. Infatti, la produttività
del lavoro (prodotto per ora lavorata) dipende da una serie di fattori che vanno dalle competenze dei
lavoratori, al know-how complessivo aziendale, dagli investimenti per unità di lavoro
all’organizzazione del lavoro e all’efficienza delle strutture aziendali e dei processi.
In modo più ampio, la redditività del lavoro (valore del prodotto per ora lavorata) chiama in causa
l’intera struttura aziendale: dal posizionamento competitivo alla valorizzazione del brand, dalle
pratiche e capacità manageriali alla innovazione di prodotto, dalla qualità degli inputs alle scelte
tecnologiche e alla loro influenza sull’organizzazione e sulla qualità dei prodotti.
Sul governo di questi aspetti – possibilmente di tutti questi aspetti – deve concentrarsi, a mio parere,
una “nuova” contrattazione della produttività tra le parti sociali a livello aziendale.
In questo senso, la crisi – e la pressione sul recupero di produttività che ha positivamente innescato
– vanno colte come una preziosa opportunità per il lancio di un modo radicalmente nuovo di
concepire la contrattazione aziendale e tutto il sistema delle relazioni di lavoro a livello d’impresa.
Quali sono le piste per aumentare le performance delle aziende?
Certamente le relazioni industriali non possono intervenire su tutti i fattori che determinano la
performance delle aziende. Su molti di questi però sì. Se guardiamo in senso stretto alla produttività
del lavoro, l’elevata correlazione che esiste tra questa e la qualità delle risorse ci richiama
l’importanza che hanno ai fini della performance aziendale da un lato il livello di istruzione della
forza lavoro e, dall’altro, il volume (negoziabile) degli investimenti formativi: sia quelli più
specifici mirati a sviluppare le competenze tecniche di cui l’azienda ha bisogno, sia anche quelli più
estensivi indirizzati a migliorare in generale la qualità delle risorse, sviluppando conoscenza dei
processi, dei metodi di qualità, capacità di problem solving e auto-responsabilizzazione. Questo
aspetto della formazione è stato finora a dire poco sottovalutato dalle parti sociali e dai governi in
Italia (mentre va detto per inciso che proprio sugli investimenti formativi si concentrano gli
incentivi pubblici previsti dall’accordo sulla competitività recentemente siglato dalle parti sociali in
Francia1).
Incrementi non indifferenti della produttività del lavoro si ottengono anche attraverso il controllo
dell’assenteismo. A questo proposito, va sottolineato che è ben diverso negoziare un incentivo
monetario collegato alla riduzione di qualche punto del tasso di assenze, come si usa abitualmente
fare nei premi di produttività, rispetto all’analizzare le cause delle assenze e intervenire in modo da
farle diminuire. Per esempio, sappiamo che la possibilità di ridurre temporaneamente l’orario di
lavoro (part time) o di usufruire di orari flessibili o di giornate di permesso a recupero abbassa
drasticamente il tasso di assenza delle madri di figli piccoli. Sappiamo anche che intervenire nel
1 Accordo nazionale intercategoriale “Pour un nouveau modèle economique et social au service de la compétitivité des
enterprises et de la sécurisation de l’emploi”, siglato lo scorso 11 gennaio.
4
migliorare l’ergonomia di alcune posizioni di lavoro migliora le prestazioni degli operatori e ne
riduce le assenze per disturbi muscoloscheletrici (problema, tra l’altro, destinato ad aumentare con
l’aumento dell’età di pensionamento). Tutti questi aspetti – il miglioramento delle competenze, le
misure di conciliazione, gli interventi sul benessere psicofisico nel posto di lavoro – possono essere
parti di un piano di recupero della produttività del lavoro.
Altri interventi possono migliorare l’uso del capitale. Raggiungere una migliore saturazione degli
impianti, rendere più fluidi i processi, adattare la programmazione dell’attività produttiva ai cali e ai
picchi della domanda di mercato sono obiettivi che possono essere ben supportati da interventi sulla
organizzazione del lavoro. Per esempio, l’introduzione di un modello di lean organisation deve
portare a sviluppare il lavoro di squadra, che è una modalità di organizzazione del lavoro che
presuppone il coinvolgimento degli operatori, lo sviluppo delle loro competenze, un maggiore
fungibilità delle diverse posizioni (e che presuppone quindi interventi formazione per aumentare la
polivalenza delle competenze). Anche gli investimenti in Information Technology – che hanno un
ritorno importante sulla performance aziendale – devono essere accompagnati da paralleli interventi
di sviluppo organizzativo e delle risorse. La risposta agli andamenti discontinui della domanda dei
mercati è data dalla flessibilità degli orari di lavoro, che può essere negoziata più ampiamente ma in
modi che la rendano non penalizzante o addirittura vantaggiosa per chi lavora.
Infine, le capacità del management nell’organizzare la produzione e nel gestire le risorse umane
sono altrettanti fattori che influenzano la produttività del lavoro e, sebbene sia difficile che la
contrattazione possa intervenire nel migliorare l’accuratezza della selezione e della formazione del
management, essa certamente può intervenire sulla strumentazione usata per la gestione delle
risorse umane. Pratiche manageriali orientate a fare crescere i migliori e a collocare le persone
giuste al posto giusto, secondo principi di merito, sono cruciali per far crescere i risultati di un
reparto o di un ufficio e, indirettamente, hanno un impatto sulla percezione di equità e quindi sulla
motivazione dei dipendenti. In un’intervista recente il responsabile HR di McDonald’s includeva la
mancanza di attenzione al merito tra i tre principali vincoli alla produttività del lavoro in Italia. Non
c’è dubbio che il fatto che chi lavora non abbia certezza – per l’opacità delle regole o, peggio, per le
interferenze delle diverse sigle sindacali sulle promozioni - del fatto che se lavora bene le sue
capacità saranno sfruttate meglio o sarà promosso a qualche incarico di maggiore responsabilità, è
un grave elemento di passivizzazione e demotivazione delle risorse. Allo stesso modo, l’attenzione
dei manager a tener conto dei bisogni personali dei dipendenti aiuta a migliorare il clima aziendale
ed è un altro elemento importante per migliorare la produttività delle aziende.
Le pratiche di lavoro ad alta produttività (High Performance Workplace Practices)
Da tempo, in USA come in Europa, tra i diversi modi adottati per incrementare la produttività si
studiano proprio quelli generati dall’innovazione organizzativa, ovvero dall’introduzione nelle
aziende dei nuovi assetti di organizzazione del lavoro e delle nuove pratiche manageriali
performanti a cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente. E’ interessante concentrarsi sui
risultati di questi studi, perché la relazione tra la produttività e il cambiamento organizzativo è
indubbiamente uno dei terreni più promettenti per una contrattazione aziendale che voglia
contemporaneamente tenere in conto i risultati d’impresa e le condizioni di lavoro. Come ricordava
anche Leoni (2012) - che sottolinea l’importanza di “pacchetti integrati” e “ad alto coinvolgimento”
di queste pratiche di lavoro - alcuni studi americani attribuiscono addirittura il 30% della crescita
dell’industria americana proprio alle HPWP (Lynch 2012).
Con la strategia Europa 2020, l’Europa si preoccupa di ottenere uno sviluppo “smart” attraverso
“posti di lavoro di qualità, aziende e settori ad alto valore aggiunto, migliore inclusione sociale
attraverso il lavoro”. Le analisi della Fondazione europea di Dublino monitorano periodicamente il
raggiungimento di questi obiettivi, attraverso diversi tipi di survey e in particolare attraverso
ricerche qualitative sull’innovazione nell’organizzazione del lavoro, iniziate già a partire dal 1997 e
periodicamente replicate. Le pratiche di lavoro selezionate da Eurofound come “ad alta
5
produttività” comprendono: lavoro in squadra, formazione, coinvolgimento dei lavoratori nella
condivisione delle conoscenze e nella soluzione dei problemi e nuove forme di ricompensa.
L’indagine più recente testimonia che in Europa:
- una crescente pressione verso l’innovazione è stata esercitata proprio dalla crisi e soprattutto
nel settore manifatturiero
- per cambiare, le aziende hanno bisogno di una forte leadership, di una cultura organizzativa
che sostenga il processo, di dialogo sociale e di partecipazione dei lavoratori
- l’approccio più diffuso al cambiamento, nelle esperienze-pilota analizzate, è stato quello
doppio, con una ispirazione manageriale (top-down) all’inizio e un approccio dal basso
(bottom-up) nella fase di implementazione delle nuove pratiche .
La conclusione dell’indagine, che conferma altre svolte in precedenza, è che l’uso di queste pratiche
– anche singolarmente ma meglio se associate tra loro – ha prodotto incrementi estremamente
significativi della produttività del lavoro, riduzione dei costi operativi, maggiore condivisione della
conoscenza dei processi produttivi e della soluzione dei problemi (Eurofound 2012).
Nei paragrafi successivi mi soffermerò su due pratiche organizzative che sono l’asse su cui si
potrebbe costruire la nuova contrattazione della produttività: il lavoro di squadra e la flessibilità
degli orari di lavoro.
Lavorare in squadra ha un enorme impatto sulla produttività ma può anche migliorare la
qualità del lavoro e la partecipazione
L’organizzazione del lavoro in teamworking segue l’introduzione del modello della lean
production, con catena gerarchia ridotta e ampio coinvolgimento dei lavoratori nei processi di
lavoro. Il lavoro di gruppo – soprattutto se organizzato in squadre dotate di qualche autonomia –
aumenta l’auto-responsabilizzazione dei lavoratori nella ricerca di un miglior funzionamento dei
processi, nei piccoli interventi di manutenzione che evitano il fermo-macchina, nel suggerimento di
modifiche per migliorare la qualità, nell’ottimizzazione dell’uso dei materiali, nella riduzione degli
sprechi e dei costi dell’energia.
Dai risultati della WERS (Workpace Employment Relations Survey) emerge che il 60% delle
aziende che organizzano il lavoro in team ritiene di avere una produttività superiore alla media e
addirittura il 65% di avere una performance finanziaria superiore alla media (Procter e Burridge
2008), mentre anche altri studi che hanno misurato l’impatto del lavoro in squadra raggiungono
risultati analoghi .
Senza andare lontano, Elica – un’azienda italiana che produce cappe aspiranti da cucina - dopo aver
introdotto il lavoro di squadra mettendo al centro del suo sistema WCM la partecipazione dei
lavoratori e i loro suggerimenti, ha realizzato in un impianto una riduzione dei costi di produzione
del 300% in un solo anno (Sidiqui, Allinson, Cox 2012).
Il teamworking trascina tutta l’organizzazione verso una qualità più elevata: allarga la conoscenza
dei processi di lavoro, sollecita i lavoratori a risolvere i problemi quando si presentano e in molti
casi anche a fornire i loro suggerimenti per il miglioramento continuo. Inoltre, molto spesso
l’introduzione del teamworking viene accompagnata da un cospicuo intervento formativo che serve
ad incrementare la polivalenza e ha un importante impatto sulla la qualità delle risorse.
C’è quindi da chiedersi perché il lavoro in squadra risulti ancora così poco diffuso in Italia (è stato
introdotto a macchia di leopardo e quasi solo nelle multinazionali di casa-madre tedesca o nordica).
Dato il grado di fiducia tra le parti presuppone una organizzazione basata su gruppi di lavoro, forse
una risposta sta nel nostro modello di relazioni industriali, caratterizzato da una cultura più
conflittuale che partecipativa (Campagna e Pero 2011).
La “nuova” contrattazione aziendale per la produttività potrebbe essere una leva per favorire questa
forma efficace di organizzazione del lavoro, soprattutto attraverso la diffusione del modello dei
gruppi semi-autonomi, che sono quelli dove, oltre ad un impatto positivo sulla produttività, si
registra il grado più elevato di soddisfazione del lavoro, di miglioramento della qualità e di
riduzione delle assenze (Eurofound 2012).
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La contrattazione italiana potrebbe prendere esempio dalla Germania, dove il lavoro in squadra è
molto diffuso - soprattutto, ma non solo, nel settore metalmeccanico (a cominciare all’auto) - e dove
in molti casi si accompagna a forme di partecipazione dei lavoratori molto ampie, che non
coinvolgono solo gli aspetti produttivi ma anche il disegno della distribuzione delle mansioni, la
definizione dei ritmi e delle pause, l’orario (e persino i permessi dei componenti della squadra).
La flessibilità degli orari è la pratica organizzativa che ha l’impatto più significativo sulla
produttività
La pressione più forte al cambiamento organizzativo a cui le nostre aziende, soprattutto
manifatturiere, sono sottoposte in questi anni riguarda la flessibilità degli orari di lavoro. E’ una
partita cruciale, visto che molta della competitività delle aziende (specie le esportatrici) si gioca
sulla capacità di tener dietro alla variazione della domanda dei mercati. Ed è un punto di snodo
organizzativo consistente (e spesso arduo) per le imprese, come si evidenzia anche dagli studi
manageriali che testimoniano come, più che in altre pratiche lavorative innovative, la proporzione
di dipendenti con orari flessibili sia “fortemente e positivamente correlata a cambiamenti
organizzativi radicali” (Beugelsdijk 2008).
Quello che è ormai evidente è che il modello italiano di flessibilità – orari rigidi a cui viene
collegato un uso sproporzionato di straordinari – è inadatto a perseguire sia gli obiettivi di
produttività (gli straordinari sono spesso di ostacolo all’efficienza organizzativa), sia a maggior
ragione quelli di qualità del lavoro. E quindi va cambiato. Questo modello è purtroppo coerente con
la strada che gran parte dell’industria italiana ha scelto di percorrere, tentando di recuperare la
competitività, invece che attraverso investimenti nel cambiamento organizzativo e nella qualità
delle risorse, attraverso la saturazione dei tempi e l’aumento delle ore lavorate. A scapito quindi
della qualità del lavoro (e, a volte, anche dell’occupazione).
Riprogettare congiuntamente le organizzazioni introducendo anche orari non-standard (è il caso
degli orari ridotti (part-time) nei servizi o anche in sezioni particolari dei processi industriali, della
turnistica innovativa, degli orari personalizzati o del lavoro da casa per i professional) comporta
qualche studio organizzativo e molta sperimentazione ma può dare risultati insospettabili in termini
di saturazione degli impianti, di efficienza dei processi, di just-in-time, di rispetto delle scadenze.
Inoltre, quando questi orari sono anche mirati ad incontrare le esigenze dei dipendenti, si
aggiungono effetti che vanno dalla riduzione delle assenze e del turn over, al miglioramento della
motivazione e del clima organizzativo. Per limitarci a un paio di esempi molto distanti, la
riorganizzazione di molti servizi pubblici attraverso l’introduzione di part time lunghi, per esempio
quelli aeroportuali e in parte quelli di trasporto, è pienamente riuscita e con ampi recuperi di
efficienza. La recente creazione di una turnistica “insolita” (turni fissi 5-13 e 12-20) nel polo
logistico di Luxottica, combinandosi meglio con gli orari dei cargo, ha consentito di aumentare
considerevolmente i volumi distribuiti dall’azienda e ha incontrato nel contempo anche le
preferenze d’orario di gruppi di lavoratori e lavoratrici.
A maggior ragione, va ampliata e migliorata la flessibilità multiperiodale (o plurisettimanale),
ovvero il sistema di “superamento e recupero” di orario in coincidenza con i picchi e i flessi della
domanda di produzione. La negoziazione qui procede attualmente con la cautela, a volte eccessiva,
riservata alle deroghe ma forse, più opportunamente, potrebbe far leva sullo scambio tra esigenze
aziendali e bisogni e preferenze dei lavoratori: se si realizzasse questa simmetria – per ora non
prevista dai CCNL - i passi avanti anche solo in termini di risparmio sugli straordinari e di qualità
del lavoro e conciliazione sarebbero significativi (Pero e Ponzellini 2012). Un’idea di come ancora
una volta i nostri sistemi organizzativi e contrattuali “arranchino” nel confronto con la Germania si
può avere comparando la filiale italiana e la filiale tedesca di Endress-Hauser (un’azienda
metalmeccanica di strumenti di precisione): il contratto aziendale della filiale tedesca prevede un
pacchetto di straordinario molto contenuto e destinato alle effettive emergenze mentre le ore di
flessibilità multiperiodale sono molte di più di quelle previste dai nostri CCNL ma in compenso
esigibili contemporaneamente da azienda e dipendenti (Una Città 2013).
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Piani aziendali di produttività condivisi
Per migliorare la produttività delle aziende ci vogliono manager capaci, investimenti da fare, quasi
sempre risorse da formare. Bisogna individuare i fattori di successo per la performance delle
imprese, verificare le criticità, progettare e pianificare gli interventi organizzativi, le esigenze di
flessibilità, le aree di spreco e d’inefficienza, introdurre le innovazioni tecniche, analizzare i
cambiamenti da fare nei sistemi di gestione delle risorse umane, nelle norme contrattuali e nelle
relazioni impresa-lavoratori… Se le parti sociali condividessero questa proposta, la nuova
contrattazione della produttività potrebbe assumere la forma della definizione congiunta di piani di
recupero della produttività, da negoziarsi azienda per azienda.
Ma come si possono convincere le imprese ad adottare questa strategia, che significa spostarsi
finalmente verso la “via alta” alla competitività? Può servire orientare gli incentivi pubblici verso la
progettazione dei piani aziendali di produttività, magari fornendo l’assistenza gratuita di esperti,
com’è previsto dall’Accordo francese (e come già abituale in Germania).
E il sindacato? E’ chiaro che il sindacato debba partecipare perché le poste in gioco
dell’occupazione e della qualità del lavoro sono oggi più importanti che mai. E perché un progetto
di cambiamento organizzativo richiede stabilità delle relazioni di lavoro, fiducia, condivisione degli
obiettivi... Tuttavia, è innegabile che, ad oggi, le relazioni sindacali sono un punto delicato di un
progetto di questo genere. E’ un problema del sindacato aumentare la produttività delle imprese? Il
sindacato deve chiederselo e darsi una risposta. Che si può fare se in alcuni ambienti sindacali
“produttività” evoca solo un aumento dello sfruttamento, “partecipazione e coinvolgimento dei
lavoratori” un cedimento agli interessi delle imprese, “negoziazione della flessibilità organizzativa”
il timore di perdere le tutele del CCNL? (Anche se poi l’esperienza dice che i rappresentanti
aziendali di fronte a concreti obiettivi di riorganizzazione sono generalmente disponibili a
negoziare.) Come rimontare la mancanza di fiducia – su cui il sistema delle imprese ha ampie
responsabilità - che caratterizza le relazioni industriali italiane? Chi potrebbe giocare un ruolo di
garante?
Per essere realisti, va aggiunto che in molti casi il sindacato ha perduto la competenza
sull’organizzazione del lavoro e le capacità di contrattarla: quindi un piano per la produttività deve
verosimilmente partire da lì, da incontri di informazione e consultazione delle RSU e dalla
formazione delle competenze dei negoziatori. E poi da un lungo lavoro comune tra management e
sindacato, che includa il coinvolgimento capillare dei lavoratori attraverso un’informazione
continua e trasparente, la formazione alle nuove competenze trasversali richieste dal lavoro di
gruppo e dagli altri cambiamenti organizzativi, agili modalità di raccolta delle preferenze e dei
bisogni dei dipendenti, chiarezza delle regole e delle competenze decisionali dei diversi attori,
monitoraggio costante e visibile a tutti degli andamenti della produttività. Così già funziona nelle
aziende dove le cose funzionano. E forse il supporto pubblico potrebbe consistere proprio nel
fornire i sostegni preliminari alla definizione del piano: sviluppo delle competenze necessarie ad
entrambe le parti negoziali, assistenza di esperti, formazione capillare dei lavoratori.
Come collegare il sistema premiante
Solo quando si è messo in piedi il piano di recupero della produttività, alla implementazione
(tramite indicatori di processo) e agli output (tramite indicatori di risultato) di questi interventi si
può collegare un buon sistema premiante.
Ciò che è importante ribadire è che, per ottenere i risultati consistenti di produttività che sono
necessari al nostro sistema produttivo non basta influenzare il comportamento discrezionale del
lavoratore attraverso incentivi retributivi, come dicono i manuali sui sistemi premianti. Come
abbiamo cercato di spiegare, bisogna partire da più lontano: migliorare i processi, ottimizzare
l’organizzazione del lavoro in funzione sia delle esigenze del mercato che di quelle dei lavoratori,
investire in formazione e addestramento, potenziare la gestione delle risorse migliorando la
partecipazione e dando trasparenza e merito alla gestione delle carriere.
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Su queste premesse, è naturale che siano da privilegiarsi, rispetto ad indicatori di redditività, gli
indicatori gestionali che danno visibilità di obiettivi di performance facilmente controllabili da chi
lavora. Solo per fare un esempio, l’ultimo accordo Ferrero collega il 70% del premio ad indicatori
di qualità (scarti, resi, igiene, freschezza) (Olini 2012): il sistema premiante comunque non avrebbe
senso se in primo piano non ci fosse lo sforzo collettivo a migliorare “tutti” gli aspetti del processo
in modo che non si generino questi problemi. D’altra parte, come è stato osservato, la caratteristica
dei sistemi retributivi flessibili è proprio quello di essere sempre “in progress: un esperimento da
adeguare continuamente in rapporto all’introduzione dei cambiamenti organizzativi e tecnologici e
non un dato acquisito da amministrare” (Treu 2010).
Tra l’altro, anche il sistema di remunerazione – quindi lo scambio con la produttività
realisticamente programmata – può essere costruito in modo meno banale. Non sempre la risposta
può essere solo salario, a volte una remunerazione gradita ai lavoratori (o ad alcuni lavoratori) può
essere in termini di tempo o di autonomia (come negli accordi sulla conciliazione), di benefits non
salariali (come negli accordi di welfare), di miglioramento del capitale di competenza e di
opportunità formative. Il complesso accordo di Luxottica sul welfare aziendale è basato su un patto
con i lavoratori per la produttività: gli aumenti di qualità producono incrementi delle risorse messe a
disposizione nel pacchetto di welfare aziendale.
Per finire, un commento alla proposta Antonioli-Pini
Può darsi che stabilire a livello nazionale un tasso di produttività programmata, secondo la proposta
Antonioli-Pini, si riveli più efficace per la regolazione dei salari che stabilire un tasso d’inflazione
programmata o analoghi meccanismi. Ma questo non è il punto, credo. Indubbiamente, un traguardo
concertato di produttività ha il potere di rendere visibile un messaggio che invita a uno sforzo
complessivo il singolo settore o l’intero sistema Paese e può quindi attivare più agevolmente le
indispensabili componenti sistemiche della produttività, come la scuola, la formazione, la ricerca e
sviluppo, l’innovazione…
Applicare lo stesso sistema al livello aziendale mi sembra tuttavia insufficiente (se non
“cosmetico”): infatti, non è scontato che stabilire degli obiettivi di produttività serva ad ottenere
veramente aumenti di produttività, come si vede dal fatto che finora gli accordi sui premi – che in
larga misura si appoggiano su sistemi di questo tipo - sembrano non aver raggiunto lo scopo. Inoltre
partire da un obiettivo complessivo e non da un “piano” corredato da analisi specifiche e da
strumenti ben precisi, può portare ad aumenti di corto respiro magari ottenuti semplicemente
intensificando lo sfruttamento o riducendo gli organici.
Come ho cercato di argomentare in queste pagine, aumentare la produttività non può prescindere da
un’analisi seria che deve per forza farsi azienda per azienda (al massimo, comparto per comparto)
che consenta di individuare i fattori che tengono bassa la produttività e quelli che al contrario
possono farla aumentare. Il problema è che spesso le aziende o non hanno gli strumenti di analisi, o
non sono in grado di fare gli investimenti necessari, o trovano nel sindacato un ostacolo a mettere in
atto gli interventi che sarebbero utili. Per le parti sociali, concertare la produttività significa
prendere il toro per le corna rispetto a tutti e tre questi problemi.
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Il lavoro e le professioni nell’era di Internet. Quali pratiche e relazioni di lavoro nelle professioni ICT
Anna M. Ponzellini In una versione rivista, questo testo è stato pubblicato in: Sviluppo & Organizzazione, n.222, luglio-agosto 2007
Premessa C’è tra gli studiosi una larga concordanza sul fatto che le ICT cambiano, a volte anche radicalmente, l’organizzazione del lavoro. Ciò vale per gli utilizzatori finali di queste tecnologie ma ovviamente innanzitutto per chi lavora nel settore. Si spiega così perché l’analisi sui cambiamenti del lavoro indotti dalle ICT si è spesso intrecciata e sovrapposta a quella sul tema delle nuove flessibilità del lavoro. Vi è infatti una diffusa percezione che le nuove tecnologie informatiche e soprattutto le nuove forme di comunicazione – che si adattano particolarmente ad attività immateriali, decentrate e ad alto contenuto di conoscenza - generino da un lato nuove possibilità e “libertà”, dall’altro maggiore responsabilità e incertezza per i lavoratori (Beck 2000). Come si sa, le nuove tecnologie ICT sono un tramite importante per la razionalizzazione, la velocizzazione e l’incremento della produttività dei processi di lavoro e influenzano il ridisegno dell’organizzazione del lavoro creando nuove compiti, nuovi profili professionali e, a volte, nuove culture professionali. Inoltre, personal computer, internet e cellulari consentono modi di lavorare “eccentrici” rispetto a quella “unità di tempo e di spazio” che era tipica del lavoro dell’era industriale, entrando così in contraddizione con i sistemi di coordinamento e controllo delle organizzazioni tradizionali. Allo stesso tempo, le nuove tecnologie e le pratiche di lavoro che ad esse sono collegate hanno spesso come esito un grado più elevato di sovrapposizione tra lavoro e vita personale, con impatti contradditori sulla qualità della vita e sulla possibilità di conciliare il lavoro con le responsabilità di cura. Nel mettere in discussione pratiche professionali, culture organizzative e sistemi di controllo tradizionali, le attività connesse alle ICT concorrono dunque a strutturare nuovi mercati del lavoro ma soprattutto consentono di meglio rappresentare quelle nuove regole per i lavoro di cui molto si parla a proposito del lavoro post-fordista o post-moderno. Emerge con chiarezza, da un lato, la necessità di regole organizzative e norme contrattuali più idonee a recepire la crescente flessibilità spazio- temporale, il turn over più elevato e una certa propensione per il lavoro autonomo che caratterizzano queste professioni. Dall’altro, si evidenzia una domanda di nuove forme di rappresentanza del lavoro in grado di consolidare le nuove identità lavorative e anche di orientare le relazioni di lavoro a rispondere a bisogni di tutela e di accompagnamento nella carriera del tutto inediti, perché più basati
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sull’empowerment e sul sostegno alla formazione e all’aggiornamento delle competenze che sulle garanzie occupazionali. Emerge, infine, la necessità di un quadro di politiche attive del lavoro e di interventi di welfare che sappiano governare i rischi delle aumentate transizioni sul mercato del lavoro di questi professionisti e di supportare finanziariamente le strategie individuali di carriera (che spesso comprendono career break formativi e/o di cura). Il fuoco dell’articolo è sul rapporto tra cambiamento organizzativo e cambiamenti nella regolazione del lavoro nelle professioni ICT. Le informazioni sono state raccolte a partire dai risultati di una vasta ricerca europea (si veda nel box 1 le informazioni sulla ricerca WWW.ICT) e dalla analisi di molta letteratura europea e nord americana sul lavoro nelle ICT. L’articolo si sviluppa in tre parti:
1. nel primo paragrafo vengono descritte le nuove pratiche di lavoro consentite/imposte dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dalle modifiche che esse hanno prodotto nelle organizzazioni, con particolare riferimento ad alcuni modelli emergenti di organizzazione del lavoro, come il lavoro in team, il lavoro per progetto, il lavoro presso cliente e il lavoro da casa.
2. nel secondo paragrafo vengono analizzate le conseguenze delle nuove pratiche di lavoro e dei nuovi contenuti professionali sui mercati del lavoro interni ed esterni alle imprese, con particolare riferimento alla nuova flessibilità spazio-temporale, al cambiamento dei modelli di carriera, alla nascita di comunità professionali via-web, alla propensione per il lavoro free-lance. Viene anche osservato l’impatto delle nuove pratiche di lavoro sulla vita privata dei lavoratori.
3. nel terzo paragrafo, vengono invece valutate le implicazioni delle nuove pratiche di lavoro per la regolazione del lavoro e per la rappresentanza degli interessi, nella misura in cui le forme e le regole tradizionali del rapporto di impiego – lavoro subordinato, impiego a vita, controllo sulla base della presenza, etc. – e i modelli di rappresentanza tradizionali (sindacati industriali) sembrano non più in grado di regolare e rappresentare efficacemente il nuovo lavoro.
1. Pratiche di lavoro emergenti nelle professioni ICT Per quanto con differenze anche significative tra i diversi sottosettori (servizi informatici, editoria multimediale, web, etc.) e tra le diverse professioni (analisti di sistemi, sviluppatori di software, gestori di sistemi di telecomunicazioni e di reti, consulenti ERP, web designer, infografici, esperti di contenuti, etc.), dagli studi di caso e dalle osservazioni partecipanti che sono
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stati condotti durante la ricerca è stato possibile evidenziare la presenza di alcune pratiche di lavoro ricorrenti. Ci concentreremo in particolare su due aspetti del cambiamento organizzativo che riguarda il lavoro: il lavoro in team e il lavoro su progetto. Si tratta nuove modalità micro-organizzative non necessariamente diffuse a tutti i lavoratori del settore e in parte presenti anche in attività di lavoro al di fuori di questo settore ma che in queste professioni sembrano aver trovato un loro specifico consolidamento. Tanto che ne restano influenzati, oltre che i modi di lavorare, anche gli stili di vita, fino a cambiare un po’ l’antropologia della quotidianità dei lavoratori. Ci interessa non solo descrivere queste nuove pratiche per come sono utilizzate nel settore ma anche, a partire da un approccio interazionista (Barley 1996), fare emergere come queste sono il frutto di una costruzione sociale – e in questo senso si tratta di pratiche continuamente plasmabili – prodotta attraverso una interazione che coinvolge tecnologia, organizzazione d’impresa e mercati dei prodotti e del lavoro da un lato e, dall’altro, le azioni dei soggetti e le culture professionali, organizzative e anche di genere.
Lavoro in team e in network Il lavoro di squadra è come noto diffuso in molti ambienti lavorativi e anche nel lavoro operaio. Sappiamo che è incoraggiato specialmente all’interno di organizzazioni snelle e decentrate che propendono per linee gerarchiche brevi, come sono spesso le aziende che fanno consulenza informatica e sviluppo software e ancora di più le aziende multimediali, i service editoriali o le piccole web company. Il lavoro in team, a sua volta, induce nuove modalità di leadership, con il passaggio dalla figura del classico “supervisore” a quella meno gerarchica del coordinatore o del “coach” e promuove relazioni tra colleghi e capo abbastanza informali che danno luogo a ampie deleghe nella modalità di organizzare il lavoro (Capelli, Kochan 1997). Non c’è dubbio che questi aspetti attraenti del nuovo modo di lavorare siano stati qualche volta sovra-enfatizzati dalle aziende del settore, ben decise a costruire una immagine di sé democratica, evoluta e accogliente nei confronti dei dipendenti anche servendosi di quelli che Gideon Kunda (1992) chiama “accattivanti rituali di presentazione” e che Richard Sennet (1998), per il continui riferimenti alla “partita”, all’”allenatore”, alle “regole del gioco”, ha denominato “ambigue metafore sportive”. E’ possibile che qualche volta sia data da parte delle imprese più importanza agli aspetti simbolici e alle “recite” delle relazioni cooperative e dell’uguaglianza, piuttosto che alla sostanza e alla funzione di tali relazioni tra i lavoratori. Tuttavia, resta il fatto che nel lavoro di gruppo le relazioni gerarchiche tendono davvero a sfumare, l’autonomia personale nella gestione del propria parte di lavoro aumenta mentre, nel moltiplicarsi delle interdipendenze, una certa dose di cooperazione diventa inevitabile. Non a caso è stato osservato che, quanto meno nella sua applicazione più autentica, il lavoro di gruppo ha una profonda potenzialità innovatrice, in quanto “sovverte le regole tradizionali dell’etica del lavoro descritta da Max Weber
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contrapponendo alla ricerca della dimostrazione del valore personale, la valorizzazione della collaborazione reciproca” (Sennet 1998). In modo più specifico, nel settore ICT la diffusione del lavoro in squadra è dovuta al fatto che qui generalmente ogni prodotto nasce dalla interazione di più addetti, ciascuno dei quali porta una competenza specifica oppure, all’interno della medesima competenza, contribuisce alla realizzazione di un segmento specifico del prodotto finale. Come infatti è stato sottolineato, nelle attività dove si produce conoscenza il lavoro si può realizzare meglio tramite la collaborazione orizzontale di più persone o gruppi differenti piuttosto che attraverso la tradizionale catena del comando (Barley 1996). Lavorare in squadra influisce in molti modi sulle relazioni professionali e sugli stili di lavoro: per esempio, abbiamo osservato che l’informalità delle relazioni che si crea nel lavoro di squadra induce una generale tolleranza dei modi di lavoro e delle esigenze personali e in generale finisce per generare un nuovo stile di vita di lavoro, che va dal vestirsi in modo casuale al chiamarsi tutti per nome, dall’andare a bere un aperitivo insieme al termine della giornata fino alla possibilità di regolare autonomamente la presenza al lavoro con gli impegni personali. Inoltre, visto che le riunioni di gruppo si tengono solo di tanto in tanto, nell’intervallo tra una riunione e l’altra ognuno si organizza da solo: in questo contesto, arrivare tardi in ufficio è solitamente accettato (anche perché nelle il numero di ore lavorate è generalmente superiore alla media degli altri settori), purché alla fine il lavoro venga eseguito in tempo. Il team, inoltre, può diventare una sorta di unità autonoma nel mercato del lavoro. Infatti, in mercati dove la mobilità tra aziende è uno strumento importante per lo sviluppo professionale succede non raramente che un capo-progetto muovendosi verso un’altra azienda si porti con sé il gruppo dei collaboratori (o parte di questo) e diventi il negoziatore delle remunerazioni e delle condizioni di lavoro per conto di ciascuno. Questo fenomeno ricorda non troppo alla lontana l’esperienza del “subcontracting” da parte dei lavoratori di mestiere all’inizio dell’economia industriale, in questo modo confermando che non pochi dei caratteri dell’economia post-industriale più che rapporti di produzione radicalmente nuovi possono essere considerati “riedizioni” di vecchi modi di lavorare precedenti al fordismo. Un aspetto del team-work specifico del settore ICT è il fatto che in questo settore le squadre lavorano generalmente in rete: si tratta infatti di team coordinati che comunicano via intranet e/o Internet (quindi non solo all’interno della singola organizzazione ma a volte anche attraverso le organizzazioni). In questo caso si parla più propriamente di lavoro in network. Forme di networking sono molto diffuse soprattutto nelle professioni della produzione multimediale e web ma anche, seppure in misura minore, nelle più “vecchie” comunità professionali degli informatici. Il lavoro in comunità di rete costituisce ormai una modalità diffusa sia per mantenere il collegamento tra i diversi gruppi all’interno di una azienda, sia per mantenere il collegamento col cliente, sia anche per consentire ai professionisti delle diverse expertise che appartengono a ciascun gruppo (su questo tipo di progetti, infatti, operano
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generalmente squadre miste, in cui sono presenti tecnologi, creativi, progettisti delle architetture, addetti ai clienti) di dialogare in modo continuo con la propria comunità professionale di riferimento. Le comunità professionali in rete (web communities) – su cui torneremo più avanti - diventano così uno dei nuovi baricentri della economia della conoscenza (Micelli 2000).
Lavoro per progetto (e presso cliente) Accanto al lavoro di squadra, il modello del lavoro per progetto resta il riferimento organizzativo e di mercato più importante per i professionisti delle ICT. Il progetto costituisce allo stesso tempo il “prodotto” che va al cliente e la “modalità organizzativa” con cui esso viene realizzato. Nel settore ICT spesso i progetti sono molto lunghi e il loro termine qualche volta coincide con la mobilità dei professionisti da un’azienda all’altra. L’aspetto più significativo del lavoro per progetto è che esso scardina i tradizionali riferimenti temporali del lavoro: l’apposizione della “scadenza” si sostituisce infatti al “cartellino”, delimitando un tempo più ampio e flessibile di quello previsto dal tradizionale orario giornaliero e settimanale. Si assiste così al passaggio dai tempi “precisi” della produzione fordista (Micelli 2000) a tempi di produzione ancora indefiniti e plasmabili soggettivamente che, se per il momento costituiscono contenitori di orari di lavoro tendenzialmente più lunghi, sono potenzialmente ancora tutti da costruire socialmente. Proiettata nel medio-lungo periodo (mesi e anni) questo modalità di organizzazione del tempo di lavoro lascia intravedere il disegno di un andamento ciclico, con periodi più o meno lunghi in cui si avvicendano una maggiore e una minore intensità di lavoro o il riposo (Boulin 2001). Si può quindi ritenere che, pur accompagnato dalla rigidità delle scadenze (e, non di rado da carichi di lavoro più pressanti) il lavoro per progetto aumenti lo spazio per adattamenti personali nella gestione dei tempi di vita, per quanto non sempre strettamente legati alla quotidianità, ma piuttosto riferite a basi temporali più lunghe o anche all’intero corso di vita. Allo stesso tempo, il lavoro per progetto sovverte il sistema del controllo del lavoro, che passa dall’essere basato sul tempo di presenza al lavoro ad essere basato sul risultato del lavoro (o, più realisticamente, ad un mix dei due). Non solo. Il lavoro per progetto è diventato nel corso del tempo anche la base di riferimento per il rapporto di impiego (o di collaborazione) che si instaura tra impresa e professionista: questo è infatti è messo “in carico al progetto” (se lavoratore dipendente) o “arruolato per il tempo del progetto” (se free-lance) e poi ritorna a disposizione dell’azienda o sul mercato del lavoro. In questo senso si può ritenere che questo modello organizzativo costituisca una delle ragioni, in molti paesi europei, della attuale destrutturazione del mercato del lavoro tradizionale, della diffusione di contratti di lavoro temporanei e dell’aumento dei lavoratori autonomi (nel caso italiano, non casualmente la gran parte delle collaborazioni free-lance ricadono nella forma “contratti a progetto”, prevista dalla Legge 30/03) e dell’aumento del numero delle micro-imprese nel terziario avanzato.
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Nei grandi progetti curati da aziende di servizi di consulenza del settore succede spesso che alcuni dei professionisti lavorino direttamente presso il cliente, per periodi più o meno lunghi. Molto spesso infatti il lavoro del professionista ICT consiste nell’adattamento di prodotti software alle specifiche esigenze del cliente oppure nella realizzazione di prodotti espressamente dedicati alla azienda cliente (come per esempio un sito web). In queste attività il cliente occupa un posto di primo piano ed interpretarne e realizzarne i desideri costituisce l’obiettivo centrale del lavoro del consulente. Tuttavia, dislocarsi per la durata del progetto (che a volte è lunga mesi o anni) presso la sede del cliente, come è spesso richiesto per realizzare il progetto, e andare incontro alle sue esigenze e ai ritmi della sua organizzazione spesso si traduce in trasferte ed in orari molto lunghi per i professionisti. Quando il tempo passato fuori dalla propria azienda diventa prevalente e il rientro in azienda avviene solo periodicamente, si può parlare di “lavoratori mobili”, sottoposti a forme di controllo e a condizioni di lavoro per certi aspetti non dissimili da quelle dei tele-lavoratori: dotazioni diverse di connessione telematica con l’azienda, obbligo di tenere report sui lavori svolti, prestazioni valutate in base ai risultati. Come formula di organizzazione del lavoro, il lavoro presso cliente rende visibile quel superamento dei confini aziendali che caratterizza in maniera maggiore o minore tutte le attività del settore ICT, la “open company” di cui parla anche Manuel Castells (2002) e che va di pari passo con la crescente despazializzazione del lavoro. Il lavoro presso cliente – soprattutto quando prende la forma di “body rental” (vendita al cliente di giornate-uomo da parte dell’impresa ICT) - conferma quanto già osservato sopra, ovvero che i mercati del lavoro di queste professioni hanno strutture molto articolate e rispondono a dinamiche particolarmente complesse: questo si vede dal fatto che a volte i lavoratori interessati sono soggetti alle stesse regole (per esempio, l’orario di lavoro) dei dipendenti dell’azienda-cliente o dal fatto che può succedere che al termine del progetto il consulente venga assunto dalla stessa azienda-cliente per gestire il funzionamento dei prodotti realizzati o per implementarne di nuovi.
2. L’impatto sul mercato del lavoro L’importanza dei cambiamenti economici e sociali che si stanno registrando nel passaggio all’economia della conoscenza e le loro decisive implicazioni sulla struttura del mercato del lavoro hanno condotto qualche volta ad interpretazioni piuttosto schematiche e “polarizzate” a proposito dell’impatto che i nuovi modi di lavorare avrebbero sulle condizioni dei lavoratori e sulla regolazione del mercato del lavoro. Non a caso, una buona parte degli studi insistono sugli aspetti negativi del cambiamento ed in particolare sulla diffusione di lavoratori con status occupazionali non-standard, meno tutelati dal punto di vista del reddito e delle garanzie di impiego (lavoratori part-time,
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lavoratori autonomi, contingent workers1, telelavoratori a domicilio) e tendono a sottolineare come il passaggio alla società post-industriale si stia realizzando tramite l’aumento della precarietà del lavoro, dello stress e dell’esclusione sociale (Bechmann et. al. 2001, Gallino 2001). Tra questi, alcuni rilevano con preoccupazione le conseguenze negative specifiche su alcuni gruppi occupazionali “deboli”, come le donne (Smith 1993, Webster 1996). Altri studi al contrario evidenziano la positività, o le potenzialità, delle nuove forme flessibili di lavoro e sostengono che la delega delle responsabilità, il coinvolgimento dei lavoratori, il continuo sviluppo delle conoscenze favoriti dai nuovi modi di lavorare migliorano produzione e servizi (Kanter 1989) ma anche la partecipazione e le relazioni di lavoro (Osterman 1994). In altri casi ancora viene sottolineato come l’introduzione di nuove forme di lavoro – e specialmente del lavoro di squadra – sia positivamente correlata con imprese “employee-friendly” ovvero attente al benessere dei dipendenti e delle loro famiglie (Capelli et. Al. 1997, Leoni et al.2001). Facendo particolare riferimento al settore ICT, una delle ricerche sul campo più note - l’indagine etnografica condotta ormai quasi quindici anni fa da Gideon Kunda (1992, 2000) sugli ingegneri informatici di una grande corporation americana - ha prodotto interessanti riflessioni sul ruolo delle culture d’impresa nel post-fordismo. Nel caso esaminato, un’impresa high-tech, decisa a gestire meglio i propri knowledge workers, opta per la sostituzione dei vecchi meccanismi di controllo burocratico con un sistema molto più sofisticato, basato sulla costruzione di un cultura aziendale apparentemente ispirata a valori universalmente condivisibili ma il cui obiettivo è in realtà quello di “legare i cuori e le menti dei dipendenti agli interessi aziendali”. Le conclusioni dello studio sono fortemente critiche: secondo l’Autore, benché in questa impresa il sistema delle tutele e dei benefit sia elevato, la cultura aziendale funziona come “un sistema pervasivo, vasto ed esigente, di controllo normativo, fondato sull’uso del potere simbolico” ed è quindi giusto denunciarne le conseguenze sociali, tra cui in particolare “l’invasione della vita privata” (Kunda 2000, p.258 e segg.). A fronte di questo pessimismo sulle prospettive della condizione dei lavoratori della conoscenza, riferito ad un aspetto critico come quello dei sistemi di controllo, va comunque segnalato che altri risultati di ricerca concorrono invece ad evidenziare un quadro di maggiori libertà e opportunità di autodeterminazione per questi lavoratori. Per esempio, la nota indagine periodica americana sui cambiamenti del mercato del lavoro ha rilevato negli ultimi anni la crescita della quota di lavoratori free-lance “che hanno scelto liberamente di esserlo”: si tratta di gruppi di lavoratori di qualifica elevata in larga misura appartenenti proprio all’area della new-economy (Osterman 1999). L’evidenza relativa alla sempre maggiore consistenza di lavoro free-lance volontario sembra dare una prima risposta ad un interrogativo che riguarda la
1 Il termine in uso negli Stati Uniti si riferisce a tutti i lavoratori con contratto a tempo determinato,
interinale, etc. o con rapporti di collaborazione non subordinata, ma non è esattamente traducibile con
“precari” (che ha una connotazione più precisamente negativa).
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crescita generalizzata a tutti i paesi industrializzati di lavoratori con status di impiego differente da quello del tradizionale lavoratore subordinato. A proposito di questo fenomeno tipico del post fordismo infatti restava (e in parte resta) controverso se potesse essere considerato un segnale di miglioramento piuttosto che di peggioramento delle condizioni di lavoro. L’indagine USA conferma almeno per questa fascia di lavoratori l’esistenza di una scelta volontaria e contribuisce anche a descrivere meglio questo nuovo mercato del lavoro: un mercato dove lavoratori della conoscenza free-lance offrono la loro collaborazione ad aziende nelle quali a mercati interni chiusi ed a rigide carriere gerarchiche si sono ormai sostituiti strutture snelle e sistemi di decentramento delle competenze e dove i lavoratori che optano per una mobilità elevata sul mercato del lavoro sono, nonostante ciò, oggetto di accurate strategie di coinvolgimento attraverso progetti di qualità o di job rotation, esattamente come i loro colleghi che hanno un rapporto di lavoro subordinato (Osterman 1999). Conclusioni queste che confermano quanto, su scala più piccola, è stato osservato nel caso dei lavoratori della conoscenza free-lance in Italia (Bologna 1997, Semenza 2000, Magatti 2002). In aggiunta, con la nostra ricerca – che non a caso è basata in larga misura su metodologie di indagine qualitativa, come interviste, storie di vita, osservazioni partecipanti – si è potuto osservare che l’impatto di questi nuovi modi di lavorare sul sistema di regolazione del lavoro non è solo l’esito di nuovi vincoli e di nuove opportunità prodotti congiuntamente dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dalle nuove pratiche di lavoro. Appare con evidenza, infatti, che a determinare una diversa domanda di regolazione del lavoro concorrono in misura eguale (e forse superiore) le stesse caratteristiche dei nuovi soggetti presenti in questi ambiti professionali: la capacità di autodeterminazione che consegue ad una scolarità elevata, il forte sentimento dell’identità professionale prodotto dallo specifico curriculum di studi tecnici, la passione per la tecnologia. Sulla strutturazione delle nuove pratiche lavorative, inoltre, sembrano avere molta influenza alcuni bisogni sociali emergenti come, nel caso delle professioniste, la necessità di rendere coerente l’impegno professionale con le responsabilità della famiglia. E’ dall’interazione tra tutti questi fattori - più che, deterministicamente, da una tecnologia e da una formula organizzativa – che si generano le nuove pratiche di lavoro e tutte le conseguenti modifiche dell’assetto del mercato del lavoro di questo settore. Le novità di questi mercati del lavoro riguardano in particolare:
• lo svincolarsi della prestazione da precisi riferimenti spazio-temporali
• lo strutturarsi di comunità professionali di riferimento
• la tendenza delle carriere ad aprirsi sul mercato esterno
• la tendenza dei lavoratori a preferire, in alcune condizioni, il lavoro free-lance
• il generarsi di sovrapposizioni tra lavoro e vita quotidiana
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L’allentamento dei vincoli di luogo e di orario Abbiamo visto sopra come il lavoro per progetto consenta una parziale autoorganizzazione del ritmo di lavoro sia nella giornata sia all’interno di periodi più lunghi. L’uso del pc e dei collegamenti in rete, inoltre, permette in molti casi di lavorare in tutto o in parte anche da casa. Molto spesso è il lavoratore stesso che opta per questa soluzione, per proprie esigenze come evitare i tempi di pendolarismo o essere più presente rispetto alle proprie incombenze di cura: d’altra parte, già alla fine degli anni novanta ricerche USA segnalavano che nel settore ICT, il telelavoro è tipicamente “employee-driven” (Capelli et al. 1997). In ogni caso, quanto meno l’abitudine di consultare la posta da casa anche durante il week-end oppure di “portare del lavoro da finire a casa” in questi settori è diffusissima. Se a volte il tempo di lavoro si dilata e invade il tempo privato, è certo comunque che queste possibilità di flessibilità lavorativa vengono sfruttate spesso dai lavoratori per migliorare la propria qualità della vita Per questa ragione, si è parlato di “confini che si confondono” (blurring boundaries) tra tempo di lavoro e tempo di vita (Lewis 2003). La reale autonomia spazio-temporale assegnata al singolo professionista è comunque molto variabile e in genere dipende dal suo grado professionale. Tuttavia è indubbio che la flessibilità che viene utilizzata è molto inferiore a quella potenzialmente offerta dalle tecnologie: ciò è dovuto alla difficoltà delle organizzazioni di applicare a livello generalizzato sistemi di coordinamento e controllo adatti al nuovo lavoro immateriale. In particolare, fatica ad emergere una nuova modalità di valutazione della prestazione diversa da quella dell’orario di presenza al lavoro. Non è chiaro quanto queste difficoltà derivino da fattori culturali o sindacali o da entrambi.
Web communities Come abbiamo visto sopra, i team di lavoro nelle attività ICT sono formati da professional di differenti specializzazioni che cooperano nella squadra alla realizzazione del progetto, mantenendo nel contempo un forte legame con il gruppo professionale di appartenenza. Questi gruppi possono essere interni all’azienda o anche caratterizzarsi come più ampie “comunità” di professionisti, trasversali alle aziende, formalizzati da associazioni ma anche informalmente comunicanti tramite Internet. Come in tutte le aree di lavoro caratterizzate da saperi complessi, il gruppo dei pari diventa per i lavoratori un riferimento sia operativo che identitario così forte da superare in molti casi la stessa cultura aziendale come fonte di appartenenza. Nelle professioni ICT, il grado di coesione delle comunità professionali è particolarmente elevato in quanto, a differenza che nella maggior parte delle professioni tradizionali, in queste professioni mantenere riservate le informazioni a propria disposizione non è ritenuto un valore: la condivisione delle conoscenze è infatti spesso l’unica strada praticabile per lavorare efficacemente su programmi e su tools sempre nuovi, spesso imperfetti, di cui è difficile aver sperimentato tutti gli utilizzi possibili. Come è stato detto, in fondo, Internet può essere visto
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contemporaneamente come la causa e la conseguenza di questa forte interdipendenza conoscitiva tra i professionisti ICT (Wagner 1997). Mantenere un rapporto solido con la propria comunità professionale ha un impatto importante sulla dinamica del mercato del lavoro sia interno alle aziende che esterno. A causa della velocità del cambiamento tecnico, infatti, nelle professioni ICT l’aggiornamento e lo sviluppo delle competenze sono cruciali per mantenere il proprio potere di mercato; esse si realizzano prevalentemente sul campo “succhiando” conoscenza dai colleghi di progetto (compresi quelli appartenenti alle specialità contigue), dai clienti e dalla propria comunità di riferimento attraverso la rete. Per questa ragione, il lavoro in network e l’appartenenza ad una comunità professionale si traduce per i lavoratori e le lavoratrici ICT in una potente opportunità di apprendimento continuo e quindi funziona come propulsore di mobilità professionale sia nel senso dello sviluppo verticale, sia nel senso della mobilità orizzontale verso professioni contigue. E’ importante sottolineare che la conoscenza condivisa che viene permessa dall’appartenenza alle comunità di rete fornisce opportunità di apprendimento “despazializzato”, fruibile anche a chi non è in grado di profittare delle occasioni formali di training offerte dalle aziende. Il contatti via rete sono infatti accessibili individualmente, dall’azienda ma anche da casa e da qualsiasi altra parte: quindi sono facili anche per chi per impegni familiari è poco disponibile a frequentare corsi di formazione oppure anche per chi non appartiene ad una azienda, perché è free-lance o disoccupato, e quindi ne sarebbe escluso. Il lavoro in comunità di rete può essere analizzato anche alla luce delle teorie del capitale sociale (Coleman 1988, Pizzorno 1999) (si veda nel box 2, la teoria del capitale sociale applicata alle nuove professioni della conoscenza). In conclusione, la comunità professionale spinge ad un allontanamento del lavoratore dalla cultura e dalle tecnostrutture aziendali (come per esempio dai piani manageriali di formazione e di carriera) e contemporaneamente ne sostiene lo sviluppo delle competenze indipendentemente da queste. Funziona quindi come motore di apertura dei mercati del lavoro aziendali e come elemento di strutturazione di nuovi mercati del lavoro professionali.
Carriere “senza confini” In generale i lavoratori di qualifica elevata godono di mercati del lavoro maggiormente aperti. Il caso delle aziende di produzione di software è emblematico in questo senso: il turnover dei professional qui è infatti particolarmente elevato, anche in ragione del veloce ricambio delle tecnologie e dei software, della necessità delle aziende di attirare risorse che abbiano già esperienza dei nuovi ambienti tecnologici e, dal punto di vista dei lavoratori, a causa del desiderio di acquisire nuove competenze lavorando su prodotti tecnologici sempre diversi e aggiornati e insieme del bisogno di vendere a prezzi crescenti un know-how tanto prezioso quanto volatile.
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Questa tendenza a frequenti passaggi da una azienda all’altra è anche maggiore in altre attività del settore ICT - come l’e-publishing e il web-design - anche a fronte del veloce nascere e morire delle imprese che caratterizza questi settori. L’elevata mobilità interaziendale e la costruzione del proprio sviluppo professionale sul mercato del lavoro esterno - tanto che in queste professioni, la durata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con un singolo imprenditore non è in nessun caso considerata un segno di valore professionale – ha portato a definire le carriere dei lavoratori high-tech come carriere “nomadi” (Cadin 1998) o anche “senza confini” (boundary-less), ovvero caratterizzate da rapporti di lavoro più brevi, deboli legami con l’impresa e che richiedono ai lavoratori di muoversi spesso da un posto di lavoro ad un altro (Arthur, Rousseau 1996). Come abbiamo visto, questa mobilità tra aziende è molto supportata dalla esistenza delle comunità professionali e dall’aiuto che esse forniscono, in questo caso soprattutto sotto forma di occasioni per “farsi conoscere” da altri professionisti ed altre aziende e acquisire quindi nuove opportunità di lavoro: secondo la teoria del capitale sociale, la web community fornirebbe dunque capitale sociale sotto forma di “occasioni per diffondere informazioni sulla propria reputazione professionale” (Pizzorno 1999).
La tendenza verso il lavoro free-lance In alcune condizioni – ampia autonomia nell’erogazione della prestazione, forte identità professionale e legame principale con la comunità professionale di riferimento, elevata mobilità tra un’azienda e l’altra, abitudine al lavoro dislocato presso cliente – il lavoratore high tech tende inevitabilmente a considerarsi un “professionista” e quindi a preferire il lavoro free-lance. Nel caso di alcune specializzazioni – come quasi tutti le professioni del web – la condizione di lavoratore autonomo è dovuta anche al fatto che la singola impresa non è in grado spesso di saturare il potenziale lavorativo del singolo, avendo necessità della sua prestazione solo una-tantum o periodicamente ma per brevi intervalli di tempo. L’insieme di queste ragioni – soggettive ed oggettive - spiega in larga misura l’elevata diffusione del lavoro free-lance nel settore ICT, anche se non va esclusa le recente propensione delle aziende a preferire il lavoro temporaneo (e meno tutelato) per una mera questione di riduzione del costo del lavoro. In Italia, il lavoro free-lance assume spesso la forma della collaborazione (“a partita Iva” o “a progetto”) ma sono diffuse anche le imprese individuali. Com’è noto dal dibattito italiano, il lavoro free-lance pone numerosi problemi di regolazione, finora in larga misura irrisolti e sollecita nuovi modelli di rappresentanza. Fenomeni analoghi di crescita del lavoro autonomo o parasubordinato sono diffusi anche in altri paesi europei e non. In USA, l’ampia crescita del numero dei “contingent workers” nell’area high tech, in larga misura volontari, ha portato alla creazione di una grande associazione professionale, successivamente affiliata al sindacato del settore(si veda nel box 3 il caso dei lavoratori high-tech americani).
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Nuove sovrapposizioni tra lavoro e vita quotidiana Tra gli effetti dei nuovi modi di lavorare che si stanno affermando nel lavoro high tech – e anche più in generale nel lavoro immateriale – ve ne è uno che non riguarda tanto il mercato del lavoro quanto lo stile di vita. La nuova flessibilità spazio-temporale del lavoro ha infatti il potere di indurre/consentire nuove articolazioni della quotidianità e del corso di vita, producendo molteplici sovrapposizioni tra spazi e tempi della vita privata e della vita lavorativa. Lo spazio casalingo finisce in molti casi per confondersi col luogo di lavoro, mentre i confini tra tempo privato e tempo lavorativo tendono a sfumare. Siamo di fronte a cambiamenti culturali importanti che si intrecciano con il problema sociale della conciliazione tra lavoro e responsabilità familiari e con la dimensione di genere nel lavoro (si veda nel box 4 la dimensione di genere nelle professioni ICT). Ma non solo, visto che le nuove abitudini di vita tendono a diffondersi, per contaminazione, anche agli uomini. Queste nuove sovrapposizioni richiedono un adeguamento degli spazi privati e degli spazi aziendali e richiedono un adattamento dei tempi sociali – per esempio, degli orari dei servizi, in direzioni che sono ancora difficili da definire compiutamente.
3. Una domanda di ri-regolazione e di nuova rappresentanza del lavoro Come abbiamo visto, le nuove pratiche di lavoro del settore ICT favoriscono (e contemporaneamente sono favorite da) alcune tendenze oggettive e soggettive del cambiamento economico e sociale: la richiesta e la domanda di maggiore autonomia e responsabilizzazione, la tendenza alla professionalizzazione, la necessità e il piacere di un diverso equilibrio tra lavoro e cura. Queste nuove spinte e significati del lavoro che i professional ICT condividono con altri lavoratori della cosiddetta economia della conoscenza sembrano potersi condensare attorno a due questioni. La prima è quella della perdita della centralità del lavoro e del passaggio dal “lavoro” alle “attività” (Gorz 1992, Dahrendorf 1995, Meda 1996). La seconda è quella della “individualizzazione” in quanto aspetto più evidente del cambiamento sociale che coinvolge il lavoro ma anche l’intera società (Melucci 1994, Paci 2005). Entrambe hanno avuto largo spazio nel dibattito recente sulla necessità di una nuova regolazione del lavoro. E’ stato acutamente fatto notare che i “rischi futuri del lavoro concernono i rapporti mentre i vantaggi concernono i contenuti” per cui si rende necessario rendere la rete di sicurezza dei diritti più estesa ma anche più leggera (Accornero 1997, p.202 e segg.). Sono diversi gli autori che sottolineano come le nuove aspirazioni dei lavoratori necessitano di forme nuove di protezione e organizzazione sociale, da realizzarsi attraverso
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l’estensione e l’integrazione dei diritti del lavoro con nuovi diritti di cittadinanza: un modello nuovo di welfare che sia in grado di aggiungere sicurezza alle nuove situazioni lavorative e tutela a percorsi caratterizzati da discontinuità (Barbier e Nadel 2002, Castel 2004, Paci 2005). Il nuovo modello di regolazione del lavoro non sarebbe più basato sulla stabilità occupazionale ma sulla continuità dello status occupazionale al di là delle diverse occupazioni: dovrebbe dunque tenere conto delle diverse transizioni tra aziende, tra forme di impiego, tra attività di mercato e non di mercato (Supiot 2003). Naturalmente, il dibattito sui cambiamenti nella regolazione del lavoro non trascura di interrogarsi anche sul ruolo del sindacato e sulla opportunità di una sua modernizzazione, dal momento che ancora “continua ad operare dal punto di vista del lavoratore maschio, a tempo pieno e nativo mentre lavoratori delle piccole imprese, donne e lavori intellettuali restano ancora molto sottorappresentati” (Hyman 1994). Ci si interroga dunque su possibili nuovi significati di “solidarietà” (Valkenburg 1995), nonché sulla validità degli strumenti tradizionali del sindacato, in primis la contrattazione collettiva, “strumento perfetto per regolare situazioni lavorative omogenee, stabili, coerenti, ma in difficoltà nell’intervenire su situazioni altamente differenziate” (Cella 1999, p.119) . Tornando alle professioni ICT, come abbiamo visto, le nuove pratiche e i nuovi comportamenti dei lavoratori sul mercato del lavoro investono non solo le strutture, le culture e l’organizzazione delle imprese ma anche le forme stesse del rapporto di impiego e sembrano quindi richiedere:
- regole diverse per il lavoro
- forme diverse di rappresentanza collettiva
- modalità nuove di intervento nel lavoro da parte delle istituzioni. Per quanto riguarda le implicazioni sulle politiche contrattuali e di HRM, per esempio, si può dire che le potenzialità aperte dalla flessibilità spazio-temporale del lavoro sono ancora poco raccolte dalla normative legali e contrattuali oltre che dai sistemi aziendali di coordinamento e di valutazione delle performance. Un aiuto sostanziale potrebbe venire da un orientamento della contrattazione collettiva verso la valutazione dei risultati, almeno in tutte quelle attività in cui il tempo lavorato comincia a non essere più la misura fondamentale della prestazione. Tuttavia, com’è noto, per il momento nelle politiche retributive contrattate dal sindacato il collegamento ai risultati investe solo quote simboliche del salario. La difficoltà a “sdoganare” nuove forme di valutazione della performance si evidenzia anche dal fatto che l’atteggiamento del sindacato rispetto all’introduzione del telelavoro resta tiepido (se non ostile) proprio perchè comporta il passaggio verso sistemi di controllo del lavoro che appaiono meno oggettivi del tempo di presenza al lavoro segnalato dal “cartellino” e fanno quindi temere una ripresa del potere dell’impresa sul lavoro. Né le imprese sembrano particolarmente interessate a sperimentare nuove formule di valutazione su cui confrontarsi col sindacato. Per il
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momento, quindi, dentro le vecchie strutture di controllo organizzativo e contrattuale, la possibilità di scelta autonoma dei lavoratori rispetto al “quando” e al “dove” lavorare resta inevitabilmente molto vincolata, anche nei casi in cui una più ampia libertà di scelta individuale non cambierebbe la qualità e la quantità della performance. E resta così ancora molto frenata anche la possibilità di realizzare un miglior equilibrio tra professione e vita familiare, che pure potrebbe essere molto avvantaggiato dalle nuove tecnologie ICT e dalla diffusione del lavoro per progetti. Forse è questa una delle ragioni per cui in queste attività (e in tutte le attività dell’economia della conoscenza) le donne tendono spesso ad uscire dal lavoro dipendente e a cercare maggiore autonomia – ma anche a trovare più precarietà – nel lavoro autonomo: il fallimento della contrattazione collettiva in questi ambiti appare particolarmente cocente. Analogamente, la crescita della mobilità esterna nelle carriere dei professional ICT – motivata, come abbiamo, visto da esigenze di apprendimento continuo che non trovano risposta nella singola azienda – non appare affatto aiutata dalla contrattazione: sono poche e disorganizzate le opportunità formative che vengono messe a disposizione (specie se si scelgono percorsi di aggiornamento individuali) e quasi nulle le possibilità di congedi formativi e anni sabbatici. E’ spesso scarsa anche l’offerta di formazione aziendale: scarsità solo in parte giustificata dal rischio che comporta un investimento formativo su personale caratterizzato da un turn-over elevato. Se ne deduce che i costi dell’aggiornamento continuo, della mobilità aziendale trainata da esigenze di sviluppo professionale, delle transizioni tra lavoro dipendente e lavoro autonomo che caratterizzano queste professioni ricadono per il momento quasi completamente sui lavoratori.
E’ del tutto aperta anche la questione della rappresentanza collettiva. Per molti
aspetti i lavori della “new economy” non sembrano così diversi da quelli
della “old economy”, almeno per quanto riguarda i bisogni di
rappresentanza e di tutela nei luoghi di lavoro ma spesso il sindacato non è
in grado o non è incline a raccogliere questi bisogni, in ragione del
significativo potere di mercato, della forte mobilità e del più spiccato
individualismo che a volte caratterizzano questi lavoratori. Un aspetto
cruciale della domanda di rappresentanza deriva dal fatto che, in queste
attività, il principio della lealtà al datore di lavoro si è progressivamente
sostituito con quello dell’appartenenza al gruppo professionale: il fatto che le nuove identità lavorative si riconoscano più nei sistemi di competenze professionali che nelle culture dei luoghi di lavoro, non trova sufficiente risposta nei sindacati industriali tradizionali, specialmente nel caso italiano organizzati per categorie piuttosto che per professioni (nel mondo angolosassone, al contrario, i sindacati forniscono tradizionalmente supporto formativo e altri servizi di governo del mercato del lavoro, insieme alla tutela contrattuale nei luoghi di lavoro). D’altra parte, per ora nel nostro paese, non sembrano verificarsi neppure spinte verso forme di associazionismo
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professionale “di tutela” - diverso quindi dalla web-community che resta soprattutto un riferimento in termini di know-how - come è successo a partire dagli anni 90 in altri paesi (vedi sopra il caso dei lavoratori ICT in USA). E’ problematica anche la situazione di quei lavoratori ICT che scelgono il lavoro free-lance: non solo finiscono fuori dell’ombrello del contratto collettivo di categoria, ma trovano poche risposte anche nelle nuove forme di organizzazione ideate dai sindacati per gli “atipici”, non fosse altro che per la forte connotazione di associazioni di lavoratori precari che queste hanno assunto, per lo meno in Italia (si vedano Nidil Cgil o Alai Cisl). Si segnala comunque, l’avvio di recente di qualche forma di auto-organizzazione dei lavoratori free-lance del terziario avanzato anche in Italia, basata su comuni interessi di tutela fiscale e previdenziale (per esempio, l’esperienza dell’associazione ACTA). Quanto all’intervento delle istituzioni, sotto la forma di politiche di welfare, due aspetti delle esperienze lavorative dei professional ICT sembrano particolarmente interrogare le istituzioni. Da un lato, il continuo rinnovarsi delle tecnologie e la veloce obsolescenza delle competenze comportano uno sforzo di aggiornamento professionale - e quindi di rafforzamento della employability - che attualmente è quasi totalmente a carico dei singoli, mentre potrebbe essere sostenuto attraverso qualche forma di intervento pubblico (per esempio, voucher formativi da spendere in relazione a strategie anche individuali di aggiornamento). Dall’altro, la mobilità interaziendale particolarmente vivace, i periodi di non lavoro che sono collegati ai frequenti passaggi dal lavoro dipendente al lavoro free-lance (e, a volte, all’imprenditoria) e anche i periodi di congedo dovuti alla maternità/paternità e alle responsabilità di cura, disegnano in queste professioni un quadro di discontinuità lavorativa che attualmente, lungi dal valorizzarne la carriera -come potrebbe essere - appare penalizzante per i lavoratori. Anch’esso sembra richiedere qualche intervento pubblico, sotto forma di sostegno del reddito per i periodi non lavorati, di piani pensionistici meno gravosi, di allargamento ai lavoratori autonomi delle coperture previdenziali dei lavoratori dipendenti. In generale, alla luce della situazione concreta del settore, sembra esserci ancora molto da fare per regolare e tutelare le nuove pratiche di lavoro nell’economia della conoscenza.
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19
BOX 1
La ricerca europea WWW.ICT L’articolo prende punto dai risultati di una ampia ricerca svolta in sette paesi europei (Widening Women Work in ICT), che ha analizzato le nuove professioni nei settori dell’Information & Communication Technology – con particolare riferimento alle attività qualificate nell’informatica, nell’editoria multimediale e nel web – e ha evidenziato i profondi cambiamenti della organizzazione del lavoro, delle relazioni di lavoro e della dimensione di genere nel lavoro post industriale. Attraverso l’analisi di 28 aziende medio-grandi e raccogliendo le storie di vita e di carriera di 140 professional in sette paesi europei (Austria, Belgio, Francia, Irlanda, Italia, Portogallo, Regno Unito), la ricerca ha ricostruito alcuni nuovi modi di lavorare – lavoro per progetto, lavoro in team, lavoro da casa, lavoro in comunità di rete, lavoro free-lance - che caratterizzano le attività della new economy e ha riflettuto sull’influenza che questi hanno sulla carriera e sulla vita quotidiana delle persone, sottolineando la potenzialità positiva del cambiamento (anche testimoniata dall’emergere di nuovi modelli, spesso di successo, di partecipazione al lavoro delle donne diplomate e laureate).
BOX 2
La teoria del capitale sociale applicata alle nuove professioni della conoscenza Al funzionamento sul mercato del lavoro delle professioni ICT possono
essere applicate le teorie del capitale sociale: in base a queste si può
spiegare la relazione positiva che esiste tra alcune formule organizzative
diffuse nelle professioni ICT – il lavoro in network e l’a ppartenenza ad una
web-community – e alcuni vantaggi di posizione e di controllo del mercato
del lavoro che beneficiano i professionisti.
L’osservazione empirica infatti evidenzia come la carriera nel settore ICT
sia basata sullo sviluppo del capitale intellettuale dei lavoratori e come
quest’ultimo sia strettamente dipendente dall’apprendimento nel lavoro e
dalla mobilità interna ed esterna. Osservati alla luce delle teorie del capitale
sociale, sia il lavoro in network che l’appartenenza ad una web-community
sembrano in grado di fornire relazioni utilizzabili in due diverse direzioni:
- da un lato per acquisire nuove conoscenze e competenze professionali,
- dall’altro, per diffondere – nelle propria comunità professionale o
nell’intera rete - informazioni sulla propria reputazione.
In entrambi i casi si tratta di ciò che Pizzorno (1999) chiama “capitale di
reciprocità”, in quanto scambi, passaggi di aiuti e informazioni che possono
avvenire anche all’interno di gruppi cosiddetti “a legami deboli”
(Granovetter 1998).
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BOX 3
Il caso della Washington Alliance of Technology Workers E’ vivace negli USA il dibattito se il sindacato sia in grado di rappresentare
i lavoratori “mobili” (self employed e/o contingent worker), ovvero quei
lavoratori che non si aspettano un rapporto di lunga durata con un solo
imprenditore nel corso della loro carriera. Proprio nel settore high-tech
americano, e in particolare in Microsoft (dove, al 2000, circa il 35% dei
lavoratori di qualifica elevata ha un rapporto da “contractor”) si è
verificata una esperienza specifica che mette in luce una strada possibile
per la rappresentanza dei lavoratori ICT, che può essere utile anche per
riflettere sul caso italiano.
Nel 1998, i collaboratori high-skilled di Microsoft – che in genere hanno
rapporti di lunga durata ma sono costretti dalle autorità fiscali a far capo ad
agenzie di lavoro temporaneo – si sono organizzati in una associazione
professionale, la Washington Alliance of Technology Workers, allo scopo di
sia di migliorare le loro condizioni di lavoro. La Wash Tech si è strutturata
per rappresentare gli associati in base alla loro identità professionale
piuttosto che allo specifico contratto di impiego: la sua rappresentanza è
basata prevalentemente sulla necessità di dare risposta alle condizioni di
instabilità di impiego e di alta mobilità di questi lavoratori, che si esercita
attraverso l’offerta di convenzioni a tariffe ribassate con le agenzie di
impiego, di benefit sanitari, di servizi legali e di aggiornamento
professionale di qualità. Per organizzare meglio questi servizi anche a
livello nazionale, Wash Tech si è successivamente affiliata al sindacato
americano delle telecomunicazioni (Communication Workers of America),
diventando Wash Tech CWA.
BOX 4
Donne e professioni ICT in Italia La ricerca WWW.ICT ha avuto l’inatteso risultato di evidenziare come alcuni pattern organizzativi tipici delle professioni ICT bene si adattino alle modalità con cui tradizionalmente le donne – in funzione della loro “doppia presenza” - partecipano al mercato del lavoro. Va innanzitutto premesso che, benché le statistiche europee denuncino un certo gap occupazionale delle donne nel settore ICT, la composizione per sesso degli occupati di qualifica elevata impiegati in queste professioni in Italia vede una presenza femminile superiore a quella media del mercato del lavoro (da attribuirsi al fatto che in Italia la partecipazione al lavoro delle donne è mediamente bassa ma concentrata nelle qualifiche superiori) mentre, almeno in alcune parti del paese, è in aumento “visibile” la femminilizzazione di alcune professioni ICT come il software developer, il web-designer, il giornalista on-line, etc.. Senza trarre conclusioni definitive, sembra si possa affermare che alcune modalità organizzative consentite dalle nuove tecnologie - come il
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lavoro mobile o da casa (o comunque gestito in relativa autonomia) e il lavoro in network – o mutuate dal lavoro professionale – come il lavoro per progetti-obiettivi o il lavoro free-lance - si possano adattare ad alcune caratteristiche del lavoro femminile: esigenza di flessibilità spazio-temporale, discontinuità dell’investimento nella carriera, ciclicità nella presenza sul mercato del lavoro.
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Abstract
Il fuoco dell’articolo è sul rapporto tra cambiamento organizzativo e cambiamenti nella regolazione del lavoro nelle professioni ICT. L’analisi dei cambiamenti del lavoro indotti dalle ICT si è spesso intrecciata e sovrapposta a quella sul tema delle nuove flessibilità del lavoro: vi è infatti una diffusa percezione che le nuove tecnologie informatiche e soprattutto le nuove forme di comunicazione – che si adattano particolarmente ad attività immateriali, decentrate e ad alto contenuto di conoscenza - generino da un lato nuove possibilità e “libertà”, dall’altro maggiore responsabilità e incertezza per i lavoratori. Per meglio comprendere il segno e la reale portata del cambiamento, l’articolo prende innanzitutto dettagliatamente in esame alcune tra le nuove pratiche di lavoro consentite/imposte dalle nuove tecnologie e particolarmente: il lavoro per progetto, il lavoro in network e le web community. Con riferimento alla vasta letteratura organizzativa esistente, vengono poi analizzate le effettive conseguenze delle nuove pratiche di lavoro sui mercati del lavoro interni ed esterni alle imprese e sulle condizioni di lavoro. A tale proposito si segnalano, da un lato, alcuni aspetti positivi, come il maggiore grado di autonomia spazio-temporale permesso dal lavorare per progetti o come il sostegno alla strutturazione e al mantenimento delle competenze fornito dai network professionali e dalle web community. Dall’altro, si evidenziano alcuni cambiamenti il cui segno appare al momento ancora incerto: tra questi, la tendenza delle carriere ad aprirsi sul mercato esterno, la crescente propensione al lavoro free-lance, il generarsi di sovrapposizioni tra lavoro e vita quotidiana. Infine, anche alla luce della recente letteratura sociologica sulle prospettive del lavoro nel post-fordismo, vengono valutate le implicazioni delle nuove pratiche di lavoro per la regolazione del lavoro e per la rappresentanza collettiva degli interessi nei nuovi contesti, dove le forme e le regole tradizionali del rapporto di impiego – lavoro subordinato, impiego a vita, controllo sulla base della presenza – e i modelli di rappresentanza tradizionali (sindacati industriali), sembrano non più in grado di regolare e rappresentare efficacemente il lavoro. Note sull’autrice
Anna M. Ponzellini è ricercatrice presso la Fondazione Seveso, docente di
Relazioni industriali all’Università di Bergamo, consulente aziendale in
gestione delle risorse umane. Si occupa da tempo di organizzazione del
lavoro, orario di lavoro, nuove tecnologie e qualità della vita. Su questi temi
ha pubblicato alcuni volumi e diversi articoli. Recentemente ha curato per
Edizioni Lavoro il volume Quando si lavora con le tecnologie. Donne e
uomini nelle professioni dell’Information & Communication Technology
(2006).
Note
1
Governare il nuovo lavoro. Sindacato e mercato
del lavoro nel settore dei servizi
Anna M. Ponzellini
Testo uscito in G.P. Cella e G. Provasi (a cura di), Lavoro, sindaca-to e partecipazione. Testi in onore di Guido Baglioni, Angeli, Mila-no, 2001
Introduzione
Lo sviluppo del settore dei servizi e la nascita della cosiddetta società “po-
stindustriale” vengono associati da molti studiosi alla crisi del modello tra-
dizionale di regolazione sociale e di relazioni di lavoro, nato nell’impresa
manifatturiera e largamente basato sul lavoratore standard (maschio capo-
famiglia, con impiego a tempo pieno e a vita). Questo modello, infatti, si
rivelerebbe inadeguato a regolare il mercato del lavoro dei servizi, caratte-
rizzato da grande frammentazione delle imprese, elevata incidenza di attivi-
tà a bassa produttività e da forza lavoro molto diversificata dal punto di vi-
sta dell’età, del sesso, della qualifica professionale, degli interessi e degli
stili di vita.
Non solo. L’impatto sociale dell’economia dei servizi – e quindi la sua re-
golazione - appare legata in parte anche ad altri fattori. Daniel Bell (1973),
quasi trent’anni fa, sottolineava alcune specificità della produzione dei ser-
vizi che appaiono ancora oggi decisive: l’elevato interesse sociale di molti
servizi, l’interattività tra prestatore e l’utente, la centralità delle conoscen-
ze. Altri autori hanno posto l’accento soprattutto sulla “immaterialità” del
servizio e, in molti casi, sulla simultaneità produzione-consumo, da cui di-
scende l’impossibilità di fare scorte e quindi l’elevata flessibilità richiesta
al lavoro (Martinelli, Gadrey 2000). I servizi appaiono inoltre “luogo di
crescente interdipendenza tra produzione e riproduzione della forza-lavoro
Note
2
e anche della società nel suo insieme” (Dolvik 2001). Ciò significa che
l’economia dei servizi – le sue dimensioni, le sue specializzazioni - sono
strettamente legate all’economia familiare e al regime di welfare di una de-
terminata società. In particolare, al ruolo della famiglia, in quanto dalle
scelte delle famiglie nell’alternativa tra consumo ed autoproduzione – e
dalle correlate strategie di occupazione dei suoi membri - dipende se e in
che direzione l’occupazione aumenterà (Esping Andersen 2000). E, natu-
ralmente, ciò mette in evidenza lo stretto legame tra tasso di attività fem-
minile e andamenti sia della offerta di lavoro nei servizi sia della domanda
di servizi di cura.
La specificità del lavoro terziario porta a declinare in nuovi modi i sistemi
organizzativi aziendali, a valorizzare capacità diverse rispetto a quelle svi-
luppate nel lavoro industriale, a privilegiare nuovi lavoratori e nuove moda-
lità di lavoro. Il passaggio dal lavoro industriale al lavoro nei servizi com-
porta dunque cambiamenti che possono influenzare il sistema di rappresen-
tanza degli interessi, le relazioni di lavoro, la partecipazione delle donne al
mercato del lavoro e la stessa stratificazione sociale della società post-
industriale. E il grado di sviluppo raggiunto dal settore dei servizi e il peso
che occupa nell’economia di un paese chiamano in causa la cultura, le isti-
tuzioni e l’intera organizzazione della società.
A partire da una ricerca transnazionale sull’impatto della economia post-
industriale sulle prospettive dell’occupazione e delle relazioni di lavoro,1
recentemente pubblicata (Dolvik 2001), questo lavoro cerca di descrivere le
principali tendenze del lavoro e della regolazione sociale del settore dei
servizi nel contesto della progressiva terziarizzazione dell’economia italia-
na. E tenta di delinearne le implicazioni per gli attori sociali ed in particola-
re per il sindacato.
Le tesi sulla sottoterziarizzazione
1J.E. Dolvik (eds) (2001), “At your service: Comparative Perspectives on Employment and
Labour Relations in the European Service Sectors”, PIE Lang/European University Press,
London.
Note
3
Nonostante il continuo sviluppo degli ultimi anni, l’occupazione nel settore
dei servizi in Italia non ha ancora raggiunto le dimensioni di quelli dei
maggiori paesi europei2 (ad esclusione della Germania) e anche la sua cre-
scita nel corso degli anni novanta è stata più lenta che nel resto d’Europa
(0cse 1999). In uno scenario in cui le prospettive di crescita occupazionale
sono attese interamente dal settore dei servizi, il modesto tasso di sviluppo
registrato dal nostro paese stimola approfondimenti e riflessioni.
Com’è noto, nel dibattito in merito al rapporto tra crescita dell’occupazione
e flessibilità del mercato del lavoro, l’Italia – con Germania e Francia –
viene assegnata all’area del cosiddetto “modello continentale”, quello che
agli occhi dell’Ocse (1994)3 è stato indicato come un modello economico il
cui sviluppo sarebbe frenato a causa delle elevate protezioni esistenti sul
mercato del lavoro (in contrapposizione col modello anglosassone – Usa e
Regno Unito – di matrice liberista).
Una seconda tesi, che ha punti di contatto con la precedente, sostiene che in
Italia lo scarso sviluppo del settore dei servizi sarebbe influenzato dalla
presenza di un modello sociale che combina il ruolo sociale della famiglia
con un particolare regime di welfare. Basato sulla centralità sociale ed eco-
nomica della famiglia e sulla correlata bassa partecipazione delle donne (e
dei giovani) al lavoro il primo. Basato, di conseguenza, sui trasferimenti al
capofamiglia (pensioni, cassa integrazione, etc.) piuttosto che sui servizi
alle famiglie il secondo. Ciò sarebbe la ragione della scarsa domanda, in
Italia, di servizi socio-assistenziali (pubblici e privati) e, contemporanea-
mente, della scarsa offerta di lavoro femminile. In questo caso, la maggiore
distanza in Europa si registrerebbe tra “paesi mediterranei” e i “paesi nordi-
ci”. In questi ultimi, infatti, ad una elevata partecipazione delle donne al la-
2 Nel 1997, l’occupazione dei servizi pesava sul totale dell’occupazione italiana per il
61.2.4% (contro il 73.4.% degli Usa, il 71.3% del Regno Unito e della Svezia, il 65.2%
della media europea). I dati si riferiscono alla sola occupazione “civile”, escluse cioè le for-
ze armate. 3 La standardizzazione del modello occupazionale e l'elevata rigidità del mercato del lavoro italiani - in particolare, della regolazione delle assunzioni e dei licenziamenti - sono stati stigmatizzati da Ocse che nel 1994 collocava l'Italia al primo posto nella graduatoria per la "strictness of employment legislation". Più recentemente l’Italia ha perso il suo primato, a seguito dei recenti interventi governativi sulla flessibilizzazione delle entrate, ma resta anco-ra il paese più rigido in termini di uscite (Ocse 1999).
Note
4
voro fa riscontro una ampia incidenza del settore dei servizi sociali:
l’impegno dello stato nelle politiche sociali, in luogo della flessibilità del
mercato del lavoro, sarebbe la ragione del notevole sviluppo del terziario e
di una sostenuta domanda/offerta di impiego, specie femminile (Esping
Andersen 1995).
Entrambe queste tesi sono, ovviamente, discutibili e, soprattutto la prima,
ampiamente discusse. Anche indipendentemente dalle loro possibilità di
verifica per il caso italiano (che comunque più avanti si tenterà di fare),
queste tesi ci suggeriscono l’esistenza di una relazione significativa tra i si-
stemi istituzionali e di regolazione sociale presenti in ciascun paese e le
condizioni di sviluppo dell’occupazione nei servizi. Cosa che è sicuramente
interessante verificare anche al di fuori da un rapporto meccanico di causa
(de primi) ed effetto (sulle seconde): il rapporto può infatti essere anche
utilmente rovesciato e darci conto dell’influenza che può avere la crescita
dell’occupazione di un certo settore – e quindi di un certo mix occupazio-
nale, professionale, di genere, etc. - sul modello sociale di regolazione e
sulle strategie istituzionali.
Liberalizzazioni, privatizzazioni, razionalizzazione economica
del settore4
Per quanto in ritardo rispetto al resto d’Europa, la terziarizzazione
dell’economia italiana è cresciuta ad un buon ritmo fino alla fine degli anni
ottanta, assorbendo gran parte dell’occupazione che si andava riducendo
nel settore manifatturiero. Tuttavia questo processo si è poi rallentato negli
anni novanta, in parte per ragioni congiunturali dovuti alle due crisi che si
sono susseguite nel decennio, in parte per processi a carattere più struttura-
le.
4 I dati riportati in questo paragrafo e nel seguente sono elaborazioni di dati Ocse 1999, Eu-
rostat 1997 e 1998, Istat 1998 e 1999, Employment in Europe 1997, tratti da A.M. Ponzelli-
ni e E.Provenzano (2001) “Italy: The Service Sector – Towards a More Inclusive and Flexi-
ble Labour Market”, in J.E. Dolvik (eds), cit.
Note
5
Essendo questo un settore caratterizzato da una elevatissima eterogenità -
tanto che, per molti aspetti, consideriamo “attività terziarie” tutte quelle che
non sono definibili come attività primarie o attività manifatturiere (e il con-
fine con queste ultime, oltretutto, è spesso labile) – qualsiasi discorso
sull’economia dei servizi va fatto considerando separatamente i diversi sub-
settori.
Il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego motivato dalla necessità di
rientrare dal deficit della spesa pubblica per l’ingresso nello Sme - ma de-
stinato a durare fino al completamento del processo di razionalizzazione
della pubblica amministrazione - ha comportato un’importante ridimensio-
namento dell’occupazione del settore. Analogamente, la ristrutturazione
delle aziende di pubblica utilità (telefonia, trasporti, energia, etc.) che si
preparavano ad affrontare il libero mercato e anche la progressiva fine degli
oligopoli finanziari hanno prodotto forti riduzioni dei posti di lavoro (so-
prattutto nei trasporti). In questo caso, però, almeno in parte destinati ad es-
sere riassorbiti nelle aziende nuove entranti nei settori liberalizzati (ciò che
è già avvenuto, per esempio, nella telefonia).
La liberalizzazione del settore del commercio seguita alla legge Bersani sta
causando, insieme alla scomparsa dal mercato di un larga fetta di imprese
marginali, piccole ed inefficienti, una emorragia di posti di lavoro in un set-
tore il cui peso e la cui produttività sono ben al di sotto della media europea
(Eurostat 1998)5 e ciò ancora prima che si facciano sentire gli effetti
dell’imminente penetrazione delle multinazionali francesi e americane nelle
grande distribuzione. Per quanto riguarda, poi, l’area dei servizi alle fami-
glie e alle persone, è noto il loro bassissimo sviluppo in Italia, dove “fami-
lies largely resist externalisation of their service activities” (Villa 1997). In
molti casi si tratta inoltre di attività ai margini del lavoro regolare, quindi
non rilevate dalle statistiche. Solo i servizi alle imprese sono in continua
crescita, con livelli di produttività allineati con il resto d’Europa.
Complessivamente, come conseguenza ai processi di razionalizzazione in
corso nel settore, in Italia il rapporto tra servizi privati e servizi pubblici
negli ultimi dieci anni si è considerevolmente avvicinato alla situazione
5 Un gap di 10-12 punti percentuali di produttività rispetto a Francia e Finlandia (Eurostat
1998)
Note
6
media europea6. Lo sviluppo occupazionale del settore – che appare mode-
sto nel confronto con la maggioranza dei paesi europei - risulta però ac-
compagnato da una serie di importanti elementi di cambiamento: privatiz-
zazioni aziendali, liberalizzazione dei mercati, razionalizzazione della strut-
tura produttiva con eliminazione delle imprese marginali. Non è escluso,
quindi, che, una volta superate le difficoltà provocate dal cambiamento, si
possa verificare un miglioramento della performance e della domanda di
lavoro. Piuttosto, dal confronto europeo emerge che è la più bassa produtti-
vità – che contraddistingue praticamente tutti i sub-settori ad esclusione dei
servizi alle imprese e delle telecomunicazioni – la vera ragione delle diffi-
coltà che caratterizzano questo settore (Ponzellini, Provenzano 2001).
Femminilizzazione e atipicizzazione: la fine del lavoro standard
Nonostante quasi tre quarti delle lavoratrici italiane si concentri nei servizi,
la loro incidenza sull’occupazione complessiva dei servizi è ancora piutto-
sto bassa se paragonata a quella degli altri paesi europei, dove in media le
donne sono ormai diventate la maggioranza degli occupati (Eurostat
1998)7. Resta comunque significativa l’eterogeneità della distribuzione del-
le risorse femminili nei diversi sub-settori: le donne si concentrano – o me-
glio sono “segregate” - nel turismo, nella sanità, nei servizi sociali e perso-
nali e nella scuola (dove l’Italia ha il più alto tasso di femminilizzazione in
Europa). Rispetto alla media europea la donne sono, invece, particolarmen-
te sottorappresentate nel commercio e nelle assicurazioni. Nel confronto
europeo, anche la presenza di giovani risulta notevolmente sottodimensio-
nata (Eurostat 1998)8.
6 Nel 1997 i servizi non-market (pubblica amministrazione e altri servizi pubblici, tra cui
scuola, sanità e servizi sociali) in Italia impiegano il 43% circa dell’occupazione totale dei
servizi contro una media europea pari al 45% Nel periodo 1990-97, i servizi non-market so-
no stati ridimensionati in Europa dello 0,5% ed in Italia ben del 5,8% degli occupati (Euro-
stat 1998) 7 Il 72% delle lavoratrici italiane lavora nei servizi. Esse rappresentano però solo il 42% de-
gli occupati del settore contro una media europea del 51%. 8 I giovani tra i 15 ed i 29 anni occupati nel settore superano di poco il 20% (ma tra i 15 ed i
24 anni non raggiungono neppure l’8%).
Note
7
Le forme di impiego atipico – nonostante negli ultimi anni rappresenti-
no la stragrande maggioranza degli avviamenti – contano ancora molto poco a livello di stock occupazionali. Nei servizi, tuttavia, appaiono più presenti che nel settore manifatturiero.
Il part time – notoriamente poco diffuso in Italia e fortemente correlato col basso tasso di partecipazione delle donne al lavoro, secondo il mo-dello occupazionale tipico dei paesi mediterranei – ha una incidenza nei servizi doppia rispetto a quella del settore industriale ma che resta co-
munque la più bassa in Europa (Eurostat 1998)9. Risulta soprattutto diffuso
in alcuni dei sub-settori ad elevata femminilizzazione: turismo, servizi alle
persone e grande distribuzione. Analogamente, l’incidenza dei contratti a
tempo determinato – includendo lavoro stagionale, contratti a termine e la-
voro interinale - è tra le più basse in Europa (seconda solo al Belgio) (Eu-
rostat 1998)10, anche se i dati non danno ancora conto degli esiti della nuo-
va legge sul lavoro interinale. Come prevedibile, il subsettore dove i con-
tratti a tempo determinato sono più diffusi è quello del turismo, attività in
larga misura stagionale. Più sorprendentemente, il secondo settore è quello
della scuola, dove in questi ultimi anni sono proliferati contratti a termine
per gli insegnanti.
Flessibilità vecchie e nuove: lavoro nero, lavoro autonomo.
Le statistiche sulla scarsa incidenza dei soggetti e delle forme di impiego
non-standard, sembrerebbero confermare l’inerzia anche nel settore dei ser-
vizi del modello del “male breadwinner-worker” (Bettio e Villa 1996) che
ha a lungo caratterizzato il mercato del lavoro industriale. Un modello di
occupazione che, privilegiando il maschio capo-famiglia deve per forza ap-
poggiarsi su una forma di impiego molto rigida e protetta: come è, appun-
to, il lavoro a tempo pieno, a tempo indeterminato, dotato di elevate garan-
zie legali, contrattuali e previdenziali.
9 Nel 1998 contava per l’8 % nei servizi e per il 4% nel settore manifatturiero, contro rispet-
tivamente il 21.5% e il 6.6% della media europea. 10 Nel 1997, l’incidenza del lavoro a tempo determinato nel settore dei servizi in Italia era
pari all’5.9%, contro una media europea del 10.1%.
Note
8
Se però osserviamo più attentamente la composizione dell’occupazione non
possiamo trascurare la presenza di due fenomeni che fanno da contrappunto
al modello di lavoro standard e danno un’idea affatto diversa della rigidità
del lavoro in questo settore: una quota più elevata della media europea, ed
in costante crescita, di occupati indipendenti e una quota particolarmente
elevata di lavoro irregolare. Entrambi questi fenomeni - benché peculiari
dell’intero mercato del lavoro italiano - sono diffusi da sempre e partico-
larmente radicati nel settore dei servizi.
In effetti, una larga fetta dei lavoratori autonomi italiani lavora nell’area dei
servizi, in particolare nel commercio al dettaglio, nel turismo e nei servizi
alle imprese (Istat 1999): questo pone il nostro paese al secondo posto (do-
po la Grecia) per proporzione di lavoratori indipendenti sul totale degli oc-
cupati dei servizi (Ocse 1999)11, apparentemente confermando la regola ge-
nerale secondo cui più un’economia è avanzata più è bassa la sua propor-
zione di lavoro autonomo. Tuttavia, il fatto che il recente aumento di queste
figure in Italia sia influenzato dallo sviluppo di rapporti di “collaborazione
coordinata continuativa” e che questo tipo di lavoro stia aumentando anche
in diversi altri paesi avanzati, getta una luce diversa sull’incidenza del self-
employment nelle economie post-industriali e ne sottolinea la maggiore
complessità. Da ricerche empiriche (Bologna e Fumagalli 1997, Semenza
2000), risulta che rapporti di questo tipo sono particolarmente diffusi nelle
professioni di alta qualifica – i tipici lavoratori della conoscenza - dei servi-
zi alle imprese, dell’informatica e comunicazione e del settore dei media
(consulenti di direzione, traduttori, giornalisti, professioni
dell’informazione, del web e dello spettacolo) ma anche tra alcune figure di
qualifica modesta come i lavoratori dei call-centre e i fattorini. Per questa
ragione, anche se in generale si può interpretare questa forma di impiego
come un tentativo delle imprese di ridurre il costo del lavoro (evadendo le
leggi sul rapporto di lavoro subordinato e gli oneri sociali collegati), non va
sottovalutato il fatto che lavorare in modo autonomo possa anche rappre-
sentare la scelta, di una delle due parti o di entrambe, in favore di una orga-
nizzazione del lavoro più flessibile e “autoimprenditiva”. In questo senso, è
possibile che il crescente sviluppo del lavoro autonomo nei servizi possa
11 Nel 1998, il 64% dei lavoratori autonomi italiani risultava appartenere al settore dei servi-
zi. Nello stesso anno, la percentuale di lavoratori indipendenti nei servizi in Italia era pari al
24.6%, contro il 14.8% della media europea.
Note
9
essere considerato anziché un retaggio di un mercato del lavoro arretrato,
una modalità interessante per il lavoro futuro.
Anche le stime sull’incidenza del lavoro “nero” evidenziano la sua straor-
dinaria diffusione in Italia in generale (specialmente al Sud) e nei servizi in
particolare: turismo, manutenzioni e servizi alle persone hanno percentuali
di lavoro irregolare variabili tra un sesto e un quinto delle forze lavoro e,
soprattutto, in continua crescita (Istat 1998). Un dato tra tanti sembra parti-
colarmente eloquente: tra il 1992 e il 1997 – in uno dei periodi più proble-
matici per l’economia italiana dei servizi - mentre il lavoro dipendente re-
golare diminuiva di quasi il 6%, il lavoro irregolare nei servizi è cresciuto
di oltre il 9%! (Istat 1998). Poco meno della metà dei lavoratori irregolari
sarebbero immigrati clandestini. Oltre che attività illegale, il lavoro irrego-
lare – che è generalmente, anche se non necessariamente, mal pagato - rap-
presenta una risposta alla bassa produttività strutturale di alcune attività di
servizio: si pensi, per esempio, alla larga diffusione di lavoro nero nell’area
delle collaborazioni domestiche, baby-sitting, assistenza agli anziani ma
anche delle lezioni private, traduzioni, piccole riparazioni, etc.12
La rilevanza - e purtroppo l’aggravarsi - del fenomeno del lavoro nero dan-
no conto dell’esistenza in Italia di un vero e proprio dualismo nel mercato
del lavoro, tra lavoratori regolari e lavoratori irregolari. A ben vedere que-
sto fenomeno – tutt’altro che nuovo nell’esperienza italiana – ha qualche
somiglianza (anche se conseguenze ben più problematiche) con quello del-
la “polarizzazione occupazionale” che recentemente ha cominciato a preoc-
cupare i paesi europei, come effetto della terziarizzazione del lavoro. La
crescente ampiezza dei differenziali salariali – che vede, tra le occupazioni
del terziario, ad un estremo lavoratori molto ben remunerati e all’altro i co-
siddetti working poors - sarebbe proprio uno dei tratti distintivi del mercato
del lavoro europeo dei servizi (Dolvik 2001): in questo caso, però, si tratta
di un dualismo “interno” alla occupazione regolare. In questa forma, per il
momento, sembra invece meno presente in Italia, dove – a giudicare dalle
statistiche ufficiali - i differenziali salariali di qualifica interni al mercato
12 La tesi più nota sulla non incrementabilità della produttività di molte attività di servizio e
sui suoi effetti sui salari – altrimenti nota come la “malattia dei costi” – viene da Baumol
(1967). Per una discussione più completa sulle tesi della produttività nei servizi, si veda
Martinelli e Gadrey (2000).
Note
10
del lavoro regolato risultano ancora piuttosto compatti e dove, inoltre, è sta-
to molto contenuto l’aumento dei lavoratori ad alta qualificazione (dirigen-
ti, tecnici e professional) che è uno dei fenomeni che ha caratterizzato negli
ultimi anni l’occupazione terziaria degli altri paesi europei (CE 1999). In
altre parole, la maggiore compattezza che il mercato del lavoro italiano dei
servizi manifesta nel confronto con gli altri paesi europei, potrebbe essere
solo uno specchietto per le allodole, essendo i picchi, in alto e in basso, di
questo mercato del lavoro nascosti dalla parallela esistenza di un cospicuo
mercato del lavoro irregolare, oltre che dalla crescita di occupazioni regola-
ri, ma autonome.
Una rappresentanza più complessa
La struttura e l’andamento della sindacalizzazione e le specificità che carat-
terizzano la rappresentanza del lavoro nell’eterogeneo settore dei servizi
danno conto della peculiarità sempre più evidente di questo settore rispetto
al modello del “sindacato industriale”, ancora egemone nel nostro paese.
Se escludiamo la pubblica amministrazione e i servizi pubblici – che hanno
una incidenza di lavoratori iscritti al sindacato superiore alla media nazio-
nale – la propensione alla sindacalizzazione nei servizi di mercato è sempre
stata modesta e, quel che più conta, caratterizzata negli anni recenti da un
calo più consistente che nel resto dell’economia (anche se il numero assolu-
to degli iscritti è leggermente aumentato in ragione dell’espansione
dell’occupazione) (Cesos 1999)13. La bassa incidenza degli iscritti al sinda-
cato è certamente correlata alla presenza di imprese piccole e piccolissime
con elevata mortalità e insieme bassa possibilità di controllo sindacale. Ma
una spiegazione della incapacità del sindacato di mantenere nel tempo la
sua presenza nel settore sembra possa essere addebitata anche alla progres-
siva variazione della composizione occupazionale del terziario, nel quale
stanno assumendo maggior peso alcune categorie che tradizionalmente fan-
no resistenza all’iscrizione al sindacato: le donne, i giovani e gli scolarizza-
13 Nel 1996, la sindacalizzazione media (solo Cgil-Cisl-Uil) era pari al 36.65. Quella della
Pubblica amministrazione e altri servizi non-market pari al 45.6%, quella dei servizi privati
al 21%.
Note
11
ti (Feltrin 1999) e, almeno finora, i lavoratori precari. Un esempio illumi-
nante viene dai settori in via di liberalizzazione - come il trasporto aereo o
le telecomunicazioni – dove si registrano forti differenze nei tassi di sinda-
calizzazione tra le vecchie aziende monopolistiche e le aziende nuove en-
tranti.
Il fatto che al cambiamento della composizione dell’occupazione si accom-
pagni una crisi della sindacalizzazione – come è evidente nei servizi dove il
mix occupazionale sta cambiando più velocemente – costituisce un segnale
di allarme per il sindacato nel suo insieme ed è la ragione dei tentativi con
cui recentemente la gran parte dei sindacati europei hanno cercato di mette-
re a punto nuove formule di rappresentanza del lavoro (si vedano, a titolo di
esempi, l’esperienza italiana dei sindacati dei lavoratori parasubordinati,
quella olandese del nuovo sindacato autonomo nel decentramento della lo-
gistica, quella svedese del sindacato dei lavoratori interinali).
L’eterogeneità economica, organizzativa ed occupazionale del settore si ri-
flette anche sul sistema della rappresentanza, che risulta più complessa e
frammentata che negli altri settori. Situazione questa che ha spesso suscita-
to preoccupazione negli osservatori e sollecitato iniziative di ricompatta-
mento, ma che potrebbe anche esprimere una domanda vitale di ripensa-
mento delle strutture e delle politiche della rappresentanza. Malgrado i re-
centi accorpamenti di categoria realizzati in tutte e tre le confederazioni, nel
settore si contano, con poche variazioni tra Cgil-Cisl-Uil, non meno di set-
te sindacati di categoria14 (e un numero imprecisato, ma elevatissimo, di
contratti collettivi), che danno conto della persistente difficoltà raggiungere
in questo settore un maggiore coordinamento delle politiche sindacali. Nei
servizi sono inoltre presenti diverse sigle sindacali “autonome”: nella pub-
blica amministrazione, nella scuola, nella sanità, nelle utilities e nel credito,
si contano decine di vecchi e nuovi tra sindacati autonomi e sindacati “di
base”. Inoltre i servizi sono praticamente l’unico settore che vede la pre-
senza, in Italia, di sindacati professionali: oltre che medici ed insegnanti,
14 I sindacati attualmente presenti nei servizi sono: il sindacato che raggruppa i lavoratori
del commercio, del turismo, dei servizi alle persone e del terziario alle imprese; il sindacato
del credito; il sindacato della logistica, dei trasporti e dell’igiene ambientale; il sindacato che
raggruppa telecomunicazioni, media ed editoria; il sindacato degli elettrici; il sindacato della
scuola, università e ricerca; e il sindacato nato dall’accorpamento in corso tra le categorie
del pubblico impiego e la sanità.
Note
12
sono organizzati per professioni specialmente lavoratori dell’area dei tra-
sporti: piloti, macchinisti dei treni, controllori di volo, autotrasportatori.
Questa tipologia differenziata di organismi, se spesso risponde a vecchie
logiche “corporative”, può però essere interpretata anche come una difficol-
tà dei soggetti presenti in questi settori a riconoscersi nei tradizionali biso-
gni di rappresentanza espressi dal lavoratore-standard.
Una sistema contrattuale più nuovo
Esaminando la storia della contrattazione nei servizi degli ultimi venti anni,
il richiamo al modello contrattuale dell’industria è ben evidente. Tuttavia le
differenze sono moltissime e permettono di disegnare – malgrado la scarsa
consapevolezza che sembrano averne gli stessi attori delle relazioni sinda-
cali – un sistema contrattuale molto più duttile e forse anche più “nuovo” di
quello tradizionale del settore manifatturiero.
Naturalmente, anche per quanto riguarda la contrattazione, è opportuno di-
stinguere tra i servizi più esposti al mercato e quelli meno esposti. Nei pri-
mi - in particolare nel commercio, nel turismo, nelle pulizie, nel servizi alle
persone e nei servizi alle imprese - che sono attività generalmente gestite da
imprese di piccole dimensioni, l'azione sindacale a partire dagli anni set-
tanta è stata orientata a raggiungere i livelli di sicurezza di impiego, di sala-
rio e di sindacalizzazione simili a quelli del tradizionalmente più forte set-
tore manifatturiero. Ciò nonostante, a fronte di un mercato più difficile e di
trend di produttività contenuti, i salari e le condizioni di lavoro in questi
settori sono restati mediamente al di sotto di quelle dei settori manifatturie-
ri, il tasso di sindacalizzazione più basso, e il conflitto quasi inesistente. Es-
sendo questi servizi più esposti alle pressioni del mercato, alcune forme di
flessibilità del lavoro – lavoro stagionale, part time, premi di produttività,
etc. - sono state introdotte prima che altrove (Negrelli 1988, Cesos vari an-
ni).
Tra i servizi “market”, va fatto un discorso parzialmente diverso nel caso
del settore del terziario avanzato, come i servizi informatici, le attività di
consulenza alle imprese, la pubblicità, etc. Qui, nonostante si tratti di attivi-
tà caratterizzate da più elevata profittabilità, l'azione del sindacato ha pro-
dotto risultati particolarmente mediocri. Infatti, a condizioni di lavoro di-
Note
13
screte ma principalmente contrattate individualmente, fa riscontro una sin-
dacalizzazione bassissima, un sistema di rappresentanza frammentato tra
più categorie sindacali e persino la mancanza di un contratto specifico (Ce-
sos, 1996).
Ha invece una storia decisamente diversa la contrattazione nei settori meno
esposti al mercato. Tra questi includiamo convenzionalmente, oltre alla
pubblica amministrazione e ai servizi di pubblica utilità (telecomunicazio-
ni, trasporti, energia, etc.), anche il settore del credito, il cui mercato in Ita-
lia fino a poco fa ha goduto di una situazione molto protetta. In questi setto-
ri la posizione del sindacato è stata tradizionalmente forte e, con l'esclusio-
ne della pubblica amministrazione in senso stretto, le condizioni di lavoro e
i livelli salariali a lungo più vantaggiosi di quelli dei settori privati: ancora
oggi le categorie professionali più pagate in Italia sono i dipendenti del tra-
sporto aereo, i bancari e gli elettrici. In questi settori il tasso di sindacaliz-
zazione è tradizionalmente alto e la propensione al conflitto anche (Cesos
vari anni, Ponzellini 2000).
Un mercato del lavoro segmentato
L’analisi fin qui fatta conferma la difficoltà a considerare come un tutt’uno,
dal punto di vista della regolazione del lavoro, un settore come quello dei
servizi. D’altra parte, la articolazione interna – se non proprio la frammen-
tazione – di questo settore, è uno specchio interessante dei cambiamenti che
sono in corso a livello più generale nell’intero mercato del lavoro e questo
è uno stimolo ad osservarlo in modo più approfondito.
Facendo riferimento a tutti gli aspetti fin qui analizzati – produttività, com-
posizione occupazionale, livelli salariali, grado di regolamentazione, pre-
senza sindacale, etc. – è possibile raffigurare il variegato mercato del lavo-
ro dei servizi come articolato in diversi segmenti: un mercato del lavoro,
quindi, già distante dal modello tipico del manifatturiero dominato dalla
compattezza dell’impresa fordista, anche se non necessariamente bipolare
come viene descritto da alcuni profeti dell’economia post-industriale.
Note
14
Innanzitutto, i sub-settori dei servizi appaiono raggruppabili in due princi-
pali aree, con modelli di funzionamento molto diversi tra loro:
- l’area “di mercato” (commercio, turismo e ristorazione, servizi per-
sonali e di cura, pulizie, logistica, terziario alle imprese), caratteriz-
zata da lavoro più flessibile, meno protetto e con una sindacalizza-
zione inferiore alla media nazionale
- l’area “(ex)-monopolistica” (pubblica amministrazione, servizi di
pubblica utilità e, fino a poco tempo fa, settore bancario), caratteriz-
zata da lavoro più rigido e protetto e da una sindacalizzazione supe-
riore alla media nazionale
In ciascuna di queste due aree sono riconoscibili due principali segmenti:
- un segmento “alto”, contrassegnato da attività a prevalenza maschile
(che sono, nell’area di mercato, i servizi alle imprese e, nell’area ex-
monopolistica, l’energia, le telecomunicazioni, la gran parte dei tra-
sporti e almeno in parte le banche), caratterizzate da livello di quali-
ficazione e condizioni salariali superiori a quelle del settore manifat-
turiero
- un segmento “basso”, contrassegnato da attività a prevalenza fem-
minile (la gran parte dell’area di mercato: commercio, turismo, puli-
zie, ristorazione e servizi personali e, nell’area (ex-) monopolistica,
tutta la pubblica amministrazione), caratterizzate da livello di quali-
ficazione e salari inferiori a quelli del settore manifatturiero15
15 Un’analisi de differenziali di produttività dei sub-settori, fornisce una spiegazione delle
differenze salariali solo per l’area “di mercato”, come si vede dalle differenze salariali tra i
servizi alle imprese e gli altri servizi di mercato: qui ad una alta produttività (nei servizi alle
imprese) fanno riscontro salari alti e ad una produttività bassa (negli altri servizi di mercato)
salari bassi. E anche per l’area della pubblica amministrazione in senso stretto: dove ad una
produttività bassa fanno riscontro bassi salari. I differenziali di produttività non costituisco-
no invece una spiegazione dei salari dell’area dei servizi (ex-) monopolistici, come il credito
e le utilities: qui i salari sono più elevati del manifatturiero sia nel caso dei settori a produtti-
vità medio-alta, come le telecomunicazioni, sia in quelli a produttività bassa come i traspor-
ti.
Note
15
Dal punto di vista di salari e delle condizioni di lavoro, le quattro aree si
collocano in questo ranking discendente: 1) area di mercato a dominanza
maschile, 2) area (ex-)monopolistica a dominanza maschile, 3) area (ex-)
monopolistica a dominanza femminile, 4) area di mercato a dominanza
femminile.
Il lavoro irregolare – che resta fuori dal quadro ma che non può essere di-
menticato dato che costituisce un pezzo significativo del mercato del lavoro
dei servizi - si colloca in maggioranza, ma non solo, nell’ultimo segmento.
Tendenze occupazionali e vincoli allo sviluppo nelle diverse aree
Cosa ci dicono le differenze nei trend di sviluppo dell’occupazione nelle
due principali aree del mercato del lavoro dei servizi? E quali differenti
vincoli emergono all’aumento dell’occupazione nell’una e nell’altra?
Nell’area “di mercato”, l’occupazione (ufficiale) è in crescita solo nei ser-
vizi alle imprese e, in forma molto più ridotta, nei servizi alle persone.
L’occupazione effettiva, tuttavia, appare nettamente sottovalutata dalla
considerevole presenza di lavoro nero, specialmente nel segmento “basso”.
Le cause del lento sviluppo della terziarizzazione vanno attribuite a ragioni
congiunturali (le crisi economiche degli anni novanta e le politiche restritti-
ve imposte dall’ingresso nell’unione monetaria) ma anche a fattori più
strutturali (i vincoli alla libertà di impresa presenti nel commercio prima
della legge Bersani, lo scarso investimento in capitale umano16, lo scarso
sviluppo tecnologico del settore). La dinamica occupazionale negativa che
caratterizza turismo, logistica e soprattutto commercio, tuttavia, potrebbe
cambiare di segno, nel medio periodo, in seguito ai processi di razionaliz-
zazione in corso. In tutta l’area dei servizi di mercato – sia nel segmento
alto, ”maschile”, dei servizi alle imprese, sia in quello basso “femminile”,
dei servizi commerciali, del turismo e dei servizi alle persone - è visibile
più che altrove l’aumento del lavoro flessibile, sotto forma di part time, la- 16 Si vedano i confronti europei sui dati Eurostat (1998) sulla scolarizzazione e i dati Em-
ployment in Europe sull’andamento delle occupazioni di dirigenti, quadri e professional
(CE 1997), nei sub-settori dei servizi.
Note
16
vori a termine, lavoro interinale e lavoro para-subordinato. Mentre la situa-
zione dei servizi alle imprese non suscita alcuna preoccupazione, per l’area
più debole, le prospettive occupazionali appaiono significativamente legate
ai recuperi di produttività conseguiti a seguito del compimento dei processi
di ristrutturazione ma anche prodotti dall’adozione di politiche economiche
espansive. Inoltre, in quest’area, l’aumento dei posti di lavoro appare vin-
colato al comportamento dell’offerta di lavoro femminile, alle strategie fa-
miliari e alla conseguente domanda di servizi di cura. Un aumento
dell’occupazione “ufficiale” dipenderà, infine, dal successo delle politiche
rivolte all’emersione dell’economia sommersa (che, per le caratteristiche
peculiari che caratterizzano gran parte di queste attività, si profilano qui
particolarmente difficili). In quest’area dunque l’elemento critico per lo svi-
luppo dell’occupazione è rappresentato dalla produttività.
Nell’area (ex-) monopolistica, i processi di liberalizzazione e di privatizza-
zione in corso hanno già modificato in modo sostanziale i settori del credito
e delle telecomunicazioni e stanno coinvolgendo in modo crescente il setto-
re dei trasporti e quello dell’energia, provocando un ridimensionamento
dell’occupazione nelle grandi imprese (talora notevole, come nelle ferro-
vie), in parte riequilibrato dai posti di lavoro creati nelle aziende nuove en-
tranti. Il percorso di modernizzazione avviato in quest’area – che è tradi-
zionalmente più rigida, dal punto di vista del lavoro, dello stesso settore in-
dustriale – è accompagnato sul piano delle relazioni di lavoro da un proces-
so di “flessibilizzazione contrattata” (Ponzellini 2000, Ponzellini e Proven-
zano 2001): un processo che evidenzia il crescere della consapevolezza del
sindacato ma che, significativamente, sta riguardando in modo molto deci-
so gli ingressi (lavoro a tempo determinato e lavoro interinale), solo in par-
te le uscite (prepensionamenti, fondi esuberi), quasi per nulla i salari e le
condizioni di lavoro. Confermando con ciò il persistere dell’attenzione sin-
dacale ai vecchi insider piuttosto che ai giovani nuovi entranti e, in genera-
le, all’”altro” mercato del lavoro, come si vede, tra l’altro, dal fatto che nel-
la gran parte di questi settori, i giganteschi processi di outsourcing – vero
momento di destrutturazione dei mercati del lavoro degli ex monopoli –
appaiono scarsamente controllati dalla contrattazione collettiva (Ponzellini
2000). Il potenziale occupazionale di quest’area è notevole, ma è definiti-
vamente legato al buon funzionamento dei nuovi mercati liberalizzati:
quindi all’ingresso di nuove imprese, nonché ad una azione più decisa del
sindacato nella flessibilizzazione del lavoro che renda appetibili i nuovi in-
Note
17
vestimenti. In sintesi potremmo dire che, in quest’area, il fattore di succes-
so per lo sviluppo dell’occupazione è rappresentato dalla riduzione della
rigidità del lavoro.
Una verifica delle tesi sulla sottoterziarizzazione
La raffigurazione del mercato del lavoro dei servizi come mercato del lavo-
ro segmentato, ci permette di entrare più puntualmente nella verifica della
tesi sul debole sviluppo occupazionale nei servizi in Italia. Innanzitutto ten-
teremo di rispondere alla domanda: è vero che una maggiore deregolamen-
tazione del mercato del lavoro potrebbe favorire la crescita dei posti di la-
voro? Le risposte non possono che essere articolate.
E’ evidente che, nel caso italiano, la tesi sulla “rigidità del lavoro” e sui
suoi effetti di rallentamento sull’occupazione può avere un senso solo a ri-
guardo dell’area (ex-)monopolistica, dove storicamente la presenza dei mo-
nopoli e degli oligopoli pubblici, para-pubblici e del settore finanziario, si è
accompagnata ad alti salari, condizioni di lavoro privilegiate, elevate tutele
occupazionali per i lavoratori. Questa tesi non sembra invece spiegare che
limitatamente la bassa dinamica produttiva ed occupazionale che ha caratte-
rizzato in questi ultimi anni l’area di mercato. In quest’area infatti esiste da
sempre una contrattazione tradizionalmente più “permissiva” e quello
straordinario mix di flessibilità del mercato del lavoro che è tipicamente
italiano: lavoro sommerso, piccolissima impresa con scarse tutele e alto
turnover, lavoro autonomo.
Per quanto riguarda, invece, la tesi sul “tipo di welfare e di modello fami-
liare”, il loro effetto sulla attuale composizione del mercato del lavoro
sembra confermato per l’insieme del settore dei servizi italiano dove, a giu-
dicare dalle statistiche, vi è una prolungata persistenza del modello del ma-
le-breadwinner ereditato dal settore industriale, ben evidente – soprattutto
nel confronto europeo - nella ancora massiccia incidenza del lavoro a tem-
po pieno e indeterminato, dalla ancora scarsa partecipazione donne al lavo-
ro, dalla tipica struttura della disoccupazione che vede la prevalenza di di-
soccupati tra i giovani in cerca di prima occupazione piuttosto che tra gli
Note
18
adulti, come succede nel resto d’Europa. E’ anche probabile, come ha più
volte sottolineato Gosta Esping Andersen che questo tipico regime di wel-
fare, basato sulla famiglia quindi “light in services and heavy in trans-
fers”(Esping Andersen 1995), nello scoraggiare la partecipazione delle
donne al lavoro, abbia frenato lo sviluppo di servizi pubblici per la cura dei
bambini e degli anziani, per i quali l’Italia destina una quota di spesa pub-
blica irrisoria, la più bassa in Europa (Esping Andersen 2000). Resta il fatto
che questo mercato del lavoro sta cambiando (soprattutto nei servizi “di
mercato”) e il modello del lavoratore standard sta per essere sostituito, più
velocemente che nel settore industriale, dalla crescente femminilizzazione
ed “atipicizzazione” degli impieghi. Se la tesi è corretta anche all’inverso,
queste due tendenze dovrebbero provocare una forte domanda di modifica
del regime di welfare, sia in termini di richiesta di servizi alle famiglie sia
in termini di richiesta di politiche destinate ai giovani e ai lavoratori preca-
ri. Staremo a vedere.
Tendenze contrastanti: verso la ricomposizione o la polarizzazio-
ne del mercato del lavoro?
Come si è visto, nonostante le molte differenze ancora presenti nel settore,
le due principali aree del mercato del lavoro terziario italiano – quella (ex-)
monopolistica e quella di mercato – sono in parziale avvicinamento in ter-
mini di flessibilità e di modello contrattuale (ma ancora piuttosto distanti in
termini di salario e sindacalizzazione). Con ciò apparentemente smentendo
l’interpretazione del mercato del lavoro post-industriale come un mercato
in progressiva polarizzazione.
Se però esaminiamo le distanze tra i due segmenti, quello “alto” a domi-
nanza maschile e quello “basso” a dominanza femminile, resta il dubbio
che potrebbe davvero essere in corso anche da noi quella tendenza alla po-
larizzazione – in termini di salari e/o di orari e/o di stabilità di impiego - già
segnalata in altri mercati europei. Che, anzi, come abbiamo visto, una pola-
rizzazione esista già ma sia occultata, almeno nelle statistiche ufficiali dalla
duplice presenza del lavoro nero e del “nuovo” lavoro autonomo, che trat-
Note
19
tengono (o spostano) il dualismo “fuori” dal mercato del lavoro dipendente
ufficiale.
Una causa determinante di un possibile processo di “dualizzazione” del
mercato del lavoro è certamente l’andamento a forbice della produttività
nei due segmenti. La razionalizzazione delle molteplici attività dei servizi
sta progressivamente migliorando proprio la performance delle attività del
segmento “alto”- il settore bancario, le utilities, le telecomunicazioni, i
servizi alle imprese - e di una parte, non preponderante, di quelle della di-
stribuzione e della logistica. La produttività di alcuni servizi - come la gran
parte di quelli turistico-alberghieri, quello delle pulizie ma soprattutto
l’insieme dei servizi alle famiglie e alle persone (oltre ai tradizionali servizi
di cura, i servizi culturali e di intrattenimento e i servizi personali come il
parrucchiere, l’estetista o lo psicanalista) – risulta invece difficile, o impos-
sibile, da aumentare17. Con ogni probabilità queste attività, che sono quelle
più in espansione in tutti i paesi occidentali, potranno offrire solo posti me-
no pagati, meno protetti e spesso (anche se non necessariamente) dequalifi-
cati. Oppure posti di impiego pubblico, se questa sarà – ma non sembra – la
scelta.
Un’altra determinante in direzione di una possibile polarizzazione del mer-
cato del lavoro potrebbe essere quella dello svantaggio con cui le donne si
presentano sul mercato del lavoro, in relazione ai loro impegni di cura18.
Questo significa che in capo a qualche anno, e parallelamente alla crescita
della partecipazione delle donne al lavoro, potrebbe succedere anche da noi
quello che è successo nell’esperienza dei paesi nord-europei (sia liberali
che socialdemocratici), dove si è consolidato un forte dualismo “di genere”
basato sulla durata dell’orario di lavoro, con una forte compartimentazione
tra impieghi maschili a tempo pieno e impieghi femminili a part time. In
questo caso si tratterebbe di un dualismo in larga parte trainato dall’offerta
di lavoro e, secondo alcuni ottimisti, destinato ad essere una fase transitoria
nel processo di partecipazione delle donne al mercato del lavoro (Bosch
17 Esping Andersen (2000) porta come esempio di attività di cui è impossibile incrementare
la produttività, una seduta di psicoterapia. Mentre a suo tempo Baumol (1967) aveva citato il
caso delle conseguenze potenzialmente disastrose di un intervento di riduzione del tempo di
esecuzione di un concerto per quintetto di strumenti a fiato. 18 E’ invece in progressivo superamento – e già del tutto superato nel caso delle nuove gene-
razioni – lo svantaggio delle donne in termini di scolarizzazione.
Note
20
1999). Per il momento, comunque, è difficile dire se il nostro paese sia av-
viato verso questa strada o se sia piuttosto destinato a confermarsi il model-
lo italiano di partecipazione delle donne al lavoro che, privilegiando impie-
ghi stabili e a tempo pieno, è stato finora molto simile a quello maschile
(Reyneri 1995)19.
Il mercato del lavoro del terziario come punto di partenza per la
costruzione di un nuovo modello di regolazione del lavoro
Anche in Italia, il mercato del lavoro dei servizi si avvia ad essere più dua-
listico, più segmentato, più atipico, più flessibile di quello del settore mani-
fatturiero. Come dovunque in Europa, è ormai il mercato del lavoro che
coinvolge il maggior numero di lavoratori (anche se poi il lavoro industria-
le continua ad essere quello che tutti conosciamo meglio e a cui ci riferia-
mo abitualmente). Nei servizi le differenziazioni in termini di tutela e di sa-
lari sono più evidenti, l’occupazione femminile cresce più velocemente, il
tasso di part time e quello di lavoro temporaneo sono maggiori, il lavoro
irregolare aumenta. Alla prova dei nuovi lavori e dei nuovi lavoratori, il
sindacato appare in difficoltà e l’organizzazione della rappresentanza più
esposta ai rischi di frammentazione. Proprio a partire da questo settore, il
modello del lavoratore standard sembra destinato ad essere superato.
E’ interessante notare che il fenomeno del diffondersi degli impieghi flessi-
bili, precari e atipici costituisce una tendenza strutturale, ben visibile anche
negli altri paesi europei, indipendentemente dal modello di regolazione, più
o meno liberista, più o meno conservatore (Dolvik 2001). Mentre un altro
elemento che accomuna il settore dei servizi in tutti i paesi occidentali è la
cospicua crescita - accanto a quella delle occupazioni dequalificate del
segmento debole del mercato del lavoro che chiedono maggiore tutela - di
professionisti e tecnici molto qualificati che resistono alla sindacalizzazione
e chiedono più autonomia nella definizione delle proprie condizioni di la-
voro.
19 Questo modello “maschile” potrebbe essere legato al fatto che - come osservano anche
Bettio e Villa (1996) - finora la partecipazione al lavoro delle donne è stata sbilanciata verso
il segmento più scolarizzato. Donne quindi più orientate alla carriera e anche in grado di ac-
quistare servizi di cura.
Note
21
L’insieme di questi aspetti fa pensare che il mercato del lavoro nel settore
dei servizi tenderà ad avere in futuro comportamenti in parte diversi dal set-
tore manifatturiero: tendenze forse positive per l’occupazione ma proble-
matiche per la rappresentanza e la tutela del lavoro. Di questi gli attori so-
ciali e il governo dovranno tenere conto. A tutt’oggi, tuttavia, non esiste nel
nostro paese un vero e proprio dibattito sul futuro del terziario e della sua
occupazione.
Occupazione senza uguaglianza? Il sindacato alla prova della so-
cietà post-industriale
Se è vero che i nuovi posti si creano nel terziario, è qui che va aumentata la
domanda di servizi e l’offerta di lavoro (ed è pensando ai servizi che vanno
immaginate le nuove politiche del lavoro). Ma se è vero, come appare più
nettamente da altri paesi che hanno iniziato prima il processo di terziarizza-
zione, che lo sviluppo di questo settore si porta dietro, oltre alla più varie-
gata composizione occupazionale, questo nuovo dualismo tra insider e ou-
tsider, questa emergente polarizzazione tra uomini e donne, questa crescen-
te distanza tra lavoratori della conoscenza e working poor – in altre parole,
un aumento delle disuguaglianze - allora ciò significa che sindacato ed isti-
tuzioni devono trovare risposte al dilemma uguaglianza-occupazione. Ma-
gari sperimentando, proprio a partire da questo settore, un modello nuovo
di regolazione che non può essere quello tradizionale del settore industriale
il cui mercato del lavoro, malgrado tutto, continua ad essere caratterizzato
da una compattezza maggiore.
L’analisi fin qui fatta ci ha dato il quadro – tutto sommato, non pessimistico
nel medio periodo - delle prospettive occupazionali del settore. Ma ha la-
sciato anche intravvedere l’esistenza e il possibile sviluppo di disugua-
glianze legate ad almeno tre diversi fattori: la scarsa produttività strutturale
di alcune attività, la persistenza di politiche sindacali mirate ad una ecces-
siva difesa degli insider, la debolezza della condizione delle donne sul mer-
cato del lavoro.
Come può muoversi il sindacato in questo quadro per sostenere lo sviluppo
dell’occupazione? Se la flessibilità è un prezzo da pagare per
l’occupazione, “quanta” flessibilità è tollerabile e come ripartirla più equa-
Note
22
mente tra lavoratori? Quale supporto è necessario da parte delle istituzioni
per ottimizzare occupazione ed equità?
Nei percorsi intrapresi da altri paesi non mancano buoni esempi di inter-
venti in grado di favorire insieme regolazione e flessibilità, quella che or-
mai nel linguaggio europeo viene indicata come “flexicurity”. Oltre al ben
noto modello olandese, il cui merito principale è quello di accompagnare
forme di impiego a termine e ad orario ridotto con buone politiche sociali
(Tromp e Beukema 1999), si può guardare ai paesi nordici che hanno rag-
giunto positivi risultati occupazionali scegliendo la strada di una forte atipi-
cizzazione del lavoro (Dolvik e Longva 1999), oppure all’Irlanda, la cui in-
credibile performance economica degli ultimi anni è stata trainata dal rilan-
cio della social partnership e da accordi moderazione salariale (Wallace
1999). Tutti casi da cui emerge che la dinamica occupazionale può essere
positiva anche in un contesto di regolazione elevata (Dolvik 2001).
In Italia più che altrove - perché qui è (stata) più strenua la difesa degli
happy fews e più ampia la fascia degli esclusi – la strada che ha di fronte il
sindacato è innanzitutto quella di “gettare dei ponti” tra i vari gruppi di la-
voratori. In fondo, ciò che sta già avvenendo, pur con qualche incertezza, è
molto simile ad un disegno di “ricomposizione morbida” del mercato del
lavoro, mirato a tollerare un grado più elevato di differenze tra lavoratori –
in termini di forma di impiego, di salario, di stabilità del posto, di orario –
rispetto al tradizionale modello del lavoratore standard, purché all’interno
di un quadro minimo di tutele e di diritti di rappresentanza.
Vanno in questa direzione le nuove regole per gli ingressi nel lavoro, pro-
mosse dalla concertazione e dalle recenti leggi di riforma del mercato del
lavoro che, non a caso, stanno producendo già qualche risultato visibile in
termini di riduzione delle disoccupazione e (forse) di emersione del lavoro
nero. Tuttavia queste, da sole, non sono sufficienti a riportare sotto un go-
verno unitario l’intero lavoro dei servizi. Già in più di una situazione (si
veda, ad esempio, il contrastato “patto di Milano”), il sindacato si vede
chiamato anche ad accettare di contrattare salari più bassi e condizioni di
impiego meno onerose per quelle occupazioni che hanno margini limitati di
produttività, se vuole evitare che siano “inghiottite” dal lavoro nero dove
non potrebbero più godere di alcuna condizione di tutela. Inoltre, il proces-
Note
23
so di avvicinamento tra i vari segmenti del mercato del lavoro non può pre-
scindere da una flessibilità controllata anche delle uscite, come esiste già
nella maggior parte dei paesi europei: è questo infatti l’unico modo con cui
si può aumentare la mobilità del lavoro, condizione indispensabile perché
quelli che adesso “stanno fuori” possano aspirare ad avere prima o poi un
lavoro stabile e regolato. Ed è il solo modo per far sì che il disagio occupa-
zionale venga a corrispondere ad una fase della carriera lavorativa piuttosto
che marchiare uno status definitivo di discriminazione (Esping Andersen
2000).
Come si vede, un progetto di rappresentanza definitivamente “inclusivo”
che voglia portare tutela e legalità alla “periphery”, non può prescindere
dalla riduzione delle protezioni del “core”. Ed è qui che nascono le incer-
tezze del sindacato. Perché il contesto in cui si sta realizzando la flessibiliz-
zazione del mercato del lavoro italiano appare più complesso di quello che
caratterizza altri paesi europei. Se finora in Italia, come in diversi altri paesi
europei, il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro degli anni
novanta è stato gestito attraverso un modello collaborativo di relazioni sin-
dacali, in vista degli ulteriori coraggiosi passi avanti necessari a portare a
compimento il processo di ri-regolazione, bisogna prendere atto che nel no-
stro paese mancano alcuni dei fattori di successo delle politiche di riforma
adottate altrove. Per esempio, in Olanda è l’alta protezione sociale in ter-
mini di indennità di disoccupazione e di politiche attive del lavoro che, ga-
rantendo la possibilità di mobilità verso sbocchi più stabili, ha convinto il
sindacato di accettare una quota notevole di impieghi precari, mentre è
l’elevata sindacalizzazione e la forte istituzionalizzazione dei sindacati dei
paesi scandinavi (che gestiscono direttamente i fondi di disoccupazione),
che ha consentito ai questi paesi di scegliere la strada dei lavori atipici sen-
za far mancare ai lavoratori una rete minima di sostegno. Entrambe queste
condizioni mancano attualmente in Italia.
Per questo, se si auspica che il sindacato si orienti con meno incertezza sul-
la strada di una flessibilizzazione del mercato del lavoro più spinta ma an-
che più inclusiva, bisogna ipotizzare un ruolo più deciso dello stato in ter-
mini di politiche di accompagnamento alla concertazione tra le parti sociali.
Sia in termini di una ridefinizione delle politiche di welfare che sposti ri-
sorse dai soggetti centrali del vecchio mercato del lavoro ai nuovi soggetti
Note
24
(sotto forma di indennità ai giovani e alle donne per i periodi di disoccupa-
zione o di allontanamento dal lavoro per ragioni di cura, di più solidi inter-
venti per la occupabilità delle fasce deboli, etc.). Sia in termini di sostegno
alla contrattazione e alla rappresentanza del nuovo lavoro: per esempio, at-
traverso l’estensione erga omnes della validità dei contratti collettivi o la
definizione di un salario minimo garantito e attraverso il sostegno alla con-
trattazione territoriale e alla creazione di organismi bilaterali che consenta-
no di rappresentare il lavoro (e di affrontarne i costi organizzativi) anche
nella frammentazione delle imprese e delle forme di lavoro. Per usare la ti-
pologia di compiti dello stato nei confronti della regolazione attraverso le
relazioni industriali introdotta da Bordogna e Cella (1999), lo stato dovreb-
be intervenire nel processo di ri-regolazione con compiti di “definizione” e
di “correzione” ma anche di più decisa “promozione” delle relazioni sinda-
cali.
Note
25
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