COsA è È una “tragedia giapponese in tre atti”, è un’appassionata, meravigliosa e dolorosa storia d’amore im-
mersa in un oriente reinventato, è l’apoteosi dell’amore infelice e della sensibilità femminile. Andata in
scena per la prima volta nel 1904, resta ancora oggi una delle opere più amate nel mondo. Trasposizione
di quel e gusto artistico liberty floreale che aveva trionfato nell’Esposizione Universale di Parigi nel
1900 (ed in Italia, in quella torinese del 1902), Madama Butterfly rappresenta un affondo tra Verismo
ed esotismo. Un’opera tutta tesa all’intimismo ed alla ricerca della “poesia delle piccole cose”, ma anche
una partitura che possiede melodie celeberrime e molte doti d’ordine squisitamente musicale: un canto
plastico ed una musica che è stata definita “facile da ricordare ma composita, complessa nella sua costru-
zione”, ed un uso sapiente di quei “motivi conduttori” che erano cifra del teatro wagneriano.
CHI HA sCRITTO LA MUsICAÈ Giacomo Puccini (1858 – 1924), l’erede di Verdi, il compositore che ha saputo raccontare lo spirito
tardo romantico di fine ‘800 ma anche i nuovi stimoli del primo ‘900. Accogliendo solo in parte gli
slanci del verismo musicale di fine secolo, crea un proprio stile originale, arricchito da una capacità di
scrivere melodie d’una bellezza indicibile. Sempre attento ai cambiamenti di gusto del pubblico, persino
alle nuove mode, Puccini cerca costantemente di rinnovare il proprio stile. Curioso, concreto, ingeg-
noso, esegue delle ricerche sulla cultura musicale dei paesi (o dei periodi) laddove sta ambientando le
sue opere. Per esempio approfondisce il canto gregoriano (componendo Tosca), i temi orientali (per dare
colore locale alla sua Madama Butterfly e alla Turandot), e motivi legati al folklore americano e ritmi
degli indiani d’America per La fanciulla del West.
All’epoca di Madama Butterfly Puccini ha quarantasei anni. Definirà così la sua opera “giapponese”: «è
la più sentita e suggestiva che io abbia mai concepito».
COsA RACCONTACio-Cio-San, ovvero la quindicenne Butterfly, è la “sposa bambina” (leggiadra come una farfalla), la
grande protagonista del dramma lirico, vittima dell’amore e della propria cieca fiducia verso l’uomo oc-
cidentale. Si chiama Pinkerton invece il tenente di Marina (lo «jankee vagabondo - come egli stesso si
definisce - che si gode e traffica sprezzando i rischi»), che prima la sposa e poi l’abbandona, e addirittura,
dopo tre anni di assenza, torna a Nagasaki (dove si svolge l’azione), con la sua vera moglie americana,
Kate. Cio-Cio-San, che per quest’uomo ha rinnegato la propria religione, che fino all’ultimo si è ostinata
nel volerlo aspettare ed amare (sognando «un bel dì» di vedere «un fil di fumo» all’orizzonte del mare, da
cui poi spunterà la nave bianca di Pinkerton), si deve arrendere all’evidenza. Ed anzi accetta di conseg-
nare il proprio figlio, nato dal loro amore, alla coppia americana, ma non resiste e s’uccide, con lo stesso
coltello con cui suo padre ha fatto harakiri. E sull’arma è incisa la frase «Per morire con onore quando
non si può più vivere con onore».
Dunque la storia è tutta svolta nella lenta progressione dalla felicità alla tragedia di questa giovanissima
geisha, costata a Pinkerton solo cento yen e procurata da Goro, quel «gran perla di sensale», che altro
non è se non un viscido intermediario. Infatti l’opera comincia con la festa del matrimonio (seppure
funestata da un presagio, che troviamo nella maledizione del bonzo parente di Cio-Cio-San) per poi
riversarsi nella speranza e nell’attesa (secondo atto) ed infine nel doloroso epilogo del tradimento accolto
con il rifiuto della vita, il suicidio.
sTORIA DELLA sTORIA Per seguire le fonti letterarie da cui la “farfalla” giapponese prende forma (grazie ai librettisti Giuseppe
Giacosa e Luigi Illica) bisogna risalire ad un autore francese, l’accademico di Francia Pierre Loti, che era
stato tenente di Marina e che dunque aveva conosciuto di persona gli ambienti esotici che descriveva nei
suoi romanzi. Nel 1885 Loti è a Nagasaki e apprende il fatto che tra i marinai occidentali è consuetudine
sposarsi con le giovani giapponesi, anche perché i vincoli nuziali perdevano valore, per tacito accordo,
in concomitanza con il rimbarco dei mariti marinai.
Probabilmente anche lo scrittore francese visse questa esperienza, che in seguito raccontò in un roman-
zo, Madame Chrysantheme, nel 1887. Crisantemo dal nome della protagonista, Kihou-San. Mentre
Cio-Cio-San è il nome della nuova geisha, nel racconto apparso dieci anno dopo in America, ad opera
dello statunitense John Luther Long.
Il successo del testo fu tale da indurre molti a chiedere i diritti per una riduzione teatrale del lavoro, e
fu David Belasco ad ottenerli, e ad apportare la fondamentale modifica al testo nel finale, con l’epilogo
drammatico del suicidio.
Belasco, astuto ed ingegnoso uomo di teatro che adattò la storia di Butterfly per le scene dell’Herald
Theatre di New York nel marzo del 1900 e che catturò sensibilità di Puccini nell’estate di quell’anno.
Puccini che restò affascinato dalla storia, così lacrimevole, con quel suo “grande dolore in una piccola
anima” che tanto ricordava la sua Mimì (di La Bohème), ma anche dalla messa in scena, dalla regia e
dall’ambientazione giapponese. Anche perché il compositore non conosceva una parola di inglese, e
dunque non ha potuto certo apprezzare i dialoghi del lavoro teatrale.
L’incontro in camerino tra Puccini e Belasco è testimoniato dal biografo di Belasco stesso. Si narra che
il compositore con gli occhi umidi per l’emozione, avrebbe abbracciato il drammaturgo chiedendogli
l’autorizzazione a poter musicare il soggetto. E Belasco stesso ricordando l’incontro ebbe a dire: «gli dissi
subito di sì, che facesse del dramma ciò che voleva: non era possibile discutere d’affari con un impulsivo
italiano come quello, che aveva le lacrime agli occhi e ti serrava le braccia intorno al collo».
L’ORIENTE DI PUCCINI Nell’opera in questione è possibile cogliere di frequente quell’esotismo musicale ricercato con grande
cura dal compositore lucchese (ripreso poi, vent’anni dopo, in Turandot). Puccini studia la cultura ed i
riti nipponici, si mette in contatto con l’ambasciatore del Giappone, si fa mandare alcune raccolte fono-
grafiche di documenti musicali legati al folclore orientale. Si preoccupa persino di ascoltare di persona le
qualità timbriche della voce femminile giapponese, da un’attrice “madrelingua”, in tournée europea. In
Madama Butterfly troviamo le caratteristiche scale pentatoniche, oltre ad alcune melodie raccolte dalla
tradizione giapponese, molteplici effettismi strumentali di evidente sapore esotico, realizzati attraverso
l’uso dello xilofono, delle campane, del registro acuto del flauto.
LA TRAMA Primo atto - L’azione si svolge al principio del Novecento, a Nagasaki. Benjamin Franklin Pinkerton,
nella sua divisa militare, sta visitando con divertita superiorità la casa a soffietto (ovvero a pannelli scor-
revoli) con Goro, il viscido sensale. L’americano l’ha acquistata per farne un provvisorio nido d’amore,
in quanto sta per sposarsi, per capriccio, con la geisha bambina. Arriva il primo invitato alla cerimo-
nia, l’amico e console Sharpless (baritono). I due chiacchierano di fronte ad un bicchiere di whisky, e
Pinkerton gli espone, introdotto dal tema dell’inno americano, la sua cinica filosofia di jankee che vuol
godere la vita, anche al prezzo di calpestare i sentimenti altrui. A nulla serve la paternale di Sharpless,
che definisce questa dichiarazione come un “facile vangelo”. Accompagnata dalle amiche giunge But-
terfly e narra la sua storia: confessa di essere stata costretta a fare la geisha, in quanto di famiglia nobile,
ma caduta in miseria. Vive con la mamma, mentre il padre è morto, ha fatto harakiri sotto invito
dell’imperatore, con un pugnale che oggi lei conserva gelosamente. Ma Cio-Cio-San è felice di sposare
Pinkerton, e lo ama al punto da aver ripudiato i propri dei, il giorno prima delle nozze, per abbracciare
la religione dello sposo, di nascosto dai parenti. Parenti che sopraggiungono numerosi e “coloriti”. Con-
osciamo anche la fedele servitrice Suzuki (mezzosoprano), e finalmente si celebrano le nozze. Mentre
Pinkerton – impaziente - cerca di sbarazzarsi degli invitati orientali, irrompe nella festa lo zio Bonzo,
ovvero sacerdote buddista. Lui sa del cambio di religione e lo grida ai parenti, maledicendola. Pinkerton
caccia tutti gli invitati, ed il pianto di Butterfly, «rinnegata e felice», viene ammorbidito dalle parole
amorose di Pinkerton. Le dice «bimba non piangere» , e lei chiede – tappandosi le orecchie – se si sente
ancora l’eco delle voci minacciose dei parenti. Pinkerton rimane pur sempre un marinaio senza scrupoli
in cerca d’avventura, ma in questo momento dell’opera acquista una momentanea luce romantica…
Secondo atto - Sono passati tre anni, siamo all’interno della casa di Butterfly. Accompagnato da Goro
sopraggiunge Sharpless per preparare Butterfly ad un colpo terribile che è nel contenuto di una lettera
di Pinkerton. Ma prima che il console trovi il coraggio di leggergliela (dentro vi è scritto che ha ripreso
moglie) la giovane vuol sapere, con commovente candore, quando in America il pettirosso rifà la nidiata.
«Qui – dice, riferendosi alla promessa di un ritorno – l’ha rifatto ben tre volte, ma può darsi che là usi
nidiar men spesso». Goro scoppia a ridere, e allora Cio-Cio-San rinfaccia al sensale tutta la viscidità che
adopera per trovarle un nuovo marito. Uno dei pretendenti è il ricco Yamadori, che giunge di lì a poco.
Nonostante le sue promesse di benessere e fedeltà, lei si dichiara fieramente già sposata e lo caccia. Il
console le consiglia invece di accettare, facendole comprendere che Pinkerton potrebbe non tornare. Al-
lora la giovane corre nella stanza accanto e torna mostrandogli un bambino biondo, il proprio. Sharpless,
commosso, promette di informare Pinkerton dell’esistenza di un suo figlio, ed esce turbato. Un colpo
di cannone annuncia l’entrata in porto di una nave. Ed è proprio la cannoniera americana «Lincoln».
Butterfly sembra impazzire di gioia: «Tutti hanno mentito – grida – sol io sapevo, io che l’amo». In-
dossa il suo abito nuziale, riempie di fiori la casa, e poi, mentre cala la notte, fa un foro nella parete di
carta della sua casa e da quello guarda, attende in piedi tutta la notte. All’alba (dopo un meraviglioso
coro ed un intermezzo strumentale che comprende anche la simulazione del cinguettare degli uccelli)
Suzuki la convince a riposarsi. Illusa, sicura che il suo amato verrà col pieno sole, entra con il bimbo in
braccio nella stanza da letto. Frattanto Pinkerton è giunto a Nagasaki, con la moglie americana, Kate.
L’uomo sale alla casetta di Butterfly insieme a Kate ed a Sharpless, per convincere la sposa giapponese
ad affidare a Kate la loro creatura. I due uomini sperano che Suzuki possa preparare Butterfly al colpo
atroce. Pinkerton, vinto dal rimorso, si allontana. Ad attendere il risveglio di Cio-Cio-San, sono rimasti
Kate ed il console. Irrompe Butterfly, svegliata dalle voci, e cerca invano il suo sposo. Poi vede Kate e
comprende tutto. Quest’ultima, chiedendole perdono, si mostra disposta ad avere cura del bimbo, ed
a provvedere al suo avvenire. Butterfly, impietrita, assicura che darà il suo bambino, ma soltanto diret-
tamente a Pinkerton, se lui stesso – dopo mezz’ora – verrà a chiederglielo. Quindi ordina a Suzuki di
chiudere le imposte («troppa luce, di fuori, troppa primavera») e di andare a far compagnia al bimbo che
gioca. Inginocchiatasi, estrae il pugnale del padre. Ha già il coltello puntato alla gola quando, sospinto
da Suzuki, il bimbo entra nella stanza. Butterfly lascia cadere l’arma e stringe tra le braccia il piccolo,
mormorando atroci parole d’addio. Gli dice: «tu piccolo Iddio, amore mio, fior di giglio e di rosa, non
saperlo mai: per te, per i tuoi puri occhi, muor Butterfly, perché tu possa andare di là dal mare senza che
ti rimorda ai dì futuri, il materno abbandono». Dopo l’ultimo bacio lo allontana, e simulando un gioco
gli mette in mano una bandierina americana preparata per il ritorno del padre. Si ritira quindi dietro un
paravento: il tonfo dell’arma in terra segnala che la donna ha fatto harakiri. Mentre da fuori giunge la
voce di Pinkerton (che la chiama per tre volte), si consuma la tragedia.
IL CLAMOROsO FIAsCO DELLA “PRIMA” Caro nostro e grande Maestro, / la farfallina volerà: / ha le ali sparse di polvere, / con qualche goccia qua
e là, / gocce di sangue, gocce di pianto... / Vola, vola, farfallina, / a cui piangeva tanto il cuore; / e hai
fatto piangere il tuo cantore... / Canta, canta, farfallina, / con la tua voce piccolina, / col tuo stridire di
sogno, / Fievole come il sonno / soave come l'ombra, / dolce come una tomba, / all'ombra dei bambù:
a Nagasaki e a Cefù.
Sono i versi del poeta Giovanni Pascoli, pubblicati sul Giornale d’Italia il 20 aprile del 1904, due mesi
circa dopo il clamoroso fiasco della prima scaligera di Madama Butterfly. Sulla rivista Musica e Musi-
cisti dell’editore Ricordi, così è descritta quella terribile serata: «Grugniti, boati, muggiti, risa, barriti,
sghignazzate, i soliti gridi solitari di Bis fatti apposta per eccitar ancor di più gli spettatori, ecco in sintesi
l’accoglienza che il pubblico della Scala fa al nuovo lavoro».
Un fallimento, di fronte a critici anche stranieri ed a molte personalità (in prima fila, i compositori
Umberto Giordano e Pietro Mascagni), per un’opera che dopo appena tre mesi prenderà il volo per
diventare un classico nei cartelloni di tutto il mondo. Un fiasco organizzato dai detrattori di Puccini – a
detta di alcuni biografi – e da una “claque” (pubblico prezzolato che in alcuni momenti della storia del
melodramma si è tramutato in vere e proprie bande di taglieggiatori, che potevano decretare trionfi o
cadute) al soldo di colleghi nemici.
E Puccini, sconvolto, scrivendo ad un amico, cinque giorni dopo la “prima”, dirà: «Sono ancora stordito,
non tanto per lo strazio fatto alla mia povera Butterfly, quanto per il veleno sputato contro di me artista
e anche uomo». A Luigi Illica scrive contro la «perfidia milanese» e contro i nemici che definisce «vili,
porci, senza cuore né senso».
Tre mesi dopo il tonfo della prima, l’opera, rappresentata a Brescia, trionfa. Anche grazie a modifiche
non da poco, che il compositore apporta. Spezza i due lunghi atti in tre (scelta che poi però la tradizione
ha evitato di seguire) ed inserisce una nuova aria nel terzo atto: “Addio fiorito asil”.
LA GEIsHA: ARTIsTA, NON PROsTITUTALa parola “geisha” non è sinonimo di prostituzione. Nella radice della parola ci sono due termini che
significano “arte” e “persona”. Geisha è quindi – nella tradizione giapponese, a partire dal diciassettesimo
secolo – un’artista, professionista nell’arte di intrattenere. Veniva tolta alla sua famiglia fin da bimba e
fatta entrare in una scuola, dove apprendeva la musica, la danza, il canto, la recitazione, i giochi tra-
dizionali, l’uso del ventaglio, la cerimonia del tè, la calligrafia e l’arte di disporre i fiori. Imparava anche
l’arte della seduzione e d’una leggera, garbata malizia. E contemporaneamente studiava i testi classici e
moderni, divenendo così estremamente colta.
PINKERTON, LO “YANKEE VAGABONDO” Identificato con l’inno nazionale americano (che funge da motivo conduttore), Pinkerton è un person-
aggio particolare, lontano dai ruoli tenorili delle altre opere pucciniane. Un giovane superficiale che si
lascia coinvolgere dall’amore per la piccola geisha, e che troppo tardi comprende come la propria legger-
ezza e quel suo “matrimonio provvisorio” abbiano segnato tragicamente ed irrimediabilmente il giovane
cuore e la vita stessa di Cio Cio San.
UN BEL DÌ VEDREMO… È l’aria più celebre dell’opera ma anche uno dei brani più amati di tutta la storia del melodramma. Chi
canta è Cio-Cio-San, siamo al principio del secondo atto: la sua ancella Suzuki prega gli dei perché la sua
padrona non pianga più, poi considera le poche finanze rimaste nella casa e si mostra molto scettica sul
ritorno del marito di Butterfly. Ma la donna, che da tre anni è senza notizie, spera di rivedere un giorno
un «fil di fumo sull’estremo confin del mare», e immagina il ritorno di Pinkerton.
La struttura per immagini del testo descrive in modo cinematografico l’arrivo della nave: dopo
l’evocazione del “fil di fumo”, il testo rende più nitida l’immagine: “E poi la nave appare”. “Poi la nave
bianca” (dunque se ne distingue il colore) “entra nel porto”. “Romba il suo saluto” (se ne distingue
quindi il suono). E la descrizione prosegue: “Vedi? È venuto! Io non gli scendo incontro, io no. Mi
metto là sul ciglio del colle e aspetto, aspetto gran tempo e non mi pesa la lunga attesa. È uscito dalla
folla cittadina un uom, un picciol punto s’avvia per la collina. Chi sarà? E come sarà giunto? Che dirà?
Chiamerà Butterfly dalla lontana. Io senza dar risposta me ne starò nascosta, un po’ per celia e un po’
per non morir. E sulle parole “non morir” viene ripreso il tema principale. Tema, cantato dal soprano
all’unisono con l’orchestra, che è una lunga, struggente progressione discendente.
IL ROMANZO DELLA VITA DI PUCCINI Toscano doc, Giacomo Puccini nasce a Lucca il 22 dicembre 1858, in una in una famiglia in cui la
professione musicale è consuetudine da generazioni. La commozione suscitata da una rappresentazione
dell'Aida, alla quale assiste a Pisa, fa scattare in lui la decisione di dedicarsi al teatro musicale. Trasferitosi
a Milano per seguire i corsi di composizione al Conservatorio, supera momenti difficili a causa delle pre-
carie condizioni economiche in cui versa la famiglia. Conseguito il diploma, partecipa ad un concorso
bandito dalla “Sonzogno” presentando Le Villi, opera in un atto che però la commissione giudicatrice
non prende in considerazione. Viene comunque rappresentata nel 1884 ottenendo un buon successo
di pubblico e procurando a Puccini un contratto con la casa editrice Ricordi. La seconda opera, Edgar,
non si rivela particolarmente felice, ma l'editore, convinto delle potenzialità del giovane compositore,
lo incoraggia a non arrendersi. Le previsioni di Ricordi trovano conferma nella terza opera del lucchese,
Manon Lescaut, trionfalmente accolta al Teatro Regio di Torino nel 1893. La Bohème, alla prima rap-
presentazione del 1896, suscita qualche perplessità per soluzioni musicali giudicate troppo ardite. Ma
ben presto il lavoro si rivela per le sue autentiche qualità. A questo punto della carriera Puccini viene
già riconosciuto come il più accreditato successore di Verdi, e con Tosca (1900) la sua fama comincia
a varcare i confini nazionali. Con Madama Butturfly (1904) compie un felice tentativo di scrivere un
melodramma ambientato nel mondo contemporaneo pur facendone svolgere I'azione in un paese lon-
tano come il Giappone. Fortemente impressionato dalle possibilità drammatiche del mondo del Far
West, Puccini ne rende lo scenario della sua opera successiva, La fanciulla del West, nella quale si può
già percepire l'interesse del musicista per le novità espressive del linguaggio musicale post Debussy. Il
Trittico, del 1918, costituisce un curioso tentativo di offrire al pubblico emozioni diverse in un unico
spettacolo. I tre brevi atti unici sono infatti molto diversi tra di loro sia per la trama che per il carattere:
Il tabarro narra una storia intensamente drammatica e di crudo realismo; Suor Angelica sviluppa una
storia giocata su temi di tenue lirismo, mentre Gianni Schicchi compie una scanzonata escursione nel
genere comico. La composizione dell'opera successiva si rivela particolarmente faticosa poiché il mae-
stro non riesce ad avere un libretto rispondente al suo modo di vedere lo sviluppo del dramma. Eppure
la favola della crudele Turandot e I'esotica ambientazione cinese Io hanno immediatamente affasci-
nato. Probabilmente Puccini comincia a sentire gli effetti del male incurabile che implacabilmente lo va
consumando. Trasferitosi a Bruxelles per sottoporsi a nuove cure, che si rivelano inefficaci e dolorose,
Puccini muore (il 29 novembre 1924) senza essere riuscito a completare le ultime pagine di Turandot.
L'opera verrà portata a termine da Franco Alfano. Nel 2001 anche Luciano Berio si cimenta in un nuovo
finale del capolavoro pucciniano.
CHI è GIUsEPPE GIACOsANato in provincia di Torino il 21 ottobre 1847, è il più importante drammaturgo italiano e librettista
dell’età umbertina. Un nome che ha raggiunto una popolarità internazionale grazie alla collaborazione
col compositore Giacomo Puccini e col collega librettista Luigi Illica, per la stesura dei libretti delle ope-
re La Bohème (1896), Tosca (1899) e Madama Butterfly (1904). Ma anche Manon Lescaut, del 1893,
vede la sua firma tra i partecipanti alla realizzazione del libretto. Conseguita la laurea in giurisprudenza
nel 1868, Giacosa comincia la pratica nella studio legale del padre a Torino e frequenta l'ambiente let-
terario legandosi di amicizia soprattutto con gli scrittori che frequentano la società “Dante Alighieri”,
da Boito a Camerana.
Dopo il fortunato esordio in teatro col bozzetto romantico d'ambiente medievale Una partita a scacchi
(1873), passa al dramma storico con Il Conte Rosso (1880). Trasferitosi nel 1888 a Milano, è direttore
della Scuola di recitazione filodrammatica e docente di letteratura drammatica e recitazione al Conser-
vatorio. Il successo della Signora di Challant (1891), interpretata in Italia da Eleonora Duse e a New
York da Sarah Bernhardt, lo convince a lasciare gli incarichi scolastici per dedicarsi al teatro di prosa su
temi di attualità, già sperimentato in Tristi amori (1888): appaiono così I diritti dell'anima (1894) e la
fortunata commedia Come le foglie (1894). La sua casa di Colleretto (dove morrà nel 1906) ospita per-
sonaggi del calibro di Giosuè Carducci, Benedetto Croce, Gabriele D'Annunzio, Edmondo De Amicis,
Antonio Fogazzaro, Giovanni Pascoli, Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Émile Zola. Contemporaneo
di Ibsen e Strindberg, Giacosa porta in Italia le istanze del teatro borghese, contribuendo a trasformare,
con i suoi drammi di taglio “verista”, i gusti e gli interessi del pubblico.
CHI è LUIGI ILLICANato il 9 maggio 1857 a Castell'Arquato in provincia di Piacenza, è tra i principali librettisti dell’epoca
post-verdiana. Lavora per Giacomo Puccini, Alfredo Catalani, Umberto Giordano ed altri musicisti.
Giornalista, buon verseggiatore, appartiene alla “Scapigliatura” milanese e dimostra già da ragazzo un
temperamento ribelle. Imbarcato, ventenne, naviga per quattro anni. In questo periodo prende parte
alla battaglia di Plevna contro i turchi. Nel 1879 si stabilisce a Milano dove diventa cronista del “Cor-
riere della Sera”. Per poi trasferirsi a Bologna dove è cofondatore del foglio radicale “Il Don Chisciotte”
ispirato a Carducci. Rientrato a Milano nel 1882, inizia a pubblicare i propri scritti ed i propri testi
teatrali. All'attività di drammaturgo, Illica affianca dal 1889 anche quella di librettista d'opera. Questa
nuova occupazione determina un periodo di lavoro molto intenso e il suo crescente successo viene coro-
nato nel 1891 quando entra a far parte di Casa Ricordi. Nel corso dei due decenni successivi Illica scrive
per i migliori musicisti dell'epoca una trentina di libretti, tra i quali Germania (1902) e Siberia (1903)
per Giordano, Iris (1898) e Isabeau (1911) per Mascagni, Bohème (1896), Tosca (1900), Madama
Butterfly (1904) in collaborazione con Giacosa e Manon Lescaut (1891-1892) per Giacomo Puccini.
Nel 1915, a 58 anni, parte per il fronte arruolandosi nell'esercito come volontario. L'anno seguente
una brutta caduta da cavallo lo costringe a tornare definitivamente in una sua proprietà nella campagna
circostante Castell'Arquato, dove muore il 16 dicembre 1919.
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