Gastronomia di stradaGastronomia di stradaGastronomia di stradaGastronomia di strada
La cucina delle frattaglie
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Costa Cinzia
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Gastronomia di stradaGastronomia di stradaGastronomia di stradaGastronomia di strada: : : : la cucina delle frattaglie
Indice
Introduzione……………………………………………………………………………................3
1.Cucina di strada……………………………………………………………………………….4
2. Gastronomia della carne…………………………………………………………………6
3. Glossario………………………………………………………………………………..…….16
4. Bibliografia e sitografia di riferimento………………………………………..…17
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Introduzione
La presente relazione è stata prodotta nell’ambito del corso di “Antropologia
visuale”. La stesura di tale elaborato ha lo scopo di accompagnare la presentazione
di una sequenza fotografica sul tema “cucina di strada”, in modo da poterne
illustrare i criteri metodologici utilizzati durante la raccolta dei dati “visivi”.
L’elaborazione scritta si limiterà quindi tanto ad esporre il metodo di indagine che si
è scelto di adoperare quanto a commentare e parafrasare le immagini, vere
protagoniste della ricerca, integrandole e valorizzandole per mezzo delle
delucidazioni che i nostri informatori ci hanno piacevolmente fornito.
Il primo capitolo si sofferma sommariamente sulla cucina di strada a Palermo come
alimentazione alternativa enucleando le sue principali caratteristiche egregiamente
messe in luce da F. Giallombardo nel saggio “Una cucina di strada” (ne La tavola,
l’altare, la strada- Scenari del cibo in Sicilia), ed evidenzia la dottrina della filosofia
popolare del “NON SI BUTTA IA NIENTE!”.
Nel secondo capitolo si espongono le modalità di svolgimento della ricerca. Nello
specifico si descrivono i criteri di procedura nella selezione degli informatori e
nell’utilizzo degli strumenti per il rilevamento dei dati.
Il terzo capitolo costituisce il “piatto di portata” di questo elaborato; in esso si
presenta la “gastronomia della carne”. Vengono qui esposte singolarmente le
multiformi pietanze proprie della cucina di strada, lasciando parlare le immagini che
nel loro realismo trasmettono odori e sapori.
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0.Cucina di strada
La cucina costituisce «un linguaggio nel quale la società traduce inconsciamente la
propria struttura o addirittura rivela, sempre senza saperlo, le proprie
contraddizioni». [Lévi-Strauss, cit. in Giallombardo, 2003, p.11]
Ebbene, la società palermitana traduce la propria struttura attraverso la cucina di
strada. A Palermo il cibo di strada è “IL” cibo. Esso è l’emblema della gastronomia
nostrana al di fuori dei confini della provincia, e i palermitani sfoggiano con orgoglio
l’appartenenza a tale cultura culinaria. Essa, chiamata anche cucina dei "buffettieri",
dal francese bouffet o dallo spagnolo bufeta, che è il tavolo, indica quindi la vendita
di alimenti per strada, su un tavolo.
Secondo G. Parente la persistenza,e aggiungerei io la resistenza, di tale universo
gastronomico, che racchiude in sé alimenti, tecniche di preparazione, modalità e
luoghi di consumo nonché destinatori e destinatari ben precisi, può essere
rintracciata nel passato dell’isola, nell’epoca in cui questa rientrava nei territori
dominati dagli Arabi, popolo la cui cultura alimentare è da sempre orientata al cibo
di strada; basti pensare ai falafel o al döner kebab, prelibatezze “da strada” tipiche
di tutta la fascia maghrebina. Già Pitrè segnalava la vendita presso mercati e strade
di pietanze a base di “carni povere”, tanto da riportare nella sua Biblioteca delle
tradizioni popolari le abbanniate tipiche di questi ultimi ( si riportano gli esempi più
significativi):
“Chi bella frittula!
Haju vasteddi càuri! Cu la mèusa, la frittula, la ricotta vi li cuonzu!
Chi vennu ruci a stufatu, aricchi ‘i puorcu!
Aricchi e mussa! ‘U cappucceddu càuru!(l’orecchio del maijale)
Haju piruzzi, piruzzI!” [Pitrè, 1871-1913, Usi, costumi, credenze e pregiudizi, I, p.
390,391]
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Il giornalista G. Basile sostiene che, nonostante la notorietà della cucina di strada,
ci sia un accanimento comunale contro di essa: ogni occasione pare buona per
cercare di distruggerla: la mucca pazza, l'igiene, le norme HACCP; eppure, ancora
oggi, passeggiando per i mercati, lungo il perimetro dei quartieri più antichi e presso
le arterie che conducono alle nuove zone edilizie (viale Michelangelo, viale Leonardo
da Vinci, viale delle Scienze, etc.), è possibile scorgere le colonne di fumo di un
banco di stigghiuòla, o il carretto ambulante di un venditore di pani câ mièusa.
Prendendo le mosse dalla puntuale analisi che F. Giallombardo ha fatto di questo
“fatto alimentare”, cercheremo di evidenziare le alterità che la cucina di strada
presenta rispetto alla cucina domestica e cercheremo, inoltre, di porre l’accento
sulla logica, tipicamente popolare, del NONspreco.
In primo luogo il cibo di strada è fruito in spazi pubblici, non convenzionali (le strade
e i mercati); il consumo è immediato e in loco, si mangia quindi in piedi,senza
l’utilizzo di posate, non vi è una tavola (luogo privilegiato per il consumo dei pasti) e
si tracannano abbondanti quantità di vino o birra ostentando la totale noncuranza
tanto delle norme igieniche quanto dei più elementari precetti del Galateo. La
caratteristica che meglio identifica la natura altra di questa specificità culinaria è
costituita, però, da una produzione e da un consumo esclusivamente maschili. La
cucina di strada costituisce quindi un vero e proprio “capovolgimento culturale” per
cui, all’interno di una società nella quale l’ambito gastronomico è unicamente
riservato alla sfera femminile (e quindi domestica), “ i maschi” si fanno artefici di
intricate ricette indirizzate ad un target ben preciso: “altri maschi”.
In secondo luogo è necessario focalizzare l’attenzione sugli alimenti base di queste
variegate pietanze. La vera protagonista di queste squisitezze gastronomiche è “la
carne più povera”,insomma, le frattaglie. Quella parte degli animali che i più
schizzinosi scartano senza neanche esitare, a Palermo, dopo essere stata preparata
con particolare dovizia, diventa un succulento spuntino che i panormitani non
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disdegnano di gustare. La regola che vige è dunque quella del “NON BUTTARE VIA
NIENTE”; dai bassi costi di simili ingredienti deriva, quindi, un mangiare economico.
Tale logica del NONspreco si traduceva mirabilmente nella rascatura, ossia degli
avanzi della frittura di panelle e cazzilli che, raccolti, venivano aromatizzati e fritti
una seconda volta per essere poi serviti fumanti al consumatore.
Tra le principali pietanze che il menù palermitano ci offre, ricordiamo: stigghiuòla,
mussu, quarumi, frittula e pani câ mièusa, ma ci soffermeremo anche sulle varie
interiora degli animali che i nostri informatori ci hanno diligentemente mostrato e ,
per la cui preparazione, ci hanno anche suggerito ricette di vario genere.
Concluderemo, dunque, citando, ancora una volta, colui che più di tutti si fece
promotore dell’analisi dei sistemi gastronomici, quali punta d’iceberg delle culture
alla cui base si trova una struttura inconscia universale.
«Non si è mai abbastanza sottolineato che la cucina costituisce una forma di
attività umana autenticamente universale: come non esistono società senza
linguaggio, così, non c’è società che non faccia cuocere almeno alcuni dei suoi
alimenti»
[Lévi-Strauss. Le Triangle culinaire,«L’Arc»,p.20]
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2.Criteri metodologici
Per la trattazione di questo elaborato è stato necessario intervistare venditori
ambulanti (e non) di vivande di strada, e, per fare ciò, ci si è recati presso i mercati
popolari (Ballarò e il Capo) nelle tarde ore del mattino (h:11-12:00 circa). Nello
specifico si è scelto di intervistare il Sig. Ciccio, titolare di un chiosco a Ballarò,
situato alla fine di via Birago, traversa di corso Tukory, e i suoi collaboratori.
Non si nasconde che la differenza di sesso fra osservato e osservante ha creato
delle piccole difficoltà iniziali; proprio per questo motivo la presenza di una figura
maschile a me affiancata è stata fruttuosa per l’introduzione e l’avviamento alla
conversazione: dopo gli imbarazzi iniziali, i colloqui sono diventati man mano più
sciolti e i venditori hanno cominciato cordialmente a fare sfoggio della propria
merce.
Le motivazioni che ci hanno spinto alla predilezione del dispositivo fotografico su
quello audiovisivo sono due: la prima è costituita dalla mia incompetenza ed
inesperienza nel destreggiare un videocamera; ciò, siamo sicuri, avrebbe svalutato il
tema qui trattato, riducendo l’attenzione da esso meritata. La seconda motivazione
ci è stata fornita da F. Faeta, il quale ci ha convinto che «le fotografie raccolgono una
rilevante quantità di elementi dal terreno, portandoli sin dentro l’organizzazione
testuale con immediatezza ed evidenza. Si tratta, dunque, di documenti che
incardinano la rappresentazione libresca alla ricerca, che costituiscono l’anello di
congiunzione tra osservazione e scrittura e sono esse stesse, al contempo, risultato di
un’osservazione e di una scrittura» (Faeta, 2006, p.72).
Si è pensato, quindi, che la fotografia, più delle documentazioni audiovisive, fosse in
grado di restituire una rappresentazione quanto più obiettiva e fedele della realtà (si
noterà, per esempio, che le foto, presentano una tonalità di rosso acceso;ciò è
dovuto alla luce/ombra che il telone della bancarella in esame rifletteva sull’intero
bancone. Si è scelto, tuttavia, di non modificare le immagini – tranne per alcuni casi
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in cui le figure erano indecifrabili,modificandole con risultato mediocre- per tentare
di restituire i colori e le luci “reali”).
A questo punto pare opportuno dare la parola a J. Baudrillard il quale, sicuramente
meglio di me, ha esposto le prerogative e le funzioni che la fotografia ha in campo
antropologico:
«[La fotografia] è la più pura delle immagini perché non simula né il tempo,né il
movimento e si attiene al più rigoroso irrealismo. Tutte le altre forme di immagine
(cinema, etc.), lungi dal costituire progressi, sono solo forme attenuate di questa
rottura tra la pura immagine e il reale. L’intensità dell’immagine è proporzionale
alla sua discontinuità e alla sua astrazione massimale, vale a dire alla sua presa di
posizione di denegazione del reale. Creare un’immagine consiste nel togliere
all’oggetto tutte le sue dimensioni a una a una: il peso, il rilievo, il tempo, la
continuità e certamente il senso. È a costo di questa disincarnazione, di questo
esorcismo, che l’immagine guadagna quel di più di fascino e di intensità, che
diventa il medium della pura oggettualità, che diventa trasparente a una forma di
seduzione più sottile».[Baudrillard, 1990, p.168]
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3. Gastronomia della carne
La cucina di strada, o street food che dir si voglia, costituisce una costante
universale di tutte le culture (da quella sudamericana, quella medio orientale,
quella africana, ma anche ligure, campana etc.) e, al suo interno, la carne si
presenta come la protagonista assoluta. Considerando che sin da tempi remoti il
consumo di carne era una prerogativa elitaria e riservato alla ristretta fascia
sociale dei pochi che se lo potevano permettere, è curioso notare come essa,
seppure nei suoi più poveri surrogati,costituisca l’alimento base della più spicciola
cucina di strada. In questo senso sarà interessante evidenziare che lo sreet food
rappresenta mirabilmente uno dei migliori prototipi della cucina povera,
sfruttandone all’ennesima potenza quelle che sono le sue caratteristiche
peculiari: l’economia e la creatività. Sarà opportuno, a questo punto, lasciare che
le immagini raccontino da sé questo itinerario culinario che, tra colori e sapori,
abbiamo cercato di ripercorrere seppure in modo estremamente limitato,
essendo certi che le fotografie saranno notevolmente più esplicative delle nostre
parole.
Figura 1 Mièusa frammista a purmuni e altre parti quali scannaruzzatu e cannilicchia in attesa di essere cotte nella saimi, per poi essere serviti all’interno di un
muffuliettu con o senza l’aggiunta di caciocavallo o ricotta (maritata o schietta)
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Figura 2 Mièusa e masciddaru
Figura 3 Mussu: varie parti del bovino, bollite e servite fredde ad insalata, condite
con carote, sedano, olio, sale e limone. Viene servito in un piatto o in foglio di carta
oleata.
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Figura 4 Il musso è costituito da parti del muso dell’animale, ma anche da arra, caircagnuolu, rinuocchiu, masciddaru, virina, nierbu, e in generale tutte le parti non
muscolose ma formate da tessuti connettivi (Giallomarbo, 2003, p. 130)
Figura 5 Masciddaru
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Figura 6 Masciddaru (sopra) e virina (sotto); quest’ultima può essere cucinata
separatamente panata e fritta. Sullo sfondo il titolare del banco di vendita, Sig.
Ciccio.
Figura 7 Il Sig. Ciccio taglia la virina per offrircene un pezzo.
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Figura 13 Tiesta i puorcu
Figura 14 Cervelletti di maiale (non siamo riusciti a carpire la denominazione dialettale); ci viene consigliato di consumarli bolliti e conditi con olio, sale e limone
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Glossario*
Arra= piede del bovino
Cannilicchia= tubo tra i due lobi del polmone del bovino
Caircagnuolu= estremità biforcuta dei piedi degli animali bovini
Cazzilli= polpette croccanti di patate, fritte in olio: crocchette
Frittula= avanzo di pezzetti di lardo o carne fritti dopo che se n’è fatto lo strutto;
ciccioli
Masciddaru= tutta la polpo che riveste il capo degli animali bovini
Mièusa= viscere del corpo, posto a sinistra del ventricolo: milza
Muffuliettu= pane molle e spugnoso (potrebbe venire dal francese mouflette: molle)
Mussu= propriamente la testa degli animali dagli occhi alla estremità delle labbra:
muso
Nierbu= membro del bovino
Panelle= vivanda di farina di ceci, ridotta in piccole e varie forme: gnocchi di cece
fritto
Purmuni= organo della respirazione in varie specie di animali: polmone
Quarumi= bollito di interiora degli animali mangiabili (ant. dicevansi caudumi, per
cui l’origine è da caudu)
Rinuocchiu= ginocchio
Rugnuni= parte dell’animale carnosa, dura e massiccia, posta nelle reni, per
espurgare le vene dalla seriosità: arnione
Saimi= Lardo di maiale, fatto struggere al fuoco, che poi si conserva in vesciche o
altro, per uso di cucina: strutto
Scannaruzzatu= trachea
Stigghiuòla= manicaretto di budella attorcigliate coll’omento di capretto o agnello
Vientra= stomaco, pancia del bovino
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Virina= parte spugnosa che forma il corpo interiore e rigonfio della mammella,
specialmente in quelle delle vacche: ghiandola mammaria. Dal lat. uber, uberina
*Traina A., Vocabolario siciliano-italiano illustrato, 1974, Palermo, Sore
Giallombardo F., 2003
Bibliografia e sitografia di riferimento
Baudrillard J.,1990, La trasparenza del male, Milano, Sugario
Faeta F., 2006, Fotografi e fotografie: uno sguardo antropologico, Collana: Imagines
- Studi e materiali di etnografia visiva e antropologia visuale, Franco Angeli editore
Giallombardo F., 2003, La tavola, l’altare, la strada- Scenari del cibo in Sicilia, Palermo, Sellerio
Lévi-Strauss C., 1964, Mythologiques I. Le cru et le cuit , trad. di Andrea Bonomi
(1966)
Pitrè G., 1871-1913, Biblioteca delle tradizioni popolari- Usi, costumi, credenze e
pregiudizi, I, Arnaldo Forni editore
Traina A., Vocabolario siciliano-italiano illustrato, 1974, Palermo, Sore (Società
Regionale editoriale)
Di Franco C., http://www.PalermoWeb.com
http://www.spaghettitaliani.com/User/GaetanoBasile/IntrATE.html
Parente G., Cibo veloce e cibo di strada. Le tradizioni artigianali del fast-food in Italia alla prova della globalizzazione, «Storicamente», 3 (2007),
http://www.storicamente.org/03parente.htm
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