Istituto MEME associato a
Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
COMUNICAZIONE ED ARTETERAPIA ESPERIENZA IN UNA SCUOLA PRIMARIA
Scuola di Specializzazione: Arti Terapie Relatore: Roberta Frison
Collaboratori: Contesto di Project Work: Formigine (Modena)
Tesista Specializzando: Monica Scognamiglio
Anno di corso: Primo
Modena: 4/9/2010 Anno Accademico: 2009 - 2010
ISTITUTO MEME S.R.L.- MODENA ASSOCIATO UIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
Monica Scognamiglio - SST in Arti Terapie (Primo anno) A.A. 2009/2010
Indice dei Contenuti
1. Introduzione .................................................................................................... 3
2. La Comunicazione………………………………….………………………...4
2.1.Il ruolo dell’intelligenza emotiva...…………….………............................4
2.2.L’ Importanza dell’ascolto .……………...………………..........................7
2.3. Il potere delle parole e l’importanza del “focus”………………………...8
3. L’Arteterapia come strumento di espressione e trasformazione…………11
3.1.Perchè l’Arteterapia ……………………………………………………...11
3.2.Incontrarsi nell’Atelier …………………………………………………...12
3.3.I processi creativi e la restituzione………………………………………..13
4.Laboratori in una classe di bambini di otto anni…………………………..15
4.1.Presentazione della classe …………………………………………………15
4.2.Costruzione dei setting…………………………………………………….17
5.Obiettivi dei laboratori……………………………………………………..17
5.1.Il gioco dei ricordi……………………………………………………...…18
5.2.Il mio primo ricordo……………………………………………………....19
5.3.Il filo dell’amicizia………………………………………………………..24
5.4.La ragnatela dell’amicizia…………………………………………………27
5.5.Lo scarabocchio…………………………………………………………...29
5.6.I miei saluti l’ultimo giorno di scuola……………………………………. 32
6.Conclusione…………………………………………………………………..33
7.Bibliografia……………………………………………………………………...…...35
8. Sitografia……………………………………………………………………………35
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A mio marito Ezio,
con il quale la comunicazione è da sempre basata sull’Amore,
la Comprensione ed il Rispetto reciproco”
1. INTRODUZIONE
L’obiettivo con cui ho iniziato la scuola di Arte Terapia è quello di approfondire gli
aspetti e le modalità di comunicazione riferito in particolar modo ai bambini.
La mia esperienza lavorativa fino ad oggi è stata prevalentemente con individui adulti;
ho avuto la possibilità di notare come, anche in un ambito bancario, caratterizzato da
una forte presenza di numeri, l’uso di immagini, gesti e disegni venga spesso usato
come supporto e rinforzo a ciò che si vuole esprimere.
Ho osservato come in diversi contesti, le persone spesso tendano a scarabocchiare o
disegnare durante momenti di stress o di noia trovando che ciò aiuti loro a rilassarsi o
pensare più chiaramente (ad esempio durante una riunione troppo lunga, o in attesa di
una visita importante).
La volontà di avvicinarmi all’Arteterapia è scaturita dall’efficacia espressiva che
possiede, dalla capacità di “ portare fuori” anche le più difficili e traumatiche
esperienze dando loro una luce diversa.
Il mio percorso nasce quindi da una passione per la comunicazione; credo ci siano molti
modi di esprimere i propri pensieri e le proprie emozioni, ma per tutti questi ritengo sia
importante adattare il nostro linguaggio verbale e non verbale alle diverse persone che
abbiamo di fronte ed al contesto in cui ci troviamo.
Durante la mia esperienza di vita ho dovuto spesso rivedere l’efficacia del mio modo di
comunicare.
Lasciando esprimere le persone porgendo loro alcune domande, si può ad esempio
comprendere se l’interlocutore preferisce lunghe descrizioni articolate o pochi punti
chiari e sintetici; se si esprimersi attraverso metafore o immagini e sulla base di queste
informazioni possiamo adattare il nostro stile comunicativo.
Io parto dal presupposto che riportare i miei pensieri con la massima chiarezza e fedeltà
sia di vitale importanza nei rapporti personali e lavorativi. Essere mal interpretati può
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portare il rapporto con una persona su una strada molto diversa da quella desiderata!
Entrare quindi in sintonia con “l’Altro” per avere uno stesso canale comunicativo
ritengo sia essenziale e tutto ciò comincia dall’ascolto e dall’attenzione all’interlocutore.
Ho trovato di notevole aiuto nella comunicazione anche il fatto di fare attenzione a
come gesticoliamo e come ci poniamo con il nostro corpo; giocare con l’anello,
pizzicarsi il naso, grattarsi la nuca, incrociare le braccia e molti altri comportamenti
sono tutti segnali che produciamo senza sosta, in modo del tutto inconscio e senza
motivo apparente. Eppure è proprio sulla base di queste azioni involontarie che
sviluppiamo sentimenti di attrazione, diffidenza, disagio o chiusura nei nostri rapporti
umani.
Il linguaggio del nostro corpo è diretto e ci può aiutare ad interpretare i veri sentimenti
del nostro interlocutore.
Ho sperimentato anche la valenza del contesto in cui ci si trova: la carica emotiva che si
subisce durante un colloquio di lavoro, nella sala d’aspetto di un ospedale, sul ponte di
una nave da crociera, all’ingresso della chiesa del proprio matrimonio, durante la lettura
di un buon libro dopo un bagno caldo, è estremamente diversa ed influenza fortemente
il modo di esprimersi.
A chi non è capitato, ad esempio, di litigare per un parcheggio perché si ha appena
discusso col partner o perché siamo attesi per un appuntamento importante.
2. COMUNICAZIONE
2.1.IL RUOLO DELL’INTELLIGENZA EMOTIVA
Un insegnamento per me importante è derivato dai principi base dell’intelligenza
emotiva (D. Goleman): attraverso il controllo delle proprie emozioni e di quelle altrui si
impara a gestire le relazioni sociali.
L’espressione - intelligenza emotiva - si riferisce alla “capacità di riconoscere i nostri
sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le
emozioni, tanto interiormente, quanto nelle nostre relazioni”1.
Nel rapportarsi con una persona o un gruppo diventa importante la capacità di modulare
i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; l’empatia
1 1 Daniel Goleman,(2006) , Lavorare con intelligenza emotiva, Ed. Bur, p. 375.
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intesa come ascolto dell’altro è quindi importante per comprenderne i sentimenti e
gestire il dialogo dando strumenti per affrontare i conflitti.
Alla base dell’intelligenza emotiva ci sono due grosse competenze, caratterizzate da
abilità specifiche.
“COMPETENZA PERSONALE (determina il modo in cui controlliamo noi stessi):
Consapevolezza di sé; comporta la conoscenza dei propri stati interiori, preferenze,
risorse, intuizioni;
-Consapevolezza emotiva: riconoscimento delle proprie emozioni e dei loro effetti
-Autovalutazione accurata: conoscenza dei propri punti di forza e dei propri limiti
-Fiducia in se stessi: sicurezza nel proprio valore e nelle proprie capacità
Padronanza di sé; comporta la capacità di dominare i propri stati interiori, i propri
impulsi e le proprie risorse:
-Autocontrollo: dominio delle emozioni e degli impulsi distruttivi
-Fidatezza: mantenimento di standard di onestà ed integrità
-Coscienziosità: assunzione delle responsabilità per quanto attiene alla propria
prestazione
-Adattabilità: flessibilità nel gestire il cambiamento
-Innovazione: capacità di sentirsi a proprio agio e di avere un atteggiamento aperto di
fronte a idee, approcci e informazioni nuovi
Motivazione: Comporta tendenze emotive che guidano o facilitano il raggiungimento di
obbiettivi
-Spinta alla realizzazione: impulso a migliorare o soddisfare uno standard di eccellenza
-Impegno: adeguamento agli obbiettivi del gruppo o dell’organizzazione
-Iniziativa: prontezza nel cogliere le occasioni
-Ottimismo: costanza nel perseguire gli obbiettivi nonostante ostacoli e insuccessi
COMPETENZA SOCIALE (Determina il modo in cui gestiamo le relazioni con gli
altri)
Empatia: comporta la consapevolezza dei sentimenti, delle esigenze e degli interessi
altrui
-Comprensione degli altri: percezione dei sentimenti e delle prospettive altrui; interesse
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attivo per le preoccupazioni degli altri
-Assistenza: anticipazione, riconoscimento e soddisfazione delle esigenze del cliente
-Promozione dello sviluppo altrui: percezione delle esigenze di sviluppo degli altri e
capacità di mettere in risalto e potenziare le loro abilità
-Sfruttamento della diversità: saper coltivare le opportunità offerte da persone di diverso
tipo
-Consapevolezza politica: saper leggere e interpretare le correnti emotive e i rapporti di
potere di gruppo
Abilità sociali: comportano l’abilità nell’indurre risposte desiderabili negli altri
-Influenza: impiego di tattiche di persuasione efficienti
-Comunicazione: invio di messaggi chiari e convincenti
-Leadership: capacità di ispirare e guidare gruppi e persone
-Catalisi del cambiamento: capacità di iniziare o dirigere il cambiamento
-Gestione del conflitto: capacità di negoziare e risolvere situazioni di disaccordo
-Costruzione di legami: capacità di favorire e alimentare relazioni utili
-Collaborazione e cooperazione: capacità di lavorare con altri verso obbiettivi comuni
-Lavoro in team: capacità di creare una sinergia di gruppo nel perseguire obbiettivi
comuni”2
La comunicazione di un arteterapeuta o di un operatore che gestisca un paziente o un
gruppo di pazienti, deve tenere presente tutti questi aspetti.
Utilizzare tali modalità comunicative e in alcuni casi farle comprendere all’individuo
con cui ci relazioniamo, rende maggiormente efficace la relazioni d’aiuto; interagire con
la persona assumendo il suo punto di vista, ascoltarlo, dialogare lo aiuta a trovare la
forza e l’autostima necessaria per esprimersi ed apportare nella sua vita i cambiamenti
necessari per migliorarla.
Credo nell’affermazione che i grandi cambiamenti cominciano da piccoli passi;
attraverso l’arteterapia e la comunicazione con intelligenza emotiva i cambiamenti nella
direzione utile all’interlocutore saranno più sostenibili.
Per quanto riguarda i bambini, ritengo che tale approccio sia più immediato: sempre
2 D.Goleman,(2006), Lavorare con intelligenza emotiva, ed. Bur, tabella pag.42
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secondo D. Goleman il sistema cerebrale è ampiamente modellato dalle esperienze ed il
cervello dei bambini è decisamente più malleabile di quello di un adulto3; gli operatori a
contatto con i bambini potranno fornire in modo efficace gli strumenti che
permetteranno loro di affrontare i cambiamenti che la vita presenta.
2.2.L’IMPORTANZA DELL’ASCOLTO
“Parlare è un mezzo per esprimere se stessi agli altri, ascoltare è un mezzo per
accogliere gli altri in se stessi”.
Wen Tzu, testo classico taoista
Secondo la definizione data dal sito Wikipedia “l’ascolto in psicologia è uno strumento
dei nostri cinque sensi per apprendere, conoscere il tempo e lo spazio che ci circonda e
comunicare con noi stessi e il mondo circostante. L’ascolto è un processo psicologico e
fisico del nostro corpo per comunicare ai nostri neuroni, al cervello che li traduce in
emozioni e nozioni”4.
A volte capita che la teoria sia un po’ diversa dalla pratica: siamo spesso fortemente
influenzati dall’ambiente circostante e dai mass-media, che l’ascolto ha quasi perso la
connotazione di apprendimento dello spazio reale da cui siamo circondati.
Il tempo per comunicare con noi stessi in modo profondo e reale ha poi uno spazio
ridotto spesso al lumicino; solo se si presentano momenti di difficoltà o di stress siamo
costretti a ritagliarci lo spazio nella giornata per ascoltarci e riflettere; a quanti è capitato
di dover attendere uno stato di malessere per fermarsi dalla propria frenetica attività?
Avendo poca dimestichezza con la conoscenza di noi stessi, siamo poi spesso invogliati
a cercare all’esterno un tramite che comunichi con “noi” (lo psicologo, il parroco, un
amico, il barista, il parrucchiere, ecc.).
In qualità di operatori abbiamo invece l’obbligo di ascoltare gli altri in modo attivo.
Ciò implica un coinvolgimento cognitivo ed emotivo di chi ascolta; l’ascolto deve
essere aperto e disponibile non solo verso ciò che l’altro dice, ma anche verso noi stessi,
per ascoltare le proprie reazioni; tutto ciò richiede una buona quantità di energie mentali
ed emotive. 3 Daniel Goleman, (2007), La tua mente può cambiare, Rizzoli. 4 www.Wikipedia.org
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Ecco che ascoltare gli altri ci riporta inevitabilmente ad ascoltare noi stessi a
confrontarci ed a nostra volta a crescere.
Alcune buone regole per l’ascolto attivo possono essere: rimanere in silenzio cercando
di raccogliere tutte le informazioni sulla situazione che ci stanno esponendo; evitare di
definire a priori l’interlocutore cercando di classificare ciò che dice in precise categorie;
dimostrare empatia, secondo il concetto già visto di D. Goleman, cercando di mettersi
nei panni dell’altro e comprendere il suo punto di vista; utilizzare domande di verifica
per accertarci di aver capito bene ciò che ci sta comunicando; trovare un ambiente
confortevole, magari un po’ riparato dall’esterno per consentire una maggiore apertura;
conoscere il più possibile usi e costumi dell’altro per evitare mancanze di rispetto o
momenti di imbarazzo; dare il tempo alla persona di esprimersi.
E’ sicuramente non produttivo all’attività di ascolto il dare ordini, mettere in guardia,
moralizzare, persuadere con la logica, elogiare, ridicolizzare, interpretare, consolare,
cambiare argomento; queste si rivelano in genere delle ottime “barriere della
comunicazione”
2.3. IL POTERE DELLE PAROLE E L’IMPORTANZA DEL “FOCUS”
“Le parole che pronunci con convinzione emotiva diventano la vita che vivi, il tuo
paradiso oppure il tuo inferno” A. Robbins
Le parole che usiamo per comunicare con noi stessi e con gli altri hanno un grande
potere.
Ognuno di noi ha sperimentato come a volte alcune parole possano entrare in tale
profondità nella nostra mente da cambiare completamente il modo in cui vediamo le
cose.
A distanza di tanto tempo, le parole di un genitore, di un amico, di un insegnate dette in
un modo ed in una circostanza precisa possono ancora condizionare l’immagine che
abbiamo di noi stessi.
Lo stesso pronunciare una parola piuttosto di un’altra nel descrivere un determinato
evento può farlo risultare più o meno intenso: ad esempio dire di un film “è stato
carino” o “è stato meraviglioso” darà allo stesso spettacolo una carica emozionale che
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si tradurrà in una percezione differente.
Definirsi “distrutto” invece di “affaticato” ci farà sentire sicuramente più stanchi.
Le parole sono uno dei mezzi più importanti che abbiamo di interpretazione e
traduzione; etichettare la nostra esperienza in un certo modo cambia automaticamente le
sensazioni prodotte dal sistema nervoso.5
Spesso capita di non dare particolare peso a queste sfumature, ma ci rendiamo conto del
diverso effetto che ha su di noi ad esempio un complimento o un’offesa.
Nel ruolo delicato che ha un operatore tali aspetti assumono un’importanza decisamente
rilevante.
Il fatto di costruire un ambiente confortevole e non giudicante per educare o essere di
supporto alle persone, passa anche dal linguaggio che noi usiamo e da quello che il
nostro interlocutore adopera.
Uno dei motivi per cui spesso finiamo per assomigliare alle persone che frequentiamo
(genitori, amici, colleghi con cui passiamo la maggior parte del nostro tempo) è che,
stando insieme, siamo portati ad adottare i loro modi di dire, quindi gli stati d’animo che
si associano a tali espressioni.
Creare un ambiente positivo anche in questo senso, ed insegnare a farlo, è decisamente
utile all’ottenimento di un obbiettivo di benessere nelle persone che si rivolgono a noi (e
lo stesso vale per l’operatore stesso!).
Ho trovato molto utile ,nel mio percorso di vita, utilizzare quello che Antony Robbins
definisce Vocabolario Trasformazionale .6
Se è vero che le parole determinano il nostro stato d’animo, possiamo attenuare le
sensazioni negative ed amplificare quelle positive trasformando il nostro vocabolario,
usando termini che contengano una minore o maggiore carica emozionale.
Ad esempio la parola Problema può diventare Sfida o situazione da risolvere, la parola
Difficile può diventare Impegnativo; in quest’ultimo caso dalla percezione di qualcosa
di difficoltoso e problematico diventerà qualcosa di stimolante.7
Sia nel mio lavoro a contatto con gli adulti, che nei miei laboratori con i bambini, ho
notato come modificare lo stato emotivo legato ad una parola abbia abbassato i livelli di
stress e migliorato la partecipazione attiva al dialogo ed all’attività stessa.
5 Roberto Re,(2004), Leader di te stesso, Mondadori. 6 Ibidem, pag. 67 7 Roberto Re,(2004) , “Leader di te stesso”, Mondadori.
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Una forte influenza sul processo di comunicazione è dato anche dalle “Domande” :
queste determinano ciò su cui ci focalizziamo, su cui orientiamo la nostra attenzione.
Le domande rappresentano il modo più semplice ed immediato per spostare il “Focus”
dell’interlocutore.
Con il termine “Focus”, si intende all’interno di un dialogo, su cosa ci concentriamo e
come lo facciamo.8
Durante il laboratorio con i bambini si è rivelato davvero molto efficace l’utilizzo delle
domande per spostare l’attenzione da un atteggiamento ad un altro o per coinvolgere chi
rimaneva al di fuori delle attività.
Il nostro cervello è sollecitato in automatico a rispondere alle domande che gli vengono
poste. Per farsi seguire in un percorso è quindi importante porre le domande giuste e,
credo, anche insegnare a porsi sempre quesiti stimolanti e costruttivi per superare
ostacoli e raggiungere importanti obbiettivi. Nell’ambito scolastico, o in un contesto di
gruppo di bambini, questo strumento ha un’enorme potenza ed è una grande arma,
consapevole o inconsapevole, degli educatori che può rivelarsi utile al bambino o di
estremo danno.
Se un bambino chiede “Perché non riesco mai in questa attività?” gli si può rispondere
“Perché non stai mai attento!” oppure “Vediamo insieme perché non riesci. Ma è
proprio vero che non riesci mai? Quali sono state le volte in cui ti è venuto bene?”.
Nel primo caso il bambino si sentirà scoraggiato ed anche punito per la sua indisciplina,
nel secondo caso comincerà a concentrarsi sulle eventuali soluzioni e, ricordando i
momenti di trionfo, entrerà in uno stato positivo e costruttivo.
In generale le frasi che cominceranno con la parola Come saranno più produttive di
quelle che cominciano con la parola Perché9. Ad esempio la frase “Perchè non riesco
mai a dimagrire?” produrrà un effetto frustrante; se dico “Come posso dimagrire?”
prevede sia che posso effettivamente dimagrire, sia mi focalizza sul cercare il modo
migliore per farlo.
In ultima analisi le domande ci aiutano a fare tre cose contemporaneamente: spostare il
focus, cambiare stato d’animo e accedere alle nostre risorse.
8 Ibidem 9 Ibidem
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3.L’ARTETERAPIA COME STRUMENTO DI ESPRESSIONE E
TRASFORMAZIONE
3.1. PERCHE’ L’ARTETERAPIA
La mia scelta dell’indirizzo di studio in Arteterapia è stata stimolata dalla caratteristica
di essere una forma di comunicazione spontanea e diretta che va oltre la capacità di
espressione verbale, supera il limite che per molti hanno le parole.
L’Arteterapia consiste nella ricerca del benessere psicofisico attraverso l’espressione
artistica dei pensieri, dei vissuti e delle emozioni.
La parola Arte si discosta dall’essere, in questo caso, uno strumento di realizzazione di
opere giudicate esteticamente significative; diventa un mezzo che utilizza le potenzialità
possedute da ogni persona, di elaborare creativamente tutte quelle sensazioni che non si
riescono ad esprimere con le parole.10
Nell’era moderna incentrata più sulla ricerca del benessere psicofisico che non sul
trattare e guarire malattie, il potere di trasformazione dell’Arteterapia assume un grande
peso.
Per mezzo dell’azione creativa l’immagine interna diventa immagine esterna, e la
comunicazione del mondo interiore emotivo e cognitivo viene semplificata.
I primi segni lasciati dall’uomo nella storia sono immagini e disegni che
rappresentavano i momenti più significativi della sua vita.
I momenti di festa, i riti propiziatori per una buona caccia, le celebrazioni per i defunti ,
i riti di guarigione venivano vissuti attraverso la danza, la musica con grande intensità.11
A cominciare poi dal XIX secolo furono introdotte nell’ambito psichiatrico il teatro e la
musica come mezzo di espressione successivamente arricchiti dall’uso dell’arte
figurativa. A qualunque persona sia in uno stato di equilibrio psicofisico più o meno
debole, l’arte permette un’espressione diretta, immediata e spontanea .
Utilizzando l’arte come terapia il paziente è in grado di esprimere i propri conflitti e
trasformarli creando nuove risposte emotive.
La presenza del terapeuta come figura accogliente crea inoltre un momento in cui la
persona non è lasciata sola con il suo “messaggio”, ma può interagire per essere aiutato
a trasformare. Attraverso la comprensione e accettazione dell’elaborato c’è un intenso 10 R.Frison, S.Cavatorta, D.Vecchi, (2009),”Manuale di arti terapie e musicoterapia” , M.Del Bucchia. 11 Ibidem
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scambio tra paziente e terapeuta: ciò dà l’opportunità all’individuo di rivedere e
ridefinire il proprio vissuto in una nuova modalità.
L’Arteterapeuta ha come importante strumento di comunicazione un prodotto del
paziente; può quindi utilizzare questa sua metafora espressiva come luogo d’incontro
per il dialogo.
Sarà così possibile insieme alla persona accogliere ed elaborare i suoi vissuti emotivi;
ciò potrà accadere utilizzando quegli strumenti comunicativi visti nei capitoli precedenti
con l’obbiettivo di creare un ambiente emotivamente confortevole, mantenendo la
propria funzione di osservatore.
Capacità e conoscenze psicologiche, relazionali e comunicative sono inoltre importanti
per essere un terapeuta pronto e preparato a gestire i diversi contesti e le differenti
situazioni.
Altrettanto importante è l’esperienza fatta dall’operatore in qualità di “paziente” nei
laboratori di Arteterapia.
L’aver sperimentato l’uso dei diversi materiali nella propria espressione emotiva diventa
utile per valutare quale tecnica pittorica sia più opportuno proporre nei diversi
laboratori .12
3.2. INCONTRARSI NELL’ATELIER
Incontrarsi in un ventre caldo, sicuro come una culla, in uno spazio in cui è permesso
esprimere tutto ciò che si desidera attraverso disegni, simboli e materiali che in quel
momento ci rappresentano meglio; la sicurezza che qualunque risultato otterrò, non
verrò giudicato.
Questo credo sia la sensazione che un laboratorio di Arteterapia debba infondere alle
persone che lo frequentano.
Il paziente ed il terapeuta si ritroveranno simbolicamente in questo luogo; qui potrà
avvenire lo scambio su situazioni di disagio, traumi o momenti di gioia.
Il laboratorio dovrà essere caratterizzato da uno spazio che consenta una certa libertà di
movimento, avvolto da una luce che permetta una chiara visibilità, dove ci sia l’assenza
di interferenze esterne (altrimenti bisognerà cercare di ridurle al minimo durante il
tempo del laboratorio), che preveda la possibilità di usare i diversi materiali (pennarelli,
12 Ibidem
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matite, gessetti, colori a tempera, stoffe, plastilina, colla, materiali di recupero) senza la
paura di sporcare o di causare dei danni.
La descrizione assomiglia molto a quella di un laboratorio artistico; lo caratterizza
invece come Atelier di Arteterapia il fatto che vengono stabiliti in modo condiviso i
tempi di esecuzione, i comportamenti da adottare, le modalità di partecipazione.
Deve essere accettato dai partecipanti che ciò che si produce ha un significato
terapeutico e serve allo sviluppo emotivo ed alla trasformazione dei propri vissuti.
Data una certa direzione al lavoro da svolgere, credo sia comunque utile far
sperimentare a ciascun paziente il materiale che sente più utile nell’esprimere le proprie
emozioni in quel momento.
Il materiale scelto sarà infatti il veicolo attraverso cui verranno espressi i sentimenti,
sarà importante avere la possibilità di scegliere tra qualcosa di morbido, freddo, duro,
liscio, rugoso, ed avere quindi un ventaglio di scelte il più vario possibile.
3.3. I PROCESSI CREATIVI E LA RESTITUZIONE
Se consideriamo l’importanza dell’Artetarapia per il raggiungimento di uno stato di
benessere della persona, il processo creativo rappresenta la strada attraverso cui il
soggetto prende coscienza dei suoi aspetti più intimi, ed esprime le emozioni più
profonde.
E’ durante questa fase che la persona ritrova grande soddisfazione ed autostima.
Forzando i propri limiti e rifiutando i preconcetti, si trova il coraggio di abbandonare
vecchie credenze e percezioni di sé e delle proprie esperienze, per abbracciare una
visione nuova, ricca di significati da esplorare.
Il processo creativo è visto come parte integrante della nostra autorealizzazione; questo
ci permette di conoscere meglio noi stessi e sviluppare appieno le nostre potenzialità.
Quando la persona si accinge a realizzare un elaborato in un laboratorio di Arteterapia,
sono molti i processi attivati: secondo Vija Lusebrink, la creatività artistica coinvolge
esperienze cinestesico/sensoriali, percettivo/affettive e cognitivo/simboliche.13
Attraverso l’esplorazione dei materiali, con l’uso dei cinque sensi, attivo l’esperienza
cinestesica; a livello percettivo/affettivo il materiale è usato come mezzo per
13Cathy A. Malchiodi, (2009), Arteterapia, Giunti Editore
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comunicare le emozioni ed i sentimenti.
A livello cognitivo/simbolico il materiale viene trasformato ed utilizzato per dare
un’interpretazione personale.14
L’aspetto simbolico dell’opera realizzata, che diventa unica e suggestiva, permette al
terapeuta di entrare in sintonia con il paziente, e di comunicare sul mondo e sulle
emozioni che ha voluto esprimere.
Le immagini realizzate diventano veri e proprie immagini archetipe, che dall’inconscio
arrivano all’esterno e trovano espressione attraverso il linguaggio artistico dell’opera
realizzata, rendendola comprensiva a se stesso ed agli altri.15
L’intero processo creativo diventa terapeutico ed avrò un atto di innovazione,
improvvisazione e trasformazione che sarà l’inizio di quel cambiamento positivo a cui il
paziente sta tendendo.
La realizzazione di qualcosa di assolutamente nuovo e personale, che parte dall’intimo
della persona, permette di esplorare se stessi ed attingere necessariamente al proprio
potenziale creativo, superando le barriere ed i preconcetti. Spesso i prodotti che ne
derivano sono sorprendenti ed inaspettati, ma assolutamente rappresentativi e “veri per
chi li produce”.
Di recente mi è capitato di dover svuotare il solaio della casa in cui sono cresciuta e mi
sono imbattuta in alcuni miei appunti e disegni di scuola che mia madre aveva
conservato e che mi avevano accompagnato dall’asilo agli studi universitari. Mi sono
accorta con stupore che disegnavo moltissimo, magari sul libro di testo o sul quaderno
degli appunti, e con altrettanta meraviglia mi sono accorta che molti di quei disegni fatti
in momenti particolari della mia vita me li ricordavo! Spesso simboleggiavano le
emozioni che provavo e che anche oggi ricordo. Vedere i disegni con occhi nuovi che
vengono da una maggiore maturità ed esperienza di vita, mi è spesso servito a
trasformare, a vedere le sofferenze e le gioie che ci sono state nelle normali fasi della
mia vita ed a riconoscerle come normali passaggi che mi hanno portato dove sono ora.
La carica emotiva con cui li avevo prodotti era però decisamente diversa da quella con
cui ora li osservo; il “qui e ora” è davvero una componente importante da tenere
presente durante le sedute. Credo possa realmente trasformare la percezione delle
esperienze vissute. 14 Ibidem 15 R.Frison, S.Cavatorta, D.Vecchi, (2009), “Manuale di arti terapie e musicoterapia”, M. Del Bucchia.
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I laboratori di Arteterapia danno la possibilità di creare qualcosa di nuovo e ciò fa
attingere alla propria spontaneità , immaginazione, intuizione e pensiero laterale.
La teoria del pensiero laterale è stata approfondita dal medico e psicologo E. De Bono
negli anni ’60. Secondo questa teoria il cervello non è progettato per essere creativo ma
per produrre schemi utili alla vita quotidiana.
La creatività stimola l’uso del pensiero laterale e ciò consente la produzione di idee, la
ricerca di soluzioni nuove ed è possibile vedere il problema da un punto di vista diverso.
La creatività diventa uno strumento importante per la trasformazione .16
Parlare del prodotto ottenuto in un laboratorio di Arteterapia è uno dei processi cardine
per la trasformazione.
La restituzione intesa come condivisione ed esposizione di ciò che è stato fatto può
avvenire all’interno del gruppo di cui si fa parte o con il terapeuta con cui si lavora.
Nel gruppo spesso accade che i membri stessi diano una propria interpretazione positiva
o un punto di vista diverso, una soluzione diversa al trauma rappresentato e raccontato.
Si arriva ad una condivisione dei problemi comuni attraverso la comunicazione; la
catarsi durante la restituzione aiuta a superare ansie, paure, traumi.
Durante la restituzione viene tradotto in parole ciò che si è descritto attraverso l’arte; si
attiva pertanto un primo processo di elaborazione ed accettazione di ciò che si è vissuto
a livello emotivo.
Attraverso la fiducia acquisita nel gruppo e nel terapeuta, la persona può esternare i
propri sentimenti, accogliere i diversi punti di vista ed interpretazioni in modo da
rendere possibile l’elaborazione e la trasformazione.
Nella descrizione degli prodotti realizzati e quindi degli eventi vissuti, potranno essere
usate parole precise e a volte dolorose; può essere, in questo caso, utile ricorrere al
linguaggio trasformazionale, visto nei capitoli precedenti, per definire le esperienze in
un modo nuovo.
4. LABORATORI IN UNA CLASSE DI BAMBINI DI OTTO ANNI
4.1.PRESENTAZIONE DELLA CLASSE
La mia prima esperienza di laboratori di Arteterapia, in particolare con i bambini, è
16 Ibidem
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avvenuta con una classe di terza, composta da ventiquattro bambini, della scuola
primaria.
La conduzione dei laboratori è avvenuta insieme a Simona, l’insegnante della classe e
mia collega della scuola di specializzazione.
La classe era già stata preparata dall’insegnante al fatto che io li avrei affiancati per
alcune ore in attività di gruppo.
Il primo giorno ho fatto l’ingresso durante la ricreazione ed ho avuto modo di notare
affetto e fiducia nei confronti della maestra e la mia tensione iniziale è ben presto calata.
All’inizio dell’ora Simona mi ha presentata e buona parte della classe (non tutta) ha
risposto in coro con un bel “Buon giorno Monica”.
L’accoglienza è stata calda; le bimbe più estroverse sono venute subito da me a pormi
domande di carattere personale: “Sei sposata?”, “Hai figli?”, “Quanti anni hai?”
Credo che volessero conoscermi ed anche “catalogarmi”, cioè collocarmi in qualche
modo all’interno di un loro schema mentale.
Altri elementi della classe sono invece rimasti in silenzio e in posizione defilata; si
erano riparati dietro al banco, quasi fisicamente voltati in un’altra direzione rispetto alla
mia.
Ho pensato che con questi bambini fosse il caso di attendere che la nostra conoscenza
venisse fatta nel tempo e che la fiducia si costruisse passo dopo passo.
Ero stata avvisata della presenza di qualche bambino con alcune problematiche legate a
traumi vissuti; M. che si è trasferito dalla sua terra d’origine e fatica a parlare dei suoi
trascorsi, P. che ha subito abusi, A. che ha il padre ricoverato in una clinica psichiatrica.
Vista la mia scarsa esperienze con i bambini e con i laboratori di Arteterapia, ho deciso
di provare a considerarli tutti alla pari; sarei magari stata più attenta alle mie modalità di
comunicare alla classe in modo da creare una situazione di eguale coinvolgimento, ma
avrei comunque cercato di non fare differenze iniziali.
All’interno della classe la maestra ha una leadership riconosciuta ed incontrastata. Ho
creduto fosse importante, per la buona riuscita dei laboratori, che il conduttore fossi a
volte io, a volte lei, ma credo che sia opportuno e utile che chi è realmente responsabile
della classe sia l’effettivo leader, ruolo che Simona ha dimostrato di saper esercitare
molto bene negli anni.
Dalla classe ci siamo spesso trasferiti in un’aula-laboratorio in cui fosse possibile
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“creare” stando assolutamente comodi; l’aula aveva uno spazio libero al centro dove noi
ed i bambini ci siamo potuti sedere in cerchio. Durante il trasferimento, alcune bambine
si sono avvicinate dolcemente e hanno accarezzato Simona e, superate le prime
timidezze, anche me.
4.2. COSTRUZIONE DEI SETTING
La classe era già organizzata in modo che ogni bambino a rotazione fosse il
responsabile della distribuzione dei materiali.
La chiarezza e la condivisione di regole fin dall’inizio su orari, modalità di esecuzione,
spostamenti, tempi dedicati ai bisognini, ha reso i laboratori efficienti.
E’ stata accettata anche la regola secondo cui, durante il momento del laboratorio,
fossero da evitare commenti, interruzioni mentre i compagni parlavano, litigi e prese in
giro reciproche.
Alcuni materiali di base erano già presenti all’interno di un armadio: matite, pennarelli,
pennelli, colori a tempera, stoffe, materiali di vario tipo, contenitori in plastica per
l’acqua, più di un rotolo di scotch, forbici per bambini, colla vinilica.
Ciascun bambino aveva astucci con matite colorate e gomme da cancellare; io e Simona
abbiamo in seguito aggiunto altri materiali come, gomitoli di lana, riviste, perline, stelle
filanti ed altri oggetti di recupero.
I giorni prima dell’inizio di ogni laboratorio, io e Simona ci siamo sentite per decidere e
condividere i temi da proporre ai bambini e per stabilire i tempi e le modalità di
realizzo; per ogni laboratorio il tempo dedicato è stato di due ore.
5. OBIETTIVI DEI LABORATORI
Essendo le mie primissime esperienze di conduttrice di laboratori di Arteterapia e di
comunicazione con un gruppo di bambini, ho affrontato la proposta degli esercizi con
l’obiettivo di osservare le reazioni dei bambini agli stimoli a cui venivano sottoposti,
affrontando i temi proposti.
Ho cercato di capire quali attività fatte in un gruppo di ventiquattro bambini fossero
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maggiormente stimolanti, e quali risultassero più noiose. Ho provato a capire con quale
mezzo espressivo e quale materiale i bambini avevano più facilità ad esprimersi, se ci
fossero maggiori difficoltà nella fase dell’elaborazione o della restituzione.
Ho cercato di stare attenta anche al linguaggio non verbale che io adottavo nel
comunicare e quello che loro utilizzavano.
5.1.IL GIOCO DEI RICORDI
Al centro dell’aula abbiamo disposto delle tessere ciascuna con un disegno ed una
definizione precisa. Tali tessere erano state colorate dai bambini ed alcuni di essi hanno
riconosciuto i disegni visti.
Le tessere sono state disposte seguendo il disegno di un ovale ricordando un po’ il
“gioco dell’oca”. Ogni bambino tirava un dado e si posizionava sulla figura del numero
corrispondente; raggiunta l’immagine doveva dire ciò che gli veniva in mente .17
Per diversi bambini il gioco è risultato un po’ difficile; le riflessioni erano un po’ lunghe
e spesso terminavano con un “Non mi viene in mente niente”.
L. ha commentato la parola “SCONFITTA” dicendo che le veniva in mente quella volta
in cui la mamma l’ha sgridata perché non aveva eseguito bene i compiti.
M. con la parola “PONTE” ha ricordato quando è caduto in un laghetto, la mamma ha
provato a tuffarsi per aiutarlo, ma si è fatta male, allora è arrivato il papà che l’ha
portato fuori dall’acqua.
Il ricordo era legato al forte spavento che ha avuto.
Alla parola “CASTELLO” interviene L. al posto di un’altra compagna che non sa cosa
dire.
Ha cominciato a raccontare con una certa dovizia di particolari, dicendo che lei viveva
nel castello, era una principessa, aveva tanti vestiti e cibo in abbondanza. Simona mi ha
poi comunicato, a fine lezione, che L. difficilmente interviene nei dialoghi e che per lei
è stata un po’ una sorpresa vederla così estroversa durante questo esercizio.
F. ha associato alla parola “SCUOLA” la scuola materna che gli ha fatto conoscere tanti
bambini.
B. ha legato la parola “FUGA” al fatto che spesso scappa quando il papà lo sgrida. 17 Simona Silvestri, “Maestra, giochiamo con i ricordi?”, Tesi SST Counselling Scolastico 2010 Istituto
Meme
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T. alla parola “NOME” ha associato la domanda “Come ti chiami?”che è solito fare
quando conosce qualcuno.
Anche ad A. è capitata la parola PONTE ed a lui è venuto in mente il ponte per lo
stretto di Messina; l’ha descritto come posto molto pericoloso perché una volta costruito
può crollare e la gente che c’è sopra può morire.
Abbiamo chiesto ai bimbi se il gioco è piaciuto, in generale la risposta è stata positiva, a
parte T. che l’ha trovato noioso. 18
Durante il laboratorio ho notato diverse distrazioni da parte della classe, probabilmente
perché l’interazione ed il coinvolgimento nel gioco non erano proprio immediati, dal
momento che, a turno, i bimbi non erano impegnati e, forse, nell’attesa qualcuno si è
annoiato.
Ci siamo rese conto che in una classe così numerosa bisogna tenere conto dei tempi di
coinvolgimento e di reazione dei bambini.
5.2. IL MIO PRI MO RICORDO
All’interno dell’aula dove si svolgono le lezioni, abbiamo sistemato alcuni materiali di
diverso tipo su banchi vicino alla cattedra; tessuti di vario tipo, perline, paglietta, stelle
filanti, altri materiali di recupero e diversi colori con pastelli a cera, a tempera, matite,
acquarelli, pennarelli.
I bambini si sono disposti in banchi a quattro a quattro e hanno messo al centro i
contenitori per l’acqua, i pennelli e, man mano, i materiali scelti per il disegno.
Figura 1 Laboratorio-“Il mio primo ricordo”-sistemazione del materiale
18 Ibidem
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Figura 2 Laboratorio-“Il mio primo ricordo”-ricerca dei materiali
Figura 3 Laboratorio-“Il mio primo ricordo”-fase elaborativa Prima di iniziare la spiegazione del lavoro che avremmo svolto, ho chiesto alla classe
cose avrebbe fatto piacere loro fare; c’è stato un po’ di mormorio e c’è chi ha detto
disegnare, chi colorare, ecc. Con mio stupore anche T., che di solito è schivo a questo
tipo di attività, ha detto che gli sarebbe piaciuto scrivere.
Il laboratorio proposto consisteva nel pensare al ricordo più lontano che avessero;
quindi nella prima fase i bimbi sono rimasti seduti e si sono concentrati ad occhi chiusi
sull’immagine di qualcosa che era successo quando erano molto piccoli.
Abbiamo detto quanto tempo avevano a disposizione (le solite due ore dei nostri
laboratori) e ad intervalli di circa mezz’ora scandivamo il tempo per completare le varie
fasi del lavoro (riflessione, realizzazione dell’elaborato e restituzione).
La seconda parte consisteva nella realizzazione del ricordo; su fogli di carta bianchi ,
che alcuni bimbi ci hanno aiutato a distribuire, dovevano essere realizzate le immagini o
i ricordi che venivano loro in mente usando il materiale preferito.
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Abbiamo concentrato l’attenzione sul colore ed abbiamo dato come indicazione un
colore preciso a cui associare il ricordo.
Una parte della classe ha cominciato a portarsi verso i banchi con i materiali, ed ha
iniziato a sceglierli, creando un po’ di confusione; alla fine, dopo qualche esortazione,
ciascuno è tornato al suo posto.
Successivamente, senza grossi problemi, molti hanno cominciato l’elaborato.
Alcuni bambini, invece, hanno avuto difficoltà nel pensare a qualcosa di preciso.
G. per esempio, non riusciva a pensare a nulla, si faceva spesso distrarre dai compagni
evitando così di concentrarsi sull’esercizio.
La sua difficoltà di concentrazione l’avevo già notata negli altri laboratori; questa volta
mi sono rivolta a lei ponendomi di fronte al suo banco, dicendole di guardarmi, poi di
sedersi ben dritta sulla sedia in modo da modificare la postura per affrontare meglio ciò
che avremmo dovuto fare, di chiudere gli occhi e pensare al suo ricordo. G. aveva
finalmente trovato l’immagine dentro di sé, ma non sapeva come rappresentarla e da
dove partire, allora le ho fatto richiudere gli occhi e le ho detto di pensare al colore che
quell’immagine le faceva venire in mente. A questo punto ha detto “giallo”, quindi si è
sbloccata ed è andata a cercare il suo materiale.
Altri bimbi hanno avuto qualche perplessità sull’elaborato e mi chiamavano per chiarire
qualche dubbio soprattutto sulla capacità di rappresentare l’immagine in modo
realistico; in questi casi ho fatto presente che non era importante che ci fosse
somiglianza e che non ci sarebbero stati prodotti giudicati belli o brutti; tutti i colori ed i
disegni che rappresentavano le loro emozioni legate al ricordo sarebbero andati bene.
La paura del giudizio e di un’eventuale valutazione del lavoro è un aspetto che con i
bambini si presenta spesso; questo l’ho potuto superare ripetendo ogni volta che era
corretta qualunque tipo di realizzazione.
Mi sono mossa tra i banchi mentre i bambini continuavano ad elaborare; mi fermavo
solo se mi chiamavano o se riconoscevo un blocco nella realizzazione.
A volte mi cercavano solo perché stessi vicino a loro.
Ho notato nei diversi laboratori, che i bambini che manifestano maggiori difficoltà, sono
in genere quelli che non fanno richiesta di aiuto, ma stanno davanti al foglio immobili.
Dopo essere trascorso già un po’ di tempo dall’inizio dell’esercizio, ho visto che M.
aveva ancora il foglio in bianco.
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Gli ho chiesto come stava andando l’esecuzione; lui mi ha risposto che aveva un bel
ricordo legato a quando viveva in Africa, stava tra le braccia della nonna e la sua
famiglia era unita e felice; mentre lo raccontava piangeva e diceva che non sapeva come
rappresentarlo. Ho provato a tranquillizzarlo e, spostando un attimo l’attenzione gli ho
chiesto con quale colore lui volesse rappresentare un ricordo così bello e lui ha detto” il
rosso”.
Si è alzato per prendere il materiale, ma non riusciva a rappresentare quell’immagine; il
ricordo era bello, ma era troppo doloroso sapere che oggi in Italia non c’è più
quell’unità che ritrova solo quando va in Africa. A questo punto il bambino ha preferito
concentrarsi su un altro ricordo legato alla sua scuola materna in Italia.
Mi sono resa conto che con M. c’è bisogno di un po’ più di tempo e di un’attenzione
personale per affrontare certi argomenti.
T. che di solito non partecipava molto ai laboratori, ha deciso di esprimere il suo
ricordo. Ha utilizzato i colori rosso e nero; si è ricordato che nell’album di famiglia
aveva visto una sua foto appena nato ed aveva dedotto di essere stato scambiato nella
culla; il suo disegno rappresentava questo.
C’è stata una frase che mi ha stupita detta durante il laboratorio. Un bambino non
sapeva come esprimere un brutto ricordo e L. ha risposto: ” Se hai un brutto ricordo
devi usare la stoffa nera”. L’utilizzo di determinati colori per rappresentare eventi brutti
ed altri per rappresentare quelli belli, è una classificazione non condivisa da tutti; trovo
però singolare che una bambina di otto anni abbia associato, in modo così spontaneo, un
determinato colore ad una preciso stato emotivo.
Durante l’esercizio quasi tutti i bambini hanno usato stoffe, perline ed hanno assemblato
vari tipi di materiali, ma T. ha usato solo matite colorate rendendo semplice e veloce il
suo processo creativo.
La terza fase del laboratorio consisteva nell’ attaccare su fogli di cartoncino più grandi
tutti i disegni e collocarli nella posizione che preferivano; successivamente ognuno
avrebbe raccontato ciò che aveva rappresentato.
T. ha messo il disegno in un angolo in basso e dopo ha aiutato chi era maggiormente in
difficoltà a terminare il suo elaborato (devo dire che non l’avevo mai visto così
partecipativo e Simona stessa, che lo conosce da molto più tempo, si è stupita).
Quando i bimbi hanno visto i loro elaborati tutti insieme sul cartellone, hanno
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manifestato molta gioia ed ognuno indicava quale fosse il proprio.
M. ha realizzato un leone con la paglietta ed ha raccontato il suo ricordo allo zoo. Si
trattava di un ricordo piacevole raccontato in modo simpatico.
Per G. il suo primo ricordo era bello e si riferiva a quando era piccola ed i suoi fratelli
non erano ancora nati.
S. ha un brutto ricordo legato ad un cane che ha dato un morso ad una persona.
Il tempo a disposizione era purtroppo poco per la complessità dell’esercizio; vista
l’importanza che ha la fase della restituzione, considerato che il coinvolgimento dei
bambini e l’entusiasmo nel voler raccontare il proprio disegno era grande, mi sono
ripromessa, nei futuri laboratori, di dedicare a questa fase un maggiore spazio.
L’incontro successivo l’abbiamo infatti iniziato con la restituzione dell’esercizio del
“primo ricordo”.
I bambini hanno accolto la decisione con entusiasmo: desideravano molto poter
condividere con i propri compagni il racconto del ricordo.
Solo M. ha detto che non avrebbe voluto raccontarlo.
L. ci ha spiegato come era felice con la nonna in Albania, con cui ha vissuto dai sei mesi
ai tre anni di vita.
C. ha ricordato di quando vedeva le stelle con il nonno.
Anche M., con sorpresa, ha voluto esprimere le sue emozioni e farci partecipi del suo
elaborato relativo ai tempi dell’asilo; ci ha trasmesso una gran voglia di condividere ciò
che ha dentro ed ha trovato il coraggio di farlo.
In questo lavoro il coinvolgimento dei bambini è stato notevole; si è creato un
bell’affiatamento nel gruppo e un gran rispetto nel momento della restituzione con
poche interruzioni durante le esposizioni. Anche osservare lo scambiarsi di materiali con
naturalezza è stato piacevole e appagante. L’energia era molto intensa e contagiosa e
credo abbia travolto anche quei bambini che in genere affrontano con timore o con
difficoltà questi momenti in cui si elaborano i propri vissuti.
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Figura 4 Figura 5 Laboratorio-“Il mio primo ricordo”-esposizione dei primi due cartelloni
Figura 6 Laboratorio-“Il mio primo ricordo”-esposizione del terzo cartellone 5.3. IL FILO DELL’AMICIZIA
Questo laboratorio l’abbiamo eseguito in biblioteca , un’aula che ha più spazio e
consente di potersi sedere in cerchio per terra.
Adesso i bambini si sono abituati alla mia presenza e quasi si aspettano che io ci sia.
Abbiamo iniziato l’esercizio spiegando che il rotolo di lana che avevamo in mano
occorreva per creare un legame che unisse il primo giocatore al secondo, il secondo al
terzo e così via.
Avevo posto l’attenzione sull’importanza che ognuno tenesse ben saldo il capo della
cordicella che gli era stato dato e che per nessuna ragione avrebbe dovuto lasciarlo
andare.
Il filo doveva essere abbastanza teso e poteva scappare facilmente dalle mani.
Questa sottolineatura si è rivelata interessante, perché i bambini si sono sentiti parte
integrante del gioco e responsabilizzati; si sono dimostrati attenti sia a non far scappare
la propria parte di filo, sia che non sfuggisse ai compagni.
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Il tema del gioco era l’Amicizia ed ha cominciato a parlare G., la quale ha detto che
l’amicizia è molto importante ed il filo la tiene unita e ci fa “voler bene”.19
Il gioco procedeva con il racconto di una storia che cominciava dal primo che aveva in
mano il gomitolo e continuava con gli altri a cui man mano la matassa veniva lanciata.
Il primo ha inventato due nomi Gennaro e Francesco che volevano diventare amici.
Sono andati prima a giocare insieme nel parco e poi a casa di Francesco, una villa con
la piscina. Alcune volte hanno preso il gelato insieme, altre volte, con il consenso delle
mamme, hanno dormito nella stessa casa.
Durante il racconto è emerso che tutte queste attività i personaggi le possono fare “solo”
se le mamme sono d’accordo.
Il racconto è continuato con i bimbi che giocavano con la corda; uno dei due è caduto
durante il gioco, ma è subito stato aiutato a rialzarsi. Dopo sono andati allo zoo a vedere
gli animali: il leone faceva un po’ paura ed allora hanno deciso di tenersi per mano per
farsi coraggio l’un l’altro.
Il filo è stato lanciato a T. che non ha voluto partecipare al racconto; ha infatti passato
subito il gomitolo ad un altro compagno pur tenendo in mano la sua estremità.
I protagonisti hanno incontrato altri bimbi a scuola, però poi hanno litigato e si sono
divisi.
Presto hanno scoperto che non era divertente stare divisi e hanno deciso di fare pace.
Il gioco è passato ad una bimba del gruppo e questa si è lamentata del fatto che i maschi
tendono sempre a tirarsi il filo tra di loro; Simona mi dice che da quest’anno ci sono
state diverse situazioni dove i bimbi tendevano a rimanere tra di loro e a fare gruppo,
così come le bambine.
A. ha risolto il problema dicendo che i protagonisti hanno chiesto alle mamme di poter
andare tutti insieme al mare e mangiare insieme; sono quindi andati a comprare gli
ombrelloni ed i costumi e hanno fatto il bagno tutti insieme.
Intanto il filo è continuato a girare e chi aveva già partecipato al gioco stava attento a
non farsi sfuggire il capo. Questo particolare li ha tenuti effettivamente più coinvolti ed
ho notato che ha ridotto la distrazione; nei giochi proposti in cui i bambini
partecipavano a turno, c’era una maggiore difficoltà nella conduzione.
Solo T. ha lasciato svogliatamente andare il filo perché ha fatto presente che l’amicizia
19 Ibidem
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non lo interessava. Questo suo atteggiamento ha suscitato il malcontento dei compagni;
gli hanno detto che non si poteva rompere il filo dell’amicizia, allora lui l’ha ripreso in
mano anche se controvoglia.
P. ha preso il gomitolo in mano e, continuando il racconto, ha detto che in spiaggia
stavano giocando a seppellirsi con la sabbia; io ho chiesto se la testa è rimasta fuori o se
erano completamente sepolti; lui ha un po’ riflettuto e poi ha risposto che la testa è
rimasta fuori e potevano respirare.
L’ultimo lancio è andato a M. il quale ha raccontato che mentre si trovavano in mare è
arrivato uno squalo che ha mangiato tutti i bambini che nuotavano. Il finale non è
piaciuto alla classe, così noi abbiamo comunicato che potevano anche decidere di
cambiarlo, cosa che è avvenuta successivamente.
La seconda parte del laboratorio consisteva nel ritagliare delle figure dalle riviste che
avevamo portato e collocarle nella propria parte di filo. I bambini hanno ricercato e
ritagliato le foto con grande entusiasmo e dopo hanno posizionato le loro immagini.
C., di solito taciturna durante le attività, ha deciso di proporre un finale diverso; ha
messo l’immagine del veliero di fianco a quelle delle tartarughe assassine messe da M.
ed ha detto che la nave ha salvato tutti i bambini dagli squali.
La classe è rimasta contenta del finale, ma M. è intervenuto nuovamente per cambiare
ancora la storia; ha detto che le tartarughe assassine avevano dei denti così lunghi che
hanno morso la nave e l’hanno fatta affondare. In questo gioco M. ha dimostrato di
avere molta voglia di raccontare e parlare.
Il suo finale però ancora non ha convinto la classe ed è stata proposta un’ulteriore
modifica: i bambini sul veliero sono arrivati su un’isola con un castello, hanno trascorso
lì l’estate e finite le vacanze sono tornati a scuola.
Dall’osservazione di questo laboratorio è emerso come i bambini si sentano, a volte a
malincuore, condizionati dal parere delle mamme per lo svolgimento di molte attività.
Interessante poi lo spirito di gruppo che si è creato: l’appartenenza al gioco, il
coinvolgimento e la solidarietà verso i compagni che hanno bisogno di aiuto è emerso
sia durante la realizzazione che nel racconto stesso.
Ancora una volta i bambini che in genere non si esprimono nei contesti scolastici,
utilizzano questi momenti di creatività per parlare, condividere e raccontarsi.
Credo che la creazione di un ambiente non giudicante dia loro il coraggio di esprimere e
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soprattutto elaborare le proprie emozioni cosa difficilmente possibile negli altri
momenti della giornata.
Per avere l’attenzione durante i laboratori di così tanti bambini, credo sia importante
evitare i tempi di attesa; quando infatti si propone loro di disegnare o ritagliare sono
tutti più entusiasti.
Figura 7 Laboratorio-“Il filo dell’amicizia”-ciò che è stato realizzato al termine dell’esercizio
Figura 8 Laboratorio-“Il filo dell’amicizia”-particolare della nave che salva i bambini dalle tartarughe assassine 5.4. LA RAGNATELA DELL’AMICIZIA
Il laboratorio inizia con un foglio appoggiato a terra e noi sistemati attorno, tutti in
cerchio.
Abbiamo di nuovo il nostro gomitolo di lana che bisogna tirare a turno ai propri
compagni e chi lo riceve deve rispondere ad alcune domande scritte sulla lavagna,
fissarlo con lo scotch sul foglio e scrivere il proprio nome.
Le domande sono:
- Cosa mi piace di me?
- Cosa non mi piace di me?
- Com’ è il mio carattere?
- Una cosa che mi piace fare?
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- Una cosa che non mi piace fare?
- Cosa vorrei cambiare di me?
- Cosa vorrei che gli altri sapessero di me?
Anche questa attività va un po’ a rilento; i bambini riflettono un po’ prima di rispondere
alle domande e non sempre riescono a dare una risposta.
M. non riesce a dare risposte alle domande negative.
G. Originaria del Ghana vorrebbe avere i capelli lisci. Diverse bambine cambierebbero
qualcosa di fisico come gli occhi o il colore dei capelli.
Ci sono parecchie interruzioni perché in molti vogliono prendere la parola durante gli
interventi dei compagni.
Durante il gioco M., seduto vicino a me, mi guarda ed comincia a piangere. I
compagni non si accorgono subito della reazione, io in accordo con Simona, porto fuori
dall’aula M. e comincio a conversare con lui.
Gli chiedo il motivo di quelle lacrime, e lui sostiene che i compagni non gli hanno
volutamente ancora passato il gomitolo. Allora gli chiedo secondo lui perché non era
ancora accaduto e lui mi risponde che lo hanno fatto apposta.
Gli domando se lui è stato l’unico a cui non hanno tirato il filo o ci sono altri compagni
a cui succede. Lui ammette che ce ne sono altri.
Allora condividiamo che forse non è detto che ce l’abbiano proprio con lui. A queste
domande M. smette di piangere e comincia a ragionare su ciò che ci stiamo dicendo. Io
gli chiedo di osservare la situazione e vedere se quello che lui afferma è effettivamente
vero o se ha un po’ esagerato la situazione..
Lui sostiene che i compagni lo escludono SEMPRE, tutte le volte che c’è da fare
qualcosa insieme.
Provo a ragionare con lui sui termini assoluti che lui adopera nel linguaggio, se è
proprio vero che queste cose avvengono proprio tutte le volte con tutti i suoi compagni
o se possiamo dire che magari è successo qualche volta.
Gli chiedo poi se è possibile che in questo gioco non ci fosse stato tempo di fare parlare
tutti, e lui concorda con me su questa affermazione.
M. ora è decisamente sollevato e credo sia stato importante interrompere quel circuito di
pensieri di autocommiserazione, in cui si era messo e provare a valutare la realtà dei
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fatti in modo meno soggettivo.
Ho usato anche il linguaggio trasformazionale sostituendo quel “tutte le volte” con “a
volte” e “qualche volta” e ho visto che ha funzionato.
Intanto il gioco è terminato ed i compagni si sono dispiaciuti che M. avesse pianto e non
avesse partecipato più al gioco.
Al ritorno in aula voleva stare ancora vicino a me perché probabilmente si sentiva
rassicurato dalla mia presenza vicino a lui; con gentilezza gli ho fatto capire che sarei
stata vicino a lui come a tutti gli altri, e che nel rientro insieme ai compagni di classe io
sarei stata dietro a loro. E così abbiamo fatto.
5.5. LO SCARABOCCHIO
Dai due anni quasi tutti i bambini producono scarabocchi in modo spontaneo ed
intenzionale.
Ho proposto alla classe questo laboratorio, spiegando che ciò che saremmo andati ad
eseguire non avrebbe richiesto particolari doti espressive.
Ho spiegato le fasi dell’esercizio: saremmo partiti con una parte di rilassamento
accompagnato dalla musica tenendo gli occhi chiusi, poi, al termine del brano, sempre
ad occhi chiusi, avremmo cominciato a scarabocchiare sul foglio con la matita
precedentemente scelta. Successivamente avremmo guardato il risultato e riportato sul
secondo foglio l’immagine che avremmo visto nello scarabocchio fatto.
I bambini sembravano eccitati all’idea di proseguire con questo lavoro.
Abbiamo cominciato ad ascoltare alcuni brani di musica classica e tutti erano seduti al
loro posto con gli occhi chiusi; dopo qualche minuto qualcuno sbirciava, ma la maggior
parte si è concentrata sull’esercizio di rilassamento.
Dopo abbiamo spento il lettore cd ed abbiamo detto di cominciare a scarabocchiare;
devo dire che hanno eseguito questa parte senza problemi.
Tutti hanno poi cercato un immagine all’interno dello scarabocchio ed hanno eseguito,
sul secondo foglio, con le matite colorate il disegno che stava prendendo forma
all’interno dello scarabocchio.
Abbiamo dato qui un ampio spazio alla restituzione e devo dire che quasi tutti erano
ansiosi di parlare.
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Ad ogni bambino è stato proposto di prendere i due fogli, andare davanti alla classe e
raccontare ciò che vedevano:
M. ha disegnato se stesso con un cappello.
L. ha visto nello scarabocchio uno scienziato che si trasformava in qualcosa di brutto.
B. ha rappresentato un signore strano, ma simpatico.
A. ha detto che si è sentito bene nel fare l’esercizio ed ha visto una barca.
G. ha provato dolore perché ha visto un’amica della mamma che aspettava un bambino
che però è morto.
F. ha visto un fiore ed un cuore.
M. ha visto un bambino mangiato da un coccodrillo e si è sentito triste.20
Alla fine di ogni singola restituzione, ho chiesto all’intera classe di dire cosa loro
vedevano nello scarabocchio dei compagni; per la maggior parte hanno visto cose
diverse, ma belle, come fiori, cuori e cose da mangiare.
Nello scarabocchio di G. ad esempio non hanno visto il lutto che lei ha rappresentato,
ma tanti cuoricini.
Questo laboratorio è piaciuto molto, soprattutto perché ognuno ha potuto esprimersi e
condividere l’esperienza fatta davanti ai compagni.
Ho chiesto anche cosa fosse piaciuto nella giornata di oggi; c’è chi ha risposto che gli
era piaciuto scarabocchiare e si è molto divertito, e chi, come G., che le ha fatto piacere
che i compagni le avessero mostrato una lettura dello scarabocchio che lei non aveva
visto.
Anche qui è accaduto che i bambini che hanno maggiormente parlato sono stati quelli
che solitamente fanno fatica ad esprimersi o partecipano poco durante gli scambi
all’interno della classe.
Nei giorni successivi ho appreso da Simona che ai bambini è piaciuto molto questo
laboratorio ed è partita da loro l’iniziativa di farlo provare anche ad un’altra maestra
che, informata dell’esercizio, si è prestata al gioco.
Diversi bambini hanno poi raccontato a casa con entusiasmo ciò che avevamo vissuto in
classe.
20 Ibidem
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Figura 9 Laboratorio-“Lo scarabocchio”-i disegni di alcuni bambini della classe
5.6. I MIEI SALUTI L’ULTIMO GIORNO DI SCUOLA
Sono tornata a trovare i bambini prima della chiusura per la pausa estiva delle scuole e
loro sono stati contenti di vedermi; qualcuno mi ha chiesto cosa avremmo fatto oggi, io
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ho risposto che ero venuta solamente a salutarli.
Come spesso fanno alcune bambine si sono avvicinate per accarezzami ed io le ho
salutate con molto piacere unitamente anche ai loro compagni.
Poi sono tornati al loro banco ed io ho detto che avevo preparato un regalo per loro.
Ho dato un bigliettino ad ognuno con scritto:
“Se ti viene un brutto pensiero, scrivilo su un foglietto, poi chiudi gli occhi e pensa a
qualcosa che ti mette allegria, magari un bel ricordo.
Dopo apri gli occhi, prendi il bigliettino e strappalo in mille pezzettini lascialo andare
nell’aria, così il brutto pensiero se ne andrà”.
Devo dire che la classe ha apprezzato il mio pensierino per loro e abbiamo fatto
l’esercizio insieme. C’è chi mi ha detto che così può mandare via le cose brutte. Alcuni
l’hanno messo nell’astuccio e altri nel quaderno.
Mi hanno chiesto se ci fossi stata anche l’anno prossimo.
Ho risposto loro che era sarebbe stato molto probabile.
6. CONCLUSIONE
Questi primi laboratori sono stati molto importanti per me per osservare ed imparare dai
bambini.
In un gruppo così numeroso credo sia importante avere la presenza di un altro
conduttore; spesso i bambini si distraggono e perdono il filo del discorso, soprattutto
durante le attività più discorsive, ed è necessario essere almeno in due per gestire
meglio tutte le dinamiche della classe.
Inoltre possono presentarsi episodi da gestire singolarmente, come il caso di M.,
pertanto credo che la presenza di un collega che possa far continuare l’esercizio, sia
determinante.
Devo aggiungere che mi ha fatto molto piacere notare che all’interno del corpo docenti
di una scuola primaria, ci sono insegnanti che ritengono importante approfondire alcune
conoscenze nel campo del counselling, oltre che occuparsi del programma di studi degli
allievi.
L’attenzione alle gestione delle emozioni degli alunni credo sia molto importante, e se
ai tempi in cui frequentavo la scuola io c’era poca cultura in questa direzione, noto con
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gioia che oggi si da un’importanza diversa a quest’aspetto; si pone attenzione alla fase
della relazione del bambino con se stesso, con la propria famiglia e con l’ambiente che
frequenta.
Sono convinta che molti bambini ricorderanno le esperienze vissute durante i laboratori,
e quanto sono riusciti a creare a livello emozionale, condividendo il tutto con i
compagni.
Probabilmente ci si aspetta che tutti i genitori comprendano l’utilità dei laboratori e
continuino a casa ciò che è stato fatto in classe.
Credo che sia difficile che questi temi possano essere affrontati in famiglia, senza la
necessaria conoscenza ed esperienza; credo inoltre che non sia possibile costringere i
genitori a fare cose che ritengono marginali o che richiedono dedizione.
Ritengo che l’operatore debba far in modo che durante le ore che il bambino trascorre
con lui, si appropri il più possibile delle esperienze vissute e di ciò che è riuscito a
“trasformare”; avrà così un maggior numero di strumenti da utilizzare nell’arco della
sua vita, che ovviamente prevede l’assenza dell’Arteterapeuta al suo fianco, per
affrontare i numerosi cambiamenti nei percorsi della sua vita.
In ultima analisi ho potuto riscontrare come la comunicazione attraverso l’arte sia
davvero potente; durante questa mia breve esperienza di laboratori ho notato come a
volte il prodotto artistico abbia rappresentato, per alcuni bambini, lo strumento più
congeniale per esprimere alcuni “vissuti”.
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7. BIBLIOGRAFIA:
-Daniel Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva., RCS Libri s.p.a., Milano,
1998.
-Roberto Re, Leader di te stesso, Mondadori Editore s.p.a.,Milano, 2004.
-Daniel Goleman, La tua mente può cambiare, Rizzoli Editore, Milano, 2007.
-Cathy A. Malchiodi, Arteterapia, Giunti Editore s.p.a., Firenze, 2009.
-Roberta Frison, Silvia Cavatorta, Daniela Vecchi, Manuale di artiterapie e
musicoterapia, Marco Del Bucchia Editore, Lucca, 2009.
-Simona Silvestri, Maestra, giochiamo con i ricordi?, Tesi SST Counselling
Scolastico, Istituto MEME, 2010.
8. SITOGRAFIA
-WWW.Wikipedia.org
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