POTENZIALI APPLICAZIONI
DELL’IPOTERMIA TERAPEUTICA
Autrice Dott.ssa Michela Garbagnoli
Le potenziali applicazioni cliniche dell’ipotermia controllata hanno come comune denominatore la
neuroprotezione e l’attenuazione del danno cerebrale secondario.
Ciascuna indicazione ha raggiunto, ad oggi, un differente livello di evidenza scientifica.
Per maggiore chiarezza nella trattazione seguente riteniamo opportuno definirli.
Livello di prova I: definisce prove ottenute da più studi clinici controllati e/o revisioni sistematiche
di studi randomizzati.
Livello di prova II: definisce prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato.
Livello di prova III: definisce prove ottenute da studi di coorte non randomizzati con controlli
concorrenti o storici o loro metanalisi.
Livello di prova IV: definisce prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o loro
metanalisi.
Livello di prova V: definisce prove ottenute da “case report” privi di gruppo di controllo.
Livello di prova VI: definisce prove basate sull’opinione di esperti, o comitati di esperti come
indicato in linee guida o consensus conference.
L’American College of Cardiology, l’American Heart Association e l’American Association of
Clinical Chemistry propongono la seguente classificazione della forza delle raccomandazioni
scientifiche:
Classe I: Condizioni per le quali ci sono evidenze e/o consenso generale che una
procedura/trattamento sia utile ed efficace.
Classe II: Condizioni per le quali ci sono evidenze contrastanti e/o divergenze d’opinione in merito
all’efficacia/utilità di un trattamento.
Classe IIa: Il peso delle evidenze/opinioni appare in favore dell’efficacia/efficienza.
Classe IIb: L’utilità/efficacia è di minore consistenza nelle evidenze/opinioni.
Classe III: Condizioni per le quali c’è evidenza e/o generale consenso che le procedure/trattamento
non siano utili/efficaci ed in alcuni casi si ritiene possano essere pericolose.
Accenniamo ad alcuni ambiti di interesse clinico nei quali l’ipotermia terapeutica ha, con vario
grado di evidenza scientifica, un razionale terapeutico [1].
1 Ipotermia moderata dopo arresto cardio-circolatorio
L' arresto cardio-circolatorio è la prima causa di morte improvvisa nei paesi occidentali.
Il range di mortalità varia dal 65% al 95% per l'arresto cardio-circolatorio in ambiente extra-
ospedaliero [24] e dal 40% al 50% per quello intra-ospedaliero che si verifichi fuori dalla I.C.U.
[25].
Fra i sopravvissuti, solo il 10% dei pazienti colpiti da arresto cardiaco extra-ospedaliero ed il 20%
dei pazienti colpiti dal arresto cardiaco intra-ospedaliero fuori dalla I.C.U. è scevro da danni
neurologici invalidanti al momento della dimissione dall’ ospedale [25].
Qualora ne sussistano le indicazioni, il trattamento del paziente con ipotermia terapeutica per
ventiquattro ore dopo il ripristino della circolazione spontanea, trova una sua collocazione di rilievo
nell’ambito di un ampio trattamento post-rianimatorio, di tipo intensivo, la cui qualità condiziona in
modo significativo l’outcome del paziente.
Fra gli obiettivi da perseguire dopo la rianimazione iniziale, oltre ad assicurare il mantenimento
della pervietà delle vie aeree, di una ventilazione ed ossigenazione adeguate e di stabilità
emodinamica, vi è quello di limitare le conseguenze delle lesioni indotte dal meccanismo ischemia-
riperfusione, in particolare a livello cerebrale.
L’insulto neurologico complessivo è dato dalla sommatoria del danno primario che si verifica per
l'ipo/anossia da non perfusione durante la fase di arresto cardio-circolatorio, e del danno secondario
dovuto alla generazione di radicali liberi ed altri mediatori cellulari durante la riperfusione [25,26].
Gli studi fondamentali ai fini di decretare l'efficacia dell'ipotermia terapeutica nella
protezione/mitigazione del danno cerebrale post arresto cardio-circolatorio principalmente due.
Il primo è stato pubblicato nel 2002 da Bernard e i suoi collaboratori su “New England Journal of
Medicine”, è stato condotto in Australia ed include 77 pazienti (43 costuituivano il gruppo
sottoposto a ipotermia e 34 il gruppo di controllo). In questo studio il raffreddamento è stato iniziato
precocemente in ambulanza durante il trasporto in ospedale dei pazienti rianimati con successo. Il
target di temperatura era di 33°C per un periodo di 12 ore. Gli autori riportano un significativo
incremento dei pazienti scevri da danno neurologico o con disabilità moderata alla dimissione
dall’ospedale: 21/43 versus 9/34 ossia il 49% versus il 26% (p=0,046); non sono state evidenziate
significative differenze nella sopravvivenza tra i due gruppi: 21/43 versus 11/34 (p= n.s.) [27]. Il
secondo ampio studio in merito è stato condotto in Europa dall' "Hypothermia After Cardiac Arrest
Study Group” ed è stato pubblicato sempre su “New England Journal of Medicine” nel 2002. Esso
include include 273 pazienti di cui 136 sottoposti ad ipotermia moderata dopo arresto cardio-
circolatorio e 137 rappresentanti il gruppo di controllo. Il raffreddamento è iniziato dopo una
mediana di 105 minuti ed è stato mantenuto per 24 ore, con un target di temperatura di 32-34°C. I
criteri di inclusione/esclusione erano estremamente selettivi.
CRITERI DI INCLUSIONE HACA STUDY GROUP
CRITERI DI ESCLUSIONE HACA STUDY GROUP
Figura 8: Criteri di inclusione/esclusione HACA Study Group.
I risultati ottenuti relativamente alla sopravvivenza e all’outcome neurologico saranno illustrati
successivamente.
Studi su animali da esperimento e, in seguito, trials clinici, hanno dimostrato che gli effetti di
protezione cerebrale dell'ipotermia moderata in caso di arresto cardio-circolatorio da asistolia e
PEA (Pulseless Electrical Activity), se testimoniato, sono paragonabili a quelli ottenuti in caso di
arresto cardio-circolatorio da fibrillazione ventricolare e tachicardia ventricolare senza polso. Fra
essi, l’incidenza sull'evidenza clinica è stata raggiunta dallo studio di Polderman e collaboratori
pubblicato su “Circulation” nel 2003 [29].
Su questa base, il gruppo “European Resuscitation Council Hypothermia After Cardicac Arrest
Registry Study Group” (ERC HACA-R) ha pubblicato nel 2007 uno studio multicentrico su
“Critical Care Medicine”. Esso, realizzato con la collaborazione di 19 centri europei, ha incluso
587 casi di pazienti rianimati con successo dopo arresto cardio-circolatorio sia ambito intra che
extra ospedaliero, con qualsiasi ritmo di presentazione, ponendo come condizione che la PEA e
l’asistolia fossero testimoniate; la metà più uno dei pazienti sono stati poi sottoposti a ipotermia
moderata. Il target di temperatura ers di 33 ± 1°C, l’ipotermia doveva protrarsi per 24 ore, ed il
successivo riscaldamento avvenire gradualmente in un tempo minimo di 8 ore. Il 75% dei pazienti,
in 13 dei 19 centri, è stato raffreddato con infusione di liquidi freddi; tramite questa metodologia, il
target di temperatura si è raggiunto in 150 minuti, a fronte dei 75 minuti necessari per lo stesso
risultato con metodi di raffreddamento esterni. La mediana della durata del raffreddamento è stata
di 24±0,5 ore, ed il riscaldamento si è ottenuto fra le 6 e le 15 ore.
L’arresto cardiocircolatorio è esordito con PEA o asistolia nel 43% dei casi in ambito
intraospedaliero e nel 62% in ambito extraospedaliero.
Si sono ottenuti i seguenti risultati: outcome sfavorevole nel 68% dei pazienti trattati in
normotermia, versus il 55% nel gruppo trattato in ipotermia; la mortalità durante la degenza in
ospedale del gruppo trattato a normotermia è stata del 65% versus il 43% del gruppo sottoposto a
ipotermia. Anche i pazienti il cui ritmo di presentazione è stato PEA o asistolia hanno beneficiato
dell’ipotermia. Si è ritenuta questa osservazione di grande valore, considerato che tali ritmi di
presentazione si offrono a considerare nell’85% dei casi di arresto cardiaco extra-ospedaliero [30].
Gli studi citati hanno portato all’evidenza scientifica di classe I per l’applicazione di ipotermia
moderata dopo arresto cardio-circolatorio esordito con fibrillazione ventricolare o tachicardia
ventricolare senza polso. Se il ritmo di presentazione è stato l’attività elettrica senza polso o
l’asistolia, testimoniate, la classe di evidenza scientifica, definita già come III da Polderman nel
2008 sulla rivista scientifica “Lancet” [31], è stata poi elevata a II b dalle linee guida dell’American
Heart Association 2010 [32].
2 Ipotermia moderata dopo “traumatic brain injury”
Il “traumatic brain injury” è la più comune causa sia morte che di disabilità grave nella
popolazione giovane degli Stati Uniti e dell’Europa. Il danno legato al TBI è distinguibile in
primario, immediato, direttamente correlato all’impatto e probabilmente irreversibile, e danno
secondario, sulla cui mitigazione e prevenzione si sono studiati i potenziali effetti dell’ipotermia
moderata.
Si è notato che nelle aree interessate da edema cerebrale, a rischio di danno da ischemia/
riperfusione, vi era un aumento della temperatura locale di circa 2°C, rispetto a quella misurata a
livello centrale. Dopo diversi studi su animali, dal 1993 al 2001 sono stati pubblicati otto trials
clinici in merito in diversi centri specializzati in neuro-trauma, con esperienza nell’uso
dell’ipotermia indotta: i benefici di tale trattamento non sono stati statisticamente significativi; si
sono dovute considerare, invece, le possibili complicanze dell’ipotermia indotta, in particolare,
bradicardia, ipotensione, disordini elettrolitici ed insulino-resistenza, per via dell’influenza negativa
sull’outcome del paziente affetto da TBI.
Attualmente, sebbene sia ancora oggetto di studio, l’ipotermia moderata post TBI ha livello di
evidenza classe II b [1,33,34].
3 Ipotermia moderata dopo ictus ischemico
Un’altra potenziale applicazione clinica dell’ipotermia terapeutica è l’ambito dello stroke, ove essa
potrebbe avere un ruolo nel miglioramento dell’outcome neurologico soprattutto se vi è stato
l’infarcimento del territorio dell’arteria cerebrale media. Le casistiche degli studi in merito ad oggi
sono limitate e i benefici dell’applicazione di tale trattamento ancora incerti, come pure le modalità
di applicazione; pertanto l’evidenza scientifica di tale provvedimento terapeutico attualmente è in
classe III [1,35].
Nel 30-60% dei pazienti con ictus ischemico e nella maggior parte dei pazienti con emorragia
intracerebrale o subaracnoidea, la febbre incide negativamente sull’outcome neurologico poiché
incrementa il metabolismo cerebrale, il rilascio di glutammato e la formazione di edema. Inoltre,
essa induce la distruzione della barriera emato-encefalica e l’infarcimento della penombra
ischemica dopo ictus; in questi casi, se il paziente è incosciente e sottoposto a ventilazione
meccanica, l’applicazione di 24-48 ore di ipotermia moderata è efficace e rientra in classe II b di
evidenza scientifica [1].
4 Cenni ad altre possibili applicazioni dell’ipotermia terapeutica
Altri possibili campi di applicazione clinica dell’ipotermia moderata sono inerenti al suo utilizzo
nella prevenzione del vasospasmo in pazienti con emorragia subaracnoidea; attualmente, il livello di
evidenza scientifica è di classe IV.
L’ipotermia terapeutica in ambito della terapia intensiva pediatrica è in fase di studio per quanto
riguarda il trauma cranico mentre l’applicazione della stessa nella fase successiva all’arresto
cardiocircolatorio è da anni già in vigore, e si protrae per quarantotto ore dopo il ritorno alla
circolazione spontanea.
A livello intraoperatorio sono ormai indiscussi i benefici del raffreddamento programmato in
cardiochirurgia, ove è utilizzato sistematicamente da decenni.
Al contrario, ad oggi non risultano adeguate le evidenze in campo neurochirurgico né in chirurgia
vascolare, ove si era presa in considerazione la possibilità di protezione midollare e prevenzione da
paraplegia, tramite ipotermia moderata, durante i trattamenti open dell’aorta toracica [1].
In conclusione, proponiamo uno schema riassuntivo delle possibili applicazioni cliniche
dell’ipotermia moderata, indicando per ciascuna il livello di evidenza scientifica raggiunta e
l’effettiva efficacia [31].
Figura 9: Possibili indicazioni per l’utilizzo clinico di ipotermia moderata; Kees Polderman,
Lancet, 2008 [31.]
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Autore
Dott.ssa Michela Garbagnoli
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