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Il palco era basso tanto che alle mie
ginocchia ci arrivavano le teste di quelli
che m’avrebbero ascoltato. Però era sempre
così, quando facevamo le gare al Puddhu
Bar. C’erano due livelli: io, il beat che
batteva, la mia voce. E poi, in basso: le
mie ginocchia che si piegavano, le teste di
chi ascoltava, le loro voci che a differenza
della mia erano un ammasso di rumore senza
armonia.
Un’altra gara di freestyle. Sarà stata
l’ottantaduesima, forse l’ottantatreesima,
non ricordo. Io che dell’improvvisazione
avevo fatto un modo di vivere e, qualche anno
prima, quasi una carriera, e avevo imparato
a tenermi a mente i numeri di tutte le gare
che facevo. A trent’anni passavo il tempo
cantando rime di fronte a cento persone o
poco meno, in sfide come quella. Ero uno dei
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pochi rimasti a cercare di divertirmi con
l’hip hop, a Torino. Dicevano che il rap era
morto, da queste parti: tranne per me e pochi
altri che ancora riempivamo i sottoborghi
di una Torino sempre più brillante, unico
covo che ci era rimasto i Murazzi, il
posto frequentato anche da chi ci dava per
spacciati.
Un’altra gara: questa volta contro uno di
Napoli. Laggiù la scena era ancora viva, mi
era capitato di andarci a improvvisare. Ma
roba seria, no. E poi, le facce all’altezza
delle ginocchia era meglio averle a Torino,
quando sai che se qualcuno prova a tirarti
giù dal palco, hai almeno quelli della Zona
che ti aspettano fuori, per coprirti le
spalle.
Il mio avversario si faceva chiamare Dr.
Cleck. Era uno di quelli che imita i rapper
americani. In Zona li chiamavamo i poser
perché assumevano le pose senza aver sostanza,
anche se, nel suo caso, c’era anche un po’
di talento. Se la cavava bene a fare rime in
dialetto, come quelli delle sue parti.
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