Paesi Brics, vita da cervelli in fuga: sogni e disillusioni degli italiani tra Cina e Brasile
Gli ostacoli legali, burocratici, le differenze culturali e linguistiche raccontati da
chi ha scelto di tentare fortuna nei paesi in via di sviluppo. Davide ha aperto
una start up a Minas Gerais. Fabio fa il mediatore a Belo Horizonte, Ferdinando
vive a Mosca e gestisce un negozio di abbigliamento. Giuseppe è un cuoco.
Francesco ha scelto l'India e Jacopo la Cina. Mattia è astronomo in Sudafrica.
Ma a dispetto dei tassi di crescita, per gli italiani non è un Eldorado
Le economie emergenti del pianeta, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (i
cosiddetti Paesi Brics, acronimo inventato da Jim O’Neill, ex dirigente della banca
d’affari Goldman Sachs) sono diventate il nuovo Eldorado. Non per tutti. Solo per chi
ha spirito di adattamento, non vuole un lavoro mordi e fuggi e si dà da fare per
imparare la lingua, strumento indispensabile per avere successo nel lungo periodo.
Capire come vivono gli italiani in queste terre lontane, per geografia e cultura, non è
semplice. Scordatevi le “little Italy” di una volta. Oggi anche quando ci troviamo a
migliaia di chilometri da casa, non occupiamo lo stesso quartiere per sentirci meno
spaesati, difficilmente trascorriamo insieme il tempo libero, preferendo familiarizzare
con gli stranieri. Rintracciare le comunità italiane nei Brics dunque è impossibile,
perché non esistono. Al massimo su Facebook. Qui i primi expat hanno aperto
pagine per scambiarsi consigli e informazioni, magari organizzare eventi, solo all’inizio
però, per rompere il ghiaccio. Poi si sparpagliano o formano piccoli gruppi. Non c’è
niente di cui stupirsi. La società contemporanea è globale, e per chi ci è nato è la cosa
più normale del mondo.
Scappare negli ex terzo mondo per cambiare vita non basta. Bisogna investire. Come
sta facendo in Brasile Davide Nastasi, 25 anni, di Roma, che assieme a due amici nel
novembre 2013 ha fondato una start up, la Kobrin.co, per la creazione di accessori di
design con stampanti 3d. “Abbiamo partecipato a un bando del governo diMinas
Gerais, che metteva a disposizione 30 mila dollari per ogni start up – spiega
Davide, una laurea in Giurisprudenza – eravamo gli unici italiani. La fase di
incubazione è durata sei mesi, da gennaio a luglio. La nostra intenzione è tornare al
più presto in Brasile e iniziare l’attività”. Finora hanno disegnato e confezionato
occhiali da sole e speaker acustici, tutti andati a ruba. “La domanda di beni è
altissima. Restare vincolati al mercato italiano non è lungimirante, anzi è un peccato
originale che ti segna per sempre”. Davide e suoi colleghi nel frattempo hanno seguito
un corso di portoghese. “Se non sai la lingua, non riesci a entrare nella loro
mentalità”.
Lo sa bene Fabio Maggi, 43 anni, milanese, che a Belo Horizonte, la capitale dello
Stato di Minas Gerais, fa il mediatore per gli investitori stranieri. “La maggior parte
degli italiani arriva qui e crede di farcela da sola. Poi capisce che non è possibile. C’è
un sottointeso da imparare: i brasiliani in genere sono pigri, hanno tempi di risposta
dilatati, a volte ignorano le offerte perché hanno già tanto lavoro, anche se subito non
rifiutano la proposta. Retaggio del passato coloniale, quando la gente era abituata solo
a obbedire”. Fabio elenca i settori trainanti del mercato brasiliano sono:
“Quello immobiliare e quelli ad esso connessi, quindi elettrodomestici, arredamento,
idraulica, eccetera; energie rinnovabili, telecomunicazioni, gas e petrolio”. Per trovare
un socio d’affari e i clienti ha sfruttato il gruppo su Linkedin “Italians doing business in
Brazil”, quasi 4 mila membri. “Molti italiani alla fine mollano e tornano a casa” dice.
Perché? “Per la paura degli animali, non scherzo. Per esempio, Belo Horizonte è
stata realizzata in mezzo a una foresta, ci sono le scimmiette arrampicate sui fili della
luce, se lasci un succo di frutta sul tavolo nel giro di qualche minuto si riempie di
formiche, e ovunque ti imbatti in ragni enormi”. Altro problema: la mobilità. “Non
esistono i treni e gli autobus sono pochi e malconci. Il sogno di ogni brasiliano è
guadagnare abbastanza per comprarsi un’auto”. La criminalità non è da sottovalutare.
“I banditi entrano in uffici e ristoranti, chiudono le porte e chiedono soldi”. Il costo
della vita poi è cresciuto parecchio negli ultimi anni e il protezionismo frena gli affari.
“Un prodotto importato vale il 60 per cento in più. Anche la logistica è arretrata e i
trasporti cari”.
In Russia bisogna fare i conti con inverni rigidi e una lingua difficile, che conviene
studiare per non essere tagliati fuori. Chi opta per Mosca deve prepararsi a spese alle
stelle. In pratica, anche qui, la stessa regola: o ti metti nell’ottica di investire tempo,
energie e denaro prima di far soldi, oppure dopo qualche mese getti la spugna e te ne
vai. Ferdinando Baldini, 38 anni, milanese, dal 2006 vive e lavora nella capitale
russa. È il fondatore del gruppo “Italiani a Mosca” su Facebook. “Gli iscritti sono
studenti, lavoratori, anche i pensionati che si sono sposati con una donna del posto.
All’inizio organizzavo cene da cento persone, ora non ce n’è più bisogno, sono nati dei
gruppetti. Magari chi è appena arrivato ci contatta”. Ferdinando parla bene il russo e
gestisce uno showroom di abbigliamento sportivo. “Il mercato dei brand di lusso
è saturoormai, serve altro”. Nessun progetto di rientrare in patria, per ora. “Voglio
aprire un negozio tutto mio”. Oltre al carovita (Ferdinando spende 1400 euro
d’affitto al mese per 50 metri quadri), c’è la preoccupazione del visto. “Se sei un
semplice dipendente dura un anno, tre se hai una qualifica e uno stipendio alto. Ne
esistono anche altri, ogni volta una trafila per rinnovarlo”.
“Il muratore che diventa chef non esiste più. Non c’è disoccupazione, vero. Ma non
basta essere italiani per sfondare”. Giuseppe D’Angelo, 38 anni, ne ha fatta di
strada prima di diventare il capo degli chef del tempio della cucina italiana a
Mosca: Culinaryon, dove privati e aziende imparano a fare tortellini e risotti, scolare
spaghetti, sfornare carne e dolci del Belpaese, negli spazi esclusivi del Novinskij
Passage, un centro commerciale di superlusso. “Sono partito da Napoli nel 2008.
Facevo lo chef di bordo sugli yacht, d’inverno l’avvocato. Siamo una famiglia di
avvocati da sette generazioni. Ma non faceva per me. Un oligarca russo mi chiese di
fargli da cuoco personale nella sua residenza, a Rublyovka, a un’ora dalla capitale.
L’ho seguito, ho resistito per due mesi, poi mi sono licenziato, era una prigione
dorata, sempre sorvegliato, non sapevo il russo, non avevo vita sociale”. Giuseppe,
tramite dei fornitori, trova un posto in un ristorante a Ufa, la capitale della Baschiria,
una repubblica della Federazione russa. Qui dura poco più di un anno, poi si
trasferisce a Mosca. “C’era un’offerta di lavoro per un ristorante italiano in un
quartiere business, di banche e uffici. Dopo otto mesi me ne sono dovuto andare
un’altra volta. Mettevano il becco in cucina, per ridurre i costi mi costringevano a
cambiare le ricette: per ammorbidire la pasta alla carbonara dovevo usare la panna e
non il brodo; per condire olio di sansa e non quello extra vergine di oliva”. Quindi
cambia ristorante, altri tre anni. Da luglio scorso inizia a dedicarsi completamente alla
scuola di cucina. “È la più grande d’Europa. Organizziamo corsi di cucina per privati,
consulenze per aziende o eventi, come le feste di compleanno, in cui amici e
festeggiato si preparano la cena”. Cinque mila iscritti al mese e un progetto in
franchising in cantiere. “Il costo della vita è folle. Per stare in centro, vicino al lavoro,
spendo circa due mila euro al mese di affitto per 80 metri quadri”.
Cercare fortuna in India? Dipende, anche qui. “Ci sono circa due mila filiali di
imprese italiane – riferisce Sergio Sgambato di Assocamerestero – questo è il tipo di
business che funziona, quelli che partono all’avventura si contano sulle dita di una
mano. L’inefficienza del sistema è tale che il vantaggio sul lavoro è minimo: la
manodopera costa poco ma le infrastrutture fanno schifo”. I settori di investimento
più gettonati sono quello industriale (macchinari tessili, per la trasformazione
alimentare, lavorazione del marmo, gioielleria, automotive) e quello dell’informatica.
“C’è un mercato enorme, entusiasmo e voglia di fare” esordisce al telefono
Alessandro Fichera, 39 anni, amministratore di Octagona, società che fornisce
consulenza e servizi per le aziende che vogliono espandersi in India, Vietnam e
Brasile. Le difficoltà, però, sono all’ordine del giorno. “Vivo a New Delhi dal 2004 –
racconta – l’India non è un ambiente confortevole. Pesano le barriere culturali, il caos
nelle strade, il rumore dei clacson, la sporcizia e una burocrazia complicatissima. Per
aprire un conto bancario ti serve un santo in paradiso. Ogni banca ha le sue regole, ti
chiede documenti diversi per fare la stessa cosa. Alla sera ho il fegato gonfio”. La
scelta migliore, insiste, “è produrre in India per il mercato indiano, e non in Italia per
vendere qui. I costi vengono ammortizzati a fatica”.
“Ogni volta che ho mandato il cv mi hanno risposto offrendomi un posto, ero io che
dovevo rifiutare”. Francesco Santini, 30 anni, di Torino, si innamora dell’India
durante un viaggio in solitaria. “Sono partito nel febbraio 2013, con pochi soldi in
tasca, ci sono stato per tre mesi, ho lavorato in una fattoria in cambio di vitto e
alloggio”. Ha già una laurea in Scienze internazionali, un master in studi europei, uno
stage all’Unido (agenzia Onu per lo sviluppo industriale) e un altro all’Ilo (agenzia Onu
per il lavoro). “Ero un precario e avevo voglia di scoprire una cultura nuova”. A
settembre dell’anno scorso ci ritorna. “Ho lavorato per un’ong, ho insegnato
italiano nelle scuole, ho fatto il figurante nei matrimoni dei ricchi, 50 euro per 4 ore”.
Gli italiani li incontra alle feste per expat, alcuni tramite il sitoCouchsurfing.org. Ma la
maggior parte del tempo lo spende con gli indiani. “Tentano sempre di fregarti sul
prezzo perché sei bianco, rispondono sempre ‘sì’ anche quando non possono fare una
cosa o non ce l’hanno, non sono molto precisi, alla fine perdi la pazienza”. Che farsene
del bagaglio di conoscenze e aneddoti accumulato? A giugno decide di aprire un sito
web, Indiainout.com, con altri nove italiani, giornalisti, traduttori, appassionati di
India e Bollywood, contattati su Facebook. Notizie su usi, costumi, politica, viaggi,
cinema e l’intenzione di creare una bacheca di annunci lavoro. “Per ora a gratis,
speriamo di trovare presto degli sponsor”.
Nel 2013 in Cina è nata la prima associazione per giovani expat italiani. Si chiama
Agic (Associazione dei Giovani italiani residenti in Cina), conta 200 soci a Pechino, 15
a Shanghai, una trentina nelle altre sezioni di Chongqing, Chengdu, Hangzhou, 600
iscritti alla mailing list. Tutti tra i 16 e i 40 anni. “Organizziamo eventi ogni mese,
come l’aperagic, cioè l’aperitivo itinerante, biciclettate, feste, convegni con
imprenditori cinesi o italiani che raccontano come hanno aperto start up, ong, studi di
architettura in Cina” spiega Jacopo Bettinelli, nel consiglio Agic. Ventisette anni, da
due a Pechino, una laurea in lingue orientali a Venezia, precisa: “Non sono fuggito
dall’Italia, sono partito perché ero attratto dalla cultura cinese”. Jacopo, da 4 mesi
sposato con una ragazza cinese, lavora nell’ufficio comunicazione di un’azienda locale
e guadagna quasi due mila euro al mese. “Seguo i rapporti con i clienti italiani. Faccio
tutto da solo. In Italia senza esperienza pregressa non avrei mai avuto un ruolo così.
Qui ti danno subito tanta responsabilità”. Il peggior nemico è l’inquinamento. “Giro
con la mascherina alla bocca, in casa ho due filtri dell’aria e sul cellulare un’app che
misura il livello di polveri sottili. Per questo in futuro traslocheremo nel sud della Cina
o in un altro Paese nel sud est asiatico”. Al mese spende 600 euro di affitto per 60
metri quadri, e altri 400 per cibo e spese varie. “In Cina le cose sono cambiate, non
basta tirare i calci per far uscire le pepite d’oro. Se lavori in nero e ti scoprono, il
governo ti espelle. Da luglio c’è stato anche un giro di vite sul visto. Stanno
diventando selettivi e più rigorosi”.
Anche Cecilia Freschini, 35 anni, vive a Pechino. Il suo obiettivo è promuovere l’arte
contemporanea italiana nel Paese del Dragone. “I nostri artisti qui soffrono di
invisibilità”. Nata e cresciuta a Verona, è un’esperta di economia dell’arte. Nel 2010
ha creatoLab-Yit, una piattaforma online per dare visibilità agli artisti italiani
attraverso mostre e progetti di vario tipo. “Quando arrivano, nessuno sa niente di
loro. Istituzioni, giornali, uffici stampa. E loro non sanno come muoversi. Gli enti che
regalano premi di residenze artistiche non si occupa del loro soggiorno, provocando
disagi pazzeschi. Per uno straniero la Cina sembra Marte, è difficile fare da soli. Non
capita agli artisti di altre nazionalità, che di solito sono seguiti dal Paese di
provenienza”. Così per gli italiani ci pensa lei, insieme all’Istituto italiano di cultura
(che “fa quel che può, perché non ha molti fondi”): organizza volo, pernottamento,
trasferte, conferenza stampa con le testate del settore, e ovviamente la galleria.
Infine, il Sudafrica. “Gli italiani frequentano expat di altre nazionalità – lo
conferma Ciro Migliore, che nove anni fa ha fondato la Gazzetta del Sudafrica – in
tanti hanno aperto bar e ristoranti, altri sono nel turismo”. Mattia Vaccari è
un’eccezione. Trentanove anni, da tre a Cape Town, nato a Treviso, laurea e
dottorato in astronomia a Padova. “Con un team di venti persone sto lavorando al
progetto di un radiotelescopio per ricevere segnali extraterresti dalle galassie più
distanti che sarà realizzato nel deserto del Karoo, a un giorno di viaggio da qui. È il
sito migliore sulla Terra per questo genere di studi”. Mattia ha risposto all’annuncio
pubblicato sul sito dell’American astronomical society. “Mi trovo bene, il clima è bello,
la gente solare e rilassata. Ci sono tante contraddizioni però. I neri sono in soggezione
dei bianchi, ci sono le università per i ricchi e quelle popolari, le baracche e le ville con
piscina, i suv e i carretti trainati dai cavalli”. Finalmente può permettersi di vivere da
solo. “Pago 600 euro per una casa sul mare di 80 metri quadri. A Padova dovevo
condividere la stanza. Ora riesco anche a mettere via qualche soldo e mi sono preso
pure la macchina, il trasporto pubblico è scadente”.
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