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“La spirituaLità neLLa Carità”
1) Cenni su “la Pastorale della Carità”
2) La metodologia di Caritas Italiana,
attraverso l’osservazione, l’ascolto ed il
discernimento
CARITAS DIOCESI
CASERTA
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“La Spiritualità nella Carità”
La chiesa nasce dalla carità, è generata dalla carità e la carità è generata dall’ascolto.
“Salomone, il giovane figlio di Davide, succede a suo padre come re in Gerusalemme.
Salomone è il messia per eccellenza, è l’unto del Signore. Salomone è molto giovane, nulla
lascia prevedere la sua gloria, né la sua vita peccaminosa. Il regno ricevuto da Davide è un piccolo
regno, minuscolo e non c’è ancora il tempio costruito. Per inaugurare il suo regno, Salomone decide
di recarsi sulle alture, ove si stanno compiendo sacrifici a Dio, per offrire, a sua volta, un grande
sacrificio con 1000 vittime.
Il Signore, nella notte, gli appare e gli dichiara “domanda ciò che vuoi che io ti conceda”.
Salomone potrebbe chiedere molto. E’ un invito incondizionato da parte di Dio, ma, davanti a
questa straordinaria offerta, Salomone così prega: “Concedi al tuo servo un “leb shomea”.
Il termine “leb” sta ad indicare il cuore, ma con un significato diverso da come siamo abituati
ad intenderlo. Noi pensiamo soprattutto alla sede, all’affettività, in contrapposizione alla
razionalità della mente. In ebraico non esiste l’espressione “mente”, la persona viene vista in tutta
la sua unità ed il cuore rappresenta sia la sede dei sentimenti che dell’intelletto, del discernimento.
“Shomea”, participio passato di shamà, significa “ascoltare”, quindi Salomone chiede un
“cuore che ascolta”. Dio è contento che Salomone abbia fatto la richiesta della capacità di ascolto
da parte del cuore e prosegue: <<Poiché tu hai domandato questo, non mi hai chiesto né lunga vita,
né ricchezza, né prosperità, neanche la morte dei tuoi nemici, io ti do davvero un cuore che sappia
ascoltare>> ”.
Un cuore sapiente e capace di discernimento (1Re 3,6ss). “L’ascolto dei poveri”, E. Bianchi - convegno diocesano Caritas parrocchiali, Milano, il 10 novembre 2001.
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SPIRITUALITÀ DELLA CARITÀ
1. Premessa
Negli ultimi tempi, il tema della Carità sembra essersi affermato all’attenzione delle comunità
cristiane, tuttavia, ancora oggi, è ben lungi dal diventare orientamento e forma stessa dell’ecclesiae,
come indicato nei documenti della Chiesa, dai tempi del Concilio Vaticano II°.
All’inizio del nostro percorso, quindi, è importante porci delle domande essenziali che ci
aiutino a chiarire e specificare il nostro iter studiorum e le sue finalità: è possibile formulare una
teologia sistematica della Carità? O la carità va esaminata nell’ambito esclusivamente delle virtù
cristiane? La teologia della carità che impulso nuovo può donare alla pastorale? È una parte
integrante di essa o ne rappresenta l’anima? Iniziamo con ordine procedendo per piccoli passi, in
modo da sciogliere i vari quesiti lungo il nostro cammino.
In questa nostra prolusione vogliamo semplicemente enucleare i termini base del nostro lavoro:
teologia e carità. Volgarmente la Teologia viene definita come il discorso su Dio, ma questa semplice
definizione da adito nella moderna cultura ad errate interpretazioni: spesso si pensa alla teologia
come un pensare a-priori su Dio o una semplice riflessione intuitiva che l’uomo compie sul grande
mistero che è Dio. Gli equivoci sono molteplici! Il fraintendimento linguistico sul termine teologia,
equivale, allo stesso modo, per la parola Carità, spesso confusa con la semplice elemosina.
Chiarificare, quindi, questi termini ci aiuterà a semplificare il nostro lavoro.
Accettando la definizione di teologia come discorso intorno a Dio, bisogna chiarire che, la
teologia cristiana non decide nulla a-priori, per la ragione che essa non conosce nulla a-priori del
mistero cristiano: mistero generato dalla pura gratuità divina.1
La teologia, infatti, è “Invenzione” nel senso originario del termine: è ritrovamento.2
Essa si basa sulla rivelazione che Dio compie di se nell’opera del Figlio.
1 I. BIFFI, La carità nella Metodologia della Teologia sistematica, in: La Carità, teologia alla luce del Dio Agape, EDB, Bologna, 1988, a
cura di: Istituto pastorale dell’Università Lateranense, 71-77. 2 R. LATOURELLE, Teologia della rivelazione, Cittadella, Assisi, 1996, 30
CENNI di “TEOLOGIA DELLA CARITA’ ”
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Specificare, inoltre, il termine Carità ci aiuta ad approfondire il discorso intrapreso: dal punto di
vista lessicale sappiamo che il verbo greco agapan, tradotto con il latino Caritas, ha conosciuto un
originale salto semantico dal greco classico, dove conosce il vago significato di “riverire con affetto,
prendersi cura”, al greco biblico dei LXX e soprattutto del NT, dove acquisisce il significato tecnico
di “amare gratuitamente e per traboccamento”.3
Questo significato è il risultato della rivelazione divina che il Cristo ci dà del Padre; rivelazione
che si attualizza nel “tradere” della forma ecclesiae. In parole povere, questo amare per
traboccamento prevede una sorgente originaria e originante che è il mistero trinitario, rivelatosi in
Cristo come Amore, cioè Agape. In questa coscienza del primato genetico-costitutivo della Carità, in
questa precedenza istitutiva, la teologia appare come il discorso della Verità profonda di Dio che è
Amore, e che instaura con l’uomo una storia coerente con la propria identità.4
Sotto questo aspetto è Dio che fa teo-logia, in quanto è lui a darle gratuitamente l’inizio e la
forma. Afferma, infatti, il De Caritate Ecclesia:
Quasi percorrendo da capo il, tragitto discendente, dalla Trinità in giù, verso la storia, ci siamo
concentrati su ciò che costituisce l’essenza di tale discesa e di tale derivazione: la Carità. La Chiesa deriva
autenticamente, attinge, resta realmente sotto e dipendente dalla Trinità, e in modo vitale e concreto, tale che la
radichi nella storia, solo se essa vive la Carità. La Carità ne è il suo principio, e la sua forma.5
2. L’Agape nella Sacra Scrittura
Vogliamo ora procedere in un breve escursus del concetto di Amore/Agape espresso nel testo
sacro, senza avere la pretesa di un analisi approfondita che lasciamo al campo dello studio esegetico.
2.1. L’Agape nell’Antico Testamento
Spesso le categorie bibliche dell’AT hanno provocato visioni negative di Dio: un dio della
paura e della collera, un dio severo ed esigente al pari degli idoli esistenti nelle popolazioni prossime
al popolo nomade d’Israele. Certa saggistica, inoltre, tendeva in passato a contrapporre il Dio
inquieto dell’AT, al Dio buono e paterno rivelato nel volto di Cristo e trascritto nel NT.6
Risulta, altresì, evidente che la piena rivelazione di Dio come Amore avviene nel NT, tuttavia
possiamo rinvenire nell’antico, i tratti essenziali di un Dio che si rivela amorevole nei confronti del
3 C.SPICQ, Agapè dans le Nouveau Testament. Analyse des textes, 2voll., Paris, 1966, I p, 59. 4 I. BIFFI, La carità nella Metodologia della Teologia sistematica, in: La Carità, teologia alla luce del Dio Agape, EDB, Bologna, 1988, a
cura di: Istituto pastorale dell’Università Lateranense, 71-77. 5 ATI, De Caritate Ecclesia, Messaggero, Padova, 1987, 6. 6 G.PASINI, Carità quinto Vangelo, EDB, 2005, 14.
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suo popolo. Nell’AT, infatti, l’amore di Dio non è un sentimento, nè un semplice comportamento, ma
l’azione di Jahwè che si ricorda del suo popolo prigioniero in terra straniera e interviene in suo
favore.7 È stato soprattutto il libro dell’Esodo e del Deuteronomio, a interpretare questo patto
d’amore stretto tra Dio e l’uomo.8
Nei libri profetici si nota un evidente salto in avanti del concetto di Amore; Osea segna il
vertice di questo progresso: il profeta mostra un Amore Divino che non si lascia scuotere da affetti e
recriminazione, ma ama il suo popolo infedele.9 La risposta dell’uomo scaturisce dall’esperienza
dell’amore misericordioso e preveniente di Dio. Il profeta Geremia, inoltre, per primo osa postulare
la reciprocità dell’amore tra Dio e il popolo, senza in alcun modo distruggere la coscienza che esso
ha della trascendenza di Dio.
2.1.1. L’Amore al prossimo
Dall’azione salvifica di Dio per il suo popolo deriva il dovere di servilo; dovere che include
l’amore al prossimo. Il precetto dell’amore al prossimo appare esplicitamente nell’AT, in un periodo
piuttosto tardivo, cioè nel Lv 19,18.10 Negli scritti profetici, in seguito, viene chiarito che l’origine
dell’amore fraterno non va trovato nella legge e nel culto, ma nel rivelarsi di Dio stesso: l’amore al
prossimo è l’estensione agli uomini della salvezza ricevuta da Dio. Il prossimo, inoltre, è qualsiasi
membro della comunità di Israele e quindi un soggetto ben identificato: l’amore fraterno quindi
determina i rapporti che devono legare tra loro i membri dello stesso popolo israelitico.11
2.1.2. L’Amore al povero e il senso di giustizia
Dal precetto biblico dell’amore al prossimo deriva quello ai poveri e il senso stesso di giustizia.
La liberazione d’Israele dall’Egitto ne è il fondamento: come il popolo è stato salvato dalla schiavitù,
così esso deve eliminare dai suoi rapporti ogni forma di oppressione. È interessante notare, che la
parola ebraica usata per l’oppressione anaw, è la stessa usata nel termine povero, anawim.
7 Nei libri di Tradizioni Deuteronomista (2 Samule 12; Is 48,14) questo patto non è più limitato al solo popolo d’Israele. 8 P. GRELOT, introduzione alla Bibbia, Paoline, Roma, 1971, 30-40; R.DE VAUX, Le istituzioni dell’AT, Marietti, Torino, 1963, 34. 9 Osea per compiere questa operazione elabora il rapporto tra Dio e il popolo tramite l’immagine del proprio matrimonio con una
prostituta. 10 Questa formulazione è comunque il risultato di una tradizione sviluppatasi al tempo dell’Esodo. 11
R. DE VAUX, Le istituzioni dell’AT, Marietti , Torino, 1975, 116-118.
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La libertà donata ad Israele si concretizza, poi, nel possesso della terra: garante dell’alleanza
con Dio e segno della scomparsa dell’oppressione ad-extra ed ad-intra nel popolo eletto.12
Il tema dell’amore al povero viene ripreso con forza dai profeti. La loro denuncia colpisce il
culto a Dio, spesso privato dell’elemento che lo rende veritiero, l’attenzione al povero: l’alleanza
prevede di tenere insieme l’adorazione di Dio con la difesa del povero e della vedova, l’uno senza
l’altro non hanno senso.13
In questo snodo concettuale diviene fondamentale il termine giustizia; la giustizia è la norma
per il rapporto con Dio e gli uomini; è l’anello di congiunzione che permette un alleanza vera e
l’unione inscindibile, dell’adesione a Dio e della promozione dell’uomo.
Questo concetto a partire dal profeta Geremia subisce un salto in avanti: la struttura teocentrica
dell’Alleanza viene interiorizzata, cioè si esige per vivere l’Alleanza una conversione del cuore,
opera esclusiva di un intervento dello Spirito di Jahwè.14
2.2. L’Agape nel Nuovo Testamento
Nel NT la carità si manifesta in un evento storico: Gesù Cristo. La storia di Cristo rivela e porta
a compimento il tempo della misericordia già manifestata da Dio nell’AT: evento storico che si basa
su una perfetta corrispondenza di amore tra quello che Dio pensa e ciò che Gesù attua in favore degli
uomini. È la solidarietà di Dio che diviene, in Cristo e soprattutto nel suo assumere la figura di servo
sofferente, storia di liberazione per ogni uomo.15
2.2.1. Il comandamento dell’amore
Già il grande maestro Hillel, alcuni decenni prima di Cristo, aveva affermato “di non fare al
prossimo tuo ciò che è odioso a te; questo è la legge, il resto è spiegazione”. Ma nessuno prima di
Cristo aveva posto il duplice comandamento di amare Dio e il prossimo come opzione di fondo per
aprirsi al Regno: la novità di Gesù è grande, non solo perché formula al positivo la regola d’oro, ma
la enuncia in maniera così esclusiva da risolvere in essa tutti i comandamenti, al punto da farne il
criterio di ogni legge e giustizia.16 Nell’amore al prossimo non eseguiamo un semplice confronto con
12 J.ALFARO, Dio protegge e libera i poveri, in Concilium 22, 1986, 54. 13 R. FABBRI, La scelta dei poveri nella Bibbia, Borla, Roma, 1994, 37-38. 14 G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia, 418. 15 E. BIANCHI, La Carità e le sue radici, in italia Caritas, 2001, 5-6. 16 G. BORNKMAMM, Il Duplice Comandamento dell’amore, EDB, Bologna, 1970, 63-75.
7
il volere precettivo di Dio, ma con il suo modo tipico di rapportarsi agli uomini: Egli non ha paura di
perdersi per l’uomo. Così facendo vince nella sua storia la paura della morte.17
2.2.2. L’Agape negli scritti giovannei
Tutta la vita di Gesù, per Giovanni, può essere sintetizzata nella nozione di amore: “Avendo
amato i suoi che erano nel mondo, li amo sino alla fine” (Gv13,1). L’amore è la chiave dell’esistenza
del Cristo e cosi per ogni cristiano: non è un semplice precetto o una legge da osservare, ma un luogo
d’incontro tra Gesù e il Padre, una partecipazione alla vita trinitaria.
Il punto di partenza, infatti, della teologia giovannea è teocentrico: in primo piano sta la
rivelazione di Dio mediante Cristo che ci ha fatto penetrare nell’inaccessibilità divina. Si tratta di un
Dio che si è piegato per amore verso il mondo, e nel suo agire storico si rivela per quello che egli è:
Amore (1Gv 4,16).18
Da chi ha fatto l’esperienza della rivelazione di Dio come amore, ci si aspetterebbe nel suo
sviluppo teologico che concluda postulando l’amore per colui che per primo ci ha amati, in realtà non
è così. Nelle sua prima lettera San Giovanni giunge ad un'altra conclusione: “se Dio ci
amati….amiamoci gli uni gli altri”. Dall’esperienza salvifica del Dio amore, quindi, nasce l’amore tra
i discepoli; amore definito nuovo perché rappresenta il segno del mondo nuovo che la venuta di
Cristo ha inaugurato.19
2.2.3. L’Agape negli scritti paolini
L’Agape rappresenta, inoltre, uno dei fili conduttori della teologia paolina: non è un semplice
atteggiamento richiesto ai credenti, ma l’orientamento fondamentale della vita, che ingloba le singole
espressioni di obbedienza al volere di Dio.20
Visto la mole e la vastità dei concetti espressi nelle lettere dell’apostolo, vorrei soffermarmi
brevemente sulla prima lettera ai Corinzi 13, che ci permette una sintesi del concetto paolino di
agape.
La 1 Cor 13 ci pone davanti ad una domanda essenziale: di quale amore Paolo parla? Bisogna
notare che il termine agape qui non riceve mai una specificazione, ma viene sempre proposto in
17 P. CODA, L’agape come grazia e libertà, Città Nuova, Roma, 1994, 37-38. 18 S. CIPRIANI, Dio è amore. Il comandamento nuovo, Paideia, Brescia, 1990, 189.-200. 19 Ibidem, 200-212. 20 Concetto espresso ampiamente in Rm 13, 8-10.
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assoluto: essa è eretta a grandezza unica e autonoma e a volte personificata. Dice Paolo, infatti, “se
non ho l’amore…” e non “se non amo”, quindi dà all’amore una personificazione e non un semplice
attributo. Egli, inoltre, non fa una esposizione didattica sull’amore: lo scritto è paragonabile ad un
elogio che sgancia il concetto di agape da una comprensione puramente relazionale.21
Ad una interpretazione di tipo filosofica, in cui si mostra l’amore come frutto maturo
dell’individuo capace di superare ogni imperfetta parzialità, va qui aggiunta una interpretazione
teologica: i cristiani, per Paolo, prima di essere gli amanti sono gli amati (agapetoi theou) di Dio.
L’amore a cui il cristiano è chiamato ha una motivazione strettamente teologica e non
psicologica o sociologica: egli ama perché spinto e portato da un amore più grande di lui, che lo ha
già investito, purificato, potenziato.
L’amore del cristiano, inoltre, viene esercitato anzitutto all’interno della Chiesa e poi chiamato
ad estendersi a tutti gli uomini: amare chi è emarginato, senza nulla e forse ci maledice, si permette di
esercitare un agape che reca l’impronta di Dio, perché esattamente così Egli ha fatto con noi in
Cristo.22 Dostoevskij mette sulla bocca di Zosima: “più amo l’umanità, più detesto l’individuo”23,
Cristo, invece, ha amato l’umanità nell’individuo.
3. L’Agape nei Padri della Chiesa
I Padri occupano un posto d’eccellenza nella storia della Chiesa come vertice di sapienza e
sono patrimonio dell’umanità credente e non: la loro teologia è immersa nell’esperienza credente e
nutrita dal quotidiano ascolto della Parola di Dio, ma mai separata dalla vita e dalle necessità
pastorali della Chiesa.24
3.1. Concetti fondamentali della Teologia Patristica sulla Carità
Nel nostro lavoro non c’è pretesa di completezza nell’esaminare il tema della Carità nei Padri,
ma la volontà di inserirsi in quel filone di ritorno alla Patristica, caratteristica importante della nostra
21Paolo non usa in questo testo mai il modo verbale dell’imperativo a differenza dell’indicativo, inoltre, non ha nulla dello stile
epistolario. Tutto ciò rende il testo molto più simile a vari brani affini della letteratura greca e soprattutto giudeo-ellenistica. Ad
esempio un frammento di Tirteo celebra la Arete virile, il libro alessandrino della sapienza celebra la Sophia. 22 R. PENNA, Solo l’amore non avrà mai fine. Una lettura di 1Cor13 nella sua pluralità di senso, in: La Carità, teologia alla luce del Dio
Agape, EDB, Bologna, 1988, a cura di: Istituto pastorale dell’Università Lateranense, 19-32. 23 F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, parte I, cap. 4. 24 G. FROSINI, Il pensiero sociale dei Padri, Queriniana, Brescia, 1996, 10-12.
9
epoca. Il pensiero patristico indica come fondamento della Carità il Mistero del Verbo Incarnato:
l’incarnazione è avvenuta per solo amore. Afferma, infatti, Gregorio di Nissa:
Solo per amore. Per quale motivo mai, ci si chiede, Dio si è umiliato a tale segno che la fede rimane
sconcertata di fronte al fatto che egli, benché non possa essere posseduto, né compreso dalla ragione, venga
poi a mischiarsi con l’involucro meschino e volgare della natura umana? 25
La discesa del Figlio di Dio raggiunge l’apice dell’amore nella sua donazione come servo
soffrente. Nelle sua lettera ai Corinzi Clemente Romano afferma:
La carità ci congiunge intimamente a Dio, ma chi è capace di svelare l’infinito amore di Dio e chi può
esprimere la magnificenza della sua bellezza?...Ineffabile è il vertice a cui ci eleva : l’amore ci unisce a Dio.
Egli ci ha tratto a se con amore e Gesù, Signore nostro, in virtù della carità che ebbe per noi, docile alla
volontà di Dio diede il suo sangue per il nostro sangue, la sua carne per la nostra carne, la sua anima per la
nostra anima. 26
Da questo apice di amore nasce quello che i Padri individuano come la divinizzazione
dell’umanità nel contatto tra il Verbo Incarnato e la natura umana. Leone Magno scrive:
Soprattutto nell’Incarnazione la nostra meschinità può rendersi conto quanto il suo Creatore l’abbia
stimata. All’uomo, infatti, diede molto origine, perché ci fece a sua immagine, ma donò assai di più con la
redenzione, perché egli stesso, il Signore, si adattò allo stato servile. “Il Verbo si fece carne” per promozione
della carne, non per menomazione della deità.27
Quest’idea di divinizzazione espressa da diversi padri, come Ireneo, non è altro che la
trasposizione in termini concettuali dell’esperienza che la prima comunità fa dell’effusione dello
Spirito attraverso il Cristo Crocifisso/Risorto.28
Dalla Contemplazione del mistero del Figlio di Dio fatto uomo e dalla donazione che esso fa di
sé all’umanità, nasce quasi in modo naturale la carità pastorale nel sentirsi responsabili della
comunità e del prossimo. Scrive Giovanni Crisostomo nelle sue omelie:
Fin dall’inizio Dio ha operato in mille modi per innestare in noi l’amore, vincolo che lega gli uomini e
dispose che noi avessimo bisogno gli uni degli altri per unirci a vicenda.29
I testi dei Padri sono pieni di richiami all’amore del prossimo che vanno dalle semplici
considerazioni a riflessioni teologiche profonde, ma tutti convergono sull’esigenza di una Carità che
è radice di ogni bene.
25 GREGORIO DI NISSA, Grande Catechesi 14, PG44, 205. 26 CLEMENTE ROMANO, Lettera ai Corinzi 49-50, PG 1, 296-297. 27 LEONE MAGNO, Sermoni 24, 2-3, PL 61, 450. 28 B. FORTE, Gesù di Nazareth, storia di Dio, Dio della storia, Paline, Roma, 1982, 310-311. 29 GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla 1Cor 34, PG 61, 158.
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Talvolta quando uno ha grande disponibilità di mezzi può avvenire che la mano sia più pronta a
dare che il cuore a compatire. In realtà chi vuol dare perfettamente oltre a porgere aiuto all’afflitto, fa
sua anche la sofferenza, sul modello di Cristo che ci ha dimostrato l’intensità del suo amore e la forza
della sua compassione diventando lui quello che non voleva fossimo noi.30
4. L’Agape nel Concilio Vaticano II
Nella storia della Chiesa Il Concilio rappresenta un vero e proprio momento di grazia: la grande
realtà attorno a cui ruotano i documenti conciliari è la Chiesa, colta nella sua origine e nella sua meta,
nella sua identità e missione, nel suo confronto con la società odierna.
L’evento conciliare fu definito da Paolo VI, come un grande atto d’amore della Chiesa per il
mondo. Egli afferma, infatti, nella sua enciclica Ecclesiam suam:
Non è forse la Carità la scoperta sempre più luminosa e più gaudiosa che la teologia da un lato, la pietà
dall’altro vanno facendo nella incessante mediazione dei tesori scritturali e sacramentali, di cui la Chiesa è
l’erede, la custode, la maestra e la dispensatrice? Noi pensiamo (…) che la Carità debba oggi assumere il posto
che le compete, il primo, il sommo, nella scala dei valori religiosi e morali, non solo nella teorica estimazione,
ma altresì nella pratica attuazione della vita cristiana.31
La realtà, quindi, che meglio può definire l’ecclesiologia conciliare è la Carità, sempre che la si
colga alla luce della novità e originalità dettata dal NT.32
4.1 Lumen Gentium.
Il Concilio visse due fasi essenziali: una prima caratterizzata da una attenzione intra-ecclesiale
e l’altra da una visione della Chiesa aperta alle problematiche del mondo, ma le due fasi si integrano
pienamente al punto da poterne parlare in termini unitari.
La Lumen Gentiun riflette il mistero ecclesiale alla luce della Trinità, fonte della Carità. Essa
viene presentata come storia del rivelarsi e donarsi di Dio, del suo manifestarsi e realizzare il progetto
eterno di progressivo e radicale inserimento nell’umanità.33
Pensata e strutturata ad immagine del Dio Trino ed Uno, la Chiesa ha un identità trinitaria: su
questo legame teologico, il Concilio sviluppa il concetto di comunione ecclesiale sia nella sua realtà
interna che nel rapporto con il mondo. La Nota explicativa previa illustra i contenuti di questa
30 GREGORIO MAGNO, Moralium 23, 38, PL 76, 122. 31 Ecclesiam suam, EV2/187 32 P. CODA, L’agape come grazia e libertà, Città Nuova, Roma, 1994, 83-84. 33 P. ROSATO, La recezione delle nuove categorie dell’autocomprensione della chiesa nel post/concilio, AVE, Roma, 1984, 73-75.
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comunione: è innanzi tutto di natura gerarchica, cioè comunione con il capo della Chiesa e con le
membra, che richiede una forma giuridica animata dalla Carità. Inoltre, è Congregatio fidelium,
costituita come sacramento universale di salvezza.34 Afferma il concilio:
Oggi tutti gli uomini sono più strettamente congiunti da vari vincoli sociali, tecnici e culturali (…) per
cui la Chiesa deve guardare non soltanto ad intra ma anche ad extra e deve divenire il segno dell’unità di tutto
il genere umano.35
Essa lega, inoltre, la sua missione a quella del Cristo povero:
Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è
chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini la salvezza (…) invece di cercare la gloria
terrena, la Chiesa deve circondare d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla debolezza, anzi deve riconoscere
nei poveri e nei soffrenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente e in loro cerca di servire lo stesso
Cristo.36
4.2. Gaudium et Spes.
Nella storia di concili, la Gaudium et Spes è il primo testo in cui la Chiesa si confronta con il
mondo in cui è inserita: la novità può essere sintetizzata dall’espressione “Dominus finis est humanae
historiae”, che assegna alla storia lo stesso traguardo della Chiesa. 37 Il Concilio indica la ragione
profonda del sociale e della storia umana: il mistero Trinitario e l’annuncio di un Dio che è rapporto
di dono totale fra le persone. A questo origine e fine teologico della storia, il Concilio, lega
definitivamente la logica del dono di se e della solidarietà: in pratica esso riconosce il primato della
carità, che diventa logica di salvezza tanto per il singolo quanto per l’attività umana nella
storia.38Afferma il Concilio:
Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, fattosi carne lui stesso e venuto ad abitare sulla
terra degli uomini, entrò nella storia del mondo come uomo perfetto(…) Egli ci rivela che “Dio è Carità” e
insieme ci insegna che la legge fondamentale dell’umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del
mondo, è il nuovo comandamento della Carità. Coloro pertanto che credono alla Carità divina, sono da lui resi
certi che è aperta la strada della carità e che gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono
vani.39
La Carità, quindi, è la legge per la trasformazione del mondo e non può essere considerata una
semplice opera buona per salvarsi l’anima, ma è già vivere nello Spirito di Dio la vita di relazione
con l’altro. Continua, infatti, il documento:
34 O.HERMAN PESCH, Il Concilio Vaticano secondo. Preistoria,svolgimento,risultati, storia post-conciliare Queriniana, Brescia, 2005, 92. 35 LUMEN GENTIUM, 1. 36 LUMEN GENTIUM, 8. 37 GAUDIUM ET SPES, 45. 38 E.CHIAVACCI, La Teologia della Gaudium et Spes, AVE, Roma, 1986, 18-19. 39 GAUDIUM ET SPES, 38.
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Ecco allora che il sociale entra come momento essenziale dell’annuncio evangelico, tanto che non posso
pensare di salvarmi se non passando attraverso un modo specifico di rapportarmi con gli altri (…)
È possibile allora cogliere il senso profondo dell’espressione “Dominus finis historiae”: il Dio trino è il fine
della storia, rende la dimensione sociale espressione dell’amore trinitario che è dentro di noi.40
Il rapporto Chiesa e mondo viene, dunque, tematizzato nell’ottica della Diakonia, all’interno
della quale la Chiesa si autodefinisce serva dell’umanità.41
5. L’Agape nella riflessione Teologica
Dai primi passi compiuti nel nostro cammino abbiamo notato come la Carità/Agape, ha da
sempre un vasto ambito semantico. In primo luogo essa è riferita a Dio, al suo ineffabile amore:
dall’amore di un Dio che è dono totale di se, scaturisce l’agape con il prossimo e soprattutto con il
povero, immagine stessa del Signore. Nel linguaggio teologico della scolastica, che per motivi di
sintesi abbiamo omesso, la Carità è virtù teologale che soltanto Dio può donare: essa dirige le altre
virtù al fine soprannaturale dell’eterna comunione con Dio. La carità, quindi, non è un tema fra gli
altri, ma realtà teologica: essa è considerata come il fondamento, il fine e il contenuto che definisce la
santità.42 La teologia, quindi, in stretto contatto con il dinamismo vivente della Carità e nella
comunione ecclesiale, sente come suo compito quello di formulare le vie del futuro della Chiesa.43
5.1. La Trinità, fonte e paradigma della Carità
La centralità dell’idea dell’amore è stata più volte segnalata, nella riflessione teologica, come
un elemento strutturante l’esistenza e la prassi cristiana: se l’amore di Dio è il centro della rivelazione
e il contenuto primario della fede, esso dovrà essere segnalato come proprium della teologia, il luogo
centrale di ogni comprensione.44 Entro queste coordinate si muove l’odierna teologia, che
approfondisce la relazione trinitaria in riferimento alla carità come forma della vita ecclesiale.
Vogliamo ora tracciare alcune linee di questa teologia, senza avere la pretesa di un’analisi completa
che spetta ad un corso sistematico di teologia trinitaria.
40 GAUDIUM ET SPES, 46. 41 M. CHENU, I segni dei tempi, Queriniana, Brescia, 1966, 90. 42 LUMEN GENTIUM, 42. 43 GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Convengno, “La Carità come ermeneutica teologica e metodologia pastorale”, AAS 79, 1987, 1215. 44 U. H. VON BALTHARSAR, Gloria VII. Nuovo Patto, Jaca Book, Milano, 1977, 396-397.
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5.1.1. Definizione dell’essenza di Dio
La metafisica classica definiva l’essere in se stesso, invece alla luce della filosofia moderna si
pensa l’essere nell’orizzonte della libertà: l’essere, quindi, si qualifica come atto, evento, come libertà
che esce da se stessa e si realizza in un processo.45 Questo tipo di riflessione può essere giustificato e
migliorato dal concetto classico di persona che più si avvicina all’immagine biblica di Dio Padre:
soprattutto perché la personalità implica necessariamente la relazionalità. Il concetto di persona,
infatti, ci permette di chiarire:
Che Dio non è oggetto, salvando così la misteriosità di Dio nella rivelazione del suo nome.
Che Dio non è predicato del mondo o dell’uomo: Dio non è una idealizzazione dell’uomo
come gli idoli.
Che Dio è la realtà che tutto determina perché è l’Amore che si comunica.
Alla luce di quanto detto, la domanda ora da porci non è tanto “che cosa significa allora che
Dio è Amore?”, ma “che cos’è l’Amore che è Dio stesso?”46
5.1.2. L’evento Cristo.
Per rispondere al nostro quesito dobbiamo inevitabilmente rifarci all’evento Cristo: Egli è il
rivelatore del Dio Amore/Agape, è il luogo teologico per eccellenza in cui la Chiesa conosce la Carità
di Dio. Gesù, non è stato un teorico dell’amore, nel suo comportamento si rende presente l’agire
stesso di Dio in favore degli uomini. Già Origene sosteneva che il Figlio procede dall’Amore del
Padre47, e sulla sua scia Agostino d’Ippona comprese che la realtà trinitaria si rivela a noi nel concetto
di Amore; soleva scrivere:
Ecco dunque: sono tre, L’Amante, L’Amato e L’Amore. Che cos’è allora l’Amore se non una specie di
Vita che unifica o tende ad unificare due esseri, cioè l’Amante e l’Amato? 48
Amore significa, infatti, un unità che non assorbe l’altro, ma lo accetta proprio nella sua
alterità, lo conferma così com’è, in modo da costituirlo nella sua vera libertà. Un amore che doni se
45 Questo procedimento viene definito da Kant come una rivoluzione copernicana. Il pensiero moderno sembra avere delle affinità con
quello biblico, ma non si possono negare i pericoli: qui Dio può divenire una momento interno dell’auto-sviluppo del soggetto, non più
un partner personale dell’uomo. 46 W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia, 1984, 209-215. 47 ORIGENE, De principiis, I, 2, 5. 48 AGOSTINO, De Trinitate VIII, 10.
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stesso all’altro, significa al contempo auto-distinzione e auto-limitazione: l’amante deve ritirarsi
perché il suo obiettivo è l’altro, in questo modo egli si rende vulnerabile nel suo stesso amore.49
Il Padre, in altre parole, è l’Amante in libertà e la libertà dell’Amore: Egli ama il Figlio e gli
dona tutto se stesso, ma si ritrae perché amando se stesso nell’altro lo lascia libero, il Figlio allora
ama come il Padre e gli dona tutto se stesso. Per Agostino lo Spirito Santo è l’amore vicendevole tra
il Padre e il Figlio50
: lo Spirito è lo spazio della libertà, è l’amore che si manifesta come massima
interiorità e esteriorità, cioè la possibilità e la realtà dell’essere-al-di-fuori-di-se di Dio.51 La vita
storica di Gesù ci appare, infatti, come l’estasi, l’effluvio dell’eterna donazione reciproca di Dio
amore, in quanto si fa liberamente amore per l’uomo. La storia della Croce, apice dell’Amore,
diviene la narrazione libera di quella vicenda eterna d’amore che unisce le tre persone nella più
perfetta comunione, nella profonda estasi.52
5.2. La storia trinitaria di Pasqua
Il centro dell'economia della salvezza per gli uomini è il mistero pasquale: a partire
dall'esperienza del Risorto, fatta dai primi testimoni della fede cristiana, è riletto il passato, è
celebrato l'incontro nel presente con il Vivente nello Spirito, è annunciato il futuro del Regno.
La confessione trinitaria è l'esplicitazione di ciò che è dato nel mistero pasquale: l'evento della
morte e resurrezione del Signore è il luogo della fede trinitaria, il denso compendio della gloria fattasi
presente nella storia a noi accessibile. Nella prospettiva dell'economia salvifica si può dire perciò che
la Trinità, prima di essere una confessione esplicita, è un evento: è per comunicare l'evento fontale,
che è la storia di Pasqua, che la fede cristiana formulerà la confessione trinitaria e rileggerà nella
memoria e nella speranza l'intera vicenda umana alla luce di essa" 53
5.2.1 La resurrezione come storia trinitaria
E' storia trinitaria anzitutto la resurrezione del Crocifisso e l'ampia testimonianza dei testi
biblici afferma che Cristo è stato risuscitato. L'iniziativa è di Dio, il Padre54: “Dio lo ha risuscitato”.
49 W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia, 1984, 264-267. 50 AGOSTINO, De trinitate XV, 17. 51
U.H.VON BALTHARSAR, Spiritus Creator, Morcellania, Brescia, 1967, 106-122. 52
U.H.VON BALTHARSAR, Mysterium paschale, MySal VI, 189. 53
B. FORTE, Alle sorgenti della carità, in AA.VV., Diaconia della carità nella pastorale della Chiesa locale, 229. 54
L'equivalenza fra “Dio” e il “Padre” nel Nuovo Testamento è praticamente totale: Cfr. K. RAHNER, Theos nel Nuovo Testamento, in
Saggi teologici, Roma 1965, 549.
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Nella resurrezione Dio si offre attivamente come Padre del Figlio e al tempo stesso prende posizione
a Pasqua sulla storia degli uomini: egli giudica il trionfo su l'iniquità avvenuto nella croce
dell'Umiliato, come un “no” rispetto al peccato del mondo e si offre come il Dio e Padre di
misericordia, che nel “sì” al Crocifisso pronuncia il suo “sì” liberatore su tutti gli schiavi del peccato
e della morte.55 La resurrezione è, inoltre, storia del Figlio. È ampiamente attestata la tradizione che
afferma: “Cristo è risorto”. Questo ruolo attivo del Figlio nell'evento pasquale non contraddice in
nulla l'iniziativa del Padre:
Se alla estrema obbedienza del Figlio conveniva che egli si lasciasse risuscitare dal Padre, appartiene, in
misura non minore, al compimento di questa obbedienza, che egli si lasci dare dal Padre di avere la vita in se
stesso. 56
Cristo dunque risorge, prendendo attivamente posizione rispetto alla sua storia e a quella degli
uomini per i quali si è offerto alla morte: la sua resurrezione è la sconfitta del potere e del peccato, il
trionfo della libertà, della grazia e dell'amore. La resurrezione è, infine, storia dello Spirito: è nella
sua forza che Cristo è stato risuscitato; “messo a morte nella carne, è reso vivo nello Spirito” (1Pt.
3,18). Lo Spirito è anzitutto colui che è donato dal Padre al Figlio, perché l'Umiliato venga esaltato, e
il Crocifisso viva la vita nuova del Risorto. Lo Spirito, inoltre, è colui che il Signore Gesù dona
secondo la promessa ai suoi discepoli: lo Spirito, quindi, è garante dell’identità e della reciprocità
dell’amore cristiano.57
5.2.2 La croce come storia trinitaria
Se la resurrezione è evento della storia trinitaria, non di meno lo è la croce: la comunità
nascente ha intuito molto presto la verità della croce come storia trinitaria.58 Questa struttura può
essere colta attraverso il ritorno costante del verbo “consegnare”.
La prima consegna è quella che il Figlio fa di se stesso. Il Figlio si consegna al Dio/Padre: egli
prende su di sé il carico del dolore e del peccato del mondo, entra fino in fondo nell'esilio da Dio per
55At. 2,24 Col. 2,15; Ef. 1,19; Ef. 2,4-6; Rom. 5,8. 56
U.H. VON BALTHARSAR, Mysterium paschale, in Mysterium salutis, 6, Brescia 1971, 346. 57
B. FORTE., La Trinità, fonte e paradigma della carità, in AA.VV., “Atti del Congresso Nazionale dell'ATI”, op. cit., pp. 111-142;
anche ID., Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Roma 1985, 115-123. 58Lo dimostra non solo il grande spazio dato al racconto della passione del Nazareno nell'annuncio della Chiesa delle origini, ma anche
la precisa strutturazione teologica che soggiace alle narrazioni della passione. Nella formazione storica dei Vangeli, infatti, è risaputo
che nucleo centrale della predicazione apostolica era il 'racconto della passione, morte e resurrezione' di Gesù e la prima tradizione
scritta, nell'elaborazione dei Sinottici, è costituita proprio da questo racconto.
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assumere l’esilio dei peccatori.59 Alla consegna che il Figlio fa di sé, corrisponde la consegna del
Padre. Egli sacrificando il proprio Figlio mostra la grandezza del suo amore misericordioso per noi:
alla consegna dell'ira, succede la consegna dell'amore!
La croce è parimenti storia dello Spirito: il Crocifisso consegna al Padre, nell'ora della croce,
lo Spirito che il Padre gli aveva donato. Nell'ora della croce, lo Spirito stesso fa storia: storia in Dio,
perché consegnato al Padre rende possibile l'alterità del Figlio nella solidarietà con i peccatori.60
5.3 Conclusioni storico-operative
Come la comunione trinitaria si rapporta al Padre, eterna sorgente dell'amore, così la comunità
degli uomini è costitutivamente relazionata a Dio Padre: questo significa che non potrà essere riflesso
del Padre, una comunità in cui non sia rispettata la dignità di ciascuno, la sua creatività nell'iniziativa
dell'amore, il suo essere originale e irripetibile. Il Dio Padre della Trinità chiama ciascuno ad essere
se stesso e ad esserlo nel rispetto della dignità e della sorgività dell'amore proprio di ogni altro. 61
Come il singolo uomo si rapporta al Figlio, in quanto è accoglienza e recettività nell’amore,
così la comunità degli uomini è chiamata ad essere il luogo dell’accoglienza: la recettività della
comunità deve esprimersi nella disponibilità ad accogliere l'altro e il diverso da sé, fino al dono
sacrificale di sé. In questo senso, è veramente umana e riflette in sé il volto del Figlio di Dio, la
comunità che accoglie gli ultimi e rifiuta con coraggio ogni discriminazione di potere, di ricchezza, di
razza, di sesso, di cultura.
Infine, in quanto nello Spirito l'uomo è immagine di Dio per la sua capacità di unirsi agli altri e
di donarsi nella libertà, la comunità degli uomini rifletterà la Sua azione in quanto saprà essere
comunione nella reciprocità e nella permanente tensione della libertà.62
59 C.LUBICH, Il grido, Citta nuova, Roma, 2000, 20-30. 60
J. MOLTMANN., Trinità e Regno di Dio, Queriniana, Brescia 1983, 41. 61
J. MOLTMANN, Trinità e Regno di Dio, Queriniana, Brescia, 1983, 212. 62
B. FORTE., op. cit., 137-142.
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ETICA DELLA CARITÀ
1. Premessa
Nel proseguire il nostro lavoro di studio, vogliamo ora toccare il tema dell’Etica della Carità.
Come nel capitolo precedente per semplificare il nostro iter, risulta necessario chiarire il termine
“etica”, per non incappare in errori ed equivoci dettati dal nostro Background culturale.
La parola etica, deriva dal greco ethos che significa costume, comportamento o consuetudine.
Normalmente il temine “Etica” indica quella branca della filosofia che studia i fondamenti razionali
che guidano il comportamento umano: essa può essere descrittiva, quando si occupa di esporre i
comportamenti umani, può essere normativa se da delle indicazioni o soggettiva se tratta del
soggetto che agisce.
Alla luce di quanto esposto nel capitolo precedente ci chiediamo: Che Ethos si crea nell’uomo
che incontra il Dio Agape? È un Etica esclusivamente di tipo normativo o può far luce sulle
motivazioni profonde dell’Agire umano? Bisogna sottolineare che spesso confondiamo l’etica con
la legge in senso dispregiativo: un’imposizione esterna che non rispecchia la verità e la libertà
dell’uomo. Nel nostro percorso vogliamo restare sempre agganciati alla Teologia della Rivelazione,
in cui Cristo unico mediatore ci svela il Volto del Padre, ma allo stesso tempo svela “l’uomo
all’uomo.”63
2. Radici dell’Etica.
Il Comportamento dell’uomo assume carattere etico in collegamento con dei valori, dei criteri
di giudizio: è proprio dell’essere umano la capacità di riconoscere dei valori e di sceglierli
liberamente come tali. Le radici dell’etica, quindi, vanno ricercate proprio in questi due elementi
fondamentali: i valori e la libertà.64 Nella società contemporanea queste due realtà sono in crisi:
l’odierna convivenza civile è spesso basata sull’utilitarismo in cui l’uomo viene trattato “sempre
come mezzo e mai come fine”.65
63 “Cristus Hodie” canto Ed. Carrara. Traduzione ed adattamento fr. Giulio Mancini ofm. 64 F. FACCHINI, L’origine dell’uomo ed evoluzione culturale, Jaka Book, Milano, 2002, 153-157. 65 K. WOYTILA, Amore e Responsabilità, Marietti, Torino, 1984, 20-30.
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Ora vogliamo elaborare, come nel capitolo precedente, un escursus del concetto di etica
all’interno della Sacra Scrittura, che ci permetta una maggiore chiarezza e sviluppo del nostro
argomento.
2.1. L’Etica nell’Antico Testamento.
L’esperienza etica dell’AT, affonda le sue radici nel periodo nomade del popolo d’Israele,
trascritto tardivamente in Gn 12-50. In quel tempo il custode dell’etica era il padre/patriarca che
stabiliva i confini del lecito e dell’illecito. In questo tipo di etica grande rilievo ha la figura
dell’ospite, a cui spetta protezione e rispetto, perché nel periodo in cui si trova nella famiglia
patriarcale, egli ne entra a far parte. L’etica, quindi, di questo periodo è segnata da un forte senso di
responsabilità collettiva.66
La relazione tra Dio/Jahwè e il fenomeno umano dell’etica israelitica è strettissima67
: Dio si
rivela come l’essere-con, che libera il suo popolo e lo conduce nel suo cammino migratorio. La
relazione tra il patriarca e Dio, e successivamente tra Dio e il popolo, ci dona un etica di libertà
creativa, proprio perché basata su una situazione di profonda provvisorietà ed insicurezza: questo
tipo di etica viene raccolta nella legge mosaica del Sinai.68
Un salto di qualità nella concezione dell’ethos dell’AT, avviene nel periodo monarchico: il re
diviene il depositario di ciò che è giusto compiere. Allo stesso tempo si delineano le caratteristiche
dell’uomo che vive l’alleanza con Dio, raccolte in maniera organica in una serie di enunciati di tipo
pratico-sapienziali per la vita quotidiana, nei libri profetici e sapienziali. 69
L’uomo unisce in se miseria e grandezza, una povertà radicale e una dignità regale: dinanzi a
Dio l’uomo è polvere; Dio è Ruah (spirito) l’uomo è Basar (carne), perciò qualitativamente diversi.
La grandezza dell’uomo proviene dall’iniziativa di Jahwè: l’uomo vive grazie al suo soffio vitale,
senza di esso è come erba che perisce.70
66 W. THIEL, Die social Enwincklung Israel in vorstaatlicher Zeit, Verlang, Neulirchen-Vluyn, 1980, 40-50. 67 La religione dei gruppi seminomadi sembra la risultante dall’unione della religione che comprende il culto del dio padre, legato
alla stirpe, con la religione che comprende il culto di ‘El, dio dei sedentarizzati. 68 T. GOFFI, G. PIANA, Corso di Morale, Vita nuova in Cristo, Queriniana, Brescia, 1986, 82-90. 69 La sapienza colta si occupa della formazione di tutto l’uomo, il suo ideale è, come per le dottrine egiziane, l’uomo dal sangue
freddo, paziente, tranquillo e padrone di sé (Pro 17,27; 15,18; 22,24; 29,22; 14,30). 70 Gn 2,7; 3,19; Gb 10,9; Ger 17,5; Is 31,3; Sal 104.
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L’AT, tuttavia, presenta l’uomo come capace di decisione etica; in grado di amare Dio. Alla
dimensione verticale dell’ethos biblico, quindi, corrisponde quella orizzontale: l’uomo che ama Dio
opera la giustizia. L’alleanza si presenta, in tal modo, nella sua forza di evento solidarizzante.71
2.2. L’Etica nel Nuovo Testamento.
L’elemento fondante l’ethos del NT resta l’intervento di Dio nella storia: intervento che
assume carattere di novità nell’incontro con Gesù Cristo. Negli scritti del NT possiamo individuare
un’articolazione in tre momenti: il primo, il tempo della predicazione di Gesù in cui il rilievo etico è
appena indicato; il secondo, con uno sforzo di esplicitare delle regole di condotta che nascono dal
confronto con le culture elleniste, presente negli scritti paolini; il terzo di tradizione giovannea, che
propone una sintesi teologica dell’etica.
2.2.1 La predicazione di Gesù.
Risulta vano cercare nel NT un sistema etico esposto da Gesù, tuttavia, la sua predicazione
mira a trasformare la vita di coloro che ascoltano, creando di conseguenza una sorta di etica basata
sulla conversione. 72Una trasformazione, quindi, dal di dentro che tocca le profondità dell’essere
umano. L’elemento centrale della sua predicazione è l’Annuncio del Regno: Egli proclama la
sovranità di Dio, che ha un riflesso diretto sull’orientamento dell’agire umano, in quanto propone
una interpretazione diversa dell’universo dei valori. La Triade, ad esempio, di poveri ed indigenti
proposta dalle beatitudini, ci dice che essi non sono migliori di altri per qualità etico-religiose, ma
semplicemente perché Dio regna.73
La Basilea/Sovranità di Dio si rivela come risoluta decisione di salvezza, l’atteggiamento
dell’uomo sarà di conseguenza un lasciarsi salvare da Dio. Ciò non vuol dire che l’agire umano sia
irrilevante: significa che la salvezza non è opera dell’uomo, e l’operare etico non dovrà essere
orientato alla conquista, ma a manifestare la presenza di Cristo nella prassi. L’ethos, quindi, del NT
si svilupperà come un comportamento fondato sull’esperienza di Dio che salva perdonando.74
71 E. TESTA, La morale dell’Antico Testamento, Morcellania, Brescia, 1981, 337-343. 72 La Conversione in greco è espressa con il termine metanoia: una conversione totale del modo di pensare 73 R. SCHNACKENBUR, Messaggio morale del NT, Paoline, Roma, 1981, 243-260. 74 Ibidem, 260-283.
20
2.2.2. L’etica paolina.
Nel periodo di espansione delle comunità cristiane sorgono alcuni problemi per la
precisazione dell’ethos: l’esperienza del Vangelo si confronta con il mondo giudaico e che con
quello ellenico, compiendo uno sforzo di precisazione dal punto di vista etico-teologico.75
La responsabilità etica è per Paolo, realizzazione del dono ricevuto nella morte e resurrezione
del Cristo: sono frequenti nelle lettere paoline i testi in cui si ricorda la situazione di tensione ancora
esistente nel cristiano tra l’opera dello Spirito e l’influsso della carne coi suoi desideri. L’amore
salvante di Dio, inoltre, alimenta la comprensione dell’amore fraterno come “compimento della
legge”: la Carità attraversa e vivifica ogni dovere concreto; tra carità e giustizia s’instaura una
correlazione, la serietà con cui il credente si dimostra uomo giusto, certifica la verità con cui egli
ama. 76 Il credente trova nel gesto del perdono e nella scelta della “non pretesa” la sua punta di
diamante: egli per primo è stato preceduto dal perdono di Dio, e di conseguenza egli può mostrare
la sua fede nella misericordia. È interessante notare che tutto ciò si esercita nel soma, sulla
corporeità e visibilità dell’uomo.
2.2.3. Etica giovannea.
Negli scritti giovannei dell’ultima cena, l’unico comandamento della carità fraterna, è
presentato come parola etica normativa che il Signore affida ai discepoli: ciò li definisce nel
rapporto con Lui e permette una chiara identità di fronte a tutti.77 Di questo comandamento, poi,
fonte , modello e misura è lo stesso amore che Gesù dimostra loro.78
Lo sguardo giovanneo, infatti, si concentra sulla figura del Cristo: una serie di “Io Sono”
scandiscono il suo Vangelo, come momenti di auto-rivelazione di Gesù. Ad essi corrispondono
varie versioni di professione di fede della comunità credente: Gesù è il Figlio di Dio, Egli è la
resurrezione e la vita, la via la verità e la vita, la vera vite. 79
Tutto ciò mostra la centralità e della presenza del Signore in mezzo ai suoi: Egli si rivela
come colui che compie i comandamenti del Padre. Egli stesso, quindi, è motivazione e modello
75 P. GRELOT, L’Eglise et l’enseignement de la morale, Du Cerf, Paris, 1982, 481-489. 76 R. SCHNACKENBUR, Messaggio morale del NT, Paoline, Roma, 1981, 283-285. 77 Bisogna qui ricordare che la prima testimonianza è l’amore reciproco: i cristiani sono riconosciuti tali se si amano a vicenda. 78 Gv 13,1 79 Ibidem, 285-321.
21
normativo del comportamento etico del credente: il “come” del comandamento nuovo ha in se
questa forza dinamica, impulso vitale del suo Signore; il “come” lega in se, il conoscere e l’essere in
Dio come due momenti inscindibili. Il “come”, unisce in se, la possibilità di un comportamento
etico e testimoniale: “da questo vi riconosceranno se avrete amore gli uni per gli altri”.
Se nell’AT la radice dell’ethos è un Dio che si mostra come essere con, ora qui abbiamo la
manifestazione di un Dio come essere per, essere in: la sua presenza non è soltanto un intervento
nella storia, ma il donante si fa dono lui stesso.80
Il fondamento Cristologico dell’etica impone, allora, una riformulazione di domande del tipo:
come posso essere buono? Come posso fare del bene? Alla luce di Cristo tali questioni dovrebbero
essere formulate così: cosa vuole Dio da me, per me, in me? Il rinvio primario è al disegno di Dio,
non alla situazione o alle esigenze dell’io o del mondo: l’ethos è questione dello Spirito.81
3. Etica della Carità: Storia di grazia e decisione.
L’immagine di Dio sottesa all’evolversi dell’etica, è quella del Benedicente e del Redentore.
Benedizione della vita e salvezza dell’umanità sono due costanti dell’esperienza etico-religiosa che
guidano insieme la conoscenza di Dio, la comprensione dell’umano e l’orientamento di senso per la
prassi.82 Se Dio è colui che è vicino e salva, allora nessuna situazione umana, individuale o
collettiva, è una situazione disperata. La conoscenza di Dio, quindi, animerà un etica che tende alla
comunione, perché riconosce il Salvatore nell’esperienza della liberazione e del perdono,
provocando una dilatazione della sensibilità al gratuito.
L’etica della Carità, quindi, è compresa come risposta al dono e come dono essa stessa. Essa
è, inoltre, l’ethos della decisione: la decisione presa da Dio per l’uomo; il suo decidersi per l’uomo
e decidere l’uomo. In parole semplici, un Dio/Uomo desidera uomini più umani, che camminano
verso una pienezza di umanità, rendendo umana la loro terra, la loro città, la loro storia.83
80 P. GRECH, G. SEGALLA, Metodologia per uno studio della teologia del NT, Marietti, Torino, 143-171. 81 AA.VV, L’Etica, Rivista internazionale di Teologia n. 130, Jaca Book, Milano, 1993, 26. 82 Benedizione è usato qui nel senso latino di Benedicere: Dio dice bene dell’uomo, ma sappiamo che egli nel suo parlare crea
sostiene. Tutto ciò può essere meglio compreso analizzando il senso della parola Dabar, che può essere tradotta con “parola” o con
“fatto”. Per Dio, quindi, il benedire, non è un semplice dire bene dell’uomo, ma è fare il bene all’uomo: Dio pronuncia parole a cui
seguono i fatti. 83 T. GOFFI, G. PIANA, Corso di Morale, Vita nuova in Cristo, Queriniana, Brescia, 1986, 156-165.
22
L’agire di Dio, infatti, dà il fondamento all’esistenza e all’agire dell’uomo: l’etica della
Carità si delinea, in tal modo, come ethos di relazione; l’uomo trova se stesso e Dio in questa
tensione di amore verso il prossimo. Il prossimo smette di essere altro da me, sconosciuto, perchè
egli è frutto della decisione di Dio.
La vita etico-responsabile si alimenta, dunque, dell’irrinunciabile rapporto tra libertà e
vincolo, o meglio accede alla vera libertà - la libertà da se - solo quando accetta di essere sottoposta
ad un vincolo, un limite. L’etica della Carità, quindi, si presenta come via verso la vera libertà;
libertà non realizzabile senza un ethos di relazione.84
3.1. Dalla questione etica alla questione ecclesiologica.
La centralità del comandamento dell'amore è stato sempre ampiamente tematizzato in
teologia. Dalle cinque quaestiones di San Tommaso,85 alla teorizzazione del primato della carità in
teologia morale,86 la riflessione teologica ha perseguito l'idea dell'amore primo “elemento
strutturante” della totalità dell'esistenza cristiana.
Tuttavia si è ancora costretti a parlare di “tema inconsueto”, perché l'argomento dell'amore
effettivamente è stato ben poco materia primaria in ecclesiologia, mentre molto se ne è parlato in
antropologia e in teologia morale. Non è certamente questione di aggiungere un capitolo in più nei
trattati sulla chiesa, perché il tema dell'amore non può che porsi sul piano dei principi fondativi di
tutta la realtà cristiana e quindi, ovviamente, della chiesa stessa. Una ragione di questo silenzio
ecclesiologico sulla grande proposta evangelica del principio amore, probabilmente, potrebbe essere
cercata nella più che millenaria situazione di una chiesa che si comprende, in un certo senso, fuori
di ogni categoria di relazione.87 Se il servizio all'uomo è componente essenziale della missione, il
problema della carità è un problema strutturale della chiesa e non solo un problema etico dei singoli
84 A. ANDREINI, Bonhoeffer. L’etica come confessione, Paoline, Milano, 2001, 53-57. 85
TOMMASO D’AQUINO, Secunda Secundae, Q. 22-27. 86Se in passato, questo è avvenuto in prospettiva piuttosto individualistica, l'impegno più recente si è rivolto con maggiore attenzione
agli aspetti storici, sociali e politici del problema. Cfr. G. GILLEMANN, Le primat de la chiarité en théologie morale. Essai
méthodologique, Louvain 1952; tr. it., Il primato della carità in teologia morale, Morcelliana, Brescia 1959. 87
S DIANICH., Introduzione ad un tema inconsueto, in AA.VV. De caritate ecclesia. Il principio amore e la Chiesa, Atti dell'XI
Congresso nazionale dell'ATI, Messaggero, Padova 1987, 27-107;B CHERARDINI, in AA.VV., La carità. Teologia e pastorale alla luce
di Dio-Agape, op. cit., 103-114; I.BIFFI, La carità nella metodologia della teologia sistematica, in AA.VV., La carità, cit., 71-78;
G.TRENTIN , La carità nella riflessione teologica attuale, in Credere oggi, 3 (1990); AA.VV., La carità e la chiesa, Piemme, Casale
Monferrato 1989.
23
cristiani. La carità, quindi, come problema ecclesiologico, ha costituito davvero un tema inconsueto
nella riflessione teologica che solo di recente sta tentando di colmare questo vuoto.
3.1.1. Qualche tentativo sistematico.
Nel 1983 R. Coste pubblicava un libro molto impegnativo tentando di portare al largo, nel
vasto mare della storia e degli impegni della chiesa nel mondo, un tema che generalmente veniva
trattato come un problema centrale della morale cristiana e del programma etico da proporre al
singolo credente per la sua vita personale. Per il Coste:
Una teologia della carità non sarebbe autentica se non contribuisce a scoprire i bisogni nuovi, a
orientare la chiesa verso l'avvenire dell'umanità e l'avvenire assoluto del regno di Dio, a infondere
dinamismo nella sua pratica della carità 88
.
Il discorso viene così portato, dalla sua stessa logica interna, a porre il problema
ecclesiologico centrale: quello della costituzione essenziale della chiesa e della sua struttura. Il
Coste non ha dubbi: “per la chiesa la carità è una delle sue dimensioni costitutive” 89 e vede
necessario uno strutturarsi del ministero collettivo della carità, co-essenziale alla chiesa al pari
dell'eucaristia. E cita a proposito una significativa espressione di padre Congar: “Non può esistere
una comunità cristiana senza diaconia o servizio di carità, più che non può esisterne senza
celebrazione dell'eucaristia”.90 È d'obbligo l'interrogativo: in che senso la chiesa non esiste senza la
carità e in che relazione sta questa con le altre componenti essenziali della chiesa stessa?
Precedendo quest'opera di qualche decennio, Charles Journet nella sua monumentale
ecclesiologia91 aveva dedicato numerose pagine a questo tema, discorrendone in prospettiva
sistematica. Il tema dell'amore veniva introdotto dal Journet nell'ambito del problema della
“divinizzazione” della Chiesa per opera dello Spirito. Questa dimensione verticale della Carità porta
con sé il suo sviluppo orizzontale:
La forma divina dell'amore, comunicandosi, suscita una mutua circolazione di affetti dei membri della
chiesa l'uno nell'altro. La loro unione rappresenta quello che si potrebbe chiamare il mistero
dell'interdiffusibilità, dell'intercompenetrabilità e dell'intercomunicazione della carità. 92
88
R. COSTE, L'amore che cambia il mondo. Per una teologia della carità, Città Nuova, Roma 1983, 21. 89Ibidem, 213. 90 Y. CONGAR, in COTTIER , ALTRI, Eglise et pauvreté, Cerfaux, Paris 1965, 257, citato in R. COSTE, op. cit, 250. 91journet c., L'église du Verbe incarné, II, Desclée de Brouwer, 1951. 92 Ibidem., 554.
24
Un altro teologo ha raccolto la sfida per una riflessione teologica sulla carità, H. U. Von
Balthasar, anche se non con la stessa sistematicità di Journet, ma vi dedica molta attenzione. Egli
fa riferimento innanzi tutto a Ef. 2,14-18 ed osserva che nel discorso di Paolo sulla croce di Cristo,
che demolisce il muro dell'inimicizia e costruisce la pace, c'è una presenza non esplicita della
Chiesa: è il muro di divisione del legalismo che viene abbattuto dall'amore cristiano.
La morte di Cristo in croce ha conferito ad ogni uomo, anche al più lontano, il carattere di un
essere amato da Dio. Questo è un dato che precede la Chiesa: ogni persona che si imbatte nella sua
missione, è un uomo che già è stato incontrato da Dio ed è stato riconosciuto come fratello del suo
Figlio diletto. Perciò la chiesa non resta chiusa nella realizzazione della sua stessa unità, ma esiste
essenzialmente nella prospettiva di un'unità superiore.
È interessante che soprattutto nella Lettera ai Romani, così densa di affermazioni dottrinali
decisive, Paolo pervenga a dover esprimere rispetto ed accoglienza per i fratelli, i deboli, che non
riescono a condividere fino in fondo la sua stessa dottrina. Von Balthasar ci parla di Paolo che
supera lo stesso suo paolinismo nello spazio avvolgente dell'amore.93
Quali sono le conseguenze ecclesiologiche, quale ritratto di Chiesa si dovrebbe disegnare a
partire da queste premesse? La risposta dell'Autore non è particolarmente elaborata, ma con
chiarezza afferma che la Chiesa trova la sua giustificazione nella sua missione. Egli rifiuta di
considerare l'esperienza della chiesa apostolica comandata esclusivamente da necessità contingenti
e quindi priva di valore teologico e ritiene possibile scoprire sotto le differenti situazioni un criterio
fondamentale - l’amore/agape -, posto al servizio di quella “invincibile coscienza unitaria” che
anima la Chiesa.94
Questi tentativi di sistematicità, a cui si è accennato, ovviamente non sono gli unici, ma fanno
capire che si è avviato il cammino per un recupero del concetto di amore come principio e termine
altissimo della esistenza storica della Chiesa. Certo, la Chiesa è fondamentalmente cristologia, ma
sotto il governo del Cristo celeste, vive per virtù dell'azione dello Spirito Santo, il quale non è colui
93
U. H. VON BALTHASAR, Gloria VII. Nuovo Patto, Jaka Book, Milano 1977, 396-400. 94 Ibidem, 400-406.
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che istituisce la Chiesa ma colui che la costituisce e che “suscita, nella vita storica degli eventi, cioè
fatti non riconducibili alle pressioni, ai ricorsi, un ordine naturale”.95
Perciò l'azione dello Spirito è “imprevedibile”: talvolta è vento impetuoso, talvolta è brezza
leggera di primavera ma è sempre Lui, lo Spirito che dà la vita e “costringe” ad uscire dal “solito”,
dall'abitudinario, dal “sentirsi a posto”, dal sentirsi soddisfatti e gratificati. Insomma la sua azione
spinge ad uscire dalle sicurezze per aprire nuovi orizzonti; orizzonti di libertà e di liberazione.96
In questo orizzonte dello Spirito, può essere possibile anche ipotizzare la carità come
principio esclusivo e assolutamente determinante di tutta l'esistenza cristiana e, rispetto alla formula
classica tomista della Caritas forma virtutum, può essere ipotizzabile una Caritas forma ecclesiae.97
3.1.2. Le caratteristiche della carità come “forma” della vita ecclesiale
Nella prospettiva delineata, la carità non è soltanto l'origine e la sorgente dell'evento
ecclesiale, ma ne diventa appunto la forma di vita.
L'agape significa, innanzitutto, rispetto, apertura e prossimità nei confronti dell'alterità. Essa
nasce quando l'uomo, toccato dall'amore del Padre, si fa capace di riconoscere nell'altro il volto di
un fratello, anzi del “primogenito”98 che si rispecchia nei molti fratelli: il Cristo.
Dunque la prima caratteristica dell'agape è proprio quella della scoperta dell'alterità, che
diventa esigenza etica di prossimità; come Dio mi personalizza attraverso il suo amore, donandomi
la mia identità, custodendola nella sua alterità e promuovendola verso il suo dispiegamento nella
comunione con Sé, così la carità del cristiano è chiamata a personalizzare l'altro uomo
riconoscendolo, anzi facendolo diventare fratello.99
95 Y. CONGAR, Implicazioni cristologiche e pneumatologiche dell'ecclesiologia del Vaticano II, in Il cristianesimo nella storia, Vol. II,
Bologna 1981, 103; Cfr. anche ID., Spirito Santo secondo la teologia cattolica, in Dizionario ecumenico, Cittadella, Assisi, 1972,
186-198. 96
K RAHNER, Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza, in Mysterium salutis, II/1, Queriniana,
Brescia 1969, 401-507; H. MUHLEN, L'evento Cristo come atto dello Spirito Santo, in Mysterium salutis, III/2, Queriniana, Brescia
1971, 645-684. 97 S. DIANICH , op. cit., 48-49; Cfr. anche L. SARTORI, Caritas forma ecclesiae, in Lateranum 51, 1985, 20-40. 98 Rom. 8,29; Col. 1,15; Ap. 1,5. 99
AA.VV, Persona, sviluppo e reciprocità trinitaria, Dehoniane, Roma 1991,113-134. Come sottolinea E. Lévinas, riletto e
approfondito dal Ricoeur, già nell'Antico Testamento il riconoscimento del volto del fratello diventa per l'uomo l'occasione
dell'esperienza etica, il luogo dove irrompe dall'alto (da Jahwè) l'imperativo: "Non uccidere"; "Ama il prossimo come te stesso". Nel
“tu”che lo interpella l'io nasce alla sua responsabilità etica; ma, allo stesso tempo, vede e sperimenta, attraverso il volto dell'altro, la
presenza dell'Altro assoluto che lo interpella. Cfr. P RICOEUR, Soi-meme comme un autre, Du Seuil, Paris 1990; Cfr. I. MANCINI,
L'ethos dell'Occidente, Marietti, Genova 1990.
26
Seconda fondamentale caratteristica dell'evento-amore è la reciprocità. Il rapporto col volto
dell'altro giunge al suo compimento quando, in risposta al mio riconoscimento, l'altro mi riconosce
come fratello: è il comandamento nuovo del Cristo.100
L'agape ha, infatti, per sua natura, una struttura di reciprocità. La reciprocità porta a
compimento l’etica della carità: l’amore si manifesta, pertanto, come evento di unità nella
distinzione e nella libertà. La Chiesa trova in questo evento la sua essenza più profonda, l'unità:
l’essere un corpo solo, che si esprime in differenti identità personali, che restano ciascuna
insostituibile di fronte a Dio e di fronte ai fratelli.
Il riconoscimento dell'alterità, la pienezza della reciprocità presuppongono la capacità nello
Spirito di perdersi per ritrovarsi:101 è questa la legge trinitaria dell'agape. Come il Padre è se stesso
in quanto è dono di Sé al Figlio e tale è il Figlio nel rapporto col Padre, così anche il credente è
chiamato, nel seguire Gesù, a vivere questa legge pasquale di morte di sé e resurrezione in Cristo. E
quello che vale nel rapporto tra il singolo credente e Cristo vale anche nel rapporto tra i credenti,
innestati per lo Spirito nell'unico Cristo. Senza questa profondità kenotica,102
la carità non
raggiunge la pienezza della sua verità ontologica, etica e pratica.
Mentre unisce nella comunione, l'amore spinge alla missione perché è di per sé apertura,
concretezza e storicità. L'amore del Padre si è incarnato nel Figlio, si è fatto storia, parola, gesto;
così, per la struttura antropologica stessa dell'uomo come spirito incarnato, e per la modalità
salvifica dell'incarnazione, la carità si esprime nella totalità dell'essere dell'uomo: si mostra nella
parola, si traduce nel gesto, si edifica nella struttura e si concretizza nella trasformazione dei
rapporti storici e sociali.
100 Gv. 15,12 101 Lc. 9,25; Gv. 10,17s.; 15,13 102 Kenosi: spogliazione; discesa
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27
LA CARITÀ NELLA PASTORALE
1. Premessa
Il nostro cammino formativo, finora, si è articolato su due binari paralleli, ma ispirati ad un
unico approccio teologico/storico: da un lato una presentazione della spiritualità della carità e
dall’altro l’individuazione dell’etica della carità.
Siamo arrivati a comprendere che la Chiesa deriva dalla Carità di Dio: è frutto del suo
amore, è segno visibile dell’amore trinitario. La Carità, infatti, riguarda la Chiesa anzitutto nel suo
essere, prima ancora ch1e nel suo agire. Afferma il progetto della Chiesa Italiana, incentrato sul
tema Evangelizzazione e testimonianza della Carità:
La Carità è Anzitutto il mistero stesso di Dio e il dono della sua vita agli uomini. La carità, di
conseguenza, è la natura profonda della Chiesa, la vocazione e l’autentica realizzazione dell’uomo. Nella
croce Cristo, essa ci è rivelata e donata in pienezza.103
Per la Chiesa, quindi, non c’è altra possibilità di manifestare la gloria dell’amore trinitario
ed essere per il mondo sacramento di salvezza, se non collocandosi all’interno di quella
espropriazione di sé che il Cristo ha compiuto in croce e che si compie nella totale donazione della
propria vita per il mondo.
Nel dono reciproco si sé, realizzato per la carità che viene da Dio, si riassume tutta
l’antropologia cristiana, nonché qualsiasi riflessione teologica e qualsiasi progettazione
pastorale.104 In questo sfondo culturale, segnalato da Giovanni Paolo II in Dominum et
vivificantem, vogliamo sviluppare la terza parte del nostro studio: la carità nella pastorale.
2. La prassi pastorale di Gesù
Parlando di Gesù, il Vangelo, non si stanca mai di sottolineare il rapporto che Egli
intrattiene con i poveri, i peccatori e gli indigenti. La sua prassi non si ferma ai semplici bisogni,
ma raggiunge le persone: Egli non solo aiuta il prossimo, ma fa spazio dentro di se all’ultimo. Il
vissuto di Gesù è segnato da gesti che esprimono intimità e amicizia: la prassi di carità del Cristo
103 ETC 19.26. 104 GIOVANNI PAOLO II, Dominum et vivificantem 59.
28
28
raggiunge il cuore dell’esistenza; dice un modo di gestire l’intera vita racchiusa nella categoria del
servizio.
Il suo modo di vedere il mondo è quello dell’ultimi, perché essi sono al centro
dell’attenzione del Padre; gli ultimi danno la giusta angolatura al mondo: quella di Dio. Accade,
non raramente, che chi si occupa degli emarginati venga a sua volta emarginato, nella misura in
cui la sua scelta di solidarietà non sia un gesto sporadico, ma scelta fondamentale di vita.105
2.1. La comunità di Gerusalemme.
L’“azione pastorale” di Gesù continua nelle prime comunità. Descrivendo la prima
comunità, Luca precisa che i cristiani avevano tutto in comune e vendevano le loro proprietà per
distribuire a ciascuno secondo le differenti necessità.
La motivazione che spinge la prima comunità a compiere tali scelte, non è una riflessione
ascetica o una concezione della povertà per una migliore distribuzione del bene comune, ma è la
consapevolezza di avere un unico Padre e di essere figli nell’unico Figlio. Si tratta, quindi, di una
fraternità che l’uomo non scopre riflettendo su se stesso o sulla vita altrui: è una parentela la cui
radice viene dall’alto, dal Padre.
È interessante notare, come la prassi caritativa delle prime comunità si è da prima espressa
in forme spontanee, in cui ciascuno distribuiva i beni al fratello bisognoso, per poi svilupparsi in
opere organizzate e istituzionalizzate: si pensi alla distribuzione quotidiana per le vedove.106
2.2. Le comunità paoline.
Nelle comunità paoline per far fronte alla minaccia di ricadere sotto la schiavitù della carne,
viene sottolineata l’importanza della carità come spazio della libertà: la vera libertà è libertà
nell’amore. È interessante notare che a comunità, alquanto litigiose come Galizia e Roma, Paolo
proclama come una sorta di cura, l’amore del prossimo come compimento di tutta la legge.
105 B. MAGGIONI, La Carità alle origini della Chiesa, in: La Chiesa della Carita, EDB, Bologna, 2009, a cura di.: G. PEREGO, 119-120.
Inoltre per questa parte: R. BROWN, Le Chiese degli Apostoli, Casale Monferrato, 1992. 106 Ibidem, 121-122.
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29
Dal contatto con la comunità di Corinto, inoltre, la carità viene specificata, come la
differenza che intercorre tra un modo infantile e un modo solido ed adulto di cercare Dio.
La carità, per Paolo, è risposta a tre grandi domande: come risolvere le tensioni che scuotono le
comunità? come crescere e diventare adulto nella fede? come trovare in tutto ciò che passa - anche
l’esperienza religiosa- ciò che resta per sempre? 107
2.3. Le comunità di Giacomo.
Giacomo scrive la sua lettera cercando di sottrarre le sue comunità dal rischio di una fede
fatta solo di parole, ma povera di gesti concreti di carità. La fede senza le opere è inutile: non
semplicemente manchevole, ma morta, inerte come un cadavere. Le opere della fede sono amore,
gesti che non creano ne distinzione, ne discriminazione: mettere al centro il ricco per avere
privilegi e trascurare i poveri, significa porsi in antitesi con il modo di operare di Dio.108
3. La Carità in un mondo che cambia.
Dopo aver dato uno sguardo sommario alla prassi pastorale delle prime comunità, vogliamo
approfondire il nostro discorso con una breve analisi dei convegni e documenti che maggiormente
hanno segnato la pastorale della carità.
3.1. Anni Settanta.
Negli anni Settanta la Chiesa italiana si è impegnata sul tema dell'evangelizzazione: era
l'urgenza che si imponeva ad una Chiesa chiamata ad assumere modalità nuove di presenza in
mezzo agli uomini del nostro tempo. Era l'ora della catechesi, realizzata in Italia dal progetto di
rinnovamento dei catechismi e, a livello mondiale, dal Sinodo 1977 sulla catechesi.
Contemporaneamente la Chiesa italiana approfondiva il terzo polo della vita ecclesiale, la
carità, con il tema della promozione umana: espressione capace di verificare la consistenza
dell'annuncio e la vitalità del culto. La carità non è più pensata e realizzata come un dare da parte
chi possiede, bensì come un promuovere germi di bene, le potenzialità di ciascuno, un habitat fatto
di calore e di luce.
107 Ibidem, 122-127. 108 Ibidem, 127-129.
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Il Convegno ecclesiale del 1976, poi, su “Evangelizzazione e promozione umana” è stato di
certo un balzo innanzi nella coniugazione tra fede e vita, tra annuncio, celebrazione e
testimonianza; testimonianza della vita cristiana che viene indicata anche da Paolo VI, come il
primo mezzo di evangelizzazione in quanto "l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i
testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni". 109
E' questo il senso del primo Convegno della Chiesa italiana svoltosi a Roma dal 30 ottobre
al 4 novembre 1976 sul tema: “Evangelizzazione e promozione umana”.110
Il Convegno ecclesiale di Roma ha posto in evidenza tre cose: il desiderio di una maggiore
partecipazione alla vita ecclesiale; l'esigenza di aprirsi al nuovo che fermenta nel nostro Paese; la
necessità che la Chiesa italiana si rinnovi profondamente nella sua mentalità e nel suo stile di vita
e di azione. La Chiesa, insomma, sia fermento della società di oggi, operando oltre gli umanesimi
del nostro tempo, offrendo al mondo la testimonianza vissuta del Vangelo.
Il segno che la Chiesa italiana sia andata, poi, maturando, nelle direzione delle linee qui
esposte può essere colto nell'importante e straordinario documento del Consiglio permanente della
CEI su "La chiesa italiana e le prospettive del paese": l'immagine che ne risulta è quella di una
comunità ecclesiale sollecita ed amica degli uomini, nel fedele riferimento alla sua identità di
popolo servo della Parola. 111
3.2. Anni ottanta.
Dal progetto ecclesiale degli anni settanta maturava nella Chiesa, la necessità di sottolineare
maggiormente il soggetto comunitario. È da questa coscienza che nasce il progetto pastorale degli
anni ottanta: Comunione e comunità.
In questo tentativo di fare della comunità il soggetto primario dell'azione pastorale, si è
inserito efficacemente il secondo Convegno ecclesiale di Loreto nel 1985, con l'obiettivo di
mettere in comunione la comunità dei credenti con la comunità degli uomini: “Il servizio di
109
EVANGELI NUNTIANDI, 41. 110 Atti del Convegno, AVE, Roma 1977. 111
L. ACCATTOLI, Evangelizzazione e carità (1970-1990), in Il Regno-Attualità, 8, 1992, 249-253; D. BONIFAZI, L'accoglienza del
Concilio nei programmi pastorali della CEI, in AA.VV, Vent'anni di Concilio Vaticano II, Borla, Roma 1985.
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31
riconciliazione coinvolge la comunità degli uomini”. L'uomo, infatti, è “la via della Chiesa,
pellegrina con la gente e nella storia del nostro paese”. 112
Si può quindi affermare che la Chiesa in Italia ha progressivamente preso coscienza che la
comunione è al principio e alla fine dell'essere e dell'agire della Chiesa:113 la comunione rimanda
come suprema istanza e come metodo di crescita, alla carità. Donata da Cristo con l'effusione
dello Spirito Santo, la carità anima e sublima ogni dono e ogni servizio nella partecipazione alla
vita trinitaria. Essa, che è il carisma più grande di tutti, spinge il singolo credente e tutto il popolo
di Dio a cercare ciò che è bello, giusto, vero e buono.
3.2.1. Comunione e comunità a servizio dei poveri.
Il documento di base del progetto pastorale per gli anni ottanta è Comunione e Comunità del
1 ottobre 1981,114 che potrebbe essere considerato la rilettura italiana della Lumen Gentium, di cui
esplicita la tensione ecumenico/missionaria.
La comunità ecclesiale è chiamata ad impegnarsi con rinnovata dedizione alla causa del
bene comune della società, dando vigore alle radici morali dei grandi valori della dignità e dei
diritti dell'uomo, della giustizia, della solidarietà, della pace.
Gli ultimi sono perciò i soggetti delle antiche e nuove povertà: partire dagli ultimi, significa,
farsi voce della rivendicazione dei loro diritti, essere al loro fianco con gratuità nelle molteplici
forme di volontariato che sono fiorite in questi anni; ripartire dagli ultimi significa anche
intervenire sulle mentalità, stimolare la mediazione politica, perché il sistema economico sia
misurato sugli obiettivi umani.
La vera ecclesialità, quindi, si coniuga intimamente con la missionarietà, per cui la chiesa o
è missionaria o non è chiesa:
La comunione che dobbiamo promuovere non può ritenersi la comunione nel cenacolo ma la
comunione che dal cenacolo parte e va per tutte le strade della nostra società. 115
112 CEI, La Chiesa in Italia dopo Loreto, 36. 113 GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici, 32. 114
CEI, Comunione e comunità. Introduzione al piano pastorale, EC3/346-391. 115
A. BALLESTERO, Al Consiglio permanente della CEI, 6-9 febbraio 1984.
32
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3.2.2. Il Convegno di Loreto
Il Convegno Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini si è celebrato dal 9 al 13
aprile 1985 a Loreto, cittadella di Maria. È stato aperto da una solenne e suggestiva liturgia della
Parola per celebrare il Vangelo della Riconciliazione,116 da cui partire “non per schiacciare ma per
salvare, non per trascinare ma per convincere, non per guadagnare ma per pagare... a partire dagli
ultimi, solitamente esperti in desolazione del calvario”. 117
Il Convegno, dopo le relazioni fondamentali, si è snodato attraverso il lavoro di ventisei
Commissioni di studio. La Commissione 20 si è occupata del servizio agli ultimi:
nell’introduzione118 si è da subito chiarito che una diaconia appare autentica: se è volta più a
rendere giustizia, rimuovendo le cause e i circuiti di emarginazione, che a curare la sola patologia
sociale; il puro “riparatorio” non è piena carità; se è competente, in quanto non basta il buon
cuore, la disponibilità, ma è necessaria anche la preparazione e un minimo di competenza per un
servizio più qualificato; una “carità qualsiasi” è beffa alle necessità e alle esigenze della persona in
difficoltà; se non serviamo tanto “per amor di Dio” ma “come Dio ama noi” nonostante le nostre
incoerenze e defezioni.
La diaconia, inoltre, appare comunicativa: se è rivolta agli uomini del territorio e non solo
ai credenti della parrocchia; se è assunta dall'intera comunità e non realizzata dal solo “gruppo
caritativo”; se è svolta in collaborazione con le istituzioni, nel rispetto delle autonomie; se lo stile
non è assistenziale, ma di promozione dei destinatari, credendo alla reciprocità dell'arricchimento
e crescita umana. La diaconia appare credibile se è scelta di stare dalla parte degli ultimi, se è
condivisione di vita e non semplice trasferimento di beni, se parte dal bisogno e non da schemi
ideologici; se è svolta nella continuità, creando così servizi e non solo interventi, se ha dimensione
politica, cioè incidenza sulla comunità per il mutamento; se, infine, è etica unitaria applicata nel
pubblico e nel privato da un “uomo solidale”, da un “cittadino credente”.
116Atti del convegno, ed. AVE, Roma 1985. 117Ibidem, 87. 118La commissione ha avuto come presidente il dott. Luciano Tavazza, dirigente RAI e come segretario mons. Giuseppe Pasini
della Caritas italiana: Cfr. Atti, 360-372.
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33
3.2.3. La missionarietà della Chiesa.
A differenza del precedente convegno del 1976, l'Episcopato italiano ha pubblicato, il 9
giugno 1985, una Nota pastorale dal titolo: La Chiesa in Italia dopo Loreto.
Il Convegno viene definito e sintetizzato dai nostri Pastori come “evento di verità di carità e
di missione” che il Risorto affida ai suoi discepoli, per sviluppare una più profonda cultura della
solidarietà finalizzata a promuovere la coscienza dei più deboli a divenire soggetto della propria
storia, per aprirsi sempre di più alla missione come vocazione connaturale alla Chiesa.
Sempre su questa stessa linea si pone un nuovo Documento della CEI, Comunione e
comunità missionaria,119 con il quale la Chiesa italiana ribadisce la sua scelta di slancio
missionario.
Nel campo specifico, poi, delle attività caritative, oggi, la missione della Chiesa trova un
ambito immenso di impegno formativo e operativo. I Vescovi ribadiscono che con ogni attenzione
si deve curare: lo stile di povertà di vita nella comunità cristiana; l'educazione alla sobrietà e alla
rinuncia del superfluo in favore dei poveri; l'educazione dei laici al volontariato nelle varie
espressioni di diaconia della carità; la destinazione preferenziale dei servizi della comunità
cristiana ai poveri; l'accoglienza dei fratelli del terzo mondo; la denuncia del sottosviluppo dei
paesi poveri determinato, in gran parte, dall'egoismo dei paesi ricchi.
3.3. Anni novanta
Nella XXXIII Assemblea generale dei Vescovi italiani - Collevalenza, 19-22 novembre
1990 - dopo un iter quasi triennale, viene approvato all'unanimità il documento con gli
orientamenti pastorali della Chiesa italiana per gli anni '90: “Evangelizzazione e testimonianza
della carità” (ETC). 120
ETC si pone, quindi, in continuità con il corpus precedente, non aggiungendovi un altro
capitolo, bensì rivisitando quella ricchezza dettato da quella peculiarità fondamentale: il Vangelo
119
CEI, Comunione e comunità missionaria, EC4/114-148. 120
CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali per gli anni novanta, EC4/1357-1408.
34
34
della carità, cuore della nuova evangelizzazione. Questa originale e pregnante espressione intende
collegare reciprocamente la realtà dell'evangelizzazione e quella della carità:
Vangelo ricorda la parola che annuncia, racconta, spiega e insegna (...). E carità ricorda che il centro
del vangelo, la lieta notizia è l'amore di Dio per l'uomo e, in risposta, l'amore dell'uomo per i fratelli121
Due sono i motivi fondamentali che hanno spinto i Vescovi a questa scelta: in primo luogo,
la necessità di riprendere, approfondire e attualizzare l’impegno per una rinnovata
evangelizzazione; in secondo luogo, l'esigenza di approfondire, accanto alla dimensione
liturgico/sacramentale e a quella kerigmatico/catechetica della vita ecclesiale, la dimensione
diaconale/caritativa, presente in modo latente nei decenni precedenti, ma sulla quale non sono
stati offerti una riflessione e un orientamento pastorale organici e autorevoli.
Gli Orientamenti hanno come fulcro la necessità di coniugare in profondità vangelo e storia,
tenendo conto di una duplice e imprescindibile originalità: quella del vangelo in quanto
contemporaneo ad ogni epoca storica, e quella del nostro tempo come luogo che invoca e attende
una risposta evangelica all'altezza della sua domanda. 122
Afferma il card. Ugo Poletti nella presentazione del documento:
La carità è la via privilegiata per la nuova evangelizzazione, perché mentre conduce ad amare
l'uomo, apre all'incontro con Dio principio e ragione ultima di ogni amore.
Il capitolo I del documento, Alla sorgente del vangelo della carità, presenta il fondamento
biblico e teologico di quella carità, via maestra della nuova evangelizzazione: scandaglia l'agape
tanto come donum Dei, quanto come lex vitae della Chiesa. 123
Col capitolo II, Il vangelo della carità e le nostre Chiese, si è nel cuore di questi
orientamenti. Due sono gli obiettivi che il testo propone in questo decennio: il primo è quello di
far maturare comunità parrocchiali che abbiano la consapevolezza di essere soggetto di una nuova
evangelizzazione permanente ed integrale, di una celebrazione liturgica viva e partecipata, di una
121 Ibidem, 11. 122
AA.VV, Ethos della carità: anni '90, in Rivista di teologia morale, 23, 1991, 7-51; L. ACCATTOLI, Evangelizzazione e carità, in Il
Regno-Attualità, 37, 1992, 250-253; M. COZZOLI, La testimonianza della carità, in La rivista del clero italiano, 72, 1991,827-842; R.
RUSSO, Il vangelo della carità. Riflessioni teologiche sugli orientamenti pastorali della chiesa italiana, in Asprenas, 39, 1992, 483-
499. 123 ETC, 12-24.
35
35
testimonianza di servizio attenta ed operosa; il secondo è quello di favorire l'osmosi tra queste tre
dimensioni essenziali del mistero e della missione della Chiesa.
Solo dopo aver ribadito questi capisaldi intra-ecclesiali di fondo, ETC può indicare tutta una
serie di ambiti e punti nevralgici in cui urge realizzare l'amore della verità e la verità dell'amore:
famiglia e scuola, ecumenismo e dialogo interreligioso, impegno socio-politico ed opzione
preferenziale dei poveri, questione morale e sfida ecologica.
In tutto ciò la Chiesa non fa da cerniera etica rispetto ai valori della società laica, né intende
supplire le eventuali carenze di questa, bensì è interprete autorevole dell'esigenza di assoluto che
c'è nel cuore di ogni uomo, al cui servizio si pone nello stile del buon samaritano, emblema di
quell'agape che “si fa tutto a tutti”.124
Il capitolo III , Tre vie per annunciare e testimoniare il Vangelo della carità, indica le tre
opzioni da privilegiare nella recezione ecclesiale: educare i giovani al vangelo della carità e ad essi
offrire proposte essenziali, forti, coinvolgenti; servire i poveri, antichi e nuovi, nel contesto di una
cultura della solidarietà; lo sviluppo delle scuole di formazione e la ripresa delle Settimane sociali
dei cattolici italiani affinché la dottrina sociale della Chiesa si misuri con una società in rapido
divenire e i cristiani individuino obiettivi e vie di sviluppo in sintonia con il Vangelo della
carità.125
3.3.1. Il Convegno di Palermo.
Come per i due decenni precedenti, la Chiesa italiana avverte il bisogno di verificare il suo
cammino sulla base degli Orientamenti proposti alle comunità. Viene convocato a Palermo, dal 20
al 24 novembre 1995, il convegno ecclesiale per rispondere sostanzialmente all'interrogativo,
posto dal Santo Padre nell'omelia: "Che cosa sei, Chiesa italiana, nel mondo di oggi?". Non è un
interrogativo retorico in quanto la situazione dei cattolici, nel nostro Paese, nel giro di pochi anni è
radicalmente cambiata: è il primo convegno che le Chiese d'Italia celebrano dopo il crollo del
marxismo ed è anche il primo convegno dopo la fine dell'egemonia politica del partito cattolico
124 Ibidem, 25-42. 125 Ibidem, 43-52.
36
36
nel Paese. Il convegno è stato preceduto da un lavoro fatto nelle Diocesi sulla base della Traccia di
riflessione, dove viene precisato che:
Il Vangelo della carità è il messaggio/sintesi che i Vescovi italiani hanno proposto in continuità e
come ulteriore approfondimento dei piani pastorali dei decenni precedenti. Un vangelo che vuole farsi
storia dell'umanità attraverso la comunità dei credenti e risvegliare, accogliere e fecondare i semi di luce e
di vita ovunque siano presenti (...). Il Vangelo della carità infatti sarà il tema unificante del prossimo
Convegno di Palermo che dovrà anzitutto promuovere una lettura della situazione del nostro paese e delle
nostre chiese nel suo contesto, per offrire poi stimoli e linee concrete per un rinnovamento della vita e
dell'azione pastorale delle nostre comunità nel passaggio epocale che apre al terzo millennio; contribuire,
infine, ad individuare i passi da compiere nella prospettiva del grande Giubileo.126
Il Convegno di Palermo ha individuato due modalità essenziali per incarnare nella vita
personale, comunitaria e sociale il Vangelo di Gesù Cristo: la spiritualità e la cultura .127
La spiritualità non va intesa come un di più decorativo ma come l'innervatura dell'esistenza
cristiana, grazie a quella presenza dello Spirito che rende attuale e contemporanea la presenza e
l'azione del Crocifisso-Risorto. È il senso richiamato da Giovanni Paolo II quando afferma che
agente principale della nuova evangelizzazione è lo Spirito Santo, perciò noi possiamo essere
cooperatori nell'evangelizzazione solo lasciandoci abitare e plasmare dallo Spirito, vivendo
secondo lo Spirito e rivolgendoci nello Spirito al Padre.128
La seconda indicazione venuta da Palermo è quella della cultura: il vangelo vissuto e
interpretato dallo Spirito è per se stesso scaturigine e centro propulsore di una originale
prospettiva culturale, la quale non prescinderà dal dialogo con i segni dei tempi e individuerà nel
messaggio di Gesù Cristo i criteri ispiratori di una proposta rispondente all'oggi della storia e della
società.129
126 Il documento, presentato a Roma dal cardinale Saldarini il 10 gennaio 1995, traccia le linee di riflessione sul tema : Il Vangelo
della carità per una nuova società in Italia. Cfr. EC5/1192-1229. 127
P. CODA, Le scelte di Palermo. Implicanze culturali ed ecclesiali del Vangelo della carità, in Rassegna di Teologia, 36 ,1996 ,
149-168. 128
W. KASPER, Introduzione alla fede, Queriniana, Brescia 1972, 204-205. E Rahner diceva che il cristiano di domani o sarà un
mistico o semplicemente non sarà: Cfr. K. RAHNER, Nuovi saggi, III, Paoline, Roma 1968, 19-35. 129
L. PREZZI, G. BRUNELLI, Vangelo della carità progetto culturale, in Il Regno - attualità, 22, 1995, 680-691.
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4. Il terzo millennio.
All’inizio del terzo millennio, la Chiesa italiana nel documento Comunicare il Vangelo in un
mondo che cambia, ci fornisce il background su cui appoggiare qualsiasi azione pastorale.
L’intenzione dei Vescovi italiani è quella di Prendere il largo nell’annuncio del Vangelo,
cogliendo le attese di Dio sull’oggi. Il documento, quindi, compie un discernimento sull’attuale
società, cogliendone possibilità e rischi. Nella società moderna si evincono due desideri, su cui
sviluppare una qualsiasi forma di pastorale: il desiderio di autenticità e il desiderio di prossimità;
in essi si coglie una grande opportunità su cui radicare una pastorale viva e vivificante.
I due desideri in questione, tuttavia, non sono privi di rischi: il desiderio di autenticità va
integrato con il riconoscimento dell’autenticità altrui e della storia, e quello di prossimità va
depurato da qualsiasi forma di massificazione e omologazione.130
I vescovi, inoltre, affermano:
Vogliamo infine sottolineare come tutti i cristiani in forza del battesimo che li unisce al Verbo
diventato uomo per noi e per la nostra salvezza, siano chiamati a farsi prossimi agli uomini e alle donne che
vivono in situazioni di frontiera: i malati e i sofferenti, i poveri, agli immigrati, le tante persone che
faticano a trovare ragioni per vivere e sono sull’orlo della disperazione, le famiglie in crisi e in difficoltà
materiale e spirituale. Il cristiano, sull’esempio di Gesù, buon samaritano, non si domanda chi è il
prossimo, ma si fa egli stesso prossimo all’altro, entrando in un rapporto fraterno con lui, riconoscendo e
amando in lui il volto di Cristo, che ha voluto identificarsi con i fratelli più piccoli.131
4.1. Deus Caritas est.
Nel 2005 Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est fornisce delle indicazioni
programmatiche per la Chiesa del terzo millennio. L’intento del romano pontefice è quella di
suscitare nel credente una risposta decisa al dinamismo di amore con cui viene amato da Dio.
Nel documento si evince chiaramente come l’amore a Dio e quello al prossimo sono uniti
indissolubilmente nel concetto di incarnazione: il logos incarnato ci inserisce con la partecipazione
al suo corpo e sangue, nel suo dinamismo di donazione. Nella seconda parte dell’enciclica, come
conseguenze delle riflessioni della prima, si tracciano le linee dell’esercizio dell’agape da parte
130 CEI, Comunicare il vangelo in mondo che cambia, 36-39. 131 Ibidem, 62.
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della Chiesa: la carità appartiene all’essenza della stessa Chiesa; la Chiesa è famiglia di Dio che
vive un agape senza frontiere; la Chiesa non deve rimare ai margini dell’affermazione della
giustizia.132
4.2 Caritas in Veritate
Il 7 luglio 2009 è stata presentata nella sala stampa della santa sede l’enciclica Caritas in
veritate: un incoraggiamento all’umanità perché possa trovare le risorse per affrontare le sfide del
nuovo millennio. L’Enciclica riprende e attualizza la visione dello sviluppo umano integrale della
Populorum Progressio attraverso tre prospettive: l’esigenza di un’armonia dei saperi, la necessità
di un umanesimo aperto verso l’Assoluto e infine la fraternità per sconfiggere le cause di
sottosviluppo. Caritas in veritate, ha commentato il cardinale Paul Josef Cordes “è una luce per la
società” e per i cristiani ribadisce la centralità dell’uomo. Mons. Giampaolo Crepaldi, al momento
della presentazione, pose l’accento sulla dimensione della gratuità e del dono ed ha affermato che
l’annuncio di Cristo è “il più grande aiuto che la Chiesa può dare allo sviluppo”. Per questo il
cristianesimo “ha un proprio diritto di cittadinanza nell’ambito pubblico”. Nella Caritas in veritate,
quindi, la “questione antropologica” diventa “questione sociale”.133
5. La Pastorale della Carità.
Dopo aver tracciato una breve sintesi dei documenti e convegni, che hanno segnato
l’orientamento della Chiesa sul tema della Carità, ora vogliamo tracciare alcune linee di una
pastorale della carità. La Carità è una strada di evangelizzazione a condizione che sia
“testimonianza”: non ogni atto di solidarietà umana, pur compiuto dal cristiano o dalla comunità è
evangelizzazione, per essere tale deve riproporre le caratteristiche essenziali della carità di Dio,
pur dentro i limiti della fragilità umana.134
132
S. FERDINANDI, Radicati e fondati nella Carità, EDB, Bologna, 2006, 192-195 133
RASSEGNA STAMPA Citta del vaticano, 2009, in: www.cercoiltuovolto.it 134
P. CODA, La sfida della carità. Verso una parrocchia fatta vangelo degli ultimi, EDB, Bologna, 1994, 50.
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39
5.1. Carenze e distorsioni.
La prassi caritativa può dare adito a concezioni pastorali distorte . Si tratta, a volte, di
carenze non immediatamente percepibili, ma che possono deturpare l’immagine della Pastorale
Carità.
5.1.1. La Tentazione del Corpo speciale.
La pratica della Carità, talvolta ingenerare in coloro che se ne occupano, la convinzione di
una competenza che li rende speciali: un gruppo/corpo il solo capace di svolgere un tale servizio.
Questa deviazione può far scaturire, a volte, l’aspettativa da parte dell’operatore di una
gratificazione dell’impegno profuso: l’operatore ha dato con competenza e quindi può esigere.
Questa tentazione, inoltre, ingenera nelle comunità la delega, per cui si è disposti a dare qualche
contributo economico, ma si rifugge dall’essere più direttamente coinvolti.
Con questo, naturalmente, non si vuole negare la necessità né dell’organizzazione, né della
competenza: nulla è più dannoso del pressappochismo. Si vuol mettere in risalto, fin dall’inizio,
che tali requisiti vivono di ecclesialità e muoiono di separazione; in altri termini, un autentica
pastorale della carità si fa solo nel contesto di una pastorale organica e sulla base di una comunità
ecclesiale viva. 135
5.1.2. La tentazione dello stile assistenziale.
Soccorrere direttamente e concretamente chi versa nel bisogno, e non può attendere i nostri
vagheggiamenti para-intellettuali, è senz’altro un opera valida. La carità, tuttavia, non è pura
assistenzialismo. Due difetti della pastorale si profilano sulla base di tale concezione riduttiva: da
un lato, il venir meno della volontà di rimuovere le ingiustizie che generano le situazioni di
disagio e di indigenza; dall’altro, l’incapacità di riconoscere l’altro come soggetto della carità, cioè
di considerarlo nella sua dignità e capacità di riscatto. L’approccio assistenziale sembra aver
bisogno che il povero resti povero, per poterlo aiutare ancora. Non è improbabile, inoltre, che
135 AA.VV. Il Vangelo della Carità. Per la chiesa e la società, EDB, Bologna, 1994, 166.
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questo tipo di concezione sia uno dei fattori che causano la separazione della prassi di caritativa
dal tessuto della pastorale ordinaria.136
5.1.3. La tentazione dell’omologazione sociale.
Entriamo ora in una tentazione non di facile comprensione. La pastorale della carità,
tuttavia, può spesso cadere in questo equivoco di omologazione sociale. Spesso gli stili operativi
si sovrappongono o raddoppiano l’organizzazione dello stato sociale. In realtà, ciò che rende unica
la prassi cristiana, non è il sovrapporsi dell’ispirazione religiosa alla prassi sociale, ma una
specifico humus, un habitat: la comunità/chiesa. Essa è il luogo di manifestazione e realizzazione
della prassi caritativa; solo in essa l’azione di solidarietà è parte di una qualità di vita, e non
semplice erogazione di servizi. 137
5.2. Principi Base.
Dopo aver esposto, i rischi e le carenze che la prassi caritativa ingenera, vogliamo
sottolineare le caratteristiche fondamentali su cui basare una pastorale della carità ben articolata.
5.2.1. La Carità come Gratuità.
La gratuità nel contesto attuale, caratterizzata dalla logica del profitto ut/des – dono per
ricevere un contraccambio- ha un effetto sconvolgente e a tratti incomprensibile. Chi dona
gratuitamente viene trattato nella società odierna come un illuso, uno che non ha compreso la vera
logica della vita. Ma chi comprende questa prima peculiarità della carità, ha colto il cuore steso di
Dio: egli è gratis, ama sempre e per primo in modo gratuito.
Il valore della gratuità, quindi, va compreso nel senso più ampio che abbiamo sperimentato
da Dio: amare e donare senza chiedere il contraccambio; prevenire l’altro nel suo bisogno;
perdonare lasciando all’altro la possibilità di essere difettoso, limitato; corresponsabilità del
vissuto dell’altro, senza di lui la mia santità personale non ha senso.138
136 Ibidem, 167. 137 Ibidem, 167-169. 138 C. LUBICH, Gesù nel fratello, Citta nuova, Roma, 1995, 95-100. Inoltre per questa sezione: G. PASINI, Carità quinto Vangelo,
EDB, 2005, 33-54
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5.2.2. La Carità come concretezza.
L’amore di Dio si è fatto nella storia degli uomini gesto concreto. Nell’Incarnazione, infatti,
troviamo la chiave interpretativa di una carità concreta: il fratello che ho accanto, non è soltanto
un contenitore da riempire con i miei doni, ma la prima via di unione a Dio.
La carità di Cristo, inoltre, spinge il credente non solo a prendersi carico delle singole
persone, ma ad assumere un attività responsabile nei confronti del mondo in tutti i suoi aspetti:
dalla cultura alla libertà, dall’economia alla politica. La vera Carità suscita una solidarietà senza
confini.139
5.2.3. La carità come promozione dell’uomo.
Una terza caratteristica attraverso la quale la carità diventa strada per una nuova
evangelizzazione, è la promozione dell’uomo. L’amore di Gesù mette in moto le persone, le rende
attive, le cambia dentro aiutandole a scoprire le cause del disagio e facendole promotrici del loro
sviluppo. Qui la carità cristiana si mostra senza confini: essa investe l’unità dei popoli, che
possiamo definire come il sogno di Dio sull’umanità. L’uomo può esprimere tanti desideri, a volte
essi restano non realizzati perché non sono in linea con l’unico desiderio espresso da Dio stesso,
che “tutti siano uno”.140
139 Ibidem, 102-107. 140 Ibidem, 108-111.
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LA TEOLOGIA DELL’ASCOLTO
1. Premessa
L’ascolto non è l’inizio. Ascoltare presuppone qualcosa, qualcuno che parla per primo, che per
primo ha preso l’iniziativa di parlare. Ma è, dal nostro versante, dal versante dell’uomo,
l’atteggiamento originario, il nostro modo originario di metterci davanti alla vita e, in particolare,
davanti a Dio. Niente nell’esperienza cristiana ha la sua origine prima nell’uomo; ma niente ha
origine nel cristiano se non dall’ascolto: fides ex auditu. All’inizio della nostra stessa identità c’è un
racconto, c’è una testimonianza, c’è una storia che ci precede e che ci viene trasmessa, consegnata
dai nostri genitori, dall’ambiente famigliare: la storia delle nostre origini, delle nostre radici. Il
racconto delle origini attesta a ciascuno di noi che la nostra identità ci è anzitutto data: è impossibile
avere una identità e quindi vivere se non accettando d’ascoltare un racconto che fa venire alla parola
ciò che si è ricevuto ma non prodotto: il proprio corpo e il proprio nome. 141
Nel libro Uditori della parola, Karl Rahner sostiene e sviluppa la tesi per cui l’uomo è per sua
costituzione un essere in ascolto di una possibile rivelazione di Dio, l’essere storico in grado per sua
natura di ascoltare, di accogliere la possibile rivelazione di Dio e quindi in dovere di mantenere lo
sguardo teso verso di essa.142 E se questo Dio, assolutamente libero, «non volesse rivelarsi e
preferisse chiudersi nel suo silenzio, l’uomo giungerebbe all’ultimo e più alto grado della sua
esistenza spirituale e religiosa ascoltando il silenzio di Dio». Insomma, siamo fatti per ascoltare, il
nostro essere, la nostra verità è che siamo persone aperte, destinate all’ascolto.
L’ascolto è la radice della vita cristiana. La chiesa nasce dalla carità, è generata dalla carità,
occorre aggiungere che la carità è generata dall’ascolto.
2. Un Dio che parla
Nella prima pagina della Bibbia troviamo queste parole: “In principio Dio creò il mondo”.143La
prima azione che Dio fa è parlare. Dio parlò: “Luce”, e luce fu.
141 G. LAFONT, Dio, il tempo e l’essere, 33. 142 K. RAHNER ,Uditori della parola, Borla, Brescia, 1988, 30-40. 143 Gn 1,1.
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Tutta l’opera della creazione è un’opera di Dio attraverso la parola: anzi le creature sono
nient’altro che un’eco della Parola di Dio. Ma Dio, che certamente parla per creare ogni cosa e tutte
le cose, parla soprattutto all’uomo. E quando inizia a parlare all’Adam, al terrestre, parla in una
relazione personale: da quando dà la sua benedizione, appena ha creato Adamo, a quando poi lo va a
cercare, trovandolo nella contraddizione rispetto alla benedizione ricevuta.
2.1. La Parola dell’Antico Testamento
Il Dio dell’Antico Testamento, come per il nuovo, è un Dio soprattutto che parla. Nel libro del
Deuteronomio, Mosè così parla a nome di Dio al popolo: “Interroga pure tutti i tempi, interroga tutte
le genti della terra. Hai mai sentito dire di un Dio che parla?”.144Ecco qual è il nostro Dio: un Dio che
parla perché va ascoltato, richiede ascolto. Tutta la vita dell’uomo, la vita del credente è anzitutto
ascolto.
Quando Dio consegna le tavole dell’alleanza sul Sinai, troviamo un espressione significativa
per la nostra trattazione: “Dio allora pronuncio tutte queste parole: Io sono il Signore (…)”.145È
interessante notare, che dalla traduzione del testo in ebraico, tale espressione suona così: “e parlo Dio
tutte queste parole parlando” (wayeddabber elohim et kol-hadebarim ha elle mor).
Dio, quindi, è un colui che dona parole e non comandamenti: nella parola il soggetto che parla
ha interesse verso il suo interlocutore, desidera da lui una relazione; nel comando l’unico
preoccupazione del soggetto è quella di essere obbedito. Quando diciamo che Dio parla, quindi,
affermiamo il suo desiderio profondo di comunicare con l’uomo, di farne il suo interlocutore libero e
reciproco. Quando gli ebrei, infatti, hanno pensato ad una preghiera quotidiana da ripetersi più volte,
non hanno pensato ad una preghiera invocativa, ma ad una di ascolto: “Ascolta, Israele. Il Signore è
il nostro Dio, il Signore è uno. Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima con tutte le tue forze”.146La dinamica profonda dello shema’ è proprio questa: Ascolta Israele,
accogli che il Signore tuo Dio è uno e uno solo. Dunque dall’ascolto nasce la fede, ma una volta che
c’è la fede, ne discende la relazione: “tu amerai il Signore Dio tuo”, e si giunge alla carità.
144 Dt 4,32-33. 145 Es 20,1. 146 Dt 6,4-6.
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L’ascolto è un invito che alcune volte nella scrittura diventa un lamento: “Israele se tu mi
ascoltassi” (Sal 81, 9). Questo primato dell’ascolto non solo è ribadito più volte, ma rappresenta
all’interno dell’A.T. l’impegno più grande dei profeti rispetto alla vita del popolo di Dio, che spesso
segue altre vie.
Nel profeta Geremia si legge:
Io non vi ho dato nessun ordine né per offerte né per sacrifici, quando siete usciti dall’Egitto. Vi ho dato
soltanto una parola: ascoltate la mia voce147
Dio, quindi, richiede un ascolto, che prima ancora di essere al fine dell’obbedienza, è per la sua
conoscenza. Ascoltare non è acquisire una conoscenza intellettuale senza conseguenze per la vita,
non ha lo scopo di fornire delle nozioni, ma vuol dare una conoscenza penetrativa, personale,
esperienziale, che tende ad essere adesione, atto di fede, fino a diventare, in quella adesione, un forte
vincolo di amore, di carità.
Afferma Mons. Bruno Forte in una sua lettera pastorale:
Solo Dio poteva rompere il silenzio dei cieli e irrompere nel silenzio del cuore: solo Lui poteva dirci -
come nessun altro - parole d’amore. È quanto è avvenuto nella sua rivelazione, dapprima al popolo eletto,
Israele, e poi in Gesù Cristo, la Parola eterna fatta carne. Dio parla: attraverso eventi e parole intimamente
connessi, Egli comunica se stesso agli uomini. La Parola di Dio è Dio stesso nel segno della Sua parola!(…)Il
termine ebraico dabar, tradotto abitualmente “parola”, significa tanto parola che azione: così, i dieci
comandamenti sono detti in ebraico “le dieci parole” per indicare che essi esprimono al tempo stesso le
esigenze dell’amore di Dio e l’aiuto che Egli dà per corrispondervi.148
2.2. La Parola del Nuovo Testamento
Quando Gesù, sollecitato dallo scriba, deve dire qual è il primo comandamento dice che il
primo comandamento è: “Ascolta Israele” (Mc 12,29-31). L’ascolto è inteso in vista della
conoscenza, è in vista dell’amore: senza l’ascolto di Dio nessuno di noi può conoscerlo, né amarlo,
come tutti gli uomini cercheremo un idolo, una nostra proiezione.
Nel NT i sinottici al centro del vangelo posizionano la grande pagina dell’ascolto: la
trasfigurazione. Gesù appare ,in tutta la sua gloria, tra Mosè e Elia viventi -la legge e i profeti- e la
voce del Padre afferma: “Ascoltate Lui”.149In realtà abbiamo qui il compimento vero dello shemà.150
147 Ger 7,22-23. 148 B. FORTE, La Parola per vivere, lettera pastorale 2006-2007. 149 Mc 9,7.
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Se la voce dei profeti era shemà Israel, ascolta Israele, venuto Gesù l’indicazione è di ascoltare Lui,
che riassume Mosè e Elia, la legge e i profeti. E ancora una volta allora siamo portati alla centralità
dell’ascolto: ascolto di Dio nell’Antico Testamento; ascolto del figlio amato, il Cristo Signore, nel
Nuovo Testamento. Afferma Ugo di S.Vittore: “Tutta la Scrittura è un libro solo e questo libro è
Cristo”.151E ad esso si aggiunge Girolamo scrivendo: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di
Cristo”.152 Questo messaggio centrale del NT è riassunto in maniera mirabile dalla lettera agli Ebrei,
in cui si afferma:
Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti,
ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e
per mezzo del quale ha fatto anche il mondo.153
Dio, quindi, non è un enigma irrisolto, davanti al quale si resta muti, o un Dio morto da cui non
proviene alcuna vita, ma un Dio che parla, che esce da se e lo si incontra nella parola mediata
storicamente, per invitarci alla sua comunione.154 In Gesù Cristo è presente il nuovo che non può mai
invecchiare. Nel momento in cui Dio parla, ha pronunciato la sua parola estrema, ha rivolto verso
l’esterno quanto di più intimo aveva in se stesso.155
Comprendiamo, quindi, la profondità degli inviti di Gesù all’ascolto: “Chi ha orecchi per
ascoltare ascolti”, “Beati quelli che ascoltano la parola di Dio”, “Beati i vostri orecchi perché
ascoltano”. Ascoltare è il primo rapporto della nostra fede; ascoltare è soprattutto la maniera con cui
l’uomo celebra l’alleanza con Dio. Nell’alleanza del sangue di Cristo ascoltare diventa realizzare;
realizzare il progetto di comunione profonda con Dio: Egli ci dona il suo corpo, si lascia mangiare
affinché la nostra vita si divinizzi.
3. Un Dio che ascolta.
Ascoltare e parlare in una relazione che è alleanza, avventura comune tra Dio e l’uomo, nel
tempo e nella storia. Nel prologo di Giovanni la parola interpersonale, la parola dialogica è quella
parola che era Dio e nello stesso tempo una parola rivolta a un “tu” che è Dio stesso. Non a caso il
150 E. GRASSES, An die hebraer,XVII/1, 1990, 46-69. 151 UGO DA SAN VITTORE, L’arca di Noè, II, 8. 152 GIROLAMO, Commento al Profeta Isaia, PL 24,17. 153 Ef 1,1-2. 154 DEI VERBUM, 2. 155 W. KASPER, Gesù Cristo la parola definitiva di Dio, 174-175. In: AA.VV. La Parola di Dio, Jaca Book Communio, Milano, 2000.
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Figlio è la Parola, è l’eco della parola del Padre. Nel mistero di Dio coesistono, dunque, parola e
ascolto: c’è la relazione mediata dalla parola e dall’ascolto, in una comunione di vita. Noi potremmo
dire: “in principio era la parola ed era l’ascolto”. Il Figlio è la parola del Padre, ma insieme è
l’ascolto del Padre. La relazione tra Padre e Figlio e Spirito Santo, è quella dell’ascolto l’uno
dell’altro. Soprattutto nel quarto vangelo ci viene svelato il mistero di Dio come parola e ascolto tra
Padre, Figlio e Spirito Santo: il Figlio è sempre in ascolto del Padre. Gesù, infatti, quando vuole
illustrare la sua relazione col Padre non si esprime coi termini “Io dico al Padre”, ma predilige il
vocabolario dell’ascolto: “Io dico al mondo ciò che ho ascoltato da colui che mi ha inviato”; “Le
cose che io dico le dico perché le ho ascoltate dal Padre”; “Ciò che ho ascoltato dal Padre io ve l’ho
fatto conoscere”. Fino alla preghiera: “Padre ti ringrazio perché tu mi hai ascoltato, io so che tu mi
ascolti sempre”.156
Il quarto vangelo dice lo stesso dello Spirito Santo: “Tutto ciò che lo Spirito di
verità ascolterà da me, ve lo dirà”.157
Si privilegia, dunque, il linguaggio dell’ascolto nelle relazioni tra persone della Trinità.
Il nostro è un Dio che parla, ma è anche ascolto; in Lui c’è parola e ascolto: proprio per questo
è un Dio di comunione, di vita, di relazione, di amore. La pericoresi trinitaria, la circolazione di vita
all’interno della Trinità, quindi, è parola e ascolto. Questo provoca la relazione e l’amore trinitario.
Ma come Dio parla all’uomo così anche Dio ascolta noi uomini. Anzi, se c’è una possibilità di
patologia nella vita di fede del credente è non credere all’ascolto di Dio. Il profeta Isaia al capitolo
59 deve ammonire il popolo: “Bada Israele, non è troppo corta la mano del Signore da non poter
salvare. Non è duro il suo orecchio da non poter ascoltare” (Isaia 59,1).
Dio ascolta sempre gli uomini: tutte le preghiere della Bibbia sono una testimonianza di
quest’ascolto del Signore. In Geremia viene detto che Dio pone una nuvola tra sé e la preghiera
quando chi fa la preghiera è orgoglioso ed è empio: in quel caso, Dio in realtà ascolta, soltanto non
lascia che quella preghiera porti comunione e relazione tra lui e il credente.
156 E.BIANCHI, La vita Cristiana e l’ascolto dei poveri, Atti del Convegno di Caritas Ambrosiana, 2005, in: www.caritas.it 157 Gv 8,26; Gv 12,49; Gv 15,15; Gv 11,41-42; Gv 6, 13.
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All’interno di questo ascolto che Dio fa dell’uomo, c’è un privilegio; un privilegio per i deboli,
i poveri, gli ultimi, le vittime. Dio certamente ascolta tutti gli uomini, ma privilegia nell’ascolto
quelli che nessuno ascolta nella storia.
Quante volte troviamo nella Bibbia l’espressione: “Dio ha ascoltato la tua afflizione”.158
I
rabbini erano talmente colpiti dal richiamo insistente al Signore che ascolta il grido del povero, della
vittima, dell’oppresso, al punto che dicevano che l’oppresso, il povero, la vittima, il debole, non
dovevano neanche alzare a Dio la loro voce, perché l’ingiustizia di cui sono oggetto essa stessa
gridava a Dio e Dio la ascoltava. Nel libro dell’ Esodo vi è un testo (Es 3,7), centrale, ripetuto
nell’haggadà pasquale, là dove si dice: “Gli israeliti che erano schiavi in Egitto gridarono per la loro
schiavitù: il loro grido salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento; Dio si ricordò della sua alleanza, cioè
che lui aveva parlato loro. Dio vide, Dio conobbe”. E’ questa una straordinaria espressione per dire
che Dio ascolta. 159
4. L’Ascolto dimensione costitutiva dell’uomo
L’ascolto come la parola è una categoria antropologica primaria. Come ha fatto emergere con
forza Heidegger, l’essere dell’uomo poggia sul parlare e sull’ascoltare, poggia sul linguaggio che è
sempre evento di parola e di ascolto. Parlare e ascoltare non è nell’uomo solo una capacità tra le
altre: è la facoltà che fa dell’uomo un uomo. L’uomo parla perché è possibile l’ascolto e con la
parola conosce, interpreta, approfondisce, ordina, chiama addirittura all’esistenza. L’uomo ascolta
nel senso che ciò che lo attornia è da lui accolto, decifrato, assunto.
Parlare e ascoltare è nient’altro che mettere in comunicazione io-tu, l’uomo è loquens et
audiens, proprio perché è capace di questa relazione io -tu. Nel libro della Genesi, il terrestre Adam,
non è ancora il maschio ish; l’uomo creato da Dio è solo. L’uomo accede alla parola soltanto quando
ha la donna davanti, ha l’alterità io-tu: in quell’istante l’uomo esce dal mutismo e definendo l’altro
decide se stesso; essa sarà ischà, io isch.
158 Gen 16,11 159 Cfr. R. CACITTI, Grande Sabato, Vita e pensiero, Milano, 1994, 52-64.
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L’ascolto è ciò che mi permette di sentire dove sono posizionato nella storia e dove sta l’altro
che mi parla. Ascoltare, quindi, significa collocarci rispetto ad una voce, prima ancora di ascoltare
una parola. Il bambino impara attraverso l’udito a sapere dov’è la madre, dov’è l’altro. E’ attraverso
l’udito che percepisce la voce che gli viene indirizzata e che anzitutto gli dice: io sono qui, sono in
relazione con te, ti ascolto.
L’ascolto è una passività piena: L’occhio, la bocca, la mano evocano sempre modalità attive,
aggressive. Si parla di bocca vorace, di occhio vorace: dell’orecchio non si potrebbe mai dire questo.
L’orecchio è in stato di passività, evoca un modo passivo di stare al mondo, mentre gli altri organi
evocano eventualmente uno stato attivo. Ascoltare, passività, silenzio, lasciare alla voce e alla parola
il posto: ascoltare è essere qui, esistere, poter essere per la parola, poter essere per l’altro. Tutti
sapete che noi parliamo perché abbiamo ascoltato. I sordomuti non sono in grado di parlare non a
causa di eventuali impotenze nell’emettere suoni, ma per il fatto che non avendo mai ascoltato non
sono capaci di articolare la parola, perché la parola nasce dall’ascolto. L’uomo “è” anzitutto quando
ascolta, prima ancora di parlare, come il bambino nell’utero della madre.
Ascoltare è la prima dimensione di comunione, di comunicazione, inscritta in noi radicalmente,
a partire dalla vita intra-uterina. Quando poi veniamo al mondo noi impariamo ad ascoltare il mondo
ascoltando nostra madre, nostro padre ed è proprio questa comunicazione, questo ascolto differente
che ci struttura nella nostra capacità di comunicazione e quindi di comunione. Di conseguenza per
noi uomini è estremamente importante esercitarci all’ascolto, anche a livello intra-umano. Questo
esercizio comporta dei passaggi ben precisi.
4.1.Ascoltare la voce, prima di ascoltare le parole.
La prima via di comunicazione con l’altro è ascoltare la voce prima delle parole che ci dice. La
voce ha un tono, un ritmo, ha una forza, ha un suono preciso, fa parte della persona. Se io voglio
riconoscere il soggetto, non lo riconosco dalle parole che mi dice, lo riconosco dalla voce. Allora il
primo apprendimento nelle nostre relazioni per un vero ascolto è imparare ad ascoltare la voce.
L’inizio dell’accoglienza, dipende proprio dall’assumere la voce, prima ancora di ogni contenuto
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delle parole che la voce ci dice. Accogliere l’alterità della sua voce ci permette di cogliere la parte
più segreta del suo cuore; il non detto: non tutto ciò che l’altro ci dice è sufficiente per dirci chi è, ci
sono dei silenzi, un non detto che è un riconoscimento molto più largo di un riconoscimento
identitario.
4.2. Ascoltare ciò che l’altro ci dice.
Certamente non dobbiamo solo udire, dobbiamo ascoltare ciò che l’altro sente, vive, soffre,
piange, grida. L’ascolto va esercitato tenendo sempre viva l’attenzione, l’intelligenza, la sapienza-
esperienza. Già Gesù diceva che molti odono ma pochi ascoltano. Chi sa ascoltare ciò che l’altro dice
e come l’altro parla riesce ad ascoltare davvero un “di più” delle persone e delle cose che gli stanno
attorno; riesce a cogliere davvero l’ascolto pieno dell’altro. E’ così che l’ascolto diventa davvero
ospitalità, arte di accoglienza: pochi la sanno fare perché molti ascoltano, ma hanno fretta, ascoltano
ma poi in realtà non reggono alla comunicazione, fuggono ciò che a loro fa paura, non reggono
neanche sovente al peso, al dolore, che l’altro porta.
4.3. Ascoltare il silenzio.
Silenzio e parola, silenzio e ascolto, sono legati in modo indissolubile, immanente, l’uno
all’altro. Il silenzio è una grande arte. Non il silenzio anemico del mutismo interiore, che è
un’anticamera della morte anticipata, ma quel silenzio che si può ascoltare. Vi ho detto che in
principio era la parola, in principio era l’ascolto ma permettetemi di dire che in principio c’è anche il
silenzio, in Dio e nell’uomo. Il silenzio che permette lo scaturire della parola fa sì che il suono sia
parola, non sia rumore: il silenzio che permette l’ascolto. Sono dimensioni essenziali. Si apre qui un
altro itinerario, quello del silenzio, assolutamente necessario all’ascolto e al parlare.
A cura di: Frà Bernardino Coppola
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Un m e t o d o p e r u n a f i n a l i t à
L’ascoltare, insieme all’osservare e al discernere, costituisce il metodo che la Caritas si è dato,
per essere in grado di:
• entrare in relazione,
• conoscere persone, realtà e situazioni,
• progettare,
• promuovere,
• realizzare interventi pastoralmente appropriati,
in vista di una finalità: animare
• le persone in difficoltà, rispondendo ai loro bisogni e riabilitandole,
• la comunità, informandola, coinvolgendola nelle risposte da dare,
• il territorio, entrando in relazione con i vari soggetti che lo abitano.
Un metodo pastorale secondo lo stile di Dio
Fin dall’Antico Testamento, lo stile di Dio rivelato a Mosè sul Sinai e attuato nel rapporto
con gli uomini, è un metodo di ascolto, osservazione, discernimento, per un conseguente
intervento.
“Ho udito il grido del mio popolo (Es 3, 7)
“Ho osservato la sua miseria” (ES 3, 7)
“Sono sceso per liberarlo… (Es 3, 8)
UN METODO SECONDO L’ICONA DEL BUON SAMARITANO
La parabola del buon samaritano (Lc 10, 30ss), ci presenta il metodo pastorale in quattro fasi
che la Caritas ha fatto proprio.
Il metodo Caritas, attraverso l’ascolto,
l’osservazione ed il discernimento
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• Il fatto
• La constatazione del fatto
• Il prendersi cura
• Il coinvolgimento della comunità
La conclusione di Gesù: “Va e anche tu fa’ lo stesso”.
■ Il fatto… “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti…”
E’ ciò che capita, ciò che accade; l’emergenza che irrompe nel quotidiano che mi interpella:
un senza dimora, un tossico dipendente, una donna messa sul marciapiede, una famiglia con dissesto
economico, un anziano abbandonato, uno straniero in cerca di lavoro e di alloggio dei minori
abbandonati, un alluvione, una guerra …………
■ La constatazione del fatto. “Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo
vide e ne ebbe compassione”. E’ la capacità di accorgersi del fatto dentro la quotidianità e farsi
interpellare da esso. Significa cogliere che:
* mi riguarda,
* cerco di capire,
* ci stabilisco una relazione,
* entro in sintonia (com –passione),
* sento che mi appartiene.
Le abilità dell’operatore/animatore:
O Fare il primo passo per entrare in relazione con la persona, dopo esserci accorti di chi ci sta
accanto.
O Uscire dalle nostre vedute, dai nostri schemi, dai nostri bisogni, dalle nostre sicurezze….
O Avere disponibilità a fare spazio all’altro e alla realtà che ci sta attorno, cogliendo ciò che sta oltre.
O Fermarsi, lasciarsi “ferire” dalle vicende che accadono, dalla vita che ci viene raccontata.
O Assumere uno stile, un atteggiamento, per farsi carico di presenze, silenzi, privazioni, aspirazioni,
drammi, presenti sul territorio.
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■ Il prendersi cura. “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino; poi,
caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”. Si tratta di saper
• togliere le distanze, superare le barriere,
• rompere l’isolamento,
• sollevare e lenire,
• scomodarsi,
• sentirsi interpellato in prima persona.
Le abilità dell’operatore/animatore:
Apertura all’altro, disponibilità a sintonizzare, ad ascoltare, a capire e a mettersi in
discussione.
Rispetto e discrezione della sfera privata, del vissuto spesso frantumato di chi si incontra.
Libertà dal giudizio e dal pregiudizio, capacità di empatia, di cogliere la sostanza e ciò che
c’è di positivo e di sofferto nella persona e nel suo vissuto.
Onestà di atteggiamento, consapevoli di non avere risposte e soluzioni per ogni persona e
ogni situazione, ma offrendo sempre comprensione e capacità di compartecipazione.
■ Il Coinvolgimento della comunità. “Il giorno seguente estrasse due denari e li diede
all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno”.
Si tratta di:
pagare di persona,
coinvolgere la comunità,
sentirsi sempre partecipe,
favorire l’interazione e l’inclusione.
Necessità di attrezzarsi, per educare alla carità,
in risposta alle esigenze di una società complessa e in continuo cambiamento,
tenendo conto delle indicazioni del Concilio Vaticano II. 160
160 “METODOLOGIA TEOLOGICO PASTORALE” – seminario di formazione regionale – Don Salvatore Ferdinandi -8/03/2003.
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CARITAS ITALIANA
I Vescovi italiani, su indicazione di Paolo VI, hanno istituito la Caritas. La Caritas è un
organismo pastorale che, utilizzando un metodo di lavoro e degli strumenti pastorali, ha l’obiettivo di
educare a ripensare stili di vita personali e familiari, a mettere a disposizione le proprie risorse
(tempo, competenze, professionalità…), per essere segno di quell’amore solidale, che ci rende tutti
responsabili di tutti. 161
/162
Le specificità della Caritas fissate nello Statuto:
IDENTITA’ cfr. Statuto Caritas Italiana Art. 1
1. ORGANISMO PASTORALE che opera:
per promuovere la testimonianza della carità nella comunità cristiana, in forme consone ai
bisogni,
in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace,
con particolare attenzione agli ultimi,
con prevalente funzione pedagogica.
A tal proposito, “la funzione pedagogica e di conseguenza l'attenzione educativa, sono un
valido antidoto contro le tentazioni attivistiche e il cosiddetto «delirio d'onnipotenza».
La Caritas deve, in primo luogo, porre dei segni di prossimità là dove maggiore è il bisogno e
dove molti si disinteressano, in modo che lo stare dalla parte degli ultimi e degli emarginati sia
condivisione effettiva prima che denuncia, e che la comunità si metta in discussione di fronte ai mali
del territorio e del mondo.
Coloro che si mettono a servizio della comunità, dovranno quindi possedere o acquisire lo stile
e la mentalità degli animatori, diventare moltiplicatori di attenzione e impegni, coinvolgere sempre
più la comunità e ciascuno dei suoi membri nell'accoglienza, nel servizio, nello spirito della gratuità.
È la logica dell'educare facendo e facendo fare”. 163
161 “LO RICONOBBERO NELLO SPEZZARE IL PANE” - Carta pastorale Caritas italiana. 162 “Statuto di Caritas Italiana” – 17-20/09/1990 163 “DA QUESTO VI RICONOSCERANNO…:LE CARITAS PARROCCHIALI”, par. 30 – Caritas Italiana - Edizioni Dehoniane
Bologna, 06/05/1999.
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2. MANDATO cfr. Statuto Caritas Italiana Art. 3
tradurre (il senso di carità) in interventi concreti, con carattere promozionale in
collaborazione con i Vescovi,
realizzare studi e ricerche sui bisogni, per aiutare a scoprirne le cause,
curare il coordinamento delle iniziative e delle opere caritative di ispirazione cristiana,
promuovere il volontariato,
favorire la formazione degli operatori pastorali,
indire, organizzare e coordinare interventi di emergenza,
contribuire allo sviluppo umano e sociale dei Paesi in via di sviluppo,
stimolare l’azione delle istituzioni civili ed una adeguata legislazione.
3. DESTINATARI: i poveri, la comunità, il territorio/mondo 164
La Caritas cerca di tenere sempre presente che:
prima del bisogno, dell’emergenza, ci sono le persone in condizioni di bisogno ed hanno
necessità di essere ascoltate, incontrate, considerate ed aiutate;
c’è la comunità che va educata all’attenzione verso chi è in difficoltà, responsabilizzandola a
sentire che l’altro le appartiene, è parte di sé (Chiesa);
ci sono precisi contesti, dentro cui le persone vivono, che richiedono discernimento e uno
sguardo ampio, globale (territorio/mondo).
Pertanto, i valori della condivisione, dell’accompagnamento, della partecipazione, al servizio
di un’azione costante di animazione, aiutano la comunità a crescere nella consapevolezza di essere
soggetto di una carità testimoniata. Tutto ciò evangelizza, perchè manifesta in modo credibile la
storia, l’amore di Dio per ogni persona.
4. ASSUNZIONE DI UN METODO
Nel contesto sociale molto complesso ed in continuo cambiamento, il metodo pastorale
dell’ascoltare, osservare e discernere per animare, risulta efficace perché, utilizzando anche luoghi e
164“Il METODO CARITAS, ATTRAVERSO L’ASCOLTO, L’OSSERVAZIONE ED IL DISCERNIMENTO SECONDO LO STILE
DI DIO”- Don Salvatore Ferdinandi- Percorso Equipe 30 novembre 2 dicembre 2009/Roma.
55
strumenti specifici per l’ascolto (il CdA), l’osservazione (l’OPR) e il discernimento/animazione,
permette di partire dalla realtà e dare sistematicità, organicità e concretezza al lavoro di
sensibilizzazione e coinvolgimento delle comunità.
5. LAVORO IN EQUIPE
Per raggiungere i destinatari (poveri, chiesa, mondo), per promuovere ed utilizzare
opportunamente gli strumenti dell’ascolto, dell’osservazione e del discernimento per progettare e
realizzare percorsi formativi e azioni, si è colto il valore del lavoro in equipe che permette:
il coinvolgimento di soggetti appartenenti ad ambiti e con competenze diverse,
il raggiungimento ed il coinvolgimento della comunità e delle istituzioni,
la realizzazione di una pastorale progettuale e integrata, fornire risposte, indicazioni e
servizi con maggiore efficacia.
6. ATTENZIONE ALLA FORMAZIONE
In questi decenni, la Caritas ha tenuto sempre al primo posto la formazione, come mezzo per la
trasmissione del sapere, per formare al saper fare e al saper essere animatori pastorali, in modo che,
a partire da qualsiasi ambito di intervento, si possa animare al senso della carità la comunità e il
territorio.
7. LA PASTORALE DELLA CARITA’
L’insieme di attenzione ai tre destinatari: poveri, chiesa, mondo,
l’utilizzo del metodo di lavoro con gli appositi strumenti,
il promuovere azioni che coniugano emergenza e quotidianità,
l’individuazione di percorsi che portino ad una testimonianza della carità assunta
responsabilmente dalla comunità.
8. LA PROGETTAZIONE PASTORALE
La Caritas ha maturato la convinzione di evitare che l’intervento di aiuto risulti episodico e la
promozione e l’animazione siano estemporanee. La progettazione pastorale, permette di evitare
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improvvisazione e provvisorietà, rendendo organico, continuativo e fruttuoso quanto si realizza,
perché richiede di:
partire da una serie di elementi conoscitivi,
fissare gli obiettivi,
prevedere tempi, risorse e soggetti da coinvolgere,
metodi da utilizzare ed azioni da promuovere,
verifiche periodiche da compiere.
Strumenti e luoghi “privilegiati” del metodo Caritas
1) Il Centro di Ascolto, a livello diocesano, parrocchiale, interparrocchiale, a domicilio: le antenne
nel territorio. Oggi in Italia sono presenti 2.832 C.dA e s’incontrano complessivamente circa 903.000
persone all’anno.
2) L’osservatorio delle povertà e delle risorse: strumento per rilevare, dalle comunità locali, dati
necessari per la programmazione socio-pastorale:
promuovere servizi segno, in risposta ai bisogni individuati,
coinvolgere singoli e comunità nelle molteplici forme di prossimità. In Italia, sono
158 gli Osservatori diocesani attivi e dal 2004 al 2011, sono stati prodotti 47 Dossier/rapporti
regionali sulla povertà. I servizi socio-assistenziali che fanno capo alla Chiesa sono 14.246, dove per
il 60% operano volontari.
3) Il laboratorio per la promozione delle Caritas parrocchiali, educa la comunità alla testimonianza
della carità.
IN DIOCESI, l’equipe della Caritas diocesana, utilizza con progettualità, il metodo ascoltare,
osservare, discernere i relativi luoghi-strumenti (CdA, OPR, Lab. Prom. Caritas); promuove azioni per
animare alla testimonianza l’intera Chiesa locale; collabora con gli altri Uffici pastorali in vista di una
pastorale unitaria; cura la formazione degli operatori; è al servizio delle Parrocchie, attraverso il laboratorio,
perché sorgano o si rafforzino le Caritas parrocchiali, in modo che si crei una diffusa rete di solidarietà.
SUL TERRITORIO, l’equipe della Caritas diocesana,
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• rileva situazioni di povertà e risorse, per promuove risposte a bisogni disattesi;
• dialoga con gli Uffici delle pubbliche istituzioni;
• è presente nei tavoli dove si progettano le politiche sociali e si redigono i piani sociali di zona;
• promuove azioni per animare alla testimonianza l’intero territorio;
• cura un’azione di rete tra le associazioni caritative e di volontariato;
• svolge, al momento opportuno, un’azione di denuncia di situazioni di ingiustizia e abbandono.
IN PARROCCHIA, la Caritas parrocchiale, cuore che vede sul territorio,
• utilizza con progettualità il metodo ascoltare, osservare, discernere,
• promuove azioni e percorsi per animare e formare,
• attua la testimonianza della carità dentro la comunità stessa e sul territorio,
proponendo stili di vita improntati a sobrietà, l’accoglienza solidale, l’apertura alla diversità, la
relazione gratuita, puntando ad una comunità TUTTA, capace di annunciare, celebrare e testimoniare
il Vangelo con parole e segni credibili.165
/166
165 “LA CARITAS: STORIA, IDENTITÀ, MANDATO, METODO, STRUMENTI DI ANIMAZIONE” - Percorso di formazione
base per parroci e volontari parrocchiali - Nocera-Sarno 27/09/2012.
166 “IL METODO PASTORALE CARITAS PER L’ANIMAZIONE” – IIa tappa Percorso di Equipe Caritas Diocesana – Roma,
28-30/01/2008.
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