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In via Boucheron a Torino ci arrivi se passi da Porta Nuova, dopo aver attraversato piazza Carlo Felice, via Roma, piazza San Carlo, ancora via Roma, piazza Castello, via Garibaldi e aver svoltato da piazza Statuto in via Passalacqua. Forse molti torinesi non sanno neanche che c’è, quella via lì. Eppure è una bella strada.È una via stretta. Ci sono dei negozi che
avranno cinquant’anni, di quelli con i pro-prietari che parlano il dialetto e in pochi, ormai, li capiscono ancora. C’è un piccolo supermercato, una lavanderia, un paio di ri-storanti. I palazzi sono alti, fanno filtrare poco la luce del sole. Trovare parcheggio è difficile.
Io stesso non sapevo che esistesse. Fino a quella sera. Quella in cui sentii al tele-giornale regionale che proprio là, in quel-la strada stretta, era capitato qualcosa. Stavo cenando con i miei e a tavola non si chiacchierava, non ci si parlava, tutti man-giavano e guardavano la televisione. Poi era passato quel servizio dove ascoltai quella storia, per caso.
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In uno stabile verso il fondo della via, quello del Civico 16 per la precisione, un uomo era salito sul tetto con uno zainetto, si era seduto sulle tegole e aveva deciso di rimanere lì. Non per buttarsi, non per pro-testare. Non sembrava ci fossero motivi par-ticolari. Era passato da una botola che ave-va trovato dalle scale, ma come avesse fatto quello era un mistero, soprattutto perché l’uomo era un vecchio di circa ottant’anni.
Nessuno era riuscito a capire come fosse arrivato lassù, e perché. Parenti e vicini l’avevano cercato per tutto il giorno, fino a che qualcuno che abitava nello stabile di fronte notò che sul tetto del condominio, al civico 16, un uomo con la barba e i ca-pelli grigi stava seduto a pochi metri dal vuoto, comodo e apparentemente senza paura, a fumare.
Quando il servizio del tg finì, stavo man-giando una cotoletta. Masticai l’ultimo boc-cone, guardai mio padre che con gli occhi bassi continuava a masticare. Mia madre s’e-ra alzata ed era rivolta ai fornelli, si-lenziosa.
«Chissà perché proprio lassù», dissi.«Sarà un pazzo», rispose mio padre senza
aggiungere altro, continuando a tenere lo sguardo verso il basso.
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La guerra è finita da più di un mese: se
nessuno vorrà portarci a casa ci torneremo
da soli. Benedetto, Emanuele, David, Felix,
Gabriele e io abbandoneremo il campo di
smistamento, questa notte, e torneremo per
conto nostro. Benedetto, il più piccolo, ha
dodici anni; Gabriele, il più grande, ne ha
quasi diciotto.
Abbiamo raccolto qualche provvista. Abbiamo
aspettato il tramonto, acquattati lungo la
recinzione. Abbiamo fatto un buco e siamo
usciti nel bosco. Come previsto, nessuno ci
insegue. Ci sono problemi più grandi, a questo
mondo, che ritrovare sei bambini ebrei. Solo
dopo aver camminato tutta la notte, e parte
del mattino, ci siamo riposati. Ci guida
Emanuele. Ha quattordici anni ma ne dimostra
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più di venti. Siamo tutti come lui. Più
vecchi del necessario e senza più nessuno
al mondo.
In due giorni di cammino finiamo le provviste.
Siamo armati! Evitando i paesi e le strade
più frequentate ci siamo trovati a dormire
in un fienile deserto. Andando a farla, David
ha trovato un mucchio di cose abbandonate dai
soldati. Emanuele ha insistito per tenere le
armi: due fucili, una pistola, una baionetta,
una granata vuota, alcune munizioni. Le
abbiamo caricate su una carrozzina e nascoste
sotto coperte e stracci. Dormiamo ancora una
notte nel fienile, sembra un posto sicuro.
Stiamo morendo di fame. Abbiamo vissuto di
stenti, negli ultimi tre anni. Ogni giorno
il cibo sufficiente a non scomparire. Dopo
la liberazione hanno continuato a nutrirci
poco. Non siete più abituati, dicevano. Lo
stomaco si è fatto talmente minuto che non
ci sta niente. Nessuna riserva. E ora più
nessuna provvista. Restando lontano dai
paesi sarà molto difficile sopravvivere.
Felix propone di scendere in paese. Ne
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Scendendo le scale che danno sulla
strada, l’altra mattina, la signora
Antonia, mia padrona di casa nonché
dirimpettaia, ha messo un piede di
sguincio ed è capitombolata. Pare portasse
in mano una sporta piena di banane che
miracolosamente sarebbero andate a
finirle per cappello proteggendole la
testa come un casco, tant’è che sta
cominciando a diffondersi la voce nel
quartiere che se non fosse stato per le
banane la signora Antonia, dopo quel
volo, non si sarebbe più rialzata. Pare
sia rimasta spalmata a terra per più
di un’ora, gridava aiuto ma nessuno la
sentiva. Poi è arrivato il postino e
l’ambulanza e il vicinato e i parenti
e i curiosi. Mentre gli infermieri la
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caricavano sulla barella, più che per
il dolore pare si disperasse perché
la gonna si era sollevata e tutti le
avevano visto le mutande, e pare che
chiamasse il nome di un certo Gianni,
come ipnotizzata, e pare che il marito,
di nome Antonio, sia rimasto piuttosto
perplesso. Diagnosi: frattura della nona
vertebra lombare aggravata da osteoporosi
cronica in stadio avanzato. Non sono
ancora andato a trovarla ma qui intorno
si dice che debba restare in ospedale
per mesi, ingessata fino al mento, e
che le abbiano innestato una barra al
titanio nella schiena, per sorreggere
la colonna, e ho sentito qualcuno che
parlava di una gamba artificiale, qualcun
altro di uno sfregio sulla faccia che
l’avrebbe sfigurata, poi di un femore
che sarebbe esploso come una bottiglia
di vetro sbattuta a terra, e una chiosa,
anonima: «Le sta bene!».
Quello stesso pomeriggio il marito si
è presentato alla mia porta chiedendomi
se potevo occuparmi del gatto per qualche
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«Alle undici di solito mangia uno
yogurt», urlò Annalisa dal bagno.
«Lo so», rispose sua madre dal piano
di sotto. «Ce lo andiamo a mangiare
al parco, che ne dici bambolina?»,
chiese poi alla nipote, dandole un
pizzicotto sulla guancia.
«Non darle quello alla fragola,
quello è il mio», continuò Annalisa.
«Sei pronto?», chiese a Sandro, che
la osservava appoggiato allo stipite.
Gli lanciò un’occhiata veloce mentre
sceglieva il rossetto. «Ho cambiato
idea, togliti la cravatta. È troppo
formale, e poi ti fa sembrare un
mafioso». Sandro ubbidì. «Con questo
caldo, poi. Non è che la gonna è
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troppo corta? No dai, va bene. Mica
devo sembrare una testimone di Geova.
Mi metto le calze?»
«Con questo caldo?»
«Una signora elegante indossa
sempre le calze. Me le metto. Non
posso sembrare sciatta proprio oggi.
Ballerine o decolleté? Ballerine.
Madonna, guarda che capelli mi ha
fatto quel cretino, sembro mia madre.
È l’ultima volta che ci vado».
«Secondo me stai bene».
«Diosanto, sono troppo agitata. Tu
non sei agitato?»
«Un po’. Ma cerca di tranquillizzarti,
vedrai che andrà bene. Ti aspetto
giù».
«Arrivo fra cinque minuti». La
voce di Annalisa era accompagnata
dal ritmo del piede che batteva
frenetico, mentre scorreva con lo
sguardo le borse ordinatamente
sistemate sugli appositi scaffali
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