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Premessa Dai recenti Disegni di Legge sulle competenze professionali possiamo renderci conto, anche nel raffronto di come queste vengono gestite negli altri Paesi, dell’attacco alla figura dell’architetto come professione intellettuale libera. A questa deriva non corrisponde da parte della categoria degli architetti un adeguato e conseguente movimento di autoriforma, di consapevolezza del proprio ruolo in una cornice di riferimento profondamente trasformata. Tale autoriforma dovrebbe essere prima di tutto volta ad una riflessione sui metodi anziche sui risultati:

• maggiore accesso e partecipazione soprattutto ai giovani (MA NON SOLO..)

• diversa, più efficace e moderna organizzazione dell’offerta professionale • formazione E RICERCA continua come autonoma e volontaria

espressione di nuove possibilità del fare architettura • sussidiarietà della professione rispetto al servizio pubblico • cultura della multidisciplinarietà dell’offerta professionale • internazionalizzazione della figura dell’architetto, prima di tutto culturale,

capace di darsi la possibilità di operare in un sistema comunitario aperto.

La Sezione Prospettive della Professione si è incaricata di leggere, appunto in prospettiva, le trasformazioni che coinvolgono la nostra professione per individuare quali potrebbero essere le azioni , o il diverso metodo con cui approcciare la nostra professione. Queste riflessioni investono anche e forse soprattutto il modo con cui la nostra professione viene intesa e percepita. Si avverte infatti il senso di un profondo distacco da quelli che sono i portatori reali di interesse, i cittadini, gli utenti finali del nostro fare. Certa autoreferenzialità del nostro operare ha lasciato margine di concorrenza a competenze sicuramente meno preparate ma forse più vicine ai problemi reali della gente. Questo può significare la necessità di operare con rinnovato sguardo etico su un metodo che dia nuovo significato al ruolo sociale dell’architetto, capace di leggere e dare risposta alle nuove necessità di una società globale in un quadro sempre più complesso di riferimento. Per mettere a fuoco le criticità delle carenze logistico-organizzative di una visione professionale ancora radicata sul supposto privilegio della territorialità, ci affideremo ad un paradosso temporale e linguistico:

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L’architetto non è più il mugnaio Se il mulino era un ingenium già conosciuto nell’Antichità, la figura sociale del mugnaio è una vera invenzione medievale. Si tratta di un personaggio ambivalente: egli era più colto della media e generalmente più ricco, pur appartenendo, di fatto, al popolo minuto e non godendo di particolari privilegi. Il mugnaio era depositario di un bagaglio di conoscenze empiriche sulle acque e i cereali, sulle pietre e la carpenteria che lo innalzava sul resto della comunità e che era tramandato di padre in figlio. Era uso, infatti, ritenere che nessuno potesse essere un buon mugnaio senza avere il padre nel mestiere. Quando possibile, l’unica soluzione per entrare in questa ristretta cerchia, quindi, era sposarne la figlia che era per questo considerata un ottimo partito. Il mugnaio era un funzionario pubblico, soprattutto nelle città, ed era sottoposto a controlli molto stretti, previsti dagli Statuti Comunali. Le comunità badavano a regolamentare l’attività dei mugnai attraverso registri in cui s’inscrivevano i professionisti, che erano costretti a prestare giuramento nelle mani delle autorità. Interi capitoli degli Statuti erano dedicati all’arte molitoria. Tali leggi variavano leggermente da comunità a comunità, ma alcuneerano fisse e immutabili e costituivano un riferimento per l’intera categoria professionale. In realtà nelle piccole comunità, non era un vero e proprio professionista ad occuparsi del mulino, ma agricoltori un po’ più ricchi della media ricoprivano questo ruolo periodicamente; oppure si creavano consorterie di famiglie che gestivano a turno gli opifici. Il mugnaio, spesso, ricopriva cariche di spicco nella comunità, anche a fronte di una maggiore disponibilità di denaro. Inoltre, poiché molto spesso il mulino era di proprietà dell’aristocrazia, il mugnaio era una figura intermedia tra il potere territoriale e la popolazione, fatto che lo rese ben presto un facile capro espiatorio del malanimo dei suoi clienti. Fu così che questa figura intermedia tra il signore e i suoi sottoposti fu circondata presto da una cattiva fama, aiutata, è il caso di dirlo, dalle frequenti ruberie che effettuava nel calcolo del proprio compenso, nonostante molte leggi e giuramenti lo vincolassero all’onestà. Nonostante i molti vincoli, però, il mugnaio era ritenuto un ladro e un poco di buono. Parte di questa fama era immeritata, poiché il malanimo era esacerbato dal fatto che, in tempi in cui la farina era un bene prezioso, la trattenuta era spesso vissuta come una vera e propria rapina. Sicuramente, tuttavia, la diceria era in parte basata sulla realtà dato che per il mugnaio era facile far “sparire” piccole quote di farina in barba ai controlli. Si pensi, ad esempio, alla volanda, la farina finissima e impalpabile che si disperdeva durante la lavorazione e che il mugnaio poteva in seguito raccogliere.

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Per molti versi il mugnaio medioevale ha elementi di comunanza con l’architetto di oggi forse addirittura più degli architetti del proprio tempo. Presupposto fondamentale per l’arte molinatoria, oltre la competenza, era la stessa struttura del sistema territoriale delle acque di cui aveva il privilegio del controllo. In tale sistema chiuso e autoreferenziale il conferimento del grano diventava obbligato e non misurava di fatto la vera competenza del mugnaio. Egli era il tramite necessario per rendere tale potenziale ricchezza una risposta in termini di domanda sociale (la macinazione , la farina, il pane, il bisogno della famiglia). Se assimiliamo il sistema delle acque ad una condizione territoriale di riferimento possiamo immaginare il nuovo modello globale come una sistema di acque esogeno al sistema di riferimento. L’acqua può venire da ogni dove (l’energia intellettuale) così come il grano (risorse materiali ed economiche) : il problema è allora processare in modo diverso tale nuovo sistema in modo che la potenziale ricchezza sempre e comunque possa diventare una risposta in termini di domanda sociale, anch’essa sempre più esogena al sistema perchè soggetta a flussi e dinamiche che non hanno più a che che fare con la fisiologica trasformazione interna del sistema. Per cui posso speculare sull’attesa di tale domanda per rendere valore aggiunto fittizio alla ricchezza potenziale. Dall’atavico previlegio della rendita di posizione all’interno del sistema posso passare alla rendita di posizione all’interno del processo. Ogni domanda sociale che non è funzionale al processo di fatto viene esclusa a prescindere dalla sua legimittimità. Tutto questo se non lego il prodotto al presupposto necessario della risposta alla domanda sociale che non deve essere la mera formalizzazione astratta della risposta ad un bisogno reale cosi come non devo astrarre dal bisogno reale ma monitorarlo nella sua concretezza

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Il progetto non è più un cartiglio Dobbiamo evitare di continuare a confondere progetto e processo. Il progetto non è più l’azione su un ambito territoriale ma una induzione di interazione fra più ambiti. La città è un prodotto multidisciplinare con più livelli di progettazione. La programmazione e la interelazione fra i diversi livelli devono continuamente integrarsi. La rete delle competenze può essere una risposta in termini di adattività al sistema complesso del processo trasformativo urbano. L’architetto può, anzi deve, per ampiezza e qualità della propria competenza, essere il coordinatore di tale processo , il garante dell’interesse generale, il promotore della definizione e della salvaguardia di un modello urbano sostenibile per il futuro. Occorre definire il ruolo di coordinatore del processo da parte dell’architetto, mettendo in relazione le criticità della professione con le criticità dell’approccio alla progettazione: Se intendiamo focalizzare sul ruolo sociale dell’architetto questo può essere tradotto come figura di responsabilità della gestione del processo edilizio nella sua complessità. Per dare risposta alla nuova domanda sociale dovremo saper interpretare e risolverei i nodi di un nuovo possibile modello sostenibile della città e delle sue trasformazioni Sostenibilità economica (il grano) possibilmente senza gravare eccessivamente sul bilancio pubblico e senza strategie di eccesso speculativo del capitale privato anche con partenariati PP tesi comunque al privilegio dell’interesse sociale condiviso. Ciò implica un modello aperto della città, un modello della rete in sostituzione di modelli chiusi autoreferenziati con infrastrutture autonome, in questo caso diventate troppo costose per la loro sostenibiltà. Sostenibilità gestionale (la macinazione) attraverso l’introduzione di nuove figura di gestione del processo edilizio organizzato in reti di competenze. L’architetto, per ampiezza della sua formazione professionale, può, e forse deve, assumere su di se il ruolo di unico vero garante di questo processo. Sostenibilità tecnica (il pane) mediante l’impiego di metodologie costruttive capaci di dare risposta alla domanda sociale con basso impatto energetico e ambientale

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Sostenibilità sociale (la gente) I portatori di interesse dovranno essere anche promotori di interesse e viceversa. Dovremmo passare da una visione duale di questa due polarità viste come anodo-catodo verso una visione integrata circolare. Ognuno deve vedere se stesso come portatore e promotore di interesse. Il vantaggio non è in se ma costantemente fuori di se: ti riguarda sempre e comunque il vantaggio collettivo e da questo sei riguardato. Si tratta di rimettere in moto processi di crescita sociale, che diano senso alla città non come assemblamento di opportunità speculative basate sulle rendite finanziarie e di posizione, ma come polis, come espressione di valori condivisi La domanda sociale non si misura più con i sacchi di farina Premessa necessaria è quella di partire dall’analisi reale dei bisogni e non dalla sua strumentalizzazione. Abbiamo immaginato un LABORATORIO OPERATIVO DI METODO, che lavorasse sulla consapevolezza di un metodo capace di dare risposta sostanziale , ai problema aperti e concreti che esprime il territorio immaginando un nuovo ruolo dell’architetto che non è più come il il mugnaio di un sistema chiuso autorefenziale il referente e promotore di una nuova cultura della professione capace di

• capace di ascoltare le esigenze reali dei cittadini • capace di darsi regole etiche salde e radicate che gli permetta di porsi in

funzione sussidiaria rispetto ad una idea socialmente sostenibile di ciittà • capace di interazione a livello multidisciplinare che permetta di guidare

con autorevolezza i processi complessi del mondo globale contemporaneo.

• capace di elaborare sintesi e proposte per un nuovo modello sostenibile di Città Pubblica

Esso prevede un coordinamento multidisciplinare delle diverse figure professionale di un processo sostenibile per una possibile sussidiarietà del lavoro svolto nei confronti della amministrazione che potrebbe essere promotore di sinergie e collaborazioni, con la partecipazione attiva cittadini. A tal fine si propone una possibile organizzazione del Laboratorio strutturato per livelli di indagine e di proposta (analitico, descrittivo, sintetico) sui vari ambiti che strutturano l'idea di città pubblica ( lo spazio pubblico, la funzione pubblica , il cittadino).

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IL LABORATORIO OPERATIVO DI METODO : • si misura con problema aperti e concreti espressi dal territori • indaga la possibilità di una nuova cultura della professione • individua nuovi possibili ruoli dell’architetto capaci di dare nuove prospettive alla professione • promuove l’ascolto delle esigenze reali dei cittadini come nuovo metodo operativo • verifica la possibilità di porsi in funzione sussidiaria rispetto alla funzione pubblica con una una idea socialmente sostenibile di città • stimola ed indirizza verso la interazione a livello multidisciplinare che permetta all’architetto di guidare con autorevolezza I processi complessi del mondo globale contemporaneo • si pone lo scopo di una elaborazione sintetica delle esperienze capace di costituire la base di una riflessione comune per una politica professionale consapevole e condivisa.