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SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI
Corso di laurea in
Antropologia Culturale ed Etnologia
L’ARTE E L’INCONTRO:
Etnografia del progetto Arte Migrante
Tesi di laurea in Antropologia dei processi politici
Relatore: Luca Jourdan
Correlatore: Annamaria Fantauzzi
Presentata da:
Tommaso Carturan
II Sessione Anno accademico
2012-2013
2
INDICE
Ringraziamenti 4
Introduzione 6
CAPITOLO 1 COS’È ARTE MIGRANTE.1ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINIT
1.1 L’Arte della migrazione: etimologia di un binomio chiave.1Errore. Il segnalibro non è definito.
1.2 Le fondamenta del progetto: l’arte e l’intercultura. Errore. Il segnalibro non è definito.6
1.3 Particolarità migranti del contesto territoriale. 30
CAPITOLO 2 STORIA E PRATICHE DI ARTE MIGRANTE: DESCRIZIONE DEL PROGETTO. 36
2.1 Le prime iniziative nella pianura pontina. 36
2.2 Arte Migrante a Bologna: storia di un trasferimento e di un evoluzione. 39 2.2.1 Il rito iniziatico delle presentazioni. 40 2.2.2 Le performance artistiche e una breve introduzione all’etnomusicologia. 41
2.3 Una comunità temporanea: lo spazio, il tempo e gli attori che vi partecipano. 44
2.3.1 Lo spazio. 47 2.3.2 Il tempo. 48 2.3.3 La comunità e gli attori che ne fanno parte. 50
CAPITOLO 3 INCONTRI, RELAZIONI E STORIE DI VITA: “IMPONDERABILI” DI ARTE MIGRANTE. 58
3.1 Esperienze di vita: un incontro-scontro con la diversità. 58 3.1.1 Il razzismo vissuto in campagna come in città. 60 3.1.2 Dall’Eritrea all’Afganistan: difficoltà di vita e questioni politiche affini. 65 3.1.3 Carlos e l’importanza dell’arte per l’umanità. 75
3
3.2 Bogdan e le relazioni in Arte Migrante. 79 3.2.1 L’impatto che il gruppo ha sulle interazioni. 83 3.2.2 Kampa e l’ultimo incontro. 88 3.2.3 Il palcoscenico di Arte Migrante. 91
3.3 UN ESEMPIO DI CONVIVENZA INTERCULTURALE: LA COMUNITÀ ZOEN TENCARARI. 93
CAPITOLO 4 ALCUNE CRITICITÀ. 100
CONCLUSIONI. 104
BIBLIOGRAFIA. 109
SITOGRAFIA. 114
APPENDICE. 117
4
Ringraziamenti.
Un ringraziamento speciale alla professoressa Annamaria Fantauzzi, al professore
Luca Jourdan e a mio zio “il rabbi” Franco Squicciarini che mi hanno supportato
molto nella realizzazione della tesi.
Ringrazio la mia famiglia Massimo, Felicita, Michele, Gianpiero e la mia famiglia
“canonica” Don Mario, Corrs, Tonin, Suleyman, Bogdan, Michele, Nilton,
Simone, Federica, Jacopo, Lorenz, Pjerin, Adnan, Sarfras, Abdellilah, Filippo,
Alessio, Dorin, Francesco, William, Assadullah, Luca, Davide, Francesca, Rita,
Federica, Sofia e le Elise.
Ringrazio gli amici di Arte Migrante, gli amici senza dimora, Padre Alex
Zanotelli, “il mullah” Flavio e tutti i parenti, amici e creature viventi e non viventi
del mondo.
5
La dedico a tutti coloro che si impegnano per
preservare la bellezza del mondo condividendo la
felicità che hanno con chi non ce l’ha.
6
Introduzione.
Oggetto del presente elaborato è un’analisi antropologica del gruppo informale
“Arte Migrante”. Il gruppo, nato prima a Latina e poi a Bologna, ha il fine di
mettere insieme persone provenienti da diverse nazionalità e condizioni sociali,
attraverso la realizzazione di attività artistiche e culturali. I punti cardine del
presente lavoro sono due: la “diversità”, valorizzata tramite l’adozione di un
approccio “interculturale”; “l’indifferenza”, contrastata tramite una
“condivisione” artistica e umana. Il gruppo, che ha alle spalle un solo anno di
attività, ha cercato di porsi fin da subito alcuni obiettivi: riuscire a creare una
realtà che possa essere “ponte” di relazione tra italiani e stranieri, i “senza
dimora” e le persone che vivono in condizioni più agiate. Il gruppo, oltre a
organizzare degli “incontri” a cadenza settimanale, progetta e realizza attività di
tipo artistico e culturale. Chi partecipa alle attività condivide lo status di “artista”.
Ciò permette ai partecipanti, soprattutto quelli che hanno minori opportunità
(come migranti e “senza dimora”), di essere accolti e rispettati. In questo senso, si
può citare una nota affermazione di Aristotele: “ (…) l’uomo è per natura un
animale socievole1”. Perciò, trattare l’altro con “indifferenza” significa andare
contro la natura stessa dell’uomo.
Per quanto riguarda la “metodologia” che si intende usare, l’elaborato è frutto di
un’indagine etnografica che permette di comprendere e studiare la realtà
associativa attraverso la tecnica dell’osservazione partecipante. Si sono presi in
esame struttura, azioni, spazi, tempi, relazioni e attori. Durante gli ultimi sei mesi
di attività del gruppo, sono state somministrate delle “interviste” semi-strutturate
1 Aristotele, Opere, Bari, Laterza, 1973, vol. IX, pp. 6-7
7
ad alcuni membri, studenti, lavoratori, “senza dimora”2 e migranti3 di diversa
tipologia. Nel presente elaborato se ne riportano alcuni frammenti.
Per quanto riguarda, invece, la struttura, l’elaborato si suddivide in quattro
capitoli. Nel primo capitolo si analizzano i concetti di “Arte” e di “Migrante”
sotto un’ottica storica e antropologica. Considerata l’ampiezza dei due concetti, si
ritiene opportuno analizzarli facendo riferimento solamente ad alcuni “passaggi
chiave” riguardo alla loro origine ed evoluzione. In particolare, si prende in
considerazione l’importanza del processo di “riscoperta dell’altro” da parte delle
società occidentali coloniali e post-coloniali. Rispetto all’arte, l’antropologia ha
avuto un ruolo chiave nel riconoscere il fascino e la particolarità estetica delle
opere provenienti da culture minori, come ad esempio quella “precolombiana”,
prima sottovalutate o subordinate al criterio estetico occidentale. L’arte è inoltre
correlata al contesto sociale, politico, economico, culturale del gruppo in cui è
espressa. Anche il migrante, allo stesso modo, oltre ad essere dipendente
dall'ambiente in cui vive, è oggetto di una “riscoperta” in termini storici e
antropologici. In una prima fase, immigrati ed emigrati venivano concepiti
esclusivamente come “forza lavoro”. Poi con la nascita di alcune teorie, come il
relativismo o il cosmopolitismo, accompagnate dall’emergere di alcuni studiosi,
come Lévi-Strauss, Hannerz o Taguieff, si è iniziati a valorizzare le importanti
ricchezze, umane e culturali, scaturite dalla convivenza di singoli e gruppi
provenienti da Paesi diversi in uno stesso territorio. L’”intercultura” è posta alla
base delle fondamenta etiche del gruppo, i cui principi sono stati descritti in un
“manifesto” stilato da alcuni membri e ripreso nel primo capitolo. Da questo
2 Da ora in poi si utilizzerà il termine “senza dimora” per indicare quelle persone che si trovano
“in uno stato di grave bisogno poiché non hanno una casa, un reddito minimo, la possibilità di
accesso ai servizi socio-sanitari, hanno rotto con la famiglia, con gli amici e sono, spesso in una
condizione di rischio di possibile ulteriore deterioramento fisico e psichico”. Federico
Bonadonna, “Vite di strada e povertà estreme in Italia”, in Giuseppe Scandurra (2012), “Esiste
una cultura della povertà?”, <http://www.archivioantropologicomediterraneo.it/riviste>.
3 Da ora in poi il termine “migranti” sarà utilizzato in modo generale per indicare quelle persone
che, per ragioni diverse, hanno lasciato il proprio luogo d’origine per trasferirsi in un altro Paese.
8
documento emerge l’importanza di “relativizzare” i propri comportamenti per
conferire un valore più giusto alle parole dell’altro.
“L’ascolto – come sostiene Enzo Bianchi – non è solo apertura
all’altro, ma è un atto creativo che instaura una con-fidenza (…) lo
straniero, infatti, cessa di essere un estraneo quando noi lo ascoltiamo
nella sua irriducibile diversità ma anche nell’umanità comune a
entrambi”4.
Le attività di Arte Migrante, inoltre, si svolgono in un contesto territoriale, quello
della provincia di Bologna, molto ricco e variegato dal punto di vista culturale,
artistico e associativo.
Il secondo capitolo contiene una parte più descrittiva che riguarda le origini e le
caratteristiche del gruppo Arte Migrante. A Latina, i primi tentativi di costituire
un gruppo sono stati contraddistinti dall’importante contributo di Stefania,
mediatrice interculturale rumena. La parentesi pontina è stata però di dimensioni
minori rispetto a quella emiliana. A Bologna, grazie al tessuto sociale sensibile al
tema dell’intercultura e all’incontro tra persone con esperienze e desideri affini, il
gruppo Arte Migrante si è consolidato come una realtà molto grande e variegata.
L’attività principale sono gli “incontri” del mercoledì sera, contraddistinti da
quattro fasi: presentazione iniziale, momento di cena comune, performance
artistiche, riflessione finale. In questo capitolo, oltre ad approfondire rispetto
all’importanza del momento “performativo” con un breve accenno
all’etnomusicologia, è messo in luce come Arte Migrante sia una “comunità
temporanea”: “Comunità”, perché c’è una forte intensità nelle relazioni che
s’istaurano tra i membri del gruppo; “temporanea”, invece, poiché si assiste a un
“viavai” di persone che entrano ed escono, frequentano spesso, saltuariamente o
partecipano per una sola volta. Arte Migrante è un gruppo costituito da diverse
categorie di attori: “senza dimora”; "artisti di strada"; “rifugiati politici";
“migranti di ritorno”; "ricongiungimenti familiari"; "migranti qualificati"; 4 Enzo Bianchi, L’altro siamo noi, Torino, Einaudi, 2010, pp. 11-12.
9
“seconde generazioni". Una comunità che opera in uno “spazio” e in un “tempo”
diventati “sacri” per chi ne fa parte.
Il terzo capitolo è centrale nell’economia di tutto il lavoro, perché riporta i risultati
di una “ricerca sul campo”. Questa parte, più etnografica, è caratterizzata da
frammenti d’interviste rivolte a diversi membri di Arte Migrante. “Senza dimora”
e migranti sono spesso vittime di emarginazione e indifferenza anche da un punto
di vista sociale e culturale, dare spazio alle loro straordinarie “storie di vita”
significa permettere sia che queste siano da esempio per chi le legge sia che esse
non siano dimenticate. Secondo Pavanello la “storia di vita” è “una testimonianza
orale di grande efficacia sia per gli eventi di cui il narrante è stato protagonista o
semplice testimone, sia per le modalità retoriche del discorso e di esplicitazione
della memoria in cui prendono forma le rappresentazioni e i codici culturali”5.
Altro argomento che si intende trattare nel capitolo riguarda le dinamiche
relazionali che si sono sviluppate all’interno del gruppo, in particolare, partendo
da una figura chiave che è quella del giovane rumeno Bogdan. Quest’ultimo è
considerato il “testimone privilegiato” della seguente etnografia.
Il quarto e ultimo capitolo riguarda le criticità, riscontrate nel gruppo Arte
Migrante, seguite dalle ipotesi conclusive dell’elaborato. Quest’ultime si rifanno a
una teoria che promuove un radicale mutamento nei rapporti tra se stessi e gli
altri, tra se stessi e la società: il “meticciato”. L’antropologo, così come le altre
tipologie di attori presenti nel gruppo, partecipando alle attività di Arte Migrante,
s’incontra con la “diversità” provocando una trasformazione del rapporto tra se
stesso e la società da cui proviene.
“Prefigurare dunque un mondo aperto, senza muri e pregiudizi, pronto
al mescolamento culturale per un divenire quel luogo dove l’unica
5 Mariano Pavanello, Fare antropologia. Metodi per la ricerca etnografica, Bologna, Zanichelli,
2009, p. 184.
10
patria sia il mondo intero, con al suo interno una miriade di culture
differenti pronte al cambiamento, all’ascolto e all’incontro”6.
6 Andrea Staid intervistato da Luciano Lanza, “Siamo tutti meticci?”, 3 aprile 2012,
http://www.ilfattoquotidiano.it.
11
Capitolo 1
Cos’è Arte Migrante.
1.1 L’Arte della migrazione: etimologia di un binomio chiave.
“Arte Migrante” è un nome che unisce due parole chiave della storia dell’uomo, in
senso filosofico, antropologico, etimologico e non solo, in quanto hanno subito
un’evoluzione significativa dall’antichità a oggi.
Il termine“arte”(o technè, in greco classico) veniva impiegato, nel periodo
classico, per riferirsi all’abilità materiale e spirituale di una persona, alla capacità
di costruire qualcosa e, più in generale, a un insieme strutturato di pratiche e
abitudini. Originariamente, quindi, l’arte designava principalmente la “tecnica” e
non l'“espressività” dei soggetti coinvolti.
Nell’epoca medievale gli oggetti prodotti dalla creatività umana facevano
riferimento a quanto vi era di “utile” che, solo dal Rinascimento, veniva a
differenziarsi da quanto era, invece, meramente “espressivo”. Con l’epoca
moderna, con l’avvento della nuova borghesia commerciale e con la nascita di
musei e accademie, l'arte assunse il significato di prodotto culturale soggetto alle
politiche estetiche del gusto e del giudizio delle classi più agiate. Per
Schopenhauer l’arte sfuggiva al principio di razionalità, era contemplazione,
avendo origine dalla conoscenza delle “Idee” e come unico fine quello di
comunicare questa conoscenza. Arte era dunque condivisione di quelle
conoscenze, abilità ed espressioni che scaturiscono dalla creatività umana7. La
7 Enrico Marco Cipollini, “La concezione estetica di Shopenhauer”, s.l., Neoria, 2013, p. 3.
12
musica, la poesia, il teatro, la danza e tutte le altre discipline hanno avuto fin
dall’antichità un importante ruolo comunicativo ed espressivo. Con la nascita
dell’“antropologia dell’arte”, favorita dalla creazione del Peabody Museum8 nel
1866 e dalle collezioni di Pitt Rivers, si è iniziato ad approfondire il rapporto che
ogni cultura, e quindi ogni individuo, instaura con le diverse conoscenze e
tecniche di produzione artistica. Con il colonialismo l’antropologia aveva
contribuito all’esclusione delle arti cosiddette “primitive” e indigene dal mercato
dell’arte internazionale proprio perché considerate al di fuori dei canoni estetici
europei ritenuti qualitativamente “superiori”.
Evento chiave nella storia del rapporto tra antropologia e arte è la costruzione del
museo Trocadero9 nel 1878 in Francia, che favorì la rivalutazione delle arti
precolombiane sia in termini di significatività sia di qualità estetica, riconoscendo
loro la bellezza e il fascino più misterioso.
Restando nella traccia della “riscoperta dell’altro”, passiamo a prendere in esame
il secondo termine chiave del presente elaborato, vale a dire la dicitura
“Migrante”.
Immigrazione ed emigrazione sono processi che riguardano diversi aspetti di una
società (sociopolitico, demografico, economico, culturale, ecc…) e, come sostiene
Sayad, “sono due facce indissociabili di una stessa realtà”10 interdipendenti tra
loro.
8 Peabody Museum of American Archaeology and Ethnology fu fondato nel 1966 dal
finanziamento del filantropo statunitense George Peabody e fu il primo museo statunitense a
carattere antropologico. Il museo è appartenente all’Università di Harvard e ha interesse nella
raccolta soprattutto di materiale proveniente dall’Amercia Settentrionale, Centrale e dalle isole
del Pacifico. Curtis M. Hinsley, “dai cumuli di conchiglie alle stele”, in George W. Stocking, Gli
oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Roma, Ei Editori, 2000, p. 88.
9 Elizabeth. A. William, “Arte e artefatto al Trocadero”, in Ivi, p. 209.
10 Abdelmalek Sayad, La doppia assenza,Milano, Cortina, 2002, p. 9.
13
I fattori di “spinta” e di “attrazione” (i “push-pull” factors) nei movimenti
migratori possono essere molto diversi da individuo a individuo ad esempio:
lavoro, guerra, povertà, famiglia, disastri ambientali, ma anche - come vedremo -
scelte personali di vita. Fattori che s’inseriscono in un quadro di complessi
meccanismi politici divergenti da Stato a Stato e che portano alla costruzione di
diverse tipologie di migranti (come si vedrà nei successivi capitoli del presente
elaborato).
Il fenomeno della migrazione è anche legato alla globalizzazione: processo
d’interdipendenza politica ed economica che produce spostamenti di persone,
merci, capitali e informazioni. In questa fase storica sta aumentando drasticamente
la forbice del divario economico tra Nord e Sud del mondo. Parallelamente alla
“sovra crescita” economica degli Stati occidentali e alla ribalta di alcuni Paesi
prima oppressi dalle dittature, c’è una forte crescita della povertà e dei conflitti
regionali. Parallelamente allo sviluppo tecnologico e alla crescita demografica ci
sono i limiti legati alla finitezza delle risorse alimentari globali accompagnati e
all’emergere di nuovi disastri ambientali. Aumento degli squilibri ecologici e
sociali, equivale a dire, aumento degli individui che vivono in condizioni di
disagio. Perciò, andando ben oltre l’approccio di Piore, secondo cui è la
“domanda di lavoro povero” delle economie occidentali a generare i flussi
migratori, il ventaglio delle motivazioni che portano un individuo a emigrare si fa
sempre più complesso e intricato.
Fin qui le motivazioni a partire. Terminato il viaggio, i ”migrati” sono spesso visti
solo come “forza lavoro”, benché siano in realtà portatori anche di una storia, una
cultura, una religione, una lingua, e ancora di emozioni, stili di vita e abitudini,
per non tacere dell'arte.
E' stato grazie all'affermarsi del “relativismo culturale” che stereotipi e pregiudizi
sui migranti (e prima ancora sulle popolazioni indigene dell’Africa, delle
Americhe e dell'Asia) sono stati accantonati e decostruiti. In questo modo, si è
iniziato a prestare interesse alle biografie di questi soggetti.
14
Si è così reso evidente come le traiettorie sono determinate non da percorsi
unidirezionali, quanto da “campi sociali” che il migrante crea sia all’interno sia
oltre le frontiere nazionali dello Stato ospitante. La parola chiave è
“transnazionalismo”, ossia rimesse, ricongiungimenti familiari, investimenti
economici, viaggi di ritorno periodici, e altre attività di natura economica, politica
e sociale. Attività che spesso, come nel caso delle rimesse, incidono in modo
rilevante sul Prodotto Interno Lordo dei Paesi d’immigrazione e di emigrazione.
Attività che possono addirittura determinare il rovesciamento di governi politici o
la riscossa di movimenti religiosi in crisi di fedeli.
I migranti, anche detti “transmigranti”, sono attori sociali in grado di costruire
elaborati “network migratori” basati sulla parentela, sull’amicizia o sulla comune
origine culturale che garantiscono un supporto economico, sociale, relazionale
indispensabile all’inserimento del soggetto nel Paese d’immigrazione.
Indispensabile perché sono molteplici i pregiudizi verso i migranti, originati
spesso dalla paura dell'altro.
Sono diverse le concezioni e le politiche razziste elaborate dall’etnocentrismo
delle società occidentali ed esasperate dall’ipocrisia dei media, come ad esempio
il concetto di “clandestino”. Il clandestino, ovvero colui che attraversa i confini di
uno stato eludendo i controlli alle frontiere, diviene uno status sociale oggetto di
atti discriminatori e spesso razzisti. Si creano, inoltre, processi di categorizzazione
indebita per cui a determinate comunità migranti sono attribuite specifiche
caratteristiche denigranti. Si pensi alle varie affermazioni “i rom rubano”,
piuttosto che “i marocchini spacciano”.
Detto ciò, è opportuno aggiungere un altro termine discriminatorio e dispregiativo
diffuso nella società italiana: i “barboni”. I “senza fissa dimora” (apostrofati dagli
Italiani come barboni appunto) sono un’altra dimensione chiave che, come
vedremo in seguito, contraddistingue, seppur non in modo concettuale, il concetto
di “Arte Migrante”. Va segnalato, infatti, che con l’ultima crisi economica è
fortemente aumentato il numero dei “subalterni” discriminati e marginalizzati, e i
15
confini tra i vari gruppi di soggetti marginalizzati si sono fatti sempre più labili
(sono via via sempre più i migranti “senza fissa dimora”). Prendendo esempio da
un classico dell’antropologia, i “barboni” sono invece una delle “cinque tipologie
di senza fissa dimora”11, insieme al vagabondo, al migrante lavoratore, al
migrante non lavoratore e al lavoratore non migrante impiegato come
“guardiano”. Analogamente ai migranti, anche per i “senza dimora” i fattori push
e pull sono non solo universalmente condivisi ma diversificati e complessi. Pur
costatando che la maggioranza di essi finisce in strada per la perdita del lavoro o
la ricerca di una condizione sociale migliore in un altro luogo (in questo caso si
tratta di migranti interni o internazionali), tra le cause si annoverano anche crisi
familiari, problemi fisici o mentali, dipendenza da alcol o droghe, implicazione in
piccole o grandi reti criminali. Solo in rari casi la motivazione è una scelta di
vita12. Analogamente agli hobo, sono girovaghi che vivono spesso di elemosina e
che si convertono in modo utilitaristico alle religioni ufficiali, cercando di
adattarsi nel modo migliore alle esigenze richiesta dalla precarietà della vita di
strada13. Sono spesso vittime della “guerra tra poveri” che nasce nei luoghi della
povertà urbana, in altre parole vittime di torti reciproci come ad esempio furti
notturni e aggressioni gratuite spesso in preda all’alcol o alla droga. Tipici della
vita di strada sono l’anonimato, l’invisibilità, l’estraneità, ovvero quel muro
trasparente che li separa e li allontana dalle fasce più agiate della popolazione. Si
crea dunque una “zona grigia”14(concetto coniato da Primo Levi e ripreso da
Bourgois) di reietti e, in alcuni casi, delinquenti dove a cambiare non sono solo le
regole di vita, la morale comune, ma anche le dinamiche sociali15. Anzi è più
corretto parlare di “asocialità”, di mancanza di socialità perché è difficile fidarsi
11
Nels Anderson, “The Hobo”, 1923 in Ugo Avalle, Michele Maranzana, Paola Sacchi, Emanuela
Serafino, L’antropologia e le società complesse, s.l., Zanichelli, 2012, p. 2.
12 Ulf Hannerz, Esplorare la città, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 112.
13 Ivi p. 214.
14 Primo Levi, Sommersi e salvati, Torino, Einaudi, 2007, p. 27.
15 Ulf Hannerz, Esplorare la città, cit., p. 223.
16
dell’altro in condizioni di degrado sociale così accentuate. Tuttavia, in tali
condizioni di marginalizzazione, è altresì possibile la creazione di azioni
solidaristiche, come ad esempio il reciproco dono d’indumenti o alimenti ricevuti
da associazioni e servizi o rimediati autonomamente. Oltre alla guerra dei poveri
fortunatamente esiste un’esemplare “solidarietà tra poveri”. Questi ultimi pur
possedendo poco sono capaci di condividere molto. Quanto detto finora
rappresenta un’introduzione teorica generale rispetto a ciò che verrà approfondito
nelle pagine successive: il gruppo informale Arte Migrante.
1.2 Le fondamenta etiche del progetto: l’arte e l’intercultura.
Arte Migrante è un’esperienza associativa nata a Bologna a ottobre 2012. Il
gruppo è composto da studenti, lavoratori e “senza fissa dimora”, provenienti da
diversi paesi del mondo, che s’incontrano con il fine di passare insieme una serata
all’insegna delle performance artistiche e culturali, promuovendo l’intercultura e
l’inclusione sociale. Il primo tentativo di Arte Migrante si è tenuto a Latina nel
2010, nell’ambito di un progetto promosso dall’Ong Lvia (Lay Volounteer
International Association) in collaborazione con il Centro Studi Sereno Regis e
Cem Mondialità, chiamato “Giovani e intercultura: un anno di dialoghi”16. A
Latina il gruppo s’incontrava occasionalmente, solo in vista dell’organizzazione di
rassegne artistiche interculturali, mentre a Bologna ha assunto una forma diversa e
16
Il progetto "Giovani e Intercultura, un anno di dialoghi" è stato promosso dalla Ong LVIA e
Centro Studi Sereno Regis con il partenariato di CEM Mondialità e ha visto il contributo della
Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Gioventù . Si è svolto in sei regioni
d'Italia (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia): tante ore di formazione
rivolte ai giovani sui temi di cittadinanza, intercultura, diritti umani, migrazioni, nonviolenza a
seguito delle quali dei gruppi di giovani si sono impegnati concretamente sviluppando una
propria progettualità per coinvolgere il territorio locale sulle tematiche che sentono più vicine.
17
inaspettata. Arte Migrante è ora un gruppo di persone\artisti migranti che hanno
deciso di incontrarsi ogni mercoledì, alle ore 20:30 in via Massarenti 59.
Entrando più a fondo nella descrizione del progetto e mettendo in luce
l’impalcatura etica che dà sfondo a ogni azione del gruppo, sono riportate di
seguito alcune parti del “Manifesto” (poste in corsivo) di Arte Migrante, stilato il
9 giugno 2013. Una bozza iniziale di questo documento è stata scritta da
Alessandro Piro, ingegnere e logista siciliano, membro del coordinamento del
gruppo. La stesura definitiva del manifesto è stata redatta attraverso il contributo
di tutti i membri del coordinamento di Arte Migrante. Dall’analisi di questo
documento emerge la valenza antropologica che può essere attribuita alle attività
del gruppo. Da ogni parte, riportata in corsivo, saranno ripresi e approfonditi quei
concetti chiave che esprimono con maggior chiarezza lo spirito del gruppo.
<<Siamo convinti che la discriminazione, il potere, il denaro non possano essere
i valori guida del nostro mondo>>.
La società postmoderna è costituita da presupposti contraddittori, secondo i quali
le diverse appartenenze e la loro reciproca interazione sono sia valori da
difendere, seguendo la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, sia la causa
dell’incomunicabilità e delle resistenze che impediscono l’inserimento delle
comunità straniere nel tessuto urbano. La parola “discriminazione” fa riferimento
alla tendenza, diffusa nel mondo occidentale, di penalizzare persone o gruppi a
causa della loro cultura, religioni, costumi, morale e apparenza fisica.
Precisamente essa può essere concepita, secondo una definizione dello studioso,
come:
“trattamento differenziale e ineguale delle persone o dei gruppi a
causa delle loro origine, delle loro appartenenze, delle loro apparenze
o delle loro opinioni, reali o immaginarie (…) Il che comporta
18
l’esclusione di certi individui dalla condivisone di determinati beni
sociali17”.
Le discriminazioni sono spesso messe in atto in ambito istituzionale dagli Stati di
Immigrazione, con il risultato di perpetuare disuguaglianze razziali. Anche
l’antropologia, nella fase iniziale della sua storia, si è lasciata influenzare da
posizioni eurocentriche e razziste. Ciò attraverso processi di categorizzazione ché
assegnano a determinati gruppi di popolazione aspetti e caratteristiche svalutanti e
marginalizzanti. Approccio che favorisce l’emergere di una mentalità
etnocentrica, per cui si tende a considerare superiori i valori occidentali e inferiori
o “selvaggi” i valori delle altre società.
<<Ripudiamo ogni forma di violenza, compresa l’indifferenza>>.
Quando si guarda il migrante o il “senza fissa dimora” solo attraverso la lente
offuscata della propria cultura, ciò produce “indifferenza” e intolleranza. Periodo
chiave all’origine del razzismo moderno di matrice nazista e fascista è quello
compreso tra il XV e il XVI secolo. Taguieff sostiene che è stata la “lempieza de
sangre” l’atto fondativo del “protorazzismo occidentale18”. In quell’epoca, nella
Spagna cattolica di Ferdinando D’Aragona, la purezza del sangue iberico-cristiano
andava preservata rispetto all’impurità e alla bestialità di ebrei e moriscos19.
Taguieff afferma in questo senso:
“ (...) nel Secolo d'oro spagnolo, in cui l'impresa generale di
un'ortodossia religiosa orientata, nel suo universalismo, alla
conversione dei non-credenti, non ha affatto impedito l'istituirsi di
"statuti di purezza del sangue" (estatutos de limpieza de sangre) volti a
17
Pierre-André Taguieff, Pregiudizi, teorie, comportamenti, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 112.
18 Pierre-André Taguieff, Il razzismo, Milano, Cortina Raffaello, 2000, pp. 21-22.
19 Donatello Santarone (a cura di), Educare diversamente, Roma, Armando editore, 2006, p. 28.
19
impedire innanzitutto l'accesso degli ebrei convertiti al cristianesimo,
dei conversos, alle cariche, privilegi e onori pubblici”20.
Riprendendo in parte quanto detto in precedenza, la discriminazione è stata anche
alla base degli studi dell’antropologia evoluzionista vittoriana nei secoli XVIII e
XIX. Andavano in questa direzione gli studi della Société des Observateurs de l
'Homme o le teorie degli stadi evolutivi elaborate da antropologi come Tylor e
Morgan. Alcuni anni dopo, Levi-Strauss ha soprannominato questo tipo di
atteggiamento “falso evoluzionismo”: far convergere verso un unico percorso e
un’unica meta tutti gli stadi delle società umane, cercando in questo modo di
sopprimere la diversità delle culture umane pur fingendo di riconoscerla in pieno.
Nello stesso verso anche i grandi sistemi filosofici e religiosi hanno sostenuto con
fermezza l'uguaglianza universale di tutti gli uomini, trascurando una diversità di
fatto. Da un razzismo d’impronta “biologica” basato sulle differenze fisiche, oggi
si è passati a un “nuovo razzismo” (definito da Barker nel 1982), basato sulle
differenze culturali che ha il fine di costruire gerarchie di superiorità e inferiorità
derivate dalle concezioni della cultura dominante. Ciò costituisce una base teorica
importante utilizzata dalle istituzioni nazionali degli Stati di Immigrazione per
operare azioni politico-legislativo discriminatorie in particolare verso i migranti.
Esemplari in questo caso sono le limitazioni e le pratiche disumanizzanti
promosse dalla legge Bossi-Fini in Italia21. Altro concetto affine è quello di
“violenza strutturale”22 rielaborato dal medico e antropologo Paul Farmer.
Quest’ultimo sostiene l’esistenza di forze esterne che strutturano la sofferenza
20
Pierre-André Taguieff, “La lempieza de sangre”,
http://www.armando.it/Uploads/Armando/docs/22425_18629_razzismo.pdf.
21 La legge Bossi-Fini (30 luglio 2002 n°189) regola la condizione degli stranieri in Italia,
modificando la normativa precedente (la legge Turco- Napolitano, poi trasfusa nel Testo Unico
sull’immigrazione). Le modifiche introdotte dalla legge intendono sia rafforzare le misure di
contrasto all’immigrazione illegale e al traffico di esseri umani, sia favorire l’inserimento
dell’immigrato che risiede e lavora regolarmente in Italia. http://www.ricostruireinsieme.it.
22 Paul Farmer, “Sofferenza e violenza strutturale”, I. Quaranta (a cura di), Antropologia medica,
Milano, Cortina Raffaello, 2006, p. 265.
20
degli individui limitandone in questo modo la capacità. Farmer sostiene che
qualsiasi caratteristica distintiva di qualsiasi genere, biologica o sociale, può
essere oggetto di discriminazione. In questo caso gli status di “immigrato” e
“senza fissa dimora” possono rientrare nelle mire della “violenza strutturale”.
L’indifferenza è anch’essa una forma di violenza indiretta diffusa nella società
moderna ed è, per questa ragione, difficile da riconoscere e debellare. Essere
indifferenti significa non provare particolare simpatia per qualcuno o qualcosa, in
questo specifico caso per l’“altro” migrante o “senza fissa dimora”, decidendo
così di evitare possibili contatti con la persona o l’oggetto in questione. Oggi il
mondo politico e quello dell’informazione sono tra i principali fautori di
atteggiamenti d’indifferenza e discriminazione verso le frange più svantaggiate
della società. Con il concetto di “riproduzione culturale” Bordieu sostiene invece
che è la scuola una delle principali fautrici nel conservare tali dislivelli sociali e
culturali. "Nelle società mediatizzate, dove assurge a reale ciò che appare, il
fenomeno dell'immigrazione spesso esiste, per il comune sentire, nelle forme e nei
modi declinati dai media"23.
Importanti considerazioni riguardo al fenomeno delle migrazioni, sono espresse
dal sociologo algerino Sayad. Quest’ultimo afferma che, nell’immaginario
collettivo di una società d’immigrazione come quella francese, l'immigrato è
considerato come forza lavoro temporanea. Lavoro che sancisce la nascita e la
morte dell'immigrato, quando quest’ultimo ottiene un’occupazione o quando essa
è persa a causa di un licenziamento spesso improvviso per assurde motivazioni.
Le società d’immigrazione attuale si limita a una relazione di mera accettazione e
tolleranza verso il migrante, collocato in una condizione di provvisorietà che gli
nega i diritti per una possibile e reale permanenza. Tra immigrazione e società, c'è
un rapporto di forza a favore della seconda, la quale avvia un’azione educativa,
avente il fine di educare gli "educabili", i "selvaggi", "la nuova classe pericolosa"
e renderli "evoluti", quindi “normalizzarli”. Il problema grave è che "si vuole
23
Stefano Patriarca , “l'immagine degli immigrati in Italia tra media, società civile e mondo del
lavoro”, http:// www.diritto.it/osservatorio/comunicazione.
21
importare esclusivamente lavoratori, e mai cittadini attuali o futuri"24. Immigrati
che, secondo recenti normative europee, sono giudicati come “clandestini”:
pericolosi individui che occupano il territorio in modo illegale, tolgono lavoro ai
cittadini e minacciano la sicurezza nazionale. In Italia la situazione sociale,
politica e legislativa è molto critica in questo senso.
I “senza fissa dimora” invece, sono vittime di atti più accentuati d’indifferenza e
discriminazione. Quando le due figure, il migrante e il senza tetto, si riferiscono a
un unico individuo, non sono solo questione di “doppia assenza” ma di “tripla o
quadrupla assenza”. Il “migrante senza fissa dimora”, non solo è assente perché ha
tradito la comunità d’origine dalla quale è emigrato e perché non è integrato nella
comunità d’accoglienza, ma anche perché vive in condizioni di estremo degrado
sociale e materiale per cui è considerato un “rifiuto della società”.
<<Crediamo nella condivisione (…) nel rapporto umano>>.
Arte Migrante, come già detto, alle discriminazioni e all’indifferenza contrappone
l’intercultura e l’inclusione sociale. Però non bisogna confondere multiculturale e
interculturale. Il primo termine è di natura sociologica e statistica ed esprime la
convivenza di singoli o gruppi di diverse culture in uno stesso territorio. Si limita,
però, a costatare unicamente una realtà di fatto all’interno degli Stati nazionali,
una caratteristica sempre più diffusa e accentuata delle società post-moderne. Il
secondo termini interculturale ha invece un significato pedagogico, pragmatico, e
in un certo senso anche antropologico, perché presuppone il prefisso “inter” che
sta a significare la matrice originaria della “reciprocità”. L’intercultura favorisce
la costruzione di occasioni di riflessione, di dialogo, di confronto su un piano non
solo culturale e umano ma, come nel particolare caso degli incontri di Arte
Migrante, anche artistico. Essa favorisce la “condivisione” e lo scambio di usanze,
storie, esperienze, performance diverse e particolari. Secondo Secco:
24
Abdelmalek Sayad, L'immigrazione o i paradossi dell'alterità, Verona, Ombre corte, 2008.
22
“l’interculturalità è una pedagogia dell’essere, dove al centro è posto il soggetto
nella propria interezza, a prescindere dalla cultura di provenienza”25.
Quest’ultima è una categoria basata sulla riscoperta delle risorse dell’uomo, che
favorisce lo scambio interattivo tra singoli o gruppi provenienti da culture diverse,
perché ognuna di esse possiede una sua originalità. Il confronto tra culture, la
condivisione di vissuti, abitudini, stili di vita diversi può portare a un
arricchimento reciproco, a una crescita del proprio bagaglio culturale ed
esperienziale. In questo senso, in Arte Migrante è importante sviluppare
un’attitudine cosmopolita. Come sostiene Ulf Hannerz riferendosi al
“cosmopolitismo”:
" (…) è in primo luogo un orientamento, una volontà di interagire con
l’Altro; esso prevede un apertura intellettuale ed estetica verso
esperienze culturali divergenti, una ricerca di contrasti più che
dell’uniformità. Trovarsi a proprio agio con più culture significa
diventare un aficionado,concepirle come prodotti culturali. Nello
stesso tempo, il cosmopolitismo presuppone competenza, in senso
generale e in senso più stretto, specialistico: si tratta della prontezza,
dell’abilità personale nell’orientarsi nelle altre culture, ascoltando,
guardando, intuendo e riflettendo, come pure della competenza
culturale nel senso più stretto del termine, un’innata capacità di
muoversi con destrezza in un particolare sistema di significati"26.
“Intercultura” significa valorizzare il vissuto del migrante, come ad esempio i
traumi del viaggio e la condizione di marginalità che spesso sono costretti a vivere
nel Paese ospitante. Come sostiene Beneduce, l’immigrato è considerato come
una persona disadattata, instabile, che è stata costretta ha spostarsi. Mentre
25
Luigi Secco, L’intercultura come problema pedagogico, s.l., «Pedagogia e Vita», 1992, p. 43.
26 Ulf Hannerz, “Transnational Connections: Culture, People, Places”, in Miguel Mellino, La critica
postcoloniale:decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Roma,
Meltemi, 2005, p. 180.
23
bisognerebbe valorizzare la scelta razionale e autonoma dell’“emigrante”, colui
che viene da un luogo “ricco” di oggetti e di legami, da un contesto storico e
culturale “denso”27.
<<Valorizziamo le diversità di qualsiasi genere>>.
Pierre Bourdieu parla della doxa, processo in cui in ogni società particolare “il
mondo naturale e sociale appare come auto-evidente”28. L’individuo si costruisce
in questo modo un senso comune naturalizzando l’arbitrio e considerando come
verità certe forme d’interpretazione della realtà, date per scontate nella società in
cui vive. C’è il rischio però, sostiene il sociologo francese, di produrre “violenza
simbolica” ossia la naturalizzazione di atteggiamenti di esclusione e
discriminazione, come ad esempio il “razzismo” e “l’etnocentrismo”. Come
sostiene Claude Levi-Strauss, l’etnocentrismo29 si ha quando sussistono spesso
“scandalo e mostruosità” per la diversità culturale invece di concepirla come un
fatto “naturale”, risultante dei rapporti diretti o indiretti tra le popolazioni.
Antropologia che già in precedenza aveva messo in atto, tramite Franz Boas, il
passaggio da un approccio comparativista di stampo evoluzionista che
considerasse le culture non occidentali come “primitive” e “inferiori”, a un
approccio più relativista e “interculturalista” che riconoscesse l’importanza della
storia e dei costumi delle culture “altre”.
“L’effetto generale della critica di Boas all’evoluzionismo fu quello di
mostrare che i vari elementi della cultura umana non procedevano
insieme ad ogni passo o sequenza regolare (…) ognuna di queste
culture rappresentava un modo di vita integrato, e per quanto
27
Roberto Beneduce, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura,
Roma, Carocci, 2007, p.261.
28 Pierre Bordieu, Esquisse d'une théorie de la pratique, Droz, Genève, 1972 p. 164.
29 Claude Lévi-Strauss, Razza e Storia. Razza e cultura, Torino, Einaudi, 2001. p.10.
24
potessero essere basate su <<differenti tradizioni>> e su un
<<differente equilibrio di ragione e emozione>> non per questo le si
poteva considerare di <<valore inferiore>> alla nostra”30.
Perciò è errato sostenere che esistono società inferiori o superiori poiché ognuna,
sostiene Levi-Strauss, ha vissuto e affrontato il tempo passato in modo diverso e
con uno sviluppo orientato verso altri tipi di tracciati e obiettivi, indugiando o
accelerando durante il percorso.
Come appunto sostiene Levi-Strauss:
“i tentativi compiuti per conoscere la ricchezza e l'originalità delle
culture umane, e per ridurle a repliche più o meno arretrate della
civiltà occidentale, urtano contro un'altra difficoltà, molto più
profonda: in generale tutte le società umane hanno dietro di loro un
passato che è approssimativamente dello stesso ordine di
grandezza”31.
Importante è invece valorizzare le ingenti ricchezze umane che si possono trarre
dal confronto tra diverse culture che possono coesistere su un territorio. La storia
cumulativa e il progresso di una società derivano proprio dagli scambi relazionali
e dai “modi di stare insieme” tra diverse culture, dalle forme di collaborazione che
quest’ultime hanno l'opportunità di costruire nella storia. Arte Migrante permette
l’opportunità di un incontro, seppur in uno spazio limitato, di una grande quantità
di persone proveniente da luoghi, culture e condizioni di vita profondamente
diverse tra loro. Migranti da diverse parti d’Italia e del Mondo, come vedremo
nelle “storie di vita” riportate nel capitolo terzo, che portano con loro diversi modi
di vivere e affrontare la vita, diversi modi di conoscenza, di rapportarsi all’interno
dei gruppi sociali.
30
Franz Boas, The Mind of Primitive Man, New York, Macmillan, 1911, p.11.
31 Ivi. p.18.
25
<<L’accoglienza e l’ascolto reciproco sono la guida del nostro agire, perché
solo attraverso l’incontro con l’altro possiamo comprendere noi stessi>>.
Come poi si avrà modo di approfondire, il gruppo ha cercato di creare uno spazio
d’“ascolto” rivolto a ogni individuo indipendentemente dalle sue caratteristiche
fisiche e culturali. L’ascolto è uno strumento importante nella sfera comunicativa,
indispensabile in quella relazionale. Ciò per abbattere le distanze create dalla
suddivisione che sovente si crea tra un “Noi” e un “Loro” e costruire una forma
unica e comunitaria del “Noi”. “Barriera” che Taguieff reputa generata da un
criterio pratico del pensiero razzista:
“Siamo dunque in grado di identificare un criterio pratico del
razzismo, anche nei suoi effetti: esso istituisce le categorie di
inconvertibili e di inassimilabili, condanna, senza esclusione, tutti
coloro che vengono considerati come rappresentanti di un gruppo
"impuro" a essere rifiutati dal gruppo "puro", erige una barriera
assoluta tra "Noi" e "gli Altri".32”
La costruzione di occasioni di dialogo e confronto interculturale e artistico
permette l’elaborazione di strategie di mediazione tra il relativismo più aperto e le
forme più universalizzanti della modernità. Secondo Totaro il “relativismo (…)
procede per prove ed errori e rifiuta di cristallizzarsi in formule statiche non
passibili di mutamento (…) l’universalismo coincide con la pretesa illeggittima di
trasferire contenuti appartenenti a un contesto determinato ad altri contesti nei
quali essi imporrebbero più o meno arbitrariamente il loro dominio33”. L’arte è
uno strumento “universale” che il gruppo Arte Migrante utilizza nel
perseguimento di un fine che segue un ottica più relativista: valorizzare la 32
Pierre André Taguieff, “La lempieza de sangre”, cit.,
http://www.armando.it/Uploads/Armando/docs/22425_18629_razzismo.pdf
33 Francesco Botturi, Francesco Totaro ( a cura di), “Universalismo ed etica pubblica”, Annuario di
etica, No. 3 , Milano, Vita e pensiero, 2006, p. 57.
26
diversità tra le culture. Come si evince sempre dalle “storie di vita” del capitolo
terzo, gli incontri di Arte Migrante possono favorire reciproca ricchezza non solo
perché danno possibilità a chi vi partecipa di esprimersi artisticamente davanti ad
un pubblico, ma anche perché permettono la condivisione di valori comuni per il
semplice fatto di essere parte del gruppo. Il corpo dell’Altro, del migrante, del
“senza fissa dimora” come sostiene Didier Fassin è un corpo “razzializzato”
perché “divenuto il luogo d’iscrizione per le politiche migratorie”34 e in generale
per le politiche sociali dei governi. Muri e distanze tra europei e non europei,
“barboni” e cittadini benestanti, “Noi” e gli “Altri”. In questo senso Arte Migrante
cerca di rompere queste barriere ghettizzanti e discriminatorie attraverso
“l’incontro con l’altro”, punto centrale del manifesto e inviolabile comandamento
alla base del suo percorso associativo. Wimmer sostiene tre diverse teorie per cui
noi “non ci incontriamo” con l’altro sviluppando comportamenti xenofobici:
teoria della “scelta razionale” per cui la rivalità con gli immigrati è legata alla
scarsità delle risorse occupazionali e abitative a cui si può accedere; le teorie
“funzionaliste” non si riescono a integrare perché provenienti da una cultura
“arretrata” o da un’istruzione e una qualificazione professionale inferiore; infine
quelle “fenomenologiche discorsive”per cui il razzismo è scaturito dalle tensioni e
dalle crisi d’identità che hanno i recenti sconvolgimenti economici e sociali degli
ultimi anni. Per l’associazione Arte Migrante “incontrare l’altro” vuol dire
accogliere i suoi modi di fare. Vuol dire avere l’accortezza e la sensibilità di
comprendere le ricchezze del suo passato e delle scelte di vita che ha alle spalle.
L’“arte” può esser un potente “collante relazionale”, che abbraccia persone di
ogni tipo e da loro opportunità di rapportarsi vicendevolmente in modo paritario.
Facendo un esempio banale, una canzone dei Beatles ad esempio può suscitare
medesime sensazioni ed emozioni sia che una persona provenga dall’Italia, dal
Marocco o dalla Cina. “Incontrare l’altro” significa anche entrare in “risonanza”
con lui. Unni Wikan nel 1989, durante la sua ultima visita a Bali, ha avuto
l’occasione di entrare in una discussione epistemologica con alcuni abitanti del
34
Cleude Lévi-Strauss, 2001, Razza e Storia. Razza e cultura, op. cit., p.18.
27
luogo. Dai balinesi ha scoperto che per ottenere vera comprensione e vera
conoscenza bisogna usare il pensiero e il sentimento allo stesso tempo. La
risonanza, chiamata keneh dal popolo di Bali, permette di andare “oltre le parole”,
di entrare in un’empatia tale con l’altro da apprezzarne anche i momenti di
silenzio (come nell’esperienza che la Wikan fece tra gli Omaniti). Questo è un
aspetto fondamentale degli incontri di Arte Migrante, per cui proprio come accade
quando si acquisisce la risonanza, bisogna ascoltare ogni particolare che emerge
dal discorso dell’altro, atto fondamentale per una “teoria dell’essere insieme nel
mondo e capirci a vicenda”35. Risonanza vuol dire che si cerca di dare la stessa
importanza a tutti i partecipanti-artisti durante i dibattiti e le performance
artistiche messe in scena durante gli incontri. Come sostiene Piasere, il keneh
balinese è molto vicino al concetto di “carità”, ovvero quell’atto di comprensione
che tiene in giusto conto l’altro36. E’ indispensabile per chi partecipa al nostro
gruppo, cercare di tenere in giusto conto il “senza fissa dimora”, il migrante che
non è un reietto o un delinquente, un barbone o un clandestino, un criminale o un
terrorista, ma è una persona. Riportando alcune efficaci esplicazioni della Wikan:
“Dobbiamo immergerci nella sorgente di noi stessi in cerca di
qualcosa da usare come ponte fra noi e gli altri (…) liberarci dai
preconcetti soffocanti che possono rappresentare un ostacolo sulla
nostra strada: cioè pensare che gli altri siano essenzialmente diversi da
noi (…) la risonanza evoca l’esperienza umana condivisa, qualcosa
che le persone possono avere in comune in ogni spazio e in ogni
tempo”37
L’arte, la musica, la danza, la poesia sono strumenti che ha l’uomo per
promuovere esperienze condivise in ogni spazio e in ogni tempo. Per questo Arte
35
Unni Wikan, “Beyond the words. The power of resonance”, in Leonardo Piasere, L’etnografo
imperfetto, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 148.
36 Ivi p.148.
37 Ivi p.149.
28
Migrante si avvale del potere coesivo dell’arte per creare occasioni e azioni
collettive tra persone di diverse culture e condizioni sociali.
<<Doniamo ciò che abbiamo in abbondanza: sorrisi, abbracci, esperienze di
vita.>>
La “spontaneità” è un aspetto centrale del percorso associativo. Spontaneità vuol
dire possedere l’innata tendenza a regalare sorrisi e abbracci, gesti affettivi per
esprimere la vicinanza umana che lega le persone. Durante gli incontri, ciò accade
molto spesso. Si tratta di una sorta di "maussiano" scambio e contraccambio di
doni relazionali e non verbali, che rafforza e completa l’impalcatura etica di Arte
Migrante. L’imperativo però non è solo nell’ambito delle relazioni umane ma
anche nell’ambito del modo con cui si organizzano e gestiscono gli incontri e le
attività. Spontaneità vuol dire, infatti, lasciare libero spazio alla fantasia e alle idee
del momento. Spesso accade che le performance e gli interventi artistici e
culturali messi in atto durante gli incontri del mercoledì vengano “improvvisati”,
stabiliti sul momento, in base alle persone presenti quella sera. L’aspetto della
spontaneità è significativo per il gruppo.
<<L’arte è il cuore pulsante del nostro stare insieme.>>
L’arte è uno strumento che il gruppo reputa fondamentale per creare opportunità
di scambio a ogni livello, da quello relazionale a quello sociale, da quello
culturale a quello umano. Una canzone o una danza possono coinvolgere la
partecipazione di tutti i membri del gruppo a prescindere dalle prerogative fisiche
o nazionali di ognuno, a prescindere dal vissuto o dalla condizione sociale assunta
in quel momento. L’arte è fatta anche di parole, come nella poesia o nel teatro, di
messaggi politici e immagini. Si rivela dunque un mezzo importante per
sensibilizzare riguardo a sguardi alternativi sul mondo. L’arte può essere
un’importante opportunità di “riscatto sociale”, come sostiene l’artista senegalese
29
Amadou Kane Sy38. Quest’ultimo afferma che se una società ha dei problemi è
perché “manca di creatività”. Per questa ragione bisogna appellarsi agli artisti
perché sono capaci attraverso l’inventiva e la creatività di improvvisare cose dal
nulla. Kane Sy sostiene che la pratica artistica è utile a tutte quelle persone che
hanno perduto la loro dignità. L’attività artistica performativa può favorire un
aumento di stima, del senso di dignità, della voglia di vivere e mettersi in gioco
nuovamente. In questo senso sottolinea Kane Sy (intervistato da Roberta Cafuri):
“Lo scopo dell’attività artistica così praticata è creare opportunità
affinché l’individuo sperimenti l’ampiezza delle sue potenzialità (…)
una persona può uscire dal senso di frustrazione, alla percezione di
non poter agire”39.
I “senza fissa dimora” e i migranti, specialmente quelli in condizioni di povertà
più accentuate, vengono da situazioni di vita difficili e marginali. Come difficile
ma esemplificativa è la vicenda di Brian40, raccontata da Byron Good. Brian è un
ragazzo che scopre di avere una malattia probabilmente legata a un disturbo
mandibolare. Eppure l’incerta origine della malattia e le inefficaci cure
somministrate dai medici fanno crollare il mondo del paziente, in breve tempo
emarginato dagli amici e privato di una vita normale. Perde così il senso della sua
esistenza e perde il rapporto con il proprio corpo, ma scopre fortunatamente un
mezzo che riesce a farlo rinascere e risollevare: la pittura. L’arte diventa il modo
attraverso cui potersi esprimere e sfogare in qualche modo la sofferenza, trasferita
dunque in un mondo “altro” per poterla eliminare o quantomeno limitare. L’arte
per Brian, come per tutte quelle persone che vivono condizioni di oppressione
sociale, può essere uno strumento davvero importante di riscatto umano e sociale.
38
Roberta Cafuri, Riconoscere la diversità. Antropologia, arte e musei, Torrazza Coste (PV),
Altravista, 2009, pag 137
39 Ibidem pag 138.
40 Byron Good, “Un corpo che soffre”, in Ivo Quaranta (a cura di), Antropologia medica. Milano,
Cortina, 2006, p. 235.
30
Allo stesso modo tramite l’esperienza di Arte Migrante, il gruppo ha deciso di
avvalersi del potere coinvolgente e comunicativo dell’arte. L’arte è posta come
chiave di volta di una collettività che cerca di diventare comunità che “accoglie”.
Un gruppo che valorizza le molteplici diversità che contraddistinguono la
morfologia umana di chi vi partecipa, considerandole non come motivo di scontro
ma come irripetibili e preziose occasioni d’incontro.
1.3 Particolarità migranti del contesto territoriale
Arte Migrante viene svolta nella città di Bologna, una città costruita in epoca
romana, capoluogo della regione Emilia-Romagna. La città è situata tra i fiumi
Reno e Savena, circondata dai colli appenninici San Luca, Osservanza e San
Michele in Bosco. È sempre stata una città ricca di cittadinanze diverse,
universitaria. Un centro commerciale dei comuni che la circondano, delle fiere e
del divertimento. Una città di forte immigrazione. Caratteristiche che dagli anni
80 in poi hanno assunto, così come nel resto della penisola italiana, tratti
marcatamente più specifici. L’antropologa bolognese Callagari Galli sostiene che:
“Con il passar degli anni, molti quartieri bolognesi, - soprattutto il
centro storico e le periferie – sono divenuti crogiuoli di gruppi e di
culture diverse: di immigrati ma anche di studenti pendolari o fuori
sede, a cui si affiancano presenze rapide o saltuarie ma incisive per i
loro rapporti con la produzione mercantile e commerciale della
città”41.
41
Matilde Callari Galli, “Cultura e contemporaneità”, in G. Scandurra, Tutti a casa. Il Carracci:
etnografia dei senza fissa dimora a Bologna, Rimini, Guaraldi , 2005, p. 24.
31
I grandi flussi di cittadini stranieri che circolano su questo territorio, secondo
molti studiosi andrebbero letti non soltanto considerando le caratteristiche del
paese di emigrazione, ma anche e soprattutto quello d’immigrazione. Guardando,
infatti, all’Emilia-Romagna, nel caso specifico di Bologna, questa forte crescita
della popolazione straniera può essere ricondotta alle caratteristiche del tessuto
economico e del mercato del lavoro locale. Quest’ultimo è caratterizzato da
un’elevata occupazione e da bassi tassi di disoccupazione. Parlando in termini
numerici, una persona su dieci nella provincia di Bologna è straniera. Si parla,
infatti, di oltre 100 000 presenze appartenenti a 157 paesi differenti. Ciò non è
però un connotato che contraddistingue esclusivamente la presenza straniera a
Bologna, ma è un tratto tipico dell’intero fenomeno immigratorio del nostro
paese, tanto che si è soliti rappresentare l’immigrazione italiana con l’immagine
dell’«arcipelago». Nel comune di Bologna si contano invece 56.155 residenti
stranieri la cui incidenza sul totale della popolazione, essendo più che triplicati
negli ultimi dieci anni, ha raggiunto il 14,6%42. Andando poi a delineare il
fenomeno in termini di comunità migranti, la più numerosa è senza dubbio quella
rumena, con circa 18 000 residenti, seguita da quella marocchina e albanese.
Connotazioni che vanno a rispecchiarsi nella composizione del gruppo Arte
Migrante fin dall’inizio contraddistinto da una forte presenza di persone
provenienti dalla Romania e dalle zone del Magreb. Anche il quartiere San Vitale,
dove è collocata la sede presso la quale si svolgono gli incontri, è tra i più
interculturali della città, preceduto solo dai quartieri Navile e San Donato. Inoltre
passando alla sfera occupazionale, secondo le stime Istat, gli stranieri nel
complesso costituiscono l’11,4% degli occupati. Questo dato evidenzia che gli
stranieri costituiscono una quota rilevante non soltanto della popolazione
residente, ma anche della forza lavoro, dimostrando che il sistema economico-
produttivo bolognese, e più in generale quello emiliano-romagnolo, è un
fondamentale motore per l’attivazione dei flussi migratori.
42
Mattia Baroni, “Dossier immigrati a Bologna”, http://www.liceogalvani.it.
32
A Bologna esistono molte associazioni che si occupano del fenomeno migratorio.
Sono quarantadue le realtà presenti nella provincia bolognese destinate a favorire
l’inserimento e l’integrazione degli stranieri nella società. Tra queste, diverse
hanno collaborato con il gruppo Arte Migrante. Ad esempio hanno partecipato il
centro “Sokos” nato per garantire loro servizi sanitari e la scuola d’italiano
“Aprimondo”. Ancora di più sono le realtà associative composte “da” immigrati,
oltre un centinaio, nate per garantire spesso l’inserimento dei nuovi arrivati
all’interno della rete relazionale costruita dai “network migratori”43. Hanno
collaborato con noi l’associazione dei giovani eritrei “Eritrean Youth for National
Salvation” di Abram (realtà che sarà approfondita nei capitoli successivi) e il
Coordinamento Migranti. La realtà associativa che più ha influenzato non solo la
nascita ma anche e soprattutto il successivo consolidamento del gruppo Arte
Migrante è certamente l’associazione Albero di Cirene. Fondata da Don Mario
Zacchini nel 2002, l’associazione porta avanti attività di diverso tipo dirette a
singoli o famiglie italiane e straniere che vivono condizioni disagiate di diverso
tipo. L’associazione fa capo alla parrocchia Sant’Antonio di Savena, luogo
all’interno del quale è situata la “sede” degli incontri: la “sala teatrino".
Tra i migranti stranieri e italiani che partecipano alla vita dell’associazione Arte
Migrante, è presente un discreto numero di “senza fissa dimora”. Questo termine è
preferibile rispetto a quello di clochard e quello di “barbone”. Entrambi, infatti,
hanno un’accezione negativa per la loro origine etimologica poiché clocher in
43
Nella teoria dei network, le persone sono considerate attori che partecipano a sistemi sociali in
cui sono coinvolti altri attori che in vari modi condizionano le loro decisioni. Nel caso dei migranti
i network si fondano sulla parentela, l’amicizia, la comune origine, la condivisione di una cultura;
tali network connettono i migranti con altri migranti che li hanno preceduti, o con non migranti
nelle aree di origine o di destinazione. I network garantiscono la connessione tra le condizioni che
rendono probabili le migrazioni (effetti push e pull) e i migranti potenziali ed effettivi. Infatti i
migranti si dirigono laddove potranno contare sull’appoggio di altri che li hanno preceduti, in ciò
guidati dai meccanismi di richiamo basati sulla cosiddetta “catena migratoria”. Essi inoltre
riducono i costi della migrazione, offrendo assistenza, supporto materiale ed emotivo, indirizzo
nell’accesso al lavoro. Laura Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, Bari, Editori Laterza, 2007.
33
francese vuol dire zoppicare, “barbone” in italiano significa invece "persona
maltenuta", di scarsezza morale e devianza.
Passando a un livello statistico, partendo da alcune stime Istat del 2011, il numero
dei “senza fissa dimora” a Bologna si aggirerebbe attorno alle 1005 unità44.
Tuttavia si tratta di un dato approssimativo dato che fa riferimento unicamente a
chi ha utilizzato nei mesi di Novembre e Dicembre i servizi di accoglienza e di
mensa presenti in città. Di fatto, solo una parte dei “senza dimora” ha reali
opportunità di averne una temporanea in qualche centro d’accoglienza, e la stessa
cosa vale per coloro che hanno possibilità di usufruire delle mense. Il mondo dei
“senza fissa dimora” è difficilmente quantificabile in stime reali, anche perché
“surreali” e assurde sono spesso le condizioni di esistenza in cui sono costretti a
vivere. Rari, infatti, i casi di una “scelta consapevole o volontaria” di vita nomade
dedita al vagabondaggio. La maggioranza, come già suddetto, sono invece coloro
che finiscono in strada per questioni legate alla famiglia e lavoro. Altri elementi
indicativi che emergono dallo scorporo dei dati sono che il 59% dei “senza
dimora” è straniero, il 61% ha perso un lavoro stabile e che si tratta di persone
adulte poiché l’età media è 49,9 anni per gli italiani, 36,9 per gli stranieri. Eppure
il fattore push più importante che emerge dalle stime è che oltre il 59% attribuisce
alla “separazione dal coniuge” la causa principale del proprio tracollo. Perciò più
che la crisi economica di questi ultimi anni, è la crisi relazionale l’avvenimento
che più incide sulla vita di un individuo. Con Arte Migrante è proprio su questo
fronte che si cerca di intervenire, quello relazionale, seppur attraverso la “nobile
scusa” dell’arte. Si può affermare che Bologna è una delle città italiane più
“accoglienti” e preparate nei confronti della presenza dei “senza fissa dimora”.
Tuttavia si tratta di un’accoglienza limitata, perché anche il capoluogo emiliano,
non riesce a conferire un’adeguata attenzione alla numerosa “presenza\assenza”
dei “senza dimora”. Assenza perché questi ultimi, come sostiene il ricercatore
44
Fonti riportate nel sito http://www.bolognatoday.it/cronaca/istat-senza-dimora-tetto-bologna-
dati.html.
34
Bonadonna, “vengono classificate in base alla condivisione di ciò che non
hanno”45.
“Questi dati demoliscono alcuni stereotipi (…) non sono pochi i
senza dimora in Italia, lo 0,2% è lo stesso dato di molti altri Paesi; i
clochard non esistono più, se sono mai esistiti, nessuno lo fa per
scelta, ma ci sono delle cause; noi operatori dobbiamo capire che chi è
in strada conserva abilità che gli consentirebbero di riavere una casa e
un lavoro con un supporto leggero e che non sono sempre necessari
lunghi percorsi di reinclusione”46.
Bologna possiede diverse strutture d’accoglienza per i “senza dimora” così come
discreta è la presenza di realtà associative che offre servizi a questo genere di
utenze. Tra le associazioni che hanno collaborato con Arte Migrante, c’è la storica
“Piazza Grande”47. L’aspetto peculiare dell’associazione Piazza Grande è che
nasce e si sviluppa grazie alle idee e all’intervento in prima persona dei “senza
dimora”. Il fine principale, affine a quello del nostro gruppo di artisti, è
contrastare i problemi dati dall’emarginazione sociale elaborando pratiche
d’intervento condivise con le stesse vittime dell’esclusione. Altre realtà che hanno
inciso nel percorso di Arte Migrante sono il gruppo “Treno dei Clochard” e “la
Ronda della Carità e della Solidarietà”. Entrambe le realtà sono associazioni
informali che si occupano di realizzare un servizio mensa itinerante. Come sarà
approfondito nel capitolo successivo, la collaborazione di Arte Migrante con 45
Federico Bonadonna, “Il nome del barbone: vite di strada e povertà estreme in Italia” in
Giuseppe Scandurra, “La città degli esclusi”, http://mappe-urbane.org/
46 Articolo del 10\ Ottobre\2012 www.Piazzagrande.it.
47 Piazza Grande nasce inizialmente nel 1993 come giornale scritto, redatto e diffuso da persone
senza fissa dimora. Poi diventa associazione e da vita ad altri progetti come le “Officine di Piazza
Grande” che realizzano attività di raccolta differenziata di carta, raccolta del legno, sartoria e
riparazione biciclette. Infine da vita nel 2000 all’importante progetto “Avvocati di Strada”, che
promuove attività di tutela legale gratuita e professionale a sostegno delle persone senza dimora.
ved. http://www.piazzagrande.it.
35
queste due realtà si è rivelata significativa perché hanno permesso occasioni di
conoscenza e di relazione con i soggetti in questione.
36
Capitolo 2
Storia e pratiche di Arte Migrante: descrizione del
progetto.
2.1 Le prime iniziative nella pianura pontina.
Arte Migrante è un’idea progettuale nata a Latina in collaborazione con l’Ong
LVIA, all’interno del progetto interregionale “Giovani e Intercultura: un anno di
dialoghi”. Al primo spettacolo, realizzato nel mese di Settembre 2012, sono state
coinvolte diverse realtà associative e artisti provenienti da varie parti del mondo:
una comunità rom, un senza dimora marocchino che ha fatto un canto tradizionale
del suo popolo, una poetessa rumena che ha recitato versi sull’ importanza del
viaggio, l’associazione Emergency con alcune storie sulla medicina di guerra, un
rifugiato congolese che ha raccontato in versi la complessità del conflitto nella
regione dei grandi laghi.
La poetessa rumena,Teodora Paraschiva Cotoi, si fa chiamare Stefania dai suoi
amici italiani e vive in Italia da dodici anni. Per cinque anni mediatrice
interculturale del progetto “Angeli Custodi” del Comune di Latina ha fondato,
insieme con la ragazza serba Nikolina Valentinic ( altro membro di Arte Migrante
), l’associazione “Testimonianze”.
Stefania ha alle spalle anche diverse attività interculturali realizzate in
collaborazione con il progetto Giovani e Intercultura della Lvia. Tuttavia, prima di
riuscire a integrarsi e a trovare un ruolo nel contesto italiano, ha trovato molte
difficoltà. Questo perché essere immigrati in Italia, più che in altri Paesi europei,
37
rappresenta un punto ancora controverso della società. Lo Stato italiano, pur
essendo passato allo status di “luogo di immigrazione”, non è ancora pronto a
governare una società plurale, il livello di coesione sociale è basso. Sono riportati
di seguito alcuni interessanti frammenti di un’intervista fatta il 6 agosto 2013:
In Romania ero studentessa di economia, poi mi sono trasferita in
Italia per il mio ragazzo, inizialmente dovevo andare in Francia che
avevo dei parenti. Ma per il mio ragazzo sono venuta qui ed ho
iniziato a lavorare in campagna. Il mio primo giorno è stato a Borgo
Grappa a raccogliere le patate, a zappare le zucchine. Il lavoro era
tutto in nero. (…) In campagna mi pagavano poco, ero sfruttata dal
caporalato. Mi prelevavano, mi portavano nel campo e mi pagavano
28 euro nella giornata per otto ore di lavoro. Però da quella dovevo
scalare 5 euro per quelli che ci trasportavano a lavoro, con un
furgoncino da otto persone, anche se spesso eravamo in quindici. Ma
oggi sono contenta perché quello che ci trasportava e ci sfruttava è
stato finalmente arrestato.
Stefania ha avuto un’esperienza molto difficile al suo arrivo, e molto simile a
quella che la maggior parte degli immigrati, specialmente quelli provenienti dal
Sud del mondo, sono costretti a vivere. Quest’ultima racconta delle tendenze
xenofobe che ha avuto modo di conoscere, sia direttamente che indirettamente,
nel territorio pontino e contro le quali si è battuta attraverso le attività del progetto
Arte Migrante.
Bisogna essere realisti a capire perché c’è questa tendenza a una
forma di xenofobia che nasce da una paura del diverso. Tanti mi
dicevano che qui l’Italia è razzista, anche per le leggi! Le leggi in
Italia sono limitate perché favoriscono solo i diritti dei cittadini
italiani e non di quelli stranieri (…) Se io prendo me stessa, non mi
sono mai posta come rumena ma come persona e questo mi ha aiutato
parecchio. Una persona è un’entità di sentimenti ed emozioni poi
38
dopo viene il resto. Ho avuto però anch’io episodi in cui sono stata
catalogata rumena o considerata con superficialità. La rabbia l’ho
avuta ma ho sempre risposto a me stessa che non valeva la pena
rispondere usando gli stessi toni. Tipo con i colleghi a lavoro mi è
successo anche in alcune azioni di volontariato in cui hanno detto
“ma quella là che ci fa in quella foto!”. Ed io mi sono detta che erano
ignoranti, e chi è ignorante, ignorante rimarrà. Mi è successo anche
quando mi hanno fatto delle proposte non piacevoli in cambio di un
posto di lavoro. Ho risposto che preferisco andare a vivere sotto i
ponti che vendere il mio corpo.
Stefania è stata un importante punto di riferimento per il gruppo Arte Migrante,
anche perché rappresenta un esempio positivo di una”immigrata che ce l’ha fatta”,
in termini d’integrazione sociale e relazionale. Quest’ultima ha ormai quasi
esclusivamente amici italiani e si sente sia rumena che italiana.
Da un punto di vista morale anche c’è un rispetto paritario tra la
società da cui provengo quella che mi ospita. È l’umanità il rispetto.
L’umanità è la persona in se, non esiste la frontiera tra me come
romena e me come italiana.
Parlando di Arte Migrante prosegue:
(…)mi ha dato possibilità di creare ma anche di essere vista come
persona, essere valorizzata come persona . e ha coinciso con il mio
credo che siamo tutti delle persone. Poi il fatto di esprimere tutti i
paesi del mondo attraverso l’arte mi ha aiutata anche proprio a
scoprire me stessa attraverso il dialogo e l’arte (…) Una cosa però
che non ho mai voluto fare nel mio percorso in Arte Migrante era di
catalogarmi come cittadina straniera. Spesso siamo obbligati ad
adattare certi codici solo per essere individualizzati, quei codici non
mi piacciono, è sbagliato. Invece dobbiamo essere visti come persone,
39
e l’arte deve essere vista come arte in se e non come arte fatta da
stranieri.
Il rischio di scadere in facili categorizzazioni e stereotipi in nome del
multiculturalismo è facile. Verso la parte finale dell’elaborato saranno
approfondite diverse criticità di questo tipo, emerse durante l’esperienza di Arte
Migrante a Bologna. In ogni azione o evento organizzato, il gruppo Arte Migrante
ha come obiettivo di valorizzare la “diversità” facendo attenzione a come ogni
soggetto vuole viverla e condividerla sia con i membri del gruppo sia con il
pubblico. Come sostiene Stefania:
(…) la cosa più importante è riconoscere che la diversità non sta nella
bandiera come forma di nazionalismo o di appartenenza. Io per
esempio sono rumena ma ciò non deve limitare la mia identità.
Appartenere alla mia nazionalità deve essere una mia libera scelta.
2.2 Arte Migrante a Bologna: storia di un trasferimento e di
un’evoluzione.
La scintilla che ha fatto nascere l’esperienza di Arte Migrante a Bologna è stata la
“Carovana della Pace” organizzata dal prete comboniano padre Alex Zanotelli.
Durante l’esperienza, un gruppo di circa cinquanta persone ha cantato insieme con
un gruppo di carcerati di Eboli. Questa esperienza ha mostrato la forza
unificatrice dell’arte e, in quel particolare caso, della musica. Con i carcerati in
quel momento, come direbbe la Wikan, si è creato un momento di forte
“risonanza”.
Quel piccolo avvenimento, che ha messo in luce la forza empatica e coesiva della
musica, ha fatto nascere in alcuni partecipanti l’idea di creare un gruppo artistico a
40
Bologna, in una realtà urbana che presenta sia un universo associativo e civile
molto attento e sensibile al tema dell’intercultura sia molteplici situazioni di
marginalità ed esclusione sociale. Ad esempio, sono diverse le manifestazioni
istituzionali che trattano le tematiche dell’integrazione degli immigrati, rari i casi
in cui quest’ultimi vengono coinvolti attivamente a partecipare, intervenire o
organizzare l’evento. Come sostiene Roberto Beneduce
“ (…) continuano a non sentirsi non abbastanza protagonisti, capaci di
realizzare quel potere per il quale hanno trovato forza e coraggio di
abbandonare villaggi e famiglia: è come se dicessero che
l’integrazione a loro non basta”48.
Altrettanto rari sono i casi in cui nel territorio si organizzano iniziative di “rete”
tra realtà associative che si occupano di medesime finalità sociali o dirette a stesse
categorie d’individui. Questi e altri motivi hanno incoraggiato la creazione di un
gruppo che abbia come obiettivo, da una parte, coinvolgere persone di diverse
culture e condizioni sociali, dall’altra, “fare rete” tra le associazioni del territorio.
Così, nell’autunno 2011, si è costituito il primo nucleo di Arte Migrante.
2.2.1 Il rito iniziatico delle presentazioni
Gli incontri che il gruppo Arte Migrante organizza seguono in linea di massima
uno schema consolidato e suddiviso in quattro fasi: il momento delle
presentazioni; la cena comune; le performance artistiche; la riflessione finale.
La prima parte della serata, dedicata appunto alle presentazioni, si può considerare
come il “rito iniziatico di Arte Migrante”. Nel mondo antropologico, quando si
parla di “riti d’iniziazione”, si fa riferimento a una pratica rituale basata su un
percorso a più fasi affrontato dagli “iniziati”. In questo percorso l’”iniziando”
passa da una condizione di vita a un’altra. Secondo Van Gannep, i riti
48
Abdelmalek Sayad, La doppia assenza, cit., pp. 89-90.
41
“separavano determinati membri di un gruppo nella vita quotidiana, li
collocavano in un limbo che non era nessuno dei luoghi in cui erano
stati prima e non era ancora nessuno dei luoghi in cui sarebbero stati
poi e quindi li restituiva, in qualche modo cambiati, alla vita di ogni
giorno”49
Pertanto i riti di passaggio sono quelli che determinano il cambiamento dello
status di un singolo o di un gruppo d’individui e che riguardano le fasi critiche
dell’esperienza umana. In Arte Migrante, il “presentarsi all’altro” è una fase di
passaggio importante perché si passa dallo status di “sconosciuto”, alla condizione
di “conosciuto”. Quando si diventa conosciuti al gruppo, si arriva inevitabilmente
a essere considerati “membri” del gruppo stesso. L’unico vero ostacolo da
superare per entrare a far parte di Arte Migrante è proprio la capacità di sapersi
“aprire all’altro”.
Un altro cambiamento di status è quello vissuto dai senza fissa dimora e dai
migranti che passano dalla condizione di “ membri marginali” e in alcuni casi
“invisibili” della società, a persone “considerate”, la cui vita assume nuova
positiva importanza.
2.2.2 Le performance artistiche e una breve introduzione all’etnomusicologia.
Nella seconda fase degli incontri di Arte Migrante, dopo un breve momento di
cena comune, si eseguono alcune performance artistiche, spesso di tipo musicale.
La ricerca antropologica, in particolare del periodo post coloniale, ha costatato
che non esistono popolazioni prive di forme espressive musicali, quantomeno
artistiche. L’etnomusicologia, rispetto ad un recente campo di studi, nacque con
l’obiettivo di analizzare espressività musicali differenti da quelle sviluppatesi
nella società occidentale.
49
Arnold van Gennep “I riti di passaggio” in Victor Turner , Antropologia della performance,
Bologna, il Mulino, 1993, p. 81.
42
L’impatto con la diversità delle culture non occidentali ha messo inevitabilmente
in crisi il concetto moderno di musica. Schneider sostiene che il fine principale
dell’etnomusicologia è “lo studio comparato di ogni caratteristica, più o meno
significativa, della musica non europea”50. Merriem sostiene che
l’etnomusicologia deve essere concepita come lo “studio della musica nella
cultura”51 sfatando un mito diffuso nella società moderna, gli etnomusicologi
sostengono però che la musica non si può definire come un “linguaggio
universale” perché in ogni società essa è concepita in modi, forme, stili
radicalmente differenti che mettono in discussione il concetto di musica inteso in
senso occidentale. Tuttavia si può dire, come sostiene ancora Merriem, che la
musica è un comportamento dell’uomo, è un linguaggio di comunicazione, e per
queste semplici e indiscutibili ragioni è universale e può essere un elemento
importante dell’indagine antropologica. Importante poi è il legame tra arte ed
emozioni. La musica, come disciplina artistica e canale comunicativo, trasmette
emozioni e determinati significati che possono essere“affettivi” e “culturali”52. Ad
esempio vi sono sensazioni, affezioni, sbalzi emotivi che soltanto un gruppo di
strumenti che suonano contemporaneamente possono generare. L’uomo mette la
musica in connessione con gli altri dispositivi della cultura alla quale appartiene.
La musica, come ogni altra disciplina artistica, è dunque molto sensibile al
contesto sociale. Marius Schneider sostiene che
“la musica è la sede delle forze segrete e o di spiriti che i canti
evocano per dare all’uomo il potere di conoscere se stesso… ogni
individuo possiede un proprio canto, il cui stile incarna la sua
natura”53.
50
Marius Shneider, “Primitive Music”, in Alan P. Merriem, Antropologia della musica, Palermo,
Sellerio, 2000, p. 23.
51 Ivi, p. 24.
52 Ivi, p. 238.
53 Ibidem, p. 254.
43
Il momento delle performance è quello che ha più importanza negli incontri di
Arte Migrante. Le performance artistiche solitamente vengono organizzate ed
eseguite dopo il momento dedicato alla cena comune. E’ il punto più alto della
serata perché più di altri esprime il senso di ciò che il gruppo si prefigge di portare
avanti: l’intercultura e l’inclusione sociale promosse attraverso l’arte. Canti rom
dal Kosovo, danze irlandesi, sketch teatrali italo-argentini, poesie dalla Romania,
“detti” tradizionali cinesi, queste e altre performance sono state eseguite durante
gli incontri di Arte Migrante. L’etimologia del termine ha origine dalle lingue
neolatine, dal francese antico performer che vuol dire “compiere” o dal latino
tardo performare ovvero “dare forma”. Infatti, la performance si può definire
come una prestazione che qualcuno è chiamato a 'fornire' col massimo impegno.
Per Singer va concepito come un elemento costitutivo di una cultura. Le
performance sono “le ultime unità di osservazione”54, costituite da un limitato
arco di tempo e uno spazio delimitato. Le performance hanno un inizio e una fine
e possono essere realizzate in modo spontaneo, come avviene negli incontri del
mercoledì, o collocate in una scaletta ben definita, come avviene invece negli
spettacoli pubblici. Victor Turner considera l’importanza delle performance come
“agenti attivi di cambiamento (…) sui quali gli attori creativi
abbozzano quelli che credono essere i <<progetti di vita>> più
appropriati o interessanti (…) Se l’uomo è un animale sapiente, un
animale che costruisce strumenti, un animale che usa simboli, egli è
ugualmente un animale che rappresenta, un Homo performans”55.
In Arte Migrante sono tanti i “progetti di vita” che emergono durante gli incontri e
creano occasioni di confronto, interazione sociale, conoscenza reciproca.
54
Peter Singer , “Famine, Affluence and Morality”, in Victor Turner , 1993, Antropologia della
performance, op. cit. , p. 77.
55 Ivi, p. 159.
44
Goffman, in una sua considerazione di stampo “pirandelliano”, sostiene che ogni
interazione sociale ha un “carattere di messinscena”56, dove gli individui si
preparano un retroscena, indossano una maschera a seconda della situazione,
recitano parti, condividono uno stesso tipo di routine. La vita sociale, secondo
l’antropologo americano, va dunque considerata come una performance teatrale.
Così accade per ciascun membro del gruppo, che mette in scena parte della sua
storia, della sua cultura, del suo vissuto. L’arte è importante anche perché come
linguaggio comunicativo funziona da “valvola di sfogo”. Arte Migrante si è posta
il fine di sfruttare questa capacità dell’arte, per soddisfare i bisogni di persone
economicamente disagiate e per questo trascurate ed emarginate dalla società. I
“senza fissa dimora” italiani e stranieri che hanno occasione di eseguire
performance artistiche, come si evince in seguito dalle interviste, si sentono in
questo modo “riscattati” e rispettati nella loro dignità di persone appartenenti
come tutti al genere umano. L’arte dona una “valvola di sfogo” a ogni
partecipante agli incontri del mercoledì.
2.3 Una comunità temporanea: lo spazio, il tempo e gli attori che vi
partecipano.
Due dimensioni indispensabili alla base di un’attività di gruppo sono certamente
lo spazio e il tempo. Entrambe le componenti contribuiscono a determinare
fortemente quelle azioni, situazioni e relazioni instaurate durante gli incontri di
Arte Migrante. Entrambe sono legate a un altro importante aspetto spesso presente
negli avvenimenti di una collettività, la sacralità.
56
Erving Goffman, “Strategic Interaction” , in Turner , 1993, Antropologia della performance,op.
cit, p. 148.
45
Durkheim, nel suo famoso saggio pubblicato a Parigi nel 1912 “Le forme
elementari della vita religiosa” giunge a sostenere che
“la forza religiosa non è che il sentimento che la collettività ispira ai
suoi membri, ma proiettato al di fuori delle loro coscienze e
oggettivato (…) per oggettivarsi, esso si fissa su un oggetto che
diviene, così, Sacro (…) una religione è un sistema solidale di
credenze e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate, interdette, le
quali uniscono in un'unica comunità morale, chiamata Chiesa, tutti
coloro che vi aderiscono”57.
Pertanto l’esperienza collettiva di Arte Migrante ha creato attorno a sé un’“aurea”
di sacralità, se si tiene conto dei sentimenti provati da alcuni partecipanti verso il
gruppo, le sue attività, verso spazi e tempi dedicati.
La “Sala Teatrino”della Parrocchia Sant’Antonio di Savena, presso la quale si
svolgono gli incontri, è divenuta gradualmente una sorta di “Chiesa” della
comunità morale Arte Migrante. Pur riconoscendo che si tratta solo di semplici
somiglianze con i veri e propri riti religiosi, non si può non costatare
quell’affettività e quella sorta di “fedeltà” verso il progetto che nasce e si
consolida tra i membri del gruppo. In questo senso è opportuno riprendere un
concetto: la “dimensione d’incanto”. L’antropologo Henrion riscopre questa
prospettiva durante la sua ricerca etnografica nel centro trasfusionale di Namur in
Belgio.
“ (…) Henrion paragona il centro trasfusionale a uno dei luoghi
dell’<<incanto>> in cui il donatore sembra vivere una parentesi
surreale di attenzione e di cura rivolte a se stesso, che altrove,
soprattutto in altre strutture sanitarie, mai riceverebbe”58.
57
Emil Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Roma, Meltemi, 2005, pp. 97-327.
58 Aline Henrion , “L’énigme du don de sang”, in Annamaria Fantauzzi, Antropologia della
donazione, Brescia, Editrice La Scuola, 2011, p. 74.
46
Allo stesso modo, i partecipanti maturano forti sentimenti di affettività verso
“spazi e tempi” dedicati ad Arte Migrante, trasformandola così in un’attività
preziosa e “sacra”, un luogo d’“incanto” presso cui rifugiarsi, presso cui rinascere,
vivere nuove esperienze di riscatto sociale e di accoglienza reciproca.
Un “tempo” che vale la pena sacrificare al trambusto e alle fatiche del quotidiano,
in cambio di una serata spensierata all’insegna dell’arte e della cultura. Costantin,
artigiano senza fissa dimora di origine rumena, ci ha confessato che, in quindici
anni che è in Italia, non ha mai provato come in Arte Migrante la sensazione di
trovarsi in un contesto d’amicizia, quasi come in famiglia. Allo stesso modo Jan,
afgano gestore della pizzeria al taglio “Kabulogna”, si prende spesso delle pause
“extra” dal lavoro per poter partecipare agli incontri. Il tempo e lo spazio sono,
quindi, due dimensioni utili a mettere in luce i diversi meccanismi relazionali e
sociali che si sono creati e consolidati nel gruppo.
Come rileva Durkheim:
“Noi possiamo concepire il tempo soltanto a condizione di distinguere
in esso momenti diversi (…) è uno schema astratto e impersonale che
avvolge non soltanto la nostra esistenza individuale ma quella
dell’umanità (…) la stessa cosa vale per lo spazio (…) ciò vuol dire
che lo spazio non potrebbe essere ciò che è se, come il tempo, non
fosse diviso e differenziato (…) tutte queste distinzioni derivano
evidentemente dal fatto che alle regioni sono stati attribuiti valori
affettivi diversi (…) il che implica necessariamente che esse siano di
origine sociale”59.
59
Durkheim, 2005, Le forme elementari della vita religiosa, op. cit., pp. 60-61.
47
2.3.1 Lo spazio
Due sono le aree utilizzate durante gli incontri di Arte Migrante, una interna e una
esterna: quella interna, la “Sala Teatrino”, è un grande salone con delle sedie
disposte a cerchio attorno ad un tavolo. Questo tipo di disposizione serve a far sì
che tutti i partecipanti si pongano a uno stesso livello anche dal punto di vista
spaziale. Storicamente riprendendo da una leggenda del ciclo arturiano delle isole
britanniche, i “cavalieri della tavola rotonda” sedevano attorno ad una tavola
appunto quando dovevano dibattere su questioni di cruciale importanza. Lo scopo
era di evitare conflitti e far si che non ci fosse nessun “capo-tavola” e che ognuno,
compreso Re Artù, fosse trattato come un cavaliere, allo stesso livello degli altri.
Ciò impedisce la creazione di dislivelli e disparità.
Nella fase intermedia della “cena comune”, oltre a condividere un panino, un
dolce e qualche bevanda, si creano preziose occasioni di conoscenza reciproca
proprio favorite da questo tipo di situazione informale. In una situazione più
rilassata, tutti sono più propensi a confidarsi reciprocamente e a raccontare aspetti
della propria esperienza di vita, in particolare quelli più “scottanti”. E’ nel
momento della cena che si organizzano gran parte delle performance che saranno
poi condivise nella fase successiva.
Lo spazio invece che circonda il tavolo, ovvero quell’area che lo separa dalle
sedie, è destinato alla fase performativa. Ognuno utilizza quell’area fruendo di
uno o più punti, a seconda del genere di spettacolo artistico che metterà in scena.
Ad esempio, nel caso di una “Giga” (più precisamente “Jig” ossia un tipo di danza
irlandese), lo spazio che servirà per fare quella danza sarà notevolmente maggiore
rispetto a quello che potrà servire a un cantante o a un musicista.
L’area esterna invece è quella del campo da basket, proprio adiacente alla sala
parrocchiale, utilizzata saltuariamente dagli artisti nei momenti di “pausa” tra una
fase e l’altra della serata.
48
Totalmente differente è invece la gestione dello spazio per quanto riguarda gli
“eventi” pubblici organizzati periodicamente da Arte Migrante. In questo caso si
possono individuare tre tipi di zone: la prima, quella che in termini “goffmaniani”
possiamo chiamare come “retroscena”, in altre parole, uno spazio privato in cui
l’artista si prepara per l’esibizione artistica; la seconda, il palcoscenico, che
potremmo anche chiamare “ribalta”, ovvero uno spazio pubblico dove gli artisti
“inscenano” una rappresentazione; infine la terza, dove è collocato il pubblico.
Altra differenza che distingue gli “incontri” dagli “eventi” è che il mercoledì sera
il pubblico e gli artisti non sono separati ma coincidono. Chi si esibisce è, infatti,
anche spettatore e partecipe alle esibizioni degli altri partecipanti.
Tornando agli incontri, è interessante notare il diverso uso degli spazi di ogni
partecipante, a partire dall'occupare le sedie. Ad esempio è frequente il caso in cui
ragazzi e ragazze dello stesso Paese si siedono l’uno accanto all’altro. Così come i
senza fissa dimora spesso tendono a sedersi in posti vicini. Uno degli scopi che il
gruppo Arte Migrante è riuscito in parte a raggiungere è proprio quello di evitare
che accadano divisioni culturali o sociali anche a partire dal semplice uso dello
spazio.
2.3.2 Il tempo.
Il “tempo”, come lo “spazio”, è una dimensione imprescindibile e basilare. Questa
dimensione, come sostiene Durkheim, non può essere concepita se non facendo
riferimento ai diversi momenti in cui esso è suddiviso60. Arte Migrante ha stabilito
il mercoledì come giorno destinato agli incontri settimanali. Tralasciando i primi
tempi in cui la gestione temporale era ancora poco scandita, in fasi successive le
attività del gruppo hanno raggiunto una scansione più netta e definita.
Va precisato che il gruppo ha stabilito di conservare una suddivisione temporale
non troppo strutturata ma“flessibile”, con il fine di rispettare il principio centrale 60
ibidem, p. 12.
49
della “spontaneità” che il gruppo ha posto alla base di ogni incontro. Un esempio
chiave sono quelle “storie di vita” che spesso emergono nel momento “iniziatico”
delle presentazioni. Questo tipo d’interventi può prolungare l'intervallo di tempo
destinato alla prima fase dell’incontro, determinando in questo modo slittamenti
nel quadro temporale stabilito. Sono testimonianze “fuori programma” preziose
perché scaturite da persone provenienti da culture ed esperienze di vita
estremamente diverse e particolari rispetto a quella italiana, che accrescono il
carattere “sacro” del tempo che ogni partecipante dedica ad Arte Migrante.
Secondo Mircea Eliade:
“Il tempo sacro, instaurato in generale nelle feste collettive, per mezzo
del calendario, può esser raggiunto in qualsiasi momento e da
qualsiasi persona, mediante la semplice ripetizione di un gesto
archetipale, mitico (…) Incontriamo dunque nell'uomo, a tutti i livelli,
lo stesso desiderio di abolire il tempo profano e di vivere nel tempo
sacro. Meglio ancora, ci troviamo di fronte al desiderio e alla speranza
di rigenerare il tempo nella sua totalità, cioè di poter vivere - ‘vivere
umanamente’, ‘storicamente’ -nell'eternità, mediante la
trasfigurazione della durata in un istante eterno”61.
Similmente le attività comunitarie di Arte Migrante implicano gesti e situazioni
che si ripetono. Il ripetersi di momenti di forte intensità emotiva, come il
momento “iniziatico” delle presentazioni e il momento di “riflessione” finale,
accresce la sacralità. Le “storie di vita”che emergono, invece, possono essere
comparabili alle “preghiere” religiose rispetto al coinvolgimento empatico
collettivo o, come direbbero i balinesi, alla “risonanza” che generano tra chi vi
partecipa.
61
Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 357-365.
50
2.3.3 La comunità e gli attori che ne fanno parte.
Arte Migrante è a tutti gli effetti, secondo una nota accezione di Benedict
Anderson, una “comunità immaginata”. Una nuova identità esperita
collettivamente, da soggetti che possiedono uno stesso tipo d’immaginario,
costruito e condiviso anche solo per poche ore a settimana. I soggetti nelle
comunità pensate da Anderson tendono a immaginarsi come parte di contesti più
ampi condivisi da altri soggetti. Come sostiene Fabietti, facendo riferimento ad
Anderson:
“è evidente che le comunità, insieme di individui che condividono lo
stesso senso di appartenenza, sono quasi sempre immaginate proprio
nel senso in cui le intende Anderson (…) e cioè è raro che i membri di
una comunità – a meno che questa non sia di dimensioni assai ridotte
(…) si conoscano tutti di persona”62.
Arte Migrante è una comunità “temporanea”, in cui non tutti i partecipanti
riescono a conoscersi a fondo personalmente, in cui c’è un flusso continuo di chi
vi inizia a partecipare e chi smette di farlo. Un incontro di storie significative e
particolari, di stili di vita radicalmente diversi, di sentimenti e affettività di
persone che vengono anche solo per una sera lasciando un’impronta più o meno
forte nell’“immaginario” del gruppo. La crescita delle relazioni tra i membri di
questo gruppo “elitario”, come in ambito psicologico, è dunque centrale nel
percorso e nelle attività di Arte Migrante in generale. Come per i gruppi di tipo
terapeutici o di lavoro:
“l’idea base del lavoro di gruppo è che i membri possono aiutare sia se
stessi che gli altri scambiando idee, suggerimenti e soluzioni,
condividendo sentimenti o informazioni, confrontando atteggiamenti
ed esperienze e stabilendo rapporti tra di loro (…) provare sentimenti,
62
Roberto Malinghetti, Ugo Fabietti, Vincenzo Matera, Dal tribale al globale: introduzione
all’antropologia, Milano, Mondadori, 2002, p. 108.
51
esprimerli e poterne parlare è un processo di base per innalzare il
potenziale umano”63.
Medesima è dunque l’idea alla base di Arte Migrante, dove c’è una fitta rete di
scambi verbali e non verbali, di pensieri e canti, di danze e discorsi musicali, di
sentimenti e sfoghi emotivi che favoriscono l’innalzamento del “potenziale
umano” di ognuno. Come sostiene anche Erving Goffman,
“tutta la gamma delle relazioni giocate fra una persona e un’altra,
momentanee o permanenti, conscie o inconscie, effimere o cariche di
conseguenze (…) tutte queste legano incessantemente gli uomini fra
loro (…) esse danno conto della durezza e dell’elasticità, del colore e
della consistenza della vita sociale, nel suo apparirci così evidente e
tuttavia così misteriosa”64.
A questo punto, è importante interrogarsi sulle varie categorie di soggetti che
partecipano agli incontri. Si possono classificare in diversi insiemi di persone
secondo le peculiarità culturali e le condizioni sociali che ciascuno possiede. Il
primo insieme sotto un profilo nazionale è quello degli “indigeni”, ovvero i
bolognesi. Ci sono alcuni individui nati e vissuti sul territorio locale. Poi ci sono
gli “emigrati-immigrati” ovvero coloro che da un altro luogo hanno deciso di
trasferirsi a Bologna. Come sostiene Sayad:
“il percorso migratorio è un percorso individuale di ciascuno degli
emigrati-immigrati e un percorso collettivo che forma la storia stessa
nel processo dell’emigrazione e dell’immigrazione (…) si comincia ad
ammettere che l’emigrazione-immigrazione sia il prodotto e
l’espressione più evidente del sottosviluppo (…) ma risalendo a monte
63
Ken Heap, “La pratica del lavoro sociale con i gruppi”,Benjamin J. Luft, “Dinamiche di gruppo”,
in Pier Luigi Lattuada, “Il cerchio che cura “ , la visione sottile, 2006-2007, n.14, p. 8.
64 Erving Goffman, Communication conduct in an Island Community, Chicago, Ph. D. Dissertation,
1953, p. IV.
52
(…) è figlia diretta della colonizzazione che genera essa stessa
sottosviluppo”65.
Sono diversi i partecipanti di Arte Migrante provenienti da Paesi colonizzati da
altri. Come ad esempio Suleyman che viene dal Senegal, ex colonia francese, o
Abram che viene dall’Eritrea, colonizzata un tempo da noi italiani. Quest’ultimo
fa parte di un’associazione di attivisti che organizzano attività di natura politica e
culturale. Il gruppo, che è stato diverse volte ospite e protagonista delle attività di
Arte Migrante, si chiama “Eritrean Youth Solidarity for National Salvation” e
organizza eventi di sensibilizzazione e di protesta contro il regime dittatoriale di
Isaias Afewerki. Abram, come la maggior parte dei suoi compagni di lotte, è un
“rifugiato politico”, ovvero quella categoria di migranti che, secondo la
Convenzione di Ginevra del 1951, è definita come una persona che “risiede al di
fuori del suo paese di origine, che non può o non vuole ritornare a causa di un
comprovato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità,
opinione politica”. Poi c’è Zineb, immigrata di “seconda generazione” di origine
marocchina. Questa categoria fa invece riferimento ai “figli di immigrati nati nel
paese ricevente, o a coloro che sono nati nel paese d’origine e si sono ricongiunti
in seguito”. Alex invece, un piccolo e vivace ragazzo di origine rumena, si è
trasferito in Italia in seguito ad un “ricongiungimento familiare”, categoria
diventata importante in Europa dopo la chiusura delle frontiere attorno al 1974,
nei confronti dell’immigrazione per lavoro. E’ importante aggiungere che Alex fa
parte del popolo “rom” che, in Europa, rappresenta la comunità più numerosa
appartenente al grande mondo degli “Zingari”. Come sostiene Piasere:
“ (…) quelli che noi chiamiamo Zingari comprendono un insieme di
popolazioni parlanti lingue di origine neo-indiana e un insieme di
popolazioni non parlanti lingue di origine neo-indiana (…)
condividono caratteristiche di vita particolari (…) segnate per esempio
65
Abdelmalek Sayad, La doppia assenza, cit., pp. 89-90.
53
dal nomadismo, in certe regioni d’Europa, e da altri tratti culturali in
altre regioni (…) ”66.
Il ragazzo afgano di nome Jan, già citato in precedenza, invece, fa parte della
categoria degli “immigrati qualificati” che, in Italia, sono ancora sconosciuti, ma
stanno crescendo fortemente a livello internazionale, soprattutto in quei Paesi,
come il Canada o l’Australia, dove esiste una specifica regolamentazione per
questa particolare tipologia. Jan è, infatti, un imprenditore, titolare di una pizzeria
al taglio, uno dei rarissimi casi di un immigrato che è riuscito a integrarsi
compiutamente nella società ospitante.
Un caso particolare, appartenente alla tipologia “migranti di ritorno”, è quello di
Carlos. Quest’ultimo è un signore argentino di origini italiane, che ha deciso di
tornare nel Paese d'origine dei suoi antenati.
In Arte Migrante è importante riconoscere l’importanza di diverse esperienze che
alcuni membri del gruppo hanno fatto con le associazioni “Treno dei clochard” e
la “Ronda della carità e della solidarietà”. Entrambe le realtà associative si
occupano di servizio mensa ai senza fissa dimora praticato in due zone del centro
città. La partecipazione come volontari a questo tipo di attività ha permesso di
stabilire un contatto con i senza dimora e coinvolgerli ad Arte Migrante.
La giocoliera bulgara Vanya, come alcuni altri del gruppo, ha invece avuto
diverse esperienze come “artista di strada”. Il mondo degli artisti di strada è un
mondo molto affascinante che permette a chi sceglie il vagabondaggio di coltivare
una vita ricca di avventura, incontri e posti particolari dove andare a esibirsi.
Infine è opportuno collocare anche gli italiani di Arte Migrante nella categoria più
generale degli “emigrati-immigrati”. Ci sono, infatti, persone provenienti da
diverse regioni di Italia, che sono immigrate a Bologna spesso per ragioni legate
allo studio o al lavoro.
66
Alberto Melis, “Chi sono gli Zingari? Intervista a Leonardo Piasere”, in www.albertomelis.it.
54
Per quanto riguarda la suddivisione per “condizioni sociali”, ci sono diverse
tipologie da menzionare: i senza fissa dimora, di cui si è già ampiamente parlato
in precedenza; gli “studenti”, che nel gruppo rappresentano la maggioranza,
spesso posti in condizioni economiche agiate con una dimora e una famiglia alle
spalle; i “lavoratori”, anch’essi spesso in condizioni di vita agiata.
Tra i lavoratori ha spiccato Beatrice, membro di un’amministrazione pubblica del
territorio. Quest’ultima ci ha permesso di avere un’idea più limpida rispetto al
mondo politico italiano, non sempre (come si suole pensare) costituito da persone
altezzose e distaccate dalla gente. Beatrice, a ogni incontro, porta gente che
conosce e si mostra molto appassionata perché confessa di riuscire a ritagliarsi
uno “spazio straordinario” rispetto alla sua vita istituzionale. Anche lei vive quella
“dimensione d’incanto” per cui può essere se stessa, comportarsi con naturalezza.
Una persona che nonostante l’importanza della sua carica amministrativa ha
voglia di mettersi in gioco, e di porsi a livello dell’altro, di tagliare i panini, di
partecipare all’organizzazione dell’evento, di conoscere e confrontarsi con i senza
fissa dimora. Riporto di seguito alcune interessanti considerazioni emerse durante
un’intervista a Beatrice.
Ho incontrato "Arte migrante" casualmente: ero in parrocchia per
altro impegno e il parroco mi ha invitato a mettere la testa dentro a
un salone strapieno di giovani (…) Al l'impronta mi hanno colpito:
l’evidente soddisfazione di ciascuno di essere li, di raccontarsi con
grande semplicità, di ascoltarsi con interesse vero, di riuscire a dire
di sé qualcosa di buono, non come vanto, ma come disponibilità a
condividerlo se era utile, la naturalezza della "mescolanza" non solo
di provenienza, ma anche di situazione di vita (…) pur avendo sempre
cercato dentro alla mia responsabilità pubblica di mantenere un
contatto solido con il "reale", il contatto con Arte migrante mi ha dato
un'ulteriore percezione della necessità di stare "dentro" alle cose,
dentro alla vita delle persone… come condizione indispensabile per
servire la comunità, qualunque sia la forma del servizio.
55
Il “parroco”, menzionato nella prima parte dell’intervista, è don Mario Zacchini
della Chiesa Sant’Antonio di Savena, fondatore dell’Associazione Albero di
Cirene e della comunità Zoen Tencarari. Quest’ultimo è stata una figura cruciale
nel percorso di Arte Migrante per diversi motivi. In primo luogo ha messo a
disposizione uno spazio della parrocchia, la “sala teatrino” appunto, per gli
incontri del mercoledì. In secondo luogo ha spinto Arte Migrante a creare un
“coordinamento” e a stilare un“manifesto”. A tal proposito, il coordinamento,
nato intorno al mese di Febbraio 2013, si è rivelato uno strumento chiave per una
migliore gestione delle attività del gruppo. Questo gruppo di “guide”, aperto alla
partecipazione di chiunque voglia accrescere il proprio impegno nel gruppo, ora
conta di quindici elementi di varie nazionalità e condizioni sociali, tra cui
l’importante presenza di alcuni senza dimora.
Tra i coordinatori c’è Irene, un’antropologa di origini trentine, che sin dalla
nascita di Arte Migrante, ha sempre dato un significativo apporto nel
miglioramento delle attività e nella gestione del gruppo.
Ad Arte Migrante ogni volta che vai sembra di essere a un pranzo di
Natale o una festa. Dove incontri tutta gente nuova come a una festa
ma dove poi in realtà ti senti una grande famiglia, ridi e scherzi. Il
fatto anche di poter essere tutti i protagonisti, e che non c’è uno
schema degli incontri troppo strutturato. Anche il fatto che nel
coordinamento tutti possono entrare e non c’è una gerarchia è
positivo (…) a livello antropologico si può dire che siamo tutti sullo
stesso piano non ci sono disparità reali. La disparità nasce quando tu
non vuoi metterti in gioco, o pretendi qualcosa che è esterna ad Arte
Migrante. C’èra ad esempio chi veniva solo per mangiare o voleva ad
esempio un aiuto in soldi, e ovviamente restava deluso. Ci sono delle
premesse, un patto sociale che abbiamo fatto e che se vengono
rispettate trovi soddisfazioni e non vai a cercare gratificazioni
personali, lo rispetti. (…) Paradossalmente c’è un cambio di ruolo
perché gli italiani sono meno interessanti. Spesso ad esempio nei
56
gruppi gli italiani sono gli incapaci. Mentre gli internazionali sono
più bravi e capaci. Ti dicono “io potrei cantare, danzare, ho fatto
teatro!” e questo è bello perché tramite le capacità artistiche c’è poi
un riscatto sociale.
Irene ha messo in luce un aspetto, già citato in precedenza, davvero importante
dell’esperienza di Arte Migrante: il riscatto sociale attraverso l’arte. Ha inoltre
espresso diverse criticità, riportate in modo più approfondito nel capitolo finale
dell’elaborato. Come Irene, altra importante “guida” è Alessandro, tra i fondatori
e coordinatori di Arte Migrante a Bologna. Quest’ultimo, ingegnere gestionale
con alle spalle diverse esperienze di responsabilità in campo associativo, ha avuto
un ruolo chiave in termini di coordinamento e gestione logistica delle attività del
gruppo. Si riportano di seguito alcune sue considerazioni.
Arte Migrante per me è semplicemente la conferma che, in un mondo
pieno di egoismo e indifferenza, possa esistere la possibilità di
sognare, immaginare e realizzare qualcosa che possa davvero
cambiare le cose. La magia di questo progetto risiede nella
spontaneità nell’approccio con gli ultimi della società, e in come il
modo di organizzare le attività sia condiviso da tutti e molto efficace.
Inizialmente sembrava un’utopia coinvolgere decine e decina di
clochard ad un’iniziativa del genere, convincerli a recarsi in un posto
e sedersi ad un tavolo per conoscersi e raccontarsi, per leggere delle
poesie o cantare delle canzoni, in generale per mettersi in gioco.
Invece arrivavano ogni settimana sempre di più, sempre più contenti e
motivati e con delle sorprese nuove, con delle performance artistiche
da mostrare a dei volti stupiti e increduli, di noi organizzatori, che ci
accorgevamo di aver messo su qualcosa di grandioso, ben aldilà delle
nostre aspettative. (…) L’aspetto più interessante è, a mio modo di
vedere, la coesistenza di un interesse forte da parte di tutte le
componenti del gruppo all’incontro e al confronto. Sia gli studenti,
che i migranti, i senza tetto, i giovani trovano negli incontro di Arte
57
Migrante occasione di crescita e di formazione, un interesse forte che
è dato da una spontaneità nel dare in cambio di un enorme ricevere,
sproporzionato a quell’apparentemente “poco” che si da.(…)Tutto
questo può stare in piedi perché le parti di cui sopra si mescolano e
mimetizzano perfettamente tra loro, rendendo quasi impossibile una
distinzione durante lo svolgimento delle serate. La dimensione
dell’incontro è del tutto orizzontale, lo scambio è equo e ognuno vale
per quello che è, per un paio d’ore non contano differenze sociali,
etniche o di genere, conta solo quello che si è, quello che si sa fare e
quello che non si sa fare. Questo è il senso della parola cultura nel
mio modo di vedere la vita. Questo è Arte Migrante.
Membro chiave del coordinamento è anche la giornalista bolognese Alice,
soprattutto perché ha partecipato ai nostri incontri come membro
dell’associazione Piazza Grande, già in precedenza menzionata. Ciò ha posto in
rilievo l’importante fine, presente nel “manifesto” del gruppo Arte Migrante, di
“fare rete” tra le realtà associative presenti a Bologna. Infatti, sono diverse le
associazioni che hanno partecipato o collaborato alle attività del gruppo: il
progetto Non Sei Sola dell’associazione Albero di Cirene, l’associazione “Pace
Adesso”, l’associazione antirazzista 3 Febbraio, il progetto Operazione Colomba
della comunità Papa Giovanni XXIII, la scuola di italiano Aprimondo,
l’associazione studentesca SISM e altre ancora.
58
Capitolo 3
Incontri, relazioni e storie di vita: “imponderabili”
di Arte Migrante.
3.1 Esperienze di vita: un incontro-scontro con la diversità.
Arte Migrante, sin dall’inizio, è luogo d’incontri con personalità e vicende di vita
fuori dall’ordinario. Storie che, secondo un’accezione “malinowskiana”, si
potrebbe anche soprannominare come “imponderabili della vita reale”:
“ (…) c’è tutta una serie di fenomeni di grande importanza che non
può essere registrata consultando o vagliando documenti ma deve
essere osservata, nella sua piena realtà (…) vi appartengono cose quali
la routine della giornata lavorativa di un uomo, i particolari della cura
del corpo, del modo di procurarsi cibo e di prepararlo, del tono che
assume la vita sociale quando si conversa intorno ai fuochi del
villaggio (…) questi imponderabili ma importantissimi fatti della vita
vissuta sono parte della reale sostanza del tessuto sociale”67.
Durante il “rito iniziatico” delle presentazioni dai racconti dei partecipanti
possono emergere fatti quotidiani del proprio vissuto, discussioni, liti, incontri,
avvenimenti particolari di vita. In tal caso non è possibile che il gruppo osservi
quei fenomeni nella loro “piena realtà”, tuttavia è possibile che li ascolti e li viva
in modo empatico e “risonante”, andando “oltre le parole”. Nel presente capitolo, 67
Malinowski, “Introduzione agli Argonauti del Pacifico Occidentale”, in Francesca Cappelletto,
Vivere l’etnografia, Seid, Firenze 2009, op. cit., p. 18.
59
diverse sono le “storie di vita” che narrano di vicende uniche e particolari.
Racconti, come ad esempio quello del regista afgano Mustafa, talmente
straordinarie che in alcuni casi rasentano la fantasia. Come sostiene Crapanzano in
“Tuhami”:
“La storia di vita e l’autobiografia sono opere essenzialmente auto
costitutive (…) sono momenti fissati nel tempo dalla parola (…)
richiedono, in quanto tali, la mediazione di un Altro (…) il racconto di
Tuhami credo esprima il desiderio di essere accettato nella sua
unicità”68.
Mustafa, come Tuhami, nonostante la straordinarietà del suo racconto, ha anche
lui il diritto di essere creduto. La questione è che è difficile dare giusto
riconoscimento a simili storie in questa società “globalizzante” che conferisce più
valore al conforme piuttosto che all’eccezionale.
Diverse sono le tematiche che sono emerse durante gli incontri di Arte Migrante.
Il senegalese Suleyman è stato vittima di atti di “razzismo” durante la sua
esperienza come raccoglitore a Rosarno. Doru, invece, è stato soccorso da alcuni
giovani italiani dopo un grave incidente stradale. Selam e Abram sono eritrei
attivisti politici insieme ad altri giovani contro il regime di Isaias, Carlos è un
attivista“senza dimora” che denuncia le “assenze” politiche del governo italiano.
Alper, è un giovane turco che denuncia, invece, i pregiudizi degli europei sugli
islamici. Le storie, così come le esibizioni artistiche, creano momenti di forte
coinvolgimento “empatico” ed emotivo. Ciò permette al gruppo di entrare a
contatto con le singolarità e la profondità di quelle parole, situazioni, canti,
musiche e danze a volte incomprensibili quanto interessanti. Si può dire che in
durante quei momenti di condivisione partecipanti all’incontro siano entrati in
“risonanza", come sostiene la Wikan, attraverso uno sforzo di “feeling-pensiero”:
68
Vincent Crapanzano, Tuhami. Ritratto di un uomo del Marocco, Roma, Meltemi, 2007, pp.30-
32.
60
“una volontà di impegnarsi con un altro (…) a cercare di afferrare, o
comunicare, i significati che non risiedono né in parole, né in fatti, né
in testi, ma che vengono evocati nell’incontro di un soggetto che sta
facendo esperienza di un’altra persona”69.
L’empatia è dunque la capacità di incorporare le emozioni altrui, riconoscendosi
in esse, e ciò accade anche attraverso lo strumento dell’arte e, in questo caso
specifico, del “racconto”. In questo senso Angela Ales Bello con riferimento alla
fenomenologia di Edith Stein afferma:
“L'empatia era già stata individuata come lo strumento di
comprensione di ciò che si muove nella vita dell'altro, e non solo
relativamente ai suoi sentimenti o alle sue emozioni, ma anche
relativamente al suo mondo interiore di decisioni, di volizioni, al suo
mondo della creatività”70.
Di seguito sono riportate, insieme al racconto di alcune significative vicende
emerse durante gli incontri, delle interviste fatte ad alcuni personaggi chiave del
gruppo Arte Migrante.
3.1.1 Il razzismo vissuto in campagna come in città.
In Arte Migrante chi è solitamente emarginato dalla società, “senza fissa dimora”
o migrante, anche solo per una serata a settimana acquista un valore preciso e
positivo in quanto persona di una cultura diversa. Infatti, Irene, citata in
un’intervista precedente, sostiene che “gli italiani sono i meno interessanti”. Ciò è
segno di un capovolgimento, anche solo simbolico, che porta i migranti stranieri e
i “senza dimora” a riscattarsi. Interessante in questo senso è stato l’incontro di 69
Unni Wikan, “Beyond the words. The power of resonance”, in Leonardo Piasere, L’etnografo
imperfetto, Roma-Bari, Laterza, 2002, op. cit., p. 147.
70 Angela Ales Bello (2007). L’universo nella coscienza. Introduzione alla fenomenologia di
Edmund Husserl, Edith Stein e Hedwig Conrad-Martius, Pisa, Edizioni ETS 2003, p. 34.
61
mercoledì 19 dicembre 2012. In questa serata ci sono stati due interventi in
antitesi tra loro: uno di Mario, “senza dimora” che ha lavorato in Romania per
venti anni; uno di William, studente di scienze politiche a Bologna e
rappresentante degli studenti togolesi. Antitetici perché il primo, ha parlato della
sua esperienza lavorativa con i rumeni, con affermazioni che rasentavano la
xenofobia. Era titolare di una fabbrica con 57 operai e si è lamentato del fatto che
<<lavoravano male, non s’impegnavano, erano pigri e scorretti>>. Mentre se
avesse avuto degli operai italiani, sarebbero stati più onesti. Mario sostiene, in
concordanza con il pensiero di molti italiani, che <<è ingiusto il fatto che i rumeni
vengano qua a togliere il posto di lavoro agli italiani>>. Quest’ultimo è inoltre
vittima della “guerra tra poveri” ovvero quella nella quale italiani e stranieri
“senza dimora” si contendono i pochi posti presenti nei dormitori, nelle mense
della Caritas, o quei pochi angoli tranquilli che possono trovare per la strada.
Ovviamente, si contendono anche le poche opportunità che hanno per trovare un
lavoro e riscattarsi da una vita di emarginazione sociale. In questo genere di
condizioni di vita è più facile che si cerchi un capro espiatorio per le ingiustizie e
le sfortune di cui si è vittima. Il colpevole spesso lo si trova nel proprio compagno
di disavventure, soprattutto se quest’ultimo viene da un Paese lontano e da una
cultura molto diversa per questo difficile da comprendere. Invece, William ha
parlato del fatto che in Italia gli immigrati come lui <<vengono con la speranza di
trovare l’“eldorado”>>. Tuttavia, una volta arrivati in Italia, trovano solo problemi
e difficoltà, come ad esempio farsi riconoscere come “persone” provenienti da
un'altra nazione e da una diversa cultura ma non per questo disoneste o pericolose.
William spesso si è sentito trattato in modo diffidente e in alcuni casi da
“delinquente”.
Nel tema dell’intolleranza razziale si colloca anche un’intervista fatta a Suleyman,
ragazzo senegalese. Quest’ultimo è intervenuto spesso agli incontri raccontando
alcune sue esperienze di vita molto dure e significative. In particolare, il racconto
che ha colpito di più il gruppo è stato quello riguardante Rosarno, luogo di
violenti scontri a sfondo razziale avvenuti tra il 7 e il 9 gennaio 2010 (iniziati
62
dopo il ferimento di due immigrati africani da parte di sconosciuti con una
carabina ad aria compressa).
Sono arrivato in Italia nel 2011 per fare un intervento agli occhi e
dopo l’intervento sono rimasto. Questo perché prima di venire in
Italia avevo una sartoria e dato che l’intervento costava 2800 euro
per ogni occhio, ho venduto tutte le mie macchine. L’ambasciatore mi
ha dato un visto di due mesi e mezzo ovvero un permesso di cure
mediche. Non sono rimasto perche in Senegal non mi era rimasto più
niente. Pensavo di lavorare, avere un po’ di soldi comprare delle
macchine per cucire e tornare indietro. Ma dopo i due mesi e mezzo
però mi sono scaduti i documenti (…) Prima di venire in Italia
pensavo di trovare un lavoro facilmente. Ma ho scoperto che è
difficile. Dopo gli interventi, un amico di mio zio che lavorava a
Rosarno mi ha chiamato e mi ha detto che c’era una raccolta di
mandarini. Lui mi ha dato 50 euro per aiutarmi con i biglietti e sono
andato. Ma io credevo una volta arrivato di abitare con lui, ma non è
stato cosi. Quando sono arrivato, ho trovato un altro amico di mio zio
che mi ha portato in un altro comune vicino a Rosarno distante 1 km e
mezzo da mio zio.
Le campagne calabresi di Rosarno, come quelle del foggiano e di molte altre zone
d’Italia, sono caratterizzate da una forte componente di lavoratori stranieri. La
questione è che, nella maggioranza dei casi, il lavoro è sottopagato e “in nero”. In
queste terre i casi di sfruttamento e gli episodi di xenofobia sono all’ordine del
giorno. Inoltre, il territorio calabrese è caratterizzato da diverse aree, dove sono
state “improvvisate” delle strutture abitative fatiscenti, una sorta di
“baraccopoli”71che i lavoratori si sono fabbricati autonomamente in mancanza di
altre possibilità abitative.
71
Le “baraccopoli”, dall’inglese “slum” ( che significa “quartiere povero”), sono un complesso di
abitazioni costruite con materiali di recupero, come ad esempio legno e lamiera, che sorgono
63
Dormivo in un tendone, all’interno di una tendopoli di 288 posti letto.
Ogni tendone aveva sei letti (…) Li ho fatto quattro mesi molto duri di
lavoro. Quella di Rosarno è stata un’esperienza che mai avevo fatto
prima. Quando sono arrivato alla raccolta per esempio nella
tendopoli, c’èrano più di 1000 africani, senegalesi, maliani,
marocchini, tunisini, ghanesi. Molti si sono fabbricati un ghetto di
baracche dietro la tendopoli. Allora l’acqua non bastava più e anche
la luce e ogni giorno l’acqua si rompeva. E la notte faceva freddo (…)
Lavoravo ogni giorno dalle otto di mattina alle quattro di pomeriggio,
dal lunedì alla domenica, anche quando pioveva. Perché se tu non
lavori, loro ti mandano via e vanno a cercare un altro. Mi davano 25
euro al giorno (ovvero circa 3 euro l’ora).
Perciò, l’esperienza di Suleyman è molto vicina a quella vissuta da Stefania nelle
campagne pontine. Ciò che si scopre è che l’Italia non è l’“eldorado”, come ha
detto William, perché, sia in termini di lavoro sia di accoglienza umana, non offre
un adeguato trattamento per chi vi arriva. Come sostiene Gallissot, in perfetta
linea con quanto detto finora:
“Il razzismo nei confronti dell’immigrazione si coniuga con il
<<supersfruttamento>> d'una forza lavoro importata il cui costo di
formazione non viene pagato, non senza analogie con la condizione
degli schiavi negri. Questa estorsione di superprofitto si persegue
attraverso la disparità salariale e il vantaggio del basso costo di
riproduzione di una manodopera che è destinata all’inferiorità di
livello di vita propria d’un gruppo etnico”72.
presso la periferia di grandi agglomerati urbani. Le baraccopoli sono in genere illegali e non
riconosciute come insediamenti autorizzati e sono presenti soprattutto nelle metropoli
dell’Africa, dell’Asia e dell’Amerca Latina.
72 René Gallissot, Razzismo e antirazzismo. La sfida dell’immigrazione, Bari, Dedalo, 1992, p. 40.
64
Suleyman è stato membro della “Rete Campagne in Lotta”, che riunisce diverse
realtà associative che tentano di far rivalere i diritti degli immigrati sfruttati dalle
campagne intervenendo su più fronti, da quello legale a quello culturale ed etico.
A Rosarno, quindi, come in altre parti di Italia, c’è ancora “razzismo” e Suleyman
ha molte esperienze a riguardo:
A Rosarno c’’è razzismo (…) Una volta tornavo dal lavoro e andavo a
piedi al campo e c’erano due ragazzi in motorino italiani che mi
chiamavano. Io non ho risposto, poi uno di loro è venuto da me e
quando mi sono girato, mi ha detto “sei un cane!”, ma io non ho
risposto e sono andato via. Anche tre africani sono morti nella strada
con le loro bici, investiti volontariamente da una macchina (…) c’è
anche un mio amico che è andato una volta nel bar per pagare un
caffè e il barman gli ha dato un bicchiere di plastica e quando il
barman gli ha dato un bicchiere di plastica c’èrano altri italiani che
hanno dato un bicchiere di vetro. E lui non ha detto niente, però ha
guardato il barman negli occhi e gli ha dato un euro al barman ed è
andato via lasciando il caffè lì senza dire nulla, offeso da ciò che era
accaduto (…) Da dove vengo io, in Senegal, non c’è razzismo quando
un bianco viene da noi. Il nostro paese si chiama “pais de la teranga”
che in lingua Wolof vuol dire “paese dell’ospitalità”. E’ quando sono
venuto in Italia che ho conosciuto il razzismo, prima non lo
conoscevo.
Suleyman ha tentato di riscattarsi e in Arte Migrante ha ripreso a cantare oltre che
a realizzare attività artistiche. Sempre attraverso il gruppo ha conosciuto la
comunità Zoen Tencarari, dove ora vive e grazie alla quale è tornato a fare il
sarto.
La prima volta che sono venuto lì mi è piaciuto perché ho raccontato
la mia storia e gli altri mi hanno ascoltato. Da quel momento in poi
sono venuto sempre. Ad arte migrante non mi sento uno straniero (...)
65
prima di arte migrante quando ho incontrato italiani, mi sentivo
straniero, vedevo che mi guardavano con un occhio diverso. Anche
senza parlare sento questa sensazione di diversità tra me e loro.
Mentre ad Arte Migrante mi trovo bene con tutti, c’è un rispetto
reciproco (…) La musica è importante, io non sono un cantautore, ma
ad arte migrante canto, perché so che ad Arte Migrante ci sono
persone come me, che hanno dei problemi, che hanno vissuto atti di
razzismo, e allora canto perché ogni volta che ho cantato ho visto che
la gente è contenta, per questo lo faccio e lo farò sempre (…) Ad Arte
Migrante ho cantato Youssen Dour. Lui è il più famoso cantautore
d’africa e mi piace molto, quello che ascolto di più. Poi ho cantato
una canzone in wolof e italiano che parla di amore. Ma il mio
cantautore preferito è Baaba Maal. Una sua canzone che ho cantato
in lingua “Puular”, lingua del mio popolo, chiamata “Diam leli”
parla della pace che è il solo strumento possibile per far andare
avanti il mondo e noi dobbiamo lottare per costruirla.
3.1.2 Dall’Eritrea all’Afganistan: difficoltà di vita e questioni politiche affini.
Emblematico è stato l’incontro del gruppo informale Arte Migrante con il
movimento giovanile eritreo Eritrean Youth Solidarity for National Salvation
(EYSNS). Nel corso di un’iniziativa del gruppo eritreo, organizzata presso il
Centro Interculturale Zonarelli, si è realizzata una tavola rotonda alla quale ha
partecipato anche il gruppo. In quella occasione si è sviluppato un interessante
confronto riguardante le vicende politiche eritree73, poi sfociato in argomenti più
73
Il 24 Maggio del 1993 il Fronte Popolare di Liberazione Eritreo fece un colpo di stato e nominò
presidente Isaias Afewerki. Lo Stato sarebbe dovuto essere trasformato in una democrazia
affrontando elezioni regolari. Tuttavia quest’ultime furono cancellate e Afewerki convertì l’Eritrea
in un altro regime totalitario. Il regime dura ancora da molti anni e qualsiasi tipo di ribellione o
semplice dissidio viene represso in modo violento. I giovani dell’EYSNS sostengono che il percorso
per l’indipendenza è stato tradito. Per questa ragione organizzano diverse attività politiche e
culturali di sensibilizzazione, di protesta e di lotta non violenta. Loro desiderano l’attuazione della
66
generali come il colonialismo. Selam, giovane eritrea trasferita in Italia da
quattordici anni, racconta riguardo al regime nel suo Paese:
Aferweki è andato al potere come governo provvisorio, ora è lì da
ventidue anni, dal ‘91. Tutte le leggi che ci sono fatte e cancellate da
lui. La popolazione non sa cosa sia la costituzione né la democrazia,
vive costantemente nella paura e basta. Quella che vive qui è talmente
condizionata che sostiene il regime. Lui i giornali di opposizione
autonomi sono stati tutti chiusi (…) Ad esempio c’è una ragazza che
ha parlato contro il regime quando era in Germania poi quando è
tornata per trovare i figli l’hanno fatto sparire.
Selam è una delle fondatrici del movimento EYSNS di Bologna. I giovani del
movimento hanno subito diverse ingiustizie dal regime anche qui in Italia,
nonostante fossero sotto l’area legislativa di un altro Paese. Infatti, sono costretti a
pagare una doppia tassazione, per l’Italia e per l’Eritrea. Inoltre chi partecipa a
questo tipo di movimenti dopo non può più tornare in Eritrea perché corre il
rischio di essere ucciso.
Siamo giovani che hanno deciso di unirsi per dire basta alla dittatura
che c’è in Eritrea (…) Il nostro movimento è composto principalmente
da ragazzi giovani, e la maggior parte di noi è venuta via mare, con la
barca a Lampedusa (…) Tutti questi giovani hanno attraversato il
deserto della Libia a piedi, e poi si sono imbarcati per venire qua.
Come ad esempio Abram, lui è stato anche imprigionato. Poi è
arrivato qua senza avere nessun aiuto, è riuscito a studiare, fa due
lavori e ora anche l’università. Io invece sono venuta qua nel 1999
con l’aereo, non ho dovuto affrontare tutte le difficoltà degli altri
giovani. Sono arrivata tramite il “ricongiungimento familiare” .
Costituzione scritta nel 1996 e mai entrata in vigore: giustizia, libertà e democrazia per il popolo
eritreo. Miriam Garavello, Francesca Scarselli, “Protesta eritrea” in
http://www.corriereimmigrazione.it.
67
Il responsabile del movimento EYSNS di Bologna è Abram, giovane eritreo anche
lui partecipante al gruppo Arte Migrante. Quest’ultimo,è presente in Italia da
cinque anni e con il suo movimento ha organizzato diverse manifestazioni a
Bologna contro il regime di Isaias. Abram, come direbbe Farmer, si può
considerare vittima della “violenza strutturale” imposta dal governo di Isaias.
Sono nato e cresciuto in Eritrea ho fatto la scuola elementare e media
vicino casa, la famiglia non eravamo poveri stavamo bene fino a che
nel ‘98 c’è stata la guerra con l’Etiopia per il confine. La vita è
cambiata per tutti gli eritrei, lo stato ha iniziato a costringete a tutti a
fare il militare, e non avevi tempo limitato ma illimitato, inizi da
giovane e finisci a 60 anni, anche l’economia dell’eritrea era sempre
più instabile. Dopo il ‘91 è finito la guerra e abbiamo preso
indipendenza, fino al ‘97 eravamo liberi con un governo tecnico ,
quello di Isaias che poi si è trasformato in una dittatura. Abbiamo
iniziato a comprendere che il dittatore stava diventando un dittatore
duro. Lui ha chiuso l’università a aperto dei collegi ed erano militari
e chiusi. I militari ti controllavano e ti costringevano a fare dei
servizi. I collegi ti manipolavano prima poi dovevi andare a 17 anni a
fare i militare. Ma una volta che vai fai maturità poi vai nei collegi ad
Asmara e non torni a casa, una volta che parti non torni più. Quelli
poi che superano la maturità sono pochissimi, il 4%, gli altri fanno il
militare a vita. Quindi ho preso la maturità sono andato nel collegio
ma era militare non mi piaceva, allora ho visto che non c’era nulla di
buono per la vita e sono scappato.
Abram, al contrario di Selam, ha alle spalle una storia di emigrazione molto dura e
avventurosa. Le parole del giovane eritreo raccontano un vissuto comune a molti
immigrati giunti in Italia dal continente africano. Il giovane è infatti sbarcato a
68
Lampedusa dove è stato “accolto” nel Cie74, centro di detenzione che viola, come
sostiene Roberto Beneduce, i “più elementari diritti umani”75.
Abram prima di arrivare a Lampedusa, ha attraversato il deserto sudanese e il mar
Mediterraneo. In entrambe le esperienze ha rischiato la vita e parte dei suoi
compagni di viaggio è morta prima di arrivare a destinazione. Secondo gli ultimi
dati raccolti dal blog di Gabriele Del Grande, Fortress Europe, sono oltre 19.000 i
migranti che dal 1988 sono morte lungo le frontiere della “Fortezza Europa”76.
Dall’Eritrea sono arrivato oltre il confine del Sudan dopo una notte di
camminata. Siamo arrivati in un campo di rifugiati e abbiamo
incontrato alcuni amici eritrei. Siamo stati li per 1 mese per avere un
permesso ma era solo per girare li nel territorio, siamo andati in
autostop a Khartoum. Non avevo intenzione di vivere in Sudan perché
anche li ce’è la dittatura da 33 anni ma era meno dura era più libera.
Il dittatore però era amico di Isaias quindi se vuole ti porta a casa e
non eri sicuri lì quindi abbiamo pensato di scappare in America o in
Europa. In euro ci volevano 13000 euro. La cosa che costava di meno
era il deserto 2500 euro, rischi la vita ma costa meno. Partiti da
Khartoum, poi siamo andati in Libia col pickup con i trafficanti
insieme ad altre 56 persone. Dopo 14 giorni di viaggio terribili con la
fame il caldo, senz’acqua. All’inizio avevamo un po’ di cibo, di 74
Istituiti dalla Legge Turco–Napolitano (L. 40/1998)8 e previsti dall’articolo 14 del Testo Unico
sull’immigrazione (TU 286/1998)9, come modificato dall’articolo 13 della Legge Bossi–Fini
(L.189/2002)10, i centri di identificazione ed espulsione (CIE), anteriormente denominati centri di
permanenza temporanea e assistenza (CPTA o più brevemente CPT)11, si distinguono dalle
strutture adibite all’accoglienza e al trattenimento degli immigrati12 per la loro finalità in quanto
sono stati creati per trattenere gli stranieri senza titolo di soggiorno e in attesa di espulsione, nei
casi in cui non sia possibile l’esecuzione immediata della misura. AA.VV (2013), “Arcipelago Cie”,
http://www.mediciperidirittiumani.org.
75 Roberto Beneduce (2013), “Sfrattato il centro Franz Fanon”,
http://quelcherestadelmondo.wordpress.com.
76 Il dato, aggiornato continuamente, è presente nella Home Page del sito
http://fortresseurope.blogspot.it.
69
biscotti e d’acqua. Ma poi è finito tutto è stato terribile. Dopo quando
siamo arrivati al confine della Libia con quella macchina non puoi
entrare in città allora i trafficanti sono scappati. Io non avevo soldi
per il taxi, con 5 amici siamo rimasti lì. Poi abbiamo trovato un
camion e gli abbiamo detto che volevamo andare a Tripoli. Lo
abbiamo pagato 150 euro allora siamo andati. Ma a Tripoli la polizia
ci ha preso per la strada e sono stato in galera per 1 mese in un buco
è stato orribile. Era durante il “ramadan” i poliziotti ci hanno dato il
cibo ma era un buco non si vedeva niente e abbiamo lottato ci siamo
menati per mangiare, uno di noi è morto perché poi sono arrivati le
guardie e hanno pestato alcuni di noi. Poi abbiamo spiegato noi al
capo cosa era successo, siamo rientrati in carcere. Ogni tanto a me
mi chiamavano le guardie per aiutarli a fare dei servizi, per tradurre,
per fare da mediatore. Poi sono andato in un'altra prigione a
lavorare, sono stato lì una giornata e sono scappato. Sono stato in
deserto di notte da solo. Il giorno dopo ho trovato dei sudanesi, sono
stati gentili e sono stato a casa loro e mi hanno portato a Tripoli. In
Libia ho trovato dei miei amici e ho trovato da affittare una bici.
Abbiamo organizzato poi un viaggio verso l’Italia pagando 1200 euro
ma il primo viaggio non è andato bene, il gommone si è spaccato in
due. Siamo tornati insieme a nuoto, alcune donne purtroppo erano
rimaste li, probabilmente alcune di loro sono morte. Allora siamo
tornati a casa a Tripoli nella casa dove avevamo preso affitto. Ho
chiamato i miei genitori e gli ho chiesto di darmi un ultima chance e
mi hanno inviato i soldi. Poi siamo ripartiti con il gommone pregando
molto. Sfortunatamente dopo due giorni il motore del gommone si è
spento. Ho pensato che “eravamo finiti”. Però per fortuna eravamo
già in territorio italiano e abbiamo chiesto aiuto a Lampedusa tramite
un telefono satellitare che ci eravamo procurati prima del viaggio. Ci
hanno caricato sull’elicottero. Siamo arrivati a Lampedusa, siamo
stati nel Cie dove ci hanno trattati come in carcere. Quei centri sono
70
praticamente delle prigioni. Mangi, bevi ma non puoi uscire, sei
chiuso in un posto stretto.
Abram ha partecipato diverse volte agli incontri di Arte Migrante, inizialmente
come membro dell’associazione EYSNS, poi membro del coordinamento. Abram
ha dato un importante contributo dal punto di vista “politico”, aspetto spesso
carente nelle attività del gruppo.
La prima sera che sono venuto mi è piaciuto tanto perché ho
incontrato molti italiani ma semplici accoglienti e mi sono trovato
benissimo anche se erano pochi stranieri. Il gruppo mi ha coinvolto
molto, ho pensato tutta la settimana a quella prima serata. Mi sono
trovato molto bene perché senza andare da diverse parti riesci
comunque a conoscere tutto il mondo tramite le persone o tramite la
cultura delle persone. E’ un centro di studio, un centro di ricerca dove
i libri sono le persone vive. E’ un opportunità molto grossa. Inoltre
ho condiviso con Arte Migrante le iniziative con la mia associazione
EYSNS. Per qualsiasi cosa che fai è un appoggio incredibile, ti senti
come una famiglia. Ho conosciuto molte persone ,molti amici. C’è
sempre molto allegra e la serata è sempre interessante con musica
poesia racconti (…)Io ho fatto parte del gruppo politico di Arte
Migrante. Posso dire che a livello politico non abbiamo fatto gran che
perché ancora dobbiamo capire chi è interessato e che può essere
coinvolto. Il prossimo anno è importante far nascere un gruppo
politico più concreto. La maggioranza degli stranieri hanno problemi
a livello politico, ci sono un sacco di problemi che capitano ad uno
straniero. Non conoscendo la lingua, la cultura, la legge sarebbe
importante un gruppo che aiuti a sensibilizzare e a far conoscere ai
migranti le varie leggi e metterli in contatto con le scuole di italiano e
con gli sportelli (…) C’è una visione negativa degli stranieri in Italia
nella parte politica. Questa iniziativa è bella perche tramite l’arte fai
vedere che ci sono delle belle cose. Se non sei consapevole però dei
71
tuoi diritti o se non hai sistemato con i documenti però è difficile per
un migrante sopravvivere. E’ un campo da crescere e da studiare. Io
sono contento perché ho conosciuto tre quattro persone che mi hanno
dato un appoggio, ce n’è gente disponibile gli avvocati di strada e
altre realtà associative. Uno straniero può sbagliare una piccola
legge, bisogna dare una bella accoglienza e un bell’aiuto ai migranti
anche a livello politico.
Terminato il racconto sul totalitarismo eritreo, è nato un dibattito sul colonialismo
che ha creato un incrociarsi di storie, alcune differenti, altre simili tra loro.
Suleyman ha parlato del colonialismo francese e della situazione politica in
Senegal ben diversa da quella eritrea:
Il Senegal è un paese che la Francia ha colonizzato. Dakar era
chiamata, infatti, “la capitale del colonialismo francese” perché i
francesi prendevano gli schiavi e li mandavano lì a 3 km dal mare in
un’isola che si chiama Goree. Allora i francesi mandavano gli
schiavi sull’isola e dopo li portavano in Europa e America per
venderli. Sono cinquantadue anni che siamo indipendenti e
nonostante questo c’è ancora una forte presenza francese nel mio
territorio. Ma la dittatura non c’è in Senegal, è un paese libero,
democratico, dove non esistono prigionieri politici e dove c’è sempre
stata libertà d’azione.
Al dibattito è intervenuto anche Doru, “senza dimora” rumeno. Quest’ultimo ha
raccontato lo stato in cui viveva la sua gente durante il regime di Nicolae
Ceauşescu, per alcuni versi simile a quanto oggi vivono gli eritrei:
La crisi dell’89 l’ho vissuta in tv. Prima giocavamo a calcio, c’era un
clima disteso. Poi quando c’è stato l’89 ci siamo preparati come se
fosse in guerra, eravamo spaventati. Tutto ciò in particolare nel
72
periodo precendente e successivo alla morte di Ceauşescu. Quando
c’era lui eravamo tutti con un lavoro e tutti mangiavamo. Se la polizia
ti trovava anche di notte senza lavoro in giro per strada, ti aiutava e ti
trovava subito un lavoro, nessuno era senza. Tutti avevamo i soldi.
Però non eri libero di prendere quello che volevi. Adesso invece
nessuno ha soldi ma puoi trovare tutto quello che vuoi al
supermercato. Quando qualcuno si ribellava contro il sistema,
chiunque veniva messo in galera. Potevi fare anche una bella vita,
però non potevi uscire per andare in un altro paese, non ti lasciavano
libertà di uscire.
Doru ha raccontato inoltre la sua vicenda di vita, segnata da un grave incidente
stradale a pochi mesi dal suo arrivo in Italia. Anche lui è arrivato in Italia con la
speranza di trovare “l’eldorado”. Tuttavia ora è “senza dimora”, probabilmente
sfavorito dal grave incidente di cui è stato vittima.
Qui in Italia l’11 novembre 2012 io volevo andare per incontrare
qualcuno che abitava vicino a Funo, a San Giorgio di Piano.
Camminavo al margine della strada, tranquillo, ma in un attimo non
ho visto niente (…) Alcuni ragazzi italiani di venticinque anni mi
hanno soccorso. (…) Io in pratica avevo addosso 150 pezzi di
parabrezza. Ero al confine tra la morte e la vita quando mi è successo
(…) Dopo che mi è successo questo incidente sono rimasto senza
dimora. (…) Dopo sono andato alla stazione da quelli
dell’associazione Piazza Grande e loro mi hanno messo nel piano
freddo di via Pallavicini. La vita di “senza fissa dimora” è tranquilla
se tu eviti i casini o di fare discussioni.
Ad Arte Migrante ha partecipato anche Mustafa, regista iraniano di origine
afgana. Questo si è confrontato in diverse occasioni con i giovani del movimento
EYSNS e ha condiviso con loro lo status di “rifugiato politico”.
73
Sono nato in Iran, sono stato lì vent'anni ma i miei familiari sono
afgani e si sono ritrasferiti in Afganistan. In Iran mi sentivo iraniano.
Io ho sempre pensato di essere iraniano, però quando sono cresciuto,
non avevo i documenti iraniani. Mio padre mi diceva “non ti
preoccupare torneremo in Afganistan”. Li eravamo dei rifugiati.
Quando sono tornato in Afganistan era la stessa lingua ma con
differenti accenti, e la gente afgana se n’è accorta e mi chiamava
iraniano. Noi eravamo parte degli Hazara, una minoranza etnica che
nel mio Paese è discriminata. Perciò sono stato rifiutato anche in
Afganistan e anche li ero rifugiato e anche qui in Italia lo sono.
Mustafa tra il 2008 e il 2010 ha avuto diverse l’opportunità di collaborare con
alcune Ong internazionali, anche con la Bbc. Tuttavia, al suo trasferimento in
Italia è diventato rifugiato politico. Mustafa, come Tuhami nel saggio di
Crapanzano, ha raccontato un’esperienza di vita significativa e sconvolgente:
Ho fatto un altro film sulle donne, su alcune ragazze molto famose
nominate per il nobel, che hanno lottato e hanno creato molte scuole
per gli Hazara nel centro dell’Afganistan. Una era il Ministro della
Salute pubblica. Io volevo incoraggiare le giovani donne a prendere il
loro esempio, a diventare come loro, a lottare. Queste donne nel video
hanno parlato della situazione con i talebani e qual era la situazione
delle donne in quel tempo, dopo aver finito questo film, l’ho dato alla
tv il giorno dopo il Ministro mi ha chiamato e mi ha detto di
interrompere a trasmettere il suo film. Questo perché molti
mujaheddin hanno visto il film e non erano d’accordo con il film.
Allora lei mi ha chiamato e mi ha detto di interrompere. I mujaheddin
conoscevano tutto di me e mi hanno detto che non potevo far vedere
questo film da nessuna parte (…) Nel 2010 ho deciso di andare in
città e scrivere sul muro “morte ai talebani”. Anche se era un alto
rischio fare a Kabul una cosa del genere (…) la polizia mi ha detto
74
“tu sei pazzo!”. Loro sono brave persone. Ma mi sono convinto che
anche i poliziotti erano sostenitori dei talebani.
Mercoledì 19 giugno 2013, Alper, studente proveniente dalla Turchia, ha
raccontato degli sconvolgimenti di Piazza Taksim77. Quest’ultimo, dal carattere
introverso e timido, quella sera ha sentito di condividere gli sconvolgimenti che
hanno colpito il suo Paese. Il gruppo Arte Migrante ha deciso, a fine incontro, di
“improvvisare” il giorno dopo un’occupazione simbolica di Piazza Verdi nel
centro di Bologna, a sostegno della manifestazione turca. Dall’intervista di Alper
emergono importanti considerazioni riguardo ai “pregiudizi” che gli europei
hanno sulle persone provenienti dai Paesi islamici. Il “pregiudizio” che può essere
di varia natura razziale, etnica, religiosa, sessuale, da sempre è stato una delle
principali cause di guerre, conflitti e razzismo nella storia dell’uomo. Il
pregiudizio è un giudizio “a priori”, un’opinione che viene prima del giudizio,
cioè qualcosa che non ha bisogno di una specifica dimostrazione, come spesso
accade nelle situazioni di conformismo78. Per Lévi-Strauss il “pregiudizio è
sicuramente connesso all’insieme delle conoscenze e degli atteggiamenti che
riceviamo in eredità dalla nostra cultura, la quale, in concreto, ci fornisce gli
occhiali con i quali impariamo a leggere e a decodificare la realtà che ci
circonda”79. Nel mondo occidentale la concezione diffusa sull’Islam è legata ad
un avvenimento specifico risalente all’11 settembre 2001: l’attentato alle Twin
Towers. Ciò a causato la diffusione di stereotipi e pregiudizi negativi sulle
persone islamiche, spesso conformate ai “terroristi” protagonisti di quella triste
vicenda. Il mondo mediatico è stato e continua ad essere un mezzo chiave per la
costruzione e il rafforzamento di accezioni “pregiudiziali” rivolte ai “non
occidentali”, in questo caso, all’Islam. Alper sostiene che:
77
Il 31 maggio 2013 Piazza Taksim è stata protagonista di una folgorante manifestazione. Il
motivo scatenante era che il governo di Erdogan ha dato il via libera per la costruzione di un
centro commerciale e di una moschea al posto del parco Gezi, nei pressi della piazza.
78 Franco Giustinelli, Letteratura e pregiudizio: diversità e identità nella cultura greca, p.XX.
79 Claude Lévi-Strauss, Razza e storia e altri saggi di antropologia, Torino, Einaudi, 1972, p. 118.
75
In Italia come in altri posti d’Europa c’è l’idea che le persone dei
Paesi islamici sono molto differenti, e quindi c’è molta diffidenza
verso di noi. Questo non è vero perché la Turchia è secolarizzata e
molto più laicista di ciò che si pensa (…) noi siamo molto simili,
anche fisicamente lo siamo, oltre che culturalmente, forse per
l’influenza del Mediterraneo (…) qui c’è molto razzismo, perché avete
molti pregiudizi verso gli islamici. Anche i media danno un’immagine
davvero esagerata e falsa di ciò che è la nostra cultura. Io invece
vengo da una città e ho uno stile di vita simile al vostro.
3.1.3 Carlos e l’importanza dell’Arte per l’umanità.
La stessa sera in cui Alper ha raccontato i disordini di Piazza Taksim, c’è stato un
altro interessante intervento: Carlos, “senza dimora” argentino di origini italiane, è
intervenuto criticando il gruppo Arte Migrante rispetto all’organizzazione
dell’evento del 12 Giugno all’Orfeonica di Bologna. Quest’ultimo è un ottimo
attore teatrale autodidatta e, in più occasioni, ha dato sfoggio delle sue abilità
artistiche cimentandosi in performance teatrali. Ciò dimostra l’importanza che ha
l’arte come strumento di riscatto sociale, così come l’importanza dello “spazio
performativo” creato da Arte Migrante. Uno spazio che si contrappone alla
solitudine e all’esclusione solitamente provata da chi fa “vita di strada”. Da
“senza dimora” o “immigrato” avviene dunque un importante cambio di status in
“artista”. Carlos ha inoltre spiccate capacità di individuare un problema e
criticizzarlo. Diverse sono le occasioni in cui ha suggerito “aggiustamenti”
rispetto all’organizzazione e alla realizzazione delle varie attività portate avanti
dal gruppo. Irene stima molto Carlos:
Quell’uomo lì ha una capacità di capire il problema, criticizzare.
Carlos è un uomo chiave perché è colui che dice tutto (…)
L’importanza di Arte Migrante è che non sei più italiano o straniero,
ma sei un soggetto singolo. Scopri di avere intorno immigrati,
76
rifugiati politici, senza tetto, che hanno capacità creativa, gioia di
vivere, voglia di fare. Carlos ad esempio è’ un attore fenomenale, e
chi l’avrebbe mai detto. Carlos secondo me meriterebbe di fare teatro
non solo come artista di strada ma come professionista.
Il valore di Carlos sta nella consapevolezza che ha rispetto al suo status e ai diritti
che lo Stato Italiano gli nega. Attualmente vive in una “scuola occupata” gestita
dal sindacato Uds e collabora spesso con l’“associazione 3 Febbraio” e il
“Comitato antirazzista”. In Arte Migrante ha raccontato della storia della sua
famiglia e della sua esperienza da “senza dimora” recitandola attraverso un
monologo teatrale.
Io praticamente sono l’immigrazione all’inverso di quello che hanno
fatto i miei avi, i miei bisnonni che sono andati dall’Europa in
America Latina, in Argentina. Noi siamo gli esseri che hanno
usurpato quei territori e lo facciamo silenziosamente. Senza
riconoscere le ricchezze che abbiamo distrutto. Io dall’Argentina ho
fatto la migrazione al contrario per cercare fortuna in Europa. Qui
come i bianchi in Argentina, ci emarginano (…) i servizi sociali, anzi
“asociali”, attuano un metro di preferenza. Ci sono “senza fissa
dimora” di serie A, B e C. Ci sono persone che usufruiscono di una
quantità di denaro che lo Stato dispone per chi è “senza dimora”, nel
caso mio non ho mai visto una lira in più di anno che sono a Bologna
in mano ai servizi sociali, neanche un euro nelle mie tasche. Poi è
vero che sono ateo però ho molto rispetto per la Chiesa perché in fin
dei conti è la Chiesa che mi ha aiutato non lo Stato.
Dalle parole di Carlos si evincono molti dettagli rispetto alle mancanze del
sistema italiano in materia di servizi ai “senza fissa dimora”. Emergono anche le
diverse “responsabilità” che i soggetti, istituzionali e non, possiedono nei
confronti di questi ultimi.
77
(…) a Bologna i “senza fissa dimora” muoiono da invisibili, uno è
stato trovato affogato nelle fontane di “Piazza dei martiri”. E’ stata
fatta un’autopsia ma non ci è stato dato un risultato né è stato trovato
un colpevole. Però quando si parla di noi al 99 % sono persone che
non hanno famiglia, sono sole quindi nessuno reclamerà se qualcuno
di noi scompare (…) Io ho un sogno, sarebbe vedere una volta questi
volontari, un rappresentante per ogni gruppo di volontari insieme
perché parlino loro dei nostri problemi insieme a noi. Noi potremmo
aiutare loro ad aiutare noi. Fare una rete di associazioni e “senza
fissa dimora”. Una tavola rotonda dove sia rappresentata la massima
quantità dei “senza fissa dimora” e la massima quantità di coloro che
hanno responsabilità diretta.
Il sogno di Carlos è importante perché riconosce i “senza dimora” come possibili
fautori del loro cambiamento, responsabilizzarli. Quest’ultimo è un attore teatrale
autodidatta. Il teatro, in alcune società, è talmente parte della società che il “ruolo”
che gli attori inscenano nelle performance è poi conservato nel quotidiano. Come
sostiene Dino Burtini, riprendendo Geertz e Bernardi, in “Per una psico-
antropologia della performance”:
“Il teatro tra i popoli non occidentali è strettamente connesso con il
rito. A Bali, ad esempio, si mettono in scena i racconti mitologici: gli
attori impersonano gli dei e gli eroi e sono talmente compresi nella
parte da rimanere legati al ruolo. Tutta la vita balinese è una grande
manifestazione teatrale (…) Bernardi, il precursore del Teatro Sociale,
vede nel teatro una delle poche reali possibilità offerte all'essere
umano del nostro tempo di occuparsi dell'Altro come valore. Il teatro
sociale si confronta con le dimensioni della diversità che abitano
accanto a noi, e che quindi ci appartengono in quanto membri dello
78
stesso corpo sociale e, in questo incontro, non può non porsi il
problema del prendersi cura”80.
Carlos, quando “va in scena”, subisce una trasformazione, diventa un altro. Si
percepisce dal modo in cui utilizza gli spazi, gestisce il tono della voce e la
comunicazione non verbale. Per lui, il teatro rappresenta un vero e proprio “rituale
collettivo” e spesso coinvolge persone dal gruppo. A tal proposito, Geertz, nella
sua ricerca a Bali, individua lo stato emotivo Lek come elemento chiave alla base
della teatralizzazione della vita collettiva. Geertz osserva che le “maschere” che
gli individui indossano, lo spettacolo e le parti in cui si impegnano “costituiscono
non la facciata ma la sostanza delle cose non meno che del sé”81. Il teatro, come
più in generale l’arte, è uno strumento per sfogare i rancori accumulati, per
realizzarsi pienamente, per restituire voce e dignità alle persone emarginate dalla
società.
Oggi con alcuni di Arte Migrante ad esempio siamo stati a vedere un
nostro amico a diventare un dottore. E’ la prima volta che vedo un
laureando messo ai voti. Un “senza fissa dimora” che entra lì dentro,
all’università, io sono un poveraccio uno di strada che entra lì dentro,
ad affrontare persone che sanno la conoscenza, nel cuore della culla
della sapienza (…) mi sono sentito una persona normale (…) morirei
su un palcoscenico. Sono nel mio pieno climax, orgasmo totale della
mia libertà. E’ terapeutico, serve a potersi liberare e a poter liberare
l’odio il groppone di rabbia che accumulo in strada. Gran parte della
mia malattia è l’impotenza, il fatto di essere in potente quando sono in
strada. Ecco perché mi è tanto importante Arte Migrante. Perché la
parola “arte” sta subito prima di quella di “migrante”. Se l’arte si
mette in salvo, vuol dire che la civiltà ha ancora speranza. Noi siamo
80
Dino Burtini, “Per una psico-antropologia della performance”, in
http://www.psica.forumattivo.com
81 Clifford Geertz, Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988, p.80.
79
delle persone e attraverso l’arte possiamo riconquistare tutte le forme
delle nostre libertà. Arte Migrante rappresenta questo.
Anche per Doru l’arte rappresenta uno strumento di evasione dalle difficoltà della
vita, un sogno finalmente realizzato:
Mi sento molto bene ad Arte Migrante, è un posto per divertirsi. In cui
passa il tempo in un altro modo. Perché la vita è così amara e devi
fare qualcosa per dimenticare tutto ciò che non ti è uscito bene. La
vita è così corta e devi viverla a pieno. In Romania non ho avuto mai
occasione di cantare ma qui posso fare di più. (…) Cantare mi fa
sentire bene perché era una cosa che desideravo da piccolo. Sognavo
di cantare in un gruppo, e ora lo posso fare.
Le discipline artistiche come la musica, la poesia, la danza, permettono di
abbattere ogni barriera pregiudiziale. Si riscopre quindi un mondo fatto di
“persone”, che hanno storie interessanti ed esemplari alle spalle, da cui ognuno
può trarre spunto per affrontare al meglio il suo quotidiano.
3.2 Bogdan e le relazioni in Arte Migrante.
Una figura importante fin dalla nascita del gruppo Arte Migrante è Salariu Petrica
Bogdan, ventisettenne di origine rumena, che può essere considerato come il
“testimone privilegiato” di questo elaborato perché
“I testimoni privilegiati sono quelle persone che rivestono particolari
posizioni all’interno della società indagata (…) o che sono depositarie
di saperi specifici (…) oppure che sono stati protagonisti di eventi
fausti o infausti, oggetto della memoria sociale (…) i testimoni
80
privilegiati sono persone che non si può fare a meno di conoscere,
frequentare e sottoporre, magari più volte, alle proprie domande”82.
Bogdan è in una posizione “privilegiata” perché è un “immigrato che ce l’ha
fatta” e si comporta come tale. Avendo alle spalle un vissuto molto duro e
complesso, ci sono diverse ragioni per cui la sua storia è esemplare per chiunque
la ascolti. Dopo un anno in strada come “senza dimora”, ora vive anche lui nella
comunità Zoen Tencarari e ha un lavoro. Inoltre è riuscito a lasciarsi alle spalle la
dipendenza da “gioco d’azzardo”, infatti, si può dire che si è riscattato
doppiamente.
Volevo cercare di fare una vita intera in poco tempo, sposarmi
lavorare, ho fatto anche un bimbo e così restando senza soldi ho
perso tutti. Il mio negozio però è fallito con la crisi economica
europea, inoltre io avevo poco tempo e poca esperienza. Anche il
lavoro di muratore andava male, oltre ad un sacco di tempo e soldi
persi con il gioco d’azzardo, notti intere. Poi mi sono divorziato, ho
cominciato a litigarmi a casa e con gli amici, sono quasi impazzito
(…) Finché un amico non mi fa un offerta a venire a lavorare in Italia
e mi diceva che potevo guadagnare anche un sacco di soldi, invece
qui mi sono stufato di essere quello che lavora 24 ore su 24. Io
lavoravo a Brescia e riuscivo a guadagnare qualcosina come
muratore però sempre restavo in prestito. Dormivo poco e non
riuscivo mai ad avere soldi in tasca. (…) Senza sapere lingua né
niente, sono partito all’avventura e ho visto la strada davanti e ho
cominciato a camminare (…) Sono arrivato intanto a Mantova, dove
ho visto molti che vivevano per strada e sopravvivevano allora ho
cominciato a seguire quelli, la gente di strada, così ho trovato altri
rumeni e mi hanno spiegato un po’ rispetto alla Caritas, altri zingari
82
Mariano Pavanello, Fare antropologia. Metodi per la ricerca etnografica, Bologna, Zanichelli,
2009 p. 170.
81
rumeni mi hanno spiegato come si fa l’“elemosina”, altri mi hanno
spiegato come rubare.
Dei “senza dimora” che partecipano al gruppo, tutti desidererebbero che la loro
vita abbia un tale risvolto. Ha molte conoscenze nell’ambiente dei “senza dimora”
e da molti riceve stima e rispetto. Può essere considerato una sorta di “mediatore”
tra chi vive in strada e chi è benestante. Il suo sguardo e le sue parole riflettono
con forza le sofferenze provate a causa del gioco d’azzardo e della separazione, la
lontananza da suo figlio, il coraggio di ricominciare una nuova vita in un altro
luogo, passando da gestore di un negozio a “senza dimora”. Il suo sguardo e le sue
parole riflettono un anno trascorso duramente in strada, "incliccato" nelle barbare
violenze che la “guerra tra poveri” in alcuni casi ha comportato:
A Verona i primi giorni ero a dormire in un parco, mi sono svegliato
che qualcuno gridava aiuto e mi sono accorto che dieci ragazzi
picchiavano due barboni che dormivano. Li picchiavano con pezzi di
legno e quei ragazzi che picchiavano erano rumeni. Lo facevano solo
per divertimento per finire la loro serata di sballi, allora ho
cominciato a stufarmi e ad avere paura di tutti e a non fidarmi
facilmente (…) io avevo paura di me, sentivo una forza che mi portava
e volevo andare la e picchiare quei dieci rumeni, sgridare e litigare.
Però sapevo che era un coraggio da matti e pensavo che dovevo
“vivere per lottare un altro giorno”.
Bogdan è uno dei fondatori di Arte Migrante e si è rivelato fin dall’inizio un
valido “interlocutore” del mondo dei “senza dimora”. Sempre attivo e
protagonista nell’organizzazione delle attività quest’ultimo, oltre ad essere un
membro chiave del coordinamento, ha fatto anche da referente del gruppo “danza”
e da presentatore di alcuni spettacoli. Inoltre, Bogdan è un abile comunicatore e in
più occasioni ha espresso al gruppo profonde considerazioni rispetto alla vita, al
coraggio e all’onestà che si deve avere per affrontarla.
82
Vivendo per strada ho trovato la semplicità delle cose, il valore di un
uomo, di una persona, guadagnandomi il rispetto degli altri ho
cominciato a rispettare a me di più. (…) ma sono tanti che vivono per
strada e hanno conosciuto il razzismo e hanno bisogno di essere
guardati in un altro modo. Ad Arte Migrante incontrano invece
persone che li guardano in un altro modo. Tramite l’arte arriva più
veloce arriva prima al cuore, la passione per fare delle cose. (…)
L’ambulanza, passa veloce e le altre macchine vanno dietro veloce.
L’arte è come l’ambulanza e tutti la seguono dietro veloce e rimane
poi dove vai te.
Bogdan, quando interviene, riesce spesso ad entrare in “empatia” con chi lo
ascolta. Inoltre, al contrario di alcuni “senza dimora”, non ha mai ceduto all’alcol
né alla droga, non ha mai rubato né scatenato risse. Come ha già fatto in passato,
continua ad aiutare i suoi ex compagni di strada a orientarsi per accedere ai servizi
di assistenza che il comune e le associazioni di Bologna mettono a disposizione.
Il nostro gruppo è importante per i senza tetto che hanno perso la
speranza di vivere, che hanno perso rispetto per loro. Queste persone
ora in Arte Migrante possono essere guardati, applauditi, cominciano
a riavere fiducia in loro stessi, fare gli spettacoli, andare con noi alle
messe, suonare, cantare, cominciano ad avere delle speranze che
qualcosa si muove. (…) Gli italiani invece quando vedono queste
persone per strada e le riconoscono che le hanno visto a una festa,
che l’hanno visto ai nostri incontri o a una messa prendono rispetto e
cominciano a capire che davvero è stata una sfortuna. Che può
capitare anche a loro, agli italiani, a chi ha tutto. Cominciano a
vedere le cose in modo diverso, non come prima.
83
3.2.1 L’impatto che il gruppo ha sulle interazioni.
In Arte Migrante si va delineando una precisa concezione di “persona”, legata
soprattutto ad una prospettiva “transindividuale”. In altre parole, riprendendo
alcuni studi di Marcel Mauss,
“la nozione moderna di persona umana, coincide (…) con quella
cristiana, in relazione all’altro e in senso di vicinanza razionale alla
socialità, come pratica dello stare insieme. La persona traduce
l’esigenza di vivere insieme reciprocamente e intersoggettivamente”83.
Allo stesso modo, Balibar sostiene che la “persona” va sostenuta attraverso
“un’immagine relazionale e sociale dell’essere umano”84, che, di fatto, mette in
discussione le concezioni “individualiste” della società Occidentale. Concezione
di “persona” che nelle culture di altri Paesi, specialmente di alcune popolazioni
dell’Asia e dell’Africa, è interrelata con le comunità di cui l’individuo fa parte. In
affinità con la transindividualità, la persona esiste “in relazione con gli altri
membri della comunità” e non a se stesso.
“La comunicazione si caratterizza dal senso di umanità che si
manifesta per mezzo delle relazioni interpersonali da una parte, con la
natura dall’altra parte. In Africa l'uomo è più che un essere sociale.
L'uomo è sempre membro di una comunità, di una società, al di fuori
di tale contesto perde il suo valore. La dimensione comunitaria e
collettiva è fondamentale per la crescita e lo sviluppo dell'individuo.
Perciò il senso della vita di un individuo in Africa è estremamente
83
Marcel Mauss, “Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche” in
Leonardo Allodi, Lorenza Gattamorta (a cura di), <<Persona>> in sociologia, Roma, Meltemi,
2008, p. 216.
84 Etienne Balibar, “Masses, Classes, Ideas: Studies on Politics and philosophy Before and After
Marx”, in Carlo Cappello, “Dai Kanak a Marx e ritorno: antropologia della persona e trans
individuale” http://www.dadarivista.com
84
legato ai suoi rapporti e relazioni con gli altri e con la sua
comunità.”85.
L’esperienza di Bogdan è interessante anche da un punto di vista relazionale. Il
cambiamento del suo “status” gli ha permesso di assumere un atteggiamento più
“autorevole” verso i suoi ex-compagni di strada. Nonostante il gruppo Arte
Migrante promuova l’importanza del “porsi alla pari”, tra i partecipanti ci sono
differenze sociali effettive che incidono nella sfera relazionale. Bogdan ha ad
esempio un comportamento “protettivo” verso quei suoi connazionali che ancora
vivono in situazioni di forte disagio sociale.
Viorel lavora poco, lui dentro ancora non è cambiato. Pensa ancora
che bisogna avere i soldi subito e spenderli. (…) Lui non è arrivato a
quel punto da essere abbastanza maturo per vedere che le cose le devi
fare con le tue mani. A volte devi lavorare per niente, le cose le devi
fare di cuore senza pensare di essere pagato. Lui non è arrivato al
fatto di credere in qualcosa, sia Alex che Viorel pensano “sono
povero devo essere aiutato”. Molti poveri che vivono in strada
pensano così e c’è molta gente che aiuta in modo assistenziale.
Interessante è il rapporto d’amicizia creatosi tra un “senza dimora” cinese e un
piccolo gruppo di rom. Le difficoltà che si trovano nella “vita di strada” li hanno
avvicinati nonostante appartengano a culture radicalmente diverse. Altrettanto
anomala è l’amicizia che si è instaurata tra Usman, ragazzo pakistano, e Monarc,
indiano. Questi ultimi provengono da due Paesi che in passato hanno avuto un
violento conflitto e che tuttora vivono in condizioni diplomatiche difficili.
Tuttavia la “dimensione d’incanto” del contesto Arte Migrante e la forza
unificatrice dell’arte hanno favorito la nascita delle amicizie più impensabili.
Usman ha mostrato ottime capacità relazionali e una grande apertura umana,
85
Maria Rachel Zongo, “Antropologia della comunicazione africana: il valore della persona
umana”, in http://www.fmm-italia.pcn.net.
85
coinvolgendo spesso agli incontri diversi amici provenienti da varie parti del
mondo.
Sono arrivato con un aereo. Prima in Pakistan studiavo all’università,
mi sono laureato in storia. Poi sono venuto qua per completare il mio
grande sogno: costruire una grande fabbrica commerciale. Ma vedo
che tanti stranieri fanno molto fatica qui a trovare lavoro. Io vorrei
creare un lavoro per tutti. Prima ho fatto lavori domestici tipo
badante. Ho trovato alcuni amici qui in Italia (…) Fino ad ora ho
letto solo delle opere di un poeta del mio Paese chiamato Iqbal. (...)
Lui spiega che questa vita non è per i delusi, ma tu sei una persona.
Non è un problema se sei un musulmano o meno, “abbiamo tutti una
stessa mente” (…) La guerra è un problema di governo non delle
persone. Io voglio la pace e vorrei che tutte le persone desiderassero
la pace, io credo in questo con tutto il cuore. Io penso diverso da altre
persone del mio Paese. Io non penso che Monarc sia un indiano ma
semplicemente una persona. Non è importante che sia indiano o
pakistano. Questo perché come ho già detto, anche se siamo persone
diverse, ricchi e poveri, indiani o pakistani, siamo tutti un insieme di
menti.
Generalmente, persone che appartengono a una stessa cultura o a culture affini, è
più facile che stringano rapporti d’amicizia, come nel caso di William e
Suleyman. Questo perché le condizioni di emarginazione sociale, imposte ad
alcune categorie di soggetti dalla società occidentale, possono favorire la
costruzione di rapporti amicali. Come già detto in precedenza, in Italia come in
altri Paesi d’immigrazione c’è ancora razzismo specialmente verso persone
provenienti da condizioni economiche sfavorevoli. Tuttavia ci sono anche diversi
tipi di razzismo legati a dinamiche sociali d’altro tipo. In questo senso
l’esperienza di Susanna è un esempio chiave. Susanna è una studentessa
finlandese che è venuta in Italia tramite un progetto europeo d’interscambio.
Nonostante provenisse da un paese ricco, ha avuto molte difficoltà a integrarsi.
86
Il problema è che l’anno scorso la gente mi vedeva in modo diverso
perché ero una volontaria mentre quest’anno sono una baby sitter e
quindi pensa che io lavoro e rubo il lavoro alle ragazze italiane. Poi
mi scambiano per una mamma e quindi pensano che io sia una
mamma giovane straniera venuta qui per lavorare. (…) C’era un
periodo in cui la gente mi domandava spesso da dove venivo. In quel
periodo alla gente non piaceva che ero Finlandese perché nel mio
paese c’è benessere e qui invece c’è crisi e non è giusto che io sia
venuta qua da un posto così ricco. (…) Mi piace questa iniziativa
perché si può vedere altra gente, è anche brutto svegliarsi e sentirsi
soli, per me è bello che la gente passa dei momenti insieme, si fa
conoscere. Inoltre è bello sentire storie di vita dura perché s’inizia a
essere più felici della propria vita e s’inizia a capire che le mie cose
stanno molto bene e che ci sono molti problemi (…) se una persona
viene vicino a te e ci conosciamo scopriamo che anche se viene da
una cultura lontana, si capisce che non sei tanto diverso e che in
realtà siamo interiormente vicini.
Stesse difficoltà di vita le ha riscontrate Zineb, giovane studentessa italiana con
genitori provenienti dal Marocco. Quest’ultima, riconosciuta in Italia come
immigrata di “seconda generazione”, nonostante sia nata sul suolo italiano ha
dovuto sopportare diversi atteggiamenti di intolleranza e chiusura nei suoi
confronti.
Non è facile accettare il fatto di venire da un altro paese, io sono stata
abbastanza fortunata perche ho trovato persone molto gentili. Però lo
percepisci sempre che non appartieni ad una certa cultura, se non
condividi certi ideali è difficile inserirsi in un altro ambiente quindi
nonostante i miei vivessero in Italia la mia cultura era comunque
quella del mio paese. E’ difficile da coniugare con la cultura italiana,
è quasi impossibile trovare un approccio tra due mondi così differenti.
Una difficoltà ad esempio è andare al ristorante e scoprire che non
87
puoi mangiare certi alimenti. Prima per me sentirmi diversa era un
peso. Però con gli anni diventa un punto di forza, ti rende unico,
perché in un mondo in cui tutti sono uguali spicca chi è diverso.
Alla stessa stregua di Alper, l’esperienza scolastica di Zineb è stata segnata dai
pregiudizi presenti in Italia verso gli stranieri. Similmente a Susanna, la giovane
studentessa ha dovuto subire diversi atti di razzismo.
Il razzismo lo noti a partire dalle scuole elementari fino a che diventi
adulto. A volte può essere ricevere un insulto cattivo “tu sei
marocchino!” o a volte la sorpresa dei professori “sai scrivere
proprio bene italiano anche se sei marocchina!” Oppure l’autista
dell’autobus che pensa che tu non abbia il biglietto e te lo chiede tutti
i giorni o il barista che ti chiede subito la consumazione. Ce ne sono
di esperienze che ho vissuto. Quando ad esempio devi affittare una
casa e se sei straniero di solito o ti chiedono molti mesi di anticipo o a
volte non te la danno proprio. La prima domanda che ti fanno è “sei
straniero?”. I miei hanno dovuto pagare con 6 mesi in anticipo la
casa dove abitiamo ora. A molti stranieri inoltre non viene fatto un
contratto di lavoro. Per esempio in pizzeria non mi volevano fare il
contratto perché ero straniera, poi me lo hanno fatto. c’è lo stereotipo
dello straniero che lavora in nero, o lo stereotipo della badante. Tipo
quando dico che lavoro mi chiedono se faccio la badante. (…) Di
solito sono le persone più anziane che fanno fatica ad accettare la
presenza degli stranieri. Nel mio paese in cui sono cresciuta ci sono
molti anziani. Succede spesso che quest’ultimi dicono ai nipoti di non
giocare con me perché sono straniera e dunque sono sporca o malata.
Cose inventate, pregiudizi. Inizialmente capita che susciti molta
sorpresa, per esempio quando dico che faccio lettere all’università. A
volte può capitare che susciti invidia, nel senso che non riconoscono il
fatto che tu possa aver successo in qualcosa. E’ come se togliessi
qualcosa alla gente che abita qui. Io non sono d’accordo, io ho vinto
88
diversi premi letterari come narratrice. Anche quando vinci dei premi
e lo racconti alcuni pensano “però non ti spetta, non sei di qua”. Ci
sono tante forme di razzismo.
Zineb ha vinto diversi premi letterari di narrativa. Infatti, ha partecipato a diverse
attività del gruppo Arte Migrante e in diverse occasioni ha ribadito la sua passione
per l’arte. La giovane narratrice sostiene l’importanza dell’arte come strumento
universale, immediato e dinamico.
Arte Migrante è una bellissima idea. E’ importante il fatto è che ti da
spazio ti ascolta e questo è un grande pregio. Non giudica, non ti senti
giudicato. Non parte da un giudizio ma ti da la possibilità di
esprimerti, è anche molto istruttiva come associazione magari
andrebbe gestita diversamente per le presentazioni. La cosa che mi
piace tantissimo è che mette in comunicazione le persone attraverso
l’arte. Per me rappresenta l’unico linguaggio universale attraverso
cui si può comunicare con ogni altro essere vivente. E’ lo strumento
più immediato e poi è legata ad altre sensazioni, non si ferma li,
comporta un ragionamento continuo. Una poesia magari letta da un
poeta afgano è diversa, ti rimane, perché la diversità è un punto di
forza. L’arte è l’unico modo per portare le persone a riflettere.
3.2.2 Kampa e l’ultimo incontro.
Il 10 luglio 2012 Arte Migrante si riunisce per l’ultimo incontro prima della pausa
estiva. La serata è segnata da un contrattempo: lo smarrimento di un portafoglio.
Per il gruppo quell’avvenimento è stato difficile da “gestire”. Si rischiava di
mettere in discussione la “fiducia reciproca” costruita durante un intero anno di
attività. Quella fiducia che aveva contribuito a rompere le barriere tra “senza
dimora” e benestanti, tra italiani e non. Poche erano le scelte che i coordinatori
avevano a disposizione: annullare l’incontro e prevedere un qualche forma di
89
“auto-sanzione” di gruppo per quanto era accaduto oppure cominciarlo
ugualmente e cercare dei diversivi per ravvivare il clima di festa che solitamente
caratterizza gli incontri. Si decide per un gioco interattivo di “presentazione
personale” che ha risollevato quel le sorti della serata. La risposta del gruppo è
stata immediata e ha fatto sì che si evitasse il rischio di concludere l’anno di
attività in modo negativo e contraddittorio. L’immediata risposta positiva ha
rappresentato un indice di forte coesione umana che il gruppo è riuscito a
costruire e preservare. In questo avvenimento un ruolo chiave è stato ricoperto da
Kampa, studente di antropologia e membro del coordinamento di Arte Migrante.
Si riportano alcune sue importanti considerazioni:
In Arte Migrante si crea questo “ponte” tra quelli che vivono per
strada che hanno una vita più dura e le persone che hanno una vita
più agiata. Anche qui ci sono i rituali, diventa come una comunità ha
dei rituali definiti. Il rituale iniziale è quello in cui ognuno racconta
qualcosa di se e spiega cosa ha che fare con l’arte. Ognuno porta
qualcosa, il rituale del pasto è importante in una comunità. Il
condividere lo stesso pasto anche unisce. Poi ci sono le esibizioni, è
un bisogno di riconoscimento. Uno dei bisogni più alti dell’uomo è
essere riconosciuto amato. Il fatto che tu sei un clochard e vieni
applaudito anche se fai una cazzata, non corrisponde certo al giudizio
che darebbe un critico d’arte. Però sentire che la loro arte è
riconosciuta, fa bene, è un modo che si è costruito in Arte Migrante,
gli applausi scroscianti aumentano l’autostima dei clochard. (…) In
un ambiente cosi l’immigrato si sente accolto mentre fuori Arte
Migrante sembra una minaccia. Uno che viene a contaminare la
nostra cultura, questi immigrati, clandestini o no, servono per farti
capire come quest’apporto di diverse culture è una ricchezza.
Tuttavia, anche all’interno del gruppo persistono ancora differenze fra chi vive in
condizioni agiate e chi no.
90
Una cosa brutta è che l’uguaglianza spesso è formale, alla fine si
vede molto che una ragazza universitaria benestante fa fatica a
trattare con un migrante o un clochard ugualmente. Si vede che le
consuetudini creano un ostacolo. (…) Spesso uno si sceglie le amicizie
che sono più simili a lui. Quando io parlo con un migrante o un
clochard non lo faccio del tutto spontaneamente perché è molto
diverso da me. (...) Più riesci a diventare amico realmente, più fai
diminuire quella componente di assistenzialismo caritatevole. E’ lo
stadio primitivo, quello da cui bisogna sempre più distaccarsi per poi
giungere a uno stato di vera amicizia e parità è lì che diventa
veramente un gruppo di fratelli e sorelle.
Kampa ha diversi anni di esperienza come volontario associativo con i “senza
dimora” e ha notato anche lui come la “guerra tra poveri” si sia intromessa in Arte
Migrante. Quest’ultimo, inoltre, anticipa alcune doverose considerazioni che il
gruppo ha fatto in materia di “criticità” e che saranno approfondite nell’ultimo
capitolo.
Anche tra quelli che vivono per strada da più tempo, c’è la tendenza
di creare una classe di più bassi, forse anche per sentirsi più alti. (…)
Noi di Arte Migrante dobbiamo capire che non ha senso che non ci
sia un ponte tra tutti quelli di strada. Bisogna cercare di creare ponti
anche tra quelli di strada. (…) La cosa principale di Arte Migrante
non è stata la solidarietà assistenziale, ma il fatto che ci sia una
dinamica relazionale completamente orizzontale. Spero e mi auguro
che l’integrazione sia sempre più globale, che non riguardi solo
l’arte, ma sarebbe bello condividere sempre di più queste persone di
strada e migranti, andando a mangiare a casa loro, anche i senza
tetto stanno diventando “ponti ” tra la gente più ricca e quella più
povera. Iniziano a vivere per questo magari con più speranza.
91
3.2.3 Il palcoscenico di Arte Migrante
Dalle “interviste” emerge come la “dimensione d’incanto” promossa dal gruppo
Arte Migrante favorisca la creazione di un importante “spazio d’ascolto” e di
relazione. Migranti e “senza dimora” vittime di pregiudizi, atti di discriminazione
razziale, politiche statali escludenti e atteggiamenti di diffidenza si ritrovano in un
contesto d’accoglienza e di forte socialità. All’interno del cerchio relazionale
promosso negli incontri nessun partecipante subisce un trattamento ostile o
ghettizzante per questioni di diversità culturale o difficoltà socio-economica.
Anche solo se per qualche ora a settimana, c’è la possibilità di uscire dai nefasti
meccanismi della “guerra tra poveri” che ogni giorno colpisce diverse persone
innocenti che vivono in strada o in modo precario.
Come affermano Suleyman e Bogdan, in Arte Migrante <<si è guardati in un altro
modo>>, non più con pregiudizio o distacco ma con interesse culturale e
vicinanza umana. Migranti e “senza dimora” al posto della noncuranza e del
rifiuto incontrano occhi amichevoli, bocche sorridenti e mani che applaudono.
Incontrano persone disposte ad ascoltarle, a lasciarsi incantare dalle loro storie e
dalle particolarità delle loro culture di provenienza. Queste sono le motivazioni
che spingono la maggioranza dei membri del gruppo a partecipare in modo attivo
e costante agli incontri, con il desiderio di condividere anche le parti più difficili
della propria storia di vita.
In precedenza, si è affermato che quei migranti che vivono anche come “senza
dimora”, sono in uno stato di “tripla assenza” derivata da tre fattori: tradimento
inferto alla terra d’origine; rifiuto subito nel Paese ospitante; situazione di degrado
materiale e sociale. In Arte Migrante, al contrario, avviene il passaggio ad uno
stato di “tripla presenza”, derivata dal fatto che ogni partecipante riceve sia
accoglienza fraterna che “inter-esse” verso la cultura d’origine oltre al
riconoscimento dello status di “artista”. “Inter-esse”, riprendendo un’interessante
92
accezione di Annamaria Fantauzzi, “come reciprocità nel <<provare qualcosa
per>>, uscire dai confini del sé per estendersi verso l’alterità”86.
Ogni “artista” condivide la stessa opportunità di essere protagonista della scena
nel “palcoscenico” di Arte Migrante. L’arte è un mezzo per “riscattarsi”
socialmente e per distrarsi, come dice Doru, dall’<<amarezza>> che comporta in
alcuni casi il quotidiano di un “senza dimora”. A tal proposito Carlos propone
l’arte come “valvola di sfogo” per <<liberare l’odio e il groppone di rabbia>> che
si accumula in strada. Inoltre, come già detto, attraverso l’arte e la relazione, si
abbattono le “barriere” della differenza sociale e culturale, passando per quei
“ponti” interculturali e intersoggettivi costruiti dall’incontro tra diversità. Si passa
a identità sempre aperte al confronto, che attraverso una mentalità cosmopolita,
permettono l’istaurarsi di nuove esperienze umane e artistiche. Ogni partecipante
sviluppa in questo modo identità ibride scaturite dall’incrocio tra storie di vita,
musiche, canti, versi provenienti da universi culturali inconsueti. Perciò, le attività
di Arte Migrante tenderebbero verso un altro tipo di approccio, che va oltre quello
dell’intercultura citato finora: il “meticciato”. Quest’ultimo, secondo Audinet,
rappresenta quindi
“l’incontro tra i diversi, l’incontro interumano attraverso l’alterità; è la
scoperta, la meraviglia, l’accoglienza e la fusione con l’altro da sé
(…) frutto di migrazioni, di incontri, di integrazioni di popoli e
nazioni, in una continua rielaborazione di identità”87.
Tutto ciò all’interno del climax generato dalla “dimensione d’incanto” fautrice di
momenti di forte empatia tra i partecipanti, per andare “oltre le parole”e andare
incontro alle emozioni trasmesse da quest’ultimi attraverso l’arte. In questo senso,
86
Annamaria Fantauzzi, Antropologia della donazione, op. cit. , p. 209.
87 Jacques Audinet, “Il tempo del meticciato”, in Fabrizio Pizzi, Educare al bene comune. Linee di
pedagogia interculturale, Milano, Vita e Pensiero, 2006, p. 31.
93
“Sartre osserva che sperimentare l’Altro come soggetto, attraverso la
gamma completa delle sue emozioni, non è un atto di cognizione
passiva. E’ invece un modo attivo di riconoscere importanza – per se
stessi – alla soggettività dell’Altro”88.
3.3 Un esempio di convivenza interculturale: la comunità Zoen
Tencarari.
La sede di Arte Migrante si trova nella parrocchia dove risiede anche la comunità
Zoen Tencarari creata da don Mario Zacchini. Quest’ultimo, prete missionario in
Tanzania per circa dieci anni, al suo ritorno in Italia ha pensato di continuare a
sperimentare e a vivere quelle esperienze di vita comunitaria trascorse in
missione. Diventato parroco della Chiesa Sant’Antonio di Savena, ha cominciato
a ospitare alcuni ragazzi “obiettori di coscienza”. Il piccolo nucleo iniziale di sei
persone, nato nel 1996, si è poi ampliato col tempo. Almeno 200 sono le persone
che hanno trascorso brevi o lunghi periodi di vita comunitaria. Sono diverse le
condizioni da cui provenivano, in cui vivono tuttora: condizioni economiche
svantaggiate; “senza fissa dimora”; “tossicodipendenti”; con persecuzioni a
carattere politico o religioso; con disagi di carattere familiare e affettivo; con
disabilità fisiche o mentali; desiderosi di un tipo di vita comunitaria e spirituale.
Sono sempre stato abituato a vivere con altri (…). Ad esempio al
seminario in via del terrapieno in cui ho vissuto con 3 palestinesi e
altri che erano in strada, poi in missione in Tanzania eravamo in
tanti tra preti, suore e laici. Rientrando in diocesi nel ‘95
proponendomi il vescovo di vivere da solo io sentivo proprio che non 88
Vincent Crapanzano, “Tuhami. Ritratto di un uomo del Marocco”, cit. , p. 169.
94
ci stava, non era mia questa cosa. Allora vidi che la possibilità era di
avere un diacono di quei ragazzi che si preparano a diventare preti e
pure accogliere gli obiettori di coscienza della Caritas, abbiamo
iniziato in 5 o 6 poi abbiamo sentito il bisogno di accogliere qualche
d’uno dagli assistenti sociali e poi con la grande migrazione dalla
dittatura di Ceauşescu con la caduta del muro di Berlino abbiamo
iniziato ad accogliere persone dall’Europa dell’Est. Allora si è
diventati 10 o 15 (…)Dobbiamo avere 3 piedi, come un tavolo ha
minimo 3 piedi che gli consentono di stare in piedi, allo stesso modo
servono alla nostra comunità: Il primo è l’”accoglienza” vicendevole
e di quant’altri giungono a noi nella vita di casa e sotto casa. Cioè
anche giovani e “senza dimora” che bussano alla nostra porta. Il
secondo è l’importanza di trovarci a “tavola” a pranzo e cena.
Questo perché ci sono dei doveri che ognuno ha, come il lavoro e
l’università, che non ci permettono di stare insieme. L’ora e mezza di
tavola è importantissima per ritrovarci del tempo insieme, confidarci,
consolarci, sfogarci, raccontarci , è fondamentale per le relazioni
reciproche. Il terzo è un briciolo di “preghiera” insieme, perché la
vita familiare porta la ricchezza del divino che l’uomo ha dentro di se
e condividere briciole di preghiere insieme di dialogo con Dio libera
e arricchisce, aiuta anche ad una confidenza maggiore.
L’accoglienza dell’”altro”, la “tavola aperta”, così come altre azioni di dialogo e
incontro interculturale promosse nella canonica, influenzano la vita e le scelte di
singoli e gruppi che orbitano attorno alla parrocchia. Famiglie che cominciano ad
aggiungere posti a tavola così come giovani e anziani che s’impegnano in attività
di volontariato con l’associazione “Albero di Cirene”. Quest’ultima, di cui la
comunità fa parte, è costituita da diversi “rami” che si occupano di varie tipologie
di persone in condizioni di vita difficili: il progetto“Non sei sola” si occupa delle
vittime di tratta; “Aurora” delle ragazze madri; “Liberi di sognare” va a incontrare
i carcerati della Dozza; il “centro d’ascolto” cerca di assistere in diversi modi
95
quelle persone che si trovano in difficoltà economiche e sociali. Inoltre,
l’accoglienza che la comunità “Zoen Tencarari” promuove non è legata a quella
“solidarietà assistenziale” di cui parlava Enrico nel capitolo precedente. Al
contrario, sono diversi i casi in cui gli “accolti” hanno avuto opportunità di trovare
lavoro per poi trasferirsi in un'altra ubicazione. Una comunità caratterizzata da un
forte “ecumenismo”, dove cattolici, musulmani, ortodossi, protestanti, atei
s’incontrano e convivono insieme in uno stesso spirito di condivisione. Don Mario
Zacchini si rifà dunque al “Concilio Vaticano II89” aderendo alle innovazioni e
alle proposte scaturite da questo documento. Tuttavia riprende anche lo spirito
delle “prime comunità cristiane”, così come alcune istanze della “teologia della
liberazione” sudamericana, in particolare quella di vivere “da poveri e con i
poveri” per la loro “liberazione”. In questo modo Don Mario ha superato gli
assunti dell’opera “Vita comune” di Bonhoeffer da cui la comunità ha ripreso in
parte lo spirito. Non si tratta solamente del “desiderio di alcuni cristiani, che
intendono seriamente il loro essere in comunità, di poter condurre per qualche
tempo, nei periodi di libertà dal lavoro, una vita comune con altri cristiani”90,
bensì, di una reale convivenza tra persone appartenenti a religioni totalmente
diverse e, in alcuni Paesi, aspramente contrapposte. Si tratta di un ecumenismo
che amplia il suo raggio d’azione dimostrando come in una comunità è possibile
una convivenza pacifica di questo genere. Si tratta di una grande “famiglia”, ed è
questa la forma di associazione collettiva che più si avvicina alla realtà costruita
89
Il “Concilio Vaticano II” si svolse in quattro sessioni tra il 1962 e il 1965. La prima sessione
durata circa un anno, fu aperta da Papa Giovanni XXIII (11 ottobre 1962). Si registrano importanti
decisioni in materia liturgica, come l’adozione delle lingue nazionali per le celebrazioni
eucaristiche, e per la partecipazione popolare alla vita delle chiese locali. Paolo VI succedette a
Papa Roncalli, e sotto la sua guida furono affrontate questioni importanti quali la costituzione
interna della chiesa, l’ecumenismo, i rapporti con l’ebraismo e la libertà religiosa. Nel 1965, a
chiusura della quarta ed ultima sessione del Vaticano II venne pubblicato il documento conclusivo
che va sotto il titolo di Gaudium et spes. In esso si auspicava un dialogo più fattivo della Chiesa
con il mondo contemporaneo.
90 Dietrich Bonhoeffer, Vita Comune, Brescia, Queriniana, 1991, p.18.
96
da Don Mario. Una realtà alternativa ai sempre più ristretti nuclei familiari diffusi
nella modernità. In questo senso sostiene Tönnies
“il prototipo di tutte le comunità è la famiglia. Nella famiglia sono
presenti i tre pilastri della comunità: il sangue, il luogo e lo spirito,
ovvero la parentela, il vicinato e l’amicizia; ma il primo è l’elemento
costitutivo”91.
Se si analizza il tipo di relazioni che si creano tra gli abitanti della “casa
canonica”, emerge come Don Mario divenga un punto di riferimento a livello
educativo e affettivo. Il parroco assume in molti casi il ruolo del “padre”, in alcuni
casi anche della “madre”, per quei membri provenienti da condizioni familiari e
affettive problematiche. Il gruppo Arte Migrante è nato in questo particolare
“habitat” culturale e umano quanto mai ideale. A tal proposito, afferma Don
Mario:
La vita di condivisione soprattutto a tavola , nell’amicizia mi fa essere
convinto che è possibile vivere insieme, abbiamo sempre detto che
possa essere ne associazione ne convento ne seminario ma una “vita
di famiglia” in cui ognuno ha i suoi obblighi e responsabilità (…) La
vita comunitaria fa vivere di più come relazioni. Abbiamo accolto
ragazzi dalla Romania dall’Albania così come dalla Bosnia, Moldavia
poi dall’africa come Tanzania, Togo, Nigeria, Tunisia, Senegal,
Marocco, Guinea conakry poi nuovi arrivi dai paesi del profondo Est
come Afganistan, Pakistan ma anche dal Sudamerica come il
Venezuela. Ma è importante anche la presenza degli italiani
soprattutto per la possibilità di chi è straniero di integrarsi nella
nostra società, quindi abbiamo deciso di avere una percentuale di 1
italiano e 2 stranieri anche per avere un equilibrio della vita insieme
(…) Abbiamo visto in questi 18 anni che la vita di insieme da culture
91
Ferdinand Tönnies, “Geist der Neuzeit”, in Leonardo Piasere, L’etnografo imperfetto, Roma-
Bari, Laterza, 2002, op. cit., p. 26.
97
diverse è possibile e con un aiuto vicendevole forte e notevole qui in
casa si sta in piedi fino a che un “figlio” ha poi capacità di stare in
piedi con le proprie forze.
Altra importante figura della comunità è Corrado, ingegnere biomedico e
coordinatore dell’associazione Operazione Colomba. Corrado, che ha 34 anni, ha
scelto di vivere in una comunità perché ciò favorisce un “innalzamento” del
potenziale umano, un progresso personale soprattutto da un punto di vista
relazionale.
Sono arrivato qui tramite la conoscenza di una amico attraverso la
struttura d’accoglienza “casa della carità”, presso cui facevo
volontariato. Ma sono arrivato perché cercavo un'altra esperienza
comunitaria. Prima ero già in un'altra comunità dove vivevo con altri
ragazzi e una famiglia, era un dimensione che volevo continuare a
vivere. In particolare la condivisione di vita, il servizio insieme e della
preghiera. Sostanzialmente è una necessità perché rispondere ad un
mio bisogno siccome tendo a chiudermi su me stesso. La comunità al
contrario mi costringe a restare aperto agli altri senza chiudermi nei
miei spazi e nei miei tempi e ciò mi rende più felice e mi fa vivere da
uomo più libero, di fatto mi faccio salvare dalla comunità. La
relazione con l’altro è ricchezza ed è anche una fatica, però tutte le
volte che faccio un bilancio vale sempre la pena fare la fatica della
relazione per la ricchezza che essa porta con se. Poi questa comunità
è speciale perché ha una dimensione molto aperta multi culturale e
multi religiosa, quindi il fatto di confrontarmi con realtà molto
diverse favorisce uno stimolo a crescere e conoscere mondi diversi da
me, a conoscere meglio come è fatto il mondo e a conoscere me
stesso. Poi queste per me sono ricerche ed esperienze che vanno al di
fuori dei confini nazionali. Perché con Operazione Colomba corpo
98
nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII è da alcuni
anni che partecipo a dei progetti per la protezione delle vittime dei
conflitti e la riconciliazione in Palestina-Israele, Albania, Colombia,
Kosovo e fra poco comincerò un esperienza in Libano.
La comunità Zoen Tencarari rappresenta dunque un alternativa agli stili di vita
proposti dalla società moderna, rispondenti, invece, ad esigenze legate al
solipsismo e all’asocialità. I giovani e le famiglie si avvicinano alla comunità con
il desiderio e la curiosità di sperimentare la vita in comune.
Sicuramente si sente che questa comunità risponde ad un grande
bisogno delle persone in particolare dei giovani ma non solo, di
vivere delle relazioni familiari al di fuori della famiglia, quindi anche
per un giovane gli permette di uscire dal nido ma di restare in una
relazione d’accoglienza. E’ un opportunità di uscire di casa, anche
dal punto di vista economico è complicato uscire e le opzione sono
spesso quelle di andare in casa con altri dove però ognuno fa la sua
vita o andare a vivere proprio da soli. Questa è un alternativa a tutto
ciò e io ho l’impressione che la gente quando passa di qui a volte si
accorge di avere questo bisogno anche se prima non se ne rendeva
conto. Perché i messaggi che arrivano dalla società o dai media non
ti fanno rendere conto di avere questo bisogno di socialità o di
relazione in generale. Però quando la gente riscopre queste relazioni
familiari e comunitarie, questo tipo di mentalità, dopo scopre che le
desiderava e continua a cercarle per cui le persone restano molto
legate alla comunità Zoen Tencarari.
Corrado, con la sua associazione, in diverse occasioni ha partecipato come ospite
agli incontri del gruppo Arte Migrante. Ha fatto parte di molte associazioni e,
nonostante non abbia conseguito studi universitari nel mondo della formazione, la
sua esperienza di vita ha gli permesso di acquisire conoscenze e capacità in
99
ambito educativo e relazionale. Si riportano di seguito alcune sue interessanti
considerazioni sul gruppo Arte Migrante:
Arte migrante sta rispondendo ad un bisogno di tante persone (…)
ovvero quello di sentirsi accolta, voluta bene e di aver delle relazioni
umane calde. In particolare per molte persone che vengono o dalla
strada o da vite molto difficili, di solitudine ed emarginazione, sono
una ricchezza enorme perche difficilmente trovano questo tipo di
occasioni nella loro vita. Trovano inoltre l’occasione di relazionarsi
alla pari con persone che non vivono il disagio del loro stato, della
strada o dell’esclusione. C’è un clima fraterno per cui si accorciano
queste distanze e oltre alla relazione c’è anche la possibilità di
esprimersi per cui le persone possono mettere in gioco i loro doni ed
essere valorizzate per le loro qualità invece di essere trattate, come
spesso succede, con distanza, disprezzo quando va male o
compatimento quando va bene. Loro possono esprimersi ma c’è anche
qualcuno che li ascolta, e che accoglie la loro espressione. Arte
Migrante crea come uno spazio, una “zona franca” dove non si fa
assistenzialismo ma ci si incontra e ci si relaziona come persone.
100
Capitolo 4
Alcune criticità.
Il percorso del gruppo informale Arte Migrante ha attraversato diversi momenti di
difficoltà sia nella gestione degli incontri che degli eventi, come emerge anche
dalle interviste riportate nel presente elaborato.
Si vuole porre ora l’attenzione su quattro problematiche.
La prima è che il gruppo è passato da venti a circa sessanta partecipanti nell’arco
di pochi mesi. Ciò ha creato problemi legati alla gestione “logistica” degli
incontri, in particolare per quanto riguarda le tempistiche e la perdita del fattore
“intensità” negli interventi dei partecipanti. Ai primi incontri partecipavano poche
persone, ma proprio per questa ragione ciascun membro era più propenso a
condividere i momenti più emblematici del suo vissuto. Alla crescita del
“numero” dei partecipanti ha corrisposto una riduzione dello “spazio d’ascolto”,
sia in termini di “quantità” che di “qualità”. Questo ha rappresento un fattore di
forte criticità, perché Arte Migrante ha posto sin dall’inizio come fulcro centrale
delle sue azioni proprio l’ambito “relazionale” e gli spazi dedicati ad esso. Irene,
di cui si è già parlato, esprime alcune importanti considerazioni:
(…) c’è stato un momento in cui c’è stata la crisi, in cui eravamo in
tanti e stavamo perdendo il rapporto con il singolo. C’era tanta gente,
eravamo in troppi e ci perdevamo nelle presentazioni. La cosa
importante è il rapporto che si crea tra le persone, qui non è
volontariato, ma nasce un rapporto più duraturo tra le persone. A me
nono interessa tanto della performance o dallo spettacolo ma delle
relazioni che nascono. Di solito quando fai volontariato invece una
101
volta finito il servizio, il rapporto con l’altro finisce li. Invece qui si
creano delle relazioni reali (…) tanti sono andati via in quel periodo
di crisi proprio perché un po’ si era perso il senso di costruire delle
relazioni più vere. Adesso è diverso, perché abbiamo un gruppo più
saldo. Per l’anno prossimo si può creare qualcosa di più costruito,
c’è un potenziale altissimo ma gli spettacoli che facciamo sono
pessimi, spesso manca il tecnico, l’audio va male, effettivamente come
performance non andiamo male, ma nell’organizzazione siamo
pessimi.
Irene, come Carlos, ha capacità critica e in diverse occasioni ha espresso proposte
e suggerimenti. Dalle considerazioni di Irene emerge anche una seconda
difficoltà: l’inadeguata organizzazione degli spettacoli destinati alla cittadinanza
di Bologna. L’aspetto della “spontaneità”, seguito da quello
dell’”improvvisazione”, sono stati spesso alla base delle azioni del gruppo. Se, da
una parte, questi fattori hanno accresciuto la “familiarità” e la genuinità degli
incontri settimanali, dall’altra, hanno inciso negativamente alla “qualità tecnica”
degli spettacoli. Per esempio, in più occasioni, si è dato importanza a performance
scelte non tanto in base alla bravura dei singoli, ma soprattutto in base
all’eccezionalità della loro origine e della loro condizione sociale. Inoltre il
gruppo Arte Migrante presenta un numero limitato di “artisti professionisti”.
Continua Irene:
L’anno prossimo sugli spettacoli dobbiamo lavorarci meglio anche
perché vale la pena organizzarne uno veramente fatto bene. Oppure
si potrebbe magari creare un gruppo collaterale ad arte migrante che
si occupa degli eventi. Arte Migrante è tipo un “polipetto”, la testa è
il mercoledì sera, e poi ci sono tutti i tentacolini come il gruppo delle
messe, le uscite serali, l’animazione nei dormitori. Poi Suleyman che
vuole fare per esempio il cortometraggio.
102
Una terza questione riguarda, invece, le modalità di gestione del momento
iniziatico delle “presentazioni”. Arte Migrante ha trovato forti difficoltà a variare
le tecniche di presentazione collettiva. Dai primi incontri, in cui si chiedeva a ogni
partecipante di condividere nome, cognome e qualche altro dato anagrafico, il
gruppo è passato ad alternare giochi interattivi di presentazione; tuttavia, non si è
potuto evitare alcuni momenti di eccessiva “ripetitività”. Carlos afferma:
(…) la presentazione di tutte le persone, comincia a diventare un
tormentone che perde, fa perdere punti a quella cosa essenziale che
vuol dire crescere. Dobbiamo cercare per esempio di far presentare
solo i nuovi che arrivano. Non dobbiamo tornare a ripetere, per
esempio a Milano il “Rocky Horror Picture Show” ha coinvolto gente
per trenta anni, perché cambiava sempre modalità di espressione
artistica. Voi dovete evolvervi cambiare. Ora c’è anche febbre di
incontrarvi, c’è gente che ha passione, ma non dovete rischiare il
picco di caduta. Dovete trovare nuove modalità d’incontro sempre.
Variare le tecniche permetterebbe una maggior dinamicità delle attività svolte dal
gruppo. Qui entra in gioco il fattore “creatività” che Arte Migrante ha sempre
posto al centro del suo agire, fattore che ora va potenziato. Anche Bogdan, di cui
si è parlati in precedenza, ha importanti considerazioni per questo argomento:
Tanti si sono un po’ stufati di vedere sempre le stesse modalità
d’incontro. Però dobbiamo cercare di tenere l’essenziale e di però
anche di cambiare qualcosa ad ogni incontro del Mercoledì e
vediamo che tutto è un cambiamento e che le cose sono sempre nuove.
Così diamo più motivazioni agli altri per venire. Perché cosi chi
pensa di annoiarsi ha invece sempre una motivazione. Bisogna
cercare di aiutare tutti a trovare le motivazioni per vivere e
partecipare Arte Migrante.
La quarta e ultima criticità riguarda un’attività artistica che Arte Migrante ha
realizzato presso alcune parrocchie di Bologna. Una piccola rappresentanza di
103
musicisti e cantanti si è organizzata per “animare” le “celebrazioni eucaristiche”
delle chiese, affiancando la vendita di un cd musicale a “offerta libera”. I proventi
del cd sono stati distribuiti tra i “senza fissa dimora” che hanno partecipato al
progetto; tuttavia, questo tipo di attività ha creato un “dislivello sociale” tra i
musicisti “benestanti” del gruppo e i “senza dimora”. Il gruppo Arte Migrante ha
agito in modo errato, perché ha permesso che emergessero delle differenze e delle
disuguaglianze tra i partecipanti. Anna, studentessa di Bologna esterna al gruppo,
ha assistito a una messa “animata” nella sua parrocchia e ha espresso interessanti
considerazioni a riguardo:
(…) la critica che vi faccio è che forse presi dalla buona volontà
volevate cercare di rispondere anche alle emergenze materiali delle
persone che incontrate tornando ad avere un ruolo non soltanto di
condivisione e partecipazione di tutti allo stesso piano ma “tu sei
povero e a te verrà dato”. Mi riferisco a quando avete distribuito i
soldi soltanto a loro fuori dalla messa. Se è vero che volete mantenere
questo importante stile di condivisione, di stare alla pari ad uguale
dignità, questo tipo di attività invece crea disuguaglianza. Crea un
“io sono volontario tu sei utente”, anche io mi chiedo a volte
guardando la loro difficoltà economica se io non possa fare qualcosa
(…) se volete fare una cosa tutti insieme animando le messe però che
ognuno si prenda la sua parte o magari i soldi li utilizzate per le
vostre attività. Se avete scelto questo stile andate a fondo in questo.
104
Conclusioni.
Con il presente elaborato ho cercato di proporre un’indagine socio-antropologica,
supportata da una ricerca etnografica, sul gruppo Arte Migrante mettendone in
luce l’obiettivo fondamentale, che esso si è preposto sin dalla sua costituzione:
favorire l’istaurarsi di rapporti umani tra persone di diverse culture e l’inclusione
sociale di persone con minori opportunità.
Nel passaggio da Latina a Bologna, il gruppo ha subito un’evoluzione inaspettata.
Non avrei mai pensato che, dalla realtà pontina in cui si organizzavano
esclusivamente degli spettacoli, si passasse a organizzare degli incontri
settimanali a scadenza fissa.
Il gruppo bolognese ha raggiunto in poco tempo dimensioni numeriche
inaspettate. Dai primi incontri, in cui partecipavano venti persone, si è passati in
pochi mesi a oltre sessanta partecipanti. A questo “successo”, di tipo
“quantitativo”, si è affiancata in modo parallelo anche una crescita “qualitativa”:
dei sessanta partecipanti circa la metà sono “senza dimora” e quasi due terzi sono
di nazionalità diverse da quella italiana. Questo dato rappresenta, da un lato, una
ricchezza in termini umani e culturali, dall’altro, un traguardo rispetto agli scopi
per i quali il gruppo si è costituito: coinvolgere persone provenienti da varie
nazionalità e condizioni sociali in attività artistiche e culturali.
Inoltre hanno partecipato alle attività di Arte Migrante diversi artisti
professionisti. Si può citare ad esempio la presenza di musicisti provenienti dal
Conservatorio di Bologna, di attori di alcune compagnie teatrali locali, truccatori
cinematografici così come insegnanti di “danza africana”.
La “spontaneità” è stata la vera ricchezza del gruppo. Se, da un lato, il gruppo ha
messo in atto esibizioni tecnicamente non eccellenti, dall’altro, la fedeltà al
principio della “spontaneità” ha permesso il coinvolgimento di persone
105
sconosciute rivelatesi inaspettatamente dei professionisti.
Altro traguardo raggiunto dal gruppo è stato il coinvolgimento di associazioni
bolognesi, circa venti, provenienti da esperienze e finalità comuni. Arte Migrante,
in questo modo, ha favorito la realizzazione di alcune iniziative di rete tra
associazioni.
Due sono i concetti che più di altri vorrei porre in risalto: “dimensione
d’incanto”92 e “risonanza”93. Arte Migrante costruisce uno “spazio d’ascolto”, una
dimensione “altra” in cui le persone si sentono accolte, ascoltate, prese in
considerazione, protagoniste. Tale contesto giova soprattutto a coloro che
provengono da condizioni di abbandono ed esclusione sociale. La “dimensione
d’incanto” permette e incoraggia la relazione tra italiani e stranieri, senza dimora
e benestanti che, allo stesso livello, possono essere protagonisti del
“palcoscenico” di Arte Mitrante acquisendo lo status di “artista”. L’incontro-
scontro con “storie di vita” e performance artistiche “inconsuete” crea momenti di
forte “risonanza”. In questo senso, la condivisione di esperienze di vita, tanto
eccezionali quanto esemplari, permette a ogni partecipante di acquisire ricchezza
sia da un punto di vista umano sia culturale. La “risonanza”, spesso derivata
dall’’eccezionalità degli scambi relazionali, ha favorito sia l’assiduità dei
partecipanti sia una crescita del gruppo a livello numerico.
Perciò il gruppo valorizza un approccio di tipo “interculturale”, che incentiva
occasioni di confronto, scambio, apertura, reciprocità tra persone di diversa
nazionalità e di condizioni sociali diverse. Obiettivi che si concretizzano
attraverso l’emergere e l’incrociarsi di “storie di vita” e situazioni “eccezionali”,
messe a confronto con il vissuto di un cittadino italiano benestante.
Luca Jourdan in “Generazione Kalashnikov”, facendo riferimento alle 92
Aline Henrion , “L’énigme du don de sang”, in Annamaria Fantauzzi, Antropologia della
donazione, op.cit., p. 74.
93 Unni Wikan, “Beyond the words. The power of resonance”, in Leonardo Piasere, L’etnografo
imperfetto, op. cit., p. 148.
106
conseguenze delle molteplici guerre nella “regione dei grandi laghi”94, parla di
“perdita del senso”, “vuoto culturale” e diffusione di una “cultura della
violenza”95.
Allo stesso modo, pur vivendo in un territorio come quello italiano in cui non c’è
la guerra, anche migranti e “senza dimora” smarriscono il “senso” della loro vita.
In questo caso il motivo è legato alla condizione di marginalità sociale ed
economica in cui essi vivono. L’assenza di adeguati servizi rivolti alle persone,
che vivono in condizioni di marginalità sociale e degrado materiale, produce la
“guerra tra poveri”, in altre parole la lotta per la sopravvivenza.
Detto ciò, occorre riflettere sul fatto che non c’è bisogno di spostarsi nel
continente africano per trovare povertà e oppressione, perché spesso è possibile
trovarle davanti alla porta di casa propria.
Inoltre, l’indifferenza” delle persone benestanti può essere concepita come un
vero e proprio “atto di violenza”. Mentre le attività di Arte Migrante, basate
sull’accoglienza reciproca e sulla relazione, salvano anche coloro che sono
benestanti da quegli atteggiamenti di feroce individualismo e solipsismo
incentivati nella società occidentale.
Voglio porre l’accento su un altro elemento chiave di Arte Migrante: l’importanza
dell’approccio antropologico per le attività del gruppo. Quest’ultimo ha favorito la
creazione di rapporti interculturali. Il gruppo, in questo senso, si è impegnato nel
creare occasioni d’intersoggettività e relazioni tra gruppi svantaggiati, per cercare
di restituire loro quel “senso” e quella “dignità” che avevano perso.
Perciò, Arte Migrante porta avanti l’”approccio interculturale” servendosi
94
La Repubblica Democratica del Congo è coinvolta dal 1996 in una delle più grandi tragedie della
storia, che ha provocato milioni di morti.
95 Luca Jourdan, Generazione Kalashnikov, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 24-25.
107
dell’”arte”, della “creatività culturale” e della “festa”, elementi universali scaturiti
dalla “produttività infinita” del linguaggio umano. Evitando il rischio di
“musealizzare” le performance artistiche, cioè di mettere in atto prestazioni da
esporre come se fossero “oggetti da museo”, il gruppo cerca di coinvolgere la
partecipazione di tutti i membri alle diverse attività realizzate.
Tuttavia, se si parte dal presupposto che la “creatività culturale” è quella capacità,
che ciascun individuo possiede, di creare nuove forme espressive attraverso le
pratiche culturali esistenti, a conclusione del presente elaborato, si giunge a un
altro importante fine del gruppo Arte Migrante: il “meticciato”. L’intera storia
dell’uomo è frutto di migrazioni, incontri-scontri tra popoli, nazioni, culture in
una continua ridefinizione delle proprie identità. Ciò vuol dire andare oltre
l’”approccio interculturale” di cui si è parlato in precedenza.
Goramasca nel definire il “meticciato” parla di
“un modo nuovo di intendere l’inter-culturalità: non più come uno
spazio vuoto e asettico, costruito artificialmente per tentare una
mediazione tra due universi culturali supposti incomunicabili, ma
come l’evento drammatico di un incontro trasformante di due identità
aperte, in costante ricerca l’una dell’altra”96.
Dunque, il gruppo Arte Migrante, attraverso le sue attività, cerca la realizzazione
di “incontri trasformanti” che incoraggino la diffusione di una mentalità
cosmopolita e di una realtà miscigenada97, sia all’interno che all’esterno del
gruppo. Promuove la costruzione d’identità aperte, in costante ricerca reciproca,
identità che trovino nella diversità un valore aggiunto alla propria vita. Favorisce 96
Paolo Goramasca “Noi e gli altri nella modernità senza confini” in Donatella Bramanti (a cura
di), Generare Luoghi di integrazione. Modelli di Buone Pratiche in Italia e all'Estero, Franco Angeli
, Milano, 2011, p. 27.
97 Termine chiave, corrispondente a quello di “mescolamento”, coniato dal sociologo Freyre per
giustificare la nuova società post-coloniale del Brasile caratterizzata dal “meticciato”. Cfr.
Gilberto Freyre, “Padroni e schiavi”, in Valeria Ribeiro Corossacz, Razzismo, meticciato,
democrazia razziale. Le politiche della razza in Brasile, Rubbettino Editore, 2005, p. 43.
108
il riscatto sociale di ogni partecipante attraverso l’arte e il riconoscimento, seppur
simbolico, di tutti come “artisti”. Ritrova nell’incontro con l’”altro” il fine
privilegiato attraverso il quale ognuno scopre e migliora se stesso.
109
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Appendice.
Appendice A: documentazione fotografica.
Il gruppo.
Gli incontri nella sala Teatrino.
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Appendice B: Interviste integrali ( in ordine alfabetico).
Intervista ad Abram, responsabile del gruppo Eritrean Youth Solidarity for National Salvation e membro di Arte Migrante.
Paese di provenienza: Eritrea.
Data: 10 ottobre 2013
Vieni dall’Eritrea, un Paese che presenta una situazione politica controversa.
Sono nato e cresciuto in Eritrea ho fatto la scuola elementare e media vicino casa, la famiglia non eravamo poveri stavamo bene fino a che nel ‘98 c’è stata la guerra con l’Etiopia per il confine. La vita è cambiata per tutti gli eritrei, lo stato ha iniziato a costringete a tutti a fare il militare, e non avevi tempo limitato ma illimitato, inizi da giovane e finisci a 60 anni, anche l’economia dell’eritrea era sempre più instabile. Dopo il ‘91 è finito la guerra e abbiamo preso indipendenza, fino al ‘97 eravamo liberi con un governo tecnico , quello di Isaias che poi si è trasformato in una dittatura. Abbiamo iniziato a comprendere che il dittatore stava diventando un dittatore duro. Lui ha chiuso l’università a aperto dei collegi ed erano militari e chiusi. I militari ti controllavano e ti costringevano a fare dei servizi. I collegi ti manipolavano prima poi dovevi andare a 17 anni a fare i militare. Ma una volta che vai fai maturità poi vai nei collegi ad Asmara e non torni a casa, una volta che parti non torni più. Quelli poi che superano la maturità sono pochissimi, il 4%, gli altri fanno il militare a vita. Quindi ho preso la maturità sono andato nel collegio ma era militare non mi piaceva, allora ho visto che non c’era nulla di buono per la vita e sono scappato.
Dove sei andato?
Dall’Eritrea sono arrivato oltre il confine del Sudan dopo una notte di camminata. Siamo arrivati in un campo di rifugiati e abbiamo incontrato alcuni amici eritrei. Siamo stati li per 1 mese per avere un permesso ma era solo per girare li nel territorio, siamo andati in autostop a Khartoum. Non avevo intenzione di vivere in Sudan perché anche li ce’è la dittatura da 33 anni ma era meno dura era più libera. Il dittatore però era amico di Isaias quindi se vuole ti porta a casa e non eri sicuri lì quindi abbiamo pensato di scappare in America o in Europa. In euro ci volevano 13000 euro. La cosa che costava di meno era il deserto 2500 euro, rischi la vita ma costa meno. Partiti da Khartoum, poi siamo andati in Libia col pickup con i trafficanti insieme ad altre 56 persone. Dopo 14 giorni di viaggio terribili con la fame il caldo, senz’acqua. All’inizio avevamo un po’ di cibo, di biscotti e d’acqua. Ma poi è finito tutto è stato terribile. Dopo quando siamo arrivati al confine della Libia con quella macchina non puoi entrare in città allora i trafficanti sono scappati. Io non avevo soldi per il taxi, con 5 amici siamo rimasti lì. Poi abbiamo trovato un camion e gli abbiamo detto che volevamo andare a Tripoli. Lo abbiamo pagato 150 euro allora siamo andati. Ma a Tripoli la polizia ci ha preso per la strada e sono stato in galera per 1 mese in un buco è stato orribile. Era durante il “ramadan” i poliziotti ci hanno dato il cibo ma era un buco non si vedeva niente e abbiamo lottato ci siamo menati per mangiare, uno di noi è morto perché poi sono arrivati
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le guardie e hanno pestato alcuni di noi. Poi abbiamo spiegato noi al capo cosa era successo, siamo rientrati in carcere. Ogni tanto a me mi chiamavano le guardie per aiutarli a fare dei servizi, per tradurre, per fare da mediatore. Poi sono andato in un'altra prigione a lavorare, sono stato lì una giornata e sono scappato. Sono stato in deserto di notte da solo. Il giorno dopo ho trovato dei sudanesi, sono stati gentili e sono stato a casa loro e mi hanno portato a Tripoli. In Libia ho trovato dei miei amici e ho trovato da affittare una bici. Abbiamo organizzato poi un viaggio verso l’Italia pagando 1200 euro ma il primo viaggio non è andato bene, il gommone si è spaccato in due. Siamo tornati insieme a nuoto, alcune donne purtroppo erano rimaste li, probabilmente alcune di loro sono morte. Allora siamo tornati a casa a Tripoli nella casa dove avevamo preso affitto. Ho chiamato i miei genitori e gli ho chiesto di darmi un ultima chance e mi hanno inviato i soldi. Poi siamo ripartiti con il gommone pregando molto. Sfortunatamente dopo due giorni il motore del gommone si è spento. Ho pensato che “eravamo finiti”. Però per fortuna eravamo già in territorio italiano e abbiamo chiesto aiuto a Lampedusa tramite un telefono satellitare che ci eravamo procurati prima del viaggio. Ci hanno caricato sull’elicottero. Siamo arrivati a Lampedusa, siamo stati nel Cie dove ci hanno trattati come in carcere. Quei centri sono praticamente delle prigioni. Mangi, bevi ma non puoi uscire, sei chiuso in un posto stretto.
Come hai viaggiato da Lampedusa fino a Bologna?
Dal Cie siamo usciti e ci siamo trasferiti a Caltanissetta. In Sicilia mi hanno riconosciuto un permesso umanitario. Abbiamo deciso di prendere il treno in stazione senza soldi. Il controllore è arrivato ma non ha detto niente e ci ha permesso di arrivare al Nord Italia. Ci ha fatti scendere a Bologna. A quel punto ho iniziato a vivere qui. La prima volta ho dormito alla stazione, almeno per una settimana ho dormito fuori. Poi ho conosciuto una signora eritrea che mi ha consigliato di andare all’estero. Avevo alcuni miei amici in Svizzera mi hanno mandato 150 euro per andare da loro. Non conoscevo l’italiano ma mi hanno spiegato che dovevo prendere il “treno di notte” diretto a Ginevra. Questa parola l’ho ripetuta per tante volte e ho chiesto ai controllori della stazione. Sono arrivato a Ginevra e sono stato in un centro d’accoglienza. In quel centro mi hanno trattato benissimo, ti danno tutto, ognuno ha il suo appartamento. Ma poi hanno scoperto che avevo i documenti in Italia e non potevo avere documenti in 2 Paesi e mi hanno rimandato a Bologna. Ho conosciuto una signora che si chiamava Francesca che mi ha dato un lavoro. Tramite lei ho lavorato alcuni mesi in montagna poi ho iniziato un piccolo lavoro in cooperativa. Ho conosciuto don Giovanni Nicolini che mi ha dato una sistemazione e ora faccio agraria all’università da un anno.
Hai partecipato spesso agli incontri di Arte Migrante sia come membro dell’associazione EYSN sia come singolo. Come hai saputo del nostro gruppo?
Io ho conosciuto Vanya, la giocoliera bulgara del gruppo. Ci siamo incontrati in biblioteca e mi ha raccontato di Arte Migrante e delle attività che fate. La prima sera che sono venuto mi è piaciuto tanto perché ho incontrato molti italiani ma semplici accoglienti e mi sono trovato benissimo anche se erano pochi stranieri. Il gruppo mi ha coinvolto molto, ho pensato tutta la settimana a quella prima serata. Mi sono trovato molto bene perché senza andare da diverse parti riesci comunque a conoscere tutto il mondo tramite le persone o tramite la cultura delle persone. E’ un centro di studio, un centro di ricerca dove i libri sono le persone vive. E’ un opportunità molto grossa. Inoltre ho condiviso con Arte Migrante le iniziative con la mia associazione Eysns. Per
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qualsiasi cosa che fai è un appoggio incredibile, ti senti come una famiglia. Ho conosciuto molte persone ,molti amici. C’è sempre molto allegra e la serata è sempre interessante con musica poesia racconti. Poi ho conosciuto Vittoria.
So che sei molto informato riguardo le politiche migratorie. In Arte Migrante siamo sempre stati carenti sotto questo punto di vista ma il tuo contributo è stato prezioso.
Io ho fatto parte del gruppo politico di Arte Migrante. Posso dire che a livello politico non abbiamo fatto gran che perché ancora dobbiamo capire chi è interessato e che può essere coinvolto. Il prossimo anno è importante far nascere un gruppo politico più concreto. La maggioranza degli straniere hanno problemi a livello politico, ci sono un sacco di problemi che capitano ad uno straniero. Non conoscendo la lingua, la cultura, la legge sarebbe importante un gruppo che aiuti a sensibilizzare e a far conoscere ai migranti le varie leggi e metterli in contatto con le scuole di italiano e con gli sportelli.
C’è una visione negativa degli stranieri in Italia nella parte politica. Questa iniziativa è bella perche tramite l’arte fai vedere che ci sono delle belle cose. Se non sei consapevole però dei tuoi diritti o se non hai sistemato con i documenti però è difficile per un migrante sopravvivere. E’ un campo da crescere e da studiare. Io sono contento perché ho conosciuto tre quattro persone che mi hanno dato un appoggio, ce n’è gente disponibile gli avvocati di strada e altre realtà associative. Uno straniero può sbagliare una piccola legge, bisogna dare una bella accoglienza e un bell’aiuto ai migranti anche a livello politico.
Intervista ad Alessandro, ingegnere gestionale, uno dei fondatori e coordinatori del gruppo Arte Migrante.
Paese di provenienza : Italia.
Data: 18 Ottobre 2013.
Con te ho parlato per la prima volta dell’idea progettuale di Arte Migrante e della possibilità di realizzarlo insieme a Bologna. Che ne pensi di questa realtà che abbiamo costruito insieme?
Arte Migrante per me è semplicemente la conferma che, in un mondo pieno di egoismo e indifferenza, possa esistere la possibilità di sognare, immaginare e realizzare qualcosa che possa davvero cambiare le cose. La magia di questo progetto risiede nella spontaneità nell’approccio con gli ultimi della società, e in come il modo di organizzare le attività sia condiviso da tutti e molto efficace. Inizialmente sembrava un’utopia coinvolgere decine e decina di clochard ad un’iniziativa del genere, convincerli a recarsi in un posto e sedersi ad un tavolo per conoscersi e raccontarsi, per leggere delle poesie o cantare delle canzoni, in generale per mettersi in gioco. Invece arrivavano ogni settimana sempre di più, sempre più contenti e motivati e con delle sorprese nuove, con delle performance artistiche da mostrare a dei volti stupiti e increduli, di noi organizzatori, che ci accorgevamo di aver messo su qualcosa di grandioso, ben aldilà delle nostre aspettative.
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L’aspetto più interessante è, a mio modo di vedere, la coesistenza di un interesse forte da parte di tutte le componenti del gruppo all’incontro e al confronto. Sia gli studenti, che i migranti, i senza tetto, i giovani trovano negli incontro di Arte Migrante occasione di crescita e di formazione, un interesse forte che è dato da una spontaneità nel dare in cambio di un enorme ricevere, sproporzionato a quell’apparentemente “poco” che si da.
Tutto questo può stare in piedi perché le parti di cui sopra si mescolano e mimetizzano perfettamente tra loro, rendendo quasi impossibile una distinzione durante lo svolgimento delle serate. La dimensione dell’incontro è del tutto orizzontale, lo scambio è equo e ognuno vale per quello che è, per un paio d’ore non contano differenze sociali, etniche o di genere, conta solo quello che si è, quello che si sa fare e quello che non si sa fare. Questo è il senso della parola cultura nel mio modo di vedere la vita. Questo è Arte Migrante.
Intervista ad Alper, studente “erasmus” di pianoforte del conservatorio di Bologna. Membro del gruppo Arte Migrante.
Paese di provenienza: Turchia.
Data: 25 giugno 2013.
Tu sei uno studente di “erasmus” a Bologna. Cosa pensi dell’Italia?
Studio piano al conservatorio di Istanbul. Sono venuto qui per fare l’ “erasmus”. Avevo due opzioni possibili ma ho scelto l’Italia perché mi piaceva molto non solo come Paese in generale, ma anche per l’importante tradizione musicale classica che avete. Inoltre è un Paese che culturalmente è molto simile al nostro. In italia come in altri posti d’Europa c’è l’idea che le persone dei Paesi islamici sono molto differenti, e quindi c’è molta diffidenza verso di noi. Questo non è vero perché la Turchia è secolarizzata e molto più laicista di ciò che si pensa. In Europa le persone hanno molti pregiudizi verso i Turchi, per via degli ottomani, ma anche per via dell’Islam. Ma ciò non è esatto perché la Turchia come ho detto è secolarizzata da tempo, perché da noi prima che in molti altri Paesi, anche antecedentemente all’Italia, la donna poteva votare. Inoltre non tutte portano il burqa, tutte le donne della mia famiglia, mia mamma ,mia nonna, non usano vestiti tradizionali islamici.
Pensi che le persone del tuo Paese abbiano difficoltà ad integrarsi in Italia?
L’integrazione degli immigrati turchi in Italia non ha senso perché noi siamo molto simili, anche fisicamente lo siamo, oltre che culturalmente, forse per l’influenza del Mediterraneo. Gli italiani però sono molto disorganizzati e molto in ritardo. In Turchia invece siamo generalmente più organizzati. Però quando sono arrivato in Italia non mi sono sentito diverso dalle altre persone. Qui c’è molto razzismo, perché avete molti pregiudizi verso gli islamici. Anche i media danno un immagine davvero esagerata e falsa di ciò che è la nostra cultura. Io invece vengo da una città e ho uno stile di vita simile al vostro. Voi cattolici vi sentite diversi da noi. In Turchia il 90% sono islamici ma è una Paese secolarizzato ormai.
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Intervista ad Anna, tirocinante dell’associazione Piazza Grande, studentessa di Scienze della Formazione all’ Università “Alma Mater” di Bologna.
Paese di provenienza: Italia.
Data: 30 giugno 2013.
Te hai avuto modo di assistere ad una messa animata nella tua parrocchia di San Vitale Agricola.
Secondo me Arte Migrante ha un grandissimo punto di forza che non vuole offrire emergenze pratiche alle persone tipo dormitorio, mensa che non rispondono alle esigenze a lungo termine, il progetto dona un luogo dove si costruisce arte. Parlare tutti alla pari mentre di solito i giovani sono al loro posto lontani, se stanno vicino ai senza dimora è solo quando fanno i volontari, mentre nel vostro gruppo è diverso.
Dalla mia esperienza che ho fatto come tirocinio con l’associazione Piazza Grande io quando ho iniziato il tirocinio avevo la logica di “sono operatore e posso dare una mano” ma nel loro approccio anche c’è un tentativo di mettersi alla pari. In Piazza Grande anche se io sono operatore non è giusto avere il diritto di giudicare o proprio perche sono operatore devo dirti come vivere, invece anche li si crea un rapporto in cui una persona ritrova la propria dignità. Ciò non significa che sia perfettamente paritario come rapporto perché chi è operatore resta operatore e non è totalmente amico. Però questo approccio che permette all’altro di esprimersi anche al di là dei propri bisogni è bellissimo per questo è importante quello che fate il mercoledì.
Dopo la fine della messa ci hai rivolto interessanti considerazioni e critiche rispetto alla nostra attività.
Il “neo” che avete, la critica che vi faccio è che forse presi dalla buona volontà volevate cercare di rispondere anche alle emergenze materiali delle persone che incontrate tornando ad avere un ruolo non soltanto di condivisione e partecipazione di tutti allo stesso piano ma “tu sei povero e a te verrà dato”. Mi riferisco a quando avete distribuito i soldi soltanto a loro fuori dalla messa . Proprio se volete mantenere questo importante stile di condivisione, di stare alla pari ad uguale dignità, questo crea disuguaglianza. Crea un “io sono volontario tu sei utente”, anche io mi chiedo a volte guardando la loro difficoltà economica se io non possa fare qualcosa.
Perché li da voi puoi trovare quello, lo stare al livello degli altri, abbattere le distanze e non lo puoi trovare da nessuna altra parte. Inoltre se volete fare una cosa tutti insieme animando le messe però che ognuno si prenda la tua parte o magari i soldi li utilizzate per le vostre attività. Se avete scelto questo stile andate a fondo in questo.
Altra questione è che se tu dai loro dei soldi non sei sicuro poi che li spendano in modo giusto.
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Io ho fatto una tesi di appartamenti di senza dimora aperti da piazza grande insieme a CSM. Queste persone vengono seguite settimanalmente o bi settimanalmente da un o psicologo e da infermieri e da un educatore. Ci sono dinamiche molto complesse ma si cerca di arginare questo tipo di fallimenti, ci sono magari sofferenze, scatti di rabbia, non collaborazione. Se è un progetto per aiutare una persona e non farla sentire di nuovo una merda, deve essere ben fatto.
La pecca di questo progetto di Piazza Grande è che sono appartamenti con categorie. Ci sono dentro senza dimora e malati psichiatrici insieme, questa è una pecca perché quando uno entra si sente stigmatizzato.
Intervista a Beatrice, amministratore pubblico della provincia di Bologna, membro del gruppo Arte Migrante.
Paese di provenienza: Italia.
Data: 22 maggio 2013.
Come hai conosciuto Arte Migrante?
Ho incontrato "Arte migrante" casualmente: ero in parrocchia per altro impegno e il parroco mi ha invitato a mettere la testa dentro a un salone strapieno di giovani, ma poi guardando bene non solo, intenti in quel momento a presentarsi ( li' ho colto le svariate provenienze), non limitandosi al nome ma aggiungendo - dopo suggerimento di Tommaso - di dire almeno una cosa bella che a ciascuno era capitata in giornata.
Hai partecipato a tanti incontri. Cosa ti ha colpito?
Al l'impronta mi hanno colpito: la evidente soddisfazione di ciascuno di essere li, di raccontarsi con grande semplicità, di ascoltarsi con interesse vero, di riuscire a dire di se' qualcosa di buono, non come vanto, ma come disponibilità a condividerlo se era utile, la naturalezza della "mescolanza" non solo di provenienza, ma anche di situazione di vita ( qualche grossa fatica esistenziale era evidente), di porsi insomma in atteggiamento di speranza. Mi è sembrato assolutamente normale tornare, anzi ne avevo voglia ( dirò dopo perché ). Per scoprire che molti volti si erano aggiunti, per la straordinaria capacità giovanile di coinvolgere altri, che oltre ad avere l'obiettivo puntuale di preparare una festa ravvicinata, trovavano nello stare insieme "gratuitamente" il senso di quell'appuntamento del mercoledì. Mi sembra straordinario il carisma tuo (e di altri ).
Mi sembra importantissimo- per quello che ho capito- questo gruppo di Arte migrante, prima di tutto per ciò che fa vivere: la prima cosa preziosa e' l'aver creato un luogo, che fa tessuto, fa incontrare persone con gusto, che rende "più forti" perché ci si percepisce insieme.
Mi piace anche che sia così poco "a quadretti", nel senso di non far prevalere uno schema di funzionamento dell'incontro, ma di lasciarsi anche condurre da quello che succede e si ascolta sera
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per sera. E' un po' presto per me dire qualcosa di più : voglio scommettere sulla differenza tra casualità del ritrovarsi e vero ascolto delle domande/proposte delle persone.
Che ruolo ha per te l’arte?
Riguardo all'orientamento "arte"sospendo il giudizio. Ho partecipato solo a un pezzo della festa all'Orfeonica e quello che ho visto mi è sembrato un po' rudimentale . L'arte ha delle esigenze oggettive per essere chiamata tale. Non importa che sia povera o ricca, deve essere arte. Mi chiedo se le istituzioni potessero dare una mano nell'incanalarsi dentro a prospettive di sviluppo, naturalmente "giurando" di non perdere l'animo originario e la freschezza dell'esperienza.
Nonostante la tua responsabilità pubblica ti sei messa in gioco allo stesso livello degli altri, hai tagliato i panini, partecipato all’organizzazione dello spettacolo.
Riguardo alla mia presenza li, oltre a notare il divario di età prevalente tra me e i partecipanti, devo dire che fa bene a me. Pur avendo sempre cercato dentro alla mia responsabilità pubblica di mantenere un contatto solido con il "reale", il contatto con Arte migrante mi ha dato un'ulteriore percezione della necessità di stare "dentro" alle cose, dentro alla vita delle persone, come condizione indispensabile per servire la comunità, qualunque sia la forma del servizio. La personale visione del mondo viene costruita anche dalle frequentazioni.
E' interessante stare anche perché vengono idee... Continua a frullarmi per la testa per esempio il suggerimento di un "senza fissa dimora" che una sera ha proposto di adottare a ore un barbone, evidenziando esigenze che da soli non riescono ad essere soddisfatte. Ho capito perfettamente, quando l'ha detto, perché una mia esperienza medica di qualche giorno prima non avrebbe potuto effettuarsi senza un accompagnatore.
Dalla giovinezza ho in memoria il titolo di un libro di Arturo Paoli ( "grande" prete che si avvia a compiere i 101 anni) " Camminando s'apre cammino": questo titolo mi sembra un'importante indicazione che puo' dare una buona impostazione per una vita onesta, disponibile e ricca di sorprese... Perciò staremo a vedere
Sono riconoscente per questo nuovo, imprevedibile e sorprendente incontro....
Intervista a Bogdan, manovale, membro del coordinamento di Arte Migrante.
Paese di provenienza: Romania.
Data: 27 giugno 2013.
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Qual è il tuo Paese di origine?
Sono nato in Romania in una città vicino alla capitale e di là ho cominciato a spostarmi con i miei genitori un po’ per tutta la Romania. Dieci anni in una città poi in un'altra. Sempre abbiamo iniziato sempre siamo stati all’inizio con tutto. Poi ci siamo fermati in campagna, dove mi sono trovato meglio che in città, dove ho fatto la scuola. Però siccome non sono stato una persona molto ricca di famiglia, allora non sono riuscito ad andare al liceo. Quando ho finito la scuola ho finito con la nota più alta di tutta la scuola. La famiglia non poteva permettersi di farmi studiare cosi ho cominciato di lavorare di brutto e pensare di fare soldi in un altro modo. Avevo il sogno di fare sport, di fare pugilato! Ho fatto il servizio militare solo per questo, per fare sport. Però quando ho fatto il servizio militare ho visto che non potevo fare carriera perché non avevo il diploma. I soldi sono iniziati ad andare in giù, cosi ho cominciato il gioco d’azzardo e mi hanno dato speranza di realizzare i sogni in un giorno. In un giorno se vinco, pensavo, posso realizzare i miei sogni in pochissimo tempo. Piano piano si sono allontanati tutti di me, gli amici, la famiglia. Io avevo un comportamento strano, malato con la testa, nessuno si fidava più di me anche se dicevo la verità non contava nulla. Sono andato in Grecia a lavorare a 19 anni, prima per 6 mesi, poi a casa, poi ancora 4 mesi.
Anche in Grecia eri dipendente?
Continuavo in tutti i modi possibile il gioco di azzardo, ho fatto di tutti i lavori, da muratore, a raccoglitore di pomodori, uva, arance. Lavoravo come un matto sempre per i soldi, velocissimo, tanto e veloce per realizzare i miei sogni. Non mi interessava di rovinarmi il corpo, la salute, utilizzavo sempre il mio corpo al massimo finché non sfinivo. Perché perdevo anche tante soldi alle macchinette, quindi avevo sempre bisogno di tanti soldi. Ero già fidanzato in Grecia.
Sono stato un viaggiatore da quando sono nato, ho viaggiato senza volere viaggiare, tornato con un po’ di soldi ho cominciato a fare un investimento. Volevo aprire una ditta come muratore in Romania, l’ho quasi aperta poi mi sono sposato con la mia ragazza dopo 4 anni che eravamo insieme. Poi sempre ho cominciato a lavorare di più , di più, ho aperto un negozio un minimarket come quelli dei pakistani. Lavoravo anche come muratore, mi sono iscritto al liceo per finire la scuola superiore. Ho fatto la scuola per patente tutto subito. Volevo cercare di fare una vita intera in poco tempo, sposarmi lavorare, ho fatto anche un bimbo e così restando senza soldi ho perso tutti. Il mio negozio però è fallito con la crisi economica europea, inoltre io avevo poco tempo e poca esperienza. Anche il lavoro di muratore andava male, oltre ad un sacco di tempo e soldi persi con il gioco d’azzardo, notti intere. Poi mi sono divorziato, ho cominciato a litigarmi a casa e con gli amici, sono quasi impazzito.
Finché un amico non mi fa un offerta a venire a lavorare in Italia e mi diceva che potevo guadagnare anche un sacco di soldi, invece qui mi sono stufato di essere quello che lavora 24 ore su 24. Io lavoravo a Brescia e riuscivo a guadagnare qualcosina come muratore però sempre restavo in prestito. Dormivo poco e non riuscivo mai ad avere soldi in tasca. E di non riuscire mai ad avere una conclusione. Ho deciso di trovare fortuna da un'altra parte e sono partito da Brescia. Senza sapere lingua ne niente, sono partito all’avventura e ho visto la strada davanti e ho cominciato a camminare, a camminare. Ho attraversato anche delle montagne, non guardavo la direzione, le strade. Camminavo senza pensarci, ho camminato per oltre 400 km. Ero così stanco ed era così freddo che non potevo più camminare perche il freddo mi entrava nelle ossa non sentivo più i piedi. Quando ho iniziato a camminare facevo 5 km in mezz’ora, mentre verso la fine
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facevo 5km in 5 ore, perché ero distrutto. Ai negozi chiedevo qualcosa da mangiare, mi lasciavano fuori un pane uno yogurt, finché ho trovato 10 euro in montagna, sono salito in un bus, il biglietto costava 10 euro per andare in città. Ad un certo punto mi sono anche chiesto se esiste ancora Dio…
In città ho trovato ancora 10 euro allora ho chiamato a casa, allora mi sono detto qui c’è davvero un angelo che non mi lascia morire e mi vuole davvero bene. E mio padre mi dice in Italia non posso mandarti i soldi non ho come mandarteli. Sono arrivato intanto a Mantova, dove ho visto molti che vivevano per strada e sopravvivevano allora ho cominciato a seguire quelli, la gente di strada, così ho trovato altri rumeni e mi hanno spiegato un pò rispetto alla Caritas, altri zingari rumeni mi hanno spiegato come si fa l’ “elemosina” , altri mi hanno spiegato come rubare. Tutti mi hanno spiegato il loro mondo. Ho provato a fare queste cose che mi hanno insegnato gli altri per non morire di fame. Fino ad adesso sono stato capace di tutto, ma non riuscivo a fare elemosina o a rubare e quindi ho continuato a vivere la fortuna e tutti i giorni mi convincevo del fatto che c’èra un angelo che mi sta accanto. Se non riesco a farlo c’è un motivo per tutto questo, devo andare avanti con la fortuna. Perché sicuro non mi lascerà!
Anche se pensavo di voler morire di fare tutto per morire, poi ho conosciuto altri rumeni che mi hanno insegnato come si viaggia, senza soldi e senza niente. E ho cominciato ad avere un po’ di speranza che solo cosi posso rinunciare al gioco d’azzardo. Ho viaggiato per 1 anno in tante città e poi mi sono fermato a Bologna. Anche se poi ho continuato a viaggiare. Però qualcosa mi faceva tornare sempre indietro, sapevo che c’era un motivo che mi faceva tornare sempre a Bologna. In questa città del cavolo! pensavo io, fino a che non ho trovato un po’ di amici, che non mi giudicano per la mia storia, persone che non si allontanavano da me ma invece mi rispettavano. E così ho incontrato te alla stazione con il Treno dei Clochard e poi Arte Migrante.
Mi piacerebbe sapere un po’ di più sulla tua vita di strada.
Spesso succede che non avevo un posto dove dormire, e la sera cerchi il primo luogo dove puoi riposare di notte anche due ore, come ad esempio in stazione, imitavo un po’ la gente di strada. Cercavo anche di capire se in quel posto mi potevo fidare. A Verona i primi giorni ero a dormire in un parco, mi sono svegliato che qualcuno gridava aiuto aiuto e mi sono accorto che 10 ragazzi picchiavano 2 barboni che anche dormivano. Li picchiavano con pezzi di legno e quei ragazzi che picchiavano erano rumeni. Lo facevano solo per divertimento per finire la loro serata di sballi, allora ho cominciato a stufarmi e ad avere paura di tutti e a non fidarmi facilmente.
Come ti sei sentito quando hai visto i tuoi connazionali compiere delle simili violenze sul senza tetto?
Io avevo paura di me, sentivo una forza che mi portava e volevo andare la e picchiare quei dieci rumeni, sgridare e litigare. Però sapevo che era un coraggio da matti e pensavo che devo vivere per lottare un altro giorno. Ho cominciato a sentire che avevo anche un 6°senso, a percepire a capire anche oltre le cose. La paura mi faceva guardare più attento tutto, analizzare dieci volte e non
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avere paura. Se facevo delle cazzate sicuramente finivo male e il mio sogno era non finire male, non finire morto o in galera, non finire come un cretino.
Mi sai dire qualcos’altro sulla “guerra tra poveri” che c’è tra italiani e stranieri nel mondo dei senza dimora?
C’è più razzismo nella vita di strada, perché tanti si alzano, italiani senza tetto, arrabbiati con i marocchini e gli stranieri che vivono per strada che vivono meglio di loro. Loro pensano che non riescono a mangiare a dormire per colpa loro. Tutti vivono con questo sentimento di “sopravvivere” e questo ti permettere di vivere, non conta lo scopo, non conta il modo con quale lo fai, conta il risultato.
Quanto l’esperienza come senza dimora incide sui valori e sul senso della vita?
Si, chi vive tanti anni strada poi ad un certo punto pensa che può ammazzare una persona, che tanto peggio di così la mia vita come può andare e posso fare un fuoco, rubare, in certi momenti anche io pensavo cosi. Ci sono tanti italiani razzisti, ci sono persone però in generale che a causa dell’esperienza che hanno di vita sono diventai razzisti. Però ci sono anche persone che sono molto aperte che sono credenti e laici che sono capaci di accettare l’altro e ti guardano con rispetto e con pietà, e guardano “che uomo, che forte, che giovane è arrivato per strada, che sfiga da matti che ha avuto!!” anche senza conoscere la mia storia. Però il razzismo c’è in Italia come in Grecia. Secondo me non è diventato razzismo per rumeni per negri ma è un razzismo che guarda “per colpa di questo negro o rumeno, io non riesco ad avere un lavoro o una donna, è un razzismo diverso. “Guarda quella ragazza bella italiana che sta con quel negro, io ho un lavoro ho tutto, ho soldi in tasca e guarda lui bruttissimo, forse per il c***o grande!” E’ un razzismo di invidia, gelosia, legato ai soldi. Questo è il razzismo che ho visto io, “guarda i rumeni sono ladri vengono qui a fare solo casini a violentare le donne e ancora vanno avanti, noi perdiamo tutto a causa loro” pensano alcuni italiani. Io avendo questa vita agitata, vivendo per strada ho trovato la semplicità delle cose ho trovato il valore di un uomo di una persona, guadagnandomi il rispetto degli altri ho cominciato a rispettare a me di più.
E ho visto che in un gruppo di Arte Migrante, dove tanti che rispettano insieme a te valori di semplicità, tanti che stanno bene hanno un lavoro una casa studiano la loro vita è un po’ sistemata. Non credo tanto che Arte Migrante cambierà adesso c’è bisogno di tempo per cambiare ma sono tanti che vivono per strada e hanno conosciuto il razzismo e hanno bisogno di essere guardati in un altro modo. Ad Arte Migrante incontrano invece persone che li guardano in un altro modo.
Tramite l’arte arriva più veloce arriva prima al cuore, la passione per fare delle cose. E dopo viene tutto il resto. C’è bisogno per cambiare di farti entrare come una cosa che non è cosi evidente. Se tu inizi invece a parlare di razzismo contro l’individualismo, in modo teorico, ti ascoltano con il cervello. È come l’ambulanza passa veloce e le altre macchine vanno dietro veloce. E l’arte è come l’ambulanza e tutti la seguono dietro veloce e rimane poi dove vai te. Arte migrante, l’impatto che mi ha dato è di fare qualcosa di ascoltare e di essere ascoltato, di dare rispetto ad un altro e aspettarmi che ricevo uguale rispetto, di stare davanti alla gente. È l’amore che mi ha cambiato veramente, l’amore per la vita per le speranze per il cambiamento e il motivo di credere per primo. Anche quando ti sembra che non è giusto che non è reale…
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Io penso che tu ti sia riscattato dalla vita di strada. Non è così?
Il problema è che gli altri non vogliono uscire davvero. Io voglio dimostrare che le mie parole non sono bugie, che ho lavorato e mi sono guadagnato il mio riscatto. Io però sto male nel rapporto con gli altri senza fissa dimora, perché sento che devo essere un esempio. Loro non mi guardano come un esempio loro mi guardano male come uno che ha avuto fortuna che sta meglio di loro, ma io li devo ascoltare, in questo modo io devo far vedere a loro che nel momento in cui ti cambi dentro quando cominci a credere davvero in qualcosa che si può cambiare, si può avere.
Viorel ed Alex sono tuoi connazionali ma con un età e un esperienza minore alla tua. Anche loro si stanno riscattando?
Viorel lavora poco, lui dentro ancora non è cambiato. Pensa ancora che bisogna avere i soldi subito e spenderli. Lui è molto razzista, guarda gli italiani che hanno di tutto. Lui non è arrivato a quel punto di essere abbastanza maturo per vedere che le cose le devi fare con le tue mani. A volte devi lavorare per niente, le cose le devi fare di cuore senza pensare di essere pagato. Lui non è arrivato al fatto di credere i n qualcosa, sia Alex che Viorel pensano “sono povero devo essere aiutato.” Molti poveri che vivono in strada pensano così e c’è molta gente che aiuta in modo assistenziale.
Qual è l’importanza che può avere Arte Migrante in questo senso?
Il nostro gruppo è importante per i senza tetto che hanno perso la speranza di vivere, che hanno perso rispetto per loro. Queste persone ora in Arte Migrante possono essere guardati applauditi cominciano a riavere fiducia in loro stessi, fare gli spettacoli, andare con noi alle messe , suonare , cantare, cominciano ad avere delle speranze che qualcosa si muove. Anche nel lavoro, nell’essere guardati in modo diverso. Anche se vivono ancora per strada però qualcosa hanno iniziato a farlo, non sono aiutati in un modo “io ho di piu e ti do a te metà perche non hai”, non è assistenza. Sono aiutati a fare le cose da soli a prendersi cura di loro a vedere che ancora sono capaci di qualcosa. Gli italiani invece quando vedono queste persone per strada e le riconoscono che le hanno visto ad una festa, che l’hanno visto ai nostri incontri o ad una messa prendono rispetto e cominciano a capire che davvero è stata una sfiga. Che può capitare anche a loro agli italiani a chi ha tutto. Cominciano a vedere le cose in modo diverso, non come prima. Non pensano più che il senza tetto è arrivato per strada perché è malato e non ce la fa con cervello, quindi è un uomo che ha poco valore, un barbone. Ma cominciano a vedere che quest’uomo ha valore e tutto ciò può succedere anche me!!!
Parlami delle criticità, delle cose che non vanno secondo te in arte migrante.
Tutti hanno lo stesso problema, vogliono vedere i risultati veloci, subito, e non si può fare. Perché anche se ci potrebbe essere un risultato veloce, questo non cambia niente. Le persone non imparano niente anche se vedono un risultato veloce, non si cambia la mentalità. Quell’uomo ha tempo di assaggiare invece quando fai la cosa con degli sforzi, le cose facili si dimenticano subito. Quando invece ti sforzi rimane ciò che hai realizzato. Tanti si annoiano perché non hanno la pazienza di aspettare tutto questo, devi stare attento a tenere l’essenziale ma anche a fare dei
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cambiamenti. Tanti si sono un po’ stufati di vedere sempre le stesse modalità di incontro. Però dobbiamo cercare di tenere l’essenziale e di però anche di cambiare qualcosa ad ogni incontro del Mercoledì e vediamo che tutto è un cambiamento e che le cose sono sempre nuove. Così diamo più motivazioni agli altri per venire. Perché cosi chi pensa di annoiarsi ha invece sempre una motivazione. Bisogna cercare di aiutare tutti a trovare le motivazioni per vivere e partecipare Arte Migrante.
Per questo c’è sempre gente nuova, ma alcuni restano altri vanno via.
Perché si è formato un gruppo di ballo ad esempio, le persone hanno cominciato a ballare ecc. Però quando vedono che i balli sono sempre gli stessi (quelli popolari di lupo), non hanno più la motivazione.
Tanti come Francesca dicono “io ho i piedi di pietra”, hanno perso la motivazione di ballare perché nessuno la ha aiutata a trovare altri balli a cambiare il ritmo. Devi anche improvvisare un po’ così aiuti. Altra cosa importante è ascoltare i senza fissa dimora a scoprire che sono capaci di aiutare, che le loro idee sono prese in calcolo. Ad esempio Sergio è stato ascoltato molto nel coordinamento, finché lo abbiamo ascoltato lui stava bene. Poi ad un certo punto però non lo abbiamo più ascoltato e lui ha perso la motivazione.
Intervista a Carlos, “senza dimora”, membro del coordinamento di Arte Migrante.
Paese di provenienza: Argentina.
Data: 3 luglio 2013.
So che hai un esperienza migratoria alle spalle molto particolare. Cosa puoi dire a riguardo?
Io praticamente sono l’immigrazione all’inverso di quello che hanno fatto i miei avi, i miei bisnonni che sono andati dall’Europa in America Latina, in Argentina. Noi siamo gli esseri che hanno usurpato quei territori e lo facciamo silenziosamente. Senza riconoscere le ricchezze ch abbiamo distrutto. Io dall’Argentina ho fatto la migrazione al contrario per cercare fortuna in Europa. Qui come i bianchi in Argentina, ci emarginano.
Gli argentini sono quelli che meglio si sono conquistati un posto al sole. Io ho trovato ad esempio solo uno in un dormitorio vai a differenziare tu chi ha bisogno veramente di un servizio sociale, è la guerra dei poveri. Ci sono molti furbi che usano i servizi sociali per i loro comodi ad esempio io ho conosciuto un tale che aveva una macchina nuova di pacca ma con la moglie sono andati a chiedere un alloggio.
Ciò perche i servizi sociali, anzi “asociali”, attuano un metro di preferenza. Ci sono senza fissa dimora di serie A serie B e C. Ci sono persone che usufruiscono di un quantità di denaro che lo Stato dispone per chi è senza dimora, nel caso mio non ho mai visto una lira in più di anno che sono a Bologna in mano ai servizi sociali, neanche un euro nelle mie tasche. Poi è vero che sono
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ateo però ho molto rispetto per la Chiesa perché in fin dei conti è la Chiesa che mi ha aiutato non lo Stato. In contraccambio devo pregare il padre nostro che è nei cieli ma è questa chiesa che mi ha dato mutande ,un piatto di pasta poi c’è chi invece sputa nel piatto in cui mangiamo.
Mi hai raccontato una volta che hai sogno per il mondo del volontariato. Qual è?
Io ho un sogno, sarebbe vedere una volta questi volontari, un rappresentante per ogni gruppo di volontari insieme perché parlino loro dei nostri problemi insieme a noi. Noi potremmo aiutare loro ad aiutare a noi. fare una rete di associazioni e senza fissa dimora. Una tavola rotonda dove sia rappresentata la massima quantità dei senza fissa dimora e la massima quantità di coloro che hanno responsabilità diretta. Associazioni e cooperative, non solo il governo, come ad esempio piazza grande. Probabilmente Lucio Dalla ha dato un bel nome all’associazione, ma oggi non è efficiente, è molto controproducente! Per esempio gli avvocati di strada sono uno strumento molto utile, ma l’errore più grave è stato condividere con Piazza Grande. Avvocati di strada sarebbero dovuti essere in una sede e piazza grande in un'altra sede.. gli avvocati di strada rimangono per me i cugini di piazza grande.
Quando ho dormito nel dormitorio di via del porto, avevo un compagno di stanza marocchino. Io ero molto sensibile alle per i diritti dei gay, sono stato anche al gay pride e ho preso gli adesivi. Ma eravamo in stanza insieme e lui per 5 mesi mi martoriava e mi provocava perché per gli arabi era offensivo il discorso sull’omosessualità. Dovrebbero poi difendermi dallo stolcking ma non lo fanno. Io sono un gandhiano convinto quindi non ho reagito alle sue prepotenze, anzi gli operatori del dormitorio sono stati capaci di difendere il mio maltrattatore. Poi nel mio Paese sono stato violentato!
Da chi?
Da esseri non certo umani , da militari, da chi ha ucciso 1600 italiani. Sulla violenza ho materia di poterne parlare, ho esperienze dirette alle spalle e posso comprendere quando qualcuno la mette in atto contro le persone. Come a Bologna i senza fissa dimora muoiono da invisibili, uno è stato trovato affogato nelle fontane di piazza dei martiri. E’ stata fatta un autopsia ma non ci è stato dato un risultato ne è stato trovato un colpevole. Però quando si parla di noi al 99 % sono persone che non hanno famiglia, sono sole quindi nessuno reclamerà se qualcuno di noi scompare! Spesso ci trattano come invisibili. Con “l’associazione 3 Febbraio” abbiamo fatto una manifestazione alla montagnola il 29 di giugno per criticare questo problema di senza fissa dimora e migranti lasciati al dimenticatoio, abbandonati. Se per ipotesi io attraverso la strada e muoio voi non lo saprete mai perche sono senza fissa dimora! Questa è una tristezza enorme perché non siamo inseriti da nessuna parte. I nostri rapporti affettivi li abbiamo tra di noi tra i senza fissa dimora. noi che frequentiamo stesse mense, dormitori, però ad un certo punto qualcuno muore o scompare ma nessuno lo sa e non è neanche ascoltato o preso in considerazione come testimone. Ci discriminano anche in quanto testimoni.
Io voglio togliere ,sequestrare come hanno fatto con i 1600 italiani in Argentina, sequestrare dalla paura gli altri, vorrei aiutare gli altri senza tetto ad eliminare o quantomeno alleviare la paura che hanno.
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Ci sono molti ragazzi stranieri della montagnola che vanno a fare i loro traffici. Poi sono trattati come noi.. e sottomettono gli operatori. Nel dormitorio del Lazzaretto dove sto dormendo c’è una “micro mafia” . In questi giorni ho visto un operatore che ha accettato di buon occhio che un altro operatore di quel dormitorio lavasse la sua macchina e la facesse linda. Come quando lavavi la macchina all’ufficiale nella marina per ottenere dei vantaggi o qualche regalo. Questa è mafia. Quell’organizzazione che può usufruire di favori reciproci è in atteggiamenti mafiosi.
Si parla tanto della non politica ma questo paese va come va perché siamo diventati fascisti. Se questa cosa che stai facendo in qualche modo me ne fai copia per l’incontro, vorrei metterlo a visione di tutti. Se questa tua testimonianza la porti a sostenere quel giorno dell’incontro per mettere in ginocchio questo strapotere che hanno i servizi sociali, e far riflettere questa piazza che non è tanto grande, Piazza Grande e farla riflettere meglio sul suo operato.
E dato che Arte Migrante mi ha accolto, io vorrei vedere reagire Arte Migrante. Reagisci secondo quello che la coscienza ti dice.
In che senso? Cosa puoi dire su Arte Migrante?
Oggi con alcuni di Arte Migrante ad esempio siamo stati a vedere un nostro amico a diventare un dottore. E’ la prima volta che vedo un laureando messo
ai voti. Un senza fissa dimora che entra li dentro, all’università, io sono un poveraccio uno di strada che entra li dentro, ad affrontare persone che sanno la conoscenza, nel cuore della culla della sapienza. Io non l’avrei mai fatto se non esisteva Arte Migrante. La grandissima Franca responsabile della mensa Caritas di Bologna ha notato che mi sono commosso alle lacrime ma non tanto perché si era laureato Giulio, quanto perché mi sono sentito una persona normale. Arte migrante mi ha dato un opportunità che non mi ha offerto nessuno in tutta Italia, come personaggio di serie C non abbiamo questi diritti e privilegi di poter essere accolti in un posto per dire qua ti puoi esprimere puoi far valere le tue capacità la tua voce, come accade nel nostro gruppo.
Giuseppe Marrazzo, Nanni Loi hanno dato tanto per la società italiana, non dimentichiamoci di loro. Prima le docce costavano 50 lire, la società era pulita, erano puliti gli autobus, oggi è tutta sporcizia. Ecco quando vedo questa pulizia dell’animo, so che sembra faccio una sviolinata ad Arte Migrante.
Io essendo amato dai miei figli io recupero la mia dignità, come essere umano, e voi navigate da 17 anni ad un massimo di 28 anni. Non siete volontari di questi dormitori o luoghi schifosi, dove l’immondizia ci sta affogando oggi ti ho portato in via del Porto che è un immondezzaio. Questo che ti sto dicendo io lo pago caro. Come padre Romero che è morto per la sua lotta con i poveri e lo ha pagato caro. Ma desidero che tu lo scrivi e lo pubblichi.
Victor Yara è morto con le mani spezzate è il prezzo che ha dovuto pagare per aver cantato quegli inni di libertà quel padre nostro, questo in Cile, in un Paese dittatoriale, infatti i militari lo hanno ammazzato. Va anche ricordato un poeta cubano che è andato in esilio negli Stati Uniti e morì suicida perché era terrorizzato dall’idea di tornare a Cuba. Posso parlare di qualsiasi luogo dove l’uomo può pagare un prezzo per la sua libertà. Il prezzo che sta pagando l’uomo oggi per la sua libertà può ricadere in tempi molto ma molto scuri. L’Italia mette a borsa lavoro delle persone che hanno metodi mafiosi, è una cosa orribile la “guerra tra poveri”.
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Qual è l’importanza dell’Arte? Cosa rappresenta per te il Teatro?
Allora io non sono uno che è nato perfetto sono uno che è nato sbagliando, quella è la grande dimostrazione di civiltà. Il teatro è una cosa seria per mettere in scena le emozioni è talmente un impegno una cosa seria che non tollero un ritardo di un minuto. Io ricordo per fare nomi illustri, ricordo Franca Rame scomparsa di recente, che quando fu violentata lei poi fece una terapia di recupero dello stupro e lo recitò al teatro! Per quanto riguarda la mia maniera di fare teatro io in argentina che ero un ragazzino non mi rendevo conto dell’importanza del teatro. Solo in Italia in un paese libero mi sono reso conto dell’arma importante enorme che può essere il teatro. Ti da delle ali. Io ho fatto radio e televisione in Argentina e ho studiato teatro da Yuancho che faceva radio. Io ad esempio morirei su un palcoscenico. Sono nel mio pieno climax, orgasmo totale della mia libertà. E’ terapeutico, serve a potersi liberare e a poter liberare l’odio il groppone di rabbia che accumulo in strada. Gran parte della mia malattia è l’impotenza, il fatto di essere in potente quando sono in strada. Ecco perché mi è tanto importante Arte Migrante. Perché la parola “arte” sta subito prima di quella di migrante. L’arte se si mette in salvo vuol dire che la civiltà ha ancora speranza. Noi siamo delle persone e attraverso l’arte possiamo riconquistare tutte le forme delle nostre libertà. Arte Migrante rappresenta questo.
Te sei una persona molto critica. Hai dei suggerimenti sulle attività del nostro gruppo?
Sono critico verso di voi perché capisco che voi giovani vi dovete rialzare da soli. Non facciamoci l’illusione dei capelli bianchi, non facciano differenze, il giovane deve rialzarsi lui. Ecco perche sono protettivo, so che siete giovani inesperti. State attenti a non farvi corrompere, ci sono delle regole che vanno rispettate. Tipo la presentazione di tutte le persone, comincia a diventare un tormentone che perde , fa perdere punti a quella cosa essenziale che vuol dire crescere. Dobbiamo cercare per esempio di far presentare solo i nuovi che arrivano.
Non dobbiamo tornare a ripetere, per esempio a Milano il Rocki Horror Picture Show ha coinvolto gente per 30 anni, perché cambiava sempre modalità di espressione artistica. Voi dovete evolvervi cambiare.
Ora c’è anche febbre di incontrarvi, c’è gente che ha passione, ma non dovete rischiare il picco di caduta. Dovete trovare nuove modalità di incontro sempre. La chiesa che frequento per me è il teatro io non sono mai entrato a spettacolo iniziato ma sempre prima a capirne il rituale. Voi dovete avere più rispetto di questo rituale, chi arriva dopo o a metà spettacolo è una persona esclusa. Faccio una critica a me stesso. Io vorrei fare di più, non ce la faccio perché ho un corpo stupido. Non ho una concentrazione come quand’ero fresco e giovane, non mi aiuta questa società che mi vede affogare nella merda. Basta voglio uscire dalla merda!
Intervista a Corrado, ingegnere biomedico, coordinatore di Operazione Colomba, membro della Comunità Zoen Tencarari di Bologna.
Paese di provenienza: Italia.
Data: 08 settembre 2013.
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Come sei diventato membro della Comunità Zoen Tencarari?
Sono arrivato qui tramite la conoscenza di una amico attraverso la struttura d’accoglienza “casa della carità”, presso cui facevo volontariato. Ma sono arrivato perché cercavo un'altra esperienza comunitaria. Prima ero già in un'altra comunità dove vivevo con altri ragazzi e una famiglia, era un dimensione che volevo continuare a vivere. In particolare la condivisione di vita, il servizio insieme e della preghiera. Sostanzialmente è una necessità perché rispondere ad un mio bisogno siccome tendo a chiudermi su me stesso. La comunità al contrario mi costringe a restare aperto agli altri senza chiudermi nei miei spazi e nei miei tempi e ciò mi rende più felice e mi fa vivere da uomo più libero, di fatto mi faccio salvare dalla comunità.
La relazione con l’altro è ricchezza ed è anche una fatica, però tutte le volte che faccio un bilancio vale sempre la pena fare la fatica della relazione per la ricchezza che essa porta con se. Poi questa comunità è speciale perché ha una dimensione molto aperta multi culturale e multi religiosa, quindi il fatto di confrontarmi con realtà molto diverse favorisce uno stimolo a crescere e conoscere mondi diversi da me, a conoscere meglio come è fatto il mondo e a conoscere me stesso. Poi queste per me sono ricerche ed esperienze che vanno al di fuori dei confini nazionali.
Perché con Operazione Colomba corpo nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII è da alcuni anni che partecipo a dei progetti per la protezione delle vittime dei conflitti e la riconciliazione in Palestina-Israele, Albania, Colombia, Kosovo e fra poco comincerò un esperienza in Libano.
La comunità riceve spesso diverse visite da giovani e famiglie in cerca di uno stile di vita alternativo. Che ne pensi?
Sicuramente si sente che questa comunità risponde ad un grande bisogno delle persone in particolare dei giovani ma non solo, di vivere delle relazioni familiari al di fuori della famiglia, quindi anche per un giovane gli permette di uscire dal nido ma di restare in una relazione d’accoglienza. E’ un opportunità di uscire di casa, anche dal punto di vista economico è complicato uscire e le opzione sono spesso quelle di andare in casa con altri dove però ognuno fa la sua vita o andare a vivere proprio da soli. Questa è un alternativa a tutto ciò e io ho l’impressione che la gente quando passa di qui a volte si accorge di avere questo bisogno anche se prima non se ne rendeva conto. Perché i messaggi che arrivano dalla società o dai media non ti fanno rendere conto di avere questo bisogno di socialità o di relazione in generale. Però quando la gente riscopre queste relazioni familiari e comunitarie, questo tipo di mentalità, dopo scopre che le desiderava e continua a cercarle per cui le persone restano molto legate alla comunità Zoen Tencarari.
Come coordinatore di Operazione Colomba hai fatto diverse testimonianze durante gli incontri di Arte Migrante del mercoledì sera. Anche li i partecipanti dimostrano di avere lo stesso tipo di esigenze relazionali.
Si, Arte migrante sta rispondendo ad un bisogno di tante persone che per certi versi è simile. Ovvero quello di sentirsi accolta, voluta bene e di aver delle relazioni umane calde. In particolare per molte persone che vengono o dalla strada o da vite molto difficili, di solitudine ed
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emarginazione, sono una ricchezza enorme perche difficilmente trovano questo tipo di occasioni nella loro vita. Trovano inoltre l’occasione di relazionarsi alla pari con persone che non vivono il disagio del loro stato, della strada o dell’esclusione. C’è un clima fraterno per cui si accorciano queste distanze e oltre alla relazione c’è anche la possibilità di esprimersi per cui le persone possono mettere in gioco i loro doni ed essere valorizzate per le loro qualità invece di essere trattate, come spesso succede, con distanza, disprezzo quando va male o compatimento quando va bene. Loro possono esprimersi ma c’è anche qualcuno che li ascolta, e che accoglie la loro espressione. Arte Migrante crea come uno spazio, una “zona franca” dove non si fa assistenzialismo ma ci si incontra e ci si relaziona come persone.
Intervista a Doru, “senza dimora”, membro di Arte Migrante.
Paese di provenienza: Romania.
Data: 1 luglio 2013.
Perché ti sei trasferito dalla Romania e sei giunto qui in Italia?
Sono venuto per motivi di lavoro, per migliorare la vita, siamo andati insieme a vivere in via Zanardi, poi in via Stalingrado per un mese e mezzo in una baracca di lamiera, poi ho fatto il baby sitter per un mio amico.
Che tipo di esperienze lavorative hai avuto?
In Romania ho lavorato come tornitore per 4 anni, nell’88 fino al 90 ho fatto anche il servizio militare. Nell’89 ero a Galazi una città vicino Danubio. Ho partecipato alla rivoluzione dell’89, eravamo pronti per la guerra con carrammati, eravamo preparati per sparare e uccidere come se fosse una guerra. Poi ho finito il servizio militare e sono andato a lavorare dove stavo prima. Ho avuto un sussidio di disoccupazione, 2 anni e 3 mesi sono stato senza lavoro. Nel 97 ho girato un po’ in Jugoslavia e Ungheria per prendere dei prodotti e poi rivenderli, per attività di business , anche in Bulgaria. Poi ho lavorato di nuovo come tornitore in una ditta che riparava locomotive, poi dal 2001 ho lavorato come guardia giurata per 5 anni, e poi nel 2011 sono venuto in Italia. Ho lavorato come idraulico e nei traslochi. Poi ho lavorato presso un altra ditta di rumeni dove fanno anche consegne a domicilio. Loro prendono anche tutte le cose vecchie e le portano nei centri di riciclaggio, sistemano e aggiustano tutti gli oggetti rotti. Poi ho lavorato anche ad altre aziende di traslochi.
La Romania aveva una dittatura comunista. Come hai vissuto quel periodo?
La crisi dell’89 l’ho vissuta in tv. Prima giocavamo a calcio, c’era un clima disteso. Poi quando c’è stato l’89 ci siamo preparati come se fosse in guerra, eravamo spaventati. Tutto ciò in particolare nel periodo precedente e successivo alla morte di Ceauşescu. Quando c’era lui eravamo tutti con un lavoro e tutti mangiavamo. Se la polizia ti trovava anche di notte senza lavoro in giro per strada
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ti aiutava e ti trovava subito un lavoro, nessuno era senza lavoro. Tutti avevamo i soldi. Però non eri libero di prendere quello che volevi. Adesso invece nessuno ha soldi ma puoi trovare tutto quello che vuoi al supermercato. Quando qualcuno si ribellava contro il sistema chiunque veniva messo in galera. Potevi fare anche una bella vita però non potevi uscire per andare in un altro paese, non ti lasciavano libertà di uscire.
Tito era più per la libertà rispetto a Ceauşescu. In Jugoslavia, così come in Ungheria c’èra più libertà nel modo di vestirsi e di parlare. Per noi era vietato vestirsi in un certo modo anche solo mettere orecchini.
Anche ora mia madre e quelli di una certa età sono rimasti ad una mentalità più tradizionalista, la stessa di quando c’era la dittatura. Io sono invece diventato molto più “libertino”. Sono molto per la libertà di espressione, ogni persona ha il diritto di scegliere la sua strada per scegliere quello che creda faccia bene per se.
So che un anno fa hai subito un terribile incidente. Cosa è successo?
Qui in Italia l’11 novembre 2012 io volevo andare per incontrare qualcuno che abitava vicino Funo a San Giorgio di Piano. Camminavo al margine della strada , tranquillo, ma in un attimo non ho visto niente, credo di essere stato investito da un furgone. Ho visto per mezz’ora il nulla e sentivo come volare per un istante e dopo non ho visto più nulla. Qualcuno ho sentito che mi diceva “stai bene, come ti senti?”. Alcuni ragazzi italiani di 25 anni mi hanno soccorso. Non ho mai saputo chi è stato a investirmi ma ora ho parlato con un avvocato per cercare di ottenere dei fondi per le vittime della strada. Infatti poi ho dovuto fare una visita medica per attestare quanto è successo. Dopo l’incidente mi hanno preso, la macchina mi aveva buttato in un fosso. In ospedale mi hanno trattato benissimo, qui sono stati speciali, sono stati molto gentili. Non posso dirti nulla di male. Mentre in Romania non potevo essere trattato così bene. Da noi devi pagare per curarti, per ogni tipo di cura. Qui molte cure sono gratuite. Io praticamente avevo addosso 150 pezzi di parabrezza. Ero al confine tra la morte e la vita quando mi è successo. Infatti ringrazio Dio per essere sopravvissuto a questo incidente.
Perché sei diventato un senza fissa dimora?
Dopo che mi è successo questo incidente sono rimasto senza dimora. Quella famiglia dove abitavo prima si era trasferita. inoltre dopo l’ospedale non potevo più andare da quella famiglia perché avevano problemi economici. Dopo sono andato alla stazione da quelli dell’associazione Piazza Grande e loro mi hanno messo nel piano freddo di via Pallavicini. La vita di senza fissa dimora è tranquilla se tu eviti i casini, eviti di fare discussioni. Quando c’è qualcosa che davvero mi fa innervosire allora li si che mi arrabbio. Ma deve essere qualcosa di grave. Meglio non avere da fare con i tuoi compaesani, con i tuoi connazionali. Io preferisco frequentare persone di altri Paesi. Quelli che sono di altri paesi hanno più anima, più cuore. Un mio amico pakistano diverse volte mi ha ospitato, mentre quelli che sono rumeni come te ti lasciano morire sulla strada. Al Pallavicini c’erano i magrebini che ogni tanto facevano un po’ di casino, si ubriacavano. Ma queste cose mi fanno schifo. Dopo la chiusura dell’emergenza freddo il sindacato ASIA è venuto e abbiamo deciso di occupare la scuola con loro e la notte del 2 aprile abbiamo fatto l’occupazione in 60
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senza fissa dimora in via toscana 136. Quelli del sindacato sono bravi ragazzi, con loro abbiamo una relazione speciale, ci capiamo bene.
Te sei un bravo cantante in Arte Migrante. Cantavi già in Romania?
Mi sento molto bene ad Arte Migrante, è un posto per divertirsi. In cui passa il tempo in un altro modo. Perché la vita è così amara e devi fare qualcosa per dimenticare tutto ciò che non ti è uscito bene. La vita è così corta e devi viverla a pieno. In Romania non ho avuto mai occasione di cantare ma qui posso fare di più. Come quel ragazzo rumeno che faceva il muratore in Spagna poi si è messo a cantare in un programma televisivo ed ora ha un contratto alla Sony Universal. Nella vita possono succedere delle cose che non puoi pensare e Arte Migrante è un posto interessante, importante per socializzare, puoi conoscere gente da tante culture, a poco a poco riusciamo a essere conosciuti anche a Bologna. Cantare mi fa sentire bene perché era una cosa che desideravo da piccolo. Sognavo di cantare in un gruppo, e ora lo posso fare. Tutto ciò che posso fare si vede, non sono uno che si vanta.
Cosa significa per te la musica?
Mi piace molto la musica internazionale, inglese e americana già in Romania da quando ero piccolo la ascoltavo molto. Ascoltavo delle cassette di musica Rock e di musica Disco anni 80. Sono i generi che mi piacciono di più. Mi piaceva anche la musica italiana come ad esempio Albano. La musica mi da uno stato di benessere, mi fa rilassare. Fa bene per la salute, ti fa sentire diverso dentro. La musica è un linguaggio internazionale non importa che lingua è. Io ho imparato l’inglese dalla musica, allo stesso modo ho imparato la lingua italiana così, senza fare un corso di lingua.
Cosa pensi dell’immigrazione in Italia?
Ci sono tante persone che dicono che sono arrabbiate perche noi stranieri gli rubiamo lavoro, ma non è vero perché noi occupiamo i lavori che lasciano. Ci sono tanti stranieri alla Hera per fare le pulizie in strada. Non bisogna avere vergogna perche butti il rusco (che in bolognese vuol ride immondizia). In Francia so che un lavoro cosi è molto buono e ricompensato. C’è razzismo in Italia verso i rumeni perché ci sono 2 o 3 persone che fanno solo male. Ma non è giusto che per loro allora tutti noi rumeni siamo guardati in questo modo. Sono tanti che mettono nella stessa pentola tutti. Io perché devo rubare per forza! No, cerco invece modi onesti per guadagnare. Non è giusto giudicare tutti per un altro che ha fatto solo male. Questo pensano gli italiani. Ma non è così. Ci sono tanti di noi che sono venuti per migliorare la vita, per guadagnare ed inviare i soldi a casa, alle proprie famiglie. Per far mangiare i propri figli.
Cosa miglioreresti di Arte Migrante?
In Arte Migrante sarebbe importante fare più spettacoli e andare in altre città e fare un po’ pubblicità. Così dopo diventiamo conosciuti possiamo fare il debutto nella musica, nella danza. Poi non lo sai cosa può succedere potrebbe essere un altro tipo di lavoro finalmente! Si può fare di più. Così penso.
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Intervista a Irene, studentessa di Antropologia, religioni, civiltà orientali all’Università “Alma Mater” di Bologna. Membro del coordinamento di Arte Migrante.
Paese di provenienza: Italia.
Data: 9 luglio 2013.
Come sei entrata a far parte del gruppo Arte Migrante?
Io avevo già maturato di realizzare delle esperienze con chi ha vissuto insieme l’esperienza di Soweto. Per far nascere qualche frutto da ciò che abbiamo vissuto in Kenya, dare un impronta, e non farla morire li con il nostro ritorno. E così mi ha entusiasmato l’idea di creare con voi questo gruppo. Ad Arte Migrante ogni volta che vai sembra di essere ad un pranzo di natale o una festa. Dove incontri tutta gente nuova come ad una festa ma dove poi in realtà ti senti una grande famiglia, ridi e scherzi. Il fatto anche di poter essere tutti i protagonisti, e che non c’è uno schema degli incontri troppo strutturato. Anche il fatto che nel coordinamento tutti possono entrare e non c’è una gerarchia è positivo.
Poi c’è stato un momento in cui c’è stata la crisi, in cui eravamo in tanti e stavamo perdendo il rapporto con il singolo. C’era tanta gente, eravamo in troppi e ci perdevamo nelle presentazioni. La cosa importante è il rapporto che si crea tra le persone, qui non è volontariato, ma nasce un rapporto più duraturo tra le persone. A me nono interessa tanto della performance o dallo spettacolo ma delle relazioni che nascono. Di solito quando fai volontariato invece una volta finito il servizio, il rapporto con l’altro finisce li. Invece qui si creano delle relazioni reali.
Quindi pensi che per l’anno prossimo possiamo migliorare qualcosa?
Tanti sono andati via in quel periodo di crisi proprio perché un po’ si era perso il senso di costruire delle relazioni più vere. Adesso è diverso, perché abbiamo un gruppo più saldo. Per l’anno prossimo si può creare qualcosa di più costruito, c’è un potenziale altissimo ma gli spettacoli che facciamo sono pessimi, spesso manca il tecnico, l’audio va male, dai come performance non sono male, ma nell’organizzazione siamo pessimi.
L’anno prossimo sugli spettacoli dobbiamo lavorarci meglio anche perché vale la pena organizzarne uno veramente fatto bene. Oppure si potrebbe magari creare un gruppo collaterale ad arte migrante che si occupa degli eventi. Arte Migrante è tipo un polipetto, la testa è il mercoledì sera, e poi ci sono tutti i tenta colini come il gruppo delle messe, le uscite serali, l’animazione nei dormitori. Poi Suleyman che vuole fare per esempio il corto metraggio. Arte Migrante rimane il punto di incontro, secondo me c’è gente che ha voglia di fare le cose fatte bene e poi però resta deluso. Un altro punto critico è che il coordinamento è fatto maggiormente da italiani.
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Mi sapresti parlare del gruppo sotto un punto di vista antropologico?
A livello antropologico si può dire che siamo tutti sullo stesso piano non ci sono disparità reali. La disparità nasce quando tu non vuoi metterti in gioco, o pretendi qualcosa che è esterna ad Arte Migrante. C’èra ad esempio chi veniva solo per mangiare o voleva ad esempio un aiuto in soldi, e ovviamente restava deluso. Ci sono delle premesse, un patto sociale che abbiamo fatto e che se vengono rispettate trovi soddisfazioni e non vai a cercare gratificazioni personali, lo rispetti.
Paradossalmente c’è un cambio di ruolo perché gli italiani sono meno interessanti. Spesso ad esempio nei gruppi gli italiani sono gli incapaci. Mentre gli internazionali sono più bravi e capaci. Ti dicono io potrei cantare danzare, ho fatto teatro, e questo è bello perché tramite le capacità artistiche c’è poi un riscatto sociale.
So che hai molta stima di Carlos.
Quell’uomo li ha una capacità di capire il problema, criticizzare. Carlos è un uomo chiave perché è colui che dice tutto. Bisogna parlargli con sincerità chiarendo che su certe cose non si può essere così rigidi. Però ha ragione quasi su tutto. il problema di arte migrante è infatti il buonismo. Che vi partecipa se ne esce spesso con affermazioni del tipo“ tutto bene, tutto bellissimo”. Carlos invece è schietto, forse un po’ troppo, ma è quello che ti dice le cose come stanno.
L’importanza degli italiani per Arte Migrante, nasce dal fatto che non sei più italiano o straniero ma sei un soggetto singolo. Scopri di avere intorno immigrati, rifugiati politici, senza tetto, che hanno capacità creativa, gioia di vivere, voglia di fare. Carlos ad esempio è’ un attore fenomenale, e chi l’avrebbe mai detto. Carlos secondo me meriterebbe di fare teatro non solo come artista di strada ma come professionista. Se un regista di teatro lo beccasse, avrebbe da vivere. Farebbe turneé per tutta Italia.
Quali sono altre criticità che ha riscontrato durante la tua esperienza nel gruppo?
Come già detto lo spettacolo e l’eccessivo buonismo, ma anche la disorganizzazione nella struttura della serata del mercoledì. Ci sono dei momenti tipo la cena che sono importantissimi per entrare in relazioni, altri momenti invece come le presentazioni, che se fatte un certo modo risultano noiose, come ad esempio il ripetere sempre il nome, cognome e la provenienza. Adesso la grande sfida saranno i numeri, se si vuole portare avanti la qualità ma resta questa quantità, sarà comunque un problema. Io però purtroppo non ci sono spesso, tante cose me le perdo.Poi ci sono tanti progetti a livello europeo a cui potremmo partecipare.
Intervista a Enrico “Kampa” Campagni, studente di Antropologia culturale ed Etnologia all’Università Alma Mater” di Bologna, coordinatore del gruppo Arte Migrante.
Paese di provenienza: Italia.
Data: 20 luglio 2013.
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Sei stato tra i fondatori di Arte Migrante e ora fai parte del coordinamento. So che hai diverse e interessanti considerazioni riguardo questo tipo di gruppo.
Le persone che partecipano ad Arte Migrante diventano come ponti perché il quel momento è come un circolo artistico le condizioni sociali non sono determinanti per la socializzazione come è avvenuto per gli artisti di strada, aumenta il fatto che sia di strada.
Si è tutti alla pari ma le differenze sociali permangono.
In Arte Migrante si crea questo “ponte” tra quelli che vivono per strada che hanno una vita più dura e le persone che hanno una vita più agiata. Anche qui ci sono i rituali, diventa come una comunità ha dei rituali definiti. Il rituale iniziale è quello in cui ognuno racconta qualcosa di se e spiega cosa ha che fare con l’arte. Ognuno porta qualcosa, il rituale del pasto è importante in una comunità. Il condividere lo stesso pasto anche unisce.
Questo gruppo di amici fa rete poi con altre realtà associative con la piazza, dobbiamo migliorare per coinvolgere gente nuova. Bologna è un ottimo terreno perché molti sono già attenti verso il prossimo, ci sono persone pronte all’ascolto. Che venga così bene da quel giorno in montagnola non me lo sarei mai aspettato, ognuno porta la propria arte, ogni segmento sociale.
Come Irene sei uno studente di antropologia. Qual è l’impatto che, anche sotto un ottica antropologica, ha Arte Migrante su chi vi partecipa.
In un ambiente cosi l’immigrato si sente accolto mentre fuori Arte Migrante sembra una minaccia. Uno che viene a contaminare la nostra cultura, questi immigrati, clandestini o no, servono per farti capire come questo apporto di diverse culture è una ricchezza. La cultura estranea vista come arte è un arricchimento, cosi gli immigrati pakistani non sono più una minaccia, il loro canto, le loro poesie e anche le loro preghiere. Sono anche persone disponibili. Una cosa molto bella è che non ci hanno fatto pesare la loro indigenza. La cosa principale di Arte Migrante non è stata la solidarietà assistenziale, ma il fatto che ci sia una dinamica relazionale completamente orizzontale. Spero e mi auguro che l’integrazione sia sempre più globale, che non riguardi solo l’arte ma sarebbe bello condividere sempre di più queste persone di strada e migranti, andando a mangiare a casa loro, anche i senza tetto stanno diventando “ponti ” tra la gente più ricca e quella più povera. Iniziano a vivere per questo magari con più speranza.
Poi ci sono le esibizioni, è un bisogno di riconoscimento. Uno dei bisogni più alti dell’uomo è essere riconosciuto amato. Il fatto che tu sei un clochard e vieni applaudito anche se fai una cazzata, non corrisponde certo al giudizio che darebbe un critico d’arte. Però sentire che la loro arte è riconosciuta, fa bene, è un modo che si è costruito in Arte Migrante, gli applausi scroscianti aumentano l’autostima dei clochard.
Il “meticciato” come dice Marco Aime è una forma di genocidio, quelli veneti per esempio che pensano che è una razza pura, è una cazzata. Noi siamo meticci da sempre. Se un territorio si secca noi andiamo via. Ma la gente non pensa queste cose e si lascia trascinare dai discorsi razzisti leghisti. Le nostre culture dall’epoca dei romani e anche prima sono tutte ibride, meticcie. La razza pura non è mai esistita. Esiste però il senso di identità. Noi per sentirci meglio abbiamo questo senso di identità.
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In diverse occasioni ti sei espresso riguardo alle criticità emerse durante le attività del gruppo.
Si, ad esempio c’è una criticità che riguarda il fattore “spontaneità”. Ogni tanto manca spontaneità nell’applaudire sempre, nel clima “demenziale” tipo che si applauda per forza. Diventa quasi un gioco, è una finzione che è bella, tipo lui fa una performance e tutti applaudono ma è una cosa bella, è un gioco.
Inoltre siamo poi disorganizzati. Non essendo un associazione ufficiale non ci prendiamo sempre troppo sul serio e a impegnarci se fossimo un associazione però bisogna iniziare a impegnarsi di più e prenderla come impegno sociale.
Altra cosa brutta è che l’uguaglianza spesso è formale, alla fine si vede molto che una ragazza universitaria benestante fa fatica a trattare con un migrante o un clochard ugualmente. Si vede che le consuetudini creano un ostacolo. Si vede che se una ragazza è corteggiata da un clochard o un migrante non è la stessa cosa, purtroppo si vedono ancora molte differenze tra uno che è vissuto in strada e noi che siamo benestanti. Spesso uno si scegli le amicizie che sono più simili a lui. Quando io parlo con un migrante o un clochard non lo faccio del tutto spontaneamente perché è molto diverso da me. Vedi il calcio certi cantanti certa musica, c’ è sempre quindi in questo qualcosa di falsità \ non spontaneità. Anche se più si conosce una persona e più trovi cose in comune. Più riesci a diventare amico realmente, riesci a far diminuire quella componente di assistenzialismo caritatevole. E’ lo stadio primitivo, quello da cui bisogna sempre più distaccarsi per poi giungere ad uno stato di vera amicizia e parità è li che diventa veramente un gruppo di fratelli e sorelle.
Altra cosa importante e su cui bisognerebbe intervenire è che tra quelli che vivono per strada da più tempo c’è la tendenza a creare una classe di più bassi. Forse anche per sentirsi più alti. Anche li è come se fossero degli specchi in cui ci rispecchiamo. John ad esempio stigmatizza un po’ Bogdan. Noi di Arte Migrante dobbiamo capire che non ha senso che non ci sia un ponte tra tutti quelli di strada. Bisogna cercare di creare ponti anche tra quelli di strada. Eliminare delle barriere dimostrando che bisogna volere bene a tutti ma bisogna non creare divisioni, ma che ci sia coesione sociale.
Intervista a Don Mario Zacchini, parroco della Chiesa Sant’Antonio di Savena di Bologna e fondatore della Comunità Zoen Tencarari.
Paese di provenienza: Italia.
Data: 30 settembre 2013.
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Perché hai scelto di creare la comunità Zoen Tencarari?
Sono sempre stato abituato a vivere con altri e quindi a vivere da solo è una cosa in cui io non sarei riuscito, un po’ come ha detto Papa Francesco , io ho sempre vissuto con altri. Ad esempio al seminario in via del terrapieno in cui ho vissuto con 3 palestinesi e altri che erano in strada, poi in missione in Tanzania eravamo in tanti tra preti, suore e laici. Rientrando in diocesi nel ‘95 proponendomi il vescovo di vivere da solo io sentivo proprio che non ci stava, non era mia questa cosa. Allora vidi che la possibilità era di avere un diacono di quei ragazzi che si preparano a diventare preti e pure accogliere gli obiettori di coscienza della Caritas, abbiamo iniziato in 5 o 6 poi abbiamo sentito il bisogno di accogliere qualche d’uno dagli assistenti sociali e poi con la grande migrazione dalla dittatura di Ciaocescu con la caduta del muro di Berlino abbiamo iniziato ad accogliere persone dall’Europa dell’Est. Allora si è diventati 10 o 15.
La vita comunitaria fa vivere di più come relazioni. Abbiamo accolto ragazzi dalla Romania dall’Albania così come dalla Bosnia, Moldavia poi dall’africa come Tanzania, Togo, Nigeria, Tunisia, Senegal, Marocco, Guinea conakry poi nuovi arrivi dai paesi del profondo Est come Afganistan, Pakistan ma anche dal Sudamerica come il Venezuela. Ma è importante anche la presenza degli italiani soprattutto per la possibilità di chi è straniero di integrarsi nella nostra società, quindi abbiamo deciso di avere una percentuale di 1 italiano e 2 stranieri anche per avere un equilibrio della vita insieme!
Hai accolto un alto numero di persone provenienti da diverse nazionalità e religioni. Da dove deriva questa sensibilità?
Quando si conosce la loro radice il loro ambito familiare e l’origine del loro paese è molto più facile vivere insieme, poi avendo occasione di conoscere le loro famiglie in Romania e in Albania dei primi stranieri accolti abbiamo ricevuto vivendo con loro 3 4 5 giorni ci siamo accorti che è gente ospitale buona, è sparita la paura. Gente cattiva c’è dappertutto come in Italia e in altri paesi.
Gli africani ho poi avuto mai timore di accoglierli, poi con altri ragazzi italiani siamo sempre ritornati nelle missioni in Tanzania durante il periodo estivo. Il vivere insieme aiuta ,molto per sviluppare un senso reale di vita, tra di noi. E cosi come i musulmani , abbiamo accolto uno due musulmani inizialmente con “titubanza” poi in realtà hanno vissuto bene la vita di comunità e hanno anche loro un cuore aperto, sono vicini a noi. Questi accolti nella nostra casa sono dei miti, benevoli nella vita di condivisione.
Cosa comporta la vita di condivisione?
La vita di condivisione soprattutto a tavola , nell’amicizia mi fa essere convinto che è possibile vivere insieme, abbiamo sempre detto che possa essere ne associazione ne convento ne seminario ma una “vita di famiglia” in cui ognuno ha i suoi obblighi e responsabilità. Dobbiamo avere 3 piedi, come un tavolo ha minimo 3 piedi che gli consentono di stare in piedi, allo stesso modo servono alla nostra comunità: Il primo è l’”accoglienza” vicendevole e di quant’altri giungono a noi nella vita di casa e sotto casa. Cioè anche giovani e senza dimora che bussano alla nostra porta.
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Il secondo è l’importanza di trovarci a “tavola” a pranzo e cena. Questo perché ci sono dei doveri che ognuno ha, come il lavoro e l’università, che non ci permettono di stare insieme. L’ora e mezza di tavola è importantissima per ritrovarci del tempo insieme, confidarci, consolarci, sfogarci, raccontarci , è fondamentale per le relazioni reciproche. Il terzo è un briciolo di “preghiera” insieme, perché la vita familiare porta la ricchezza del divino che l’uomo ha dentro di se e condivedere briciole di preghiere insieme di dialogo con Dio libera e arricchisce, aiuta anche ad una confidenza maggiore. Ecco allora che abbiamo un briciolo di preghiera subito dopo pranzo e dopo cena prima di alzarci a sgomberare e a pulire, dato che ognuno poi ha l e sue responsabilità. Vi si aggiunge un tempo di sosta in chiesa ogni giovedì verso notte a conclusione di 1 ora e mezza che si fa a condivisione con proposte di temi dai ragazzi stessi che vengono approfonditi spesso si hanno documenti e libri che hanno riflettuto sulla vita della condivisione della comunità ò delle relazione con altri. Sulla vita del donarsi imparando cosi a gioire!! Abbiamo visto in questi 18 anni che la vita di insieme da culture diverse è possibile e con un aiuto vicendevole forte e notevole qui in casa si sta in piedi fino a che un figlio ha poi capacità di stare in piedi con le proprie forze. Qui sono gia passati fino a 170 ragazzi per poche settimane o diversi anni. Di questi un numero notevole ha già formato famiglia con i propri figli e ogni tanto ci vengono a trovare. Inoltre assieme a noi già da una decina di anni nel corso dell’anno una famiglia a turno viene a condividere la vita di insieme secondo la possibilità delle famiglie, spesso sono della parrocchia o nel giro delle amicizie. Il bisogno è dato proprio dal condividere la vita di comunità e farla condividere ai propri figli. La presenza dei bimbi e della mamma arricchisce che da un sapore di vita familiare vero! La mamma diventa una presenza di madre per i ragazzi della comunità i quali gioiscono a fermarsi in dialogo e in ascolto della saggezza di questa madre e sposa.
Intervista a Mustafa, rifugiato politico, regista, membro del gruppo Arte Migrante.
Paese di provenienza: Afganistan.
Data: 7 luglio 2013.
Quali sono le tue origini?
Sono nato in Iran, sono stato li 20 anni ma i miei familiari sono afgani e si sono ritrasferiti in Afganistan. In Iran mi sentivo iraniano. Io ho sempre pensato di essere iraniano, però quando sono cresciuto, non avevo i documenti iraniani. Mio padre mi diceva non ti preoccupare torneremo in Afganistan. Li eravamo dei rifugiati. Quando sono tornato in Afganistan era la stessa lingua ma con differenti accenti, e la gente afgana se n’è accorta e mi chiamava iraniano. Noi eravamo parte degli “Hazara”, una minoranza etnica che nel mio Paese è discriminata. Quindi sono stato rifiutato anche in Afganistan e anche li ero rifugiato e anche qui in Italia lo sono.
I miei parenti sono andati in Iran per motivi religiosi, i sunniti sono estremi come “Al-Quaeda”, anche in Afganistan la maggioranza della gente è sunnita.
In Afganistan ci sono differenti gruppi etnici, in particolare sono 4 le principali: “Pashtun” di cui fanno parte i talebani, “Tagik” sono come gli iraniani, noi “Hazara” viviamo nel mezzo dell’Afganistan, e infine etnia si chiama “Uzbek” . Cento anni fa c’èra un re “Pashtun” afgano, la
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lingua maggiore è il “Pashtun” di 250 anni fa. Parte degli “Hazara”, come anche la mia famiglia, sono andati in Iran perché erano sciiti e sono andati prima della rivoluzione e li si viveva bene, mentre i sunniti in Afganistan facevano e fanno ancora diversi atti di terrorismo.
Cosa sai dirmi riguardo la discriminazione degli Hazara.
Dodici anni fa noi “Hazara” eravamo i secondi cittadini in Afganistan. Ma pensano che sei una minoranza.. ti trattano come un immigrato qui in Italia. Ti riconoscono dai tratti fisici e dalla lingua che sei un “Hazara”. Inoltre siamo la popolazione più acculturata e con molte più ragazze a scuola, perche crediamo che ognuno deve studiare. Nelle nostre terre non ci sono talebani, sono abbastanza sicure. Noi siamo musulmani sciiti ma le nuove generazione come me sono molto più secolari, laicizzate. Noi non combattiamo, crediamo nella pace e ci sono molti tipi di discriminazioni. Per le province di “Pashtun” vanno vari milioni di dollari mentre per le nostre province solo 400 000 dollari.
In Iran hai studiato? So che hai anche alcune esperienze lavorative di tipo artistico.
Io ho studiato in Iran matematica e fisica, poi mi piace fare i film e la fotografia. Però dato che mi prendevano in giro perche avevo accento iraniano, allora ho iniziato a imparare il dialetto e in Iran avevo iniziato a lavorare come stagista con persone che stavano realizzando un dramma in tv in Afganistan. Ho iniziato a lavorare in una tv anche li ma era difficile perché io non sapevo che c’erano tutte queste etnie in Afganistan. Altra cosa per cui ero discriminato non solo per l’accento. Ma anche perché ero Hazara le persone non si fidavano. Molte tv mi hanno detto di no per questa ragione. A causa delle mie origini.
Io dovevo fare un movie sui “Pashtun” per l’UNDP. Ma le persone mi chiedevano perché non sapevo il “Pashtun” ma io sapevo il persiano. E’ un lavoro dell’UNDP, dall’ONU. Ma io non piacevo loro perché ero “Hazara”. Quando sono andato per l’intervista molte persone mi hanno chiesto cosa stavo facendo. Non si fidavano.
In Afganistan un ragazzo mi ha aiutato a lavorare in tv, a scrivere testi per questi drammi televisivi, ma non mi pagavano e sono andato via. Dopo 6 mesi poi ho iniziato a lavorare in una radio come “editor” di programmi, successivamente sono diventato production manager di questa radio e dopo ho iniziato a fare montaggio del doppiaggio dei film ma ho lavorato anche come doppiatore, come traduttore.
So che hai diverse esperienze come regista e che hai affrontato anche diverse difficoltà.
Io ho pensato di fare un movie sui dipendenti dalla droga, allora ho pensato vado 2 mesi a vivere con loro con la camera e vivo con loro e registro tutto. Come dove vivono, dove dormono , mangiano, ho pensato di prendermi due mesi di vacanza dal mio lavoro ma il mio capo che era un mio amico mi ha detto di no e allora mi sono licenziato dalla radio. Ho poi iniziato ad andare con la camera, ho iniziato a filmare delle persone molto malate e drogate. Il mio video puoi anche vederlo su youtube, ho filmato loro poi li ho portati in un centro di trattamento, loro sono scappati 3 volte ma li sono riuscito a riportarli indietro e poi volevo aiutarli quindi io gli ho detto se non
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tornate in strada vi do una casa e da mangiare. Ma i miei soldi stavano iniziando a finire, poi un mio film è stato mandato in America, in Canada e in Europa. Poi ho iniziato a lavorare come montaggista per una tv. Ero molto eccitato di lavorare nuovamente in tv. Dopo ho lavorato con un ONG Americana come film maker. Ho fatto vari movie e cominciavo a diventare un po’ famoso nel mio Paese, dopo tanti lavori in radio, televisione. In 2008 ho fatto un altro movie e ho incontrati i responsabili di channel four, che sono parte della bbc e loro mi hanno detto di fare un movie circa le donne con il burka. Quindi ho pensato ma come loro tutte coperte con solo gli occhi come fanno a mettere gli occhiali , o gli occhiali da sole. Il nome del mio movie si chiama “sunglasses”. Nel 2011 ho vinto in Usa il 3° premio in un film festival a Los Angeles. Però non sono riuscito ad andare a prendere il premio perché in quel momento ero molto occupato a realizzare altri film. Ho imparato molto e sono maturato molto con i miei film. Avevo necessità di creare una mia compagnia cinematografica e essere indipendente. Però per le elezioni presidenziali ho iniziato a lavorare per uno dei candidati e ho fatto pubblicità per la sua campagna ma lui non mi ha pagato. Ma è stata una bella esperienza per capire che cos’è la politica, sono diventato poi famoso però molte persone a quel punto mi conoscevano, e quindi ho iniziato a creare la mia home company in una piccolissima stanza, bella ma molto piccola. Ho lavorato con il governo per 6 mesi con la mia compagnia, ma non condividevo la loro azione politica. Non mi piaceva il governo, erano corrotti erano cattive persone, in verità non volevo andare a lavorare per il governo. Ho iniziato a lavorare per creare alcuni film. Nel 2010 ho partecipato ad un concorso su “che cos’è la democrazia per il tuo paese” “photo democracy challenge” e ho fatto una foto. Successivamente ho vinto con la mia foto un altro premio era un concorso americano famoso, mi hanno mandato anche l’invito a studiare ad Harvard. Ero molto impegnato però in quel momento perché avevo dei progetti, ma sono stato stupido a non andare.
Ho fatto un altro movie sulle donne, su alcune ragazze molto famose nominate per il nobel, che hanno lottato e hanno creato molte scuole per gli Hazara nel centro dell’Afganistan. Una era il Ministro della Salute pubblica. Io volevo incoraggiare le giovani donne a prendere il loro esempio, a diventare come loro, a lottare. Queste donne nel video hanno parlato della situazione con i talebani e qual’era la situazione delle donne in quel tempo, dopo aver finito questo film l’ho dato alla tv il giorno dopo il Ministro mi ha chiamato e mi ha detto di interrompere a trasmettere il suo film. Questo perché molti mujaheddin hanno visto il movie e non erano d’accordo con il film. Allora lei mi ha chiamato e mi ha detto di interrompere. I mujaheddin conoscevano tutto di me e mi hanno detto che non potevo far vedere questo film da nessuna parte. Loro erano molto pericolosi perché sono da per tutto e inseriti nelle istituzioni nella polizia quindi possono ammazzarti velocemente e in poco tempo. I Mullah hanno mandato una lettera al presidente Karzai e gli hanno scritto che io facevo video non buoni e dovevano impedire a me di diffondere e trasmettere il film. Nel 2010 ho deciso di andare in città e scrivere sul muro “morte ai talebani”. Anche se era un alto rischio fare a Kabul una cosa del genere. Allora l’ho fatto ma non l’ho detto a nessuno. Il governo il giorno dopo ha rimosso la mia scritta: allora vuol dire che al governo piacciono i talebani?
Nel 2012 ho fatto la pagina facebook e ho invitato le persone a scrivere scritte a Kabul a scrivere “death to taleban”. Quattro gruppi si sono organizzati a fare le scritte insieme a me ma la polizia ci ha presi. Nel mio gruppo eravamo 3 e ci hanno presi tutti, e la polizia mi ha detto “tu sei pazzo!”. Loro sono brave persone. Ma mi sono convinto che anche i poliziotti erano fan dei talebani e c’erano sicuramente delle spie. Ho chiamato dei miei amici. Avevo amici nel governo e mi hanno aiutato e mi hanno liberato, ma hanno investigato su di me.
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Come sei giunto qui in Italia?
Per due motivi: il primo è legato alla questione delle “wall writing” ovvero per le mie scritte. Seconda cosa il Mullah ha inviato una lettera per mettermi in prigione. Allora anche molti amici e persone che conoscevo mi hanno cominciato ad ignorare. E questi musulmani estremisti talebani potevano ammazzarmi. Io in verità non sono musulmano praticante, sono laico e ho scritto spesso contro i musulmani estremisti. Ho chiamato miei amici all’estero per aiutarmi a lasciare l’Afganistan e ho avuto inviti per gli Usa ma anche per l’Italia. Per gli Stati Uniti era difficile per ottenere un Visto invece in Italia era più facile e sono venuto in qui come rifugiato. Sono andato prima in Svezia perche li si sta bene, ma non potevo restare li perché avevo il permesso italiano. Nel 2012 sono stato in Brasile e ho fatto un altro movie sulle donne li chiamato “dance with me” e ora ho deciso di fare un altro movie sui “gay” in italia. Sono qui da circa 2 mesi. Sono a Bologna perché mi hanno inviato qui dalla Svezia.
Io ora vivo in un terribile posto con zingari, musulmani. Quando poi scoprono che non sei musulmano, non sei sunnita a loro non piaci. Vivo anche con famiglie italiane da napoli, non è una casa ma è un campo rifugiati, presso una chiesa in corticella gestita dall’associazione “matteo 25” in collaborazione con la croce rossa.
Cosa rappresenta per te l’esperienza in Arte Migrante?
Ad Arte migrante mi sento bene perché ci sono molte persone da tanti paesi e perché vedi tanti italiani amichevoli, socievoli, ti chiedono della tua storia e tutto ciò è bello. Posso capire molto meglio sull’Italia, la cultura, la politica. Anche in Afganistan quando qualcuno viene nel mio paese noi apriamo le braccia per accogliere. Se non lo fai crei una distanza, e così in Arte Migrante molte persone aprono le braccia e ti accolgono rompono la distanza relazionale. Ora ho necessità di conoscere la storia la lingua la cultura italiana mi piacerebbe essere italiano.
Qual è per te il ruolo dell’Arte?
Per me l’Arte è il massimo linguaggio. Le persone possono non capire la lingua ma non possono non capire la lingua dell’Arte. Mette in connessione i sensi. In italia molte persone cantano suonano, comunicano attraverso l’Arte. Io amo questo. Io non conosco la lingua italiana ma conosco la lingua dell’Arte. Posso chiederti di guardare il mio video e tu non conosci la lingua del video ma puoi vedere le mie immagini i miei punti di vista. L’Arte è la più importante lingua internazionale, come queste bellissime ragazze che ci sono!!
Quando guardo le persone nella società ognuno ha un “pallone sopra la testa”. Il pallone è cosa pensano cosa fanno e molte persone hanno un pallone piccolo perche pensano a cosa vestirsi, mangiare, soldi. Ma il mio e il tuo pallone sono molto grandi pieno di colori. Gli artisti hanno un pallone molto grande perché l’Arte è per tutte le persone del mondo, è un grande universo, e il loro pallone è molto pieno di sogni, fantasie, progetti, colori. Quando guardo un artista vedo che ha un grande pallone sulla testa!
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Intervista a Selam, studentessa di Scienze Politiche, membro del movimento EYSNS, partecipante al gruppo Arte Migrante.
Paese di provenienza: Eritrea.
Data: 30 maggio 2013.
Come sei arrivata qui in Italia?
Io sono venuta qua nel 1999 con l’aereo, non ho dovuto affrontare tutte le difficoltà degli altri giovani. Sono arrivata tramite il “ricongiungimento familiare”, mi sono fatta tutte le scuole. Avevo il passaporto eritreo fino a poco tempo fa, ad un certo punto dovevo andare a fare una delega per i nonni ma mi hanno fatto delle storie. Li mi sono accorta delle ingiustizie che subisci dal regime, anche qui in Italia e allora sono entrata a far parte del movimento Eritrean Youth Solidarity for National Salvation (EYSNS).
Parlami del vostro movimento.
Il nostro movimento è composto principalmente da ragazzi giovani, e la maggior parte di noi è venuta via mare, con la barca a Lampedusa. La nostra associazione è internazionale, a Bologna è nata da un anno.
Tutti questi giovani hanno attraversato il deserto della Libia a piedi, e poi si sono imbarcati per venire qui. Come ad esempio Abram, lui è stato anche imprigionato. Poi è arrivato qui senza avere nessun aiuto, è riuscito a studiare, fa due lavori e ora fa anche l’università.
Siamo giovani che hanno deciso di unirsi per dire basta alla dittatura che c’è in Eritrea. L’economia interna dell’Eritrea è molto sorretta dalle rimesse. Tutti gli eritrei poi parlano la doppia tassazione: deve pagare oltre alla tassa italiana anche il 2 % del proprio stipendio al regime. Ciò in modo obbligato. Se si bloccasse tutto ciò noi potremmo riuscire a far crollare il regime.
Ogni eritreo ha un parente che è scappato dal paese! Ho iniziato a far parte del gruppo dalla nascita, Abram ha fondato il gruppo insieme ad un altro ragazzo. Da li poi ci sono state delle persone che l’hanno seguito.
Mia mamma non è tanto d’accordo, perché comunque hai delle ripercussioni. Adesso ad esempio io non posso più tornare in Eritrea, quindi non posso andare a trovare i miei nonni, però alla fine ho deciso di farla e ne pago le conseguenze. Ogni città ha delle “spie” che dicono chi partecipa ai movimenti ecc. Bologna ne ha molte all’interno del consolato.
Adesso il movimento EYSNS è diventato grande. Eppure era impensabile poter creare questo gruppo prima perché Bologna era uno dei più grandi sostenitori del governo, facevano il festival eritreo, che era a sostegno del governo.
Riuscite a coinvolgere i ragazzi eritrei di “seconda generazione”?
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I ragazzi che sono nati qui sono tutti condizionati da ciò che hanno sentito al consolato, gli hanno fatto il lavaggio del cervello fin da piccoli per cercare di promuovere il regime, di inculcare loro uno spirito patriottico verso il governo eritreo. Per questo è difficile coinvolgerli nel movimento. Quelli nati qua sono “bacati”. La maggioranza delle cose che gli dicono è falsa, ad esempio l’Etiopia e l’America sono i nemici assoluti. Non è vero. C’è stata una guerra con l’Etiopia, ma ora è passata. Un etiope per me non è un nemico. Ho amici etiope. L’Etiopia ad esempio va avanti, l’economia non si è fermata. Mentre in Eritrea se il dittatore morisse succederebbe un caos. Afewerki è andato al potere come governo provvisorio, ora è li da 22 anni, dal 91. Tutte le leggi che ci sono fatte e cancellate da lui. La popolazione non sa cosa sia la costituzione ne la democrazia, vive costantemente nella paura e basta. Quella che vive qui è talmente condizionata che sostiene il regime. Lui i giornali di opposizione autonomi sono stati tutti chiusi. Poi nel 2001 ha arrestato molti giornalisti, senza giudizio senza niente, fatti sparire. Ovviamente saranno morti perché cospiratori. delle persone che hanno protestato all’estero, quando sono tornate li sono sparite. Ad esempio c’è una ragazza che ha parlato contro il regime quando era in Germania poi quando è tornata per trovare i figli l’hanno fatto sparire.
Intervista a Suleyman, sarto, membro del coordinamento di Arte Migrante.
Paese di provenienza: Senegal.
Data: 15 giugno 2013.
Come sei arrivato qui? Qual è la storia del tuo viaggio in Italia?
Mi chiamo Suleyman vengo dal Senegal e sono nato e vissuto a Dakar. Sono arrivato in Italia nel 2011 per fare un intervento per agli occhi e dopo l’intervento sono rimasto. Questo perché prima di venire in Italia avevo una sartoria e dato che l’intervento costava 2800 euro per ogni occhio ho venduto tutte le mie macchine. L’ambasciatore mi ha dato un visto di 2 mesi e mezzo ovvero un permesso di cure mediche. Non sono rimasto perche in Senegal non mi era rimasto più niente. Pensavo di lavorare , avere un po’ di soldi comprare delle macchine di cucito e tornare indietro. Ma dopo i 2 mesi e mezzo però mi sono scaduti i documenti. Prima sarei dovuto andare alla questura per prolungare il permesso di cure mediche ma l’avrei dovuto fare subito appena arrivato in Italia. Invece l’ho fatto dopo 1 mese e la legge invece prevede che entro 8 giorni che si è in Italia si può ottenere il permesso di cure mediche.
Chi ti ha aiutato a venire qui e a curarti?
A me mi ha aiutato un associazione italiana che lavora in ambito sanitario in Senegal e loro mi hanno fatto la visita in Senegal. Uno di loro il 1° giorno è venuto in ospedale con me ma poi mi ha lasciato al mio destino. Io con loro avevo rapporti buoni perché un amico di mio zio aiutava l’associazione nell’ospedale di Mbur, l’associazione opera li.
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Tu non hai avuto il sospetto che ti abbiano fatto pagare troppo?
No no, l’intervento che ho fatto era molto pericoloso. Quando ho fatto primo intervento dopo ho parlato con il dottore che mi ha operato, perché non avevo ancora altri 2800 euro per fare l’altro occhio. Allora il dottore mi ha aiutato a fare l’intervento senza pagare nulla. In ospedale mi hanno trattato benissimo.
Quindi hai perso i documenti?
Sono sempre stato senza documenti dal 2011, e i poliziotti mi hanno fermato due volte, mi hanno portato alla questura, perché la casa dove abitavo era del comune. Non pagavamo più l’affitto allora il comune l’ha mandati li. Io gli ho dato il mio passaporto, quando siamo arrivati alla questura mi hanno dato il “foglio di via” e mi hanno detto che entro 7 giorni dovevo uscire in Italia.
Hai ancora questo foglio di via?
Ho chiamato il mio avvocato italiano che mi aiuta e mi ha detto di non preoccuparmi. Infatti prima che il mio visto scadesse ho preso l’avvocato l’ho pagato 200 euro e mi ha detto che il permesso di cure mediche era un mio diritto.
So che hai avuto esperienze di lavoro molto dure come ad esempio quella di Rosarno.
Prima di venire in Italia pensavo di trovare un lavoro facilmente. Ma ho scoperto che è difficile. Dopo gli interventi un amico di mio zio senegalese a Rosarno mi ha chiamato e mi ha detto che c’è raccolta di mandarini. Lui mi ha dato 50 euro per aiutarmi con i biglietti e sono andato. Ma io credevo una volta arrivato di abitare con lui, ma non è stato cosi. Quando sono arrivato ho trovato un altro amico di mio zio che mi ha portato in un altro comune vicino a Rosarno distante 1 km e mezzo da mio zio. Lui mi ha portato in questo campo di mandarini distante da Rosarno, e ho abitato in questo campo. E’ stata una cosa che non mi aspettavo.
Dove dormivi? Quali erano le tue condizioni di vita a Rosarno?
Dormivo in un tendone, all’interno di una tendopoli di 288 posti letto. Ogni tendone aveva 6 letti. Quando sono arrivato nel campo ho trovato 2 macchine della polizia davanti la porta , questo perché c’èra stata una rissa tra due senegalesi. Sono andato dritto all’ufficio che gestiva il campo, e ho chiesto a loro dove sono i senegalesi. Loro mi hanno detto “vai li che c’è un assistenza alla porta”. L’associazione che gestiva il campo si chiamava “il mio amico Jonathan” .
Li ho fatto 4 mesi molto duri di lavoro. Quella di Rosarno è stata un esperienza che mai avevo fatto prima. Quando sono arrivato alla raccolta per esempio nella tendopoli c’èrano più di 1000 africani, senegalesi ,maliani, marocchini, tunisini, ghanesi. Molti si sono fabbricati un ghetto di baracche dietro la tendopoli. Allora l’acqua non bastava più e anche la luce e ogni giorno l’acqua si rompeva. E la notte faceva freddo. Io mettevo 2 giacche 3 pantaloni e 3 coperte per coprirmi.
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Andavo nel ghetto a fare la doccia perché da noi erano rotte e sporche. E per andare in bagno prendevo la mia bici e l’acqua e andavo nella campagna. Perche i bagni da noi erano tutti rotti e sporchi.
Quali erano invece le condizioni di lavoro in termini di orari e paga?
Lavoravo ogni giorno dalle 8 di mattina alle 4 di pomeriggio, dal lunedì alla domenica, anche quando pioveva. Perché se tu non lavori loro ti mandano via e vanno a cercare un altro. Mi davano 25 euro al giorno (ovvero circa 3 euro l’ora). Hanno fatto un contratto quindi non mi pagavano in nero ma ho preso i documenti di un amico per fare il contratto. L’amico di mio zio mi ha aiutato e il padrone del campo mi conosceva con un'altra identità quella dei documenti che mi hanno prestato.
Io però prima di iniziare nel campo dell’amico di mio zio, avevo fatto già un mese di lavoro in un altro campo e lavoravo in nero dalle 8 fino alle 17 e mi pagava ogni giorno 22 ,50.
Come ti sei trovato a Rosarno?
A Rosarno c’è razzismo. La prima cosa che mi hanno detto è che le donne italiane a Rosarno non si toccano, ma io sono andato li per lavorare non per le donne. Una volta tornavo dal lavoro e andavo a piedi al campo e c’erano due ragazzi in motorino italiani che mi chiamavano. Io non ho risposto, poi uno di loro è venuto da me e quando mi sono girato mi hanno detto “sei un cane! “, ma io non ho risposto e sono andato via. Anche tre africani sono morti nella strada con le loro bici, investiti volontariamente da una macchina.
C’è anche un mio amico che è andato una volta nel bar per pagare un caffè e il barman gli ha dato un bicchiere di plastica e quando il barman gli ha dato un bicchiere di plastica c’èrano altri italiani che hanno dato un bicchiere di vetro. E lui non ha detto niente però ha guardato il barman negli occhi e gli ha dato un euro al barman ed è andato via lasciando il caffè li senza dire nulla, offeso da ciò che era accaduto.
Li a Rosarno ho conosciuto però un associazione che si chiama “africalabria” italiani e africani insieme , il presidente era senegalese, poi sono entrato in contatto con la “rete campagne in lotta” di cui africalabria faceva parte. Li ho iniziato a frequentarli e a fare attività con loro, facevano una scuola di italiano nel ghetto. E’ un associazione di volontari che vengono da tutti i territori d’Italia, loro lottano insieme a tutti i migranti che lavorano nelle campagne per i loro diritti. Ogni volta loro mandano un avvocati e sindacalisti per informare gli africani sui loro diritti.
Come sei arrivato a Bologna?
Quando è finita la raccolta sono tornato a Bologna e sono andato ad abitare da un amico Senegalese e ho fatto li 2 mesi e dopo mi sono trasferito da mia cugina e ho abitato da lei per altri 2 mesi. Poi ho incontrato un amico italiano e sono andato con lui ad una manifestazione che i migranti hanno fatto e li ci siamo conosciuti e sono entrato in Arte migrante.
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Cos’è per te Arte migrante? Come vivi la tua identità di immigrato senegalese in questo gruppo?
Quando sono venuto da voi ho trovato tanti italiani e tanti immigrati di diverse nazionalità. La prima volta che sono venuto li mi è piaciuto perché ho raccontato la mia storia e gli altri mi hanno ascoltato. Da quel momento in poi sono venuto sempre. Ad arte migrante non mi sento uno straniero, questo mi è piaciuto. Non dico che mi sento italiano però sicuro non mi sento uno straniero, cosi anche quando frequentavo “campagne in lotta”, perché loro facevano la mia lotta. Prima di arte migrante quando ho incontrato italiani mi sentivo straniero, vedevo che mi guardavano con un occhio diverso. Anche senza parlare sento questa sensazione di diversità tra me e loro. Mentre ad Arte Migrante mi trovo bene con tutti, c’è un rispetto reciproco. Prima di venire ad arte migrante guardavo gli italiani in modo diverso. Anzi in Senegal, prima che venissi qui, pensavo che in Italia non c’era razzismo perché era un paese che aveva esperienza di migrazione in America e in altre parti del mondo. Ma in Italia soprattutto a Rosarno ho trovato tanto razzismo. Anche a Modena, a San Felice sul Panaro ho trovato un signore che camminava con me sulla stessa strada ma che ha cambiato subito strada perché non voleva stare con me nella stessa strada. Lo ha fatto apposta, perché mi guardava e quando poco dopo l’ho rincontrato ha cambiato di nuovo strada. Per questo all’inizio ero un po’ diffidente in Arte Migrante , non volevo parlare troppo di me. Perché non voglio che accadono di nuovo atti di razzismo verso di me.
Da dove vengo io , in Senegal ,non c’è razzismo quando un bianco viene da noi. Il nostro paese si chiama “pais de la teranga” che in lingua Wolof vuol dire “paese della ospitalità”. E’ quando sono venuto in Italia che ho conosciuto il razzismo, prima non lo conoscevo.
Ad Arte migrante mi sento a casa mia con i fratelli e sorelle. Sono sempre con voi perché penso che sia importante nella lotta al razzismo!
Con il gruppo Arte Migrante ti esibisci come cantante. Cos’è per te la musica?
La musica è importante, io non sono un cantautore, ma ad arte migrante canto, perché so che ad arte migrante ci sono persone come me, che hanno dei problemi, che hanno vissuto atto di razzismo, e allora canto perché ogni volta che ho cantato ho visto che la gente è contenta per questo lo faccio e lo farò sempre. Io ho parlato alla mia famiglia di questo gruppo, ai miei fratelli e i miei zii, che ogni mercoledì vado a trovare i miei fratelli e sorelle immigrati. Loro mi hanno chiesto se era meglio di Rosarno io gli ho risposto di si, sono contenti per questo.
Hai avuto altre esperienze artistiche prima di venire in Italia?
Io in Senegal ho fatto tante cose. Avevo un gruppo di teatro e ho fatto un film che si chiama “miraas” insieme a loro. Miraas vuol dire “eredità”. Questo film l’ho scritto io e ho fatto l’attore principale. Ho fatto anche una scuola di cinema. Al mio paese ascoltavo sempre la musica e cantavo da solo in camera mia. Ho cantato davanti a tutti per la prima volta a Rosarno in un concerto organizzato da Africalabria nella tendopoli. Ad Arte Migrante ho cantato Youssen Dour . Lui è il più famoso cantautore d’africa e mi piace molto, quello che ascolto di più. Poi ho cantato una canzone in wolof e italiano che parla di amore. Ma il mio cantautore preferito è Baaba Maal. Una sua canzone che ho cantato in lingua “Puular”, lingua del mio popolo, chiamata “Diam leli”
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parla della pace che è il solo strumento possibile per far andare avanti il mondo e noi dobbiamo lottare per costruirla.
Il Senegal è un Paese che è stato colonizzato dai francesi. Sai dirmi qualcosa su questo?
Dakar era chiamata “la capitale del colonialismo francese” perché i francesi prendevano gli schiavi e li mandavano li a 3 km dal mare in un isola che si chiama Goree. Allora i francesi mandavano gli schiavi sull’isola e dopo li portavano in Europa e America per venderli. E’ 52 anni che siamo indipendenti e nonostante questo c’è ancora una forte presenza francese nel mio territorio. Ma la dittatura non c’è in Senegal, è un paese libero, democratico dove non esistono prigionieri politici e dove c’è sempre stata libertà d’azione.
Dopo che abbiamo l’indipendenza il nostro primo presidente era cristiano per 20 anni. Dopo c’è stato un presidente musulmano per altri 20 anni. Però c’è sempre stata libertà di azione. Ma adesso c’è piu democrazia. Prima ad esempio c’era solo una televisione ma ora abbiamo più di 10 televisioni e più di 200 radio! Ogni comune ha una sua radio. Le parti politiche anche sono più di 100. Inoltre da noi c’è povertà ma ci sono tanti ricchi e ci sono poche bidonville.
Intervista a Susanna, studentessa di fotografia, membro del gruppo Arte Migrante.
Paese di provenienza: Finlandia.
Data: 5 giugno 2013.
Cosa ti ha portato a trasferirti qui in Italia?
Sono arrivata in Italia per fare volontariato europeo con gente disabile. Mi sono trovata bene a Forlì. Sono venuta in Italia perché da sempre sogno di andare in un altro paese. Ho cercato tante possibilità di trasferirmi all’estero ho trovato questa cosa. L’Italia l’ho scelta per la lingua e per la cultura. Poi dopo il volontariato mi sono trovata molto bene e ho pensato di restare in Italia per gli studi. Sono venuta a Bologna per progetto chiamato “una ragazza alla pari”. Non è un lavoro ma è uno scambio interculturale in cui io vado in una famiglia come se fossi una sorella più grande. Mi danno cibo e casa e anche un po’ di pocket money e io faccio però da baby sitter ai figli. Poi andrò a Firenze perché mi sono iscritta in un accademia privata di fotografia.
Come ti sei trovata a Bologna?
Mi sono trovata sia bene che male. Mi piace molto il cibo la cultura, la famiglia dove faccio quest’esperienza mi trovo bene perche sono molto simpatici. Abitare a Bologna è molto comodo perche ci sono tanti mezzi pubblici, poi anche la gente che c’è è molto simpatica aperta però c’è anche gente molto antipatica. Quest’anno a Bologna mi sono sentita straniera perché mentre a Forlì avevo più amici. A Forlì per caso ho trovato la gente che mi ha preso molto bene, mentre a
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Bologna ho trovato anziani a cui non piacevo per niente, che sostenevano che ero venuta qui in Italia per rubare il lavoro.
Io credo che alla fine se qualcuno è razzista si fa vedere così tanto nelle sue azioni che tutti pensano che lo è. Il problema poi è che l’anno scorso la gente mi vedeva in modo diverso perché ero una volontaria mentre quest’anno sono una baby sitter e quindi pensa che io lavoro e rubo il lavoro alle ragazze italiane. Poi mi scambiano per una mamma e quindi pensano che io sono una mamma giovane straniera venuta qui per lavorare. C’era un periodo in cui la gente mi domandava spesso da dove venivo. In quel periodo alla gente non piaceva che ero Finlandese perché nel mio paese c’è benessere e qui invece c’è crisi e non è giusto che io sia venuta qui da un posto così ricco.
Con i tuoi coetanei italiani che rapporti hai avuto?
La maggior parte dei miei amici sono maschi. Questo perché lavoro e non ho avuto occasione di incontrare ragazze. Essendo a casa a lavorare nessuno viene a bussare alla porta a fare amicizia.
Che pensi di Arte Migrante?
Mi piace questa iniziativa perché si può vedere altra gente, è anche brutto svegliarsi e sentirsi soli, per me è bello che la gente passa dei momenti insieme, si fa conoscere. Inoltre è bello sentire storie di vita dura perché si inizia essere più felici della propria vita e si inizia a capire che le mie cose stanno molto bene e che ci sono molti problemi . Si inizia ad essere felici delle cose buone, è importante non essere razzista è poi è importante che la gente da diversi Paesi e da diverse culture si incontri insieme. E’ vero che all’inizio quando una persona scopre che sei di un altro paese ti vede in modo diverso, però quando dopo la conosci bene allora cambia il suo pensiero. Perché se una persona viene vicino a te e ci conosciamo scopriamo che anche se viene da una cultura lontana si capisce che non sei tanto diverso e che in realtà siamo interiormente vicini.
So che hai una passione per la pittura. Che valore ha per te l’arte?
A scuola ho scelto più lezioni di arte perché mi piaceva molto. Anche a casa dipingevo in acrilico. Al liceo abbiamo provato un po’ tutti i generi artistici. In Finlandia facevo quadri paesaggistici e da quando sono in Italia ho fatto poche volte questo ho cercato su internet alcune foto e le riproducevo.
Per me l’arte è una cosa dove puoi diventare piu brava. Soprattutto quando son stata male ho potuto liberarmi della sofferenza grazie l’arte e la musica. Durante scuola media, non stavo bene, perché da me c’èero tanto bullismo, ad esempio da me una ragazza è stata in cinta, c’erano due bocciati, io ho sofferto perché sono stata vittima di atti di bullismo. L’arte è stato un certo modo di liberarsi da tutto questo, almeno per una persona l’arte è un aiuto, invece che andare a bere o a fumare può essere un modo per liberarsi dai veri sentimenti e dal razzismo.
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Intervista a Usman, studente della scuola di italiano per stranieri Albero di Cirene, membro del gruppo Arte Migrante.
Paese di provenienza: Pakistan.
Data: 9 giugno 2013.
Qual è la storia del tuo viaggio qui in Italia?
Sono arrivato con un aereo. Prima in Pakistan studiavo all’università, mi sono laureato in storia. Poi sono venuto qui per completare il mio grande sogno: costruire una grande fabbrica commerciale. Ma vedo che tanti stranieri fanno molto fatica qui a trovare lavoro. Io vorrei creare un lavoro per tutti. Prima ho fatto lavori domestici tipo badante. Ho trovato alcuni amici qui in Italia.
Come ti trovi in questo Paese?
Questo Paese da molte opportunità ma quando io sono arrivato qui alcuni amici pakistani mi hanno fatto conoscere un professore via internet, da cui ho studiato che mi ha cambiato la mia mentalità, il mio modo di pensare. E’ un professore americano che ha aiutato tante persone a fare successo, dal basso a diventare ricche, e a fare carriera e a realizzare le proprie ambizioni. E ho pensato che dovevo fare qualcosa per le altre persone. Ho visto che tante persone straniere compreso me abbiamo molti problemi perché il lavoro non si trova, ma anche altri problemi come la lingua, i documenti. Tante famiglie pakistane hanno difficoltà a vivere, a procurarsi i soldi per mangiare. Io ho preso la decisione di cercare prima di prendere il permesso di soggiorno e poi piano piano organizzarmi per realizzare una grande fabbrica speciale per stranieri ma anche per tutte le persone. Per adesso io sto solo immaginando, non so ancora che tipo di fabbrica posso fare. Inoltre penso che non c’è bisogno di studiare per fare grandi aziende commerciali. Questo è il mio motivo principale, mentre prima quando ero in Pakistan non avevo questi motivi di vita, non avevo dei motivi precisi.
Qual è la tua esperienza in Arte Migrante?
È un gruppo di persone giovani e intelligenti. Mi piace il modo di pensare delle persone che ne fanno parte. Sono tutti brave persone. In Italia alcuni pensano che non vanno bene gli stranieri, ti guardano con degli occhi strani. Succede anche in arte migrante. Ma questa è una cosa normale, noi siamo stranieri, non è colpa loro ma è colpa nostra perché non siamo italiani ma siamo stranieri.
Mi piacciono tutte le persone che hanno talenti e che fanno musica, poesia. Inoltre mi piace la vita dei giovani italiani che è molto diversa dal mio paese. Loro fanno delle attività giuste per il
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sociale! Mentre nel mio paese pochi si impegnano per il sociale. Mi piace molto anche l’impegno che c’è qui per la politica.
So che sei molto appassionato di poesia.
Fino ad ora ho letto solo delle opere di un poeta del mio Paese chiamato Iqbal. Poeta molto famoso in tutto il mondo. Lui dice solo un messaggio a tutte le persone. Lui spiega che questa vita non è per i delusi, ma tu sei una persona. Non è un problema se sei un musulmano o meno, “abbiamo tutti una stessa mente”, siamo tante menti insieme. Anche se nel mondo ci sono persone ricche e persone tanto povere comunque sono tutti “insieme di menti” non ci sono differenze. Ognuno usa la mente in modo diverse. Ma lui ha detto che la mia vita è solo motivo per le altre persone. Tu hai una differenza di vita, di pensare, di motivo. Che non è ascoltando altre persone disoneste, non è seguendo quelle persone ma seguendo il tuo grande motivo, il tuo grande sogno. Quando io vado per completare il mio sogno ci sono tanti problemi e difficoltà che devo affrontare e superare per non perdere il mio motivo di vita. Lui ha fatto l’esempio dell’aquila. L’aquila è un uccello che non prende altri uccelli per cibarsi. Tutti gli altri uccelli volano dietro l’aquila, hanno rispetto per lei. Quando io devo andare per completare il mio sogno devo cancellare me stesso, ogni mia paura, ogni timore, come ad esempio pensare ai soldi o a ciò che gli altri pensano di me. Ma quando vado a completare il motivo prima lo devo fare per me stesso e per il mio sogno, senza pensare alle paure, o agli altri. Ma c’è bisogno di essere onesto, di credere in Dio, di credere in se stessi.
Qual’ è la condizione politica in Pakistan?
In Pakistan adesso ci sono tanti problemi, ci sono tante persone che hanno problemi. Adesso noi siamo felici perché abbiamo un presidente onesto. Negli scorsi 50 anni c’era corruzione disonestà anche se il primo presidente nel ‘47 Jinnah anche era onesto. Ma adesso siamo felici perché abbiamo trovato un'altra persona onesta. Lui è diventato un grande giocatore di cricket e come Iqbal ha studiato in Inghilterra. E’ uno molto per la “verità”.
Tra India e Pakistan ci sono stati diversi conflitti in passato. Qual è Il tuo rapporto con il ragazzo indiano Monarc di Arte Migrante?
La guerra è un problema di governo non delle persone. Io voglio la pace , e vorrei che tutte le persone desiderassero la pace, io credo in questo con tutto il cuore. Io penso diverso da altre persone del mio Paese. Io non penso che Monarc sia un indiano ma semplicemente una persona. Non è importante che sia indiano o pakistano. Questo perché come ho già detto anche se siamo persone diverse, ricchi e poveri, indiani o pakistani, siamo tutti un insieme di menti.
Intervista a Zineb, studentessa italiana di origine marocchine, scrittrice, membro di Arte Migrante.
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Paese di provenienza: Italia.
Data: 15 Ottobre 2013.
Zineb sei nata in Italia ma provieni da una famiglia di origine marocchina.
Non è facile accettare il fatto di venire da un altro paese, io sono stata abbastanza fortunata perche ho trovato persone molto gentili. Però lo percepisci sempre che non appartieni ad una certa cultura, se non condividi certi ideali è difficile inserirsi in un altro ambiente quindi nonostante i miei vivessero in Italia la mia cultura era comunque quella del mio paese. E’ difficile da coniugare con la cultura italiana, è quasi impossibile trovare un approccio tra due mondi così differenti. Una difficoltà ad esempio è andare al ristorante e scoprire che non puoi mangiare certi alimenti.
Prima per me sentirmi diversa era un peso. Però con gli anni diventa un punto di forza, ti rende unico, perché in un mondo in cui tutti sono uguali spicca chi è diverso.
In Italia c’è razzismo?
Si purtroppo si. Il razzismo lo noti a partire dalle scuole elementari fino a che diventi adulto. A volte può essere ricevere un insulto cattivo “tu sei marocchino” o a volte la sorpresa dei professori “sai scrivere proprio bene italiano anche se sei marocchina!” Oppure l’autista dell’autobus che pensa che tu non abbia il biglietto e te lo chiede tutti i giorni o il barista che ti chiede subito la consumazione. Ce ne sono di esperienze che ho vissuto. Quando ad esempio devi affittare una casa e se sei straniero di solito o ti chiedono molti mesi di anticipo o a volte non te la danno proprio. La prima domanda che ti fanno è “sei straniero?”. I miei hanno dovuto pagare con 6 mesi in anticipo la casa dove abitiamo ora.
A molti stranieri inoltre non viene fatto un contratto di lavoro. Per esempio in pizzeria non mi volevano fare il contratto perché ero straniera, poi me lo hanno fatto. c’è lo stereotipo dello straniero che lavora in nero, o lo stereotipo della badante. Tipo quando dico che lavoro mi chiedono se faccio la badante.
Di solito sono le persone più anziane che fanno fatica ad accettare la presenza degli stranieri. Nel mio paese in cui sono cresciuta ci sono molti anziani. Succede spesso che quest’ultimi dicono ai nipoti di non giocare con me perché sono straniera e dunque sono sporca o malata. Cose inventate, pregiudizi. Inizialmente capita che susciti molta sorpresa, per esempio quando dico che faccio lettere all’università. A volte può capitare che susciti invidia, nel senso che non riconoscono il fatto che tu possa aver successo in qualcosa. E’ come se togliessi qualcosa alla gente che abita qui. Io non sono d’accordo, io ho vinto diversi premi letterari come narratrice. Anche quando vinci dei premi e lo racconti alcuni pensano “però non ti spetta, non sei di qua”. Ci sono tante forme di razzismo.
Che ne pensi della tua esperienza di scrittrice nel gruppo di Arte Migrante?
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Arte Migrante è una bellissima idea. E’ importante il fatto è che ti da spazio ti ascolta e questo è un grande pregio. Non giudica, non ti senti giudicato. Non parte da un giudizio ma ti da la possibilità di esprimerti, è anche molto istruttiva come associazione magari andrebbe gestita diversamente per le presentazioni. La cosa che mi piace tantissimo è che mette in comunicazione le persone attraverso l’arte. Per me rappresenta l’unico linguaggio universale attraverso cui si può comunicare con ogni altro essere vivente. E’ lo strumento più immediato e poi è legata ad altre sensazioni, non si ferma li, comporta un ragionamento continuo. Una poesia magari letta da un poeta afgano è diversa, ti rimane, perché la diversità è un punto di forza. L’arte è l’unico modo per portare le persone a riflettere.
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