UNIVERSITÀ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea magistrale in giurisprudenza
TESI DI LAUREA
La posizione dello psichiatra nel quadro della responsabilità penale del medico
RELATORE Chiar.mo Prof. Tullio Padovani CANDIDATO Silvia Clinca
A.A. 2013/ 2014
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Sommario 1. Introduzione .................................................................................. 5 2. La responsabilità professionale dello psichiatra: l’imprescindibilità di un’analisi autonoma ..................................... 13
2.1. Le peculiarità nosografiche della psichiatria e la sua fisiologica indeterminatezza ......................................................... 13
2.1.1. Il settore della psichiatria tra incertezze diagnostiche e definitorie .................................................................................... 13 2.1.2. I profili differenziali rispetto all’ambito generale della medicina ...................................................................................... 16 2.1.3. L’associazione tra pericolosità sociale e malattia mentale: un binomio ancora latente ........................................................... 18
2.2. Fonti normative in prospettiva diacronica: l’assetto disciplinare precedente alla riforma ............................................ 22
2.2.1. Il primo intervento organico in materia psichiatrica: la l. 14 febbraio 1904, n. 36 (“Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”) ...................................................................................... 22 2.2.2. Il manicomio come “istituzione totale”. I meccanismi di funzionamento del modello “custodialistico”. ............................ 24 2.2.3. Verso la riforma: la Legge Mariotti (l. 18 marzo 1968, n. 431) e l’introduzione del ricovero volontario .............................. 31
2.3. La riforma della legge Basaglia (l. 13 maggio 1978, n. 180) e il graduale superamento dell’istituzione manicomiale ............ 34
2.3.1. Luci ed ombre della riforma ............................................ 34 2.3.2. Il vuoto legislativo creato dalla riforma e i dubbi consegnati all’interprete .............................................................. 40
2.4. Le linee evolutive della giurisprudenza in materia di responsabilità penale dello psichiatra .......................................... 43
2.4.1. Il progressivo incremento delle pronunce e il differente approccio negli ultimi orientamenti giurisprudenziali ................ 43 2.4.2. La fase della “metabolizzazione” della riforma Basaglia da parte delle Corti: il frequente ricorso alle fattispecie dolose .. 48 2.4.3. La responsabilità colposa del terapeuta e la clausola generale dell’art. 40, comma 2, c.p. (cenni e rinvio) ................... 52
3. La posizione dello psichiatra tra istanze di tutela sociale ed esigenze terapeutiche ......................................................................... 54
3.1. Gli obblighi giuridici gravanti sul medico psichiatra. ...... 54 3.1.1. Responsabilità omissiva e posizione di garanzia ............ 54 3.1.2. La qualificazione della posizione del terapeuta: una possibile soluzione alla luce dell’assetto complessivo dell’ordinamento .......................................................................... 58 3.1.3. Atti auto ed eteroaggressivi del paziente e contenuto degli obblighi del medico ..................................................................... 66
3.2. La prevedibilità dei comportamenti lesivi del malato psichiatrico e l’impervia individuazione delle regole cautelari . 70
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3.2.1. L’elemento della prevedibilità nella sistematica del reato colposo. Peculiarità del campo d’indagine .................................. 70 3.2.2. Tra possibilità di prevedere l’evento e “arte divinatoria”: la necessaria ricerca di un punto di equilibrio ............................. 75 3.2.3. La prevedibilità degli atti auto ed eteroaggressivi del paziente nella casistica giurisprudenziale .................................... 80 3.2.4. I potenziali fattori distorsivi nella fase dell’accertamento giudiziale della colpa professionale ............................................. 86 3.2.5. L’individuazione delle regole cautelari: profili critici e prospettive di “normativizzazione” ............................................. 90
3.3. Le difficoltà probatorie nell’accertamento del nesso di causalità .......................................................................................... 97
3.3.1. Inquadramento sistematico del problema tra causalità attiva ed omissiva. Il fondamento ideologico della responsabilità omissiva e i rischi di una sua indebita espansione ...................... 97 3.3.2. I rilievi della dottrina: la creazione giurisprudenziale di un modello d’imputazione fondato sull’omessa minimizzazione del rischio 104 3.3.3. Il problema della concausalità nella produzione dell’evento lesivo ....................................................................... 108 3.3.4. La responsabilità del terapeuta per gli atti eteroaggressivi del paziente: tra concorso colposo nel reato doloso e qualificazione in chiave monosoggettiva .................................. 110
4. La libertà di autodeterminazione del paziente psichiatrico nel trattamento sanitario obbligatorio e volontario ........................... 122
4.1. Il trattamento sanitario obbligatorio nell’attuale assetto legislativo ...................................................................................... 122
4.1.1. La connotazione teleologica del ricovero coattivo dopo la Legge Basaglia .......................................................................... 122 4.1.2. Forme di cooperazione tra operatori sanitari ed organi di pubblica sicurezza: l’interdipendenza funzionale nei casi critici 126 4.1.3. I profili di responsabilità penale del medico nell’ambito del TSO ...................................................................................... 128
4.2. Il consenso del malto psichiatrico ..................................... 136 4.2.1. Il consenso informato come principio generale dell’ambito medico 136 4.2.2. Consenso informato e malattia mentale ........................ 141 4.2.3. Rilievi critici sulla disciplina del consenso del paziente psichiatrico ................................................................................ 145
5. Conclusioni ................................................................................ 149 Bibliografia ....................................................................................... 154
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"La guarigione assoluta, in psichiatria, è solo un gesto totalitario. L'altra faccia, se vuole, del modo in cui la scienza dell'anima si è
lungamente accanita sul corpo del malato. Senza pudore né dignità. Personalmente sono convinto che la guarigione avvenga anche
quando i sintomi della malattia continuano a manifestarsi. Si può guarire continuando ad avere accanto quest'ombra ".
Eugenio Borgna: “L'anima non guarisce mai del tutto, le resta sempre accanto un'ombra”, intervista ad E. Borgna di A. Gnoli pubblicata su La Repubblica, 26 maggio 2014
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1. INTRODUZIONE
Una nota d’inquietudine permea sommessamente l’intera
produzione letteraria in materia psichiatrica. Si avverte negli scritti di
giuristi e psichiatri il sentore della difficoltà – se non proprio
dell’impossibilità – di cogliere fino in fondo la drammaticità e la
portata dei problemi coinvolti.
Gli intrecci tra psichiatria e diritto penale costituiscono una delle
pagine più tormentate e complesse sia della storia delle discipline
mediche che di quelle giuridiche. L’elemento che rende così delicata la
trattazione della materia è la sua connessione – in ultima istanza – con
la libertà del malato psichiatrico. Illuminanti per comprendere
l’inestricabilità del legame tra psichiatria e libertà sono le parole di un
medico psichiatra1 : “Quello della libertà è un tema fondamentale sul
quale gravita tutta la psichiatria. La psico-patologia infatti, avendo
come oggetto i disturbi dei rapporti relazionali, cioè tra persone libere,
può ben definirsi una patologia della libertà. Per cui la definizione
stessa della “malattia mentale” nell’uomo implica la problematica della
sua libertà”.
Già la constatazione di questa prima fondamentale peculiarità
della psichiatria suggerisce l’imprescindibilità di un’analisi autonoma
della posizione dello psichiatra nel quadro della responsabilità penale
del medico, oggetto del percorso di analisi che s’intende sviluppare.
Al fine di evidenziare i notevoli profili differenziali sussistenti
rispetto all’ambito generale della medicina, s’illustreranno in primo
luogo le peculiarità nosografiche e la fisiologica indeterminatezza del
settore della psichiatria, che “assurge a simbolo della complessità e
delle incertezze epistemologiche che contraddistinguono i grandi temi
1 REALDON A., Responsabilità e libertà in psichiatria, in Riv. it. med. leg., 10, 1988, pp. 159 ss.
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della modernità”2. I dubbi, l’aleatorietà e la costante esposizione alla
smentita, che caratterizzano il campo della medicina, sono ancor più
accentuati ed estremizzati in quest’ambito, tanto da costituirne la cifra
caratteristica e da consegnare al medico in primo luogo e al giurista in
secondo luogo – laddove si verifichino le problematiche intersezioni
tra i due ambiti di cui ci si occuperà in questo lavoro – l’arduo compito
di orientarsi in un coacervo di complesse questioni 3 . Esse sono
essenzialmente costituite dalla difficile prevedibilità della condotta del
paziente, dalle incertezze diagnostiche e definitorie del settore e dalla
permeabilità della condotta medica da parte delle pressanti istanze di
sicurezza sociale, che sovente rischiano di riversare sull’operatore
sanitario compiti estranei alla sua sfera di azione.
Il discrimen fondamentale che intercorre tra il genus responsabilità
del medico e la species responsabilità dello psichiatra si sostanzia
nell’inquietante circostanza che la responsabilità di quest’ultimo sia
legata a doppio filo con il comportamento di un altro soggetto4: il
paziente psichiatrico, che si determina al compimento di atti auto ed
eteroaggressivi in seguito (come conseguenza o nonostante, in base
alla complessa valutazione che potrà essere fatta della strategia
terapeutica) al trattamento praticato.
Per comprendere la genesi dei problemi esegetici con cui deve
destreggiarsi l’interprete nell’assetto legislativo attuale, si ripercorrerà
in prospettiva diacronica l’evoluzione del dato normativo nella materia
de qua, focalizzando l’attenzione sui presupposti che hanno reso
possibile – rectius inevitabile – un adeguamento della legislazione alla
differente sensibilità che si è progressivamente imposta a livello
2 ROIATI A., Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale, Milano, 2012, pp. 181-182. 3 Sulle difficoltà probatorie nell'accertamento della responsabilità dello psichiatra: VINEIS P., Nel crepuscolo delle probabilità, Torino 1999, pp. 9 ss.; PICCIONE R., Manuale italiano di psichiatria, Roma, 1995, p. 371 ss. 4 PULITANÒ D., Introduzione in La posizione di garanzia degli operatori psichiatrici. Giurisprudenza e clinica a confronto, DODARO G. (a cura di), Milano, 2011, p. 20.
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sociale e nel contesto scientifico in relazione alla malattia mentale.
L’improcrastinabilità di una svolta si è resa palese alla luce
dell’emancipazione della figura del malato psichiatrico
dall’inscindibile binomio con il concetto di pericolosità sociale, che da
tempo immemore lo stigmatizzava nell’immaginario collettivo (e che
ha lasciato ancora degli strascichi nella percezione odierna del
fenomeno).
La prima legge organica in materia di malattia mentale (la l. 14
febbraio 1904, n. 36 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”)
eleggeva la struttura manicomiale a luogo simbolo dell’approccio
legislativo (e non solo) nei confronti della materia: nonostante il
finalismo di facciata (di carattere terapeutico), il manicomio non
rappresentava altro che il luogo ultimo, dove relegare i malati
psichiatrici, in modo da mondare la società dall’irrequieta presenza del
“folle”, fornendo una pronta risposta alla sete di sicurezza sociale.
L’analisi dell’evoluzione legislativa approderà inevitabilmente
alla “rivoluzione copernicana” in materia, rappresentata dalla c.d.
“legge Basaglia” (l. 13 maggio 1978, n. 180) e dalla legge istitutiva del
Servizio Sanitario Nazionale (l. 23 dicembre 1978, n. 833). Questa
tappa costituisce uno snodo fondamentale nel superamento del regime
manicomiale e nell’affermazione del modello “volontaristico”, che
confina il ricorso alla coazione al ruolo di extrema ratio. Si recide in
questo modo l’automatismo che collegava all’esito positivo di un
“giudizio diagnostico-prognostico di pericolosità a sé o agli altri”5 il
ricovero coattivo negli ospedali psichiatrici.
Nella parte conclusiva del primo capitolo s’illustreranno le linee
evolutive della giurisprudenza in rapporto alla ricezione dei nuovi
indirizzi legislativi, per interrogarsi in merito all’andamento temporale
dei processi (in termini di concentrazione) e ai loro esiti e per
5 CANEPA G., Note introduttive allo studio della responsabilità professionale dello psichiatra in ambito ospedaliero, in Riv. it. med. leg., 1983, p. 23.
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verificare quale sia stato l’impatto dei valori e dei principi introdotti
dalla riforma psichiatrica sulla giurisprudenza penale in materia.
La sommarietà e l’incompletezza che hanno caratterizzato la
riforma legislativa del ’78 6 , che nella “foga abrogazionista” ha
disciplinato in modo insoddisfacente profili importanti della materia7,
ha contribuito a rendere ancora più incerti i confini degli obblighi
gravanti sulla categoria medica e ha determinato la proliferazione di
eterogenei e contraddittori orientamenti giurisprudenziali. I casi più
interessanti trattati dalle Corti saranno analizzati nell’ambito della
disamina delle singole questioni, in parallelo con le posizioni espresse
dalla dottrina.
Uno dei nodi gordiani della materia de qua è quello della
definizione del contenuto e dell’estensione della posizione di garanzia
del medico psichiatra, che sarà oggetto di riflessione del secondo
capitolo.
Il ripudio dell’equazione tra follia e pericolosità operato dalla
Legge Basaglia ovviamente non ha fatto venire meno la possibilità che
in concreto il paziente possa rappresentare un pericolo in una duplice
direzione: per se stesso e per soggetti terzi. Si è giustamente osservato
che «anche se le nuove norme evitano di aggettivare come “pericolosi”
taluni malati di mente, resta la realtà dei fatti secondo cui taluni malati
di mente continuano ad essere “pericolosi” pure dopo l’emanazione
delle nuove norme» 8 . Questa circostanza induce l’interprete ad
interrogarsi sulla sussistenza di residui compiti di custodia e/o
sorveglianza in capo al terapeuta e se all’assodata “posizione di
protezione” si cumuli anche una “posizione di controllo”. La risposta
6 FORNARI U., Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali, in Riv. it. med. leg., 1984, p. 333. 7 Su questo punto vd. FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, nota a Cass. Pen., IV, 5 maggio (1 luglio) 1987, Bondioli, in Foro it., 1988, 2, c. 107 ss. 8 INTRONA F., Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente, in Riv. it. med. leg., 1980, p. 13.
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che si voglia dare a tale quesito ha notevoli ripercussioni pratiche e si
traduce nell’ascrizione o meno della responsabilità penale in capo al
medico nel caso in cui dalle risultanze processuali emerga la
violazione dei supposti obblighi di controllo, nonostante la mancata
violazione degli obblighi di carattere strettamente terapeutico
(ammesso ovviamente che si ritenga possibile scindere i due profili).
Al fine di evitare un’indiscriminata dilatazione della posizione di
garanzia sarà opportuno considerare – come osservato da recente
dottrina – che la sussistenza di meri poteri impeditivi fattuali non può
assumere rilievo ai fini dell’omesso impedimento dell’evento in
assenza del relativo obbligo giuridico di attivarsi e del corrispondente
potere normativo di agire9.
Si ricercherà una soluzione interpretativa che consenta di mediare
tra la “riesumazione” del custodialismo del precedente approccio
normativo e un’aprioristica affermazione d’impunità della categoria
medica sul banale rilievo degli ineludibili margini di incertezza della
materia trattata e si cercherà una risposta alla sempre attuale domanda
– formulata anni or sono da uno dei più autorevoli medici legali:
“Perché lo psichiatra ha la sensazione, giusta o sbagliata che sia, di
trovarsi in una strettoia, in una sorta di collo di bottiglia?”10.
Si affronteranno poi – sempre nel secondo capitolo – i problemi
concernenti l’accertamento della colpa. In primo luogo ci
s’interrogherà riguardo ai margini di prevedibilità del verificarsi
dell’evento auto o eteroaggressivo. Difatti se già negli altri campi della
medicina il giudizio sulla prevedibilità dell’evento è sempre
periclitante, nonostante l’ancoraggio a parametri che – in linea di
9 CUPELLI C., Non tutto ciò che si può si deve anche fare. I rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari: il caso dello psichiatra, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1, 2014, p. 239. 10 PORTIGLIATTI BARBOS M., La responsabilità professionale dell'operatore di salute mentale: profili medico-legali, in Tutela della salute mentale e responsabilità penale degli operatori, MANACORDA A. (a cura di), Perugia, 1988, p. 60.
10
massima – prescindono dal comportamento del paziente, in psichiatria
l’elemento della prevedibilità si atteggia in termini ancora più incerti.
Fondamentale sarà il confronto con le opinioni espresse dalla
letteratura medica in materia. Se il dibattito sul punto fosse confinato
al solo ambito giuridico si rischierebbe infatti di pervenire a soluzioni
prive di alcun conforto dall’ambito della medicina, scivolando in
un’autoreferenzialità settoriale che – se passibile di critica pressappoco
in qualsiasi studio giuridico – lo è a maggior ragione in settori come
quello della responsabilità medica, al crocevia tra diritto e medicina.
Si analizzerà in seguito la questione dell’identificazione delle
regole cautelari in materia, particolarmente complessa alla luce della
difficoltà nello stabilire adeguati modelli di standardizzazione del
rischio consentito, imputabile – oltre che alla controvertibilità della
scienza psichiatrica11 – alla “problematica individuazione del punto di
equilibrio tra gli interessi tendenzialmente inconciliabili coinvolti
nell’attività del medico psichiatra: la tutela e il ripristino della salute
del paziente da un lato, e la sicurezza della collettività dall’altro.”12 Ci
s’interrogherà su quale ruolo possano rivestire in una materia così
delicata le linee guida ed eventuali vincoli normativi, considerandone
le criticità e i potenziali “effetti collaterali”.
Nell’ultima parte del terzo capitolo s’intende poi affrontare il
delicatissimo problema del nesso di causa, che costituisce il punctum
11 Si è osservato efficacemente in dottrina che “le incertezze e i precari equilibri della valutazione penalistica della responsabilità penale dello psichiatra” costituiscono “il riflesso della ‘controvertibilità’ delle scelte tecniche in ambito psichiatrico” e che “la natura composita e multidisciplinare del substrato ideologico-culturale della psichiatria, l’assenza di precisi criteri nosografici di valutazione, il difetto di canoni fissi e di scelte codificate, finiscono per creare un evidente deficit di determinatezza scientifica (con conseguenti aspettative meno solide nei confronti dello psichiatra)”: GARGANI A., La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi “esemplari” di responsabilità ex art. 40 comma 2 c.p., in Dir. pen. proc., 11, 2004, p. 1402. 12 CINGARI F., Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 442.
11
dolens intorno al quale ruotano la maggior parte delle difficoltà
nell’accertamento della responsabilità professionale del medico.
Difficoltà amplificate notevolmente nel settore psichiatrico in cui,
nella successione causale che conduce all’evento, s’incunea la
condotta – spesso irrazionale e imprevedibile – del paziente, rendendo
estremamente complessa la verifica dell’efficienza causale dell’azione
o dell’omissione medica. S’indagheranno i diversi problemi
ricostruttivi a seconda che l’addebito di responsabilità dipenda da
un’omissione (ipotesi statisticamente più frequente) o da un’azione
(ipotesi in cui – in base all’opzione teorica tradizionale della dottrina
penalistica – si prescinde dal presupposto della posizione di garanzia) e
ci si interrogherà se e in che termini sia stato recepito dalla
giurisprudenza in materia l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite
nella nota sentenza Franzese13, soprattutto alla luce delle aspre critiche
mosse dalla dottrina. Sarà infine oggetto di analisi il tema della
configurabilità del concorso colposo dello psichiatra nel reato doloso
del paziente (sempre più frequentemente affermata dalla
giurisprudenza) e quello dell’alternativa qualificazione in chiave
monosoggettiva della responsabilità del terapeuta, per verificare i
possibili margini di responsabilità penale di quest’ultimo per le
condotte eteroaggressive del paziente.
Il capitolo finale del lavoro si soffermerà sulla questione
dell’autodeterminazione del paziente psichiatrico: in particolare si
13 Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002. Franzese, in Dir. pen. proc., 2003, pp. 58 ss., con nota DI MARTINO A., Il nesso causale attivato da condotte omissive, tra probabilità, certezza e accertamento; in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, pp. 791 ss., con commento di STELLA F., Etica e razionalità nel processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione; in Foro it.. 2002, II., cc. 608 ss., con nota di DI GIOVINE O., La causalità omissiva in campo medico-chirurgico al vaglio delle Sezioni Unite; in Riv. it. med. leg., 2002, pp. 1614 ss., con nota di FIORI A.-LA MONACA G.- ALBERTACCI G., Le sezioni Unite Penali della Cassazione riaffermano l'esigenza di elevata probabilità logica del nesso causale nelle condotte mediche omissive.
12
analizzeranno i punti più “spinosi” in tema di trattamento sanitario
obbligatorio e volontario.
In ambito medico-legale, per salvaguardare la persistenza di
compiti di custodia nell’obbligazione di cura, si è teorizzata
l’equivalenza tra le alterazioni psichiche che richiedono un urgente
intervento terapeutico e quelle che originano un pericolo per sé o per
gli altri14, con il conseguenziale obbligo per lo psichiatra di ricorrere al
TSO – o di prolungarne la durata – per neutralizzare la pericolosità
sociale del paziente. La tenuta di una simile impostazione teorica sarà
vagliata alla luce delle conclusioni che saranno tratte in merito al
contenuto degli obblighi gravanti sul terapeuta nel secondo capitolo, e
s’illustreranno le ipotesi in cui possa essere legittimamente invocata
una responsabilità di carattere penale in capo al terapeuta per aver
omesso o rifiutato un trattamento sanitario obbligatorio. Si
considereranno infine i punti più critici della disciplina in materia di
TSO, per proporre de iure condendo possibili soluzioni alternative.
La seconda parte dell’ultimo capitolo si focalizzerà invece sul
trattamento sanitario volontario. Nell’assetto legislativo attuale il
consenso informato costituisce un limite insuperabile dei poteri
d’intervento – e dei conseguenti obblighi – del medico. In psichiatria
tuttavia – nel caso in cui la patologia incida sulla capacità intellettiva
nel paziente – si pongono dei problemi peculiari. Si analizzerà quindi
come il consenso informato si declini in questo settore e quali
differenze intercorrano rispetto alla disciplina generale del consenso in
ambito medico.
14 FIORI A., La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra, in Riv. it. med. leg., 3, 1982, pp. 542 ss; INTRONA F., Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente, cit., p. 13; PALERMO, E., Brevi note sulla natura giuridica del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio per persona affetta da malattia mentale, in Riv. it. med. leg., 3, 1981, pp. 341 ss.
13
2. LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DELLO
PSICHIATRA: L’IMPRESCINDIBILITÀ DI
UN’ANALISI AUTONOMA
2.1. LE PECULIARITÀ NOSOGRAFICHE DELLA PSICHIATRIA E LA SUA
FISIOLOGICA INDETERMINATEZZA
2.1.1. Il settore della psichiatria tra incertezze diagnostiche e
definitorie
Ai fini dell’individuazione dell’ambito operativo della psichiatria
sembra imprescindibile una premessa di carattere definitorio:
nonostante le incertezze veicolate dalla nozione di “malattia mentale”,
sembra opportuno circoscriverne il confine e fornirne una definizione.
Sulla scorta dell’insegnamento di un illustre esponente della medicina-
legale15, per malattia mentale deve intendersi: “qualsiasi alterazione
psichica acuta, subacuta, cronica ed anche “abituale” (nel senso
medico-legale di questo aggettivo), la quale da sola, od in concorso
con altra patologia non psichica, antecedente, contemporanea e
sopravvenuta, locale e generale, richieda assistenza medica,
temporanea o protratta, volontaria od obbligatoria.”
Seppure a prima vista tale definizione possa sembrare limpida e
priva di asperità applicative, le incertezze della psichiatria riguardano
in primo luogo la stessa estensione dell’ambito del patologico. Si è
assistito negli ultimi anni al fenomeno dell’impropria ed inarrestabile
dilatazione del numero di malattie psichiatriche, tanto da far paventare
15 FIORI A., La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra, cit., p. 540.
14
una sorta di “patologizzazione del normale”16 con una conseguente
estensione indiscriminata dell’ambito della psichiatria, nel quale sono
state fatte confluire – rendendone ancora più labili i confini –
situazioni comportamentali che in precedenza ricadevano nello spettro
della “normalità”. È plastica dimostrazione di questo fenomeno
l’estensione del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” 17, che costituisce uno dei più noti sistemi nosografici per i disturbi
mentali o psicopatologici. Il Manuale dell’American Psichiatric
Association (giunto il 20 maggio 2013 alla sua V edizione) si è
ampliato progressivamente nel corso degli anni, e oggi classifica come
disturbi psichiatrici più di quattrocento malattie.
L’ambito della psichiatria si differenzia da quello generale della
medicina per via delle maggiori incertezze che caratterizzano il suo
statuto-medico scientifico. Queste dipendono essenzialmente dalla
natura circolare e multifattoriale del modello di spiegazione degli stati
patologici e delle loro evoluzioni (data l’interazione tra le componenti
biologiche e organico-costituzionali con quelle situazionali e socio-
ambientali)18.
Occorre, infatti, prendere atto delle eterogenee correnti di pensiero
esistenti nel settore in questione: non esiste una sola psichiatria e “ogni
psichiatria” è dotata di una sua peculiare articolazione conoscitiva e
strategia terapeutica e conseguenzialmente di un proprio assunto
ideologico19.
16 CUPELLI C., Non tutto ciò che si può si deve anche fare. I rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari: il caso dello psichiatra, cit., p. 231. 17 Noto anche con la sigla DSM, dal titolo dell'edizione statunitense Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. 18 MASPERO M., Mancata previsione di evento suicidario e responsabilità dello psichiatra: creazione di un "Fuzzy set” o rivelazione di un ossimoro?, in Riv. it. med. leg., 2002, p. 923 ss. 19 GIROLAMI P., Il “contratto di cura”: considerazioni generali, in La responsabilità professionale dello psichiatra, JOURDAN S.- FORNARI U. (a cura di), Torino, 2006, p. 3; BORGNA E., Come se finisse il mondo, Milano, 1995.
15
Lo statuto epistemologico della psichiatria sembra connotarsi,
molto più rispetto ad altri settori della medicina, per la sua vocazione
all’anomia e per la sua refrattarietà a schemi di intervento precostituiti.
In giurisprudenza si evidenzia giustamente la doverosità di procedere
ad un’analisi autonoma della responsabilità dello psichiatra sia in virtù
della peculiare evoluzione legislativa che si riscontra in materia, sia
per via del minor grado di certezza raggiunto nelle conoscenze di
questo settore rispetto agli altri della medicina20. Fa eco a questa
consapevolezza la maggiore “indulgenza” che talora si riscontra in
giurisprudenza nei confronti del medico psichiatra rispetto agli altri
specialisti del settore medico, imputabile ad “una migliore
comprensione da parte dei Giudici per l’attività dello psichiatra, vista
meno come un fatto tecnico e più come un complesso rapporto
umano”21.
Si è correttamente rilevato in dottrina come, pur essendo
necessariamente ed ineludibilmente presenti problematiche peculiari in
ogni disciplina medica, quelle che caratterizzano la psichiatria sono
“esasperate dal vissuto antico e recente, anche e soprattutto normativo,
di questa disciplina sia dall’estrema conflittualità nosografica e di
orientamenti terapeutici che in questo periodo storico la caratterizza;
sia infine dal coinvolgimento, in determinati casi, di persone e strutture
non mediche afferenti alla pubblica amministrazione.”22 Ancor più
20 Trib. Ravenna, sez. dist. di Faenza, 29 settembre 2003, in Foro it., 2004, 2, pp. 566 ss. 21 JOURDAN S., Introduzione, in Responsabilità del medico in psichiatria, JOURDAN S.-FORNARI U. (a cura di), Torino, 1997, p. X. 22 FIORI A., La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra, cit., p. 539. L’Autore abbozza un sintetico quadro di patologie connotate da problemi d’inquadramento sistematico: “Le psicosi nelle loro multiformi espressioni cliniche e nella varietà dei decorsi, i ritardi di sviluppo; la grande area delle psicopatie e delle anormalità psichiche dagli incerti confini; le psiconevrosi e le reazioni abnormi; le tossicodipendenze, sono realtà che rientrano nei confini della psichiatria e quindi della ‘malattia mentale’ in senso lato anche se questa dizione, con quanto di storicamente e socialmente condizionante reca in sé, crea problemi psicologici quando sia impiegata nell’ambito della psichiatria minore. Le
16
incerto è il confine della malattia psichica nell’ipotesi in cui essa
s’intrecci con una di carattere organico. Non di rado si registrano,
infatti, casi di malpractice medica consistenti in errori diagnostici che
riconducono a patologie psichiatriche disfunzioni organiche di altra
eziopatogenesi23.
L’esigenza di circoscrivere gli obblighi gravanti sul terapeuta alla
luce di uno statuto epistemologico dai confini così labili, è resa
stringente dal pericolo che gli elementi fondanti dell’illecito penale
possano essere – per così dire – “manipolati” e che si “scarichi” sul
medico il rischio della natura sostanzialmente congetturale del sapere
psichiatrico24.
2.1.2. I profili differenziali rispetto all’ambito generale della
medicina
L’elemento essenziale che differenzia la responsabilità dello
psichiatra da quella degli altri medici specialisti è la circostanza che tra
l’azione o l’omissione del terapeuta e l’evento lesivo vi è il diaframma
della condotta del paziente. Questo implica che ciò che viene
rimproverato allo psichiatra, in molti casi, non è un errore diagnostico,
bensì prognostico25: una delle argomentazioni più frequentemente
aree di confine – in genere costituite dai casi meno gravi sotto il profilo clinico – sono da sempre il problema dei problemi sia per il curante, sia per lo psichiatra forense (in sede penale e civile).” 23 Vd. Cass., 10 giugno 1998, n. 11024 in Riv. it. med. leg, 2000, pp. 869 ss., che ha condannato per omicidio colposo un medico psichiatra per non aver rilevato palesi ed univoche manifestazioni di una patologia tumorale e per averle ricondotte (fornendo una clamorosa dimostrazione di imperizia) ad una patologia psichiatrica. Secondo i giudici il medico avrebbe dovuto, con l’ordinaria diligenza e un minimo di perizia, desumere (anche dalla protratta ed inefficace terapia antidepressiva) l’origine organica e non psichica della patologia del paziente. 24 BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 2003, p. 144. 25 INTRONA F., Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente, cit., p. 15,
17
utilizzata per contestare l’addebito di responsabilità nei confronti del
terapeuta è proprio l’impossibilità di pretendere da questi una
“profezia” in merito a tutte le possibili (e difficilmente prevedibili)
manifestazioni di aggressività del paziente. D’altra parte tuttavia, come
si avrà modo di constatare, non si può ritenere che non vi siano
situazioni che presentino ragionevoli margini di prevedibilità
dell’evento lesivo.
Una singolarità della malattia psichiatrica che occorre evidenziare
consiste nel profondo legame, che sovente s’individua, con il contesto
di appartenenza del malato26, dal quale questi, a causa di carenze
strutturali ed organizzative, spesso non può essere tenuto lontano per
un tempo sufficiente ad arginarne gli scompensi. S’intravede dunque
come un’adeguata terapia psichiatrica presupporrebbe “un
accompagnamento” del paziente anche nella fase successiva, quella
della “guarigione”, una sorta di “presa in carico” globale del malato
psichiatrico al fine di evitare ricadute nella malattia o la
manifestazione di ulteriori fenomeni patologici. S’intuisce quindi
come, soprattutto nel settore pubblico, l’inefficienza degli interventi
terapeutici in materia psichiatrica non dipenda (in moltissimi casi)
dall’inidonea preparazione del personale medico ed infermieristico cui
sono affidati i malti, ma da un’insufficiente quantità o un’inadeguata
perequazione delle risorse finanziarie destinate alla spesa sanitaria alla
luce delle peculiari esigenze dell’ambito psichiatrico.
Non sembra trascurabile, tra i profili peculiari della psichiatria,
l’opposizione – spesso pertinace – da parte del malato ad intraprendere
o proseguire un percorso terapeutico. Pur essendo sicuramente
possibile che i pazienti rifiutino le cure in altri settori della medicina,
in essi l’atteggiamento di resistenza è in genere riconducibile ad osserva incisivamente: “Il profano deve sapere che qui si tratta non di un errore di diagnosi ma di un errore di prognosi e se la prognosi medica (genericamente intesa) è difficile, la prognosi psichiatrica è difficilissima.” 26 FORNARI U., Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali, cit., p. 352.
18
opzioni ideologiche (si pensi al Testimone di Geova che si opponga
alla trasfusione); alla scarsa fiducia nelle probabilità di successo di una
determinata opzione terapeutica o ancora alla volontà di desistere da
qualsiasi tentativo di cura in situazioni patologiche particolarmente
critiche (si pensi ai drammatici casi dei soggetti “intrappolati” nella
c.d. sindrome locked-in). Nel caso del malato psichiatrico invece, il
rifiuto della terapia può costituire una delle manifestazioni della
patologia che s’intende curare. Questo pone delicati problemi sia in
punto di accertamento della legittimità del consenso/dissenso del
paziente, sia di carattere pratico (come per esempio le difficoltà di
avvicinamento che possono riscontrarsi sia in ambito ospedaliero sia
domiciliare). Entrambi questi profili saranno oggetto di
approfondimento nel prosieguo del lavoro.
Infine nel settore della psichiatria si pone la necessità di ricorrere,
oltre che allo strumentario “classico” della medicina, a strategie
terapeutiche sconosciute in altri ambiti (si pensi per esempio
all’utilizzo dell’ipnosi in psicoterapia), che non sempre risultano di
facile codificazione.
2.1.3. L’associazione tra pericolosità sociale e malattia mentale:
un binomio ancora latente
Nonostante l’avvento di fondamentali progressi nell’ambito della
cura delle patologie psichiche, che hanno condotto all’utilizzo di
pratiche terapeutiche sicuramente connotate da un maggior grado di
umanità e di efficacia terapeutica rispetto a quelle diffuse in passato27,
sull’eziologia di molte malattie psichiatriche si addensano ancora 27 Si pensi alle pratiche di psicochirurgia diffuse nel passato (come la lobotomia), che sono state progressivamente abbandonate nella prassi (in favore della farmacologia e della psicoterapia) sia perché la loro efficacia è stata clamorosamente smentita dai fatti (stanti gli innumerevoli decessi e le encefalopatie ad esse imputabili) sia per la riprovevolezza sociale suscitata da pratiche così disumanizzanti.
19
innumerevoli dubbi e la terapia non ha potuto che focalizzarsi sul
profilo della sintomatologia, per tentare quanto meno l’attenuazione
della manifestazione esteriore della patologia.
L’eco del timore della virulenza di talune di queste estrinsecazioni
si rinviene nella stessa prassi medica, in cui si distingue tralaticiamente
tra piccola psichiatria, connotata da disturbi psichici che – seppur
indiscutibilmente fonte di sofferenza per coloro che ne sono affetti –
non si traducono di norma in comportamenti di “disturbo” nei
confronti della quiete pubblica, da una grande psichiatria, che si
differenzia non tanto in relazione all’entità del disturbo
psicopatologico, quanto piuttosto per la probabilità che esso conduca a
comportamenti lesivi di beni giuridicamente tutelati28. Una vistosa
traccia di questa concezione si rinveniva nel regolamento attuativo
della legge del 1904 (r.d. 16 agosto 1909, n. 615), il cui art. 6
prevedeva che “mentecatti cronici tranquilli”, “epilettici innocui”,
“cretini”, “idioti” e tutti gli individui colpiti da infermità mentale
inguaribile che non fossero di pericolo a sé o agli altri fossero
ricoverati in Istituti pubblici o privati, o in caso di carenza o
insufficienza di questi ultimi, in separati reparti manicomiali. In
dottrina si è rilevata l’inopportunità e l’incostituzionalità di una
distinzione di questo tipo, che trattava diversamente due situazioni
identiche sotto il profilo della restrizione della libertà personale (quelle
dell’alienato pericoloso e di quello non pericoloso, nell’ipotesi in cui il
consenso non fosse presente e non potesse essere validamente
prestato)29 . Si strutturava così un doppio binario normativo, che
28 MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, in Tutela della salute mentale e responsabilità penale degli operatori, cit., p. 8. L’Autore evidenzia come in molti Paesi (e anche nel nostro ordinamento prima della riforma) questa distinzione si riverberasse su un differente trattamento legislativo delle due categorie di patologie. 29 ROMANO M.-STELLA F., Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente: aspetti penalistici e costituzionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 391.
20
disciplinava differentemente la malattia mentale in base al suo modo di
atteggiarsi nei confronti della società (come latrice o meno di una
minaccia per l’ordine pubblico). Mentre un simile approccio è stato
superato a livello normativo, come s’illustrerà tra breve, non si può
ritenere invece che la percezione sociale odierna del fenomeno della
malattia psichiatrica non sia più permeata da preoccupazioni di matrice
prettamente securitaria.
In relazione a quest’ultima osservazione si rende necessaria una
specificazione sul rapporto tra la malattia psichiatrica e commissione
di reati (che può costituire una delle possibili manifestazioni di
eteroaggressività). Pur essendosi registrato, come testimonia il
maggior numero di pronunce giurisprudenziali in materia, un
incremento della quantità di malati che delinquono a partire dal 197830,
non sembra che l’incidenza della malattia sulla commissione di reati
sia statisticamente significativa tanto da poter costituire a priori un
fattore assorbente tra i molteplici che possono generare comportamenti
lesivi dei beni giuridici protetti31.
Ogni individuo presenta ineludibilmente una determinata quota di
aggressività e l’eziologia della stessa non trova tutt’ora un’univoca
opzione interpretativa nella letteratura scientifica. Forme di
aggressività si riscontrano tanto nei soggetti non affetti da patologie
mentali, tanto in quelli che lo siano e dall’analisi empirica non si 30 Dato imputabile essenzialmente al fatto che la chiusura dei manicomi abbia restituito la libertà a moltissimi malati psichiatrici senza tuttavia accompagnare la riacquistata libertà con opportuni interventi di assistenza sanitaria e di reintegrazione sociale. 31 Concordano su questa circostanza (come rilevato da FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 110) gli stessi sostenitori della perdurante validità della categoria della pericolosità (argomentata, come si è già detto, sulla base del rilievo che lo stesso presupposto del trattamento sanitario obbligatorio costituisca l’inveramento della pericolosità del malato, al cui contenimento dovrebbe concorrere l’azione del medico): INTRONA F., Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente, cit., p. 13; FIORI A., La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra, cit., p. 547.
21
registra una correlazione particolare tra aggressività e disturbo psichico
(anzi in alcuni casi la stessa malattia può essere alla base di un
atteggiamento di inerzia e di apatia, poco incline a sfociare nella
commissione di reati).
La persistente associazione tra pericolosità sociale e malattia
mentale, che, nonostante l’abbandono dei vetusti schemi d’intervento
precedenti alla riforma psichiatrica, continua ad albergare nella
percezione del fenomeno, è parzialmente imputabile alla grande
risonanza mediatica che hanno gli episodi di cronaca in cui il reo
presenti profili di scompenso psichico, forse connessa alla maggiore
sensazione di disagio, turbamento ed impotenza dinnanzi a fenomeni
di criminalità che affondano le proprie radici nei lati più oscuri ed
inesplorati della mente umana. Se è possibile abrogare una
disposizione legislativa che cristallizzi un pregiudizio diffuso, non è
altrettanto semplice eradicare il medesimo dalla mentalità sociale32.
32 Sulla percezione sociale della follia vd. BORGNA E., Di armonia risuona e di follia, Milano, 2012, p. 151 ss.
22
2.2. FONTI NORMATIVE IN PROSPETTIVA DIACRONICA: L’ASSETTO
DISCIPLINARE PRECEDENTE ALLA RIFORMA
2.2.1. Il primo intervento organico in materia psichiatrica: la l. 14
febbraio 1904, n. 36 (“Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”)
La delicatezza delle problematiche interessate dalla legislazione
psichiatrica, che chiama inevitabilmente in causa il quadro valoriale
dell’interprete, ha fatto in modo che molte delle polemiche in materia
abbiano preso una perniciosa deriva ideologizzante, e ha comportato la
polarizzazione del discorso su posizioni contrapposte imperniate
sull’esaltazione (spesso aprioristica) dell’una o dell’altra opzione,
trascurando talora la ricaduta delle stesse sulla salute del malato. Si
legge così, tra le righe dei sostenitori e dei detrattori della riforma del
’78, la dicotomia tra permissivissimo ed autoritarismo, che percorreva
trasversalmente i dibattiti dell’epoca, per infiltrarsi a mo’ di chiave di
lettura pressappoco in ogni questione sociale o politica e che trovava
una plastica rappresentazione proprio nella figura del malato
psichiatrico “poiché egli gioca sui temi della libertà, dell’autorità e del
potere gran parte della sua psicopatologia.”33
Prima di affrontare la questione dell’impatto sociale della riforma
psichiatrica si rende tuttavia necessaria una breve ricostruzione
dell’assetto legislativo precedente. Esso era prevalentemente incentrato
sulla presunzione assoluta di pericolosità sociale del malato e l’intera
33 REALDON A., Responsabilità e libertà in psichiatria, cit., p. 159. L’Autore scrive: “‘La libertà è terapeutica’: è uno slogan che faceva bella mostra di sé sui muri di alcuni manicomi, all’epoca eroica della lotta antiistituzionale. Si trattava di un messaggio libertario ante-litteram, che in epoca sessantottesca era un patrimonio culturale quasi esclusivo (almeno in Italia) delle istituzioni psichiatriche. Certo è che questo slogan rappresenta oggi solo un retaggio di messaggi antipsichiatrici che si stanno spegnendo nella notte dei tempi. Ma è pur vero anche che una certa cultura anti-autoritaristica ed anti-terapeutica ha preso copro con la riforma psichiatrica del ’78 ed ha continuato i suoi effetti anche dopo l’entrata in vigore della stessa legge del ’78 (180/833)”.
23
disciplina ruotava attorno al problema del contenimento del pericolo
da questi rappresentato per la società. Lo strumentario terapeutico
veniva quasi a coincidere con quello deputato alla custodia e al
controllo del paziente: l’obiettivo di cura, che dovrebbe essere la
chiave di volta di qualsiasi norma in materia, non aveva che un ruolo
marginale.
La l. 14 febbraio 1904, n. 36 “Disposizioni sui manicomi e sugli
alienati” costituisce la prima legge organica in materia di malattia
psichiatrica. Essa prevedeva la centralità assoluta della struttura
manicomiale, che, lungi dal perseguire una finalità effettivamente
terapeutica, rispondeva semplicemente all’esigenza di relegare il più
lontano possibile dalle “persone sane” la presenza “contaminante” del
malato di mente34.
Si trattava sostanzialmente di una legge sull’ordine pubblico, che
pretendeva di disciplinare (in soli dieci articoli) il fenomeno della
malattia psichiatrica. Anche il “Testo unico di pubblica sicurezza” (a
riprova dell’approccio all’epoca dominante nei confronti del problema)
non trascurava di farvi cenno, prevedendo l’obbligo per gli esercenti la
professione sanitaria di denunciare all’autorità di pubblica sicurezza
(entro due giorni) tutte le persone da loro assistite o esaminate affette
da malattia mentale o da grave infermità psichica che dimostrassero o
dessero il sospetto di essere pericolose a sé o agli altri35.
La prospettiva riduttiva della legge del 1904, seppur in parte
imputabile ai limiti della psichiatria dell’epoca (che si trovava ancora
ad uno stadio embrionale rispetto alla maturità che avrebbe raggiunto
nel corso del XX secolo), derivava essenzialmente dalla già
menzionata percezione sociale del malato come un elemento distonico
rispetto all’ordinato fluire della vita quotidiana e non come un soggetto
da curare e reintegrare. In quest’ottica il legislatore si contentava
34 Per indicazioni bibliografiche sui ricoveri manicomiali: RABAGLIETTI G., Manicomi (voce), in Noviss. dig. it., X, Torino, 1964, p. 177. 35 R.d. 18 giugno 1931, n. 773, art. 153.
24
sostanzialmente della mera soluzione repressiva e segregante offerta
dalla struttura manicomiale.
La realtà del manicomio preesisteva alla legge del 1904, ma era
rimasta fino a quel momento priva di qualsiasi regolamentazione.
L’unica nota positiva che s’intravede nella l. 14 febbraio 1904, n. 36 è
dunque quella di aver tentato di disciplinare – seppur in minima parte e
con sommarietà – una dimensione prima completamente anomica e di
arginare gli abusi che venivano perpetrati in quegli istituti, nonché la
libertà di introdurvici soggetti che non presentassero alcun disturbo
psichico.
2.2.2. Il manicomio come “istituzione totale”. I meccanismi di
funzionamento del modello “custodialistico”.
Il manicomio rappresenta per antonomasia l’ipostatizzazione
dell’istituzione totale. Si può, infatti, constatare come una delle opere
più significative in cui è stata teorizzata la nozione di “istituzione
totale”, Asylums di E. Goffman36, sia stata elaborata sulla base delle
riflessioni maturate dall’Autore durante l’anno di lavoro (1955-1956)
presso l’istituto per malattie mentali di St. Elizabeth di Washington37.
36 GOFFMAN E., Asylums, Torino, 1974. 37 Per un quadro di sintesi vd.: SBORDONI S., Devianza primaria e devianza secondaria. Il caso del trattamento sanitario obbligatorio, su www.altrodiritto.unifi.it. Goffman utilizza il concetto di "carriera" per indicare i cambiamenti identitari che si attuano nel soggetto sottoposto al ricovero. Essa in genere ha inizio con un'esperienza di abbandono o di amarezza da cui può scaturire una trasgressione delle norme sociali. Non ogni trasgressione si traduce tuttavia nell’ospedalizzazione del soggetto. Essa, infatti, consegue solo a determinate "contingenze di carriera", come una rilevante violazione delle norme di convivenza sociale o il basso livello di tolleranza manifestato da chi viene a contatto con il soggetto deviante. Tali contingenze determinano, infatti, l’emersione della figura del cd. “accusatore": questa nozione non è chiaramente utilizzata in senso tecnico ma si riferisce banalmente al soggetto che, denunciando la situazione patologica (o comunque quella ritenuta tale) del futuro degente lo avvia alla “carriera morale del malato mentale” e lo immette così nel circuito manicomiale. Goffman si sofferma inoltre sull’incontro con un’altra figura:
25
I tratti distintivi di questo tipo d’istituzione (puntualmente
riscontrabili nel manicomio) sono: l'allontanamento e l’isolamento dal
resto della società; la rigida organizzazione formale e
l’amministrazione centralizzata del luogo e delle sue dinamiche
interne; la pervasività del controllo operato sugli internati. L’accesso
ad un’istituzione totale può verificarsi fondamentalmente in due
ipotesi: quella in cui l’adesione sia frutto di una libera scelta (come per
i conventi o le caserme), in cui il soggetto si identifica con le finalità
dell’istituzione; e quella in cui il soggetto, essendo considerato latore
di pericolosità (come nel caso delle carceri o dei manicomi) è
coattivamente immesso nell’istituzione e non può uscirvi liberamente.
L’art. 1 della l. 14 febbraio 1904, n. 36 prevedeva: “Debbono
essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque
causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri
o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere
convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi.” Il fine
della segregazione del malato emergeva senza troppe inibizioni dal
tessuto normativo, in cui si adoperava un lessico molto indicativo della
prospettiva securitaria con cui il legislatore si approcciava alla materia.
Inquietante per la sensibilità del lettore moderno è, infatti, la
circostanza che il “pubblico scandalo” (connesso all’alienazione
mentale) fosse annoverato tra i presupposti che legittimavano la
reclusione nei manicomi38.
quella del “mediatore". Esso è individuato fra quell'insieme di soggetti cui il malato viene segnalato (che spazia dalla polizia al personale medico e paramedico) e che, emettendo un giudizio sulle condizioni mentali del soggetto, sancisce l’irreversibilità dell’asservimento del degente alle finalità dell’istituzione totale. 38 Va rilevato tuttavia che la nozione di “pubblico scandalo” era comunque intesa dalla norma del 1904 come una forma (anche se attenuata) di pericolosità, costituendo un comportamento in grado di ledere beni giuridicamente tutelati (il pudore, la tranquillità, il diritto alla riservatezza ecc.): MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, p. 20.
26
Il ricovero coattivo costituiva l’automatica conseguenza giuridica
nei confronti di quei comportamenti dei malati psichiatrici che
avessero leso o minacciato beni giuridicamente protetti 39 . Due
convinzioni costituivano i pilastri su cui venne eretto questo
meccanismo: innanzi tutto si riteneva che l’unico modo per ovviare
alla pericolosità veicolata dalla malattia mentale dovesse essere
l’isolamento e la sorveglianza; in secondo luogo si riteneva che la
malattia mentale necessitasse, al pari delle altre patologie organiche e
funzionali, di un monitoraggio continuo mediante ricovero
ospedaliero40.
Nella legge del 1904 si prevedevano tre differenti tipi di ricovero.
Il primo era il ricovero ordinario su istanza al pretore da parte dei
parenti, del tutore e protutore, o di chiunque altro nell’interesse degli
infermi o della società.41. Il secondo era il ricovero urgente, ordinato
dall’autorità locale di pubblica sicurezza su segnalazione di privati o
d’ufficio. Il terzo tipo era il ricovero spontaneo, che costituisce
l’embrione della figura del ricovero volontario, cui si farà riferimento
tra breve42.
39 Sul punto vd. ROMANO M.-STELLA F., Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente: aspetti penalistici e costituzionali, cit., pp. 388 ss. 40 BREGOLI A., Trattamento open door e responsabilità civile degli ospedali psichiatrici per gli atti dannosi dei loro pazienti, in Riv. dir. civ., 1973, 2, p. 62. 41 L’istanza doveva essere corredata da un certificato medico e un atto notorio (volto a provare almeno gli stessi fatti che il medico enunciava nel certificato a riprova dell’aggressività o dell’atto scandaloso). L’autorizzazione pretorile era provvisoria, ma ciò nonostante si traduceva in un’immediata compressione della sfera di libertà del presunto alienato. L’autorizzazione al ricovero definitivo veniva data dal tribunale su istanza del pubblico ministero. Quest’ultima doveva essere considerata conclusione obbligatoria dell’iter procedimentale con cui richiedere l’internamento definitivo o il licenziamento immediato, in questo senso: FRANCHI G., Intorno alla tutela giurisdizionale della libertà personale. I procedimenti manicomiali, in Riv. dir. proc., 1958, p. 188. 42 Questa tipologia di ricovero presupponeva – a differenza del suo successore – che il maggiorenne che ne facesse richiesta fosse seminfermo e la sussistenza di un’assoluta urgenza. Tale ricovero peraltro non era
27
Significativo è rilevare l’assenza nella disciplina di qualsiasi
riferimento ai malati psichiatrici non pericolosi (né scandalosi!), i quali
evidentemente, pur non subendo alcuna compressione della libertà
personale, non beneficiavano neppure di alcun trattamento terapeutico.
Prendendo in prestito le parole di Goffman: "la valutazione psichiatrica
di una persona assume significato solo nel momento in cui essa ne
alteri il destino sociale - alterazione che diventa fondamentale nella
nostra società quando, e soltanto quando, la persona viene immessa nel
processo di ospedalizzazione" 43 . Il malato psichiatrico che non
presentasse un quadro sintomatico tanto grave da essere avviato in
quell’inesorabile processo di spersonalizzazione e reificazione attuato
dal manicomio non era di alcuna rilevanza per l’ordinamento.
L’internamento nell’istituzione manicomiale sanciva
l’obliterazione di qualsiasi diritto per il recluso, il quale poteva
trascorrere ivi la sua intera esistenza (la revoca del provvedimento era
infatti a discrezione dell’autorità giudiziaria).
Anche nel caso in cui il paziente fosse riuscito a riemergere
dall’oscurità del manicomio, una traccia indelebile di quell’esperienza
sarebbe rimasta non solo nella sua memoria ma anche nel casellario
giudiziale. Si trattava di una previsione all’insegna della
stigmatizzazione della patologia psichiatrica che rendeva ancor più
difficile la reintegrazione dell’ex-internato nella società. L’esperienza
di degradazione e mortificazione cui l’individuo era stato sottoposto
durante la degenza manicomiale si proiettava in questo modo verso
l’esterno, e continuava a perseguitarlo anche dopo l’internamento.
Sembrano quanto mai espressive in proposito le osservazioni di
Goffman: "una volta risulti che egli [il malato] è stato in ospedale
psichiatrico, la maggior parte del pubblico, sia formalmente - in
termini di riduzione di impiego - che informalmente - in termini del
contemplato nel corpo della legge del 1904 bensì nel regolamento di esecuzione (r.d. 16 agosto 1909, n. 615). 43 GOFFMAN E., Asylums, cit., p. 154.
28
trattamento quotidiano generale - lo considera una persona da
respingere; gli mette addosso uno stigma"44.
Non si può trascurare infine, nel delineare il quadro degradato
delle istituzioni psichiatriche dell’epoca, il fatto che il manicomio
costituisse una sorta di “discarica sociale” in cui ammassare senza
criterio malati di vario genere, tant’è che vi si rinchiudevano soggetti
con patologie psichiche su base organica e altre ancora che non
avevano neppure un labile collegamento con la psiche. Eterogenee
erano anche le condizioni dei soggetti ricoverati, poiché in tali strutture
“venivano spesso mescolati casi clinicamente recuperabili ad altri assai
più gravi ed infausti affidandoli tutti insieme ad un’istituzione
invecchiata nelle strutture e negli uomini e nelle loro mentalità.”45
Passando ai profili penalistici della custodia dei malati psichiatrici,
si rileva come anche codice penale ricalcasse il modello repressivo
della legge del 1904 e presentasse delle fattispecie contravvenzionali
destinate a garantire una tutela anticipata dell’incolumità sociale46.
Nello specifico l’art. 714 c.p. sanzionava chiunque avesse dismesso da
uno stabilimento di cura una persona che vi si trovasse legittimamente
ricoverata senza osservare le prescrizioni legislative; l’art. 715 c.p.
puniva chiunque non avesse osservato gli obblighi relativi alla custodia
degli “alienati mentali”; l’art. 716 c.p. prevedeva la punizione per il
pubblico ufficiale o l’addetto ad un istituto destinato all’esecuzione di
pene o di misure di sicurezza che avesse omesso di dare avviso
all’autorità della fuga di un internato; l’art. 717 c.p. sanzionava infine
chiunque, nell’esercizio di una professione sanitaria, avendo assistito o
esaminato una persona affetta da malattia di mente o da grave
infermità psichica che desse il sospetto di essere pericolosa per sé o per
44 GOFFMAN E., ibidem, p. 370. 45 FIORI. A, La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra, in Riv. it. med. leg., 1982, p. 535 . 46 Sulle quali vd. BRICOLA F., Custodia di minori, alienati di mente o persone detenute (Contravvenzioni concernenti la) (voce), in Enc. dir., vol. XI, Milano, 1962, p. 569.
29
altri, avesse omesso di darne avviso all’autorità47. Si può rilevare, a
dimostrazione delle effettive finalità perseguite dal legislatore del
1930, la vicinanza topografica di queste disposizioni a quella che
sanziona l’omessa custodia e il malgoverno degli animali (art. 672
c.p.)48. Questo armamentario penalistico, imbevuto della stessa ansia
securitaria di cui era permeata la legge del 1904, è sopravvissuto
intatto fino alla Legge 180 e fino alla stessa il manicomio è rimasto
l’unica (inadeguata) risposta fornita dall’ordinamento al problema
della malattia psichiatrica.
Dal quadro prospettato s’intuisce come il sistema penal-
penitenziario abbia sostanzialmente delegato una porzione del suo
potere/dovere di controllo disciplinare alla psichiatria, fornendole spazi
fisici per la restrizione dei movimenti e strumenti di coercizione
meccanica da utilizzare nei confronti di quella peculiare categoria di
persone costituita dai malati psichiatrici49. Si è osservato in dottrina
che “occorre riconoscere apertamente che quando si afferma che
presupposto del ricovero coattivo è o deve essere la pericolosità
dell’alienato, si vuole dire sostanzialmente che quello del ricovero
coattivo è soprattutto un problema di polizia; il ricovero dovrebbe
allora essere qualificato come un’autentica misura di prevenzione”50.
47 Si precisa inoltre che gli artt. 32 e 34 del r.d. 16 agosto 1909. n, 615 conferivano anche agli infermieri dei manicomi (sotto la direzione del direttore e dei medici) il compito di vigilare affinché i malati recassero danno a sé ed agli altri. 48 MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, cit., p. 9. 49 MANACORDA A., ibidem, pp. 14 ss. L’Autore rintraccia due possibili ragioni alla base di questa delega di funzioni. Innanzi tutto si ritiene che il potere di dissuasione-intimidazione possa esplicare i suoi effetti solo nei confronti di soggetti capaci di comprendere il valore afflittivo insito nella punizione e che questa capacità talora sia vanificata dalla malattia mentale. In secondo luogo si rileva la tendenza ad attribuire alla malattia più che alla persona il complesso delle sue azioni. 50 ROMANO M.-STELLA F., Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente: aspetti penalistici e costituzionali, cit., pp. 388 ss. Sulla possibilità di inquadrare il ricovero coattivo nell’ambito delle misure di
30
L’applicazione di una misura di prevenzione presuppone una base
legislativa che descriva comportamenti obiettivamente identificabili
(ossia una fattispecie oggettiva di pericolosità) e un reticolo di garanzie
giurisdizionali volto a predisporre per il destinatario della stessa uno
standard minimo di tutela51: entrambi questi elementi non erano
chiaramente contemplati dalla l. 14 febbraio 1904, n. 36.
L’avvento della Costituzione non poteva che far vacillare dalle
fondamenta l’assetto legislativo appena analizzato, e sempre più voci
si esprimevano nel senso dell’impossibilità – alla luce dei principi
costituzionali – di disporre un ricovero coattivo al solo fine di
contenere la ritenuta pericolosità del malato psichiatrico, dovendosi
invece asservire questo strumento esclusivamente alle esigenze
terapeutiche (ai sensi dell’art. 32 Cost.)52. La contrarietà ai principi
costituzionali era dunque desumibile dallo stesso principio ispiratore
della legge: non è infatti reperibile nella Costituzione alcuna norma
che giustifichi un meccanismo di ricovero coattivo fondato sulla mera
pericolosità del soggetto53. L’invocazione di un intervento da parte
della Corte Costituzionale54 per sanzionare l’incostituzionalità delle
prevenzione ante delictum, vd.: D. VINCENZI AMATO, Commentario all’art. 32 Cost., BRANCA (a cura di), Bologna-Roma, 1976, 190. 51 NUVOLONE P., La prevenzione nella teoria generale del diritto penale, in Trent’anni di diritto e procedura penale, I, Padova, 1969, pp. 273 ss. 52 AMATO G., Individuo e Autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, 1967, p. 526. 53 MERLINI S., Libertà personale e tutela della salute mentale: profili costituzionali, in Democrazia e diritto, 1970, pp. 82 ss. ed in seguito ROMANO M.-STELLA F., Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente: aspetti penalistici e costituzionali, cit., pp. 403 ss. 54 Molto superficiali e poco soddisfacenti sono i risultati cui perviene la sentenza Corte Cost., 27 giugno 1968, n. 74, in Giur. Cost., 1968, pp. 1080 ss. Pur avendo la Corte sancito l’incostituzionalità dell’art. 2, comma 2, l. 14 febbraio 1904, n. 36 nella parte in cui non prevedeva il contraddittorio con l’infermo di mente nel procedimento dinanzi al tribunale ai fini dell’emanazione del decreto di ricovero definitivo, non si è spinta oltre nel riconoscere l’obbligatorietà di una difesa giuridica e tecnica a garanzia dell’infermo, relegando quest’ultimo ad una posizione processuale addirittura deteriore rispetto a quella dell’imputato di un reato (in questo senso critico: ROMANO M.-STELLA F., ibidem, pp. 404 ss.).
31
norme che disciplinavano il ricovero coattivo rimase inascoltata, più
recettivo si dimostrò invece il legislatore, che – seppur con colpevole
ritardo rispetto all’emanazione del testo costituzionale – intervenne sul
punto.
2.2.3. Verso la riforma: la Legge Mariotti (l. 18 marzo 1968, n.
431) e l’introduzione del ricovero volontario
L’unico intervento legislativo successivo alla legge del 1904
(dopo un vuoto di più di sessant’anni in cui sostanzialmente il
problema della malattia psichiatrica fu ignorato a livello normativo) è
rappresentato dalla c.d. Legge Mariotti (l. 18 marzo 1968, n. 431). Con
essa si diede finalmente attuazione al disposto costituzionale in base al
quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge (art. 32 Cost.) e per la prima
volta l’intervento del legislatore in materia psichiatrica si orientò verso
esigenze diverse da quella della mera difesa sociale55.
La portata innovativa di questa legge si coglie considerando
l’introduzione dell’istituto del ricovero volontario 56 , nonché la
possibilità di trasformare il ricovero coatto in volontario (previo
accertamento del consenso dell’internato).
Così come il paziente poteva entrare volontariamente nella realtà
dell’ospedale psichiatrico, lo stesso (in regime di trattamento sanitario
volontario) poteva anche uscirvi liberamente dimettendosi 57 . Si
55 DE RISIO B., La responsabilità dello psichiatra, in La responsabilità sanitaria, PECCENINI F. (a cura di), Bologna, 2007, p. 249. 56 Ai sensi dell’art. 4 della suddetta legge (in modo similare alla procedura in uso per ospedali generali) tale ricovero era possibile sia al fine di un accertamento diagnostico che di cura ed era subordinato alla richiesta del malato e all’autorizzazione del medico di guardia. 57 La dottrina più attenta rilevava infatti che, dal dato normativo, si dovesse ritenere che un’eventuale trasformazione del ricovero (da volontario a coatto) non potesse avvenire medio tempore, ma solo dopo la dimissione del paziente (ovviamente qualora emergessero a posteriori i presupposti che
32
scorgono in questo intervento legislativo le avvisaglie della
sopraffazione del modello “custodialistico” da parte di quello
terapeutico, tramite la recisione del nesso di funzionalità tra custodia e
cura, che lasciava intravedere lo spazio per modalità terapeutiche
alternative rispetto alla limitazione della libertà fisica del paziente.
Inizia faticosamente ad emergere, tra le pieghe della legge del
1968, il ruolo del paziente psichiatrico come soggetto capace di
autodeterminarsi e dotato di una sua volitività. La malattia psichiatrica
in quest’ottica non privava il malato della dignità insita nella libertà di
scegliere se farsi curare e non aveva più come suo esclusivo epilogo la
reclusione coatta nel manicomio. Con la Legge Mariotti, infatti,
s’intendeva promuovere le attività di cura extra-manicomiali e
migliorare i servizi forniti negli stessi ospedali psichiatrici per
adeguare le attrezzature tecnico-sanitarie alle finalità terapeutiche58.
All’insegna del superamento della “criminalizzazione” del malato
psichiatrico si abrogò l’art. 604, n. 2, c.p.p. che prevedeva l’obbligo di
annotare nel casellario giudiziario i provvedimenti di ricovero dei
pazienti e della revoca degli stessi.
Un altro cambiamento che la dottrina intravide nell’intervento
legislativo del ‘68 consiste nella flessibilizzazione dei criteri di
valutazione della colpa del personale sanitario, la cui responsabilità
(per errori diagnostici o terapeutici) non doveva più essere valutata
banalmente in relazione alla violazione delle norme precauzionali di
custodia (immutabilmente stabilite dal legislatore) che erano contenute
nella legge del 1904 e nel suo regolamento, ma alla stregua dei
consolidati canoni della colpa generica (imperizia, imprudenza,
legittimavano il ricovero coattivo), così: ROMANO M.-STELLA F., Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente: aspetti penalistici e costituzionali, cit., p. 394. Contra: BRIASON, Relazione al Congresso su “La società e la malattie mentali”, Roma, 1968. 58 Un progresso fu anche rappresentato dalla predisposizione di contributi per quelle province che, non disponendo di propri ospedali psichiatrici, provvedessero a migliorare l’assistenza dei malati psichiatrici avvalendosi di istituti ospedalieri eretti in enti morali e non aventi finalità di lucro.
33
negligenza) con la conseguenziale malleabilità degli obblighi di
custodia, modellabili secondo le regole dell’arte psichiatrica
(riservando uno sguardo più attento alle effettive esigenze terapeutiche
del paziente)59.
Nonostante queste notazioni positive in merito alla legge Mariotti
non si può che condividere lo scetticismo che accompagnò questa
prima riforma riguardo all’effettiva portata dei cambiamenti introdotti:
“l’introduzione del ricovero volontario nell’antica struttura dei
manicomi tradizionali non pare destinata a mutare di molto la
situazione, se si ritiene (insieme alle tendenze più avanzate della
scienza psichiatrica contemporanea) che il ricovero volontario non
serve a cambiare il ruolo degli ospedali psichiatrici, in quanto qualsiasi
forma di ricovero può essere vista solo come una misura eccezionale e
temporanea in un sistema di assistenza psichiatrica (c.d. esterna) che
tenda a prescindere da quella”60.
59 STELLA F., La responsabilità penale dello psichiatra nel trattamento open-door, in AA.VV., Problemi giuridici attuali della legislazione psichiatrica. Atti del Convegno di Guidonia (19 gennaio 1974), Roma, 1974, p. 13. L’Autore propone l’esempio in cui un soggetto ricoverato d’autorità abbia cagionato un evento lesivo e che tale condotta sia stata resa possibile in conseguenza del processo di liberalizzazione dell’istituto (che include l’apertura dei reparti; la trasformazione della sorveglianza in assistenza coadiuvante; la preferenza accordata ad un trattamento farmacologico piuttosto che alla contenzione; l’incentivazione delle attività di socializzazione tra i degenti e la promozione dell’ingresso e del contatto con soggetti estranei all’istituto; la libertà di movimento nello stabilimento; l’incremento dei permessi di uscita, ecc.). In tal caso – afferma STELLA – l’addebito di responsabilità non potrà derivare esclusivamente dalla mera constatazione della violazione degli obblighi di custodia dalla legge del 1904, ma si dovrà stabilire se l’evento lesivo fosse concretamente prevedibile ed evitabile. Pur dovendosi necessariamente contestualizzare queste osservazioni, considerando che essere si riferiscono ad un asseto precedente rispetto al 1978, esse conservano la loro validità: la valutazione in merito alla responsabilità dello psichiatra dovrà contemplare, nel giudizio in merito alla colpevolezza, anche le finalità terapeutiche perseguite dal sanitario (fermo restando che anche “i migliori proposti” non potranno esonerare da responsabilità nel caso in cui si vada a costatare un grave livello di colpa nella condotta del terapeuta, in presenza della possibilità di prevedere l’evento lesivo e di adeguati poteri impeditivi). 60 MERLINI S., Libertà personale e tutela della salute mentale: profili costituzionali, cit., p. 90.
34
2.3. LA RIFORMA DELLA LEGGE BASAGLIA (L. 13 MAGGIO 1978, N.
180) E IL GRADUALE SUPERAMENTO DELL’ISTITUZIONE
MANICOMIALE
2.3.1. Luci ed ombre della riforma
Nei testi giuridici scritti all’indomani della riforma si avvertono
gli echi della compiaciuta consapevolezza dei loro Autori di essere
testimoni di una svolta storica, di quella svolta che avrebbe finalmente
sancito il tramonto della barbarie rappresentata dall’istituzione
manicomiale.
In realtà la chiusura delle porte dei manicomi, pur rappresentando
un irrinunciabile passo avanti nella (non ancora compiuta!) conquista
di una civiltà giuridica in materia psichiatrica, non si tradusse in
quell’epocale miglioramento della condizione del malato mentale in
cui si era tanto sperato. Il sentore di questo fraintendimento e la
disillusione non tardarono a presentarsi e a manifestarsi
repentinamente in quel leitmotiv (tutto italiano) che è l’invocazione di
una “riforma della riforma”.
Perplessità in merito a diversi punti dell’intervento legislativo
furono espresse da parte di numerosi psichiatri, che segnalarono –
spesso con articolate e meditate proposte di riforma legislativa – il
profondo disagio avvertito dalla categoria. Non mancarono
chiaramente manifestazioni di scontento da parte di coloro che
rappresentano le “vittime” principali (assieme ai pazienti) delle
scorretta gestione legislativa del fenomeno della patologia psichiatrica:
i parenti dei malati. Innumerevoli furono, infatti, le lettere da questi
indirizzate al Presidente della Repubblica ed al Ministro della Sanità
per palesare l’aggravamento delle (già molto complesse) situazioni di
vita di chi, giorno per giorno, con dedizione e pazienza, cerca di
accompagnare il proprio familiare fuori dal tunnel della malattia.
35
La pecca principale della riforma fu la scarsa lungimiranza del
legislatore, il quale non si rese conto che il manicomio – pur nella sua
angosciante e vergognosa esistenza – costituiva ormai una casa (e
l’unica casa) per moltissime persone che, estromesse così
repentinamente dalla realtà che fino al giorno precedente aveva
costituito la loro unica dimensione esistenziale, non avevano
alternative di vita in quella società da cui erano state allontanate,
spesso per periodi sufficientemente lunghi da recidere qualsiasi
rapporto con il mondo al di fuori del manicomio. Tragicamente
efficace è l’osservazione di Stella: “la verità purtroppo […] è che la
società respinge i malati di mente e che, quindi, un malato che sia
rimasto in un’istituzione per 10-20-30-40-50 anni non può essere
soggetto ad una procedura di trasformazione se, appunto, prima non si
è verificato se la società abbia gli strumenti necessari a reinserire il
malato nella vita di relazione.”61
Seppur unanimemente concorde sull’indispensabilità di un
intervento del legislatore in materia, la dottrina non ha risparmiato
severe critiche nei confronti delle Leggi 180 e 833, osservando che
esse “si sono rivelate generose negli intenti ma ingenue e largamente
imperfette, ennesimo frutto di un abrogazionismo emotivo”62.
L’estromissione dai manicomi, infatti, non era stata
adeguatamente accompagnata da misure atte a consentire una graduale
reintegrazione sociale dei malati. Le forme di “disadattamento da
reinserimento” hanno spesso dato luogo a comportamenti auto ed
eteroaggressivi, che hanno contribuito in grossa misura al fenomeno
della “criminalizzazione” del malato di mente 63 , “rinvigorendo”
l’inscindibilità del binomio tra pericolosità sociale e malattia
61 STELLA F., La responsabilità penale dello psichiatra nel trattamento open-door, cit., p. 16. 62 FIORI A., La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra, cit., p. 554. 63 FORNARI U., Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali, cit., p. 333.
36
psichiatrica. Tra le conseguenze della riforma si può, infatti,
annoverare un potenziamento del ruolo degli ospedali psichiatrico
giudiziari: moltissimi episodi di eteroaggressività sono difatti
culminati nell’internamento in queste strutture, che hanno conosciuto
una sorta di revival in seguito alla chiusura dei manicomi “canonici”
(che, nonostante tutti i loro limiti, presentavano almeno il vantaggio di
assorbire le forme minori di devianza rispetto a quella criminale e di
preservarle dall’attrazione nell’orbita degli ospedali psichiatrici
giudiziari).
Un fraintendimento che accompagnò l’avvento della riforma nel
periodo immediatamente successivo consistette nella diffusa
convinzione che, con l’abolizione del riferimento formale alla
pericolosità del paziente, fosse venuta meno qualsiasi questione in
merito alla responsabilità professionale del medico psichiatra64: si
trattò ad ogni modo di un’idea che – come si vedrà – trovò ben presto
smentita da parte della giurisprudenza.
In dottrina si è evidenziata la fallacia della communis opinio che la
maggiore innovazione apportata dalla legge del 1978 sia stata la
chiusura dei manicomi, evidenziando due elementi: innanzi tutto
all’intervento legislativo non fece seguito l’immediata chiusura dei
manicomi civili ma solo la riduzione della popolazione ivi reclusa; in
secondo luogo la vera novità dello stesso non si sostanziò tanto
nell’evento materiale della chiusura di quegli edifici, quanto nel
passaggio ad un approccio terapeutico di carattere globale, avente
come oggetto la tutela della salute mentale65. Quest’ultimo ambito va
inteso, infatti, come molto più ampio rispetto alla mera cura
dell’infermità mentale, e si evidenzia per un interesse terapeutico per
64 In senso critico: CANEPA G., Note introduttive allo studio della responsabilità professionale dello psichiatra in ambito ospedaliero, cit., p. 24. 65 MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, cit., p. 10.
37
la persona piuttosto che per i suoi comportamenti devianti66. Difatti, la
riforma operata dalla “Legge Basaglia” (l. 13 maggio 1978, n. 180) e
poi trasfusa negli artt. 33 ss. della legge istitutiva del Servizio Sanitario
Nazionale (l. 23 dicembre 1978, n. 833) ha avuto sicuramente il merito
di sancire (almeno nelle intenzioni del legislatore) la rottura dello
schema “custodialistico” e la sua sostituzione con il “modello
volontaristico”. Quest’ultimo riconosce il diritto
all’autodeterminazione e dignità al paziente psichiatrico e lo parifica
agli altri malati in quanto a statuto giuridico. Come per le altre
patologie, anche per il malato di mente il trattamento sanitario
obbligatorio viene relegato al ruolo di extrema ratio e l’obiettivo
primario del sanitario nelle scelte terapeutiche non può che essere la
cura del paziente. In quest’ottica si cerca di limitare il più possibile le
forme di compressione della libertà personale: la riforma prevede,
infatti, lo svolgimento degli accertamenti e dei trattamenti obbligatori
preferenzialmente in condizioni non di degenza e in sede
extraospedaliera, nelle strutture previste per gli accertamenti e i
trattamenti volontari. La norma cardine del sistema è ora costituita
dalla perentoria affermazione che “gli accertamenti ed i trattamenti
sanitari sono di norma volontari.”67
Il superamento dell’istituzione manicomiale ha comportato una
territorializzazione dell’intervento terapeutico e “ha consentito di
trasferire l’intervento psichiatrico dal chiuso dell’ospedale all’aperto
del territorio”68. Questo trasferimento tuttavia – come si è detto – non è
stato immediato, e per alcuni versi non è stata ancora definitivamente
compiuto.
66 INSOLERA G., Brevi considerazioni sulla responsabilità penale omissiva dello psichiatra, in Ind. pen., 1990, p. 776. 67 Art. 33, comma 1, l. 23 dicembre 1978, n. 833. 68 FORNARI U.-ROSSO R., La psichiatria del territorio di fronte al malato di mente autore di reato, alla luce delle recenti normative, in Riv. it. med. leg., 14, 1992, p. 63.
38
Ad ogni modo, volendo trarre un bilancio complessivo, notevoli
progressi furono sicuramente compiuti, e sarebbe scorretto e
tendenzioso non darne atto e concentrarsi esclusivamente sui profili
d’ombra dell’intervento legislativo del 1978.
Si afferma pacificamente in dottrina come il principale merito
della riforma sia stato quello di aver operato una trasformazione del
malato psichiatrico da “oggetto di custodia e di coercizione
intramurale” a “titolare del diritto alla propria cura” 69, mettendo in
secondo piano le esigenze di controllo e di neutralizzazione, che
avevano avuto invece una funzione assorbente nell’assetto precedente.
Per la prima volta s’iniziò a parlare di prevenzione in ambito
psichiatrico: i luoghi fisici deputati ad assolvere le funzioni preventive,
curative e riabilitative in relazione alla salute mentale furono
individuati nei servizi dipartimentali70. Si compì dunque un notevole
passo avanti verso la riassunzione unitaria dei tre momenti della
prevenzione – cura – riabilitazione 71 e si cercò di trasformare
radicalmente l’approccio nei confronti del malato psichiatrico,
passando dalla “ghettizzazione” precedente all’obiettivo del recupero
globale del malato, cui veniva significativamente restituito il diritto di
elettorato, prima sospeso durante la degenza in manicomio72.
Su quali possano essere stati i motivi del radicale cambiamento
nell’approccio legislativo nei confronti della malattia mentale possono
essere avanzate varie ipotesi.
In primo luogo si deve riconoscere all’avvento del testo
costituzionale un ruolo fondamentale nell’aver traghettato la
legislazione psichiatrica verso il riconoscimento della primaria
necessità di salvaguardare il diritto alla salute (di cui all’art. 32 Cost.)
69 FORNARI U., Trattato di psichiatria forense, Torino, 2013, pp. 962 ss. 70 Disciplinati dall’art. 34, comma 1, l. 23 dicembre 1978, n. 833. 71 MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, p. 11. 72 BARALDO M., Gli obblighi dello psichiatra, una disputa attuale: tra cura del malato e difesa sociale, in Cass. pen., 12, 2008, p. 4640.
39
in riferimento a qualsiasi tipo di malattia, anche quella psichiatrica
(pena la violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost).
In secondo luogo il consolidarsi di pratiche terapeutiche non solo
più riguardose della dignità del paziente rispetto a quelle in voga negli
anni precedenti, ma anche di maggiore efficacia pratica, metteva in
discussione l’opportunità di conservare le vetuste strutture
manicomiali, che ormai assurgevano a luogo simbolico di un passato
che si voleva lasciare alle spalle73.
In terzo luogo non sembra trascurabile il rilevo assunto dal clima
socio-culturale dell’epoca, che risuonava di istanze libertarie di
matrice sessantottina che non lasciarono immune – come si è già
accennato – neppure la legislazione psichiatrica. La revisione critica
delle ideologie e delle prassi di intervento invalse nella psichiatria
dell’epoca partì infatti dagli anni ’60 e proseguì fino (e anche oltre)
alla riforma. In particolare si prese coscienza dei limiti (anche di
efficacia) dell’assetto precedente. Le strutture protezionistiche del
passato consentivano, infatti, esclusivamente una difesa sociale di tipo
passivo, volta a contenere e neutralizzare con metodi coercitivi la
minaccia di cui erano latori i malati psichiatrici, ma non avevano
pressappoco alcun potere nella prevenzione dei comportamenti
devianti né tanto meno nella recisione delle radici motivazionali74.
73 Per una riflessione sulla differente immagine percepita a livello sociale del malato psichiatrico in seguito alla riforma: PITRELLI N., L’uomo che restituì la parola ai matti. Franco Basaglia. La comunicazione e la fine dei manicomi, Roma, 2004, pp. 135 ss. 74 MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, p. 25, il quale evidenzia tra l’altro un’altra fallacia nel meccanismo di difesa sociale strutturato dalla legislazione precedente: non solo esso consisteva in una mera difesa passiva, ma si esplicava per di più nei confronti di soggetti che di quella stessa società facevano parte, che sembravano quindi perdere, per questo solo fatto, la qualità di consociati. Obiettivo del nuovo assetto legislativo è invece quello della graduale e doverosa reintegrazione di tali soggetti nel tessuto sociale, nonostante essi appaiano turbarne gli equilibri.
40
2.3.2. Il vuoto legislativo creato dalla riforma e i dubbi consegnati
all’interprete
Conclusivamente si può ritenere che il profilo di maggiore criticità
della riforma sia consistito nell’aver superficialmente glissato sul
problema dell’eventuale pericolosità del malato psichiatrico (nei
confronti di sé stesso o di terzi). L’aver abiurato al lessico del passato,
che ridondava con cadenze quasi ossessive del concetto di “pericolo”,
non implica chiaramente che in concreto quella pericolosità non possa
manifestarsi. Questa circostanza avrebbe dovuto indurre il legislatore a
disciplinare compiutamente il contenuto degli obblighi gravanti sul
medico psichiatra alla luce dei nuovi principi su cui s’incardina la
riforma. La latitanza del legislatore ha dato origine ad un “vuoto di
disciplina” 75 , con la conseguente proliferazione di numerose e
differenziate impostazioni concettuali volti a colmarlo.
Il nodo gordiano intorno al quale ruotano gran parte delle diatribe
sul tema è la sussistenza o meno di residui obblighi di custodia in capo
al medico psichiatra. Ci si domanda in sostanza se la scelta del
legislatore di ripudiare il modello “custodialistico” per aderire ad un
nuovo paradigma terapeutico – teleologicamente orientato alla cura del
paziente – si sia riverberata sul contenuto degli obblighi gravanti sul
terapeuta, in modo da estrometterne quelli di controllo76.
75 FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 111. 76 In dottrina ritengono che in seguito alla riforma non residuino obblighi di controllo in capo allo psichiatra: BRICOLA F., La responsabilità penale dell’operatore di salute mentale: profili penalistici generali, in Tutela della salute mentale e responsabilità penale degli operatori, MANACORDA A. (a cura di), Perugia, 1988, pp. 137 ss.; FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, c. 108 ss.; VENEZIANI P., I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, vol. III, tomo II, I delitti colposi, in Trattato dir. pen., Parte spec., G. MARINUCCI-M. DOLCINI (a cura di), Padova, 2009, pp. 345 ss. Contra si sono espressi INTRONA F., Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente, cit., pp. 13 ss.; FIORI A., La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale
41
Non si può negare come il confronto tra la psichiatria e i
comportamenti devianti del paziente, potenzialmente lesivi di beni
giuridici tutelati, costituisca una costante dell’intervento terapeutico
dell’operatore di salute mentale, giacché tali comportamenti possono
consistere in una manifestazione della stessa patologia che s’intende
curare. La psichiatria dunque ha sempre storicamente annoverato tra i
suoi oggetti d’intervento anche la repressione delle condotte
antigiuridiche minori e la prevenzione di quelle maggiori77 (intese,
appunto, come estrinsecazione del disturbo psichico). Tuttavia questa
coincidenza tra il piano terapeutico e quello della repressione sociale
delle condotte antigiuridiche non consente di inferire la sussistenza di
un obbligo gravante sullo psichiatra in quest’ultimo senso. Non si
potrà quindi prescindere dall’interrogarsi se ed in che limiti sussistano
obblighi di controllo/sorveglianza sull’operatore di salute mentale alla
luce dei cambiamenti apportati dalla riforma.
La questione è estremamente complessa: si è osservato
efficacemente in dottrina come la peculiarità dell’oggetto dell’obbligo
di garanzia gravante sul medico psichiatra consista nel fatto che “in
quest’ambito, i beni debbano essere difesi dal pericolo nascente dallo
stesso destinatario della tutela” 78 . Questa circostanza costituisce
pressappoco un unicum nel panorama della responsabilità medica.
Il confine e il contenuto degli obblighi gravanti sul medico
psichiatra saranno oggetto di analisi del prossimo capitolo. Ciò che si
vuole evidenziare al termine della disamina dell’evoluzione della
legislazione psichiatrica è come l’incompletezza e la sommarietà
dello psichiatra, cit., pp. 542 ss.; CANEPA G., Note introduttive allo studio della responsabilità professionale dello psichiatra in ambito ospedaliero, cit., pp. 24 ss.; FORNARI U., Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali, cit., pp. 961 ss. 77 MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, cit., p. 11. 78 GARGANI. A, La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi “esemplari” di responsabilità ex art. 40 comma 2 c.p., cit., p. 1401
42
dell’intervento legislativo del 1978 siano state alla base del
disorientamento e dell’instabilità delle soluzioni percorse (tanto in
dottrina quanto in giurisprudenza) e abbiano reso ancor più complessa
e precaria la posizione dello psichiatra che si trovi ad operare al giorno
d’oggi.
43
2.4. LE LINEE EVOLUTIVE DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI
RESPONSABILITÀ PENALE DELLO PSICHIATRA
2.4.1. Il progressivo incremento delle pronunce e il differente
approccio negli ultimi orientamenti giurisprudenziali
Una rapida panoramica delle soluzioni cui è pervenuta la
giurisprudenza penale nell’ambito della responsabilità professionale
dello psichiatra79 si rende necessaria non solo al fine di una completa
esposizione dei differenti approcci riscontrabili nei vari formanti
dell’ordinamento, ma anche perché, come dimostrato da studi
scientifici in merito, il modo in cui sono risolte dalla magistratura le
questioni relative alle terapie praticate finisce per influenzare la stessa
evoluzione dei trattamenti psichiatrici ospedalieri80. Già prima della
riforma del 1978, infatti, si paventava che la condanna degli psichiatri
potesse ostacolare una “coraggiosa” politica di rinnovamento e portare
alla restaurazione delle vecchie misure di custodia81. Si valuterà nel
corso del lavoro fino a che punto l’esigenza di perseguire questo (pur
nobile) scopo possa giustificare il sacrificio di altre (e altrettanto
importanti) finalità perseguite dall’ordinamento.
79 Per un’ampia ed accurata analisi della giurisprudenza vd. DODARO G., Posizione di garanzia degli operatori dei servizi psichiatrici per la prevenzione di comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente. Gli orientamenti della giurisprudenza penale (1978-2010), cit., pp. 38 ss. Per un’efficace sintesi del panorama giurisprudenziale: MARRA G. - PEZZETTO S., La responsabilità dello psichiatra nella giurisprudenza successiva alla legge n. 180 del 1978, in Cass. pen., 2006, p. 3429 ss.; PARODI C.-NIZZA V., La responsabilità penale del personale medico e paramedico, Torino, 1996, p. 215 ss. 80 FINK, Liability of mental hospitals for acts of their patients under the open door policy, in Virginia Law Review, 57, 1971, pp. 156 ss; CAPPELLI, Custodia e/o cura. Aspetti penalistici e costituzionalistici, in AA.VV., Problemi giuridici attuali della legislazione psichiatrica, cit., p. 25. 81 STELLA F., La responsabilità penale dello psichiatra nel trattamento open-door, cit., p. 8.
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La giurisprudenza edita in materia di responsabilità professionale
dello psichiatra nel periodo precedente alla riforma Basaglia è molto
esigua. Tale circostanza è probabilmente imputabile allo stesso sistema
“custodialistico”, il quale, prevedendo il ricovero coatto al semplice
verificarsi della malattia, o impediva fattualmente il compimento di atti
aggressivi da parte dei degenti, o conduceva agevolmente
all’assoluzione dei medici psichiatri, i quali dovevano semplicemente
dimostrare di aver assolto i doveri di custodia intramuraria del
paziente82.
Dalla disamina degli orientamenti giurisprudenziali successivi alla
riforma emerge un dato interessante, che va a corroborare la ritenuta
peculiarità del settore psichiatrico. Quest’ultimo sembra, infatti, essere
stato lambito inizialmente solo marginalmente dal notevole incremento
del contenzioso in materia civile e penale83 che ha caratterizzato il
rapporto tra amministrazione della giustizia e medicina negli ultimi
anni (e che ha originato il fenomeno – cui si farà riferimento nel
prosieguo del lavoro – della c.d. “medicina difensiva”).
Un simile trend delle pronunce è stato plausibilmente interpretato
dalla dottrina “come conseguenza del concorrere di una pluralità di
fattori: fattori di tipo clinico, quali minore pericolosità delle terapie
psichiatriche e maggiore incertezza dei trattamenti psichiatrici in
ordine al conseguimento dei risultati; fattori di tipo giuridico, quale la
difficoltà di dimostrare il nesso causale tra condotta del sanitario ed
eventi dannosi (per sé o per altri) e la colpa penale; fattori di tipo
culturale.”84
82 Crf. MARRA G. - PEZZETTO S., La responsabilità dello psichiatra nella giurisprudenza successiva alla legge n. 180 del 1978, cit., p. 1436. 83 JOURDAN S., Introduzione, in Responsabilità del medico in psichiatria, cit., pp. IX ss.; DODARO G., Posizione di garanzia degli operatori dei servizi psichiatrici per la prevenzione di comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente. Gli orientamenti della giurisprudenza penale (1978-2010), cit., p. 35. 84 DODARO G., ivi.
45
Nel periodo successivo alla riforma si era affermato in
giurisprudenza un orientamento particolarmente “indulgente” nei
confronti della categoria degli psichiatri: le Corti tendevano ad
escludere pressappoco in ogni situazione qualsiasi profilo di
responsabilità penale del sanitario. Il punto di partenza delle
argomentazioni assolutorie era essenzialmente costituito
dall’affermazione del mutato assetto di obblighi gravanti sul personale
medico e paramedico all’indomani della riforma85. Inoltre, anche nei
casi in cui si riteneva astrattamente ipotizzabile una responsabilità
85 Tribunale di Brindisi, 5 ottobre 1989, Rini, in Foro it., 1990, II, c. 273 ss. ha escluso la responsabilità penale del personale medico di un servizio interdipartimentale di salute mentale (imputato per i ripetuti suicidi dei pazienti ricoverati in trattamento sanitario volontario presso tale struttura), argomentando la decisione sulla base della diversa considerazione della patologia psichiatrica operata dalle ll. 13 maggio 1978, n. 180 e 23 dicembre 1978, n. 833, che – non lasciando residuare obblighi di custodia o vigilanza – non consentirebbe di imputare alcun tipo di responsabilità in capo a medici ed infermieri che abbiano omesso la predisposizione di cautele idonee ad evitare il verificarsi di eventi lesivi. Meno netta è la posizione di una delle più note pronunce di legittimità in materia, di poco precedente (Cass., Sez. IV penale, 5 maggio 1987, Bondioli, in Foro it., 1988, II, c. 108 ss., con nota di G. FIANDACA, Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 108 ss.). Si controverteva sulla responsabilità del terapeuta per omesso impedimento (tramite la richiesta di un TSO) di un omicidio da parte di un infermo di mente. La Corte si è pronunciata in termini dubitativi riguardo alla circostanza che sul sanitario gravasse una posizione di garanzia: le perplessità dei giudici di legittimità vertevano essenzialmente sulla circostanza che nel caso di specie il medico fosse un libero professionista e non un sanitario incardinato in una struttura pubblica. In realtà tuttavia la Corte si sofferma – per negare la responsabilità del terapeuta – essenzialmente sul profilo dell’insussistenza del nesso di causa, non approfondendo in modo peculiare la tematica della posizione di garanzia. Non mancano tuttavia, anche in tempi più risalenti, isolati episodi di condanna: C. App. Perugia, 9 novembre 1984 (grado di appello del caso Bondioli appena menzionato). I giudici in questo caso hanno affermato la responsabilità per omicidio colposo dell’imputato, ritenendo che la riforma Basaglia lasciasse comunque residuare in capo al terapeuta doveri cautelari al fine di assicurare un'effettiva tutela della salute mentale del paziente, anche proponendo – ove necessario – un TSO (a prescindere dalla circostanza che il medico fosse o meno dipendente di una struttura pubblica).
46
colposa del terapeuta, si escludeva spesso l’esito di condanna in
assenza del riscontro di una colpa grave in capo al medico86.
Si è assistito tuttavia negli ultimi anni ad un cambiamento di rotta
in giurisprudenza e ad un notevole incremento quantitativo non solo
delle sentenze afferenti alla responsabilità professionale dello
psichiatra, ma anche degli esiti di condanna87. La giurisprudenza ha
ampliato gli orizzonti della responsabilità medica ritendendo possibile
un addebito a titolo di colpa anche in quelle ipotesi in cui – pur non
ricorrendo i presupposti per il trattamento sanitario obbligatorio – lo
psichiatra non si sia attivato per impedire l’evento lesivo,
contravvenendo alle regole cautelari che la prudenza e la perizia
avrebbero suggerito di adottare nel caso di specie (fermo restando il
86 In questo senso: Corte d'appello di Cagliari, 9 aprile 1991, Scamonatti, in Riv. giur. sarda, 1992, pp. 158 ss.; Trib. Spoleto, 8 giugno 1987, Franzese, in Riv. pen., 1987, pp. 961 ss. Sul tema dell’applicabilità dell’art. 2236 c.c. in ambito penalistico in materia di responsabilità medica: CASTRONUOVO D.-RAMPONI L., Dolo e colpa nel trattamento medico sanitario, pp. 1010 ss.; PALAZZO F., Causalità e colpa nella responsabilità medica (Categorie dogmatiche ed evoluzione sociale), in Cass. pen., pp. 1237 ss.; FIANDACA G., Appunti su causalità e colpa nella responsabilità medica, in BARTOLI R. (a cura di), Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa (un dialogo con la giurisprudenza), Firenze, 2010, pp. 185 ss.; CRESPI A., I recenti orientamenti giurisprudenziali nell’accertamento della colpa professionale del medico - chirurgo: evoluzione o involuzione?, in Riv. it. med. leg., 1992, pp. 1477 ss. Quest’orientamento iniziale – particolarmente indulgente nei confronti della classe medica – è stato poi abbandonato dalla giurisprudenza successiva (Cass. pen., sez. IV, 11 febbraio 1998, Azzimi, in C.E.D. Cass., n. 210351), che ha affermato la necessità di ricorrere esclusivamente ai criteri contemplati dall’art. 43 c.p. in merito all’accertamento della colpa in capo al sanitario, stante l’autonomia dell’elemento soggettivo colposo in ambito penalistico, in cui la graduazione dell’elemento psicologico del reato rileva solo ai fini della quantificazione della pena. 87 DODARO G., Posizione di garanzia degli operatori dei servizi psichiatrici per la prevenzione di comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente. Gli orientamenti della giurisprudenza penale (1978-2010), pp. 36 ss. propone un’interessante analisi grafica e statistica dell’andamento dei processi a carico degli psichiatri, alla quale si rinvia per un approfondimento dei dati numerici. L’Autore rileva che la maggior parte dei provvedimenti giudiziari si sia concentrata nell’ultimo decennio e che in quasi la metà dei processi celebrati dal 1978 vi sia stata una pronuncia di condanna almeno in uno dei gradi di giudizio (con una significativa concentrazione delle pronunce di condanna negli ultimi anni).
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necessario accertamento del nesso casuale tra la ritenuta condotta
negligente e l’evento lesivo).
L’orientamento maggioritario della giurisprudenza tende oggi a
riconoscere la sussistenza di una posizione di garanzia in capo allo
psichiatra volta tanto ad impedire le manifestazioni autoaggressive
quanto quelle eteroaggressive del paziente (tanto nel caso del
trattamento sanitario obbligatorio quanto in quello volontario) 88 .
Anche nelle sentenze di assoluzione, infatti, i giudici tendenzialmente
fanno leva non sull’assenza di una posizione di garanzia, quanto
piuttosto sulla mancanza di altri elementi normativi imprescindibili ai
fini di un esito di condanna.
Per quanto riguarda la classificazione della posizione di garanzia,
le Corti sembrano prevalentemente orientate a ritenerla qualificabile
sia in termini di posizione di protezione che di controllo89.
È opportuno interrogarsi sulle ragioni di tale cambiamento, per
verificare se esso sia stato determinato dalle peculiarità dei casi 88 Per una ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale: ANZILOTTI S., La posizione di garanzia del medico. Uno studio giuridico, bioetico e deontologico, Milano, 2013, pp. 212 ss. 89 In merito all’orientamento maggioritario in tema di trattamento sanitario volontario: Cass., 4 marzo 2004, Guida, in Cass. pen., 2004, p. 2859 e ss., con nota di ZANCHETTI M., Fra l’incudine e il martello: la responsabilità penale dello psichiatra per il suicidio del paziente in una recente pronuncia della Cassazione; in Dir. pen. proc., 11, 2004, pp. 1385 ss., con nota di GARGANI A., La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi “esemplari” di responsabilità ex art. 40 comma 2 c.p.; già in Dir. pen. proc. 2004, pp. 1143 ss., con nota di IADECOLA G., Responsabilità del direttore di una casa di cura per il suicidio di una paziente affetta da sindrome depressiva. Nella sentenza, infatti, si legge che una posizione di garanzia in capo allo psichiatra “sussiste in tutti i casi in cui sia in corso una relazione terapeutica, anche di tipo volontario. Contra: Cass., Sez. II, 11 maggio 1990, in Cass. pen., 1991, p. 68; Trib. Bologna, 10 agosto 1993, in Crit. pen., p. 57; Cass., Sez. IV, 12 aprile 2005, n. 13241, Delehaye, in cui si afferma che solo in presenza di trattamento sanitario obbligatorio sussiste la posizione di garanzia in capo ai medici della struttura, che consente una limitazione della libertà personale del paziente stesso, mentre: “se il soggetto, in stato di grave alterazione psichica, accetta di sottoporsi ad un trattamento volontario, non è suscettibile di coercizione, né conseguentemente può sorgere un obbligo di custodia nei confronti di un soggetto al quale nulla può essere imposto.”
48
sottoposti all’attenzione dei giudici o se, piuttosto, esso sia imputabile
al diffondersi di una diversa (e minore) sensibilità da parte della
giurisprudenza nei confronti della classe medica in questione o,
ancora, se questo cambiamento sia invece manifestazione di un disagio
più radicato in rapporto alla gestione pubblica del problema della
malattia psichiatrica. D’altra parte la drammaticità dei casi che sono
presi in considerazione dalla giurisprudenza in quest’ambito e il loro
cangiante atteggiarsi nelle vicende concrete: “finiscono col mettere a
dura prova le usuali categorie penalistiche” con la conseguenza che
“sarebbe illusorio attendersi dalla giurisprudenza penale univoche
direttrici in ordine al corretto esercizio dell’attività psichiatrica nel
presente momento storico.”90
2.4.2. La fase della “metabolizzazione” della riforma Basaglia da
parte delle Corti: il frequente ricorso alle fattispecie dolose
Innanzi tutto occorre premettere come l’ambito della responsabilità
professionale medica (cui ovviamente non si sottrare la responsabilità
dello psichiatra), sia dominato dalla responsabilità colposa, che si
radica nella produzione di un danno per imprudenza, imperizia,
negligenza, ovvero per inosservanza di regolamenti, ordini e discipline
(art. 43 c.p.). La responsabilità del medico, infatti, trae la sua origine
da un’errata applicazione delle regole di tecnica medico-chirurgica
nell’ambito delle attività di diagnosi e cura, da cui derivi una lesione
dell’integrità psicofisica del paziente o la sua morte.
In sede penale si registrano essenzialmente due filoni
giurisprudenziali in materia di responsabilità professionale
dell’operatore psichiatrico. Il primo riguarda l’ipotesi in cui allo
psichiatra sia contestata la responsabilità per aver agevolato o non aver
90 FIANDACA G., Responsabilità penale dell’operatore di salute mentale: i reati omissivi, cit., c. 120.
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impedito il suicidio del paziente; il secondo concerne invece l’omesso
impedimento o l’agevolazione della commissione di atti
eteroaggressivi da parte del malato.
Le fattispecie che più frequentemente sono state invocate ai fini
dell’incriminazione del medico psichiatra sono: omissione di soccorso
(art. 593 c.p.); abbandono di persone incapaci (art. 591 c.p.); omissione
o rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p.); lesioni personali colpose (art.
590 c.p.) e omicidio colposo (art. 589 c.p.).
Nonostante – come si è detto – la responsabilità medica sia regno
della responsabilità colposa, soprattutto nei periodi immediatamente
successivi alla riforma Basaglia (durante la fase della metabolizzazione
a livello dottrinale e giurisprudenziale del nuovo assetto legislativo)
non sono mancate pronunce in cui sia stata chiamata in discussione
una responsabilità di carattere doloso per le fattispecie di omissione di
soccorso e abbandono di persone incapaci.
L’omissione di soccorso 91 non presuppone ovviamente
l’insaturazione di alcun rapporto terapeutico medico-paziente ed è stata
talora invocata in associazione o in alternativa alla fattispecie di cui
all’art. 328 c.p., nell’ipotesi di omissione o rifiuto di un ricovero
ospedaliero. Si è rilevato in dottrina come, le pur rare ipotesi in cui
possa astrattamente ipotizzarsi l’integrazione di questa fattispecie,
ricadano – contrariamente rispetto a quanto possa ipotizzarsi a prima
lettura dell’articolo – nell’ambito dall’art. 593, comma 2, e non del
91 Art. 593 c.p. Omissione di soccorso. 1. Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un'altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all'autorità è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 2.500 euro. 2. Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'autorità. 3. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata.
50
primo comma dello stesso92. Il primo comma, infatti, sanziona una
tipologia unica di condotta (quella di qualsiasi cittadino che ometta di
dare immediato avviso all’Autorità nei casi menzionati dall’articolo,
tra cui quello in cui la persona bisognosa di soccorso appaia essere un
malato di mente) e non impone al cittadino (medico o meno che sia)
alcun comportamento specifico. Il secondo capoverso impone, invece,
di fornire alla persona in pericolo “l’assistenza occorrente”: la
giurisprudenza consolidata ritiene necessario commisurare
quest’ultima alla capacità tecnica detenuta o presunta del soccorritore
(o del mancato tale), con la conseguenza che possa ritenersi doveroso
un intervento qualificato da parte del medico psichiatra eventualmente
imbattutosi nella persona bisognosa di assistenza 93.
Il delitto di abbandono di persone minori o incapaci94 (tra le quali
certamente possono rientrare gli infermi di mente) può configurarsi, a
differenza della fattispecie appena considerata, solo in seguito
all’instaurazione di una relazione terapeutica 95 . Tale reato può
ipoteticamente essere integrato dalla dolosa interruzione
dell’assistenza necessaria al proprio paziente da parte dello psichiatra o
dall’omissione delle cautele necessarie ad evitare lo stato di
92 Cfr. MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, cit., pp. 30 ss. 93 MANACORDA A., ivi. 94 Art. 591 c.p. Abbandono di persone minori o incapaci. 1 Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. 2 Alla stessa pena soggiace chi abbandona all'estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. 3 La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte. 4 Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall'adottante o dall'adottato. 95 In senso critico rispetto al ricorso a questa fattispecie nell’ipotesi in cui non si sia instaurato alcun rapporto terapeutico: INSOLERA G., Brevi considerazioni sulla responsabilità penale omissiva dello psichiatra, cit., p. 779 in riferimento a Trib. Perugia, 20 ottobre 1986, MANUALI ed altri, in Foro it., 2, 1988, pp. 107 ss.
51
abbandono, con la consapevolezza e l’accettazione del pericolo che
possa derivarne96 (il coefficiente psichico si connoterebbe in tal caso in
termini di dolo eventuale). Il ricorso a questa fattispecie, pur nei
limitati casi in cui possa configurarsi, consente in sostanza
un’anticipazione della tutela del malato psichiatrico rispetto alle ipotesi
colpose, giacché sanziona la condotta di abbandono ancor prima (e a
prescindere) dal verificarsi di un evento lesivo. Al medesimo risultato
si perviene ricorrendo alla fattispecie di omissione o rifiuto di atti
d’ufficio97 . La sua configurabilità deriva dalla natura pubblica del
servizio d’igiene mentale, discendente dalla sua originaria
connotazione quale servizio psichiatrico della provincia, confermata
dall’inquadramento nell’ambito dei servizi psichiatrici delle USL (in
seguito trasformate in ASL). In capo ai sanitari operanti nelle strutture
del servizio pubblico sussiste, infatti, la titolarità di obblighi
d’intervento finalizzati alla tutela della salute individuale e collettiva.
Le ipotesi in cui è stata più frequentemente invocata la fattispecie di
cui all’art. 328 c.p. sono quelle concernenti il rifiuto opposto dal
sanitario al ricovero coattivo richiesto dal paziente stesso o (come
capita con maggiore frequenza) dai suoi familiari. Il reato in questione
non può ovviamente essere integrato laddove il medico eserciti
privatamente la propria professione.
L’impostazione giurisprudenziale tendente ad indagare la posizione
dell’operatore di salute mentale in termini di responsabilità dolosa è
96 Cfr. MARRA G. - PEZZETTO S., La responsabilità dello psichiatra nella giurisprudenza successiva alla legge n. 180 del 1978, cit., 1436. 97 Art. 328 c.p. Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione. 1 Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. 2 Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.
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stata ben presto abbandonata in favore della teorizzazione di una
responsabilità di carattere colposo: questa transizione si è intrecciata
con la suddetta adozione di un atteggiamento più rigido da parte delle
Corti nei confronti della categoria medica de qua. È, infatti, abbastanza
difficile riscontrare nella pratica terapeutica un atteggiamento che sia
correttamente qualificabile in termini di dolo e l’impiego della
“scorciatoia concettuale” del dolo eventuale genera non di rado
perplessità in virtù del suo labile confine con la nozione di colpa
cosciente98. Il ricorso alle fattispecie di lesioni colpose e di omicidio
colposo, pur non consentendo l’anticipazione della soglia della tutela
implicata dai reati dolosi menzionati, può invece condurre con
maggiore facilità (dal punto di vista probatorio) ad un esito di
condanna.
2.4.3. La responsabilità colposa del terapeuta e la clausola
generale dell’art. 40, comma 2, c.p. (cenni e rinvio)
Nei casi di morte o deterioramento della salute del paziente
psichiatrico conseguenti a decisioni diagnostiche e/o terapeutiche, a
partire dalla fine degli anni ’80 fino al giorno d’oggi, la giurisprudenza
fa prevalentemente riferimento alle fattispecie di lesioni personali
colpose e omicidio colposo, mediante il ricorso alla clausola generale
dell’art. 40, comma 2, c.p., secondo cui “non impedire un evento, che
si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.” La
responsabilità penale del terapeuta è stata fatta discendere dai giudici
98 Sul punto si rinvia alla sentenza della Cass. pen., SS. UU., 24 aprile 2014 (18 settembre 2014), n. 38343, ThyssenKrupp, reperibile su www.penalecontemporaneo.it, che affronta la questione della distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente con approfondite ed interessanti argomentazioni, pronunciandosi nel senso del necessario abbandono della polivalente formula dell’accettazione del rischio come connotato del dolo eventuale, in favore dell’adozione della più stringente nozione di adesione all’evento.
53
da eterogenee condotte attive o omissive essenzialmente consistenti in
errori diagnostici; nell’omessa predisposizione di misure idonee a
prevenire le manifestazioni di aggressività del paziente;
nell'intempestiva cessazione delle cure o in trattamenti sanitari non
adeguati o non correttamente eseguiti.
Su come le Corti abbiano affrontato le problematiche connesse
alla responsabilità colposa del medico – andando nel corso del tempo
man mano distanziandosi dall’orientamento “garantista” iniziale – ci si
soffermerà nell’ambito della trattazione teorica delle singole questioni,
per verificare se e in quale misura vi sia stato un rapporto osmotico tra
dottrina e giurisprudenza.
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3. LA POSIZIONE DELLO PSICHIATRA TRA ISTANZE
DI TUTELA SOCIALE ED ESIGENZE
TERAPEUTICHE
3.1. GLI OBBLIGHI GIURIDICI GRAVANTI SUL MEDICO PSICHIATRA.
3.1.1. Responsabilità omissiva e posizione di garanzia
È difficile riuscire a rendere l’idea della densità problematica e delle
contraddittorietà insite nella posizione dello psichiatra come Franco
Basaglia, il quale osserva con amarezza: “quando il malato è legato lo
psichiatra è libero; quando il malato è libero lo psichiatra è legato”99.
Ritorna costantemente nell’analisi il tema della libertà, cui si è fatto
riferimento in apertura del lavoro, e che pervade trasversalmente ogni
discorso in materia psichiatrica. La risposta che si voglia dare
all’interrogativo concernente il contenuto della posizione di garanzia
gravante sul terapeuta ha indiscutibili ricadute tanto sulla libertà del
medico, quanto su quella del paziente. Difatti, ritenendo che tale
posizione implichi anche compiti di controllo, si giungerebbe
all’ampliamento della libertà di azione del medico. La dilatazione del
confine della legittimità della sua sfera operativa potrebbe tuttavia
tradursi in una limitazione dell’area di libertà del paziente. È di
conseguenza discutibile la tesi, sostenuta un tempo soprattutto dagli
psichiatri100, che riteneva che il ricovero coattivo dell’infermo di mente
coinvolgesse esclusivamente l’art. 16 Cost.101 (relativo alla libertà di
99 BASAGLIA F., Conversazione: A proposito della nuova legge 180, in Scritti. Vol. II, 1968-1980, Torino, 1982. 100 PORTA V., L’ammissione negli ospedali psichiatrici, in Atti del convegno nazionale di studi per la riforma della legislazione sugli ospedali psichiatrici, cit., p. 347. 101 Art. 16 Cost.: “1. Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge
55
soggiorno e circolazione). Un ruolo di assoluta centralità è invece
ricoperto dal diritto di libertà personale di cui all’art. 13 Cost.102, come
giustamente rilevato dalla dottrina103.
Occorre dunque interrogarsi sulla persistenza di compiti o funzioni
di controllo in capo al terapeuta. Al fine di pervenire ad una soluzione
il più scevra possibile da connotazioni ideologiche, è opportuno
premettere la necessità di evitare di ricondurre qualsiasi forma di
sorveglianza all’abiurata espressione “custodialismo” e di prendere
atto della configurabilità di forme di controllo/sorveglianza differenti
(soprattutto per le finalità oltre che per le modalità) rispetto a quelle su
cui si reggeva l’approccio terapeutico precedente alla riforma104.
stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. 2. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. 3. Ogni cittadino è libero di uscire dai territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge.” 102 Art. 13 Cost.: “1. La libertà personale è inviolabile. 2. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. 3. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. 4. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. 5. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.” 103 ROMANO M.-STELLA F., Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente: aspetti penalistici e costituzionali, cit., pp. 400 ss. 104 La giurisprudenza denuncia talora i rischi insiti in un acritico abbandono alle istanze libertarie: “Deve allora concludersi che nel caso di specie, nel ripudiare il custodialismo estremo, l’imputato sia caduto nell’eccesso contrario, in un liberismo cioè sproporzionato ed intempestivo e che così facendo abbia, violando la regola cautelare di condotta, agevolato la verificazione dell’evento e aggravato i rischi per l’incolumità della paziente.” (Trib. Como, 13 novembre 2000, n. 2831/00 in Riv. it. med. leg., 2002, pp. 913). Nello specifico si controverteva sulla responsabilità per omicidio colposo del medico psichiatra che aveva autorizzato l’uscita dalla clinica di una paziente ricoverata in trattamento sanitario volontario, affidandola ad un’assistente cui non era stata fornita alcuna previa informazione sui pregressi tentativi di suicidio delle degente: alla decisione del medico era tragicamente seguito il suicidio della donna tramite defenestrazione dalla casa dell’operatrice volontaria cui era stata affidata.
56
Innanzitutto occorre specificare come sia possibile parlare di
posizione di garanzia esclusivamente con riferimento alle ipotesi di
responsabilità omissiva.
Il reato omissivo si sostanzia nel mancato compimento di un
obbligo imposto a livello legislativo. L’omissione giuridicamente
rilevante è un concetto di carattere normativo, essendo identificabile e
percepibile solamente in relazione ad una norma giuridica che
prescriva un’azione connotata da doverosità 105 : la causalità
dell’omissione non consiste in altro che in un “equivalente normativo”
di un rapporto causale vero e proprio106. L’omissione si compone di tre
elementi, consistenti nella condotta passiva, nell’obbligo giuridico di
agire e nella possibilità di adempiere a tale obbligo. Ogni qual volta si
controverta sulla responsabilità del medico il giudice deve di
conseguenza confrontarsi con la sussistenza di questi tre elementi. Si
può rilevare tuttavia come in giurisprudenza non di rado si glissi
erroneamente sull’accertamento del terzo elemento, considerandolo
sussistente in re ipsa nella posizione del terapeuta e non
approfondendo adeguatamente l’idoneità degli strumenti nella concreta
disponibilità dello psichiatra ad impedire la verificazione dell’evento
lesivo.
Sono due i meccanismi attraverso i quali un’omissione può
assumere rilevanza penalistica e corrispondono sostanzialmente alla
topica bipartizione tra “reati omissivi propri” e “reati omissivi
impropri”.
La prima ipotesi è costituita dalla previsione dell’omissione in una
norma incriminatrice strutturata in modo da sanzionare direttamente la
violazione dell’obbligo di agire in una determinata direzione.
105 In dottrina si esprime efficacemente questo concetto affermando che l’omissione è un concetto di carattere normativo e di relazione che si sostanzia nel non facere quod debeatur: CARACCIOLI I., Omissione (voce), in Noviss. dig. it ., Vol. XI, Torino, 1965, p. 895. 106 FIANDACA G., Causalità (voce), cit., p. 127.
57
Nell’assetto dell’attuale legislazione psichiatrica, in seguito
all’abrogazione espressa delle ipotesi omissive comprese
nell’originaria rubrica del codice penale “Contravvenzioni concernenti
la custodia di alienati di mente, di minori o di persone detenute” (libro
III, titolo I, capo I, sezione III, paragrafo 6), non sussistono più
previsioni legislative che consentano l’operatività di questo primo
meccanismo.
Il secondo meccanismo che consente l’attivazione di una risposta
penalistica dinanzi ad un’omissione fa invece perno sulla clausola
generale dell’art. 40, comma 2, c.p. (“non impedire un evento, che si
ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”). È questo il
meccanismo che rileva nell’ambito della responsabilità penale dello
psichiatra (fatta eccezione per i rari casi in cui si ricorre alle fattispecie
dolose cui si è fatto cenno nel capitolo precedente). Il terapeuta dunque
è essenzialmente chiamato a rispondere per un reato omissivo
improprio, che contravviene all’obbligo di impedire un evento tipico
descritto da una fattispecie commissiva-base.
In adesione ad una concezione funzionale dell’obbligo di impedire
l’evento si sostiene che l’equivalenza tra “cagionare” e “non impedire”
debba essere sorretta da una “posizione di garanzia” nei confronti
dell’interesse tutelato, gravante in capo al soggetto della cui
responsabilità si discute e che si sostanzia un uno speciale vincolo
derivante dall’incapacità del titolare del bene di provvedere
autonomamente alla sua salvaguardia107.
Nella dottrina penalistica in materia di posizione di garanzia si
prospetta una catalogazione che distingue tra posizioni c.d. di
“controllo” (dirette alla neutralizzazione di fonti di pericolo
determinate e di conseguenza alla tutela di tutti i titolari di interessi
protetti suscettibili di essere minacciati da tali fonti di pericolo) e
107 Cfr. PADOVANI T., Diritto penale, Milano, 2008, p. 133 ss.
58
posizioni c.d. di “protezione” (finalizzate alla neutralizzazione di tutti i
pericoli in grado di minacciare specifici interessi protetti).108
La classificazione della posizione del medico psichiatra nel quadro
teorico prospettato (in termini di posizione di protezione o di controllo)
costituisce una delle questioni più discusse della materia de qua.
3.1.2. La qualificazione della posizione del terapeuta: una
possibile soluzione alla luce dell’assetto complessivo
dell’ordinamento
In giurisprudenza è radicato il convincimento che tutti i sanitari
siano “ex lege portatori di una posizione di garanzia, espressione
dell'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto dagli articoli 2 e
32 della Costituzione nei confronti dei pazienti, la cui salute essi
devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci
l’integrità.” 109 Da questa considerazione di carattere generale non si
108 Questa bipartizione è avvallata da parte della dottrina: FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1985, pp. 341 ss.; PADOVANI T., Diritto penale, cit., p. 134; FIANDACA G., Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, pp. 189 ss. Propende invece per una tripartizione degli obblighi inerenti alla posizione di garanzia (di protezione, di controllo, di impedimento di reati): MANTOVANI F., L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, pp. 351 ss. 109 Cass. Pen. sez. IV, 1 dicembre 2004 (11 marzo 05), n. 9739. La responsabilità omissiva medica nell’ambito del diritto penale della medicina trova il suo fondamento normativo nell’art. 1, comma 1, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, che conferisce al Servizio Sanitario Nazionale e al personale sanitario che presti servizio in quest’ambito il compito di tutelare la salute dei cittadini ovvero nel contratto terapeutico concluso tra medico e paziente: CUPELLI C., La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, cit., p. 32; SBORRA E., La posizione di garanzia del medico, a cura di CANESTRARI S.- GIUNTA F.- GUERRINI R. - PADOVANI T., Pisa, 2009, p. 117 ss.; BOIDO A., La posizione di garanzia, in II reato. Commentano sistematico al codice penale, M. RONCO (diretto da), Bologna, 2007, p. 280 ss. È pacifico, infatti, che gli obblighi gravanti sul titolare della posizione di garanzia siano suscettibili di derivare da fonti eterogenee, di carattere normativo, contrattuale, amministrativo o giudiziario.
59
sottrae ovviamente la figura professionale dello psichiatra. Non si può,
infatti, dimenticare che “nella realtà attuale lo psichiatra è un medico, e
del medico ha doveri, poteri e diritti” e “finché lo psichiatra farà parte
della medicina, per il medico psichiatra si porranno, come per ogni
altro medico, sia i problemi generali di deontologia, sia problemi
specifici di responsabilità professionale.”110
Sulla circostanza che sullo psichiatra gravi una posizione di
garanzia del tipo di protezione con riferimento al bene giuridico
dell’integrità psicofisica del paziente, sussiste ormai univocità tanto in
dottrina quanto in giurisprudenza. Tale posizione di garanzia,
discendente dall’assetto complessivo della l. 23 dicembre 1978, n. 833,
è atta a fondare un’eventuale responsabilità per omesso impedimento
dell’evento ex art. 40, c.p. (fermo restando la necessità, per individuare
i titolari della posizione di protezione, di fare di volta in volta
riferimento ai compiti disimpiegati nei vari servizi111).
In base ad un’impostazione di carattere funzionale, l’unico
elemento idoneo a fondare l’esistenza di una Garantenstellung è
l’esistenza di un “rapporto di dipendenza” a scopo tutelare112. Tale
relazione, nel caso del medico psichiatra, si sostanzia nell’affidamento
del malato alle sue cure (sia nell’ipotesi del terapeuta dipendente di
una struttura pubblica, sia in quella del libero professionista). Ai fini
dell’insaturazione del suddetto rapporto ciò che rileva è il concreto e 110 CANEPA G., Note introduttive allo studio della responsabilità professionale dello psichiatra in ambito ospedaliero, cit., p. 24. L’Autore rileva come in merito tuttavia non manchino autorevoli opinioni dissenzienti. Thomas Szasz per esempio ha scritto che il lavoro degli psichiatri “ha un carattere etico e socio-psicologico piuttosto che medico o biologico”: SZASZ T., I problemi che si presentano alla psichiatria: la partecipazione dello psichiatra al conflitto, in Argomenti di Etica Medica, FULLER TORREY E.-ETAS KOMPASS (a cura di), Milano, 1970, p. 235. 111 FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, c. 108; GRASSO G., Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 317. Si precisa in dottrina: “L’individuazione della condotta ipoteticamente rilevante avviene sulla base dell’obbligo giuridico di agire, che circoscrive l’ambito di coloro che erano tenuti alla prestazione finalisticamente orientata ad impedire l’evento.”: PADOVANI T., Diritto penale, cit., p. 133. 112 FIANDACA G., Il reato commissivo mediante omissione, cit., p. 130.
60
personale espletamento dell’attività medico-terapeutica113. Ad esso
consegue sempre l’assunzione di una posizione di protezione nei
confronti del paziente in capo al sanitario, a prescindere dalla sua
qualifica formale114.
Il discorso sulla posizione di garanzia dello psichiatra sarà condotto
con riferimento tanto al trattamento sanitario obbligatorio quanto a
quello volontario115: è infatti corretto ritenere che in entrambi i casi vi
sia un affidamento del paziente alle cure del medico116. Non sembra
dunque condivisibile la prospettiva dottrinale che differenzia il
contenuto della posizione di garanzia in base alla circostanza che il
paziente sia sottoposto a trattamento sanitario volontario o
obbligatorio117.
Mentre – come si è detto – è pacifico che in capo all’operatore di
salute mentale vi sia una posizione di protezione, molto controversa è
invece la sussistenza di una posizione di controllo118.
113 La posizione di garanzia in psichiatria gruppo di lavoro S.I.P., di AA.VV., su www.psichiatria.it. 114 Difatti il Codice deontologico professionale prescrive che il medico debba “tempestivamente attivarsi per assicurare ogni specifica e adeguata assistenza […] indipendentemente dalla sua abituale attività” (art. 7 CDM). 115 In questo senso: Cass., 4 marzo 2004, Guida, in Cass. pen., 2004, p. 2859 e ss. 116 Così: DODARO G., Posizione di garanzia degli operatori dei servizi psichiatrici per la prevenzione di comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente. Gli orientamenti della giurisprudenza penale (1978-2010), cit., p. 31. 117 In questi termini: MASPERO M., Mancata previsione di evento suicidario e responsabilità dello psichiatra: creazione di un "Fuzzy set” o rivelazione di un ossimoro?, cit., p. 946; ANZILOTTI S., La posizione di garanzia del medico. Uno studio giuridico, bioetico e deontologico, cit., p. 213 ss.; ZANNOTTI R., La responsabilità penale dello psichiatra e dello psicologo, in Trattato di medicina legale e scienze affini, GIUSTI G.V. (a cura di), Milano, 2008, p. 492. In giurisprudenza vd. Trib. Bologna, 10 agosto 1993, in Crit. pen., p. 57: in questa pronuncia i giudici differenziano il contenuto della posizione di garanzia a seconda che il malato sia sottoposto a TSO o TSV e ritengono che lo psichiatra sia gravato da poteri di controllo/sprveglianza esclusivamente nel caso del trattamento sanitario obbligatorio. 118 In dottrina parla di posizione di controllo: ZANNOTTI R., ibidem, p. 488; contra PULITANÒ D., Introduzione, cit., p. 25.
61
Si osserva in dottrina come non di rado si abbia l’impressione che
lo psichiatra si trovi “stretto tra due fuochi”119, compresso com’è
“dalla pressione sociale, che tende ‘ad imporgli un più o meno
sistematico atteggiamento di repressione preventiva nei confronti di
iniziative del suo paziente potenzialmente lesive di beni
giuridicamente protetti, a scapito di un’azione realmente terapeutica,
imponendogli così un tipico compito di controllo disciplinare’; e da
una speculare controspinta, di matrice normativa e deontologica, che
gli impone di rivendicare la finalità esclusivamente terapeutica del suo
agire, richiamandolo ai doveri tipici di prevenzione, cura e
riabilitazione dei disturbi psichici120”.
Seppur simili preoccupazioni (concernenti le plurime ed indebite
istanze che mirano ad ascrivere allo psichiatra compiti estranei al suo
mandato terapeutico) siano condivisibili, non sembra tuttavia
impossibile individuare una soluzione di composizione, che consenta
al contempo di limitare indebite dilatazioni della posizione di garanzia
del medico e di assicurare un elevato livello di tutela della salute del
malato psichiatrico.
Essendo necessario un bilanciamento tra i delicati interessi in
gioco (quello dello psichiatra a non subire ingiustamente un addebito
di responsabilità e quello del paziente a non vedere sacrificato il suo
diritto alla salute), è “auspicabile che i nuovi orientamenti
dell’assistenza psichiatrica, decisamente e giustamente in contrasto con
gli orientamenti prevalentemente custodialistici del passato, non
sortiscano il paradossale effetto di una stigmatizzazione a rovescio del
malato psichico, contribuendo a considerarlo un “diverso” ed un
119 INSOLERA G., Brevi considerazioni sulla responsabilità penale omissiva dello psichiatra, cit., p. 775, che rileva la dicotomia “tra appelli ad un ritorno al sano realismo custodialistico e l’eccezionalità dei trattamenti sanitari obbligatori, normativamente finalizzati solo in senso terapeutico.” 120 CUPELLI C., Non tutto ciò che si può si deve anche fare. I rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari: il caso dello psichiatra, cit., p. 235, il quale cita a sua volta: MANACORDA A., Responsabilità dello psichiatra per fatto commesso da infermo di mente, cit., p. 122.
62
“emarginato” rispetto agli altri malati, perché del tutto indifeso rispetto
ai rischi connessi ad errori, diagnostici e terapeutici, ed a gravi carenze
dell’attività di sorveglianza e di assistenza.”121 Onde evitare questo
paradosso occorre prendere le distanze da un approccio dogmatico con
il problema in questione, che neghi ab imis la configurabilità di una
responsabilità colposa del terapeuta per una condotta auto o eterolesiva
del malato122. Il presupposto su cui fa perno una prospettiva così
radicale è che il malato, fuori dai casi di T.S.O., sia una persona capace
di autodeterminarsi 123 e che conseguenzialmente non sia possibile
ritenere lo psichiatra responsabile per gli atti che il paziente si sia
liberamente determinato a compiere. Un simile assunto lascia tuttavia
sicuramente perplessi: se è vero che in molti casi anche i soggetti
affetti da turbe psichiche sono in grado di esprimere efficacemente un
consenso o un dissenso alla terapia e di autodeterminarsi, non può
tuttavia negarsi come il tratto specifico di alcune tra le patologie più
gravi consista proprio nella dissociazione dal mondo esterno, con la
conseguente incapacità da parte del malato di percepire il disvalore
delle proprie azioni, che difficilmente potrebbero essere ricondotte al
concetto di autodeterminazione (salvo che non si voglia abnormemente
trasfigurare il significato di questa nozione).
La posizione di garanzia dello psichiatra, al pari di quella di
qualsiasi altro medico, ha un contenuto di carattere essenzialmente
terapeutico e ha come oggetto esclusivo la tutela della salute mentale
del soggetto in cura: una posizione di questo genere sembra
correttamente qualificabile come posizione di protezione e non di
121 CANEPA G., Note introduttive allo studio della responsabilità professionale dello psichiatra in ambito ospedaliero, cit., p. 27. 122 In questi termini: MARRA G. - PEZZETTO S., La responsabilità dello psichiatra nella giurisprudenza successiva alla legge n. 180 del 1978, p. 1436. 123 ZANCHETTI M., Fra l’incudine e il martello: la responsabilità penale dello psichiatra per il suicidio del paziente in una recente pronuncia della Cassazione, pp. 2865 ss.
63
controllo124. Questa opzione interpretativa è avvalorata dall’analisi
sistematica dell’attuale normativa psichiatrica (illustrata nel primo
capitolo), dalla quale emerge nitidamente una polarizzazione
dell’attenzione del legislatore sulla tutela del bene giuridico della
salute mentale del paziente. Tale soluzione deriva dunque non solo
dalla formalistica constatazione (in un’ottica giuspositivistica)
dell’assenza di residue fattispecie che impongano obblighi di custodia,
ma anche da una concezione c.d. contenutistico-funzionale della
posizione di garanzia, che le attribuisca contenuto e significato
contestualizzandola nell’ordinamento125. Alla luce di quanto detto è
allora possibile ritenere che nella posizione di garanzia dell’operatore
di salute mentale (sia nell’ambito del trattamento sanitario volontario
che di quello obbligatorio) non rientrino obblighi diretti
esclusivamente alla custodia e al contenimento dell’auto e
dell’eteroaggressività del paziente, giacché questi ultimi esorbitano
sicuramente dai confini funzionali del ruolo del terapeuta. Da questa
considerazione tuttavia non si può inferire l’esonero del sanitario da
qualsiasi obbligo di controllo/sorveglianza nei confronti del paziente
psichiatrico nel caso in cui, da un’attenta analisi del quadro clinico, il
medico possa in scienza e coscienza ritenere che la patologia rischi,
con un elevato livello di probabilità, di estrinsecarsi in atti auto o
eteroaggressivi. In tal caso, infatti, il contenimento di tali
manifestazioni patologiche (nei limiti degli strumenti di cui il medico
dispone in concreto, in base ai differenti contesti terapeutici) è
funzionale alla cura del paziente, in quanto volto ad agire sul profilo
sintomatico della malattia. Un’attività di sorveglianza concepita in
questi termini non può essere ricondotta nell’alveo del mero controllo
124 In questo senso: PULITANÒ D., Introduzione, cit., p. 25: “La posizione dello psichiatra va inquadrata nello stesso modo in cui va inquadrata qualsiasi altra attività terapeutica: sono in gioco doveri di cura di soggetti bisognosi.” 125 INSOLERA G., Brevi considerazioni sulla responsabilità penale omissiva dello psichiatra, cit., p. 776.
64
disciplinare, ma in quello del perseguimento di una strategia
terapeutica.
Nell’argomentare l’insussistenza di obblighi di controllo in capo
allo psichiatra si è osservato in dottrina come l’intervento di
quest’ultimo tenda “a far sì che l’utente raggiunga e conquisti quote
crescenti di sostanziale autonomia” e che “per far ciò, deve consentire
all’utente concrete quote di assunzione di responsabilità rispetto ad
ogni sua vicenda” e “deve pertanto ‘smontare’ pazientemente il
meccanismo che attribuisce alla malattia gli eventi ed i comportamenti,
e rintracciare invece in questi le dinamiche agite dalle persone, ed in
primis dall’utente stesso.” Seppur suggestiva nella sua formulazione,
una simile impostazione non considera che ignorare la riconducibilità
di un determinato comportamento alla patologia psichiatrica nel caso
in cui tale connessione effettivamente sussista, in nome della libertà e
dell’autonomia del paziente psichiatrico (anche quando tale stadio di
autonomia non sia stato ancora raggiunto nel percorso terapeutico), si
traduce in una presa di posizione di carattere essenzialmente
ideologico e rischia di mettere a repentaglio la salute del paziente
stesso e dei terzi che con esso vengano a contatto.
Il medico (qualsiasi medico, non solo lo psichiatra), in virtù della
sua posizione di garanzia, non solo deve attivarsi per procurare un
miglioramento delle condizioni di salute del paziente, ma deve anche
adoperare (seguendo un criterio di proporzionalità e adeguatezza) gli
strumenti di cui dispone (che possono consistere in una prescrizione
farmacologica; nell’attivazione del TSO; in caso di ricovero nella
predisposizione logistica ed organizzativa dell’ambiente in modo
idoneo a marginalizzare la concreta attuazione di episodi di
aggressività; nell’eventuale ricorso alla contenzione) per impedire
un’ulteriore degenerazione del quadro clinico. Solo in questo senso si
può ritenere che l’operatore di salute mentale debba esercitare un
“controllo” sul paziente: non si tratta quindi di un “rigurgito” della
65
superata (e giustamente criticata) visione custodialistica, ma di un
obbligo direttamente discendente dalla posizione di garanzia (di
protezione) gravante sul terapeuta. Si è pragmaticamente osservato
che: “Se problemi di sorveglianza si pongono per il ricoverato anziano
o invalido, che ad esempio può cadere dal letto e fratturarsi una gamba,
non si vede per quale motivo lo stesso problema non debba sussistere
per il malato psichico.”126 Non sembrano dunque condivisibili le voci
dottrinali che ritengono che vi sia una radicale incompatibilità tra
funzione di controllo ed un’attività che voglia essere realmente
terapeutica127: talora la situazione patologica potrà e dovrà indurre il
sanitario ad esercitare sul malato un’attività di sorveglianza proprio per
perseguire il fine terapeutico, che non può disinteressarsi delle sorti di
un paziente che, a causa della sua malattia, non sia capace di
provvedere a sé stesso. Si assume persuasivamente in questo senso la
sussistenza di “un quoziente obbligatorio di assistenza e/o vigilanza, se
e in quanto possibili e necessari nell’interesse specifico della salute e
della persona del paziente stesso, perché tra loro necessariamente
interdipendenti, dai quali obblighi esso psichiatra non può
completamente prescindere, se non ci si vuol arrendere all’idea che
tutto ciò che accade al malato sia frutto di un fatale determinismo
naturale.”128
La sussistenza di obblighi di controllo non discende in quest’ottica
sic et simpliciter dalla posizione di garanzia dello psichiatra ma
dall’atteggiarsi della concreta situazione clinica del paziente che – ove
si riscontri una connessione tra le potenziali manifestazioni di
aggressività e il quadro psicopatologico – dovrà sollecitare lo
psichiatra ad impiegare tutti gli strumenti legittimi che l’ordinamento 126 CANEPA G., Note introduttive allo studio della responsabilità professionale dello psichiatra in ambito ospedaliero, cit., p. 26. 127 MANACORDA A., Psichiatria e controllo sociale. A proposito dell’affidamento coattivo del prosciolto per infermità psichica ai servizi di salute mentale, in Foro it., 1989, I, 64. 128 BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 2006, p. 164.
66
mette a sua disposizione per evitare che la situazione possa esacerbarsi
ed eventualmente culminare in una tragedia. In moltissime patologie
particolarmente gravi – come la schizofrenia – il malato presenta
momenti di scompenso acuto e di obnubilamento della volontà, che
possono imprevedibilmente sfociare in condotte tanto etero quanto
autoaggressive: questo rende “doveroso approntare al malato
psichiatrico un cordone di cautele aggiuntive rispetto ad un paziente
per cosi dire «normale», e di questo non può non farsi carico anche il
medico psichiatra che ha in cura il soggetto.” 129
3.1.3. Atti auto ed eteroaggressivi del paziente e contenuto degli
obblighi del medico
A differenza della giurisprudenza, parte della dottrina130 – seppur
con argomentazioni diverse sotto alcuni profili – distingue il contenuto
degli obblighi gravanti sul terapeuta proponendo soluzioni differenti a
seconda che sussista un rischio di condotte autoaggressive o
eteroaggressive. In questo senso, mentre si propende tendenzialmente
per l’ammissibilità di obblighi d’impedimento dei gesti autolesivi del
paziente, si escludono compiti volti al contenimento di quelli
eteroaggressivi. Questa impostazione concettuale è argomentata sulla
129 MARRA G. - PEZZETTO S., La responsabilità dello psichiatra nella giurisprudenza successiva alla legge n. 180 del 1978, p. 1436. Gli Autori precisano: “Si è soliti affermare che il folle non agit sed agitur, e non pare proprio che il più delle volte il suo gesto omicida sia frutto di una libera scelta del malato di mente (nella cronaca risultano numerosi i casi in cui lo schizofrenico ha agito sospinto dalle c.d. in termini medici, ‘allucinazioni uditive imperative’, a cui non può resistere).” 130 BRICOLA F., La responsabilità penale dell’operatore di salute mentale: profili penalistici generali, cit., pp. 137 ss.; FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 110; INSOLERA G., Brevi considerazioni sulla responsabilità penale omissiva dello psichiatra, cit., p. 776; GARGANI A., La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi “esemplari” di responsabilità ex art. 40 comma 2 c.p., cit., p. 1401; ANZILOTTI S., La posizione di garanzia del medico. Uno studio giuridico, bioetico e deontologico, cit., pp. 216 ss.
67
base del convincente rilievo che la tutela della salute del malato
incapace di autodeterminarsi debba a fortiori implicare la tutela della
sua vita ed incolumità fisica131.
Alla luce di quanto si è detto finora, le argomentazioni a supporto
dell’inclusione, tra gli obblighi dello psichiatra, di quelli volti a
proteggere l’incolumità fisica del paziente, sono sicuramente
condivisibili. Di conseguenza si può ritenere che “l’omissione di
cautele idonee a prevenire un danno prevedibile ex ante e in concreto
(in base alla riconoscibilità e specificità della situazione di pericolo)
alla vita o all’integrità fisica del paziente o l’applicazione di misure
incongrue o insufficienti (sotto il profilo della prevenzione: culpa in
vigilando o in eligendo), potrà – in caso di suicidio del paziente e di
accertamento del relativo nesso causale – fondare la responsabilità
colposa (rispettivamente omissiva impropria o commissiva) dello
psichiatra”132.
Non convincono invece le argomentazioni volte ad escludere
aprioristicamente dai doveri dello psichiatra anche il contenimento
delle condotte eteroaggressive. Si è argomentato in proposito: “La
posizione di protezione, ricollegandosi all’obbligo terapeutico, non
appare in grado di giustificare un intervento psichiatrico volto alla
prevenzione e neutralizzazione dei comportamenti irregolari del
paziente, ma sembra giustificare semmai un’assistenza che all’interno
della terapia cerchi di contenere quelle angosce psichiche che possono
essere anticamera di agiti aggressivi o violenti da parte del paziente” e
che la responsabilità del medico non possa chiamata in causa in
relazione al comportamento illecito del paziente in sé dal momento che
“l’atto etero-lesivo viene senz’altro in rilievo nella prospettiva di cura
131 Contra in giurisprudenza la posizione minoritaria di Trib. Brindisi, 5 ottobre 1989, Rui ed altri, in Foro it., II, 1990, 273, in cui si esclude la sussistenza di una posizione di garanzia anche rispetto a comportamenti autolesivi del paziente. 132 GARGANI A., La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi “esemplari” di responsabilità ex art. 40 comma 2 c.p., cit., p. 1403.
68
della persona, ma quale manifestazione della malattia per cui il
paziente ha chiesto di essere aiutato” con la conseguenza che
“l’omissione del medico per inosservanza dei doveri di cura può essere
fonte di responsabilità unicamente in relazione alle conseguenze
negative che ha prodotto sulla salute e sul benessere psico-fisico del
paziente.” 133 Assodato che determinati comportamenti aggressivi
possono costituire l’estrinsecazione sintomatica della patologia
mentale 134 , non si comprende come si possa ritenere che
un’inosservanza dei doveri di cura che si traduca, per esempio, in un
incremento o nel mancato contenimento dell’aggressività del paziente,
non abbia una conseguenza negativa sulla salute e sul benessere
psicofisico del paziente. Fermo restando la necessità di accertare la
sussistenza di un effettivo nesso causale tra la condotta colposa del
terapeuta e il verificarsi dell’evento lesivo (e chiaramente degli altri
elementi costitutivi del reato), non si vede perché debba escludersi la
responsabilità (anche di carattere penale) del medico in relazione a
quell’evento. S’ipotizzi, per esempio, che il terapeuta abbia effettuato
una prescrizione farmacologica in palese violazione delle leges artis o
che l’abbia interrotta ex abrupto determinando un incremento
dell’aggressività. Non sembra che la circostanza che il paziente abbia
direzionato la vis aggressiva nei propri confronti (commettendo atti
autolesivi o suicidandosi) oppure verso terzi (commettendo lesioni o
omicidi) cambi i termini della questione della responsabilità penale del
professionista.
133 Così: DODARO G., Posizione di garanzia degli operatori dei servizi psichiatrici per la prevenzione di comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente. Gli orientamenti della giurisprudenza penale (1978-2010), cit., p. 57. 134 Si rileva in dottrina come sussistano casi di omicidio o di altri delitti violenti determinati da cause psicopatologiche suscettibili di essere accertate nella situazione concreta: GATTI U.-TRAVERSO G.B., Malattia mentale e omicidio. Realtà e pregiudizi sulla pericolosità del malato di mente, in Rass. it. crim., 1979, 10, pp. 77 ss.
69
A queste considerazioni si aggiunge la perplessità –manifestata
peraltro dalla stessa dottrina135 che teorizza il diverso atteggiarsi della
responsabilità del medico nelle ipotesi di atti auto ed eteroaggressivi –
riguardo alla possibilità di delimitare nettamente il confine (sia a
livello fenomenico che diagnostico) tra auto ed eteroaggressività. Si è,
infatti, rilevato nella letteratura psichiatrica come una simile
distinzione finisca per essere artificiosa e priva di riscontri clinici e
nosografici “in quanto l’auto e l’etero-aggressività possono essere le
due manifestazioni della stessa realtà psicologica.”136
In conclusione si può ritenere che lo psichiatra sia gravato da una
posizione di garanzia del tipo di protezione e che questa, nell’ambito
del percorso terapeutico, non solo giustifichi, ma anche imponga il
ricorso a mezzi di contenimento dell’aggressività del paziente (sia nei
propri confronti sia in quelli di terzi), purché il comportamento lesivo
si atteggi come manifestazione della patologia psichica per la quale il
paziente sia in cura (volontaria o obbligatoria)137 .
135 FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 110. 136 REALDON A., Malati di mente e ricovero coatto, in Riv. it. med. leg., 2, 1980, p. 916. 137 In riferimento agli atti eteroaggressivi: ARIATTI R.-VERSARI M.-VOLTERRA V., Responsabilità professionale dello psichiatra operante nel servizio sanitario nazionale, in Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, VOLTERRA V. (a cura di), Milano, 2010, p. 578.
70
3.2. LA PREVEDIBILITÀ DEI COMPORTAMENTI LESIVI DEL MALATO
PSICHIATRICO E L’IMPERVIA INDIVIDUAZIONE DELLE REGOLE
CAUTELARI
3.2.1. L’elemento della prevedibilità nella sistematica del reato
colposo. Peculiarità del campo d’indagine
Il concetto di prevedibilità è essenziale ai fini della configurazione
dell’illecito penale: resterebbe, infatti, privo di conseguenze giuridiche
un fatto che – pur derivando da un’azione o un’omissione del medico –
non fosse suscettibile di previsione in base alla scienza e all’esperienza
medica138. In dottrina, infatti, si è osservato come il giudizio di
imprevedibilità escluda il dovere di diligenza 139 . L’evento in
particolare deve apparire come una concretizzazione del rischio che la
norma violata intendeva prevenire 140 , deve cioè atteggiarsi come
conseguenza delle caratteristiche antigiuridiche della condotta colposa.
La giurisprudenza rileva come “l’individuazione di tale nesso consente
di sfuggire al pericolo di una connessione meramente oggettiva tra
regola violata ed evento; di una configurazione dell’evento come
condizione obiettiva di punibilità.”141
È necessaria una premessa in merito alla collocazione sistematica
del requisito della prevedibilità. Esso assume rilievo al momento
dell’accertamento della colpa e non in sede di ricostruzione del nesso 138 JOURDAN S., La responsabilità dello psichiatra per le azioni violente compiute dal paziente: prevedibilità dell’evento e possibilità di evitarlo, in La responsabilità professionale dello psichiatra, JOURDAN S.- FORNARI U. (a cura di), Torino, 2006, p. 112. 139 GIUNTA F., Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, p. 231. 140 FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1985. 141 Cass. pen., SS. UU., 24 aprile 2014 (18 settembre 2014), n. 38343, ThyssenKrupp, cit., che precisa come la descrizione dell’evento cui deve essere riferita la prevedibilità sia “funzionale all’individuazione di un esito lesivo che costituisca espressione del rischio specifico che una determinata disciplina cautelare era chiamata a governare.”
71
causale 142 (come lascerebbe intendere la commistione tra i due
elementi che frequentemente si riscontra dall’analisi delle sentenze in
materia) e si configura come il presupposto per l’adozione della regola
cautelare143. Il giudizio predittivo è dunque riferibile all’elemento
soggettivo – essendo attinente al processo cognitivo dell’agente e
funzionale alla necessità di evitare forme di responsabilità oggettiva –
e deve essere svolto (secondo la giurisprudenza) in base al criterio
dell’homo eiusdem professionis et condicionis, al fine di attribuire un
contenuto specifico all’obbligo di diligenza, che risulterebbe altrimenti
assolutamente inafferrabile nella sua astrattezza.144. La Cassazione ha
osservato che “è da tempo chiaro che la responsabilità colposa non si
estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione
della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a
prevenire” e che “tale esigenza conferma l’importante ruolo della
prevedibilità e prevenibilità nell’individuazione delle norme cautelari
alla cui stregua va compiuto il giudizio ai fini della configurazione del
profilo oggettivo della colpa.”145
La consueta difficoltà nel ricostruire i presupposti della colpa
professionale del sanitario è amplificata nell’ambito della psichiatria.
142 FIANDACA G., Causalità (voce), cit., p. 125. In tema di colpa medica vd.: MANTOVANI F., La responsabilità del medico, in Riv. it. med. leg, 1980, pp. 16 ss.; MAZZACUVA N., Problemi attuali in materia di responsabilità penale del sanitario, in Riv. it. med. leg., 1984, pp. 399 ss.; RIZ R., Colpa penale per imperizia del medico: nuovi orientamenti, in Ind. pen., 1985, pp. 267 ss. 143 GIUNTA F., Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, p. 185. 144 Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795, Pozzi, in Cass. pen., 12, 2008, pp. 4638 ss. con nota di BARALDO M., Gli obblighi dello psichiatra, una disputa attuale: tra cura del malato e difesa sociale; in Riv. ìt. dir. proc. pen., 2009, p. 440 ss., con nota di CINGARI F., Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente, cit., p. 1419 ss.; con nota di FIORI A.-BUZZI F., Problemi vecchi e nuovi della professione psichiatrica: riflessioni medicolegali alla luce della Cass. pen. n. 10795/2008; in cui si ascrive un carattere ibrido alla prevedibilità che “non essendo riferita all’agente concreto, ha caratteristiche di oggettività pur essendo riferita alla colpevolezza”. 145 Cass. pen., SS. UU., 24 aprile 2014 (18 settembre 2014), n. 38343, ThyssenKrupp, cit.
72
Le incertezze che accompagnano la valutazione penalistica della
responsabilità del professionista in questione rappresentano, infatti “il
riflesso della ‘controvertibilità’ delle scelte tecniche in ambito
psichiatrico.” 146 In questo settore è dunque di assoluta attualità
l’osservazione che la prevedibilità non possa essere considerata
l’equipollente della mera “non impossibilità” di un evento lesivo,
altrimenti “quasi tutto sarebbe prevedibile”147. Occorre di conseguenza
delimitare le potenzialità espansive del concetto di prevedibilità, che,
ove riferito alla mera possibilità di verificazione dell’evento, si
presterebbe ad ampliare a dismisura i confini della colpa.
In sede di analisi delle peculiarità di quest’ambito rispetto agli altri
della medicina si è già constatata la problematica individuazione di un
confine netto tra patologia e “normalità” (stanti le notevoli incertezze
definitorie e nosografiche), nonché la difficile prevedibilità
dell’evoluzione del quadro sintomatico della patologia mentale (cui
consegue l’impervia identificazione di adeguati parametri di
contenimento del rischio). Si è osservato come “le manifestazioni
morbose a carico della psiche sono tendenzialmente meno evidenti e
afferrabili delle malattie fisiche, per cui il confine tra diagnosi corretta
e diagnosi errata, trattamento indovinato e trattamento sbagliato può
almeno in certi casi diventare ancora più incerto che non nell’ambito
della generica attività medica”148. Una simile considerazione determina
di conseguenza la necessità di un rigorosissimo vaglio del profilo della
146 GARGANI A., La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi “esemplari” di responsabilità ex art. 40 comma 2 c.p., cit., p. 1402, il quale osserva: “La natura composita e multidisciplinare del substrato ideologico-culturale della psichiatria, l’assenza di precisi criteri nosografici di valutazione, il difetto di canoni fissi e di scelte codificate, finiscono per creare un evidente deficit di determinatezza scientifica (con conseguenti aspettative meno solide nei confronti dello psichiatra).” 147 MARINUCCI G., Non c’è dolo senza colpa. Morte della “imputazione oggettiva dell’evento” e trasfigurazione nella colpevolezza?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 11. 148 FIANDACA G., Responsabilità penale dell’operatore di salute mentale: i reati omissivi, in Tutela della salute mentale e responsabilità penale degli operatori, cit., p. 212.
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colpa medica, sia alla luce dell’obiettiva problematicità della
previsione degli eventi lesivi in materia psichiatrica, sia in
considerazione dell’elevata complessità ed incertezza delle regole
cautelari, non solo nella fase della valutazione giudiziale ma anche in
quella modale ed operativa della scelta del percorso terapeutico149.
Il giudizio sulla responsabilità professionale dello psichiatra, al
fine di pervenire ad una soluzione il più distante possibile da forme di
responsabilità oggettiva, non può prescindere dal contemplare queste
asperità. Si prenda in considerazione il caso dell’errata diagnosi150.
Non può negarsi come in talune ipotesi la diagnosi di una patologia
psichica possa presentare maggiori difficoltà rispetto a quella di altre
patologie che non trovino le proprie radici nella psiche. Per la diagnosi
di queste ultime, infatti, da anni la medicina si avvale di
strumentazioni che consentono (in moltissimi casi) la rilevazione di
informazioni estremamente precise e non di rado univocamente
indizianti. Inoltre nell’ambito delle malattie diverse da quelle
psichiatriche, il terapeuta è sicuramente facilitato per quanto concerne
l’anamnesi: è difficile ipotizzare che – per esempio – un cardiopatico o
un malato oncologico in pieno possesso delle proprie facoltà mentali
non abbia percezione della propria patologia (ovviamente una volta
che se ne siano palesati i sintomi o che siano stati effettuati adeguati
test diagnostici) o che desideri presentare al medico un quadro clinico
149 CUPELLI C., Non tutto ciò che si può si deve anche fare. I rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari: il caso dello psichiatra, p. 229; DE FRANCESCO G., L’imputazione della responsabilità penale in campo medicochirurgico: un breve sguardo d’insieme, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 970. 150 In tema di diagnosi in psichiatria vd: CARRIERI F.-CATANESI R., Psichiatria e giustizia: una crisi di crescita, in AA.VV., Questioni sull’imputabilità, Padova, 1994, p. 89; BRONDOLO W.-MARIGLIANO A., Danno psichico, Milano 1996, p. 63 ss.; INFANTE E., Il lucido delirio e il futile motivo. Note in tema di imputabilità, Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2000, vol. IV, p. 1571. Per una più amplia bibliografia sul tema si rinvia a: MASPERO M., Mancata previsione di evento suicidiario e responsabilità dello psichiatra: creazione di un "Fuzzy set” o rivelazione di un ossimoro?, cit., p. 915.
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tale da sminuire la gravità del proprio stato patologico. Il discorso
cambia notevolmente per quanto riguarda il paziente psichiatrico: la
diagnosi della sua patologia, pur potendo giovarsi talora
dell’osservazione diretta del sintomo, dovrà necessariamente essere
mediata dal resoconto dell’imperscrutabile realtà interiore proposto dal
malato. Quest’ultimo potrebbe avere tuttavia, specie nei casi più gravi
e preoccupanti sotto il profilo sintomatologico151 , l’intenzione di
nascondere o negare (a se stesso e agli altri) la sussistenza della
malattia. È dunque sicuramente condivisibile la soluzione assolutoria
adottata dalla giurisprudenza nell’ipotesi in cui l’evento lesivo si sia
verificato nonostante una corretta valutazione delle condizioni
psichiche del paziente, ossia nel caso in cui dai dati disponibili al
momento della diagnosi non fosse possibile per lo psichiatra ritenere
ragionevolmente sussistente un rischio per il paziente152.
Nonostante le notevoli difficoltà che sconta la diagnosi
psichiatrica, non sembra tuttavia possibile escludere un addebito di
responsabilità in quei casi in cui le peculiarità del caso concreto
costituiscano un segnale forte ed inequivocabile di un quadro
patologico connotato da un elevato rischio di condotte lesive153.
151 La dottrina psichiatrica segnala la “singolare abilità che i malati di mente, proprio i più gravi, possiedono nel dissimulare i propri disturbi”: FORNARI U., Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali, cit., p. 332. 152 Vd. Trib. Spoleto, 8 giugno 1987, in Riv. it. med. leg., 1989, pp. 254 ss. che ha assolto dall’imputazione di omicidio colposo lo psichiatra e direttore di un ospedale psichiatrico giudiziario che aveva dimesso con una diagnosi che escludeva l’infermità mentale un internato, successivamente impiccatosi, sulla base del rilievo della corretta valutazione del quadro clinico del paziente. 153 Si menziona a questo proposito la pronuncia di condanna del Trib. Bolzano, 19 febbraio 1984, March, in Giur. merito, 1985, 2, pp. 681 ss., che ha condannato per omicidio colposo un medico psichiatra che non aveva ricoverato un malato psichiatrico, poi suicidatosi, nonostante ne fosse stata fatta richiesta da parte sua e dei suoi familiari e al medico fosse noto un precedente tentativo di suicidio praticato dal paziente. I giudici ritengono sussistente il profilo della colpa, in particolare di una grave imperizia ed imprudenza, sostanziatesi in un inescusabile errore diagnostico (consistente
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Ci s’interroga allora su quale possa essere il punto di riferimento
della valutazione giudiziale in merito al profilo della prevedibilità. Si è
già evidenziato come, aderendo ad un’interpretazione ampia del
concetto di prevedibilità, si finirebbe inevitabilmente per dilatare a
dismisura i confini della colpa professionale dello psichiatra,
soprattutto considerando che sussiste sempre la possibilità astratta che
una persona, specie se presenta delle alterazioni comportamentali di
carattere psichiatrico, compia un’aggressione, un omicidio o un
suicidio154. Poiché il giudizio prognostico non può essere ancorato a
parametri certi, “la diagnosi di pericolosità risulterà tanto meno
aleatoria, quanto più il pericolo di comportamenti antigiuridici sia
concretamente incombente” 155 . Il giudizio di prevedibilità dovrà
pertanto fare riferimento non alla generica possibilità del verificarsi di
un evento lesivo, ma alla probabilità o seria possibilità che in una
determinata circostanza fattuale si verifichi quello specifico evento
lesivo, secondo un giudizio di adeguatezza oggettivo ex ante156.
3.2.2. Tra possibilità di prevedere l’evento e “arte divinatoria”: la
necessaria ricerca di un punto di equilibrio
Pur nella consapevolezza di non poter pretendere una
“profezia” 157 da parte del terapeuta è possibile circoscrivere –
nell’ambito della casistica giurisprudenziale – delle ipotesi in cui
sussistono ragionevoli margini di prevedibilità dell’evento lesivo.
nell’aver scambiato per un mero stato di ansia una grave sindrome depressiva). 154 JOURDAN S., La responsabilità dello psichiatra per le azioni violente compiute dal paziente: prevedibilità dell’evento e possibilità di evitarlo, cit., p. 113. 155 FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 110. 156 FORTI G., Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, pp. 499 ss. 157 DELL’ACQUA P., Se la diagnosi non è una profezia, in Aut Aut, n. 357/2013, pp. 59 ss.
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La prevedibilità dovrà essere relazionata in primo luogo alla
gravità della sindrome diagnosticata, con la conseguenza che un’errata
diagnosi in termini qualitativi o quantitativi potrà costituire la base
dell’errore prognostico. Il momento diagnostico e quello prognostico
sono, infatti, interconnessi: la mancata previsione di una determinata
azione del malato può derivare da una condotta colposa del medico
(imputabile a imperizia, imprudenza o negligenza) che abbia
sottostimato la gravità del quadro clinico del paziente o non abbia
correttamente individuato la patologia.
In secondo luogo il giudizio predittivo non può prescindere
dall’apprezzamento dei comportamenti precedentemente manifestati
dal malato psichiatrico. Le peculiarità del soggetto e le vicende
personali pregresse possono infatti rappresentare un’autonoma fonte di
rischio per l’incolumità del paziente158. Nel caso in cui vi siano stati
numerosi e reiterati precedenti tentativi suicidari o aggressioni nei
confronti di terzi, si potrà plausibilmente ritenere che il malato
psichiatrico in cura sia un “soggetto ad alto rischio” e questa
circostanza dovrà mettere in allerta il terapeuta rispetto alla probabile
reiterazione dei comportamenti già manifestati. Il profilo della
prevedibilità dovrà invece essere valutato diversamente nel caso in cui
il quadro clinico del paziente non sia altrettanto preoccupante, per
esempio perché questi abbia da molto tempo desistito da
comportamenti lesivi di ogni genere o non ne abbia mai manifestati in
concreto. In una simile ipotesi, infatti, il verificarsi dell’evento lesivo
dovrà considerarsi di difficilissima prevedibilità da parte del medico:
anche laddove dovesse riscontrarsi una connessione tra la patologia
psichica e il gesto auto o eteroaggressivo del malato si dovrebbero
comunque escludere gli estremi di una colpa medica (salvo il caso in 158 In questo senso: Trib. Como, 13 novembre 2000, n. 2831/00, cit., pp. 910 ss., in cui si desume la prevedibilità dell’evento suicidario dalla possibilità di dedurre da ciascun tentativo di suicidio un incremento statistico della probabilità di reiterazione dell’evento (rischio attestato peraltro dalle pubblicazioni scientifiche dello stesso psichiatra imputato).
77
cui la gravità della malattia o le intenzioni espresse dal paziente
costituiscano da sole e a prescindere dai comportamenti precedenti,
concreti segnali d’allarme).
In terzo luogo potrà talora riscontrarsi un livello abbastanza
elevato di prevedibilità dell’evento lesivo nel caso in cui il malato sia
stato sottoposto ad un determinato trattamento farmacologico e nella
letteratura scientifica o nelle informazioni accluse ai farmaci prescritti
vi siano indicazioni in merito agli effetti collaterali della terapia
praticata o a quelli di un’inadeguata tempistica nella sua
somministrazione o interruzione. Nel caso degli antidepressivi, per
esempio, è nozione consolidata come uno dei primi effetti della terapia
farmacologica consista proprio nella rimozione del blocco
psicomotorio, consentendo al paziente il recupero dell’energia
compromessa dalla sindrome depressiva. Di conseguenza nella prima
fase della somministrazione dei farmaci (c.d. fase di latenza del
trattamento farmacologico) mentre permangono inizialmente i sintomi
depressivi, al contempo la disinibizione dello stato inerziale del
paziente può tradursi nell’attuazione dell’ideazione autolesiva 159 .
Questo comporta la necessità da parte del medico innanzitutto di
rendere edotto il paziente del rischio specifico connesso alla
somministrazione del farmaco ed in secondo luogo di modularne
adeguatamente la posologia, eventualmente abbinandola ad altri
farmaci che possano controbilanciare questi effetti collaterali (molto
frequente nella prassi è la prescrizione di un farmaco ansiolitico).
Partendo dagli studi statistici ed epidemiologici, parte della
dottrina ha ipotizzato la sussistenza di margini di prevedibilità degli
eventi suicidari tramite specifici criteri di valutazione del rischio
159 In giurisprudenza osservazioni di questo carattere si leggono in: Trib. Como, 13 novembre 2000, n. 2831/00, cit., pp. 907 ss. con nota di MASPERO M., Mancata previsione di evento suicidiario e responsabilità dello psichiatra: creazione di un "Fuzzy set” o rivelazione di un ossimoro?.
78
elaborati in campo medico-legale160. Altre voci dottrinali hanno invece
aspramente criticato il ricorso ai dati epidemiologici (che spesso si
riscontra in giurisprudenza): si è argomentato che, ai fini del giudizio
di prevedibilità nei confronti del comportamento suicidario “non
possono essere considerate condizioni iniziali rilevanti, i risultati
statistici delle indagini epidemiologiche perché trattasi di giudizi di
valore privi di concretizzazione, non i dati patologici delle diagnosi
psichiatriche, perché notevolmente limitate, non i comportamenti del
paziente perché contraddittori, e infine non i risultati dei test
diagnostici perché soggetti ad una forte tensione interpretativa.”161 Pur
prendendo atto della limitatezza che ciascuno di questi contributi
conoscitivi possa apportare ai fini della previsione dell’evento
autolesivo, non sembra condivisibile un’opinione così tranchant,
poiché la sinergia dei singoli elementi o l’atteggiarsi di uno di assi in
termini particolarmente indizianti in direzione della probabile
attuazione da parte del malato psichiatrico di gesti inconsulti dovrà
necessariamente essere considerato dal medico ai fini del giudizio
predittivo.
160 CAROLI F.-GUEDJ M., Le suicide, Paris, 1999, p. 41 ss.; ZIMMEKMANN C.-TANSELLA M., Epidemiologia dei disturbi psichiatrici nella popolazione generale. Le esperienze ed i risultati italiani, in Epid. e Psich. Soc., 1994, vol. III, p. 5. Dalle statistiche epidemiologiche si ricava che più del 90% di coloro che pongono in essere gesti suicidari presentano una malattia psichiatrica suscettibile di diagnosi al momento del compimento dell’atto (di norma di carattere depressivo); che nel 66% dei casi l’autore di gesti autolesivi risulta aver consultato un medico nel mese prima e che, nell’anno precedente, il 44% dei casi è stato trattato per un disturbo mentale: GIROLAMI P.-JOURDAN S., Lo psichiatra e il suicidio del paziente. Viaggio attraverso le categorie giuridiche delle “obligations de sécurité” e degli “obblighi di protezione”, in Riv. it. med. leg., 1, 2001, p 60. Contra in dottrina sull’imprevedibilità del suicidio vd. : CASSANO G.B., E liberaci dal male oscuro, Milano, 1993, p. 187; PORTIGLIATTI BARBOS M., La responsabilità professionale dell'operatore di salute mentale: profili medico-legali, cit., pp. 59 ss. 161 MASPERO M., Mancata previsione di evento suicidario e responsabilità dello psichiatra: creazione di un "Fuzzy set” o rivelazione di un ossimoro?, cit., p. 921.
79
In sintesi, lo psichiatra dovrà compiere in primo luogo un
ragionamento astratto (basato sulla letteratura medica più accreditata,
sulle statistiche epidemiologiche e sulla casistica in materia) in merito
alla probabilità di verificazione di un determinato evento lesivo come
conseguenza della specifica patologia diagnosticata; in secondo luogo
dovrà vagliare quanto questo rischio sia incrementato o attenuato dalle
peculiarità del caso clinico sottoposto alla sua analisi (alla luce della
condotta pregressa del paziente e delle terapie somministrate), dovrà
cioè effettuare un giudizio di prevedibilità in concreto.
In conclusione le affermazioni dottrinali che escludono a priori la
prevedibilità dell’evento lesivo in base al mero rilievo delle incertezze
intrinseche del sapere psichiatrico risultano semplicistiche e non
persuasive. Si è scritto: “la verità è quella che tutti intuiamo: quando
un paziente depresso ha veramente deciso di suicidarsi non c'è niente
da fare, finirà col farlo; nessuna entità di contenzione fisica, attenta
osservazione o abilità clinica può fermare il paziente realmente
determinato a suicidarsi”, giacché “il suicidio del depresso molte volte
è imprevedibile ed è assolutamente non segnalato anzi dissimulato” e
“le idee suicidarie sono spesso tenute nascoste accuratamente, fino a
quando è troppo tardi per chiunque intervenire e prevenire.” Tali
affermazioni, ove accolte, finirebbero per abbandonare fatalisticamente
il malato psichiatrico alla sua sorte di autodistruzione, senza peraltro
considerare la sottile linea di confine che separa, in materia
psichiatrica, l’atteggiamento libertario da quello dell’indifferenza. Una
simile impostazione concettuale, inoltre, non è condivisibile in primo
luogo perché la nozione di evento da considerare per valutarne la
prevedibilità (secondo il condivisibile punto di vista della dottrina
maggioritaria) non è quella di genere di evento ma di evento concreto,
alla luce delle specifiche circostanze di tempo, di luogo e di modo. In
secondo luogo, se è vero che in moltissimi casi l’evento lesivo si
atteggia come effettivamente imprevedibile (e allo psichiatra non potrà
80
ascriversi alcun tipo di responsabilità, venendo meno lo stesso
requisito della colpa), ve ne sono altri – in base a quanto si è detto – in
cui sussistono concrete possibilità di previsione delle stesso. Da ciò
consegue l’impossibilità di parlare in astratto di prevedibilità o
imprevedibilità degli atti auto ed eteroaggressivi del malato
psichiatrico, non potendosi prescindere dall’apprezzamento del caso
concreto.
3.2.3. La prevedibilità degli atti auto ed eteroaggressivi del
paziente nella casistica giurisprudenziale
Una delle ipotesi menzionate in cui s’individuano non di rado
ragionevoli margini di prevedibilità dell’evento lesivo (e che ricorre
frequentemente in giurisprudenza) è quella dell’inadeguata
prescrizione del farmaco.
Come qualsiasi medico che abbia provocato un danno alla salute
del paziente violando colposamente le regole cautelari nella
prescrizione farmacologica (in termini qualitativi e quantitativi) dovrà
risponderne in sede civile e penale, lo stesso dovrà fare lo psichiatra.
Questo discorso vale non solo nel caso in cui l’inadeguata prescrizione
farmacologica sia eziologicamente connessa al gesto di auto o
eterolesività del malato, ma a fortiori in quello in cui essa stessa abbia
provocato un danno alla salute. In questo senso sembra orientata una
recente pronuncia di legittimità162, che ha confermato la condanna in
grado di appello di uno psichiatra per lesioni colpose gravi (consistenti
nella causazione di sintomi quali sonnolenza, incubi, allucinazioni,
emicrania, depressione, eccitabilità). Secondo la ricostruzione della
Corte, infatti, i disturbi accusati dalla paziente sarebbero riconducibili
162 Cass., 24 giugno 2008, 37077, in Cass. pen. 2009, 6, pp. 2381 ss. con nota di ROIATI.
81
alla prescrizione off-label163 di un medicinale antiepilettico in dosaggi
superiori a quelli normalmente prescritti, nell’ambito di un terapia
relativa alla cura dell’obesità. Secondo il ragionamento della Corte, la
colpa medica deriverebbe non dalla scelta della prescrizione off-label
(astrattamente adeguata nel caso di specie, stante l’origine psichica
dell’obesità della minorenne in cura e l’esistenza di pubblicazioni
scientifiche relative all’effetto collaterale anoressizzante del farmaco
epilettico), ma dalla violazione delle regole cautelari che il medico
avrebbe dovuto rispettare nel caso concreto. In particolare lo
psichiatra, oltre ad effettuare un accurato bilanciamento tra i costi e i
benefici prevedibili nell’ambito della somministrazione off-label,
avrebbe dovuto monitorare accuratamente gli effetti collaterali della
terapia somministrata, specie in considerazione della sua natura off-
label. Si contesta dunque al terapeuta di aver disposto telefonicamente
l’incremento del dosaggio iniziale, senza neppure effettuare una nuova
163 Questa espressione è riferibile a due ipotesi: quella in cui il farmaco sia prescritto per un’indicazione terapeutica diversa da quella contenuta nell’autorizzazione ministeriale d’immissione in commercio (e contenuta nel foglietto illustrativo accluso alla confezione) e quella in cui pur essendo autorizzata l’indicazione terapeutica non lo è la via o la modalità di somministrazione prescelta. A livello legislativo i presupposti di liceità del trattamento off- label si rinvengono nell’art. 3, comma 2 della cd. Legge Di Bella (l. 8 aprile 1998, n. 94), che menziona: 1) l’impossibilità di un trattamento utile in label (la prescrizione off- label ha dunque funzione sussidiaria) 2) la conformità del trattamento off label a pubblicazioni accreditate internazionalmente (requisito che, avendo suscitato numerose critiche per l’indeterminatezza e la controvertibilità della nozione, è stato tacitamente abrogato dalla l. 244/2007, che subordina la prescrizione off label alla disponibilità delle risultanze di studi clinici di seconda fase che evidenzino gli effetti propri e collaterali del farmaco interessato) 3) Il consenso informato del paziente. Un singolare precedente giurisprudenziale in materia di prescrizione di farmaci off label è quello del Tribunale di Pistoia, Sez. dist. Monsumanno Terme, 24 novembre 2005, Marazziti, in Guid. dir., 2008, 45, pp. 77 ss., che condanna uno psichiatra a titolo di lesioni dolose per il danno alla salute procurato alla paziente imputabile dagli effetti collaterali del trattamento farmacologico, in merito ai quali la stessa non era stata adeguatamente edotta. Per invocare una responsabilità di carattere doloso si è discutibilmente ritenuto che la consapevolezza del medico di agire in assenza di un valido consenso potesse integrare il dolo generico di cui all'art. 582 c.p.
82
visita per valutare le ragioni della mancata reazione da parte della
paziente al dosaggio inferiore prescritto.
In uno dei casi più discussi e commentati in materia (Cass. pen.,
Sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795, Pozzi)164 – che si approfondirà
nel prosieguo – i giudici si soffermano specificatamente sul problema
relativo alla prevedibilità del comportamento aggressivo del paziente
conseguente all’errato trattamento farmacologico. Nel ricorso si era
infatti obiettato come nel caso di specie, la prevedibilità non fosse stata
accertata in concreto dai giudici dei gradi precedenti, ma
presuntivamente ricollegata alla mera esistenza della patologia.
Riassumendo la vicenda: si contestava al medico psichiatra di aver
colposamente agevolato la condotta aggressiva del suo paziente
(affetto da schizofrenia paranoide cronica) tramite un’inadeguata
riduzione e sospensione del farmaco neurolettico somministrato. Tale
scelta è stata giudicata dalla Corte di legittimità contraria alle leges
artis mediche ed eziologicamente collegata allo scompenso psicotico
acuto del paziente, a sua volta ritenuto causalmente connesso al tragico
episodio verificatosi, consistente nell’omicidio di un operatore della
struttura sanitaria (al quale il malato – nella sua dispercezione psicotica
– attribuiva la morte di due degenti a lui particolarmente care).
Secondo i giudici, nel caso concreto sussisteva la possibilità (alla
stregua del criterio dell’homo eiusdem professionis et condicionis) di
prevedere il verificarsi dell’evento etero-aggressivo, alla luce della
gravità del quadro clinico del malato, connotato da gravi disturbi
comportamentali, episodi di aggressività etero-diretta e deliri di
persecuzione. Per corroborare la prevedibilità dell’evento lesivo, nelle
motivazioni della sentenza si rileva che, dal momento
dell’instaurazione del rapporto terapeutico fino a quello della decisione
di ridurre la posologia, si erano verificati almeno tre episodi
sintomatici del rischio poi effettivamente concretizzatosi. Si legge tra 164 Cass. pen., Sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795, Pozzi, in Cass. pen., cit,. 4638 ss.
83
le argomentazioni: “È infatti possibile che, se la terapia non fosse
mutata, si sarebbero potuti verificare in futuro altri episodi di
scompenso; ma lo scompenso che si è in concreto verificato è stato
eziologicamente ricollegato — in base all’evidenza disponibile ed in
particolare agli accertamenti peritali — al mutamento terapeutico, si è
manifestato come conseguenza prevista e prevedibile di questo
mutamento e non costituisce quindi uno degli episodi statisticamente
possibili di inefficacia del farmaco” (corsivo assente nel testo della
sentenza). In un altro punto si afferma: “se dunque è stato accertato nel
giudizio di merito che la patologia da cui era affetto M. era idonea, se
incongruamente trattata — ed in particolare con una diminuzione e
sospensione del trattamento farmacologico in atto senza la gradualità
richiesta — ad esasperare le manifestazioni di aggressività nei
confronti di terzi, ne consegue che la prevedibilità dell’evento sia stata
logicamente affermata.”
Mentre – come si vedrà – alcuni snodi argomentativi della
sentenza destano perplessità, non sembrano invece contestabili le
osservazioni concernenti il profilo della prevedibilità dell’evento etero-
aggressivo. Si può infatti ritenere che la Corte non sia incorsa nel
rischio di desumerla sic et simpliciter dalla patologia psichiatrica del
paziente, ma che abbia invece correttamente vagliato il requisito della
prevedibilità (ai fini del riconoscimento delle regole preventive di
diligenza), non in astratto ma in concreto, alla luce della gravità dei
sintomi di allarme e della pericolosità della scelta terapeutica effettuata
dallo psichiatra165.
Passando alla questione della prevedibilità degli atti
autoaggressivi del paziente (e di come essa sia stata trattata dal
formante giurisprudenziale), si può in primo luogo osservare come i
gesti autolesivi siano, a differenza di quelli eteroaggressivi,
statisticamente molto più frequenti nei soggetti affetti da determinate 165 CINGARI F., Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente, cit., p. 454 ss.
84
patologie psichiatriche (le sindromi depressive in primis) rispetto alle
persone che non lo siano. Si può di conseguenza ritenere che il medico
debba valutare con particolare attenzione questa circostanza nel
formulare un giudizio predittivo sull’evento autoaggressivo
(integrandola chiaramente con le peculiarità del quadro clinico del
paziente in cura).
Un caso giurisprudenziale (assurto a leading case in materia) che
risulta particolarmente interessante in merito al profilo della
prevedibilità è quello trattato dalla Corte di Cassazione, 6 novembre
2003, Guida 166 . La Suprema Corte – confermando i due precedenti
gradi di giudizio – ha affermato la responsabilità per omicidio colposo
del medico psichiatra (direttore di una casa di cura) che aveva
autorizzato l’uscita dalla clinica di una paziente ricoverata in
trattamento sanitario volontario. Nello specifico la donna era stata
affidata ad un’assistente volontaria (priva di preparazione specifica),
alla quale non era stata fornita alcuna previa informazione in merito ai
pregressi tentativi di suicidio delle degente. Nel corso della
permanenza all’esterno della clinica la paziente si è suicidata mediante
defenestrazione dal quarto piano della casa della volontaria (replicando
la stessa identica modalità dei precedenti tentativi). Dalle osservazioni
della Corte sulla prevedibilità della condotta suicidaria si evince come
la donna dovesse essere considerata un soggetto ad altissimo rischio, in
considerazione della natura e della gravità della patologia diagnosticata
e dei tre pregressi tentativi auto soppressivi167, messi in atto nel
periodo immediatamente precedente rispetto al tragico evento e che
avevano costituito, peraltro, la ragione della decisione del familiari e
della paziente stessa di ricorrere ad un ricovero in clinica privata.
166 In Dir. pen. proc., cit., pp. 1143 ss. 167 La ricostruzione effettuata nei gradi precedenti di giudizio aveva inoltre evidenziato la sicura serietà delle intenzioni della paziente, escludendo il mero intento dimostrativo dei tentativi di suicidio.
85
Le motivazioni poste dai giudici alla base dell'imputazione penale,
assieme a quelle della prevedibilità ed evitabilità dell’evento in
concreto verificatosi, mediante una condotta alternativa possibile ed
esigibile dal terapeuta (nello specifico consistente quanto meno nella
trasmissione di un quadro conoscitivo completo sull’effettiva
condizione della paziente all’assistente volontaria) sono: la
configurabilità di un dovere di sorveglianza in capo allo psichiatra,
anche al di fuori del TSO; la sussistenza del nesso di causalità tra la
condotta del medico e l’evento lesivo (assunto aspramente criticato
dalla dottrina, ma condivisibile alla luce di quanto si dirà tra breve);
l'esclusione del “principio di affidamento” (ossia il principio in base al
quale ogni consociato può confidare nella circostanza che ciascun altro
si comporti conformemente alle regole precauzionali riferibili
all’agente modello relativo all’attività svolta)168.
Si può affermare – alla luce degli elementi abbozzati – che anche
in questo caso la Corte di legittimità abbia valutato correttamente il
profilo della prevedibilità dell’evento lesivo (in questo caso il suicidio
della paziente), essendo essa sia insita nella grave forma depressiva di
cui soffriva la vittima sia desumibile dalle peculiarità del suo quadro
clinico.
Gli esempi proposti, tratti dalla casistica giurisprudenziale, vanno
a corroborare la fondatezza di quanto si è affermato nel paragrafo
precedente: nonostante la sicura difficoltà nell’effettuare un giudizio
168 La Corte osserva – in merito a questo principio – che esso non è invocabile “allorché l’altrui condotta imprudente, ossia il non rispetto da parte di altri delle regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente che viene in questione, si innesti sull’inosservanza di una regola precauzionale da parte di chi invoca il principio: ossia allorché l’altrui condotta imprudente abbia la sua causa proprio nel non rispetto delle norme di prudenza, o specifiche o comuni, da parte di chi vorrebbe che quel principio operasse (Cass., Sez. IV, 29 aprile 2003, P.G. Torino ed altri in proc. Morra)” e che una simile situazione si sia verificata puntualmente nel caso di specie e che questa circostanza sia “indubitabile a fronte della rilevata mancanza di adeguato preavvertimento della volontaria, cui la paziente era affidata, circa le condizioni di questa, di cui pure il prevenuto era ‘garante’”.
86
prognostico in merito ai possibili comportamenti del paziente, sarebbe
riduttivo ritenere che non vi siano casi in cui possano individuarsi
significativi margini di prevedibilità. Il giudizio predittivo, nell’ipotesi
in cui siano presenti dati statistici ed epidemiologici rilevanti sulla
correlazione tra determinati tipi di condotte e la malattia diagnosticata,
dovrà necessariamente includere tali dati nella valutazione
complessiva (per integrarli con le peculiarità del caso di specie, come
puntualmente fatto dai giudici nel caso appena esaminato); nell’ipotesi
in cui dalle conoscenze mediche più accreditate e dai dati reperibili
non si evinca invece una particolare correlazione tra la malattia
riscontrata nel paziente e comportamenti lesivi (come essenzialmente
accade per gli atti eteroaggressivi) il giudizio prognostico non potrà
che fare leva soprattutto sulle caratteristiche del caso specifico
considerato, sulla gravità del quadro clinico e sui segnali d’allarme
provenienti dal paziente169 (com’è stato fatto nel caso Pozzi). In
quest’ultima ipotesi il giudizio predittivo si atteggerà indubbiamente
come più arduo rispetto a quella dei gesti autolesivi, ma non si può
astrattamente escludere anche in tal caso la sua praticabilità.
3.2.4. I potenziali fattori distorsivi nella fase dell’accertamento
giudiziale della colpa professionale
Una tappa imprescindibile nell’accertamento della colpevolezza è
costituita dalla valutazione della correttezza della condotta tenuta dal
terapeuta per verificare la sua conformità (secondo la prassi
consolidata in ambito giurisprudenziale) al modello comportamentale
dell’homo eiusdem condicionis et professionis. Il reato colposo si
169 Si pensi, oltre alle condotte particolarmente “preoccupati” del malato (come aggressioni compiute o tentate), alle dichiarazioni che lascino presagire specifici intenti aggressivi nei confronti di terzi.
87
sostanzia, infatti, nella realizzazione di un evento tipico a causa
dell’inosservanza delle regole cautelari.
Sembra dunque opportuno – a questo punto dell’analisi –
approfondire la tematica appena introdotta, giacché “il terreno nel
quale il delicato equilibrio tra esigenze del paziente e istanze della
professione medica va indagato, nella ricerca del punto di equilibrio
che segna il passaggio dal lecito all’illecito, non può che essere quello
delle regole cautelari applicabili al caso, con le annesse difficoltà di
definizione contenutistica.”170
La regola cautelare da rispettare nel caso concreto è ricavata da
un’attenta valutazione dei rischi cui la patologia espone il paziente: è,
infatti, l’esigenza di contrastare un determinato rischio, per il paziente
e per i terzi, che circoscrive – sul versante della responsabilità colposa
– le regole cautelari cui deve attenersi il medico171.
Tanto in dottrina quanto in giurisprudenza i tradizionali parametri
d’individuazione delle regole cautelari (al cui rispetto deve attenersi
l’agente) sono fondati sul requisito della prevedibilità dell’evento 170 CUPELLI C., Non tutto ciò che si può si deve anche fare. I rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari: il caso dello psichiatra, cit., p. 227. L’Autore propone un esempio che illustra efficacemente come il vaglio del rispetto delle regole cautelari sia idoneo a delimitare le potenzialità espansive della posizione di garanzia: “Soccorre l’esempio del suicidio di un paziente affetto da turbe mentali e dei margini di responsabilità omissiva ascrivibili al terapeuta. Qualora si arrivi a dimostrare che questi abbia applicato, nell’economia complessiva della specifica valutazione clinica, la terapia più aderente alla condizione del malato ed alle regole dell’arte psichiatrica (ad esempio un trattamento a carattere domiciliare, con somministrazione di farmaci antidepressivi appropriati), potrà dirsi che il medico non avrebbe dovuto comportarsi diversamente da come ha fatto, disponendo una differente iniziativa (pur fattualmente dotata di efficacia impeditiva dell’evento), e concludersi che, non avendo errato nel non averla disposta, non abbia omesso una condotta doverosa.”, p. 239. 171 CASTRONUOVO D.-RAMPONI L., Dolo e colpa nel trattamento medico sanitario, in Le responsabilità in medicina, a cura di BELVEDERE A.- RIONDATO S., in Trattato di biodiritto, diretto da S. RODOTÀ E P. ZATTI, Milano, 2011, p. 947; CUPELLI C., La responsabilità colposa dello psichiatra tra ingovernabilità del rischio e misura soggettiva, in Dir. pen. proc., 9, 2012, p. 1106, il quale evidenzia come da tale circostanza emerga con chiarezza il collegamento tra il perimetro della posizione di garanzia e rischio consentito.
88
lesivo. Tuttavia tali criteri invalsi nella prassi – basandosi su un
parametro così periclitante – non sembrano coordinarsi adeguatamente
con l’ambito di cui si sta trattando, giacché il ricorso a tale criterio per
enucleare il quantum di diligenza richiesta al medico psichiatra
“rischia di condurre alla costruzione di regole cautelari incerte e che
risolvono il conflitto tra l’interesse alla salute del paziente e quello
della collettività in modo troppo sbilanciato a favore di
quest’ultimo.”172
Il processo di decisione giudiziale sull’idoneità del trattamento
terapeutico in concreto praticato (come conforme o non conforme alle
regole cautelari) rischia, infatti, di essere inficiato da diversi fattori
potenzialmente distorsivi, relativi proprio al giudizio predittivo. Il
primo rischio, già evidenziato, è quello concernente l’adozione di un
concetto troppo ampio di prevedibilità, che faccia degradare il giudizio
prognostico alla rilevazione di una minima possibilità che si verifichi
l’evento lesivo. A ben vedere, l’adesione ad una simile impostazione
avrebbe effetti paralizzanti (nell’attuale contesto della medicina
difensiva) non solo nel settore della psichiatria, ma nell’intero ambito
medico, nel quale si registrano sempre profili di potenziale pericolosità
dell’attività terapeutica, che devono tuttavia essere tollerati nell’ottica
del superiore interesse alla salute (sociale e collettiva) e i cui possibili
esiti lesivi non possono costituire la base di una addebito di
responsabilità in capo al medico – anche se eziologicamente connessi
alla sua condotta – laddove questi abbia operato secondo le leges artis
applicabili al caso concreto e disponibili allo stato dell’arte.
Il secondo insidioso meccanismo distorsivo nell’accertamento
della prevedibilità nel campo della responsabilità medica è costituito
dalla c.d. “distorsione del senno di poi” (hindesight bias). Esso
consiste, per la verità, in un fenomeno immanente a qualsiasi giudizio
172 CINGARI F., Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente, cit., p. 453.
89
controfattuale, ma rischia di manifestarsi con particolare virulenza in
quei settori connotati da elevati margini d’incertezza.
Si tratta di una distorsione retrospettiva ed inconsapevole del
giudizio sul passato che è stata studiata nell’ambito della psicologia
cognitiva. Questo fenomeno, messo in luce per la prima volta da
Fischhoff della Carnegie Mellon University 173 , fa sì che dopo il
verificarsi di un determinato evento, questo appaia più probabile di
quanto prima si pensasse che fosse: ciò determina, di conseguenza, che
le persone siano indotte a sovrastimare la propria capacità di prevedere
gli eventi e che ritengano più difficilmente “scusabile” l’assenza di una
simile lungimiranza nel soggetto della cui responsabilità si discute.
Si è osservato in dottrina, in merito alle possibili ragioni alla base di
questo meccanismo, come esso risponda all’esigenza umana di
razionalizzazione degli eventi e come questa sia a sua volta associata
alla ricerca di una rassicurazione dalla minaccia dell’ignoto174. A mo’
di usbergo nei confronti della nube d’incertezza che circonda la genesi
di ciò che accade, si atteggia anche la ricerca di un soggetto su cui
“scaricare” la colpa della verificazione degli eventi (specie se
particolarmente gravi), per non arrendersi alla fatalistica accettazione
del loro fluire175.
Riconducendo questo discorso alla materia oggetto di studio, è
dunque tangibile il rischio – anche considerando la frequente lesione di
beni giuridici del calibro dell’integrità psicofisica o della vita – che il
173 In merito a questo fenomeno nell’ambito della psicologia cognitiva: FISCHHOFF B., Hindsight ≠ foresight: the effect of outcome knowledge on judgment under uncertainty, in Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 1, 1975, pp. 288 ss. Riferimenti ad esso nell’ambito della medicina si leggono in Appendice a KAHNEMAN D., Pensieri lenti e veloci, Mondadori, 2012; FORTI G.-CENTONZE F., Diritto e sapere scientifico in campo sanitario: un progetto di integrazione multidisciplinare, in Riv. it. med. leg., 2011, pp. 921 ss.; DI GIOVINE O., La responsabilità penale del medico: dalle regole ai casi, in Riv. it. med. leg., 2013, 1, pp. 62 ss. 174 MERRY A-MCCALL SMITH A., L’errore, la medicina e la legge, Milano, 2004, p. 231. 175 MERRY A-MCCALL SMITH A., ivi.
90
fenomeno dell’hindesight bias s’innesti nella valutazione giudiziale
della responsabilità dello psichiatra e che l’esigenza di
“colpevolizzazione” trovi sfogo nella responsabilizzazione del singolo
(lo psichiatra), nella ricerca giustizialista di un responsabile su cui
catalizzare le ansie punitive che imperversano a livello sociale. Si è
evidenziato, infatti, come si profili pericolosamente elevato il pericolo
che l’elemento della colpa venga “manipolato” e che si “scarichi” sul
medico il rischio della natura sostanzialmente congetturale del sapere
psichiatrico176.
Il pericolo che si segnala è quello che “i giudici, posti di fronte a
casi drammatici che destano allarme nell’opinione pubblica,
potrebbero cedere alla tentazione di (per dir così) criminalizzare gli
stessi psichiatri, (ri-) trasferendo su di loro compiti di natura
squisitamente “custodialistica” e così “ripristinando” per via
giudiziaria una concezione della malattia mentale, e del relativo
trattamento, che finirebbe col contraddire i nuovi principi ispiratori
della l. 180/78”177.
3.2.5. L’individuazione delle regole cautelari: profili critici e
prospettive di “normativizzazione”
Data la precarietà dell’elemento della prevedibilità nell’ambito
della responsabilità psichiatrica e i fenomeni distorsivi cui si espone,
con inevitabili ricadute sotto il profilo della determinatezza delle
regole cautelari che su tale parametro siano fondate, si è rilevato in
176 BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 2003, p.144. 177 FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, c. 107. L’Autore peraltro evidenzia l’inopportunità che un simile procedimento ermeneutico (che sovrappone le scelte dell’interprete a più univoche scelte legislative) venga condotto invocando la clausola generale dell’art. 40, c.p., così indeterminata da suscitare persino problemi di conflitto con i principi di legalità e tassatività.
91
dottrina come maggiori garanzie possano essere fornite da un modello
alternativo di standardizzazione del rischio, che si basi sulla violazione
di una generalizzata e condivisa regola cautelare di esperienza178.
Secondo questo modello di accertamento della colpa, la misura della
diligenza richiesta al medico psichiatra andrebbe delimitata alla
stregua delle prassi operative consolidate in ambito terapeutico e
diagnostico “praticate ad amplissimo spettro” e “ritenute doverose
dalla cerchia professionale dei medici psichiatri” 179 .
Conseguenzialmente, laddove dovesse verificarsi un evento lesivo, il
rispetto delle regole cautelari affermatesi nella prassi volte a prevenire
quell’evento, dovrebbe escludere l’addebito colposo, poiché sotto il
profilo dell’esigibilità dell’osservanza delle norme comportamentali
non si può pretendere dall’agente di migliorare l’efficacia delle regole
disponibili180. Si potrebbe ritenere in questo senso che ogni volta che
lo psichiatra si sia conformato al dovere oggettivo di diligenza ricavato
dalla regola cautelare, l’evento lesivo non sia a lui rimproverabile,
giacché viene a mancare all’origine una condotta penalmente
rilevante.181
La prospettiva appena presentata sembra condivisibile nella
misura in cui consenta di delimitare un addebito di responsabilità
penale in quei casi in cui, nonostante il medico si sia perfettamente
adeguato alle leges artis, il decorso eziologico degli eventi sia sfuggito
178 CINGARI F., Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente, cit., p. 453. 179 CINGARI F, ivi. 180 GIUNTA F., Normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, pp. 97 ss.; GARGANI A., La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi “esemplari” di responsabilità ex art. 40 comma 2 c.p.;. 181 CUPELLI C., Non tutto ciò che si può si deve anche fare. I rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari: il caso dello psichiatra, cit., p. 239. L’Autore argomenta: “Invero, pur potendosi ravvisare in capo al terapeuta un potere impeditivo fattuale, questo non può assumere rilievo ai fini dell’omesso impedimento dell’evento, mancando il relativo obbligo giuridico di attivarsi in tal senso, in difetto del corrispondente potere normativo di agire”.
92
alle sue possibilità di previsione e controllo e sia eventualmente
sfociato in una tragedia.
Questo discorso introduce tuttavia inevitabilmente l’interrogativo
riguardo all’opportunità e alla praticabilità della canonizzazione delle
suddette regole cautelari, in particolare tramite lo strumento delle linee
guida.
La questione si atteggia in termini particolarmente complessi,
poiché il campo della responsabilità dello psichiatra rappresenta quello
in cui si manifestano con maggiore evidenza i problemi connessi alla
cristallizzazione delle regole cautelari. Difatti, se questa strada
potrebbe sembrare percorribile, per esempio, per quanto riguarda la
prescrizione dei farmaci, non si può trascurare che “l’intervento
farmacologico è solo una parte dell’agire terapeutico che si va
combinare con altri fattori di cura la cui complessità e variabilità è
difficilmente descrivibile in protocolli terapeutici, anche se doverosa
ne è la sistematizzazione e descrizione in termini di operatività ed
efficacia” e che “fattori complessi – relazionali, sociali, contestuali –
non solo sono difficilmente ‘modellizzabili’, ma interagiscono anche
con altri fattori biologici (peraltro sconosciuti perlopiù) in modalità
non sempre prevedibili né riproducibili.”182
L’esigenza di ricorrere alle linee guida nell’ambito della
valutazione della condotta illecita del medico è emersa in seguito alla
constatazione dell’inefficacia, in sede probatoria, dell’affidamento
esclusivo alle valutazioni peritali, che – seppur indispensabile punto di
riferimento per il giudice – presentano l’inconveniente
dell’eterogeneità e della contraddittorietà delle opinioni che possono
182 BORGHETTI S.– ERLICHER A., Linee guida, vincolo normativo o supporto? Ovvero, l’operatore in bilico tra filo d’Arianna e richiamo del pifferaio magico, in DODARO G. (a cura di), La posizione di garanzia degli operatori psichiatrici, cit., p. 160, i quali evidenziano come l’inefficacia dello strumento sia spesso imputabile all’infiltrazione di istanze economicistiche, che ne compromettono la possibilità di perseguire un obiettivo di effettiva tutela della salute del paziente.
93
essere espresse dai diversi periti183. Da questa difficoltà e dalla volontà
di arginare i margini della discrezionalità giudiziale nell’enucleazione
delle regole cautelari applicabili nel caso concreto, è sorta l’esigenza di
raffrontare la ritenuta condotta illecita dell’imputato con dei parametri
più sicuri e dipendenti in misura minore dalla soggettività del singolo
esperto interpellato. Si è fatto dunque ricorso a strumenti che
rappresentano il prodotto dell’intera comunità scientifica, come la
produzione bibliografica più rilevante e accreditata e le linee guida,
che sono il condensato dell’esperienza di carattere specialistico e si
basano sui risultati degli studi di epidemiologia clinica e sulla c.d.
Evidence Based Medicine184.
Negli ultimi anni sempre maggiore attenzione è stata rivolta al
problema della normativizzazione delle regole cautelari, non solo dalla
dottrina e dalla giurisprudenza, ma anche dal legislatore. Fondamentale
in questo senso è l’introduzione, dell’art. 3, comma 1, della l. 8
novembre 2012, n. 189, che prevede che: “l'esercente le professioni
sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee
guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non
risponde penalmente per colpa lieve”.185 L’approfondimento di tutte le
183 Sulla genesi delle linee guida e sulla difficoltà di ricorrere a questo strumento in campo psichiatrico vd.: JOURDAN S., La responsabilità dello psichiatra per le azioni violente compiute dal paziente: prevedibilità dell’evento e possibilità di evitarlo, cit., p. 114, il quale osserva: “Il risultato è stato certamente buono in alcuni ambiti clinici ove le procedure sono abbastanza standardizzate, come per esempio in anestesia o rianimazione e in certe indagini diagnostiche strumentali, ma ha sollevato una serie di altri problemi là dove il trattamento sanitario deve o può discostarsi dalle linee guida per varie ragioni, fra cui la volontà del paziente, la particolarità della situazione o anche la formazione culturale e pratica del medico stesso, in condizioni cliniche nelle quali diversi approcci terapeutici sono consentiti perché non ve n’è uno nettamente prevalente sugli altri nelle aspettative di successo secondo gli studi epidemiologici disponibili.” 184 JOURDAN S., ivi. 185 PAVICH G., Linee guida e buone pratiche come criterio per la modulazione della colpa medica: rilievi all’art. 3 legge n. 189/2012, in Cass. pen., 2013, pp. 902 ss.; IADECOLA G., Brevi note in tema di colpa medica dopo la c.d. legge Balduzzi, in Riv. it. med. leg, 2013, pp. 549 ss.; ROIATI A., Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma o mero placebo?, in
94
perplessità suscitate in dottrina da questa valorizzazione normativa
delle linee guida e delle “buone pratiche” e l’analisi delle ricadute
pratiche della nuova disposizione esorbiterebbero dall’ambito
d’interesse di questo lavoro. Ci si limita dunque a rilevare che, con un
simile intervento, il legislatore abbia inteso perseguire lo scopo (poco
larvato) di arginare il fenomeno della c.d. “medicina difensiva”,
limitando la responsabilità del medico che si sia adeguato ai suddetti
canoni alle sole ipotesi di colpa grave, ma non ha inteso attribuire alle
linee guida un ruolo vincolante nell’accertamento della responsabilità
penale del medico186.
Nella giurisprudenza si riscontra un certo scetticismo nei confronti
dell’effettivo valore da attribuire a simili strumenti, e si ritiene che
essi, alla luce delle ineliminabili peculiarità del caso concreto, pur
contenendo utili indicazioni generali in riferimento al caso astratto,
non esonerino mai il medico dall’esercizio della libertà terapeutica e di
scelta che ne consegue: il terapeuta, laddove ne intraveda la necessità,
dovrà disapplicare le linee guida e i protocolli o farne uso con una
certa elasticità187.
La norma introdotta dal c.d. decreto Balduzzi, stante l’assenza di
clausole di esclusione, è applicabile anche nel settore della
responsabilità psichiatrica. Tuttavia è opportuno rilevare, innanzi tutto,
l’assenza nel nostro ordinamento di linee guida organiche ed emanate
da un ente autorevole come l’American Psychiatric Association
nell’ambito statunitense, tant’è che – come si constaterà – la nostra
giurisprudenza, quando menziona le linee guida, lo fa in riferimento a
quelle prodotte ed utilizzate negli USA. In secondo luogo si rileva
Dir. pen. proc., 2013, pp. 216 ss.; PULITANÒ D., Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, su www.penalecontemporaneo.it 186 CUPELLI C., La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, cit., p. 141 ss. 187 Cass., Sez. IV, 19 settembre 2012, n. 35922, in Dir. pen. proc., 2013, p. 191 ss., con nota di RISICATO L., Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità medico-chirurgica: un problema irrisolto.
95
come la circostanza che la previsione dell’art. 3, comma 1, della l. 8
novembre 2012, n. 189 si riferisca, secondo una condivisibile opzione
interpretativa188, esclusivamente all’ipotesi di imperizia e non anche
alle altre che rientrano nell’alveo della colpa generica (negligenza ed
imprudenza), limiti significativamente la portata applicativa della
norma, soprattutto nel settore de qua, in cui –fatta eccezione per
l’errata prescrizione farmacologica – rilevano molto più
frequentemente le altre due forme di colpa generica.
Inoltre l’impiego di questi strumenti, sia in sede diagnostico-
terapeutica sia in quella giudiziaria (ai fini della valutazione della
responsabilità medica), presenta notevoli asperità applicative
nell’ambito della psichiatria, alla luce della difficoltà di individuare
parametri certi di standardizzazione dei criteri diagnostici e delle prassi
operative.
Un’altra criticità nell’utilizzo delle linee guida (che purtroppo non
riguarda solo il settore in esame) consiste nel fatto che la loro reale
portata applicativa sia non di rado sminuita dalla carenza delle risorse
umane e strutturali possedute dai servizi, che spesso condanna
protocolli e linee guida a rimanere “lettera morta”: si pensi alle
indicazioni relative alla necessità di dispositivi d’allarme o alla
disponibilità di operatori per affiancare uno-a-uno i pazienti a rischio
suicidario (come indicato da alcune raccomandazioni ministeriali)189.
Nonostante questi rilievi, non si può escludere a priori che
l’impiego di protocolli o linee guida possa apportare risultati positivi in
termini di razionalizzazione e divulgazione delle best practices anche
in ambito psichiatrico 190 , ma occorre prendere atto che la
188 RISICATO L., ibidem, p. 203; PIRAS P., In culpa sine culpa, su www.penalecontemporaneo.it; in giurisprudenza Cass., Sez. IV, 11 marzo 2013, n. 11493, in Guida dir., 17, 2013, pp. 27 ss., con nota di BELTRANI S. 189 BORGHETTI S.– ERLICHER A., Linee guida, vincolo normativo o supporto? Ovvero, l’operatore in bilico tra filo d’Arianna e richiamo del pifferaio magico, cit., pp. 158 ss. 190 BORGHETTI S.– ERLICHER A., ibidem, p. 161 rilevano come l’adozione di linee guida scientificamente forti ed autorevolidebba passare attraverso la
96
standardizzazione della lex artis non può che costituire solo una base
di riferimento per l’atto medico, che non può che essere adattato alla
specifica situazione patologica del paziente.191
D’altra parte il ricorso alle linee guida non varrebbe a risolvere il
problema dell’enucleazione di regole cautelari univoche. Tali fonti,
infatti, non sono sufficienti a rendere lecita una prassi medica e ad
escludere pro futuro un addebito per colpa nei casi in cui “il medico
avrebbe potuto (anzi, dovuto) fare di più: calare nel caso concreto
l’asettica indicazione scritta, vagliarne l’attendibilità e la rispondenza
alle esigenze della specifica situazione patologica da fronteggiare, in
combinato con le ulteriori istanze personalistiche del malato di mente”
con la conseguenza che "si torna così alla necessità di richiamare
parametri generici, che colmino ed integrino la fonte scritta,
ineliminabili nella connotazione delle regole dell’arte medica, ma
anche insuscettibili di cristallizzazione una volta per tutte.”192
produzione da parte di società scientifiche riconosciute, piuttosto che l’utilizzo e la produzione di linee guida interne, “personalizzate” o formulate e richieste dagli amministratori. 191 PALAZZO F., Causalità e colpa nella responsabilità medica (categorie dogmatiche ed evoluzione sociale), in Cass. pen., 2010, pp. 1235 ss. 192 CUPELLI C., La responsabilità colposa dello psichiatra tra ingovernabilità del rischio e misura soggettiva, cit., p. 1108.
97
3.3. LE DIFFICOLTÀ PROBATORIE NELL’ACCERTAMENTO DEL
NESSO DI CAUSALITÀ
3.3.1. Inquadramento sistematico del problema tra causalità
attiva ed omissiva. Il fondamento ideologico della responsabilità
omissiva e i rischi di una sua indebita espansione
L’accertamento del nesso di causalità costituisce il vero e proprio
punctum dolens di ogni sentenza in materia di responsabilità dello
psichiatra. Questo profilo è molto complesso in tutti gli ambiti della
responsabilità medica, ma anch’esso – al pari degli altri nodi
problematici su cui ci si è soffermati – assume una colorazione del
tutto peculiare nella materia de qua. La questione ha assunto una
dimensione di particolare complessità all’indomani della riforma,
poiché, una volta divelta dall’ordinamento la presunzione assoluta di
pericolosità del paziente psichiatrico, è venuto a cadere “il rapporto di
stretta causalità tra malattia mentale ed eventuale aggressività del
malato, e viene anche a cadere il nesso di causalità fra il fare e il non
fare dello psichiatra ed eventuali atti auto o eteroaggressivi del
paziente, perlomeno un nesso causa-effetto che sia medico-legalmente
corretto o dimostrabile.”193
L’addebito di una responsabilità penale non può chiaramente
prescindere dalla verifica della sussistenza del nesso eziologico che
“va individuato dal giudice attraverso il processo razionale della
motivazione non potendo rimanere assorbito o identificato nella
posizione di garanzia né potendo essere fatto automaticamente
193 REALDON A. (1980), Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente, in Riv. it. med. leg., 1980, pp. 10-11.
98
scaturire da essa o, addirittura dalla semplice verificazione
dell’evento.”194
La causalità funge, infatti, nel nostro ordinamento da criterio
d’imputazione oggettivo del fatto al soggetto e va a comprovare il
legame non solo tra l’agente e l’azione ma anche tra lo stesso e il
risultato esterno richiesto dalla fattispecie incriminatrice195. Ai fini
dell’addebito di una responsabilità penale, occorre dunque dimostrare,
constata un’azione o un’omissione colposa del terapeuta, che se il
medico si fosse attenuto ad una condotta alternativa esigibile nel caso
concreto196 l’evento lesivo sarebbe stato evitato con un elevatissimo
grado di probabilità, e questo accertamento “implica a sua volta la
dimostrazione del fatto che il medico aveva strumenti idonei a
prevenire o impedire l’azione violenta del paziente, che li poteva
legittimamente usare, che aveva il dovere giuridico di farlo e che gli
stessi avrebbero, quasi sicuramente, funzionato.”197
Il problema del rapporto di causalità penalmente rilevante peraltro
emerge solo nel campo dei “reati di evento”, che tipicizzano un evento
esteriore come concettualmente e fenomenicamente separabile
194 BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, cit., p. 144. Una sovrapposizione tra il piano della titolarità della posizione di garanzia e quello della causalità si riscontra in: Cass. Pen., IV, 5 maggio (1 luglio) 1987, Bondioli, cit., c. 107. 195 FIANDACA G., Causalità (voce), cit., p. 120. 196 In giurisprudenza si legge: “il profilo soggettivo e personale della colpa viene generalmente individuato nella capacità soggettiva dell’agente di osservare la regola cautelare, nella concreta possibilità di pretendere l’osservanza della regola stessa, in una parola nella esigibilità del comportamento dovuto. Si tratta di un aspetto che può essere collocato nell’ambito della colpevolezza, in quanto esprime il rimprovero personale rivolto all’agente.” (Cass. pen., SS. UU., 24 aprile 2014 (18 settembre 2014), n. 38343, ThyssenKrupp, cit.) 197 JOURDAN S., La responsabilità dello psichiatra per le azioni violente compiute dal paziente: prevedibilità dell’evento e possibilità di evitarlo, cit., pp. 113-114.
99
dall’azione198: questo è l’ambito che rileva nella maggior parte dei casi
in materia di responsabilità penale dello psichiatra.
L’analisi del nesso eziologico nella materia de qua è di grande
complessità non solo in virtù delle incertezze che connotano questa
branca della medicina, ma “a renderne complicato l’accertamento è il
fatto che occorre misurarsi con la c.d. causalità psichica, rispetto alla
quale anche il c.d. modello bifasico cristallizzato nella sentenza
Franzese199 rischia di entrare in crisi.”200
L’accertamento del nesso causale risulta estremamente
problematico sia nelle ipotesi omissive che commissive (come, per
esempio, errata diagnosi; prescrizione di un dosaggio farmacologico
non idoneo a contenere le manifestazioni di aggressività del paziente o
interruzione ex abrupto del trattamento; dimissione anticipata di un
paziente in trattamento sanitario obbligatorio). Queste ultime non sono
peraltro meno frequenti rispetto a quelle omissive, benché sia
riscontrabile in giurisprudenza la tendenza a confondere o sovrapporre
le due forme di responsabilità, anche nei casi in cui un’osservazione
del profilo strettamente naturalistico dovrebbe indurre più
correttamente a ritenere la condotta attiva201.
L’omissione, essendo una condotta priva di una dimensione fisica,
non può manifestarsi nel mondo esterno come energia da cui
198 FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1985, 101. 199 Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002. Franzese, in Dir. pen. proc., cit., pp. 58 ss. 200 CINGARI F., Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente, cit., p. 442. 201 In merito alla confusione tra i due profili che si riscontra in numerose sentenze in materia: CUPELLI C., La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, cit., p. 27. L’Autore evidenzia che talora condotte attive ed omissive s’intrecciano a loro volta nello svolgimento concreto dell’evento, rendendo difficile individuare il discrimen tra i due profili. Si osserva giustamente in giurisprudenza (Cass. pen., SS. UU., 24 aprile 2014 (18 settembre 2014), n. 38343, ThyssenKrupp, cit.): “occorre considerare che noi solitamente ragioniamo come se tra causalità commissiva e omissiva vi fosse un confine netto. Si tratta invece di una mera semplificazione della realtà.”
100
scaturiscono processi causali reali: da ciò consegue che ciò che viene
imputato all’omittente non è di aver cagionato materialmente un
evento lesivo, quanto piuttosto di non averne impedito la
verificazione 202 . Si rileva efficacemente in un’importante e
recentissima sentenza delle Sezioni Unite che “nei reati omissivi […],
dal punto di vista naturalistico, si è in presenza di un nulla, di un non
facere” e che di conseguenza “la condotta doverosa che avrebbe potuto
in ipotesi impedire l’evento deve essere rigorosamente descritta,
definita con un atto immaginativo, ipotetico, fondato precipuamente su
ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando
anche le specificità del caso concreto.”203
Il reato omissivo presuppone necessariamente la sussistenza
dell’obbligo giuridico di attivarsi in tal senso: tale circostanza rende
chiaramente l’accertamento della responsabilità omissiva ancora più
arduo rispetto a quello della responsabilità commissiva, specie in un
ambito come quello in esame, in cui si riscontrano molteplici ed
eterogenee posizioni sulla delimitazione agli obblighi del terapeuta. Se
la causalità omissiva medica204 rappresenta, secondo l’insegnamento di
Mantovani, la punta più tormentosa della causalità omissiva, si può
ben affermare che la causalità omissiva in campo psichiatrico
rappresenta la punta più tormentosa della causalità omissiva medica.
Il fondamento ideologico della responsabilità omissiva consiste
nel principio di solidarietà sociale, espresso dall’art. 2 Cost., il quale
esige che talora determinati soggetti non debbano limitarsi ad astenersi
dal ledere determinati beni giuridici, ma debbano anche attivarsi in
favore della tutela degli stessi (stante il più elevato grado di tutela che
202 FIANDACA G., Causalità (voce), cit., p. 126. 203 Cass. pen., SS. UU., 24 aprile 2014 (18 settembre 2014), n. 38343, ThyssenKrupp, cit. 204 Sull’accertamento del nesso di causalità in materia omissiva: PALIERO C.E., La causalità nell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, pp. 821 ss.; nello specifico ambito medico: VIGANÒ F., Riflessioni sulla cd. “causalità omissiva” in materia di responsabilità medica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, pp. 1679 ss.
101
l’ordinamento intende fornire ai suddetti beni). Si rileva, infatti, che
“mentre il diritto penale dell’azione reprime il male, il diritto penale
dell’omissione persegue il bene”205.
La formulazione di fattispecie omissive parte dalla considerazione
della peculiare debolezza di determinati soggetti. Si osserva, infatti,
che “è un bisogno ineluttabile della moderna vita sociale che a certi
soggetti venga affidato il compito di prevenire i pericoli che
minacciano certi beni, che essi divengano istanze di protezione di tali
beni, garanti dell’impedimento dei possibili eventi lesivi” e che “ciò
appare come il correlato della – totale o parziale – incapacità dei
titolari degli interessi in questione di proteggerli adeguatamente.”206
Se da una parte la pervasività del principio di solidarietà tende ad
ampliare i confini della responsabilità omissiva, tale vocazione
espansiva è controbilanciata dal principio di eccezionalità dei reati
omissivi, stante la loro maggiore interferenza nella sfera di libertà del
soggetto rispetto a quelli commissivi207.
Prendendo atto di questa ingombrante ingerenza, è più che mai
opportuno che il procedimento di accertamento della responsabilità per
i reati omissivi sia prudentemente ancorato alle circostanze presenti al
momento del fatto e conoscibili ex ante (in ossequio al criterio della
c.d. prognosi postuma o ex ante in concreto).
In base alla più matura elaborazione dottrinale il problema della
causalità omissiva è oggi impostato nei seguenti termini. Ai fini
dell’accertamento del nesso condizionalistico (stante la ormai pacifica
affermazione che il legislatore abbia cristallizzato a livello normativo
nell’art. 40, comma 1, c.p. la c.d. “teoria condizionalistica” o della
“condicio sine qua non”) il criterio da adottare è “il procedimento di
eliminazione mentale” (che vale tanto per la condotta omissiva quanto 205 MANTOVANI F., L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, cit., p. 338. 206 GRASSO G., Il reato omissivo improprio, cit., p. 166. 207 MANTOVANI F., L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, cit., p. 337.
102
per quella attiva)208. Per quanto riguarda l’omissione, l’analisi sul
decorso causale che il giudice deve svolgere è l’accertamento
dell’attitudine impeditiva dell’azione doverosa omessa nei confronti
del verificarsi dell’evento lesivo (cagionato a sua volta dall’azione di
un terzo o da un evento naturale), servendosi di una legge scientifica o
di una regola esperienziale che consenta di asserire che, al ricorrere di
determinati antecedenti, vengono meno effetti del tipo di quello in
concreto verificatosi (giudizio ipotetico o prognostico)209. In sostanza,
l’omissione potrà considerarsi causa dell’evento (non in senso fisico-
naturalistico ma normativo) se non può essere mentalmente sostituita
dall’azione doverosa senza far venir meno l’evento lesivo210.
Partendo dal fondamento solidaristico della nostra costituzione, si
è ipotizzata un’estensione della posizione di garanzia dello psichiatra
volta a comprendere anche la prevenzione di eventuali condotte
eteroaggressive, argomentando che: “Se è indubbia la funzione
terapeutica del lavoro dello psichiatra non bisogna però dimenticare
che la salute tutelabile è quella di tutti indistintamente i consociati,
malato compreso, e che tale riconoscimento è dato dall’art. 32 della
Costituzione non solo come ‘fondamentale diritto dell’individuo’ ma
anche come interesse della ‘collettività’” per far derivare la
conseguenza che “deve dunque concludersi che lo psichiatra è tenuto a
realizzare non solo tutti gli interventi terapeutici necessari in vista della
sua funzione primaria, che è quella del miglioramento delle condizioni
di salute mentale del paziente, ma pur tuttavia, non è venuta meno la
sua responsabilità limitatamente a eventi dannosi commessi in
conseguenza della omessa prevenzione che la specifica funzione
terapeutica richiedeva.” 211 Seppure si condivida la tesi che in
208 In base a tale principio un’azione è condicio sine qua non di un evento se la sua eliminazione mentale comporta il venir meno dell’evento lesivo. 209 FIANDACA G., Causalità (voce), cit., p. 126. 210 PAGLIARO A., Principi. Parte generale, Milano, 1980, pp. 369 ss. 211 BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, cit., pp. 160-161.
103
determinate (e limiate) ipotesi lo psichiatra possa rispondere per gli atti
eteroaggressivi del paziente (nel caso in cui essi costituiscano la
specifica manifestazione della patologia e sussistano tutti gli elementi
per configurare una responsabilità colposa del terapeuta), non si ritiene
tuttavia di poter ascrivere allo specialista in questione compiti di tutela
della salute collettiva. Siffatta impostazione finisce per addossare al
medico compiti che esorbitano dalla sue funzioni, che sono circoscritte
al rapporto terapeutico con il paziente. In assenza di reali esigenze
curative non si potrà contestare al medico di non aver predisposto
misure idonee al contenimento di un’ipotetica pericolosità del
paziente, poiché la tutela della sicurezza collettiva è competenza della
Forza pubblica e non dello psichiatra, né sembra corretto sovrapporre
(come fa la teoria contestata) la nozione di “salute pubblica” con
quella di “sicurezza pubblica”. Inoltre, nelle situazioni in cui il malato
di mente stia compiendo o sia in procinto di compiere atti aggressivi,
sembra opportuno ritenere che la competenza specifica ad intervenire
spetti alle forze pubbliche a ciò predisposte e non allo psichiatra del
pubblico servizio, fermo restando che in caso di necessità in rapporto
alla medesima situazione di rischio possono essere chiamati ad
intervenire sia lo psichiatra che la pubblica sicurezza212.
In conclusione si può osservare come un’eccessiva dilatazione dei
confini della responsabilità omissiva rischi di contribuire
significativamente al fenomeno, denunciato in dottrina 213 , della
212 Così: FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, c. 111. L’Autore specifica: “Dal punto di vista di un eventuale addebito di colpa professionale, occorrerà però tenere ben distinte le rispettive sfere di responsabilità: competerà più propriamente alla forza pubblica di vagliare le specifiche esigenze di ordine pubblico, sia pure tenendo conto della valutazione diagnostica espressa dal sanitario. In base a questa bipartizione di ambiti di responsabilità, all’operatore psichiatrico si potrà dunque fare eventualmente carico (soltanto) di aver commesso un inescusabile errore sul piano diagnostico e terapeutico, ma mai di non aver disposto misure intese a contenere la pericolosità dell’alienato pur in assenza di reali indicazioni curative.” 213 FORNARI U., Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali, in Riv. it. med. leg., 1984, p. 333,
104
“criminalizzazione” della categoria medica in questione. Il pericolo più
grande, non solo in questo settore, è quello di incentivare il ricorso a
prassi difensive, che si pongono in palese contrasto con l’interesse (del
singolo e della società) al miglioramento delle condizioni di salute del
paziente. Il terapeuta, infatti, potrebbe essere indotto a ricorrere ad
un’abnorme quantità di interventi volti alla sua autotutela più che alle
esigenze di tutela della salute del malato214. Le prassi dettate dalla c.d.
“medicina difensiva” rischiano dunque di allontanare le scelte del
sanitario dalla finalità di cura del paziente, che dovrebbe invece
costituire l’orizzonte teleologico dell’operare del medico. Simili prassi
vanno infine a detrimento non solo della salute del paziente, ma anche
della corretta gestione delle risorse finanziarie dello Stato destinate alla
spesa sanitaria (e di conseguenza della salute collettiva), nonché del
complessivo funzionamento del sistema della giustizia, che già da
diversi anni risente dell’ingolfamento dei tribunali (cui contribuisce
non di poco il contenzioso in materia di malpractice medica).
3.3.2. I rilievi della dottrina: la creazione giurisprudenziale di un
modello d’imputazione fondato sull’omessa minimizzazione del
rischio
La giurisprudenza in materia di responsabilità penale dello
psichiatra è stata oggetto di aspre critiche da parte della dottrina, la
quale ha contestato alle Corti di aver provocato una flessibilizzazione
degli istituti classici del diritto penale, in particolare in riferimento al
nesso di causalità, creando un modello di imputazione fondato
sull’omessa minimizzazione del rischio, e di aver sviluppato delle GIUSTI G., La responsabilità civile e penale dello psichiatra, in FERRACUTI (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologia e psichiatria forense, vol. XIV, Milano,1989, pp. 57 ss. 214 JOURDAN S., La responsabilità dello psichiatra per le azioni violente compiute dal paziente: prevedibilità dell’evento e possibilità di evitarlo, cit., p. 115.
105
conclusioni in contrasto con il principio “dell’al di là di ogni
ragionevole dubbio”215.
La circostanza che la condotta dello psichiatra s’innesti in un
quadro preesistente già connotato da un elevato fattore di rischio (che
l’operato del medico non riesce a neutralizzare e contenere
efficacemente) ha determinato nella dottrina l’impressione che “il
comportamento del medico, lungi dall’esplicare una efficacia
eziologica esclusiva, si pone quale concausa dell’evento morte
(unitamente alla patologia di cui il paziente è affetto), sicché, di
frequente, la rilevanza causale finisce per misurarsi solo in relazione
all’anticipazione dell’evento, comunque inevitabile.” 216
La criticità nell’impostazione concettuale riscontrabile in molti
commenti in materia di responsabilità penale dello psichiatra – che
conduce ad affermare che l’imputazione di responsabilità sia fondata
sull’omessa minimizzazione del rischio – coinvolge il problema
relativo alla c.d. descrizione dell’evento colposo e l’alternativa tra
l’evento concreto storicamente verificatosi ed evento del medesimo
215 In questo senso: MASPERO M., Mancata previsione di evento suicidiario e responsabilità dello psichiatra: creazione di un "Fuzzy set” o rivelazione di un ossimoro?, cit., p. 914. Sul fondamento e l’imprescindibilità di tale principio vd. STELLA F., Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime , Milano, 2001, p. 96 ss. 216 CUPELLI C., La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, cit., p. 27; il quale riporta le parole di FIANDACA G., Riflessioni problematiche tra causalità e imputazione obiettiva, in Ind. pen., 2006, p. 961: “il medico che omette il trattamento corretto si trova in una posizione comparativamente simile più a quella di chi fa venir meno il necessario soccorso (sia pure nei termini di un’omissione di soccorso “qualificata”), che non a quella del soggetto che ha veramente “in mano” il decorso causale che crea il rischio che si concretizza nell’evento. Il medico dunque, lungi dal creare il rischio che minaccia di tradursi in danno, si limita a non neutralizzare o ridurre un pericolo già esistente: ecco che allora, sotto questa angolazione visuale, la relazione tra omissione ed evento sembra più propriamente strutturarsi secondo il modello della mancata diminuzione del rischio di verificazione dell’evento o del mancato accrescimento delle “chances” di sopravvivenza del bene giuridico.”
106
genere di quello prodottosi217. Si riscontra, infatti, non di rado il
riferimento al tipo di evento (astratto o in genere) e non a quello
concretamente realizzatosi, con l’inevitabile conseguenza di sminuire
l’efficienza causale della condotta del terapeuta, giacché – specie
nell’ipotesi di un quadro clinico particolarmente grave – risulta sempre
possibile ritenere che l’evento lesivo potesse comunque verificarsi in
un altro momento o con altre modalità e dunque ritenere esclusa
l’efficienza causale dell’azione o dell’omissione colposa dello
psichiatra 218.
Una simile impostazione è stata talora discutibilmente impiegata
dalla stessa giurisprudenza per escludere il nesso di causalità. Si può
fare riferimento, per esempio, alla sentenza del Trib. Ravenna, Sez.
dist., Faenza, 29 settembre 2003, Mura e Melella219, in cui è stato
escluso il nesso eziologico tra la concessione (da parte di due medici
responsabili di una clinica) ad un paziente a rischio suicidario del
permesso di uscire da solo dalla struttura di ricovero volontario
(benché tale permesso fosse stato sospeso qualche settimana prima) e il
successivo suicidio dello stesso, sulla base dell’argomentazione che, in
vista del particolare tipo di patologia, il gesto suicidario avrebbe
217 FORTI G., La descrizione dell’«evento prevedibile» nei delitti colposi: un problema insolubile?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, pp. 1559 ss. 218 MASPERO M., Mancata previsione di evento suicidiario e responsabilità dello psichiatra: creazione di un "Fuzzy set” o rivelazione di un ossimoro?, cit., p. 941 ss. L’Autore argomenta: “La paziente avrebbe ben potuto tentare il suicidio anche buttandosi sotto la prima macchina che passava per la strada, se questo era nel suo intento; e all’interno della struttura avrebbe certamente trovato altri modi per suicidarsi, magari in un momento precedente a quello che poi è risultato fatale, magari immediatamente dopo aver ricevuto il diniego ad uscire dalla clinica. Ecco perché non c’è nessuna correlazione causale tra l’autorizzazione ad uscire dalla clinica e l’evento suicidario verificatosi, proprio perché non esiste alcuna legge statistica che possa mettere in correlazione, e con alto grado di probabilità questi due elementi.” Contra in dottrina: FIANDACA G., nota a Trib. Ravenna, 29 settembre 2003, in Foro it., 2004, 2, c. 566. DODARO G., Posizione di garanzia degli operatori dei servizi psichiatrici per la prevenzione di comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente. Gli orientamenti della giurisprudenza penale (1978-2010), cit., p. 43. 219 In Foro it., 2, 2004, cc. 566 ss.
107
comunque potuto essere facilmente portato a termine anche all'interno
della struttura sanitaria o con altre modalità.
La possibilità che l’evento lesivo, come per esempio il suicidio del
paziente, fosse comunque destinato a realizzarsi (stante la probabile
reiterazione dell’insano gesto da parte di chi l’abbia già tentato, come
affermato dalla letteratura scientifica in materia) non interferisce con
l’efficienza causale della condotta colposa del terapeuta, poiché
ragionando in questi termini si finirebbe per avvallare “una aprioristica
inefficienza di qualsiasi strumento di tutela e prevenzione e da ciò
l’ineluttabilità dell’evento”220. La sussistenza di un nesso eziologico,
infatti, non va indagata in relazione alla generica categoria degli
“eventi suicidari” in tutte le loro possibili estrinsecazioni fattuali, ma
in relazione a quello specifico evento 221 , in quella determinata
situazione fattuale. Ragionando diversamente non si terrebbe mai
conto della possibilità che in concreto, in taluni casi, una condotta
alternativa esigibile e possibile da parte del medico avrebbe potuto
evitare con una probabilità prossima alla certezza il verificarsi di uno
specifico evento lesivo.
L’esito finale dell’impostazione concettuale in questa sede non
condivisa sarebbe quello di sancire una sostanziale irresponsabilità
penale del medico per gli atti lesivi del paziente proprio in quei casi in
cui gli stessi si configurano come particolarmente probabili e
suscettibili di reiterazione, ossia – paradossalmente – esattamente in
quelle ipotesi in cui l’elevato rischio avrebbe dovuto “mettere in
220 Così: Trib. Como, 13 novembre 2000, n. 2831/00, cit., p. 911. Il giudice argomenta giustamente: “Se così fosse avrebbe poco senso il ricovero in una clinica privata, come in qualsiasi altra struttura sanitaria: se la degenza fosse servita solo alla somministrazione dei farmaci e alla socializzazione della paziente, nulla avrebbe impedito a quest’ultima di provvedere a ciò, nel proprio domicilio conseguendo il duplice vantaggio di una adeguata tutela per la propria incolumità, anche ad opera dei familiari, e di risparmio economico non indifferente.” 221 In questo senso: FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, cit., p. 104.
108
guardia” il terapeuta affinché questi apprestasse cautele idonee ad
evitare l’evento lesivo.
3.3.3. Il problema della concausalità nella produzione dell’evento
lesivo
Uno dei profili che rende estremamente arduo l’accertamento
dell’efficienza causale della condotta colposa dello psichiatra consiste
nella circostanza che in molti casi essa non possa considerarsi l’unica
causa dell’evento lesivo, ma una concausa dello stesso.
Il frequente atteggiarsi dell’azione/omissione medica in termini di
concausa pone dunque l’interrogativo su quali siano le “cause
sopravvenute” in grado di escludere il nesso eziologico, ossia quali
cause siano da sole sufficienti a determinare l’evento ai sensi dell’art.
41, comma 2, c.p. (anche alla luce della precisazione contenuta nel
terzo comma della stessa norma, che le disposizioni in essa contenuta
“si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o
sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”). Sebbene la
problematica formulazione del secondo comma dell’art. 41 c.p., a
prima vista, sembri alludere ad una serie causale autonoma, la dottrina
e la giurisprudenza convergono riguardo alla fatto che il legislatore
abbia inteso riferirsi a fattori eziologici che intervengono
congiuntamente all’azione del soggetto imputato. Avvalendosi anche
dall’analisi dei lavori preparatori al codice222, in dottrina si è enucleata
la ratio ispiratrice dell’art. 41, comma 2, c.p. inquadrandola nella
volontà del legislatore di introdurre un temperamento del rigore di un
accertamento di carattere esclusivamente condizionalistico,
contemplando l’ipotesi di un’evoluzione degli eventi non riconducibile
agli schemi ordinari di prevedibilità (decorso causale atipico)223. Con
222 Relazione ministeriale sul progetto definitivo, n. 58. 223 FIANDACA G., Causalità (voce), cit., p. 129.
109
questa norma “il legislatore ha verosimilmente inteso affermare il
principio secondo cui in determinati casi, malgrado l’esistenza di un
nesso condizionalistico, un’affermazione di responsabilità
contrasterebbe con la logica normativa dell’imputazione penale.”224
Tale logica non può che posare sul principio cardine in materia
d’imputazione di responsabilità penale, radicato a livello costituzionale
nell’art. 27 Cost., comma 1, che prescrive perentoriamente che “la
responsabilità penale è personale”. L’addebito di responsabilità nei
confronti di un soggetto che abbia posto in essere un’azione che si
assume concausale rispetto alla verificazione dell’evento infausto,
nell’ipotesi in cui sia intervenuta una causa sopravvenuta da sola
sufficiente a determinare l’evento (e dunque a recidere il nesso
causale), si porrebbe in contrasto con il principio di personalità della
responsabilità penale. Il rapporto di causalità, infatti, ha rilevanza
penalistica esclusivamente in quanto espressivo della signoria
dell’agente sul fatto. In giurisprudenza si è rilevato, infatti, come alla
base dell’elaborazione delle varie teorie che cercano di arginare
l’indiscriminata ampiezza dell’imputazione oggettiva generata dal
condizionalismo (quella della causalità adeguata, della causalità
umana, ecc.) vi sia sempre la medesima esigenza: “tentare di limitare,
separare le sfere di responsabilità, in modo che il diritto penale possa
realizzare la sua vocazione ad esprimere un ben ponderato giudizio
sulla paternità dell’evento illecito”225.
Calando la questione nell’ambito che si sta esaminando, sembra
opportuno domandarsi: fino a che punto lo psichiatra ha un dominio
sul decorso eziologico dell’evento lesivo?
224 FIANDACA G., ibidem, p. 121. 225 Cass. pen., SS. UU., 24 aprile 2014 (18 settembre 2014), n. 38343, ThyssenKrupp, cit., in cui si osserva: “Questa esigenza di delimitazione delle sfere di responsabilità è tanto intensamente connessa all’essere stesso del diritto penale quale scienza del giudizio di responsabilità, che si è fatta strada nella giurisprudenza, attraverso lo strumento normativo costituito dall’art. 41, capoverso, cod. pen. Infatti, la diversità dei rischi interrompe, per meglio dire separa le sfere di responsabilità.”
110
S’introduce così la tematica penalistica “classica” relativa
all’efficacia interruttiva del nesso di causalità da attribuire al fatto
doloso sopravvenuto del terzo rispetto all’azione o all’omissione del
soggetto della cui responsabilità si discute.
3.3.4. La responsabilità del terapeuta per gli atti eteroaggressivi
del paziente: tra concorso colposo nel reato doloso e qualificazione
in chiave monosoggettiva
Il tema della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti
eteroaggressivi del malato presenta profili ancor più problematici
rispetto a quella per gli atti autoaggressivi. Questo si verifica
essenzialmente per due ordini di ragioni. Innanzi tutto sembra ormai
pacifica sia dottrina che in giurisprudenza la possibilità di ritenere che
la posizione di garanzia del medico comprenda la prevenzione delle
condotte autolesive del paziente, mentre molto più controversa è la sua
estensione a quelle eterolesive. In secondo luogo la prognosi
psichiatrica relativa verificazione di gesti di aggressività nei confronti
di terzi (e conseguenzialmente l’individuazione della regola cautelare
volta alla prevenzione degli stessi) è ancor più ardua rispetto alla
previsione delle condotte autolesive. Difatti mentre queste ultime sono
sicuramente più frequenti nelle persone affette da disturbi psichiatrici
rispetto a quelle che non lo siano, non si può invece constatare una
maggiore frequenza di condotte eteroaggressive nei soggetti infermi di
mente. D’altra parte, tuttavia, non si può negare come nelle persone
che appartengono a quest’ultima categoria il gesto lesivo possa
costituire una specifica manifestazione della patologia.
Le regole cautelari finalizzate ad evitare eventi etero-aggressivi
svolgono un ruolo estremamente delicato dal momento che
individuano il punto di equilibrio tra l’esigenza primaria dell’attività
terapeutica di tutelare la salute del paziente e quella contrapposta di
111
salvaguardare la collettività dai danni che possano essere arrecati dal
paziente a causa della sua malattia o della relativa terapia praticata dal
medico226.
La giurisprudenza ha sovente affermato l’ammissibilità di un
concorso colposo dello psichiatra nel delitto doloso commesso dal
paziente 227 , ricorrendo nella maggior parte dei casi allo schema
dell’omesso impedimento del fatto illecito altrui. L’assunto da cui
parte per affermare una responsabilità di questo tipo è chiaramente
l’ammissibilità teorica del concorso colposo nel reato doloso altrui228,
che tuttavia non costituisce affatto un’acquisizione pacifica in
dottrina. Anzi, l’ammissibilità della scissione del titolo d’imputazione
soggettiva tra i concorrenti costituisce una delle questioni più
tormentate del diritto penale 229 . L’ostacolo maggiore alla
configurabilità di questo tipo di responsabilità è rappresentato dal dato
letterale dell’art. 113 c.p. (in merito alla cooperazione nel concorso
colposo), che svolge, non menzionando espressamente il concorso a
titolo doloso, una funzione di sbarramento. In quest’ottica la funzione
226 CINGARI F., Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente, cit., p. 452. 227 Cass. pen., Sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795, Pozzi, in Cass. pen., cit., pp. 4638 ss.; Cass. pen., 27 novembre 2008, n. 48292, Desana, in Cass. pen., 2010, 4, pp. 1471 ss. con nota di PIRAS P.-SALE C., Atti auto ed eteroaggressivi e responsabilità dello psichiatra. 228 In questo senso: Cass. pen., Sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795, Pozzi, cit., p. 4623, in cui si specifica che laddove non si ritenesse configurabile un concorso colposo nel delitto doloso la conseguenza dovrebbe essere l’immediata applicabilità dell’art. 129 c.p. 229 Contestano la configurabilità di un concorso colposo nel delitto doloso altrui: PADOVANI T., Diritto penale, cit., p. 295 ss.; ANGIONI F., Il concorso colposo e la riforma del diritto penale, in Arch. pen., 1983, p.92; MANTOVANI F., Diritto penale. Parte generale, Padova, 2011, p. 515; FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2009, p. 515; GIUNTA F., Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, cit., p. 455. In giurisprudenza adotta questa prospettiva: Cass., Sez. IV, 11 ottobre 1996, n. 9542, De Sanctis, in Cass. pen., 1997, p. 3401 (in materia di concorso del notaio nel reato di lottizzazione abusiva), contra Cass., Sez. IV, 9 ottobre 2002, n. 39680, Capecchi, in Cass. pen., 2005, p. 811, in merito alle ipotesi di incendio doloso in seguito ad una negligente sistemazione del materiale infiammabile.
112
precipua dell’art. 113 c.p. è quella di soddisfare l’esigenza della
previsione espressa della responsabilità a titolo colposo prevista in via
generale dall’art. 42 c.p. Le argomentazioni addotte dalla
giurisprudenza230 per contestare questa perspettiva, non risultano sul
punto condivisibili231. In particolare si è osservato come la specifica
previsione del concorso colposo nel delitto doloso sarebbe superflua
poiché, essendo prevista la partecipazione nell’ipotesi più restrittiva
del dolo, a fortiori dovrebbe ritenersi compresa l’ipotesi colposa, in
base ad un’opinabile interpretazione del concetto “non c’è dolo senza
colpa”232. Si è affermato, in particolare, che il dolo non individuerebbe
un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso dalla colpa, ma un
mero criterio d’imputazione che si limita – rispetto alla colpa – ad
aggiungere l’ulteriore elemento della rappresentazione e volontà
dell’evento. Si è giustamente obiettato che una simile argomentazione
“in ogni caso, non varrebbe a superare l’assenza di una previsione
espressa in materia di concorso colposo, certamente non riconducibile
tout court a quello doloso”, giacché, ragionando in questi termini,
“dovrebbe pervenirsi all’assurdo per cui anche l’art. 113 c.p. sarebbe
una norma ad abundantiam.”233
Un’approfondita analisi della problematica del concorso colposo
nel reato doloso esorbiterebbe dall’ambito d’interesse generale di
quest’analisi.
Si farà dunque riferimento ad alcuni degli snodi argomentativi
che si rinvengono in giurisprudenza per interrogarsi riguardo alla
possibilità di affermare – seppure in taluni limitati casi – una
responsabilità penale dello psichiatra per i fatti commessi dal paziente
230 Cass. pen., Sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795, Pozzi, cit., p. 4624. 231 Per un’efficace critica vd.: MASSARO A., La responsabilità colposa per omesso impedimento di un fatto illecito altrui, Napoli, 2013, p. 399 ss. 232 Il riferimento chiaramente è a MARINUCCI G., Non c’è dolo senza colpa. Morte della “imputazione oggettiva dell’evento” e trasfigurazione nella colpevolezza?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, pp. 11 ss. 233 MASSARO A., La responsabilità colposa per omesso impedimento di un fatto illecito altrui, cit., p. 399.
113
al di fuori dell’ambito del concorso di persone nel reato. Non si
vedono, infatti, ostacoli dogmatici alla possibilità di ipotizzare
astrattamente un’autonoma responsabilità colposa monosoggettiva in
capo allo psichiatra (a titolo di omicidio colposo o lesioni colpose),
prescindendo dalla responsabilità dolosa del paziente. Non stupisce
tuttavia il frequente ricorso da parte della giurisprudenza all’istituto del
concorso. Soprattutto laddove l’accertamento del nesso di causalità tra
la condotta colposa ed evento presenta peculiari difficoltà, istanze
extrapenalistiche possono indurre a privilegiare la configurabilità del
concorso colposo nel reato doloso. Nell’impostazione concettuale nei
termini plurisoggettivi del concorso colposo nel reato doloso, infatti, il
condizionamento causale della condotta del terapeuta non rappresenta
l’unico criterio d’imputazione oggettiva dell’evento.234
Per illustrare la problematica in esame sembra consono
ripercorrere brevemente uno dei leading case in materia di
responsabilità dello psichiatra per gli atti eteroaggressivi del paziente:
Cass. pen., Sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795, Pozzi235 (cui si è già
fatto cenno nel corso dell’analisi della prevedibilità della condotta del
paziente psichiatrico). Riassumendo la vicenda affrontata dai giudici di
legittimità: si controverte sulla responsabilità penale (inquadrata in
termini di concorso 236 ) di un medico psichiatra per l’omicidio
compiuto da un suo paziente psicotico ai danni di un educatore della
comunità presso la quale lo stesso era ricoverato, perpetrato mediante
un grosso coltello da cucina. In particolare si contesta al Dott. Pozzi
(collaboratore esterno di una comunità) di aver erroneamente (su
richiesta del paziente) ridotto e poi sospeso la terapia farmacologica
antipsicotica per ovviare all’insorgenza del morbo di Parkinson (che si 234 CINGARI F., Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente, cit., p. 450. 235 In Cass. pen., 12, 2008, pp. 4638 ss. 236 Nei precedenti gradi di giudizio invece il medico era stato condannato a titolo di omicidio colposo: Trib. Bologna - Ufficio Gip - 25 novembre 2005 (dep. 27 gennaio 2006) in Dir. e Giust., 17, 2006, 67 ss.; App. Bologna, 12 gennaio 2007 (dep. 4 aprile 2007) in Cass. pen., 2007, 2604 ss.
114
era manifestato medio tempore quale effetto collaterale della cura
somministrata) e per aver omesso di richiedere un trattamento sanitario
obbligatorio237.
La sentenza costituisce uno spunto di riflessione particolarmente
interessante poiché presenta l’intrecciarsi (alla base dell’addebito di
responsabilità) di una condotta di tipo attivo e una di tipo passivo, una
riconducibile ad un’inadeguata somministrazione della terapia
farmacologica e l’altra ad un’omissione.
Quest’ultima osservazione consente di fare una premessa di
carattere sistematico, utile per ridimensionare l’importanza rivestita dal
problema del contenuto della posizione di garanzia gravante sul
medico ai fini dell’inquadramento della responsabilità dello psichiatra
per gli atti eteroaggressivi del paziente. L’interrogativo concernente
l’estensione di tale posizione anche al dovere d’impedimento dei
comportamenti del paziente lesivi di terzi si pone, infatti,
esclusivamente in caso di omissione: nell’ipotesi in cui la condotta
contestata sia di carattere commissivo (come per esempio una
prescrizione farmacologica errata) la responsabilità penale del medico
prescinderà dal presupposto della posizione di garanzia e farà in modo
che il professionista debba rispondere dell’evento lesivo (che può
sostanziarsi nella morte, nelle lesioni o nei danni commessi dal
paziente) nella misura in cui la propria condotta sia reputata dal
giudice condizione necessaria del verificarsi dell’evento illecito238.
Infatti, anche quella parte della dottrina che (contrariamente rispetto
alla tesi qui sostenuta) afferma la non doverosità di compiti preventivi
in capo allo psichiatra rispetto ai comportamenti aggressivi nei
237 Per completezza si specifica che prima dell’omicidio, in seguito ad una segnalazione di una collaboratrice riguardante l’aggravamento delle condizioni di salute del soggetto, il medico aveva ripristinato la terapia antipsicotica originaria con l’aggiunta di un farmaco dello stesso tipo ad effetto immediato. 238 DODARO G., Posizione di garanzia degli operatori dei servizi psichiatrici per la prevenzione di comportamenti auto o etero-aggressivi del paziente. Gli orientamenti della giurisprudenza penale (1978-2010), cit., pp. 39-40.
115
confronti di terzi (non ritenendo la prevenzione di tali comportamenti
pertinente al sistema di regole cautelari alla cui osservanza sia tenuto il
medico), per fuoriuscire dall’impasse determinata da tale esclusione e
non cedere all’affermazione dell’assoluta immunità dello psichiatra
nell’ipotesi di comportamenti eteroaggressivi del paziente (anche nei
casi in cui vi siano notevoli margini di prevedibilità della condotta e il
medico disponga degli strumenti concreti per evitarlo), finisce per
affermare che “la posizione dello psichiatra non divergerà da quella di
altri soggetti, di altre figure professionali, che nell’ambito delle proprie
attività si trovino nella situazione di poter pronosticare comportamenti
pericolosi altrui, al di fuori tuttavia dello specifico ambito delle regole
cautelari di pertinenza”239. Seguendo questa impostazione, seppur
persuasiva, si potrebbe tuttavia riconoscere una responsabilità in capo
al terapeuta esclusivamente nelle ipotesi di condotta attiva e mai in
quelle di omissione.
Sembra tuttavia artificioso e controproducente ai fini della tutela
del bene giuridico della salute del paziente psichiatrico (e non coerente
con quello che si è detto finora in merito al contenuto degli obblighi
del terapeuta) prospettare una differenziazione tra condotte
commissive ed omissive (con la conseguenziale esclusione automatica
di responsabilità nel secondo caso) in quei casi (seppur – lo si
riconosce – sicuramente limitati) in cui sussista la violazione della
regole cautelari, la prevedibilità della condotta eteroaggressiva, la
possibilità di impedire l’evento lesivo e un nesso di causa tra l’azione o
l’omissione del terapeuta e il gesto lesivo del paziente (purché,
ovviamente, esso rappresenti l’estrinsecazione della patologia ).
239 INSOLERA G., Brevi considerazioni sulla responsabilità penale omissiva dello psichiatra, cit., p. 781. L’Autore prospetta come esempio quello dell’informazione giornalistica colposamente agevolatrice dell’altrui comportamento illecito e rinvia a: FIANDACA G., Omicidio colposo per imprudenza professionale del giornalista, in Foro It., IV, 1982, pp. 248 ss.; CANESTRARI S., Profili di responsabilità colposa nell’esercizio della cronaca giornalistica, in Giust. pen., 1985, pp. 56 ss.
116
Tornando al caso Pozzi, si può evidenziare come sia improprio il
riferimento alla posizione di garanzia operato dai giudici di legittimità
in relazione alla responsabilità del medico, correttamente qualificata
come commissiva (essendo stato escluso un addebito di responsabilità
per l’omessa richiesta di TSO, data la carenza del presupposto del
rifiuto di sottoporsi alle cure). Si è, infatti, rilevato in dottrina come il
ragionamento della Corte confonda il dovere di diligenza conseguente
all’instaurazione del rapporto terapeutico con l’obbligo di impedire
l’evento ex art. 40, comma 2, c.p., praticando una sovrapposizione
concettuale che oscura i termini della questione240. L’attenzione dei
giudici s’incentra, infatti, sull’inadeguatezza della terapia
farmacologica somministrata, stante la drastica riduzione e la
successiva sospensione del farmaco neurolettico. Tale condotta è stata
ritenuta contraria alle leges artis della pratica psichiatrica anche in
base alle risultanze peritali, dalle quali emergeva che la scelta
terapeutica praticata avrebbe potuto essere adottata solo in un paziente
in remissione da almeno cinque anni (circostanza assente nel caso di
specie). I giudici rilevano inoltre come la condotta del medico
contravvenisse alle indicazioni contenute nelle linee guida
dell’American Psychiatric Association, prodotto dei più autorevoli
studi condotti a livello internazionale.
Si configura in questo caso una delle ipotesi classiche in cui lo
psichiatra non può e non deve essere considerato differentemente
rispetto agli altri medici: uno psichiatra che prescrive un farmaco deve
operare in conformità alle norme di perizia medica, e nel caso in cui se
ne discosti colposamente cagionando un peggioramento delle
condizioni di salute del paziente (che può anche consistere
nell’incremento delle manifestazioni di aggressività nei confronti di se
stesso o di altri) dovrà risponderne al pari di ogni altro medico. È
tuttavia estremamente difficile, laddove si voglia dimostrare una 240 Cfr. ROIATI A., Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale, cit., p. 191.
117
responsabilità colposa monosoggettiva in capo al terapeuta, la
ricostruzione del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e quella
eteroaggressiva del paziente, stante la necessità di dimostrare l’assenza
di altre “cause sopravvenute” da sole sufficienti a determinare l’evento
ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p. Dalla contestualizzazione storica e
dall’analisi dei profili vittimologici studiati nell’ambito della
psicopatologia forense, emerge come l'omicidio (indubbiamente
effettuato nel corso di uno scompenso clinico) sia stato compiuto ai
danni del soggetto cui era attribuibile il ruolo di “vittima preferenziale
a comportamento attivo”241. A tale conclusione si perviene sia in vista
della conflittualità intercorsa poco tempo prima dell’omicidio tra il
malato e l’operatore (in occasione dei suoi tentativi di
somministrazione del farmaco al paziente), sia in ragione della (già
menzionata) circostanza che il paziente abbia elettivamente e
preordinatamente colpito colui che riteneva responsabile della morte
due compagne di degenza. Non sembra tuttavia che il fatto che il
paziente abbia saputo della morte delle due compagne nell’arco
temporale immediatamente precedente all’omicidio sia stato
adeguatamente contemplato dai giudici di legittimità come fattore
autonomo ed indipendente in grado di escludere il nesso eziologico tra
l’inadeguata terapia farmacologica prescritta e l’acuto scompenso
psichico. Tra l’altro, la circostanza che il trattamento antipsicotico a
base di Moditen non eliminasse completamente il rischio di scompensi
(ma solamente di 2/3), non è (come affermato dalla Corte) priva di
rilevanza, ma rende non solo necessaria, ma anche più complessa la
prova negativa volta ad escludere la presenza di fattori alternativi in
241 FIORI A.-BUZZI F., Problemi vecchi e nuovi della professione psichiatrica: riflessioni medicolegali alla luce della Cass. pen. n. 10795/2008, cit., p. 1442. Gli Autori rinviano, per la trattazione in psichiatria forense dei profili vittimologici a: VOLTERRA V. (a cura di), Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, Milano, 2006, pp. 230.
118
grado di causare l’evento242. Il percorso argomentativo dei giudici si
rileva dunque fallace nella parte in cui afferma l’irrilevanza
dell’accertamento della misura della concentrazione del principio
attivo del farmaco antipsicotico nell’organismo del paziente nel
periodo immediatamente precedente all’omicidio. Poiché si assume
che tale riduzione sia stata – in base all’ipotesi causale astrattamente
ritenuta credibile dalla Cassazione – determinante rispetto allo
scompenso psicotico (a sua volta alla base dell’evento omicidiario),
non si può obliterare il momento dell’accertamento processuale
dell’esistenza dei singoli “anelli” causali che si ritengono esistenti e
causalmente connessi243, rischiando altrimenti di assorbire il giudizio
sull’esistenza fattuale degli elementi ipotizzati dal giudicante nella
mera constatazione della violazione della regola cautelare,
confondendo il piano della colpa con quello della causalità. Illuminanti
sono in tal proposito le osservazioni contenute nella recentissima
sentenza di legittimità sul caso ThyssenKrupp, in cui i giudici
osservano che “l’affidabilità di un assunto è temprata non solo e non
tanto dalle conferme che esso riceve, quanto dalla ricerca disinteressata
e strenua di fatti che la mettono in crisi, che la falsifichino” e che 242 CINGARI F., Presupposti e limiti della responsabilità penale dello psichiatra per gli atti etero-aggressivi del paziente, cit., p. 448. 243 CINGARI F., ivi. L’Autore efficacemente rileva: “In sostanza, la Corte, affermando che ‘non occorre tenere conto della misura della concentrazione del principio attivo del farmaco antipsicotico nell’organismo del paziente nel periodo immediatamente precedente al tragico fatto, in quanto il nesso di condizionamento deve ritenersi provato non solo quando viene accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo agli eventi ma altresì in tutti quei casi nei quali pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l’evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell’agente sia pure con condotte alternative; e purché sia possibile escludere l’efficienza causale di diversi meccanismi eziologici’, rischia di confondere il problema della prova degli anelli causali (fattori causali) che fondano l’ipotesi causale formulata in astratto, che debbono essere provati al di là di ogni ragionevole dubbio mediante prove rappresentative o indiziarie, con la prova della relazione tra gli anelli che, quando si fonda su leggi statistiche o massime di esperienza, non potendo essere dimostrata attraverso la ricostruzione (rectius: la prova positiva) del completo meccanismo causale, va dimostrata attraverso la prova negativa della esclusione di fattori causali alternativi.”
119
conseguenzialmente “le istanze di certezza che permeano il processo
penale impongono al giudice di svolgere l’indicata indagine causale in
modo rigoroso.” Riguardo alla necessità di riscontrare le ipotesi
congetturali del giudicante con la realtà si osserva: “la teoria del caso
concreto deve confrontarsi con i fatti, non solo per rinvenirvi i segni
che vi si conformano ma anche e forse soprattutto per cercare elementi
di critica, di crisi” e che “non può esservi conoscenza senza un tale
maturo e rigoroso atteggiamento critico, senza un disinteressato
impegno ad analizzare severamente le proprie congetture ed i fatti sui
quali si basano”, per concludere che “la congruenza dell’ipotesi non
discende dalla sua coerenza formale o dalla corretta applicazione di
schemi inferenziali di tipi deduttivo, bensì dalla aderenza ai fatti
espressi da una situazione data.” 244
Prescindendo dalle peculiarità del caso concreto (in cui l’esito di
condanna desta perplessità, alla luce delle considerazioni fatte), non
sembra corretto escludere a priori una responsabilità penale dello
psichiatra per gli atti eteroaggressivi del paziente, purché sussistano i
presupposti cui si è fatto riferimento – indubbiamente di difficilissima
dimostrazione – e la responsabilità sia qualificata non in termini
concorsuali, ma di responsabilità colposa monosoggettiva. Imposta
correttamente la questione in questi termini Cass. pen., sez. IV, 12
novembre 2008 (28 gennaio 2009), n. 4107245. La Corte di legittimità,
confermando il giudizio di appello, ha condannato direttamente a titolo
di omicidio e lesioni plurime il medico psichiatra che, aveva rilasciato
al proprio paziente un certificato "anamnestico" e uno di "sanità fisica
e mentale", in cui aveva attastato l'assenza di malattie psichiatriche che
potessero interferire con la capacità di intendere e volere del paziente e
l’assenza di un trattamento a base di psicofarmaci. Il paziente aveva
poi prodotto tali certificazioni per ottenere dall'ufficiale medico
244 Cass. pen., SS. UU., 24 aprile 2014 (18 settembre 2014), n. 38343, ThyssenKrupp, cit. 245Cass., Sez. IV, 12 novembre 2008, n. 4107 in Cass. pen., 2010, pp. 180 ss.
120
militare (condannato a sua volta per i medesimi reati) una
certificazione d’idoneità per il conseguimento del porto d’armi, redatta
dal secondo medico in esito ad una visita. L’uomo, affetto da rilevanti
disturbi psichici, aveva in seguito utilizzato le armi (regolarmente
acquistate) per sparare dalla propria abitazione in direzione dei
passanti (provocando loro gravi lesioni), per uccidere una condomina,
la sua convivente e per poi suicidarsi. Il Tribunale, la Corte d'appello
di Milano e la Cassazione hanno ritenuto che nella condotta dei due
medici (correttamente qualificata come commissiva) fossero presenti
profili di grave negligenza, imprudenza e imperizia246.
L’ultima sentenza menzionata è di particolare interesse anche
perché i giudici, nel classificare la condotta degli imputati come
commissiva (essendosi sostanziata nel rilascio dei certificati),
esplicitano il principio in base al quale, nell’ipotesi di condotta attiva,
non assume alcuna rilevanza la sussistenza di una posizione di
garanzia in capo al terapeuta.
In conclusione si può ritenere possibile includere tra gli obblighi
dello psichiatra anche l’impedimento delle condotte eterolesive del
paziente. Se, infatti “non si può pretendere un atteggiamento
sistematico di repressione preventiva di tutte le iniziative, anche solo
potenzialmente lesive, assunte dal paziente perché ciò significherebbe
relegare l’operatore stesso al ruolo, ope legis desueto, di mero custode
e controllore, distogliendolo dall’azione terapeutica in senso
proprio[…]” tuttavia “si può e si deve esigere dal medico addetto al
servizio di psichiatria – anche al di fuori del regime di trattamento
sanitario obbligatorio – il massimo impegno dell’attenzione al fine di
stornare quelle condotte pericolose per l’incolumità fisica, propria o di
246 Si trattava, infatti, di paziente seguito da ben cinque anni dal medico psichiatra, il quale aveva diagnosticato un disturbo ossessivo compulsivo e un probabile disturbo di personalità. L’uomo inoltre era stato sottoposto a specifiche terapie farmacologiche; era stato ricoverato in ospedale alcune volte; aveva tentato più volte il suicidio e aveva aggredito diverse volte soggetti terzi.
121
altri, che le circostanze del caso concreto consentano di ritenere come
di prevedibile verificazione.”247
Si ritiene tuttavia che un simile obbligo non derivi dalla
circostanza che l’obbligazione del medico continui a comprendere in
ogni caso obblighi di assistenza e sorveglianza volti ad impedire le
condotte del paziente lesive per sé e per gli altri, ma dalla circostanza
che il contenimento di tali manifestazioni, esclusivamente nel caso in
cui esse costituiscano la specifica estrinsecazione sintomatica della
patologia, sia funzionale alla cura del malato e rappresenti dunque una
tappa imprescindibile nell’ambito di un’adeguata strategia terapeutica.
247 IADECOLA G. – BONA M., La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Profili penali e civili, Miano, 2009.
122
4. LA LIBERTÀ DI AUTODETERMINAZIONE DEL
PAZIENTE PSICHIATRICO NEL
TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO E
VOLONTARIO
4.1. IL TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO NELL’ATTUALE
ASSETTO LEGISLATIVO
4.1.1. La connotazione teleologica del ricovero coattivo dopo la
Legge Basaglia
Dall’analisi del dato normativo emerge nitidamente come la volontà
del legislatore nella riformulazione della disciplina fosse di espungere
dalla ratio del trattamento sanitario obbligatorio i vetusti concetti di
pericolosità e pubblico scandalo248. L’abbandono di queste nozioni si
tradusse in un cambiamento anche a livello lessicale: nelle ll. 13
maggio 1978, n. 180 e 23 dicembre 1978, n. 833 si evitò
accuratamente di riprodurre le formulazioni e i sintagmi della
disciplina del 1904.
Già prima dell’entrata in vigore della riforma del 1978, la dottrina
aveva negato la possibilità di legittimare sotto il profilo costituzionale
il ricovero coattivo sul presupposto della pericolosità249: la tutela della
salute pubblica ed individuale di cui all’art. 32 Cost., infatti, non può e
non deve essere confusa con la protezione della sicurezza pubblica250.
248 MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, p. 20. 249 ROMANO M.-STELLA F., Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente: aspetti penalistici e costituzionali, cit., p. 403. Gli Autori rilevano: “Nella Costituzione non è reperibile alcuna norma che giustifichi il sistema del ricovero coattivo sul fondamento della pericolosità”. 250 D. VICENZI AMATO, Commentario all’art. 32 Cost., cit., 192.
123
I presupposti di applicazione delle misure che “possono essere
disposte nei confronti di persone affette da malattia mentale” (art. 34,
comma 2, l. 23 dicembre 1978, n. 833) sono sostanzialmente tre. Nello
specifico il testo legislativo stabilisce: “Il trattamento sanitario
obbligatorio per malattia mentale può prevedere che le cure vengano
prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano
alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se
gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le
condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed
idonee misure sanitarie extraospedaliere.”
Parte della dottrina 251 ha colto nelle alterazioni psichiatriche
rilevanti ai fini dell’attivazione dei trattamenti terapeutici urgenti una
riaffermazione della pericolosità del malato. Aderendo a questa
impostazione tuttavia si finisce per far coincidere il fondamento del
trattamento sanitario obbligatorio in regime di degenza ospedaliera
(ossia del ricovero coattivo) con la pericolosità. In questo senso il
presupposto applicativo del TSO sarebbe rimasto immutato rispetto
all’assetto precedente e costituirebbe l’inveramento della minaccia
veicolata del malato, al cui contenimento dovrebbe concorrere l’azione
del medico
Alla luce di quanto si è detto in merito agli obblighi gravanti
sull’operatore di salute mentale, sembra invece opportuno ritenere che
nel quadro legislativo successivo alla riforma il trattamento sanitario
obbligatorio (al pari di quello volontario), non possa che essere
giustificato esclusivamente da fini terapeutici. Mentre nel precedente
regime normativo il ricovero coattivo era l’unica (inadeguata) risposta
fornita dall’ordinamento nei confronti dell’infermo di mente (e aveva 251 In questa prospettiva: INTRONA F., Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente, cit., p. 13; PALERMO, E., Brevi note sulla natura giuridica del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio per persona affetta da malattia mentale, cit., pp. 341 ss.; FIORI A., La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra, cit., p. 547.
124
eminentemente una funzione di neutralizzazione della sua presunta
pericolosità), oggi il TSO non può più essere interpretato e applicato
come uno strumento di difesa sociale. La connotazione essenzialmente
terapeutica è confermata dal fatto che, anche nei confronti del paziente
sottoposto a TSO, il sanitario sia tenuto a sviluppare delle iniziative
volte ad assicurarsi il consenso e la spontanea partecipazione del
malato252. L’attività del medico deve rivolgersi, infatti, all’inserimento
sociale del paziente psichiatrico “attraverso una delicata e complessa
opera di ricostruzione e/o crescita psicologica” 253 che non può
prescindere da un dovere di questo tipo.
In assenza di reali ed effettive necessità di cura sembra dunque
appropriato escludere l’applicabilità del trattamento sanitario
obbligatorio, anche considerando, dal punto di vista del diritto
positivo, che la legge non fa alcun riferimento ad esigenze di
contenimento e custodia254.
La giurisprudenza più recente è correttamente orientata ad escludere
la legittimità della richiesta di un TSO al solo fine di neutralizzare la
ritenuta pericolosità sociale del malato psichiatrico in assenza di
un’effettiva necessità terapeutica255. In quest’ottica l’attivazione del
252 CASTRONOVO C., La legge 180, la Costituzione e il dopo, in Riv. critica, dir. priv., 1986, pp. 607 ss.; MANACORDA A., Responsabilità dello psichiatra per fatto commesso da infermo di mente, cit., c. 122; VISENTINI G., La riforma in tema di assistenza psichiatrica. Problematica giuridica, in Politica del diritto, 1982, pp. 445 ss. 253 GRECO O.-CATANESI R., La responsabilità professionale dello psichiatra, Padova, 1990, p. 24. 254 VISENTINI G., La riforma in tema di assistenza psichiatrica. Problematica giuridica, in Politica del diritto, cit., p. 451; FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 109. In giurisprudenza: “Nella nuova cultura e disciplina ex L. 180/1978 la malattia mentale non è equiparata a pericolosità del malato per sé e per gli altri, sicché nel medico chiamato ad assisterlo deve prevalere lo scopo terapeutico rispetto a quello di contenimento e custodia, e seguentemente di ricovero in funzione di profilassi sociale […]”, così Trib. Trento, 29 luglio 2002, Bertuzzi, in Giur. merito, II, 2003, p. 138; in Rivista Penale, 2003, pp. 346 ss. 255 Vd. Cass., Sez. VI, sent. 15 maggio 2012, n. 18504, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 1707 ss.
125
trattamento sanitario obbligatorio potrebbe conseguire solo alla
constatazione dei più concreti ed allarmanti segnali di pericolo per la
salute del paziente, nel doveroso rispetto di un principio di gradualità e
proporzione dei rimedi cautelari: “se all’ambito del t.s.o. saranno
tendenzialmente riservate le fenomenologie più acute e gravi della
patologia psichiatrica, appare possibile e doveroso […] privilegiare e
preservare, nei limiti del possibile, lo stato di libertà del paziente
(anche se ricoverato nella struttura sanitaria) […]”256.
Tra le esigenze terapeutiche potrebbe sicuramente rientrare quella
di contenere il rischio suicidario del paziente (giacché – come si è già
argomentato in precedenza – la tutela della salute psicofisica del
paziente implica a fortiori la salvaguardia della vita dello stesso).
Inoltre, qualora l’aggressività nei confronti di terzi costituisca una
manifestazione della patologia, il medico dovrà utilizzare tutti gli
strumenti legittimi a sua disposizione ai fini del contenimento di tale
profilo sintomatico, ivi compreso il trattamento sanitario obbligatorio.
Quello che è necessario in entrambi i casi – si ribadisce – è che la
scelta del TSO sia funzionale esclusivamente al percorso terapeutico
che lo psichiatra, in scienza e coscienza, ritenga più adeguato.
Per quanto riguarda il rischio di autolesività, il sanitario non potrà
disporre un ricovero coattivo nel caso in cui, secondo un equilibrato
giudizio, non sussistano effettive esigenze terapeutiche che inducano a
ricorrere a tale strumento, ma si voglia semplicemente arginare un
remoto rischio suicidario.
In merito al rischio di eteroaggressività del malato, correttamente
in giurisprudenza si esclude la sussistenza di una responsabilità (ex art.
328 c.p.) in capo al medico che abbia omesso di promuovere un
ricovero finalizzato alla neutralizzazione di una generica pericolosità e
si osserva come “non possono essere posti a carico del medico del
centro di igiene mentale compiti di polizia il cui svolgimento può 256 GARGANI A., La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione: due casi “esemplari” di responsabilità ex art. 40 comma 2 c.p., cit., p. 1403.
126
essere reso necessario dal malato di mente”.257 Obblighi di mero
controllo disciplinare (che esulino da esigenze curative) sono, infatti,
estranei alla sfera operativa e alle funzioni tipiche del medico
psichiatra.
In conclusione il trattamento sanitario obbligatorio non potrà che
rappresentare l’extrema ratio cui ricorrere esclusivamente nei casi
d’immediato pericolo per la salute del paziente.
4.1.2. Forme di cooperazione tra operatori sanitari ed organi di
pubblica sicurezza: l’interdipendenza funzionale nei casi critici
L’inquadramento del trattamento sanitario obbligatorio nel contesto
terapeutico non consente di trascurare alcuni profili dello stesso che
non possono che implicare, in talune circostanze, un intervento della
Forza pubblica. Si fa riferimento alla questione – molto discussa
all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Basaglia – del soggetto
competente per l’esecuzione dell’accompagnamento del malato
psichiatrico presso i luoghi di cura, su cui il dato normativo tace. Tale
vuoto legislativo aveva suscitato numerose incertezze: mentre secondo
alcuni si sarebbe trattato ancora di un compito gravante sulla Forza
pubblica nonostante il cambiamento dell’assetto legislativo, secondo
altri invece quest’ultimo avrebbe comportato una traslazione in capo al
personale medico della suddetta competenza, costituendo essa una
mera operazione sanitaria.
Sul punto pare persuasiva una soluzione differenziata, che
contempli la gravità del quadro sintomatico della patologia e
soprattutto l’impossibilità per gli psichiatri di ricorrere a strumenti
coercitivi che non abbiano una finalità strettamente terapeutica. Si è
osservato persuasivamente in dottrina che l’accompagnamento
257 V. Cass., Sez. II, 11 maggio 1990, in Cass. pen., 1991, 68 ss., con nota di FERRARO.
127
dell’infermo di mente presso il luogo di cura, al pari di quanto avviene
per ogni altro malato, debba essere considerato competenza degli
organi dell’amministrazione sanitaria, ma che in situazioni particolari,
che palesino un grave rischio per l’incolumità e la sicurezza della
collettività, sia doveroso un intervento delle Forze di polizia258.
Nell’ipotesi in cui si profilino particolari difficoltà nell’attuare la
terapia – ove, per esempio, si manifestino forme di aggressività nei
confronti degli interventi sanitari – è prassi molto diffusa la richiesta di
collaborazione da parte delle forze istituzionali deputate all’attuazione
degli interventi coercitivi (come la polizia, i carabinieri, i vigili urbani,
ecc.). Ci si può dunque domandare se un’inerzia in tal senso (ossia
l’omissione di una richiesta di collaborazione, laddove necessaria)
possa costituire una violazione di un obbligo gravante sul medico, “sul
presupposto che l’obbligazione di cura implichi il dovere di attivare
supporti di natura coercitiva strumentali alla possibilità di praticare la
terapia”259 . Fermo restando la necessità di distinguere tra un’inerzia
non giustificata (e dunque possibile fonte di responsabilità) e
un’astensione motivata da una precisa scelta terapeutica (volta ad
escludere l’opportunità di un TSO), è possibile fornire una risposta
positiva al quesito valorizzando il dato normativo rappresentato
dall’art. 35, commi 5 e 7260. Questi ultimi prevedono, infatti, l’obbligo
258 ZANGANI P.-CITTADINI A.-FERRARI M„ Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale, in condizione di degenza ospedaliera, in Sicurezza Sociale, 1980, 35, p. 382. 259 S’interroga in merito: FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, c. 113, il quale prospetta la soluzione che segue nel testo. 260 I quali prevedono rispettivamente: “Il sanitario di cui al comma precedente è tenuto a comunicare al sindaco, sia in caso di dimissione del ricoverato che in continuità di degenza, la cessazione delle condizioni che richiedono l'obbligo del trattamento sanitario; comunica altresì la eventuale sopravvenuta impossibilità a proseguire il trattamento stesso. Il sindaco, entro 48 ore dal ricevimento della comunicazione del sanitario, ne dà notizia al giudice tutelare” e “La omissione delle comunicazioni di cui al primo, quarto e quinto comma del presente articolo determina la cessazione di ogni effetto del provvedimento e configura, salvo che non sussistano gli estremi di un delitto più grave, il reato di omissione di atti di ufficio.”
128
per il medico di comunicare al sindaco l’impossibilità sopravvenuta di
proseguire il trattamento sanitario obbligatorio. Si può ritenere che il
sindaco debba di conseguenza – in qualità di autorità amministrativa –
intervenire per rendere materialmente possibile l’esecuzione del
trattamento, anche tramite l’attivazione degli organi di Forza pubblica
deputati all’esercizio della coercizione fisica. Un’interpretazione
differente, d’altronde, non consentirebbe di comprendere il significato
della comunicazione al sindaco.
In definitiva si può ritenere che il mancato adempimento da parte
dello psichiatra dell’informativa al sindaco (in merito all’impossibilità
sopravvenuta) possa integrare il reato di omissione di atti di ufficio,
“salvo che non sussistano gli estremi di un delitto più grave” (come
quello di omicidio colposo).
4.1.3. I profili di responsabilità penale del medico nell’ambito del
TSO
La condotta dello psichiatra può assumere rilevanza penalistica
nell’ambito del trattamento sanitario obbligatorio sotto tre punti di
vista261. In primo luogo possono sussistere profili di responsabilità
rispetto alla fondatezza dei giudizi di carattere diagnostico-prognostico
formulati per affermare o negare la necessità del ricovero; in secondo
luogo in merito all’erroneità dei giudizi diagnostico-prognostici volti a
stabilire la persistenza o la cessazione dei presupposti del TSO; ed
infine in relazione alla corretta valutazione (sia all’inizio che durante il
corso del trattamento) delle condizioni che legittimano il ricovero
coattivo rispetto a quelle che possono essere poste esclusivamente alla
base di un ricovero volontario.
261 Illustra questa tripartizione: CANEPA G., Note introduttive allo studio della responsabilità professionale dello psichiatra in ambito ospedaliero, cit., p. 25.
129
Il giudizio sull’idoneità del trattamento sanitario obbligatorio a
fronteggiare la situazione clinica del paziente è indubbiamente
complesso, giacché risente di tutte le incertezze della diagnosi
psichiatrica e della prevedibilità dei comportamenti lesivi del paziente.
Le asperità nella valutazione si presentano chiaramente tanto nella fase
inziale quanto durante la degenza che nel momento finale della stessa.
Riguardo a quest’ultimo, si consideri poi come il giudizio
sull’opportunità della dimissione di un soggetto abbia come
presupposto l’idoneità organizzativa delle strutture sanitarie
extraospedaliere (che secondo la previsione legislativa dovrebbero
costituire la sede principale di ogni trattamento psichiatrico) ad
accoglierlo e trattarlo con maggiore adeguatezza: la circostanza che
tali strutture in moltissimi non siano in grado di espletare tali funzioni
non potrà ovviamente essere addebitata allo psichiatra, ma
esclusivamente all’inadempimento della pubblica autorità
nell’attuazione della legge262.
A ben vedere, quelli che possono essere addebitati al medico
psichiatra in questa sede sono essenzialmente errori di carattere
diagnostico, dai quali può scaturire la scelta terapeutica di escludere o
attivare il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza
ospedaliera. Il giudizio sulla correttezza della diagnosi (e della terapia
che ne è conseguita) dovrà essere praticato alla stregua dei medesimi
parametri utilizzabili nell’ambito del trattamento sanitario volontario.
Non si può dunque dimenticare che molto spesso “si tratta non di un
errore di diagnosi ma di un errore di prognosi e se la prognosi medica
(genericamente intesa) è difficile, la prognosi psichiatrica è
difficilissima.”263 Il giudice dovrà di conseguenza tener conto delle
maggiori incertezze, rispetto agli altri settori della medicina, che
caratterizzano la diagnosi psichiatrica. Questa considerazione tuttavia
262Cfr. CANEPA G., ivi. 263 INTRONA F., Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente, cit., p. 15.
130
non può indurre ad escludere la responsabilità del medico che abbia
compiuto un errore diagnostico in violazione delle più basilari regole
di perizia e diligenza, non riconoscendo le palesi manifestazioni
sintomatiche della patologia (fermo restando l’esigenza di considerare
i dati a disposizione del terapeuta ex ante, al momento
dell’elaborazione della diagnosi).
Il fatto che la legge abbia attribuito a ogni medico la facoltà di
avanzare la proposta di TSO non equivale ovviamente ad escludere
profili di doverosità in ordine a tale adempimento in capo allo
psichiatra alla cui attenzione sia stata sottoposta la situazione
patologica, ma “al contrario, ogni sanitario che si trovi ad aver a che
fare con un malato potenziale destinatario del Tso, se non ha l’obbligo
di avanzare automaticamente la relativa proposta, ha tuttavia il dovere
di verificare correttamente da un punto di vista tecnico se sussistono i
presupposti che fanno apparire necessario o consigliabile il ricorso a
questo tipo di trattamento” e “l’obbligo di formulare un tale giudizio
grava a maggior ragione sullo psichiatra del servizio pubblico, tutte le
volte che il contesto terapeutico in cui si trova a operare gli imponga di
esprimere il suo parere”264.
In uno dei leading case in materia265, la mancata richiesta del TSO è
stata posta alla base della responsabilità (per abbandono di incapaci) di
264 FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 111. 265 Trib. Perugia, 20 ottobre 1986, Manuali, cit., c. 107 ss. Tra le sentenze di assoluzione invece: Cass. pen., Sez. IV, 15 aprile 1998, Belpedio in Riv. pen., 1998, pp. 575 ss. I giudici di legittimità in questo caso hanno escluso la possibilità di configurare il reato di cui all'art. 591 c.p., contestato allo psichiatra e direttore di una struttura sanitaria. Il caso riguardava una paziente schizofrenica deceduta per collasso cardiocircolatorio dopo essersi allontanata dal luogo di cura attraverso il cancello della struttura, che l’imputato aveva disposto di lasciare sempre aperto. Seppure sia condivisibile l’esclusione della configurabilità di questo reato, non convince l’esclusione di altri reati, né la motivazione della sentenza, in cui si argomenta l’impossibilità di fare derivare una responsabilità a norma dell’art. 591 c.p. dall'omissione di sbarramenti strutturali, da considerarsi contra legem alla luce della riforma della l. 180/1978. Il senso della riforma psichiatrica, invece, non consiste affatto nel “bollare” come illegali eventuali
131
uno psichiatra del servizio di igiene mentale. In particolare il terapeuta
si era astenuto dal ricorrere a questa misura nei confronti di quattro
soggetti (membri di un nucleo familiare) tutti affetti da disturbi
psichiatrici, che si erano in seguito manifestati nell’uccisione della
madre da parte del figlio schizofrenico. La pronuncia del tribunale di
prime cure, oltre ad essere stata riformata nei successivi gradi di
giudizio, ha suscitato non poche perplessità in dottrina. In particolare è
stata giustamente contestata la configurabilità del delitto di abbandono
di incapaci in mancanza dell'assunzione in cura del malato da parte
dello psichiatra (e della conseguenziale insorgenza della posizione di
garanzia) e dell'elemento soggettivo del dolo, che dovrebbe
sostanziarsi in qualcosa di più rispetto alla semplice inerzia del
medico266.
Prescindendo dal caso di specie, alla luce di quanto detto nei
capitoli precedenti, non si può astrattamente escludere un addebito di
responsabilità a titolo di omicidio colposo o lesioni colpose per i
comportamenti auto o eteroaggressivi del paziente nei confronti dello
psichiatra che abbia omesso/rifiutato un TSO. Sarà tuttavia necessario
dimostrare innanzitutto una colposa violazione delle regole cautelari
nell’esercizio della discrezionalità tecnica in merito all’opportunità del
ricovero coattivo, e in secondo luogo che l’azione omessa avrebbe
(con probabilità vicina alla certezza) impedito il verificarsi dell’evento
lesivo. L’apprezzamento della colpa implica la valutazione
dell’effettiva necessità ed utilità terapeutica del TSO (per vagliare la
sussistenza di un’imprudenza, imperizia o negligenza sul piano
diagnostico o terapeutico), nonché la verifica della prevedibilità
dell’evento lesivo. Da ciò consegue che nel caso in cui, in base alle
peculiarità del caso clinico, il medico abbia ragionevolmente ritenuto
sbarramenti, ove essi si siano necessari alla tutela della salute dei degenti (tanto nel trattamento sanitario obbligatorio quanto in quello volontario). 266 FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 117.
132
non opportuno ai fini terapeutici un ricovero coattivo, non potrà
essergli addebitata alcuna responsabilità qualora si verifichi un evento
lesivo. Si ritiene in questo senso condivisibile la soluzione adottata dal
Tribunale di Trento 267 che, non riscontrando addebiti sul piano
diagnostico o terapeutico, ha assolto dal reato di omicidio colposo lo
psichiatra che aveva opposto un rifiuto al ricovero di un paziente.
Quest’ultimo era stato condotto al pronto soccorso in stato
confusionale e aveva minacciato il suicidio nel caso in cui non fosse
stato arrestato o ricoverato: in seguito al rifiuto aveva attuato la sua
minaccia. La soluzione giurisprudenziale sembra tuttavia condivisibile
giacché la decisione del medico era fondata sulla circostanza che
l’uomo avesse fatto in precedenza sistematicamente ricorso alla pretesa
del ricovero in ospedale, minacciando ogni volta gesti autolesivi: il
terapeuta aveva dunque ritenuto che l’accettazione della richiesta del
paziente non fosse coerente con il percorso terapeutico in atto, volto
alla liberazione del malato dall’ideazione suicidaria e che non vi fosse
un’effettiva probabilità che l’uomo potesse attuare l’atto minacciato. In
una situazione simile non si pone neppure il problema della verifica
del nesso di causa, giacché nessun addebito può essere mosso nei
confronti di uno psichiatra che abbia agito in conformità alle regole
cautelari, anche nel caso in cui l’azione omessa avrebbe, con
probabilità vicina alla certezza, impedito il verificarsi dell’evento
lesivo. Invece, nell’ipotesi in cui si riscontrino una colposa violazione
delle leges artis e la prevedibilità dell’evento lesivo, si porrà il
problema dell’accertamento del nesso eziologico. Tale verifica tuttavia
si atteggia di estrema complessità, specie ove si consideri la
parcellizzazione delle competenze nell’iter procedimentale del
trattamento sanitario obbligatorio. Essa rende, infatti, difficile la
ricostruzione (tramite un ragionamento ipotetico) del paradigma
eziologico e non consente agevolmente di affermare l’efficacia
267 Trib. Trento, 29 luglio 2002, cit., p. 138.
133
impeditiva della condotta omessa (richiesta del ricovero coattivo). La
semplice proposta non è infatti da sola idonea a sortire questo effetto,
giacché, ai sensi della legislazione vigente, sono necessari la convalida
motivata di un altro medico della struttura sanitaria (in genere del
servizio psichiatrico pubblico) e il provvedimento del sindaco, che
dispone effettivamente l’esecuzione del trattamento (entro quarantotto
ore) 268 . L’accertamento ipotetico dovrà dunque considerare se la
procedura richiesta potesse essere o meno attivata in un tempo utile ad
evitare l’evento lesivo269.
Occorre conclusivamente osservare come il procedimento previsto
dall’attuale normativa sia eccessivamente farraginoso ed inadeguato a
rispondere alle esigenze di immediata tutela della salute del paziente.
La complessa procedura è dettata essenzialmente da tre articoli della l.
23 dicembre 1978, n. 833: l’art. 33, comma 2 (che prescrive il
provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su
proposta motivata di un medico); l’art. 34, comma 4 (che contempla la
convalida da parte di medico dell’unità sanitaria locale che precede il
provvedimento); l’art. 35, comma 1 (che si riferisce al termine di 48
ore per l’emanazione del provvedimento dopo la convalida). Tali
norme, a causa della loro macchinosità, rischiano di cagionare gravi
ritardi, che possono essere pregiudizievoli tanto per la salute del
malato quanto per la collettività270. Sarebbe pertanto auspicabile un
intervento legislativo volto a snellire la procedura di attivazione del
TSO, magari omettendo il provvedimento del sindaco e garantendo
una maggiore autonomia del personale medico nell’assunzione di
questa delicata decisione. Si potrebbe, al fine di limitare il più
possibile l’arbitrio del singolo sanitario, prevedere comunque un
procedimento di co-decisione nell’ambito della struttura ospedaliera, 268 Artt. 33, 34, 35, l. 23 dicembre 1978, n. 833. 269 Cfr. FIANDACA G., Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra, cit., c. 112. 270 FIORI A., La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra, cit., p. 548.
134
purché sufficientemente rapido da garantire un’efficace tutela della
salute del paziente.
Una simile prospettiva di semplificazione procedurale
consentirebbe anche di rendere meno arduo ed incerto l’accertamento
del nesso di causalità tra l’omessa attivazione della procedura del TSO
e la verificazione di un evento lesivo.
Sempre nell’ottica di ridurre i margini del contenzioso in materia e
soprattutto di approntare il più elevato livello possibile di tutela della
salute del malato, si è persuasivamente criticato in dottrina il
presupposto (attualmente richiesto dalla l. 23 dicembre 1978, n. 833,
art. 34, comma 4) delle “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti
interventi terapeutici”, che non è in grado di rispondere adeguatamente
alle necessità che possono profilarsi in determinati casi. Tale requisito,
pur avendo l’obiettivo di costituire una remora nei confronti di un
ricorso troppo lasco al trattamento obbligatorio, sembra
eccessivamente limitativo, tanto da poter talvolta compromettere le
esigenze terapeutiche del malato: si è proposto dunque di sostituire il
requisito dell’urgenza con quello della necessità271. Se una modifica di
questo tipo è sicuramente idonea ad ampliare la discrezionalità del
medico, d’altra parte consentirebbe maggiori “margini di manovra”,
che possono scongiurare l’esacerbarsi del quadro clinico del paziente
intervenendo in un momento anteriore rispetto a quello connotato
dall’urgenza, attualmente richiesta per il TSO: questo potrebbe
271 FIORI A., ibidem, p. 547, il quale argomenta: “Sono queste necessità che debbono determinare l’obbligatorietà del trattamento e non già l’urgenza in quanto tale. Che i casi più evidenti e clamorosi abbiano anche il requisito della urgenza — distinguibile com’è noto in urgenza assoluta (si parla spesso di ricovero urgentissimo) e relativa — è pacifico. Tuttavia esistono casi […] in cui il malato di mente è incapace di dare un valido consenso, si oppone alle cure, ha bisogno di terapia ospedaliera, ma ciò con carattere di elezione, sia pure relativa, nel senso di una ragionevole dilazionabilità: si pensi all’anoressia psichica nello stadio intermedio, al diabete, alla cardiopatia del malato di mente e così via. Ci sembra dunque che questo limite, costituito dall’urgenza, debba essere corretto o sostituito da termini più ampi e suscettibili di interpretazione elastica”.
135
tradursi non solo in un beneficio per la salute del paziente, ma anche in
un ostacolo all’instaurazione di quelle situazioni prodromiche rispetto
alla manifestazione di atti auto ed eteroaggressivi.
136
4.2. IL CONSENSO DEL MALTO PSICHIATRICO
4.2.1. Il consenso informato come principio generale dell’ambito
medico
L’abbandono della concezione “paternalistica” del rapporto tra
medico e paziente, che vedeva quest’ultimo estraneo alla scelta del
percorso curativo da intraprendere e del tutto “in balia” delle scelte
terapeutiche praticate dal medico (sia in merito al profilo dell’an che
del quomodo) ha comportato la valorizzazione della dignità e del
diritto all’autodeterminazione del paziente. Nella concezione
ippocratico-paternalistica l’informazione nei confronti del malato non
era considerata un dovere conseguente alla libertà di
autodeterminazione della persona, ma esclusivamente un mezzo cui
ricorrere nella misura in cui la consapevolezza da parte del paziente
potesse tradursi in un atteggiamento collaborativo verso la strategia
terapeutica272. Si è passati dunque da un quadro in cui il medico si
configurava come l’unico e incontrastato dominus della strategia
terapeutica alla teorizzazione del concetto di alleanza terapeutica, che
vede il co-protagonismo del paziente nelle scelte concernenti la tutela
della sua salute. Un ruolo fondamentale in questa transizione è stato
sicuramente ricoperto dalla “contrattualizzazione” dell’ambito della
responsabilità medica, che ha posto l’accento sull’imprescindibilità di
un valido e libero consenso del contraente e della completezza e
correttezza delle informazioni da trasmettere al momento della
stipulazione del contratto.
Il consenso del paziente costituisce – secondo un orientamento
ormai pacifico tanto in dottrina quanto in giurisprudenza –
272 BIRKHOFF J.M., Informare il paziente psichiatrico sul suo disturbo mentale e sulle cure possibili: dovere o facoltà?, in La responsabilità professionale dello psichiatra, cit., pp. 14 ss.
137
legittimazione e fondamento del trattamento sanitario 273 .
L’inquadramento del consenso informato come presupposto di liceità o
requisito di legittimità dell’attività medica274, consente di distinguere
nettamente la nozione in questione dalla scriminante codicistica del
“consenso dell’avente diritto”. Inoltre un’equiparazione con
quest’ultima del consenso al trattamento medico sarebbe in palese
contrasto con l’assodato riconoscimento di un autonomo fondamento
giustificativo dell’attività terapeutica, che si autolegittima in virtù della
sua utilità sociale275.
La materia del consenso informato, nell’ordinamento interno,
sembra dominata dall’anarchia delle fonti276. Degna di nota è invece
l’attenzione riservata al tema in ambito europeo e internazionale, di cui
sono peraltro testimonianza due documenti recentemente emanati
dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa277.
273 Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 438, in Giur. cost., 2008, VI, 4945, con nota di BALDUZZI – PARIS. 274 Cass., 11 luglio 2001, n. 1572, Firenzani, in Cass. pen. 2002, 2041, con nota di IADECOLA G. 275 IADECOLA G., Potestà di curare e consenso del paziente, Padova, 1998, cit., 35 ss.; in giurisprudenza, tra le tante: Cass., 23 maggio, 2001, n. 7027, in Foro it., 2002, I, pp. 2508. 276 Un’efficace immagine dell’incastro di fonti normative in materia di consenso informato e del loro meccanismo di funzionamento “a scatole cinesi” è proposta da ZATTI P., Il diritto a scegliere la propria salute (in margine al caso S. Raffaele), in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, p. 12: “Viene in rilievo allora una recente storia di provvedimenti normativi che non possono più essere trascurati e che hanno in comune una singolare collocazione sul terreno delle fonti. La fonte è sempre composita: legge delega, decreto legislativo; decreto ministeriale; all’uno o all’altro livello vi è un recepimento di fonti internazionali, sia giuridiche che deontologiche, e di un importante documento del Comitato nazionale di Bioetica; definizioni e requisiti del consenso vengono precisati nella fonte ministeriale, che ricava forza di legge dalle fonti ‘superiori’.” Ad oggi la legge di ratifica della Convenzione di Oviedo, la l. 145/2001, costituisce l’unico riferimento normativo di carattere generale che introduce l’istituto del consenso informato: ROSSI E., Profili giuridici del consenso informato: I fondamenti costituzionale e gli ambiti di applicazione, su www.associazionedeicostituzionalisti.it, rivista IV, 2011, 3. 277 Risoluzione 1859 (2012) e Raccomandazione 1993 (2012) relativi alla manifestazione del consenso informato nei trattamenti sanitari in previsione
138
Una delle prime avvisaglie da parte del legislatore dell’esigenza di
accogliere in sede normativa i principi elaborati dalla giurisprudenza e
dalle fonti sovranazionali in materia di consenso informato è
rappresentata proprio dalla l. 13 maggio 1978, n. 180, in cui
s’intravede in nuce la necessarietà del consenso informato nella
previsione che gli accertamenti e i trattamenti siano volontari, salve le
previste eccezioni 278 . Di portata più generale (e doverosa) è la
menzione riservata al consenso informato dalla l. 23 dicembre 1978, n.
833, che – come si è già visto – prevede espressamente che “gli
accertamenti ed i trattamenti sanitari sono, di norma, volontari”279.
Dello stesso anno, la l. 194/78, in materia d’interruzione della
gravidanza, menziona a sua volta il necessario rispetto della regola.
Nel corso del tempo il richiamo al principio del consenso informato è
divenuto sempre più frequente, confermandone la sua natura di
principio di portata generale280.
Tra gli interventi più recenti è invece opportuno menzionare la l.
19 febbraio 2004, n. 40 (in materia di procreazione medicalmente
assistita) il cui art. 6 è rubricato “Consenso informato”; e la l.
219/2005 (che disciplina le attività trasfusionali e la produzione di
emoderivati) che pure fa riferimento al consenso informato all’art. 3.
Il consenso informato è costantemente richiamato in atti
sovranazionali. Innanzitutto il riferimento va alla Convenzione
d’Oviedo 281 , ma rilevanti sono anche Carta di Nizza 282 e la
Convenzione sui diritti del fanciullo di New York283.
di uno stato di incapacità. Per un breve commento: FALLETTI E., Consenso informato, in Fam. e dir., 2012, VI, pp. 628 ss. 278 In precedenza rispetto a questo intervento, un cenno al consenso informato si riscontra nella l. 458/1967 che ha disciplinato le modalità di trapianto di rene tra vivi. 279 Art. 33, l. 23 dicembre 1978, n. 833. 280 Tra i vari interventi legislativi, si può ad esempio menzionare: la l. 107/1990 relativa alle trasfusioni di sangue e la l. 135/1990 in tema di accertamenti dell’infezione da HIV. 281 Convenzione firmata il 4 aprile 1997. L’art. 5 prevede significativamente che: “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non
139
Per quanto riguarda il nostro Paese, il fondamento costituzionale
del consenso informato può essere rinvenuto nel combinato disposto
degli artt. 2, 13 e 32 Cost.284 . Il fil rouge tra personalità, libertà e
salute è radicato nell’art. 32 Cost., ove si qualifica il diritto alla salute
come fondamentale, ed è incardinato nell’interconnessione tra tali
diritti, desumibile dall’attrazione della libertà di disposizione del
proprio corpo, operata da tempo dalla Corte costituzionale 285 ,
nell’orbita della libertà personale garantita dall’art. 13 Cost. 286 .
L’ampiezza di quest’ultimo diritto menzionato è riconosciuta tale da
comprendere nell’autodeterminazione terapeutica anche la libertà del
paziente di lasciarsi morire mediante il rifiuto della cura287. La libertà
di autodeterminazione costituisce, infatti, un aspetto del diritto di
ciascuno a disporre dei propri beni personali, finanche della sua stessa
vita288. Mediante il rifiuto o il consenso alla terapia proposta, il
paziente, più che compiere un atto dispositivo ai sensi dell’art. 5 c.c.,
esercita un diritto di libertà a tutela del proprio benessere esistenziale:
dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto un’informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”. 282 Carta proclamata il 7 dicembre 2000, il cui art. 3 sancisce che nell’ambito della medicina e della biologia debba essere rispettato, insieme a specifici divieti “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge”. 283 Firmata il 20 novembre 1989, e ratificata dall’Italia con la l. 176/1991. L’art. 24 stabilisce che: “tutti i gruppi della società, in particolare i genitori ed i minori ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minore.” 284 Corte cost., 15 gennaio 1997, n. 364, in Foro it., 1997, I, 771 e Cass., 23 maggio, 2001, n. 7027, in Foro it., 2002, I, pp. 2508 ss. 285 Corte cost., 22 ottobre 1990, n. 471, in Foro it. 1991, I, 14 ss. con nota di ROMBOLI R.; in Giur. it. 1991,I, 622 con nota di MUSUMECI. 286 Cfr. ZATTI P., Il diritto a scegliere la propria salute (in margine al caso S. Raffaele), cit.., p. 1. 287 CUPELLI C., La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, cit., p. 73. 288 GIUNTA F., Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. proc pen., 2001, p. 378.
140
alla base di un atto di disposizione del proprio corpo, infatti, c’è
sempre un atto di autonomia tramite il quale si acconsente alla cura289.
Il consenso può considerarsi valido e giuridicamente rilevante solo
ove sia stato preceduto da un’adeguata informazione: il paziente deve
quindi essere informato e consapevole del significato e delle
conseguenze del trattamento sanitario cui debba sottoporsi. Un valido
consenso deve essere prestato da una persona che: disponga del diritto
in merito al quale esprime il consenso; sia legittimata a consentire;
abbia la capacità e sia libera di agire. Il consenso deve essere inoltre
attuale (ossia prestato al momento del trattamento sanitario e valido
durante tutto il suo corso) e manifesto (cioè palese nella sua
estrinsecazione contenutistica, non essendo plausibili forme di
consenso tacito o presunto).
Un focus sul consenso informato si giustifica, non solo poiché
esso costituisce il fondamento di liceità dell’atto terapeutico, ma anche
perché esso rappresenta il presupposto e, al contempo, il limite
insuperabile della posizione di garanzia del medico (da cui può
scaturire una responsabilità ex art. 40, comma 2, c.p.), giacché “gli
obblighi di cura del medico, che sono originariamente più ampi ed
indistinti, subiscono, in virtù del patto tra medico e paziente, una
ridefinizione, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, dando rilievo,
tra i vari obblighi impeditivi, solo a quelli assistiti da poteri di agire
consentiti dal paziente” e a ciò consegue che “un’inequivocabile
richiesta del paziente di non essere sottoposto a cure fa venir meno in
capo al medico lo stesso obbligo giuridico di curarlo, mancando il
necessario titolo di legittimazione dell’esecuzione del trattamento.”290
289 DE MATTEIS R., Responsabilità e servizi sanitari. Modelli e funzioni in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da GALGANO F., vol. XLVI, Padova, 2007, cit., 31 ss. e 316 ss. 290 CUPELLI C., La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, cit., pp. 72-73.
141
4.2.2. Consenso informato e malattia mentale
Preliminarmente rispetto all’indagine del problema del consenso nel
settore psichiatrico, è opportuno rilevare come un consenso “perfetto”
da parte del paziente rappresenti un’utopia in ogni campo della
medicina, non solo in vista dell’ineliminabile asimmetria informativa
esistente tra medico e paziente, ma soprattutto in virtù della peculiare
situazione in cui versa quest’ultimo. La tensione emotiva che opprime
il malato, con i suoi connotati di angoscia e sofferenza, non può che
esercitare compressioni sulla sua libertà di scelta ed interferire sulla
serenità del giudizio291. Tuttavia per il malato “comune” si ritiene che
una simile condizione sia fisiologica; per quanto riguarda il malato
psichiatrico invece, la questione si pone in tutt’altri termini. Mentre il
turbamento psichico in linea di massima non inficia la legittimità del
consenso prestato, in determinate ipotesi, la situazione del paziente
affetto da malattie mentali può porsi in contrasto con la possibilità di
esprimere un consenso valido dal punto di vista giuridico.
Alla luce della preferenza accordata dal legislatore per il modello
volontaristico, che non può che postulare come presupposto operativo
la validità di quell’espressione di volontà che costituirà (di norma) la
base dell’intervento terapeutico, la verifica della legittimità del
consenso espresso dal malato costituisce una tappa ineludibile (anche
ove si consideri che il mancato consenso rappresenta – come si è visto
– uno dei presupposti applicativi del trattamento sanitario
obbligatorio). È tuttavia di estrema difficoltà tracciare un paradigma di
valutazione del consenso informato poiché “se già nella medicina
somatica il medico deve attentamente considerare il soggetto che ha di
fronte per valutare se e come informarlo circa la sua malattia, di fronte
alla patologia mentale, per le caratteristiche sue proprie che la rendono
291 JOURADAN S., Aspetti deontologici e medico-legali dell’informazione, in Aspetti del consenso in psichiatria clinica e forense, FORNARI U. (a cura di), Torino, 2001, p. 7.
142
in qualche modo ‘inafferrabile’, ogni regola di comportamento sembra
essere ancora più aleatoria”292.
La questione fondamentale da affrontare in merito al consenso del
paziente psichiatrico riguarda ovviamente la possibilità di ritenere che
esso sia invalidato dall’infermità mentale. A questo interrogativo,
posto nei termini categorici appena prospettati, si diede in modo
condivisibile risposta negativa già all’indomani dell’affiorare del
problema nei dibattitti dottrinali che sorsero dopo l’introduzione a
livello legislativo dei concetti di “richiesta di cura” e di “consenso alla
cura”293. Si ritenne invece discutibilmente equipollente ad un valido
consenso il mancato dissenso rispetto alla domanda di ricovero-cura.
Tale convinzione appare inaccettabile già nell’ambito generale della
responsabilità medica: dal rango di diritto fondamentale della libertà di
autodeterminazione si desume, infatti, la necessità che essa non sia
svilita né dalla burocratizzazione del consenso informato, che lo
degrada alla firma su un modulo prestampato 294, né dalla possibilità di
ritenere sufficiente un consenso meramente presunto, come
puntualmente si verifica dando credito in quest’ambito al detto
secondo cui “chi tace acconsente”. Una simile presunzione appare poi
assolutamente infondata nel campo della malattia mentale, non
potendosi affatto identificare l’assenza di dissenso o la presenza di un
generico assenso da parte del paziente psichiatrico con un consenso
validamente espresso, giacché “occorre procedere con molta cautela
nel ritenere ‘idonee’ e ‘consapevoli’ adesioni ricavate
semplicisticamente da comportamenti che potrebbero, al contrario,
essere indicatori di patologia mentale inficiante”295.
292 BIRKHOFF J.M., Informare il paziente psichiatrico sul suo disturbo mentale e sulle cure possibili: dovere o facoltà?, cit., p. 25. 293 MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, p. 19. 294 Vd. Trib. Milano, 18 giugno 2003, in Giur. milanese, 2003, pp. 51 ss. 295 FORNARI U., Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali, cit., p. 359.
143
Un’altra convinzione diffusa in passato, sperabilmente superata
nell’attuale concezione della malattia mentale, riguarda la
sovrapposizione concettuale tra la mancata accettazione delle cure e la
pericolosità nei confronti della propria salute. Si è giustamente rilevato
criticamente in dottrina come l’equazione tra il rifiuto delle cure e la
pericolosità a sé sia infondata, argomentando che, mentre nella
precedente disciplina la pericolosità era considerata un sintomo
dell’infermità, nella nuova configurazione normativa “il danno alla
propria salute deriva da un sintomo ben diverso, che non è l’auto-
aggressività, ma la mancata coscienza di malattia ed il conseguente
rifiuto delle cure necessarie”296.
È opportuno valutare se, così come il generico riconoscimento
della capacità del malato psichiatrico di esprimere un consenso valido
ha un radicamento morale, abbia anche un fondamento medico-
giuridico: questa verifica tuttavia non può che essere svolta nel caso
concreto, giacché l’abbandono degli schemi d’intervento offerti dalla
vecchia psichiatria ha anche comportato la rinuncia agli stereotipi e ai
comodi automatismi cui si ricorreva nel passato 297 . Non solo il
giudizio dovrà essere necessariamente calibrato sul caso in esame, ma
dovrà anche seguirne l’evoluzione nel corso del tempo, poiché “ogni
singolo caso e le sue condizioni mentali possono poi modificarsi, sia
spontaneamente, sia terapeuticamente, perché fenomeni dinamici per
definizione; un’incapacità iniziale potrebbe, infatti, successivamente e
drammaticamente mutare se, per esempio, l’approccio con il paziente
cambia, o se si riesce a impedire l’attivazione, difensiva e reattiva, di
livelli primitivi e psicotici della personalità; se, ancora, il contesto in
cui si trova il soggetto in esame varia.”298
296 CANEPA G., Note introduttive allo studio della responsabilità professionale dello psichiatra in ambito ospedaliero, cit., pp. 23 ss. 297 MASOTTI G.-SARTORI T.-GUAIOTOLI G., Il consenso del malato di mente ai trattamenti sanitari, in Riv. it. med. leg., 1992., p. 306. 298 BIRKHOFF J.M., Informare il paziente psichiatrico sul suo disturbo mentale e sulle cure possibili: dovere o facoltà?, cit., p. 22.
144
Pur dovendosi riconoscere la necessità di valutare la capacità del
paziente psichiatrico di prestare un valido consenso con un surplus di
attenzione rispetto alla media, si deve tuttavia respingere l’equazione
tra malattia mentale e incapacità di intendere e di volere. La l. 23
dicembre 1978, n. 833 ha, infatti, equiparato, sotto il profilo del
consenso agli accertamenti e ai trattamenti sanitari, il malato
psichiatrico a qualsiasi altro malato, riconoscendogli
significativamente il diritto di accettare o rifiutare la cura e
respingendo la tradizionale lettura della malattia mentale come causa
d’incapacità di intendere e di volere299. D’altra parte anche nell’ambito
delle perizie psichiatriche, volte a decretare la capacità di intendere e
di volere del reo ai fini dell’imputabilità, si riconosce come tale
capacità prescinda dalla diagnosi di una malattia psichiatrica, stante
l’assodata autonomia tra i due fenomeni.
Si potrà affermare un’incapacità decisionale soltanto nel caso in
cui la malattia sia talmente grave da interferire in modo rilevante con i
meccanismi psichici necessari per esercitare la capacità di decidere300.
Esclusivamente in tal caso il consenso del paziente sarà surrogato da
quello prestato dai soggetti a ciò legittimati dalla legge (in base alla
disciplina dei diversi istituti dell’ordinamento volti a sopperire
all’incapacità del soggetto). In tutte le altre ipotesi, anche in presenza
di patologie psichiche gravi (che lascino tuttavia inalterata la capacità
di autodeterminazione del soggetto), si dovrà riconoscere la validità
del consenso prestato dal malato psichiatrico, alle medesime
condizioni in cui si può considerare legittimo il consenso espresso da
un malato affetto da una qualsiasi altra patologia . Si osserva
efficacemente in dottrina che il paziente psichiatrico “non perde il 299 MASOTTI G.-SARTORI T.-GUAIOTOLI G., Il consenso del malato di mente ai trattamenti sanitari, cit., p. 305. 300 FORNARI U., Trattato di psichiatria forense, cit., p. 971. L’Autore menziona in tal proposito a titolo esemplificativo: “i disturbi gravi di personalità e quelli psicotici in fase di scompenso oppure i quadri dominati da un disturbo delirante (a tematica per lo più persecutoria o depressiva) o da un deterioramento cognitivo”.
145
diritto di tutelare la propria salute […] né tantomeno la sua libertà di
autodeterminarsi per il solo fatto che la patologia da cui è affetto
incide sul piano psichico anziché su quello meramente fisico” e che in
virtù della sua malattia non “può risultare compromesso il suo
inalienabile diritto di incidere significativamente sui limiti degli
obblighi del medico o di ‘percepire’ un obiettivo terapeutico da
‘condividere’ nell’alleanza con lo psichiatra che lo ha in cura”301. Il
concetto della condivisione di una strategia terapeutica assume
assoluta centralità nell’ambito de qua in cui più che un’informazione
nei confronti del malato è auspicabile una comunicazione con lo stesso
e in cui più che il profilo quantitativo rileva quello qualitativo della
trasmissione delle informazioni302, che devono essere plasmate in base
alla peculiare situazione del paziente psichiatrico, le cui capacità di
comprensione possono essere alterate (ove non compromesse) dalla
malattia. Il necessario adeguamento tuttavia non implica in nessun
modo l’occultamento della reale condizione psichica del paziente,
poiché l’informazione, anche nel caso del paziente psichiatrico, dovrà
essere veritiera. Resta inoltre ferma per il medico la necessità di evitare
di inculcare tanto vane speranze quanto un inopportuno pessimismo. Si
potrà tuttalpiù ritenere legittima una parziale attenuazione della gravità
del quadro clinico qualora si ritenga che il rendere partecipe il malato
della “cruda verità” possa interferire negativamente con il percorso
terapeutico o cagionare scompensi ulteriori.
4.2.3. Rilievi critici sulla disciplina del consenso del paziente
psichiatrico
301 CUPELLI C., La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, cit., pp. 87-88. 302 BIRKHOFF J.M., Informare il paziente psichiatrico sul suo disturbo mentale e sulle cure possibili: dovere o facoltà?, p. 24.
146
Un profilo di problematicità in merito alla normativa sul consenso
informato, riguarda l’assenza di una specifica disciplina concernente il
settore psichiatrico tanto nell’ambito legislativo quanto in quello del
codice deontologico. L’assenza di espressi riferimenti alla materia de
qua in quest’ultimo suscita indubbiamente perplessità, specie
considerando che l’ultima versione del Codice di Deontologia Medica
è aggiornata al maggio 2014, e che contempla, tra i casi peculiari,
quello del minore303 . La mancata menzione delle specifiche esigenze
di adeguamento dell’informativa da trasmettere al paziente psichiatrico
potrà tuttavia essere sopperita ricorrendo alla disposizione generale in
base alla quale “il medico adegua la comunicazione alla capacità di
comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale,
corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della
sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di
prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza.”304
Un altro profilo di criticità riguarda la discrezionalità lasciata al
giudice nel valutare l’estensione e la portata delimitativa della volontà
del paziente nella sua interazione con i poteri d’azione e gli obblighi
dello psichiatra. Il problema si pone in particolare nell’ambito del
trattamento sanitario volontario, nel quale – in conformità a quanto si è
detto – sussiste una posizione di protezione in capo al sanitario. Non si
può tuttavia escludere che la volontà da parte del malato di compiere
atti autolesivi o di suicidarsi possa essere frutto di
un’autodeterminazione dello stesso (ed in quanto tale incoercibile da
parte del terapeuta, che, al pari di quanto avviene in altri ambiti della
medicina, non può imporre il suo, pur salvifico, intervento contro la
volontà del paziente). È però estremamente complesso stabilire quale
sia il confine tra una volontà autolesiva derivante dalla patologia e una 303 Art. 33, comma 4: “Il medico garantisce al minore elementi di informazione utili perché comprenda la sua condizione di salute e gli interventi diagnostico-terapeutici programmati, al fine di coinvolgerlo nel processo decisionale.” 304 Art.33, comma 1, Codice di Deontologia Medica (2014).
147
espressiva dell’autodeterminazione del malato. Di conseguenza si crea
una situazione di grande indeterminatezza, per esempio, nel caso in cui
il paziente ad alto rischio suicidario in TSV, faccia richiesta di uscire
dalla clinica psichiatrica senza essere accompagnato. Si tratterà in
questo caso di una legittima revoca del consenso per facta
concludentia (dunque vincolante per il sanitario) o dell’anticamera
dell’estrinsecazione della patologia che il sanitario deve contenere? Il
problema si è posto in termini drammatici in giurisprudenza, in
particolare nel caso trattato dalla Cass. pen., Sez. IV, n. 48292/2008305,
Desana. Si controverteva sulla responsabilità del sanitario che aveva
concesso ad un degente di allontanarsi dalla struttura di ricovero
volontario, consentendone il suicidio mediante defenestrazione da un
alto palazzo. L’uomo era affetto da disturbo depressivo e nel corso
della degenza aveva dichiarato più volte di provare impulsivi auto
soppressivi e aveva anche tentato il suicidio. La Cassazione ha
affermato la responsabilità penale dello psichiatra per non aver
assicurato un’adeguata sorveglianza del paziente, inibendone l’uscita
mediante apposite istruzioni al personale infermieristico. Al di là dei
profili specifici del caso esaminato dalla Cassazione, quello che
emerge chiaramente è come in una situazione di questo tipo, in cui il
paziente in trattamento sanitario volontario manifesta espressamente la
volontà di allontanarsi dal reparto non accompagnato dal personale
medico o infermieristico, il medico psichiatra si trova nella
difficilissima condizione di scegliere se inquadrare la volontà del
paziente in termini di revoca del consenso (rischiando tuttavia di
vedersi addebitata una responsabilità a titolo di omicidio colposo in
caso di suicidio del paziente) o ritenere le intenzioni del paziente
manifestazione della patologia e vietarne l’allontanamento (rischiando
invece in questo caso di fronteggiare le conseguenze penalistiche
dell’imposizione coattiva del ricovero al di fuori del consenso del 305 Cass. pen., Sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292, Desana, cit., pp. 1462 ss.
148
paziente e dei presupposti del trattamento sanitario obbligatorio). Una
situazione del genere pone innegabilmente il medico in una strettoia ed
induce a ritenere improcrastinabile un intervento legislativo volto a
disciplinare compiutamente questo profilo della materia psichiatrica. Si
potrebbe, per esempio, prevedere la necessità per il terapeuta e il
paziente (all’inizio del ricovero volontario) di prestabilire un arco
temporale, che dovrebbe essere consensualmente determinato in base
alla volontà del malato e alle indicazioni diagnostico-terapeutiche del
medico, in cui quest’ultimo si faccia carico della tutela della salute del
paziente, potendo anche prendere delle decisioni che contrastino con la
volontà estemporaneamente espressa dal degente (senza in tal caso
rischiare di incorrere in addebiti di responsabilità306).
306 Nella trattatistica del passato un ampio spazio era dedicato al cd. “sequestro di persona manicomiale”, che potrebbe trovare un indebito revival in situazioni analoghe a quella prospettata.
149
5. CONCLUSIONI
Il percorso di analisi condotto ha preso le mosse dalla necessità di
inquadrare la posizione dello psichiatra nell’ambito della
responsabilità penale del medico all’indomani dei cambiamenti
apportati al nostro ordinamento dalle riforme del 1978 (ll. 13 maggio
1978, n. 180 e 23 dicembre 1978, n. 833) e di circoscrivere gli obblighi
gravanti sul medico psichiatra.
Si è constatato come, nel nuovo assetto legislativo, obblighi di
contenuto custodialistico (volti esclusivamente a fronteggiare la
pericolosità del paziente per se stesso o nei confronti di terzi) debbano
essere considerati estranei al complesso dei doveri gravanti sul
terapeuta. Occorre prendere atto che lo psichiatra non può e non deve
costituire il “braccio sanitario della pubblica sicurezza”307. Sembra
dunque criticabile la riproposizione – che pure talvolta si riaffaccia in
dottrina – di una nozione di pericolosità del malato psichiatrico
funzionale all’ascrizione di obblighi di custodia in capo al terapeuta,
“magari camuffati con l’adempimento di funzioni terapeutiche”,
giacché una simile impostazione ormai “non pare coerente con
l’assetto normativo vigente”308.
In questa prospettiva si deve riconoscere alla riforma il merito di
aver epurato il nostro ordinamento (almeno dal punto di vista formale)
dalla concezione del paziente psichiatrico come un soggetto pericoloso
da cui tutelare la società in ossequio ad un modello “asilare” e di aver
traghettato la legislazione psichiatrica verso un approccio in cui
acquistano finalmente centralità la cura, la reintegrazione del soggetto
e – per quanto possibile – la sua libera partecipazione al percorso
307 GRECO O.-CATANESI R., La responsabilità professionale dello psichiatra, cit., p. 20. 308 INSOLERA G., Brevi considerazioni sulla responsabilità penale omissiva dello psichiatra, cit., p. 776.
150
terapeutico309. Sarebbe tuttavia ingenuo negare come un risultato
collaterale della Legge Basaglia sia stato l’ampliamento dei margini di
rischio connessi alla possibile manifestazione di comportamenti auto
ed eteroaggressivi del paziente, che “la legislazione psichiatrica degli
anni Settanta ha consapevolmente aperto dando indicazioni aventi il
segno della libertà.”310 Il rischio che il paziente psichiatrico commetta
atti lesivi dell’integrità propria o altrui è tuttavia il prezzo che la
società deve pagare per il riconoscimento della dignità e della libertà
del malato. La consapevolezza di questo ineludibile trade-off si è
affacciata da molto in giurisprudenza, laddove si è affermato che “la
società debba tollerare un certo grado di pericolo per non comprimere
valori della persona ritenuti preminenti.”311 Tuttavia uno dei problemi
nodali del rapporto tra la società e il malato psichiatrico consiste nella
tensione tra le aspirazioni e le esigenze collettive e quelle individuali,
come efficacemente sottolineato dalla dottrina, che rileva: “questa
‘tolleranza’ di pericolo da parte della società può suscitare interrogativi
perché se la società astrattamente intesa dovrebbe poter tollerare il
pericolo, non è facile indurre i singoli (ad esempio coloro che
convivono col malato di mente) a tollerare il pericolo o anche solo il
timore di un pericolo.”312
In questo complesso mosaico di interessi contrastanti, permeati da
venature emotive, si profila il rischio che lo psichiatra finisca per
costituire il “capro espiatorio” sul quale catalizzare il problema della
gestione della patologia mentale, adombrando le carenze strutturali che
309 ZANCHETTI M., Fra l’incudine e il martello: la responsabilità penale dello psichiatra per il suicidio del paziente in una recente pronuncia della Cassazione, cit., p. 2860. 310 PULITANÒ D., Introduzione in La posizione di garanzia degli operatori psichiatrici. Giurisprudenza e clinica a confronto, cit., p. 26. 311 App. Bologna, Sez. sorv., n. 372/1979, in Gazz. Uff. 11 luglio 1979, n. 189. 312 INTRONA F., Problemi interpretativi, pratici e burocratici suscitati dalla legge sui trattamenti sanitari obbligatori dei malati di mente, cit., p. 15, il quale cita l’osservazione della Corte d’Appello di Bologna appena menzionata.
151
affliggono il sistema sanitario ed addossando la responsabilità di
un’inefficienza organizzativa globale sul singolo operatore. Con
quest’ultima considerazione non s’intende chiaramente suggerire l’idea
che lo psichiatra debba essere aprioristicamente considerato esente da
ogni responsabilità, anche di carattere penale: si è, infatti, illustrato nel
corso del lavoro come vi siano situazioni in cui si può ben riconoscere
una responsabilità penale in capo al terapeuta. Quello che si vuol dire è
invece che il più volte citato fenomeno della “criminalizzazione” dello
psichiatra può essere letto non solo banalmente come il tipico
atteggiamento giustizialista che pretende di rinvenire un colpevole cui
addebitare ogni tragico episodio che si verifichi, bensì come l’indice di
un disagio più profondo avvertito tanto dalle Corti quanto dalla società
per l’insoddisfacente gestione del fenomeno della patologia
psichiatrica. Si è osservato in dottrina come accada spesso che “si
consideri compito del medico rimuovere o superare condizioni di
lesione alla salute (talora, ma non sempre, di ‘malattia’ propriamente
detta) che hanno origine in situazioni di tipo più generale, e non
specificatamente di competenza medica” e che questo fenomeno si
verifica “in particolare modo per gli psichiatri, che sono con frequenza
elevatissima chiamati ad intervenire – abitualmente nel silenzio,
indifferenza, o latitanza di altre istituzioni – per rimuovere situazioni
che, a causa della loro genesi plurideterminata, sono correttamente
connotabili come ad un tempo culturali, economiche, sociali oltre che
sanitarie.”313
Seppure, come si è evidenziato nel corso del lavoro, le ll. 13 maggio
1978, n. 180 e 23 dicembre 1978, n. 833 non siano affatto perfette e
necessitino in determinati punti di un intervento legislativo di
modifica, la ragione fondamentale per cui il progetto di riforma
illuministicamente intrapreso non può considerarsi ancora compiuto, è
la mancata attuazione a livello pratico delle “buone intenzioni” del 313 MANACORDA A., Lineamenti per una riflessione sulla responsabilità penale dell’operatore di salute mentale, cit., p. 30.
152
legislatore. Quello che desta maggiore preoccupazione è cioè la
discrasia tra il terreno legislativo e quello reale. La Legge Basaglia
prevedeva, infatti, ai fini della corretta gestione e cura della malattia
psichiatrica, la centralità del trattamento obbligatorio in condizioni di
non degenza e dei trattamenti volontari extraospedalieri. Questi
tuttavia necessitano di strutture aperte, semi-medicalizzate,
dipartimentali, di natura multifunzionale, che forniscano al contempo
alloggio, assistenza, cure mediche e psichiatriche senza custodia
stretta ma con un adeguata sorveglianza. Seppure nel corso del tempo
ci si sia mossi nella direzione idealisticamente tracciata dal legislatore
del 1978, non si può ritenere che sia stato fatto ancora abbastanza: la
penuria di adeguate strutture, la carenza del personale medico ed
infermieristico in quelle esistenti e le condizioni di degrado e di
abbandono in cui versano molti presidi territoriali sono la
testimonianza dell’incompletezza del tragitto iniziato. Si è denunciato
come dietro alla retorica del riconoscimento della libertà di
autodeterminazione del paziente psichiatrico, fiorita contestualmente
alla transizione da una disciplina in materia psichiatrica di natura
essenzialmente pubblicistica ad una privatistica, si celi una realtà
pratica ben diversa e che “sotto la scorza ideale dell’antipsichiatria e
della liberazione, si è concretizzata una precisa scelta sociale di quasi
totale abbandono del malato di mente a se stesso e alla famiglia”314. La
constatazione dell’inadeguatezza e dell’insufficienza dei presidi
extraospedalieri non può che corroborare la fondatezza di questa
denuncia e indurre ad affermare l’esigenza improcrastinabile di
costruire strutture più attrezzate e di adattare quelle esistenti alle
esigenze effettive dei malati, che richiedono, data la complessità della
314 CASTRONOVO C., La legge 180, la Costituzione e il dopo, in Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze e soggetti della trasformazione, CENDON P. (a cura di), Napoli, 1988, p. 192.
153
malattia mentale e il suo variegato atteggiarsi, risposte assistenziali
pluriarticolate315.
Si è evidenziato in dottrina come “la paura nevrotica delle parole
del passato, (che è speculare, anche se opposta, alla paura passata del
malato di mente), rischia di tradursi in una demedicalizzazione del
malato mentale” giacché “l’etichetta della malattia mentale, che in
passato ha portato anche all’abuso della sottrazione di un numero
eccessivo di questi ammalati dalla comunità dei cosiddetti sani di
mente, ora rischia una nuova forma di emarginazione: quella secondo
cui il malato di mente, correndo paradossalmente il rischio di non
essere considerato malato se non in casi giudicati con criterio assai
restrittivo, viene emarginato dalla comunità dei malati non
mentale”316.
Quello appena abbozzato è il terreno in cui germina il rischio della
proliferazione di episodi di auto ed eteroaggressività, che coinvolgono
essenzialmente quel complesso di malati psichiatrici che non
presentano un quadro clinico così grave da rientrare nei rigorosi
presupposti applicativi del trattamento sanitario obbligatorio, ma
necessiterebbero comunque di forme di assistenza e sorveglianza di
carattere non custodialistico, che – come si è detto – in molti casi
risultano del tutto assenti o inadeguate.
Se sembra dunque necessario tollerare, in nome della dignità e della
libertà del paziente psichiatrico, il rischio che questi commetta atti
lesivi dell’integrità propria o altrui, si può tuttavia sicuramente
contenere e minimizzare tale rischio, purché si sia disposti ad
affrontare con serietà e pragmatismo il problema e ad abbattere
definitivamente quel muro d’indifferenza che ancora troppo spesso
separa i malati psichiatrici dalla società delle persone “normali”.
315 FORNARI U., Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali, cit., p. 356. 316 FIORI A., La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale dello psichiatra, cit., p. 552.
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• ZIMMEKMANN C.-TANSELLA M., Epidemiologia dei disturbi
psichiatrici nella popolazione generale. Le esperienze ed i risultati
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