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7/27/2019 Uso La Penna Come Un Bisturi, Di Michel Foucault - La Repubblica 26.07.2013

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 Non sono molto affascinato dal lato sacro della scrit-tura. So che attualmente questo lato viene perce-pito dalla maggior parte delle persone che si dedi-cano alla letteratura o alla filosofia. Ciò che l’Occi-

dente ha imparato da Mallarmé in poi è che la scrittura hauna dimensione sacra, che essa è una sorta di attività in sé,non transitiva. La scrittura si è eretta a partire da se stessa,

non tanto per dire, mostrare o insegnare qualcosa, ma per es-sere là. Oggi questa scrittura è in qualche modo il monu-mento dell’essere del linguaggio. Sul piano della mia espe-rienza vissuta, confesso che non è stato così che per me lascrittura si è presentata. Ho sempre avuto una diffidenzaquasi morale nei confronti della scrittura. (...)

Uno dei miei ricordi più costanti è quello delle mie diffi-

coltà a scrivere bene. Scrivere bene nel senso in cui s’inten-de alle scuole elementari, cioè fare pagine di scrittura benleggibile. Credo, anzi sono addirittura certo, di essere stato ilpiù illeggibile della classe, della scuola. Questo è durato alungo, fino ai primi anni della scuola secondaria. Alle mediemi facevano fare pagine speciali di scrittura, tali erano le miedifficoltà a tenere la penna come si deve e a tracciare, come

si deve, i segni della scrittura. Ecco quindi un rapporto con lascrittura un po’ complicato, un po’ sovraccarico. Ma c’è unaltro ricordo, molto più recente. È il fatto che, in fondo, nonho mai preso molto sul serio la scrittura, l’atto di scrivere. Lavoglia di scrivere mi è venuta solo verso i trent’anni. (...)

Mi domando se in questa svalutazione della scrittura nonsi esprimesse il sistema di valori della mia infanzia. Appar-

tengo a una famiglia di medici, una di quelle famiglie di me-dici di provincia che, nella vita un po’ addormentata di unapiccola città, rappresentano sicuramente un am-biente relativamente adattativo o, come si usa dire,progressista. Ciò non toglie che l’ambiente medico ingenerale, soprattutto in provincia, sia particolar-mente conservatore. Si dovrebbe fare una bella ri-

cerca sociologica sull’ambiente medico nella Fran-cia di provincia. Ci renderemmo conto che è stato nel XIX secolo che la medicina, o meglio il personaggiomedico, è diventato borghese. (...)

Ho vissuto in un ambiente in cui la razionalità go-de quasi di un prestigio magico, un ambiente i cui va-lori sono opposti a quelli della scrittura. Il medico, in-

fatti, non è colui che parla, bensì colui che ascolta. Ascolta la parola altrui, non per prenderla sul serio,non per capire che cosa voglia dire, ma per rintrac-ciare attraverso di essa i segni di una malattia seria,cioè di una malattia del corpo, una malattia organi-ca. Il medico ascolta, ma per attraversare la paroladell’altro e raggiungere la verità muta del suo corpo.

Il medico non parla, ma agisce, cioè palpa, intervie-ne. Il chirurgo scopre la lesione nel corpo addormen-tato, apre il corpo e lo ricuce, opera: tutto questo nelmutismo, nella riduzione assoluta delle parole. Le so-

le parole che pronuncia sono brevi parole di diagnosi e tera-pia. In questo senso la parola del medico è straordinaria-mente rara. È stata probabilmente questa svalutazione

profonda, funzionale, della parola nella vecchia pratica del-la medicina clinica che ha pesato a lungo su di me, facendosì che fino a una decina, dozzina d’anni fa, per me la parolafosse ancora e sempre parola vana. (...)

Nonostante tutto, quale che sia stata la mia conversione,ho sicuramente conservato della mia infanzia, e fin nella miascrittura, un certo numero di filiazioni che dovrebbe essere

possibile ritrovare. Quel che mi colpisce molto, per esempio,è che i miei lettori immaginano abbastanza spesso che ci siauna certa aggressività nella mia scrittura. Personalmentenon ho affatto questa impressione. Credo di non aver mai at-taccato realmente, esplicitamente, nessuno. Per me scrive-re è un’attività estremamente dolce, felpata. Quando scrivo,ho come la sensazione di un velluto. Per me l’idea di una scrit-

tura vellutata è come un tema familiare, al limite tra l’affetti-vo e il percettivo, che continua a ossessionare il mio proget-to di scrivere, a guidare la mia scrittura mentre sto scrivendo,che mi permette in ogni momento di scegliere le espressioniche voglio utilizzare. Per la mia scrittura il vellutato è una sor-ta d’impressione normativa. Rimango perciò molto stupitoquando vedo che gli altri riconoscono in me piuttosto la scrit-

tura secca e mordace. Pensandoci bene, credo che siano glialtri ad avere ragione. Immagino che nel mio pennino ci siauna vecchia eredità del bisturi. E in fin dei conti non è veroforse che sul bianco della carta traccio quegli stessi segni ag-gressivi che mio padre tracciava nel corpo degli altri quandooperava? Ho trasformato il bisturi in pennino.

Sono passato dall’efficacia della guarigione all’inefficacia

del libero discorso; ho sostituito alle cicatrici sul corpo i graf-fiti sulla carta; ho sostituito all’incancellabile della cicatriceil segno perfettamente cancellabile della scrittura. Forse do-vrei andare ancora oltre. Forse il foglio di carta è per me il cor-po degli altri.

Traduzione di Antonella Moscati Tratto da “Il bel rischio. Conversazione 

con Claude Bonnefoy” © 2011 Èditions de l’École des hautes études 

en sciences sociales © 2013 Edizioni Cronopio

LASCIO CICATRICIPERCHÉ USO LA PENNA

COME UN BISTURI

© RIPRODUZIONE RISERVATA 

MICHEL FOUCAULT

Anticipazione / “Il bel rischio”, un inedito di Michel Foucault

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