Istituto Gestalt FirenzeSede di Roma
TESI DI SPECIALIZZAZIONE
IN PSICOTERAPIA DELLA GESTALT
IL LAVORO CON GLI ADOLESCENTI
NEL CONTESTO SCOLASTICO
Candidato: Dottor Arnaldo MirabelliTutor: Mariella Sassone
INDICE
CAPITOLO I: Psicologia Scolastica e Psicoterapia della Gestalt
1.1 Introduzione e ipotesi
1.2 Tendenze recenti nella psicologia scolastica
1.3 Il lavoro nel contesto scolastico secondo i metodi della psicoterapia della
gestalt
CAPITOLO II: Il lavoro con gli adolescenti nel contesto scolastico
2.1 Contesto di riferimento
2.2 Il lavoro all’Itis Sandro Pertini di Genzano: esempi pratici
2.3 Il lavoro presso la scuola media Gramsci di Pavona: esempi pratici
CAPITOLO III: Conclusioni
BIBLIOGRAFIA
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CAPITOLO I: Psicologia Scolastica e Psicoterapia della Gestalt
1.1: Introduzione ed ipotesi
Nel corso degli ultimi due anni di scuola ho svolto il mio tirocinio presso il
consultorio giovani di Genzano, dove ho svolto, nel contesto del progetto
“Educazione all’affettività ed alla sessualità” (Progetto EAS), incontri con studenti di
3° media e 2° superiore in diverse scuole. Mi sono trovato a lavorare con giovani
diversi per età e condizione sociale, e questo lavoro si è rivelato sicuramente intenso,
a tratti frustrante, a tratti gratificante. All’ITIS Pertini di Genzano ho parlato con
studenti di istituto tecnico e professionale sperimentando sia la difficoltà di portarli a
parlare di un argomento serio e/o importante per la loro vita, sia la sensazione di stare
tentando di convincere dei giovani, in prevalenza di famiglie proletarie,
dell’importanza di fermarsi a riflettere, cosa che ho riscontrato non fanno molto
spesso, trovando nel vivere momento nel momento e nel non prendere nulla sul serio
un modo di affrontare una situazione che mi pare di poter descrivere come assenza di
prospettive. Che differenza c’è tra la tematica dello stare nel “Qui ed ora” per come
sono venuto a conoscerla frequentando questa scuola e l’atteggiamento che gli vedo
prendere? Sembrano somiglianti, ma in realtà il loro atteggiamento non è quello di
stare con quello che c’è, ma di allontanarsene perché contiene un’angoscia con cui è
faticoso stare. Perciò battute, perciò si fa casino durante l’incontro o non si rispettano
le regole. Durezza, coattaggine con cui, guarda un po’, scopro di riuscire a
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rapportarmi anche se con una certa difficoltà. Non so se il modo in cui ora li guardo li
rispecchia sufficientemente, sicuramente ne coglie un aspetto parziale che sarebbe
stato opportuno rimandargli per vedere che effetto gli faceva. Alla fine ho scelto di
non farlo perché sentivo di non avere a sufficienza un terreno solido sotto i piedi,
un’alleanza sufficientemente solida per dirla con linguaggio psicologico (paura di
essere respinto da loro per essere mano tecnico). Nonostante questo è stata
un’esperienza arricchente, nella quale mi sono sperimentato per la prima volta nel
rapporto con problemi come la separazione dei genitori, l’essere vittima di bullismo, i
rapporti con le ragazze, o l’esperienza di vivere in un contesto carico di violenza e,
spesso, di delinquenza. Forse ho preso più di quanto non sia riuscito a dare loro, certo
è che è stato veramente impegnativo trovare la strada per incontrarli sul serio, ma
quando è successo sono stato molto felice.
Rispetto alle scuole medie ho lavorato in una media di Genzano ed in una di
Pavona, in quest’ultima ho anche fatto lo sportello d’ascolto individuale. Qui era
decisamente più facile lavorare perché in media erano molto più disciplinati degli
studenti dell’ITIS, anche grazie alla presenza in classe dell’insegnante, che invece
alle superiori usciva quasi sempre. Nel primo caso, gli incontri con i ragazzi sono
stati meno ricchi di senso, ma personalmente sento che questo è derivato dal mio
difendermi dietro la struttura che avevo intessuto per l’incontro. Facevo una serie di
passaggi in cui chiedevo a ciascuno come si sentiva, come si aspettava questo
incontro e se voleva dal confronto con uno psicologo qualcosa di particolare che
riteneva che gli sarebbe potuto servire. Cercavo di sollecitare una domanda alla quale
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avrei potuto rispondere, e poi proponevo un’esperienza/ gioco tratta da “83 giochi
psicologici per la conduzione di gruppi” [Manes et al., 1997] e da “68 nuovi giochi
per la conduzione dei gruppi [Manes et al., 1999] e dai suggerimenti che mi dava il
mio tutor. Nel corso degli incontri mi sono reso conto che queste esperienze a volte
non c’entravano nulla e che servivano a gestire la mia paura del vuoto. Ho imparato
piano piano nel corso degli incontro ad accettare ed a sopportare questo vuoto dando
al gruppo il tempo che aveva bisogno per dire qualcosa che ci portasse a parlare di
qualcosa di significativo. Quindi nel corso del tempo ho imparato ad usare le
“esperienze” solo quando mi sembrava che potessero essere utili a sviluppare la
domanda che era venuta fuori. In special modo alla scuola media di Pavona, la
Gramsci, ho avuto incontri in cui ho sperimentato la possibilità di ragionare insieme
su tematiche molto importanti ed ho sentito che c’era un clima di reale
partecipazione. Penso a lavori in cui, a partire da una singola persona che accettava di
mettersi in gioco su qualcosa che la riguardava personalmente, come l’avere i genitori
separati, lentamente veniva fuori un confronto sulle loro opinioni in merito ad un
problema, cosa che li coinvolgeva molto, e, a volte, anche altri ragazzi sentivano più
possibile parlare dei loro problemi. In quel contesto ho anche tenuto uno sportello
d’ascolto dove i ragazzi potevano venire a fare colloqui singolarmente. Questa
esperienza di consulenza psicologica è stata molto utile e bella, e credo sia stata utile
anche alle persone che hanno richiesto di parlare con me.
Dunque che senso ha dedicare la tesi al lavoro con i giovani, focalizzando lo
specifico del contesto scolastico? Mi piacerebbe che il lavoro con l’adolescenza
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diventasse una costante nella mia professione di terapeuta, per cui questa tesi
potrebbe essere considerata un’occasione per confrontarmi con le esperienze di
lavoro con gli adolescenti nella scuola e capire cosa di utile posso prendermi da
queste. Inoltre può essere una riflessione importante che mi aiuta a osservare meglio i
limiti di quanto invece ho fatto io. Un lavoro all’insegna dei bilanci e delle
prospettive per il futuro insomma.
Qual è dunque il lavoro di uno psicoterapeuta della gestalt nella scuola secondo
me? Quali sono le caratteristiche dell’ambito del suo intervento e come lo
influenzano? Quali gli obbiettivi che può pensare di raggiungere e quali quelli che
vanno al di la della sua sfera di possibilità d’intervento? Quali metodi sono più adatti
al lavoro che si appresta a svolgere? Rispondere a queste domande potrebbe essere
essenziale per delineare una tesi intesa come una proposizione che si sostiene se non
vera, almeno utile e che ci si propone di supportare con argomenti validi.
Parto dal pensiero che è stato dietro il mio lavoro in questi due anni e che si è
progressivamente delineato: “stare nella scuola come psicoterapeuta (quasi) che fa
un intervento come “psicoterapeuta nella classe” tenendo conto delle limitazioni
derivanti dal contesto del gruppo classe o dal tempo limitato che si può dedicare allo
studente nello sportello d’ascolto è possibile ed utile”. In sede di lavoro con la classe
(facevo 2 interventi di due ore l’uno) mi sono mosso innanzitutto sollecitando la
responsabilità dei ragazzi nel dare forma al contenitore “due ore con lo psicologo”.
Mi interessava lavorare su quello che vi era in quel momento in figura per i ragazzi, e
ho trovato una modalità che mi sembra lo permetta. Fare un giro facendo a ciascuno 3
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domande: “Come stai oggi, cosa ti aspetti da questo incontro e che cosa vorresti
farne” aiuta le persone con maggiori difficoltà, problemi più pressanti o tematiche più
urgenti a mettersi in gioco per prime, creando così un terreno di lavoro su cui l’intero
gruppo classe può muoversi, ragionare, confrontarsi sulla tematica che si delinea. La
prima ipotesi è quindi che l’intervento nella scuola con gli adolescenti può poggiare
fortemente sulla responsabilità dei ragazzi e sulla loro disponibilità a mettersi in
gioco e che la cosa fondamentale da fare è ribaltare il concetto della lezione frontale
metaforizzato dallo studente- vaso da riempire e creare una comunicazione circolare
dove ci si pone come facilitatori, e regolatori. Quello che mi sembra di fare in questo
modo è raccogliere i bisogni espressi dal gruppo o dai singoli nel gruppo e cercare
con loro una modalità per lavorare con essi. Questi bisogni possono essere relativi a
qualunque cosa e non ho mai cercato di lavorare su temi necessariamente relativi a
tematiche scolastiche pur non rifiutandoli quando emergevano come bullismo,
disagio rispetto alla scuola, relazioni nella classe. Non mi sono posto cioè l’obbiettivo
di portarli dove volevo io, preferendo appunto essere un’occasione per fare il punto
della propria crescita e sperimentare una modalità forse inconsueta di relazione. La
Psicoterapia della Gestalt può essere un metodo utile per realizzare questo obbiettivo
anche se impiegata con gli adolescenti, inoltre ho ipotizzato che il contesto scolastico
possa influire relativamente poco rispetto alla scelta delle tecniche da utilizzare. La
psicoterapia della gestalt dunque come modalità per la crescita, adatta al contesto
psicoterapeutico ma anche versatile al di fuori di esso.
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1.2: Tendenze recenti nella psicologia scolastica
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Secondo A. Urso e colleghi [Urso et al., 2008] “la scuola non ha più solo la funzione
di trasmissione culturale e formazione degli alunni. Oggi si delinea sempre di
più come centro di raccolta delle esigenze del territorio e per questo in continua
evoluzione ed aggiornamento (pag. 15). Inoltre: “l’alunno che ascoltiamo può
portare problemi che riguardano la sfera e l’evoluzione personale […]
problemi relativi al corpo che cambia, alla separazione dalla famiglia,
all’inserimento nel gruppo classe, alle difficoltà nello studio, all’adattamento
alle regole scolastiche, all’affettività e così via (pag. 15). Gli autori hanno
svolto un’attività di sportello d’ascolto nelle scuole del 75° circolo incontrando
docenti, genitori e bambini in una fascia di età compresa tra i 3 ed i 10 anni
delineando un protocollo d’intervento che prevede un primo incontro con il
docente ed il genitore sulla base di una richiesta che, come è ovvio per la fascia
d’età che si considera, proviene essenzialmente dai genitori o dal docente. A
tale incontro di analisi della richiesta fa seguito l’elaborazione di un
programma di intervento che comporta l’osservazione del bambino in classe,
l’uso eventuale di test, il coinvolgimento di servizi legati alla ASL e di
tirocinanti utilizzati come supporto nelle classi. Analizzando le richieste
presentate dal territorio in un periodo che va dal 2000 ad oggi, Cipullo (op.
citata pag.74) ne riassume così la tipologia:
“INSEGNANTI:
• supporto nella gestione di alunni con difficoltà di apprendimento,
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• supporto nella gestione di alunni con problematiche comportamentali,
relazionali e/o emozionali,
• valutazione oggettiva finalizzata alla ricerca di una certificazione per
l’assegnazione di un insegnante di sostegno,
• segnalazione di difficoltà di comunicazione con i genitori,
• direttive da parte di figure professionali competenti a tutela del proprio
operato,
• segnalazione di problematiche inerenti l’organizzazione scolastica,
• manifestazione di problematiche interne al gruppo educativo;
GENITORI:
• richiesta di intervento per la valutazione di presenza di eventuali difficoltà di
apprendimento,
• richiesta di intervento per problematiche comportamentali, relazionali e/o
emozionali dei propri figli,
• valutazione oggettiva finalizzata alla ricerca di una certificazione per
l’assegnazione di un insegnante di sostegno,
• segnalazione di difficoltà di comunicazione con i docenti,
• segnalazione di problematiche inerenti l’organizzazione scolastica.” [Cipullo,
2008]
Questo elenco di problematiche permettono di constatare che lo spettro di richieste
che possono essere portate ad uno psicologo nella scuola è vastissimo, non sfugge
inoltre che alla base della voce “problematiche comportamentali, relazionali e/o
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emozionali” può esservi qualsiasi cosa. È possibile che l’istituzione scolastica cerchi
essenzialmente aiuto per gestire tutto quello che interferisce con l’obbiettivo
dell’istituzione stessa e che pertanto il disagio, in questo caso di un bambino, ma il
discorso è estendibile anche all’adolescenza e alla scuola secondaria arriva
all’attenzione dello psicologo scolastico solo quando si esprime in “sintomi” che
potrebbero configurarsi pertanto come strategia di richiesta d’aiuto. Vi è inoltre la
tematica della gestione dell’Handicap, con le sue attività di GLH, colloqui con gli
alunni portatori di Handicap, elaborazione di Piani Educativi Individualizzati che a
sua volta assorbe una buona fetta dell’attenzione che la scuola riesce a dedicare al
benessere psicologico degli alunni. Vi è però un mondo di disagio e di problematiche
che possono essere di pertinenza dello psicologo che vanno oltre questi livelli e che
appartengono più in generale al processo di crescita del bambino e dell’adolescente.
Questa impressione appare confermata da Benedetto e Iellamo che, operando nelle
scuole di Tor Bella Monaca e Laurentino 38 descrivono un disagio giovanile che è
rimasto tendenzialmente alto [Benedetto e Iellamo, 2008]. Le situazioni osservate da
queste autrici, riassunte per capitoli sono le seguenti:
• Instabilità psicomotoria con conseguente difficoltà di attenzione,
concentrazione, memoria,
• Scarsissimo rispetto delle regole,
• Bassissima tolleranza alla frustrazione,
• Difficoltà a condividere con i coetanei gioco ed affettività
• Comportamenti di opposizione, rifiuto, disturbo,
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• Scarsa partecipazione e/o motivazione,
• Forme reattive verbali e fisiche,
• Atteggiamenti e comportamenti violenti (bullismo),
• Discontrollo degli impulsi con agiti eteroaggressivi e talora anche
autolesionisti,
• Emersione di ansie persecutorie
• Sentimenti di apatia e di indifferenza,
• Quadri depressivi clinicamente evidenti,
• Quadri depressivi mascherati,
• Disturbi alimentari più o meno importanti,
• Quadri di vera e propria anoressia/ bulimia
(op. citata pag. 84).
Le autrici affermano anche: “abbiamo avuto a che fare con tantissime storie di incuria
affettiva, storie che indicano bambini e bambine non ascoltati, non visti che non
trovano uno spazio adeguato di accoglienza nel cuore e nella mente dell’adulto”.
Questo conferma che l’elenco delle situazioni che si esprimono nella scuola è
vastissimo e non potrebbe essere altrimenti dato che nello spazio d’età di pertinenza
della scuola dell’obbligo bambini e adolescenti passano buona parte del loro tempo in
questa istituzione che diventa rapidamente il primo organizzatore dei ritmi di vita di
questa fascia di popolazione. Le autrici citate propongono un lavoro che costituisca
“la prima opportunità di prevenzione e intervento all’interno del mondo scolastico”
(pag. 85). In questo senso mobilitano le risorse di tutte le figure che operano nella
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scuola prevedendo una fase di valutazione caratterizzata da incontri con i docenti ed i
genitori, somministrazione di test e coinvolgimento delle strutture socio-sanitarie del
territorio. Queste note fanno pensare alle opinioni espresse alla mia classe del terzo
anno da Anna Ravenna in una lezione relativamente al fatto che l’intervento nella
scuola dovesse essere primariamente diretto a fornire ai docenti gli strumenti
psicologici per affrontare i problemi che nascevano nel gruppo classe. Allo stesso
modo possiamo forse dire qualcosa di simile rispetto ai genitori: sarebbe più utile
fornire ai genitori gli strumenti per affrontare il disagio che i figli, poiché appunto
non sono visti e ascoltati, portano davanti allo psicologo scolastico? La risposta più
probabile, che potrebbe orientare un progetto specifico con i caratteri della ricerca-
intervento, è positiva, ma d’altra parte vi è una forte tendenza alla delega da parte dei
genitori nei confronti del professionista in genere ed in particolare del professionista
che opera nella scuola [Albanesi e Benedetto, 2008] che rappresenta un possibile
fattore di freno nei confronti di questo tentativo. Il coinvolgimento della famiglia può
rivelarsi una risorsa indispensabile alla gestione della richiesta d’aiuto delle persone
che vengono allo sportello, sia che ci vengano da sole sia che l’iniziativa parta da una
docente particolarmente attenta e devota al benessere dei propri alunni. Tuttavia,
molto più spesso nell’esperienza concreta capita di trovare utile lavorare con
l’adolescente affinché sia lui a cercare maggiormente il dialogo con i genitori,
cercando insieme a lui gli strumenti adatti a sensibilizzare i genitori ed a farsi vedere
e ascoltare.
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Tuttavia l’elenco delle tematiche oggetto del lavoro dello psicologo nella scuola non
sarebbe affatto esaurito da un elenco di situazioni che appaiono di particolare disagio,
ma ci si trova a lavorare con studenti che portano situazioni di leggera difficoltà come
una litigata con l’amica del cuore o difficoltà con il proprio gruppo di coetanei.
Possiamo quindi individuare sommariamente 3 aree che raggruppano in maniera che
a me sembra completa gli interventi di uno psicologo scolastico:
• gli interventi che lo psicologo scolastico fa come parte del sistema scuola
andando a lavorare su tematiche che interessano direttamente o
indirettamente la riuscita scolastica dell’adolescente,
• gli interventi mirati alla prevenzione del disagio psichico che possono a
seconda dei casi portare all’invio dei genitori o del ragazzo alle strutture
competenti (ASL, consultorio e quant’altro) e, infine,
• gli interventi che si pongono l’obbiettivo di migliorare la qualità della vita
degli studenti, di aiutarli ad andare nella direzione in cui vogliono andare,
senza avere come necessario sfondo una condizione di forte disagio a
livello emotivo, comportamentale o altro.
Mi sembra che questo tipo di interventi ha senso soprattutto nell’ottica di una diversa
concezione dello psicologo, inteso non più come quello che si occupa “di quelli che
stanno impicciati col cervello” ma come una presenza costante nei gangli più
frequentati della società (scuola e lavoro secondo me si prestano bene a questa
concezione) dove svolgere una consulenza su richiesta con scopi di promozione del
benessere a largo raggio. Le difficoltà sociali, economiche e politiche che sarebbero
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chiamate in causa da questo progetto vanno molto oltre l’oggetto di questa tesi. Qui
cercherò soltanto di analizzare delle esperienze concrete di lavoro nella scuola.
Il lavoro di Lutte (1987) permette di guardare la scuola, ed il ruolo dello psicologo in
essa in modo diverso. Lutte afferma che “la scuola è l’istituzione principale della
dipendenza e della marginalità dei giovani e del controllo sociale su di loro” (Lutte,
1987 pag. 159), ma anche che essa può offrire importanti strumenti di emancipazione.
La scuola viene vista come uno strumento di integrazione sociale destinata a
perpetuare le forme organizzative tipiche di ogni società. Lutte scrive che separazione
dalla produzione (e quindi dal reddito), frequenza obbligatoria per molte ore al
giorno, mancanza di partecipazione alla stesura dei programmi, ruolo passivo dello
studente, sottomissione alla disciplina impongono lo status di bambino al giovane e
favoriscono l’immaturità e l’irresponsabilità (la richiesta del permesso per andare al
bagno mi sembra un esempio particolarmente evidente di ciò). Dall’altra parte i
rapporti con gli insegnanti possono svolgere un ruolo nel facilitare un processo di
autonomizzazione dai genitori. La scuola, pur riproducendo continuamente le
differenze di classe presenti nella società può inoltre offrire una possibilità di
emancipazione sociale. Questo modo di guardare alla scuola fornisce una differente
prospettiva ai compiti dello psicologo scolastico: in un sistema che continuamente
educa alla dipendenza, lavorare con la responsabilità è vitale ma è meglio
rappresentato dalla metafora dello svuotare il mare con un cucchiaio che da quella del
coltivare un alberello. Ciò aprirebbe la porta ad interventi sulle regole del sistema che
potrebbero risultare più utili. Lavorare con i ragazzi è dunque comunque essenziale,
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ma probabilmente fornisce la possibilità di deflettere od attenuare la portata di alcuni
dei colpi che la scuola infliggerà alla personalità in sviluppo del giovane, mostrando
una comprensione ed una capacità di ascolto dei problemi che spesso il sistema non
ha.
1.3: Il lavoro nel contesto scolastico secondo i metodi della psicoterapia della
gestalt
La Psicoterapia della Gestalt, poggia sulle fondamenta della filosofia esistenzialista e
sulla fenomenologia. Essa si pone come obiettivo, lo dico come mi viene, una
“rimessa in moto” dell’organismo, un ritorno al fluire dei bisogni nel ciclo figura
sfondo. Le persone con cui mi sono confrontato nel corso del lavoro che mi ha
portato a scegliere di fare questa tesi hanno un’età compresa più o meno tra i 14 ed i
18 anni. Un’età di discontinuità e di rimessa in discussione nella quale emergono
bisogni diversi e dove la sofferenza può farsi più intensa. La psicoterapia della
Gestalt, con la sua enfasi sul presente e sulla responsabilità della persona mi è
sembrata uno strumento molto adeguato al lavoro con questa età. Uno dei jingle più
famosi della Gestalt, il “qui e ora” indica che il lavoro terapeutico si svolge nel
presente e nel luogo in cui ci si trova a lavorare, momento e luogo dove si costruisce
per la persona che sceglie di lavorare con noi un’esperienza che ci pare potrebbe
essere utile e che ha per noi gusto etico. Si lavora nel presente, naturalmente usando il
passato quando appare importante, ma lo si fa per restituirlo alla sua dimensione di
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passato, per far si che cessi di imprigionare il presente restituendo alla persona una
facoltà di scelta liberata dai vincoli delle esperienze pre-esistenti. Si usa il passato e la
riflessione su di esso o la ri-esperienza di esso per aumentare i “gradi di libertà” per
usare una metafora matematica. Ciò che più colpisce dell’adolescenza intesa come
costruzione biologica, storica e sociale è la sua molteplice pluripotenzialità, il suo
essere proiettata verso una serie virtualmente infinita di futuri possibili. Prendergast
(2008) sottolinea il carattere di processo dell’adolescenza ed una caratteristica
specifica dell’adolescenza: l’essere in sviluppo che crea una situazione in cui i
problemi sono raramente ben definiti. Questo è stato particolarmente vero per me
quando mi sono trovato di fronte a problemi di identità, lì ho avuto l’impressione
distinta che era importante che riuscissero a tollerare un certo grado di ambiguità
nella sperimentazione di se stessi. Infatti il lavoro con un ragazzo che parlava della
propria auto percezione di omossessualità si è giocato tutto sul sospendere il giudizio
su ciò che sarebbe diventato in seguito e su che cosa avrebbe potuto fare visto che si
sentiva così e aveva voglia di venir fuori con qualche persona amica. Ciò che mi pare
sano è ampliare la possibilità dell’esperienza, mantenere aperte più strade possibili
per costruire una fluidità e una numerosità nelle numerose identificazioni che
utilizziamo nella nostra vita (Polster, 1973). Con un esempio, se parlo con una
persona che si identifica con il suo gruppo nello stadio, mi sembra utile lavorare per
vedere se si da la possibilità di essere ANCHE qualcosa di diverso da un Ultras in un
settore della sua vita che gli interessa e magari frequenta poco. Inoltre anche l’enfasi
sulla responsabilità appare molto utile con l’adolescenza poiché essa si svolge, o
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meglio, può svolgersi, in quanto immagino che si possa svolgere anche in altri modi,
come lotta per la responsabilità. Intendo questo in due modi: lotta per essere
responsabile di fronte a se stesso delle proprie azioni, e lotta per essere riconosciuto
in questa responsabilità. Avere l’esperienza di un lavoro in cui la persona che incontri
ti chiede di accettare che può avere una responsabilità ritengo possa essere utile,
sicuramente mi piace. Prendergast (2008) afferma: La Gestalt è particolarmente
efficace nell’aiutare gli adolescenti ad integrare le polarità dentro se stessi. La
proliferazione di tensioni polari negli adolescenti include le polarità dipendente/
indipendente, disciplinato/ impulsivo, pigro/ industrioso, disciplinato/ indisciplinato,
leale con la famiglia/ leale con i pari, mascolino/ femminile, controllato/ incontrollato
(2008).
Una seconda dimensione da considerare è la natura dell’intervento a cui si è
chiamati quando si lavora come psicologi nella scuola. Ho spiegato come la
psicologia scolastica essenzialmente veda il proprio ruolo all’interno di una scuola
che si concepisce come educatore in senso molto largo. In questo contesto la
psicologia scolastica si pone l’obbiettivo di lavorare sulle emozioni degli studenti, di
rendere gli insegnanti in grado di tener conto delle situazioni emotive degli allievi
senza mai fare “terapia” in senso stretto, ma raccordandosi con il territorio quando
serve. Secondo me questo modo di vedere la scuola sminuisce grandemente le
difficoltà che gli studenti sperimentano nello stare in un posto obbligatoriamente, per
molte ore al giorno in un contesto di tendenziale subordinazione e passività. In
questo contesto credo che un lavoro possibile è concepire il proprio ruolo come
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ascolto delle difficoltà dello studente che viene allo sportello senza stare troppo a
sottilizzare se queste riguardano un tema da psicoterapia o meno. Però, lavorare con
tecniche della psicoterapia della Gestalt come la sedia calda è stato abbastanza
difficile. È possibile che questo sia da attribuirsi all’assurdità di aver proposto ad una
persona che ti ha visto 2 volte in classe e ti sta vedendo per la prima volta da sola di
parlare con una sedia vuota, in assenza perciò di una solida alleanza. Eppure ho avuto
l’esperienza di utilizzare questo spazio con ragazzi e ragazze che venivano a parlare
di problemi importanti per loro e che usavano quello spazio per discutere la loro
sessualità, i rapporti con la madre o con il padre in un modo che per forza stessa delle
cose sconfinava nella psicoterapia. Alla fine degli incontri in cui lo sentivo opportuno
davo sempre indicazione di telefonare al consultorio se sentivano il bisogno di altri
colloqui, ma intanto l’idea che ho io è che si sono portati una singola esperienza di
ascolto rispettoso ed empatico. Sicuramente uno degli obbiettivi della psicoterapia
della Gestalt è quello di sviluppare le capacità di contatto, l’autosupporto e
l’indipendenza relativa. Questi sono obbiettivi propri di una psicoterapia, ma anche
lavorare con un singolo studente ti pone la questione di come sia possibile non
perseguirli nella concretezza dell’esperienza che ti viene portata. La mia impressione
è che non esista una distinzione qualitativa che sia utile tracciare tra le due rispetto a
ciò che fai come professionista, altra cosa mi pare affermare che quando vedi degli
studenti per così poco tempo, specie in assenza di una domanda ci sono dei limiti più
alti a ciò che puoi fare rispetto a quanto fai in una relazione terapeutica reale, ma nel
mio approccio non ho visto differenze cruciali rispetto a quando sono in terapia. Dove
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non c’è domanda di partenza (gli incontri nelle classi) non sempre è stato possibile
farla venire fuori offrendosi e chiedendo di focalizzare i propri bisogni ma dal
momento in cui questa si crea il lavoro mi appare dello stesso tipo.
Un modo molto gestaltico di lavorare con gli adolescenti è costituito senz’altro
dalle tecniche di gioco proposte da Violet Oaklander (1988). L’autrice spiega di
utilizzare queste tecniche prevalentemente con bambini ma che si possono utilizzare
anche con adolescenti e adulti. Essa predilige sollecitare le persone che lavorano con
lei attraverso il disegno, la composizione di storie, il lavoro con l’argilla e le
costruzioni, con la fantasia. Fare una fantasia, disegnarla e poi lavorare partendo dal
disegno e dal raccontare la storia di ciò che è stato disegnato viene usato dall’autrice
con l’obiettivo di far prendere consapevolezza della propria vita. Tutte queste
tecniche, colori a dita ed ogni sorta di tecniche artistiche hanno l’obbiettivo di far fare
un’esperienza di autosostegno, nella quale le persone sperimentino e migliorino le
proprie funzioni di contatto e il proprio senso di se. Chiedere ad esempio: “Come
questo disegno si adatta alla tua vita” può portare a aperture di senso che mi sono
sembrate formidabili. Queste tecniche permettendo associazioni che lavorano ad un
livello analogico, nella metafora di Paolo Quattrini saltellando da un sasso all’altro
del guado senza sapere quale sarà il prossimo salto, conducono negli infiniti esempi
della Oaklander, a ciò che è significativo per l’adolescente o il bambino che ci sta
davanti sia che si lavori con l’argilla sia che si facciano dei collage o della danza.
Migliorare le funzioni di contatto è uno degli scopi che si prefigge la Oaklander,
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sviluppando la consapevolezza dei propri sensi secondo la distinzione operata da
Perls ed altri riguardo all’uso dei sensi (Perls et al., 1951).
Uno dei punti di forza delle tecniche impiegate dalla Oaklander è la loro capacità di
sintonizzarsi sul livello di attività naturali per il bambino impiegando ad esempio
attività francamente ludiche come forme di autoterapia. Il gioco viene considerato
molto positivamente come un modo con il quale il bambino costruisce e sperimenta il
suo mondo. Lavorando con latte di vernice e una tavola di masonite la Oaklander
esclama: “molti di loro non hanno mai creato così tanta bellezza né provato tanta
soddisfazione” (Oaklander, 1988, pag. 37). Più oltre si illustra come specialmente con
bambini che si considerino goffi o maldestri questo lavoro sia immensamente
terapeutico in quanto fonte di un orgoglio del quale facilmente si scorge il valore
terapeutico. Parlare per mezzo dei disegni è più facile e più sicuro, nell’esempio
dell’autrice una ragazza di 15 anni illustra la sua situazione familiare in modo molto
espressivo. Facendo un disegno l’autrice chiede al bambino o ragazzo con cui lavora
di parlare dell’esperienza del disegnare o del disegno stesso, di elaborarne delle parti
o di prendere le parti di uno dei personaggi, di identificarsi con una parte del disegno
o di sperimentarle tutte quante. In pratica il disegno è usato come uno stimolo per
esplorare il proprio mondo interno. Anche test tipici della fascia d’età come il TAT o
il MAPS sono utilizzati in senso terapeutico. A questo proposito ricordo discussioni
con colleghi iscritti alla scuola su come sia possibile utilizzare in seduta singole
tavole di Rorschach sul modello del lavoro con i Tarocchi. Credo tuttavia che forse
sarebbe meglio utilizzare appunto simboli come i Tarocchi in quanto mostrare le
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tavole di Rorschach fuori dal contesto della somministrazione del test costituisce un
impedimento all’eventuale somministrazione dello stesso in un momento successivo;
cosa che può comunque essere necessaria alla persona per le ragioni più svariate nella
propria vita. Ho provato ad utilizzare alcune tecniche simili a quelle illustrate,
tuttavia ho incontrato diverse difficoltà ad utilizzare queste tecniche o tecniche
espressive quali “disegna quale animale potresti essere” o “scrivi una tua qualità, una
cosa che vorresti cambiare di te, un tuo progetto ed una cosa che fai nel tempo libero”
ed ho finito per limitarle molto e per privilegiare invece la “semplice” modalità
dialogica. Ciò dipende da molti fattori tra i quali non ultimo il modo stereotipico con
cui le presentavo ma il risultato è che dopo aver notato che nel professionale
facevano difficoltà a prendere sul serio queste tecniche ho smesso di utilizzarle
quando probabilmente alle medie si sarebbero potute impiegare con risultati più
gradevoli. Una cosa che ho notato spesso è che molti ragazzi hanno difficoltà a
riconoscersi una qualità. Molti altri, riflettendo un accresciuto interesse per i
cambiamenti fisici che sperimentano parlano di caratteristiche fisiche. La principale
difficoltà che ho incontrato con l’utilizzo di tali tecniche, specie nel contesto del
tecnico industriale è a far si che i ragazzi considerassero, anche scherzandoci su,
quelle esperienze come occasioni per conoscere e sperimentare se stessi, in un certo
senso direi a “prenderle sul serio”. Mi sembra che basta rifiutarsi di mettersi in gioco
per rendere inutile e, almeno per me fastidioso, l’uso di tecniche che hanno bisogno
di una scelta volontaria di lasciarsi coinvolgere.
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A volte si realizzava un coinvolgimento, per esempio è capitato che
dall’esperienza di disegnare un compagno venissero fuori litigi che mi ponevo il
problema di gestire con una comunicazione che si basasse sul principio di dire
qualcosa di se e dell’effetto che ci fanno, nel caso specifico i disegni dell’altro, e non
di dire qualcosa dell’altro. Tuttavia molto spesso mi è capitato di non riuscire a fare
questo. Questa modalità comunicativa, ad una persona che viva nella società moderna
non è semplice, richiede un addestramento che in due incontri non è possibile dare.
Credo quindi che qui vi sia una delle differenze che intercorrono tra la psicoterapia ed
il lavoro che utilizza tecniche proprie della psicoterapia fuori da quel contesto: fuori
del contesto in cui compaia una richiesta esplicita di una persona e una certa
motivazione, ma dove invece vi sia più una richiesta istituzionale queste tecniche
risultano in genere impiegabili ma tendono a volare basso, anche se non è una regola
matematica, visto che a volte si sono invece verificati casi nei quali non solo si
realizzava una comunicazione empatica, ma si giungeva anche alla condivisione di
cose piuttosto intime. Ciò consente di vedere nel concreto un’applicazione della
teoria del campo: ciò che viene fuori nel gruppo è la risultante delle forze presenti
nella classe stessa non ultimo il conduttore che dirige gli incontri.
In conclusione, la Gestalt può portare nella scuola con il suo approccio olistico
l’attenzione per la persona nella sua totalità, ma è essenziale perché ciò dia i massimi
risultati che il lavoro dello psicologo avvenga nel quadro di una connessione stabile
con i docenti ed i genitori e che crei un punto di riferimento costante per i ragazzi. È
del resto essenziale che si ribaltino le politiche scolastiche degli ultimi anni
23
all’insegna del definanziamento, dell’autonomia come subordinazione all’impresa e
della selezione di classe che impedirebbero il dispiegamento di una logica olistica in
quanto interessate unicamente agli aspetti economici dell’impresa- formazione.
CAPITOLO II: Il lavoro con gli adolescenti nel contesto scolastico
2.1 Contesto di riferimento
Cosa dire del contesto di riferimento? L’istituto Pertini è un istituto tecnico e
professionale costituito da 3 diversi indirizzi: tecnico economico, tecnico tecnologico
e professionale per l’industria e l’artigianato (www.pertinigenzano.net). Si tratta
perciò di una scuola di dimensioni grandi con una popolazione studentesca molto
numerosa stimabile, anche se non conosco il dato preciso attorno alle 1000 unità.
Esso è situato in un territorio caratterizzato economicamente dall’artigianato e dalla
commercializzazione di prodotti tipici e dall’edilizia, che costituiscono il principale
motore dell’economia locale. Il tenore di vita del territorio viene definito
(www.pertinigenzano.net) come mediamente medio alto pur nella sua eterogeneità. Il
livello culturale appare (almeno agli estensori del Piano dell’Offerta Formativa
dell’Istituto) come in crescita seppur legato ancora ad elementi della tradizione
contadina e “pur non avendo la possibilità di usufruire di stimoli particolari”. A chi
scrive l’Istituto Pertini è sembrato il classico istituto tecnico caratterizzato
mediamente da una fascia di utenza proveniente da famiglie di lavoratori. Senza nulla
24
dire sul reddito di tali famiglie, riguardo al quale può esservi eterogeneità, il livello
culturale dal quale provengono gli studenti mi sembra piuttosto nella fascia medio-
bassa, rispecchiando la tradizionale stratificazione sociale della scuola italiana,
organizzata in licei, tecnici ed infine professionali. Le sezioni professionali,
sembravano giocare in particolare il ruolo di serbatoio di raccolta di quegli studenti
che non riuscivano a essere promossi nelle sezioni del tecnico e ripiegavano sul
professionale alla ricerca di una scuola “più facile” o perché dicevano di non “aver
voglia di studiare” o di “non essere fatti per lo studio”. In alcuni casi questo
meccanismo può essere riscontrato per alcuni singoli studenti che, non riuscendo ad
affrontare il liceo, cercavano un’altra soluzione. I rapporti con i professori, che
fossero buoni o cattivi, apparivano caratterizzati da una franchezza molto maggiore
ed in alcuni casi “estrema” rispetto ai rapporti formali che ricordo di aver vissuto nel
liceo dove ho studiato. Franchezza ed informalità erano anche le caratteristiche dei
rapporti tra studenti, dove però si potevano riscontrare anche atteggiamenti violenti e
da bulli nei confronti di alcuni studenti. La prima difficoltà che ho dovuto affrontare
rispetto al mio rapporto con loro è stata il fatto di ricordare rapporti piuttosto cattivi
avuti da studente delle medie con la mia classe, dove ero isolato e non riuscivo ad
avere rapporti di amicizia. All’inizio la paura di entrare nella prima classe dove ho
tenuto i gruppi è stata tanta e riguardava la mia paura di non riuscire ad impormi ed
ad essere rispettato da loro o di andare anche incontro a possibili minacce. Sono
riuscito a stare con questa paura ed alcune delle cose che temevo si sono dimostrate
assurde, altre meno, ad esempio è successo di non riuscire ad imporsi in classi
25
definite dagli insegnati “difficili”, di non riuscire a scalfire affatto il muro messo
inizialmente dai ragazzi, che era fatto di risposte generiche e vuote come “tutto
apposto” o “non ho problemi” ma anche di tentativi continui di parlare di altro e di
fare casino che costringevano ad imporre il silenzio o a stare zitto aspettando che si
disciplinassero. Ad ogni modo ciò che succedeva era semplicemente che il tempo
passava rivelando un gruppo finito male, ma senza nessun altro tipo di conseguenza
“tragica”. Questa scoperta è stata importante per continuare a svolgere un lavoro che
dava risultati minimi, permettendo se andava bene di lavorare con una o due persone
alla volta nella classe mentre vedevo con chiarezza che gli altri restavano chiusi e non
davano né prendevano nulla. Nel prossimo paragrafo cercherò di illustrare con alcuni
esempi questo lavoro. La scuola Gramsci di Pavona ha rappresentato per me
un’esperienza del tutto diversa. Il contesto mi era stato presentato da un ragazzo del
Ipsia che diceva, parlando per proprio ambiente: “La sono tutti delinquenti”.
L’esperienza di lavorare alla scuola media è stata tuttavia molto più gratificante
poiché ho incontrato molti ragazzi e ragazze che hanno colto la possibilità di
utilizzarmi per qualcosa che riguardava i loro problemi. La zona di Pavona è situata
nei Castelli Romani ed il paesino è amministrativamente diviso tra Albano, Castel
Gandolfo e Roma. Si tratta di una zona industriale e agricola.
2.2 Il lavoro all’Itis Sandro Pertini di Genzano: esempi pratici
• FALLO PER I TUOI AMICI IN CARCERE
26
Innanzitutto ricordo un ragazzo di una delle prime classi in cui sono stato. Questo
ragazzo, bocciato più di una volta era più grande dei suoi compagni. Egli
sembrava conoscesse gia il consultorio. Ricordo che abbiamo parlato delle sue
difficoltà con lo studio. Si trattava di difficoltà a mantenere la concentrazione, ma
approfondendo un po’ l’argomento emergevano sullo sfondo degli amici che erano
stati in carcere. La persona era dunque presa tra due fuochi, tra due vite potenziali
una delle quali portava probabilmente allo spaccio al furto e presto o tardi
probabilmente al carcere dove a detta della persona “alla fine ti danno comunque i
pasti e sei a carico dello stato”. Le difficoltà scolastiche si ponevano su un piano
più profondo ora e semplicemente “come mantenere la concentrazione” non
sarebbe servito a molto, vedevo che si trattava di un lavoro sulla motivazione e
sull’orientamento che voleva dare alla sua vita. Rispettavo la scelta possibile della
delinquenza, e cercavo di fargli vedere i pericoli e le cose a cui andava incontro.
Alla fine del lavoro diceva di voler provare a studiare e, seguendo un impulso gli
ho proposto una motivazione possibile dicendogli: “prova a farlo per i tuoi amici
in carcere”. Non ci aveva mai pensato, non so cosa sia stato di lui ma ricordo
questo lavoro con molto piacere. Nel corso del prosieguo dell’incontro con la sua
classe egli giocherà un ruolo molto più attivo che contrastava molto con la
passività della classe. Propone di parlare dei loro rapporti con la droga, racconta
esperienze, e tiene banco fino a che non finisce il tempo disponibile. Non desidero
trarre conclusioni da questo piccolo racconto, però dico a me stesso che da un lato
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è stato un’incontro che mi ha arricchito e che inoltre ho la sensazione che sia stato
interessante anche per lui.
• GIOVANI OPERAI
Uno degli incontri avuti con le due classi dell’IPSIA, le sezioni professionali
dell’istituto, è stato un’esperienza molto frustrante. Quella volta ho incontrato le
due sezioni insieme e la mia frustrazione è stata dovuta alla sensazione di non
essere riuscito a lasciare nulla di interessante per quei ragazzi. Prima dell’incontro
un professore mi prende da parte e mi spiega che vi sono molte difficoltà in quelle
classi che appaiono “poco secolarizzate”. Non sono sicuro che le parole siano
queste ma il concetto è riportato abbastanza fedelmente. Nelle classi delle
superiori, a differenza di quanto succedeva alle medie, lavoravo senza il
professore in classe e questo di solito creava problemi riguardo il mantenimento di
una disciplina minima necessaria a lavorare serenamente. Parlare uno alla volta,
ascoltarsi a vicenda, non divagare, non interrompere erano regole che bisognava
spiegare cento volte. In particolare in quella classe i problemi si presentavano in
maniera esasperata. Cominciamo a parlare dei problemi che hanno con
un’insegnante. Mi rendo conto che sono progressivamente sempre più coinvolto in
quel lavoro, che voglio a tutti i costi lasciare qualcosa a questi operai di domani
che descrivono la sala dove lavorano con le macchine come un’esperienza
angosciosa. Parlando dei problemi con questo insegnante chiedo esempi,
propongo simulate, mi metto anche a disegnare alla lavagna uno schema per
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dimostrargli che loro danno un contributo a questo rapporto e che il professore
cattivo non fa tutto da solo ma non li sposto dalla posizione della “vittima
vendicativa” neanche morti. Ad un certo punto propongo una simulata, dove gli
chiedo di provare diversi modi per parlare con il professore, ci provano un po’,
qualcuno propone di mantenere un rispetto formale per essere inattaccabile,
qualcuno si scontra con la propria frustrazione quando il professore simulato
gestisce la propria rabbia usando il proprio potere su di loro. Alla fine mi rendo
conto di aver preso almeno mezzora in più rispetto alle due ore classiche, sono
riusciti a saltare anche un pezzo della lezione dopo ed io mi sono coinvolto
moltissimo con loro cercando una strada per convincerli a darsi una possibilità. Mi
sembrava che mostrando un’assoluta strafottenza di facciata fosse proprio ciò che
non facevano. Quello che non ho fatto in questo caso sicuramente è stare con
quello che c’era nella situazione intestardendomi a volerla cambiare comunque.
Da qui però è cominciata anche una mia riflessione sulla mia difficoltà ad
impormi sulla classe con autorità (c’era per esempio un collega che ad un certo
punto a detto ad uno studente: se devi comportarti così puoi anche andare fuori).
• FARE CONOSCENZA
Una scenetta invece che mi ha divertito è successa l’anno successivo sempre in
una di queste due classi, ovviamente con ragazzi diversi. Il discorso era caduto sui
modi di conoscersi. Fare a botte sembrava l’unico accettato. Uno ti guarda male,
vi picchiate, lui si rende conto che sei una persona degna di rispetto perché mena,
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quindi uno dei due paga da bere e siete diventati amici. Parliamo di come
gestiscono i conflitti, c’è uno nel gruppo che pare manifestare un suo senso di
giustizia: chiamato a gestire un conflitto ascolta le due parti e tra lo sconosciuto ed
il suo amico da torto all’amico! Verso la fine un ragazzo dall’abbigliamento
tendente al metallaro spiega che lui invece di solito conosce la gente perché
indossano la maglia dello stesso gruppo metal e allora cominciano a parlare. La
cosa che mi è sembrata incredibile è che tutti lo consideravano un pazzo e che io
non riuscissi a fargli vedere come c’erano appunto modi differenti di fare
conoscenza.
• COME FARE CON LE DONNE
In una classe di soli maschi il discorso è caduto rapidamente sulle donne e sulle
loro esperienze. Come parlarci, come conoscerle e come convincerle a fare sesso.
Parlano un po’ a gruppetti, ma non sono rimasto contento, il tutto aveva molto il
sapore della chiacchiera in comitiva. Il mio atteggiamento all’inizio mi rendo
conto che era piuttosto routinario: “ facciamo i soliti passaggi, tanto non è colpa
mia se questi non vogliono lavorare e d’altro canto non so che farci se non riesco a
stimolarli.” Verso la fine ho smesso di provare ad ottenere qualcosa e mi sono
limitato a parlare con loro senza nessun tipo di pretesa. Mi sembrava che stessero
toccando temi piuttosto importanti per loro e che lo strssero facendo in maniera
piuttosto distratta. Credo che avrei voluto sentire un clima che sottolineasse che
era una cosa importante. Mi sembra, ora che ne scrivo, che vi sia una
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considerevole dose di narcisismo in questo da parte mia, mentre in effetti stavano
comunicando nel linguaggio che gli era proprio. In effetti la mia impressione era
che mancasse qualcosa ed ora mi accorgo che si tratta del fatto che non parlavano
dei loro sentimenti come avrei voluto. Probabilmente avrebbe avuto senso
restituirgli questa mia impressione, ma forse sarebbe stato un intervento fuori dal
contesto di un gruppo classe con cui ti vedi per due volte. Altre volte, specie alla
scuola media mi sono imbattuto in gruppi dove questa capacità c’era
maggiormente, ma, non è certo possibile aiutarne lo sviluppo in due incontri!
• IL PONTE DI ARICCIA
La rabbia repressa, la difficoltà a vivere di un ragazzo è stato il tema di uno di
questi incontri. Quando mi perdo il gruppo di solito mi dispiace e mi sento di aver
lavorato male, ma in questo caso se avessi potuto li avrei mandati a giocare a
calcetto pur di non averli vicino. Prima di entrare in classe, l’insegnante di
sostegno mi segnala un ragazzo che dice di volersi suicidare, anche se solo tramite
accenni. Ho parlato con lui e mi ha dato l’impressione di una persona molto
isolata all’interno della classe ed in genere nella sua vita. Ha una grande difficoltà
ad aprirsi e grossi problemi con la famiglia, mi pare di ricordare con il padre. Vive
negativamente la sua classe e sembra non trovare risorse neanche li. Parla di
voglia di farla finita, ma non spiega nulla delle sue motivazioni, appare
impermeabile. Gli chiedo dei dettagli su come aveva pensato di uccidersi, parla
del fatto che a volte ci pensa guardando il ponte di Ariccia. Lo prendo seriamente,
31
gli dico che penso che lui sia perfettamente in grado di farlo ma che spero che
possa darsi la possibilità di provare a cambiare la sua vita. Quello che non ho fatto
nel corso di tutto il discorso se non per accenni è provare ad usare il gruppo anche
se mi sembrava di non riuscirci perché non volevano assolutamente prendere
questo incontro seriamente. Avrei potuto anche cercare un modo per utilizzare la
loro capacità di scherzare, ma in realtà lui penso che li sentisse ostili. Alla fine si è
fidato di dire una piccolissima cosa, e l’esperienza gli è sembrata piacevole. Dopo
la conclusione del discorso ne ho parlato con il mio tutor concordando che loro
avrebbero cercato di seguirlo più assiduamente.
• TITOLO
In questa classe si presenta alla mia attenzione un caso di bullismo. C’è questo
ragazzo, che peraltro appare molto in sfida verso di me durante tutto l’incontro,
per esempio dice che si è fatto una canna appena prima di entrare. Ora penso che
potesse essere una richiesta d’aiuto implicita, ma non lo sembrava affatto, almeno
li per li. Questo ragazzo insomma si dedica a tormentare la vittima della situazione
che continua ad accumulare pressione, non reagisce completamente bloccato
com’è e ha crescente paura di scoppiare. Avrei potuto lavorare in tanti modi, ma
quello che ho fatto è stato profondamente influenzato dalla situazione che ho
vissuto nel periodo della scuola dell’obbligo in cui mi trovavo in una posizione
non dissimile da quella di questo ragazzo. Tutto ciò che ho “imparato” e non so se
ho fatto bene ad aggiungere le virgolette alla parola imparato è: ”tener duro e
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farcela da soli”. Nella fattispecie la mia esperienza si è conclusa con la fine delle
medie. Alle superiori ho tentato, pian piano riuscendoci, di avere relazioni migliori
con la nuova classe. In pratica mi sono totalmente identificato in lui perdendo la
capacità di immaginarmi nuove strade. Non ho affatto tentato di utilizzare il
gruppo come una risorsa, gli spettatori del bullismo potevano diventare in qualche
modo degli agganci per lui. Io pensavo come un grosso problema il fatto che lui
sentisse di poter scoppiare in maniera violenta, ma ora che ci penso questo non è
ovvio per niente: se fosse davvero passato alle vie di fatto con questo bullo sono
davvero sicuro che sarebbe stato peggio per lui? Poteva sceglierlo solo lui, ma non
gli ho dato questa possibilità perché sono stato fin troppo celere ad avallare la sua
paura di scoppiare senza soffermarmici un attimo, per esempio “cosa potresti fare
se scoppi? Che problema ci vedi in questo? Cosa puoi fare invece di accoltellarlo?
Io sono passato direttamente al terzo punto. Ad un certo punto gli ho proposto di
provare a prenderlo in giro anche lui per qualche suo difetto, e alla fine con voce
flebile ha pronunciato “c’hai il naso a patata”. Guardando a posteriori il lavoro
fatto con lui mi sembra che non avesse affatto la forza di modificare la situazione
che il ragazzo vedeva come disfunzionale. Sarebbe stato possibile ottenere più
forza se non fossi immediatamente fuggito dalla sua rabbia. Qualche weekend di
scuola successivo una docente ci proponeva l’intervento nei casi di bullismo come
un intervento sul gruppo, e non come intervento sulla vittima. Alla luce di quanto
ho fatto mi pare che posso almeno dire che sono due interventi da far procedere in
parallelo. Anzi in realtà si tratta di tre interventi perché anche il bullo è portatore
33
di un disagio che io non ho affatto visto (e che comunque lui non riconosceva
come tale ma soltanto agiva) proprio per la mia storia personale.
2.3 Il lavoro presso la scuola media Gramsci di Pavona: esempi pratici
• PERSONE OMOSESSUALI
In una classe proprio all’inizio dell’incontro un ragazzo ha espresso dei commenti
negativi sulle persone omosessuali. La mia prima tentazione è stata di
rimproverarlo, ma ho deciso che non sarebbe stato giusto così ho deciso di
procedere altrimenti. Il mio modello era il lavoro con un singolo io e lui con il
gruppo come sfondo, ma parlando con il mio tutori è stato suggerito di “riportare
la palla nel gruppo”. Quindi ho provato ad aprire chiedendo agli altri cosa ne
pensavano e se volessero dire la loro. È venuto fuori uno scambio molto vivace
che è durato per tutte le due ore e nel quale mi sembra si siano realmente sentiti
protagonisti di qualcosa. Io mi sono limitato a regolare la comunicazione e,
occasionalmente a fornire informazioni o proporre opinioni mie. In questo
incontro hanno dato le loro opinioni e discusso molto, alla fine erano così contenti
che mi hanno fatto un applauso!
• NAVIGANDO VERSO L’ALTRA SPONDA
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Allo sportello facevo colloqui con i ragazzi che me lo chiedevano. Viene un
ragazzo che mi spiega di sentirsi gay, e racconta tutte le sue difficoltà con i
genitori, che fanno commenti omofobi durante la cena, e con il fatto che non può
parlarne con nessuno a parte la sua migliore amica. Mi è sembrato di capire il suo
disagio ed ho tentato di offrirgli innanzitutto comprensione e accettazione, inoltre
ho lavorato nella direzione di farlo uscire dalla gabbia. Rendere il suo mondo più
largo, il mondo in cui poteva dirsi pienamente accettato era importante per me, ma
dall’altra parte era logico accettare il suo giudizio sul fatto che non si poteva
parlare con i suoi genitori. Lavorare in quella direzione portava ad un vicolo cieco,
così fargli immaginare le reazioni dei suoi non ha dato grande risultato. Il lavoro si
è sbloccato quando gli ho chiesto che tipo di rischio fosse per lui accettabile e ci
siamo mossi nella direzione che avrebbe potuto raccontare questa cosa di se ad
una seconda amica che forse avrebbe capito. Abbiamo parlato insieme dei rischi
che avrebbe potuto correre ma quando ho chiuso il colloquio sembrava aver
deciso di farlo.
• UN ABBRACCIO VIRTUALE
In una classe, dopo che avevo chiesto a tutti come si sentissero e cosa volessero da
quelle due ore è venuta fuori una grande esigenza di lavorare sul problema della
separazione dei genitori. Era una classe in cui c’erano veramente molte ragazze
con i genitori separati ed una di loro ha deciso che poteva fidarsi del contesto e
parlare di se stessa e delle proprie difficoltà con la famiglia anche piangendo in
35
alcuni momenti. È stato emozionante vedere la classe che si stringeva sempre di
più come in un abbraccio virtuale. Il mio ruolo è stato di favorire la
comunicazione tra loro, su come parlare con genitori separati e come rapportarsi
lo sapevano sicuramente meglio di me, ma senz’altro la ragazza in questione è
uscita da questo incontro con maggiori risorse rispetto a prima: risorse che sono
proprio i suoi compagni di classe.
• TENSIONI NEL GRUPPO
In questa classe ho potuto rivedere come in ultima analisi esca fuori alla
discussione ciò che c’è nel campo: facendoli concentrare un momento su ciò che
era importante discutere in quell’occasione sono venute fuori delle tensioni che si
erano accumulate nel loro gruppo. C’era una ragazza che aveva del rancore per
una persona del gruppo e non riusciva a far schierare il gruppo in modo che la
escludesse da una uscita tutti insieme. Ho avuto difficoltà a gestirle nel senso che
non riuscivo a farli parlare a turno o a far si che si ascoltassero. Tutto ciò che
facevano è proporre argomenti a sostegno della propria tesi. Nel frattempo, come
un computer impazzito, si aprivano nuove finestre in modo incontrollato, con
persone che saltavano su e dicevano cose come “Tu quella volta in cui…”. Ho
cercato di limitare i temi che venivano discussi, in modo da avere tempo per
parlare per bene di un argomento senza passare dall’uno all’altro continuamente.
Devo confessare di non essere riuscito a farli addivenire ad un accordo su tutto,
anche se non era questo lo scopo del mio intervento, però sentivo il rischio di
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lasciare aperto qualcosa che continuasse ad avvelenare la vita della classe. Ho
incontrato spesso persone o gruppetti isolati dalla classe che volevano qualcosa
dalla classe ma che, quando gli proponevo di chiederlo esplicitamente o li mettevo
a confronto con le opinioni del resto del gruppo mi sembrava che non
sopportassero il contatto e se ne ritraessero uscendo dalla classe o puntando a
chiudere l’argomento. In alcuni casi mi è parso che preferissero provare a
manipolare il gruppo, ma non vi era ne il contesto per un intervento su questa
modalità ne una domanda in questo senso. Nel caso della “seconda finestra” che si
era aperta, due persone che litigavano hanno potuto prendere atto delle reciproche
differenze e stabilire del tempo che sentivano che era necessario perché potessero
riconciliarsi. Indubbiamente questo secondo tipo di conclusione mi ha soddisfatto
di più, ma immagino che sia una questione che è relativa al mio vivere male lo
“stare litigato” che se non lo tengo a bada mi porterebbe a tentare di far pace a
tutti costi alle persone quando queste vogliono solo esprimere la propria rabbia e
non ne vogliono sapere di far pace.
• CACCIA A MAMMA
Si presenta allo sportello d’ascolto una ragazza che mi chiede di parlare del
proprio rapporto con la madre. Genitori separati, la madre non vuole alimenti dal
marito e si affanna dalla mattina alla sera a lavorare per campare. La figlia lo
riconosce, ma si sente sempre più sola ed esprime tanto il bisogno della madre, di
parlarci , di stabilire un dialogo ed una confidenza. Mi parla un po’ dei suoi
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sentimenti e di come affronta la solitudine, le chiedo di immaginare dei modi per
stabilire questo dialogo. Analizza le varie possibilità, i momenti che trascorre
insieme con lei e come potrebbe renderli più gradevoli. Alla fine decide di
scriverle una lettera e fargliela trovare sotto al piatto quando sarebbe tornata per
cena. La sua dolcezza mi è veramente rimasta nel cuore, ma più in generale vorrei
tanto sapere come sono andate a finire tutte queste storie.
CAPITOLO III: Conclusioni
Questa tesi è stata ispirata dal bisogno di fare il punto della mia personale situazione
come psicologo che ha lavorato nella scuola, vedere bene cosa sento di avere
imparato e riconsiderare le mie idee di partenza sul lavoro nella scuola. Innanzi tutto
dall’analisi della letteratura si evince che la psicologia nella scuola può giocare un
ruolo fondamentale rispetto a molti temi ed a molti attori. In primo luogo si pone
come primo momento di prevenzione del disagio momento caratterizzato dalla
vicinanza al luogo sociale di competenza (formazione per gli studenti, produzione e
servizi per i lavoratori), cioè in uno dei luoghi fondamentali dove il disagio si
produce. Il sistema scuola potrebbe molto giovarsi in tutte le sue componenti,
insegnanti genitori e studenti, delle competenze dello psicologo sia per la regolazione
e gestione dei conflitti sia come istanza che promuove il benessere a 360° in uno dei
gangli della vita sociale dove tali attori passano più tempo. Questa funzione appare
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però sottovalutata dalla letteratura, che si incentra sulla soluzione di problematiche
esclusivamente tipiche della scuola.
Avevo una serie di ipotesi esplicite che sono le seguenti:
• L’intervento nella scuola con gli adolescenti può poggiare fortemente sulla
responsabilità dei ragazzi e sulla loro disponibilità a mettersi in gioco e che la
cosa fondamentale da fare è ribaltare il concetto della lezione frontale
metaforizzato dallo studente- vaso da riempire e creare una comunicazione
circolare dove ci si pone come facilitatori, e regolatori.
• La Psicoterapia della Gestalt può essere un metodo utile per realizzare questo
obbiettivo anche se impiegata con gli adolescenti.
• Il contesto scolastico possa influire relativamente poco rispetto alla scelta
delle tecniche da utilizzare. La psicoterapia della gestalt dunque come
modalità per la crescita, adatta al contesto psicoterapeutico ma anche
versatile al di fuori di esso.
Dopo tutta questa analisi, che ha considerato, certo in modo non esaustivo, alcuni
aspetti della letteratura in materia di psicologia scolastica, tali ipotesi risultano
sostenute in modo credibile? Riguardo la prima penso di poter dire che si trova una
risposta positiva sia analizzando la parte pratica, dove gli esempi di persone che
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hanno utilizzato in modo responsabile il setting da me proposto non sono mancati sia
rispetto alla parte teorica. In verità la letteratura di taglio non gestaltico che è stata
passata in rassegna sembra non poggiare molto sul confronto con i ragazzi. Nei
protocolli sviluppati dai colleghi si direbbe infatti che si faccia ogni sorta di attività
con ed attorno ad i ragazzi con maggiori difficoltà (colloqui con i genitori,
osservazione in classe, somministrazione di test, invio ai servizi) ma che solo di rado
si chiede a questi ragazzi cosa vogliono o si sviluppa un lavoro teso a porli come
unici protagonisti possibili della costruzione del proprio futuro. Il tema della
responsabilità può quindi essere visto come una caratteristica di ogni intervento
realmente finalizzato alla crescita. Ovviamente si può sostenere che l’adolescenza è
caratterizzata anche dal non poter ANCORA essere responsabili. Tuttavia vista
dall’altro versante questa affermazione si ribalta: l’adolescenza come progressivo
aumento della capacità di essere responsabile anche in considerazione delle sfide che
la vita impone ai giovani. Inoltre non mancano certo i casi di ragazzi che sono
divenuti precocemente responsabili in virtù di particolari situazioni di vita.
La letteratura gestaltica analizzata, che purtroppo si limita ad alcuni aspetti
teorici e al lavoro della Oaklander, rivela una grande capacità di elicitare nei giovani
contenuti importanti a partire da modalità creative di lavoro come quelle proposte da
Oaklander. Il mio lavoro pratico nella scuola mostra tale caratteristica solo raramente,
ho quindi gestito maggiormente i gruppi ed i colloqui con le parole piuttosto che con
la creta, il disegno o la danza. In questo lavoro ho trovato molto difficile potarmi al
livello della “comunicazione con te stesso”, cioè fare la “dialettizzazione del
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sintomo” e costruire il dialogo interiore con le persone che incontravo. Ciò che
succedeva è che si andava si da “cosa sento” a “cosa voglio” a “cosa faccio” lungo il
ciclo del contatto, ma appena sfiorando le cose.
A volte avevo la sensazione di aver portato avanti solo un lavoro catartico:
hanno parlato dei loro problemi, li hanno condivisi, hanno casomai litigato anche tra
loro, si sentono meglio ma che tipo di apprendimento c’è stato? Intanto la nozione
fondamentale che parlare dei propri problemi aiuta in qualcuno sarà pur passata, in
alcuni casi è stata l’esperienza di essere protagonisti di ciò che stava succedendo ad
essere importante. Altre volte ci sono stati momenti molto forti emotivamente,
quando magari qualcuno stava parlando dei propri genitori separati o cose del genere.
Una cosa che invece è stata importante per me verificare è come
progressivamente aumentavo la mia capacità di stare con ciò che c’era e mi facevo
meno scudo di passaggi specifici tipo “faccio il giro di presentazioni per trenta
minuti, poi questo gioco” e così via. Alla luce di quello che ho letto e che ho visto e
fatto direi che la gestalt può ben essere un metodo valido per il lavoro con gli
adolescenti, forse uno dei più validi per questa sua enfasi sulla responsabilità. Questo
nelle situazioni più deteriorate può essere anche un problema, dove c’è stata
maggiormente una diseducazione alla responsabilità proporre un lavoro che parte
dalla domanda: “Quali sono i tuoi bisogni? Cosa vuoi da me?” rischia di essere
frustrante, anche se mi rifiuto di definirlo inutile. Questo problema a me pare il cuore
della terza ipotesi, ossia che non sussistessero enormi differenze tra il contesto
scolastico e quello clinico rispetto alla metodologia da usare. La prima delle
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differenze è senza dubbio che qui sono io ad andare dall’esterno in un gruppo già
formato per uno scopo specifico che non consiste in una domanda terapeutica. Non vi
è dunque alleanza, e lavorare come ho provato a fare è possibile solo se hai la fortuna
di trovare un gruppo che si fida di te, accetta di “farti entrare” per il breve tempo che
passi con loro. Se ciò non avviene puoi dannarti l’anima ma non succede niente di
utile.
BIBLIOGRAFIA
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Urso et al., 2008.
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Siti internet:
www.petinigenzano.net
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