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Dispensa di diritto amministrativo

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Fonti e accesso.

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Indice

1 – I BANDI DI GARA TRA DISAPPLICAZIONE E IMPUGNAZIONE:

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 1 del 2003; Corte di Giustizia, Santex, sentenza

del 27 febbraio 2002 in C 327/2000;

2- I REGOLAMENTI AMMINISTRATIVI TRA DISAPPLICAZIONE,

INAPPLICABILITÀ E INVALIDAZIONE: Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n.

154/1992;

3- LA CONTROVERSA NATURA GIURIDICA DELL’ACCESSO: Consiglio di

Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 16 del 1999;

4- ACCESSO E RISERVATEZZA: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 5 del

1997;

5- L’ACCESSO ALL’ATTIVITÀ DI DIRITTO PRIVATO: UN EQUILIBRIO

DELICATO Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 4 del 1999; Consiglio di Stato,

Adunanza Plenaria, n. 16 del 2016.

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Selezione giurisprudenziale

1 – I BANDI DI GARA TRA DISAPPLICAZIONE E IMPUGNAZIONE:

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 1 del 2003;

L’onere di immediata impugnazione del bando di gara deve, normalmente, essere riferito alle clausole

riguardanti requisiti soggettivi di partecipazione. Non può tuttavia essere escluso un dovere di immediata

impugnazione delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli oneri imposti all’interessato ai fini della

partecipazione risultino, manifestatamente incomprensibili o implicanti oneri per la partecipazione del tutto

sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della gara o della procedura concorsuale.

1. Deve, innanzi tutto, essere osservato che con l’ordinanza n. 2406 del 6 maggio 1992 la Quinta Sezione,

investita della decisione dell’appello interposto dal Comune di Aversa avverso la sentenza del Tribunale

Amministrativo regionale della Campania, ha rimesso all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato una serie di

importanti questioni, concernenti la portata dell’onere di immediata impugnazione delle clausole dei

bandi di gara diverse da quelle riguardanti i requisiti di partecipazione alla procedura selettiva, la

possibilità per il giudice amministrativo di disapplicare clausole del bando di gara o di concorso

eventualmente in contrasto con il diritto comunitario, e la rilevanza dell’intervenuta realizzazione

dell’opera pubblica oggetto dell’appalto ai fini della procedibilità del ricorso proposto avverso

l’esclusione od il diniego di aggiudicazione.

(omissis)

Con riferimento a tale doglianza ed alla relativa soluzione, la V Sezione del Consiglio di Stato ha affermato che si

pone l’esigenza, di carattere generale, di procedere all’esatta individuazione dei casi in cui è necessaria, a

pena di decadenza, l’immediata impugnazione dei bandi di gara (o di concorso) senza attendere gli atti

applicativi. In particolare, la Quinta Sezione, in riferimento ai due diversi argomenti con cui il Tribunale ha

disatteso l’eccezione di omessa tempestiva impugnazione della lex specialis della gara, di cui uno attinente alla

natura ed ai contenuti del bando, ed alla individuazione dell’interesse al ricorso, e l’altro attinente alla

interpretazione del bando, ha ritenuto che si pongono due questioni di massima:

- se le clausole dei bandi di gara o di concorso o delle lettere di invito, diverse da quelle riguardanti i requisiti di

partecipazione alle procedure selettive, debbano essere impugnate entro il termine decorrente dalla loro

conoscenza legale, ovvero se possano essere impugnate contenstualmente all’atto applicativo che conclude la

procedura selettiva;

- se le clausole dei bandi di gara o di concorso o delle lettere di invito possano essere disapplicate per contrasto

con il diritto comunitario.

(omissis)

4. Ai fini della decisione sul primo motivo dell’appello proposto dal Comune di Aversa appare, invece, rilevante

la generale questione, individuata nell’ordinanza di rimessione concernente “l’esatta delimitazione dell’ambito

oggettivo dell’onere di immediata impugnazione dal bando di gara o di concorso”.

a) In proposito la Quinta Sezione, dopo avere provveduto ad un’ampia rassegna delle opinioni di recente

manifestatesi in giurisprudenza, ha segnalato che, accanto al consolidato indirizzo interpretativo volto a

richiedere l’immediata impugnazione del bando solo con riferimento alle clausole impeditive dell’ammissione

dell’interessato alla selezione, si sono sviluppati orientamenti di segno diverso e tra di loro contraddittori.

La Quinta Sezione ha fatto presente che la soluzione tradizionale appare preferibile, in quanto utile ad

individuare un criterio normalmente di facile applicazione, e che, tuttavia, i principi generali potrebbero

autorizzare un parziale ampliamento delle ipotesi di impugnazione immediata, con particolare ed esclusivo

riguardo alle clausole relative alle modalità oggettive di partecipazione alla gara.

5. L’Adunanza condivide l’avviso espresso dalla V Sezione con l’ordinanza n. 2406 del 2002, e ritiene di

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conseguenza, che l’onere di immediata impugnazione del bando di gara debba, normalmente, essere

riferito alle clausole riguardanti requisiti soggettivi di partecipazione. L’Adunanza ritiene, tuttavia, che,

non possa essere escluso un dovere di immediata impugnazione delle clausole del bando in quei

limitati casi in cui gli oneri imposti all’interessato ai fini della partecipazione risultino,

manifestatamente incomprensibili o implicanti oneri per la partecipazione del tutto sproporzionati per

eccesso rispetto ai contenuti della gara o della procedura concorsuale.

In proposito, si osserva che i problemi affrontati e risolti dalle numerose decisioni richiamate dall’ordinanza della

Quinta Sezione, dai diversi indirizzi in cui le stesse possono essere inquadrate e sistematizzate, attengono tutti

alla più generale questione riguardante la determinazione del momento della tempestiva impugnazione degli atti

generali e delle clausole e prescrizioni in essa contenuti; problema questo che, in linea di principio si pone

proprio per la natura ed il contenuto degli atti in questione.

Per gli atti amministrativi a carattere generale, destinati alla cura concreta di interessi pubblici, con

effetti nei confronti di una pluralità di destinatari, non determinati nei provvedimenti, ma chiaramente

determinabili, si pone il problema della loro lesività immediata prima dell’adozione degli atti

applicativi: prima cioè che gli atti puntuali che delle clausole degli atti generali fanno applicazione, identifichino

in concreto i destinatari da essi effettivamente lesi nella loro situazione soggettiva.

Poiché il problema è destinato ad avere rilievo specifico con riferimento alla tutela (giurisdizionale ed

amministrativa) nei confronti di tali tipi di provvedimenti, esso è stato tradizionalmente (e correttamente)

risolto alla luce dei principi che regolano l’ammissibilità del ricorso giurisdizionale (o amministrativo).

Tali principi richiedono che sia l’interesse sostanziale (a tutela del quale si agisce) che l’interesse ad agire siano

caratterizzati dai requisiti della personalità e della attualità. Tali interessi devono, cioè, essere propri del soggetto

ricorrente e devono avere riferimento ad una fattispecie già perfezionatasi; diversamente, infatti, si sarebbe di

fronte ad interessi meramente potenziali.

Anche la lesione subita dall’interesse sostanziale del ricorrente (ed in conseguenza della quale egli agisce in

giudizio) deve, in linea di stretta conseguenzialità, essere contrassegnata dai caratteri della immediatezza, della

concretezza e dell’attualità.

La lesione deve, cioè, costituire una conseguenza immediata e diretta del provvedimento dell’Amministrazione e

dell’assetto di interessi con esso introdotto, deve essere concreta e non meramente potenziale, e deve persistere al

momento della decisione del ricorso.

Applicando tali principi consolidati al problema riguardante l’identificazione del momento della tempestiva

impugnazione degli atti generali, è stato, così affermato con indirizzo giurisprudenziale ormai risalente, che i

bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno, normalmente impugnati unitamente agli atti che

di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto

leso dal provvedimento, ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva

dell’interessato.

A fronte, infatti, della clausola illegittima del bando di gara o del concorso, il partecipante alla

procedura concorsuale non è ancora titolare di un interesse attuale all’impugnazione, dal momento che

egli non sa ancora se l’astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito

negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della

situazione soggettiva, che solo da tale esito può derivare. D’altra parte, ove l’esito negativo della procedura

concorsuale dovesse effettivamente verificarsi, l’atto che chiude tale procedura facendo applicazione della

clausola o della disposizione del bando di gara o di concorso, non opererà nel senso di rinnovare (con l’atto

applicativo) una lesione già effettivamente prodottasi, ma renderà concreta ed attuale (ed in questo senso, la

provocherà per la prima volta) una lesione che solo astrattamente e potenzialmente si era manifestata, ma che

non aveva ancora attitudine (per mancanza del provvedimento conclusivo del procedimento) a trasformarsi in

una lesione concreta ed effettiva.

In questa prospettiva, ciò che, quindi, appare decisivo ai fini dell’affermazione dell’esistenza di un onere di

tempestiva impugnazione è la sussistenza di una lesione concreta ed attuale della situazione soggettiva

dell’interessato, che determina, a sua volta, la sussistenza di un interesse attuale all’impugnazione; e

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quindi, con riferimento al bando di gara o di concorso o alla lettera di invito, l’attitudine (sua o di alcune clausole

in essi contenute) a provocare una lesione di tal genere.

6. E’ per tale ragione che è stato, pertanto, tradizionalmente affermato che il bando di gara o di concorso, o la

lettera di invito, normalmente impugnabili con l’atto applicativo, conclusivo del procedimento concorsuale,

devono tuttavia, essere considerati immediatamente impugnabili allorché contengano clausole impeditive

dell’ammissione dell’interessato alla selezione.

In tale ipotesi, infatti, la clausola del bando o della lettera di invito, precludendo essa stessa la partecipazione

dell’interessato alla procedura concorsuale, appare idonea a generare una lesione immediata, diretta ed attuale,

nella situazione soggettiva dell’interessato, ed a suscitare, di conseguenza, un interesse immediato alla

impugnazione, dal momento che l’interesse all’impugnazione sorge al momento della lesione (Cons. Stato, Sez.

V, 20 giugno 2001 n. 3264). E’ stato, così, correttamente affermato che l’onere dell’immediata impugnativa

degli atti preliminari costituenti la lex specialis della gara è ipotizzabile soltanto quando questa

contenga prescrizioni dirette a precludere la stessa partecipazione dell’interessato alla procedura

concorsuale (Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2001 n. 3507; Sez. VI, 18 dicembre 2001 n. 6260). In tale

prospettiva, è stato osservato che le clausole del bando che debbono essere immediatamente impugnate sono, di

norma, quelle che prescrivono requisiti di ammissione o di partecipazione alle gare per l’aggiudicazione, dal

momento che la loro asserita lesività non si manifesta e non opera per la prima volta con l’aggiudicazione, bensì

nel momento anteriore nel quale tali requisiti sono stati assunti come regole per l’amministrazione (Cons. Stato,

Sez. IV, 27 marzo 2002 n. 1747).

Ciò che quindi, appare decisivo, ai fini dell’affermazione dell’onere di immediata impugnazione delle clausole che

prescrivono requisiti di partecipazione è pertanto non soltanto il fatto che esse manifestino immediatamente la

loro attitudine lesiva, ma il rilievo che le stesse, essendo legate a situazioni e qualità del soggetto che ha

chiesto di partecipare alla gara, risultino esattamente e storicamente identificate, preesistenti alla gara

stessa, e non condizionate dal suo svolgimento e, perciò, in condizioni di ledere immediatamente e

direttamente l’interesse sostanziale del soggetto che ha chiesto di partecipare alla gara od alla

procedura concorsuale.

Clausole così caratterizzate riguardano, in primo luogo, requisiti soggettivi degli aspiranti partecipanti al

concorso. Val quanto dire che esse riguardano direttamente ed immediatamente i soggetti stessi (e non le loro

offerte o le ulteriori attività connesse con la partecipazione alla gara), e per tale ragione producono nei loro

confronti effetti diretti, identificando immediatamente i soggetti che, in quanto privi dei requisiti richiesti, da tali

clausole sono immediatamente e direttamente incisi.

Esse fanno pure riferimento ad una situazione (di norma, una situazione di fatto) che è preesistente rispetto al

bando, e totalmente indipendente dalle vicende successive della procedura e dei relativi adempimenti, e non

richiede valutazioni o verificazioni particolari. Sotto questo profilo, non è la procedura concorsuale ed il suo

svolgimento a determinare l’effetto lesivo (come avviene nel caso della valutazione dell’anomalia dell’offerta), ma

direttamente il bando, che prende in considerazione una situazione storicamente ad esso preesistente e

totalmente definita.

In terzo luogo, le clausole ricollegano alla situazione di fatto presa in considerazione un effetto giuridico

diretto (l’impossibilità di prendere parte alla gara o alla procedura concorsuale) che appare immediatamente

lesivo dell’interesse sostanziale degli aspiranti. E’ quindi il bando, e non il successivo svolgimento della

procedura concorsuale, a determinare esso stesso la lesione dell’interesse degli aspiranti, escludendo per i

medesimi, con la partecipazione alla procedura concorsuale, la possibilità di conseguire l’aggiudicazione ovvero

(nel caso di concorso in materia di pubblico impiego) la collocazione utile in graduatoria.

(omissis)L’orientamento giurisprudenziale che prevede la normale impugnabilità del bando di gara o di concorso

unitamente agli atti applicativi, con l’eccezione del caso che si sia di fronte a clausole riguardanti requisiti di

partecipazione alla procedura concorsuale fa, pertanto, corretta applicazione, nell’ipotesi generale ed in quella

configurata come eccezione, dei principi in tema di interesse a ricorrere, dal momento che, sia con riferimento

all’una che all’altra, afferma l’esistenza dell’onere dell’impugnazione in relazione all’esistenza di una lesione

concreta ed attuale della situazione soggettiva dell’interessato, alla sua chiara ed immediata percepibilità, ed alla

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correlativa sussistenza di un interesse (processuale) a ricorrere.

7. Anche gli altri orientamenti giurisprudenziali, diversi da quello che circoscrive l’onere di immediata

impugnazione del bando alle sole clausole riguardanti i requisiti soggettivi di partecipazione, e ricordati

nell’ordinanza di rimessione, intendono, peraltro, fare applicazione dei principi consolidati di tema di interesse a

ricorrere. Tali orientamenti operano o affermando che l’interesse ad impugnare il bando sorge sempre ed

unicamente con l’atto applicativo, perché solo esse genera una lesione attuale, ovvero (e secondo una

impostazione di segno opposto) postulando l’esistenza, in certe situazioni, e con riferimento esclusivo al

bando di gara, di un interesse, diverso dall’interesse a conseguire l’aggiudicazione o ad essere collocato

in posizione utile in graduatoria, che sarebbe immediatamente leso dal bando, senza necessità di atti

applicativi, e che giustificherebbe di conseguenza, l’onere di immediata impugnazione del bando.

(omissis) L’Adunanza Plenaria, pur apprezzando le esigenze che sono alla base della loro formazione, ritiene che

non possano essere condivisi gli esiti di tali indirizzi giurisprudenziali, dal momento che essi conducono ad una

non esatta applicazione del principio generale che connette l’onere di immediata impugnazione all’esistenza in

capo al ricorrente di una lesione non potenziale, ma concreta ed attuale, ed alla sussistenza di un altrettanto

attuale interesse ad impugnare. Essi, infatti, o posticipano erroneamente all’atto applicativo la sussistenza di una

lesione già, in certe specifiche situazioni, prodotta attualmente dal bando, ovvero si risolvono – quando

affermano l’onere di immediata impugnazione del bando anche con riferimento a clausole diverse da quelle

concernenti i requisiti di partecipazione – in una impropria frammentazione e polverizzazione, in una serie di

interessi diversi, dell’unico interesse sostanziale protetto.

8. Non può innanzi tutto, essere condiviso quell’orientamento, pure richiamato nell’ordinanza di rimessione della

Quinta Sezione che vorrebbe il bando sempre ed in ogni caso impugnabile unitamente all’atto applicativo, anche

nell’ipotesi in cui si sia di fronte a clausole riguardanti requisiti di partecipazione alla procedura concorsuale. Si è

visto sopra come tali clausole, in quanto riferentesi a presupposti di fatto indipendenti da ogni valutazione da

esprimersi nel corso della procedura concorsuale, appaiano idonee a produrre non una lesione potenziale, ma una

lesione già esistente ed efficace nei riguardi dei soggetti che hanno chiesto di prendere parte alla procedura

concorsuale. Il posticipare, in tali casi, l’impugnazione del bando all’atto ricognitivo dell’effetto lesivo già

prodottasi non apparirebbe, pertanto, giustificato e si porrebbe in contrasto con i principi generali sull’interesse a

ricorrere.

9. Non può, altresì, essere condivisa la tesi che postula la necessità dell’immediata impugnazione di tutte le

clausole del bando, in quanto incidenti nella lex specialis della gara o della procedura concorsuale. Tale

circostanza, infatti, non implica di per sé che tali clausole producano una lesione diretta ed immediata

dell’interesse protetto, senza necessità di attendere gli atti di gara che di tali clausole facciano applicazione.

Non vale a fondare un diverso avviso la circostanza che con le clausole del bando l’Amministrazione provveda a

predeterminare la propria discrezionalità, sicché, rispetto ad essa, la successiva attività procedimentale

apparirebbe come vincolata. Tale circostanza non esclude, peraltro, sia che nello svolgimento della gara

l’Amministrazione debba operare, in applicazione delle clausole del bando, accertamenti e valutazioni, sicché solo

in esito a questi e con riferimento ad essi si manifesta ed opera effettivamente l’astratta capacità lesiva della

clausola; sia il fatto che, comunque, la lesività delle clausole del bando, ove effettivamente ravvisabile prima

ancora dell’applicazione, appare al più meramente potenziale ed in quanto tale, non idonea a fondare l’onere di

immediata impugnazione.

Né, in contrario, possono acquistare rilievo le osservazioni secondo cui la lesione provocata dal bando

all’interesse dei partecipanti sarebbe immediata perché riguardante la loro condizione di concorrenti, mentre

l’interesse differenziato che giustificherebbe il ricorso riguarderebbe la pretesa autonoma alla legittimità delle

regole e delle operazioni di gara, distinta dall’aspettativa all’aggiudicazione del contratto. Da una parte, infatti, la

“condizione di concorrenti” dei partecipanti alla gara può essere apprezzata e valutata esclusivamente con

riferimento all’unico interesse sostanziale di cui essi sono titolari, che è quello all’aggiudicazione e, comunque,

all’esito positivo della procedura concorsuale, sicché l’eventuale incidenza di clausole che conformino

illegittimamente la condizione di concorrenti dei singoli partecipanti, può acquistare rilievo esclusivamente se si

traduce in un diniego di aggiudicazione o, comunque, in un arresto procedimentale con riferimento al medesimo

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obiettivo; dall’altra non appare configurabile un interesse autonomo alla legittimità delle regole e delle operazioni

di gara, distinto dalla pretesa all’aggiudicazione o alla stipula del contratto. L’interesse alla legittimità della

procedura costituisce un aspetto ed un riflesso dell’interesse all’aggiudicazione, ed è anzi quest’ultimo che può

fondare e sostenere il primo, sicché l’eventuale illegittimità della procedura acquista significato e rilievo soltanto

se comporta il diniego di aggiudicazione, in tal modo ledendo effettivamente l’interesse protetto, di cui è titolare

il soggetto che ha preso parte alla gara.

Quanto, infatti, all’interesse protetto, o comunque alla situazione soggettiva di cui è titolare il partecipante alla

gara, occorre ribadire che il suo contenuto è costituito non dall’astratta legittimità del comportamento

dell’Amministrazione, ma dalla possibilità di conseguire l’aggiudicazione. L’aggiudicazione costituisce il

bene della vita che l’interessato intende conseguire attraverso la gara; ed è il medesimo bene della vita che si

intende conseguire attraverso la tutela giurisdizionale, nell’ipotesi di illegittimo diniego di aggiudicazione.

L’affermazione talvolta operata in giurisprudenza secondo cui l’interesse al quale l’ordinamento garantirebbe

tutela non sarebbe quello di ottenere un risultato vantaggioso ma l’altro, “a che la scelta del contraente sia

effettuata nel rispetto delle norme che impongono all’amministrazione comportamenti obbligati nel disciplinare,

a mezzo del bando, il relativo procedimento” si risolve, oggettivamente, in una confusione tra l’oggetto

dell’interesse ed il tipo di protezione ad esso accordato. L’oggetto dell’interesse protetto riguarda, infatti,

l’aggiudicazione, mentre tale interesse è protetto dall’ordinamento – come esattamente si osserva nell’ordinanza

di rimessione – nei limiti della legittimità del procedimento di gara.

Alla base dell’indirizzo volto ad affermare l’immediata impugnabilità dei bandi di gara, sta, pertanto, - come già

accennato - una impropria e non condivisibile frammentazione dell’unico interesse protetto in un fascio diverso

di interessi, ai quali si vorrebbe fornire, attraverso l’immediata impugnazione del bando, tutela autonoma ed

anticipata, in situazioni nelle quali in realtà non si sa ancora se l’evento lesivo si verificherà ovvero se esso ha una

portata meramente potenziale.

Un tal modo di pensare opera, in via di stretta conseguenzialità, sullo stesso modo di intendere la tutela

giurisdizionale, attribuendo impropriamente ad essa finalità e connotati propri di una giurisdizione di tipo

obiettivo: esito questo, incompatibile con la configurazione dell’attuale sistema della giustizia amministrativa,

nella quale il processo amministrativo – ancor più dopo la legge n. 205 del 2000 – si configura esclusivamente

come un processo di parti, espressione di una giurisdizione di tipo subiettivo.

10. Non può, altresì, essere condivisa quella tesi volta ad imporre l’onere di immediata impugnazione delle

clausole del bando riguardanti la composizione ed il funzionamento del seggio di gara. Non può, infatti, essere

configurato un autonomo interesse del ricorrente ad una certa composizione del seggio di gara ed a

certe sue modalità di funzionamento, diverso dall’interesse (sostanziale) all’aggiudicazione, e cioè al

conseguimento di quell’assetto degli interessi in gioco a lui favorevole che è lo scopo che l’interessato

intende perseguire con la presentazione della domanda di partecipazione. D’altra parte, una lesione

concreta ed attuale della situazione soggettiva del partecipante alla procedura concorsuale potrà derivare soltanto

dal diniego di aggiudicazione, dal momento che soltanto con esso diviene effettiva la potenziale illegittimità

connessa con la sua composizione e con le sue regole di funzionamento. E’ solo, infatti, con il diniego di

aggiudicazione che si verifica l’evento lesivo, e con esso, quel fenomeno in base al quale la possibile anomalia

della composizione e del funzionamento del seggio di gara si traduce in una certa ed effettiva anomalia dell’intera

procedura concorsuale e del suo esito.

11. Non può, altresì, essere condiviso quell’indirizzo interpretativo che è volto ad estendere l’onere di

impugnazione alle prescrizioni del bando che condizionano anche indirettamente, la formulazione dell’offerta

economica tra le quali anche quelle riguardanti il metodo di gara e la valutazione dell’anomalia. Anche con

riferimento a tali clausole, infatti, l’effetto lesivo per la situazione del partecipante al procedimento concorsuale si

verifica con l’esito negativo della procedura concorsuale o con la dichiarazione di anomalia dell’offerta. L’effetto

lesivo è, infatti, conseguenza delle operazioni di gara, e delle valutazioni con essa effettuate, dal

momento che è solo il concreto procedimento negativo a rendere certa la lesione ed a trasformare

l’astratta potenzialità lesiva delle clausole del bando in una ragione di illegittimità concreta ed

effettivamente rilevante per l’interessato.

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In tali ipotesi è il concreto svolgimento della gara e delle relative operazioni, nonché l’adozione delle valutazioni

all’uopo necessarie, a produrre l’effetto lesivo ricollegabile all’astratta previsione contenuta nel bando: devono

pertanto ritenersi impugnabili unitamente all’atto applicativo, le clausole riguardanti i criteri di aggiudicazione,

anche se gli stessi sono idonei ad influire sulla determinazione dell’impresa relativa alla predisposizione della

proposta economica o tecnica, ed in genere sulla formulazione dell’offerta, i criteri di valutazione delle prove

concorsuali, i criteri di determinazione delle soglie di anomalie dell’offerta, nonché le clausole che precisano

l’esclusione automatica dell’offerta anomala. L’effettiva – e non potenziale – lesività di tali clausole nei riguardi

della situazione soggettiva dell’interessato dipende, infatti, dalla loro effettiva applicazione e dalla loro concreta

incidenza nei confronti dell’impresa o del partecipante alla procedura concorsuale.

12. L’Adunanza Plenaria ritiene, poi, opportuno ribadire l’indirizzo tradizionale, che normalmente

esclude l’onere dell’immediata impugnazione del bando, anche nei riguardi delle clausole che

definiscono gli oneri formali di partecipazione.

A tale esito sembra necessario pervenire considerando che non sempre le cennate clausole appaiono, in

realtà assimilabili, quanto alla struttura ed al modo di operare, a quelle che, definendo requisiti

soggettivi di partecipazione sono tradizionalmente considerati immediatamente impugnabili.

Si è visto sopra come tali clausole riguardino direttamente qualità dei soggetti partecipanti e non le loro attività

connesse alla partecipazione alla gara, e come esse facciano riferimento a situazioni preesistenti rispetto al bando.

Al contrario, le clausole che introducono oneri formali di partecipazione sembrano riguardare proprio l’attività

dei soggetti interessati alla procedura concorsuale, devono essere poste in essere in vista della partecipazione alla

gara ed in relazione ad essa, non paiono fare riferimento a situazioni oggettive definite prima della gara e da essa

indipendenti, e possono richiedere – con riferimento soprattutto al loro effettivo rispetto, alla possibilità di

adempimenti equivalenti ed alla loro incidenza concreta rispetto alla conclusione negativa della procedura

concorsuale per l’interessato – accertamenti e valutazioni dall’esito non scontato.

Riguardate, poi, nel loro modo di operare, le clausole che richiedono adempimenti formali, quali la presentazione

di documenti, non sembrano agire in modo diverso dalle ordinarie clausole del bando, impugnabili insieme

all’atto applicativo.

Esse, infatti, possiedono una astratta potenzialità lesiva, la cui rilevanza e concreta capacità di provocare una

lesione attuale può essere valutata solo con l’atto applicativo. Si tratta, in particolare, di clausole che, imponendo

un certo comportamento alle imprese ed ai soggetti interessati alla procedura concorsuale, potranno produrre un

concreto effetto lesivo soltanto dopo che tale comportamento sia stato posto in essere e nei limiti della concreta

rilevanza di esso ai fini della determinazione dell’esito negativo della medesima procedura. Clausole del genere

potrebbero essere ritenute immediatamente impugnabili soltanto affermando l’esistenza di un autonomo

interesse dell’impresa a conformare le modalità di partecipazione alla gara indipendentemente dall’aggiudicazione

ed a prescindere da essa: esito questo, obiettivamente non condivisibile per le ragioni già diffusamente illustrate.

13. Non può, invece, essere escluso un dovere di immediata impugnazione del bando di gara o della lettera di

invito con riferimento a clausole, in essi contenute, che impongano, ai fini della partecipazione, oneri

assolutamente incomprensibili o manifestamente sproporzionati ai caratteri della gara o della procedura

concorsuale, e che comportino sostanzialmente l’impossibilità per l’interessato di accedere alla gara ed il

conseguente arresto procedimentale. Fra le ipotesi sopra richiamate può, sul piano esemplificativo, essere

ricompresa quella di un bando che, discostandosi macroscopicamente dall’onere di clare loqui, al quale, per i suoi

intrinseci caratteri, ogni bando deve conformarsi, risulti indecifrabile nei suoi contenuti, così impedendo

all’interessato di percepire le condizioni alle quali deve sottostare precludendogli, di conseguenza, direttamente

ed immediatamente la partecipazione.

(omissis) Le clausole in questione, infatti, manifestano immediatamente la loro lesività, appaiono sostanzialmente

idonee a precludere immediatamente la stessa partecipazione alla procedura concorsuale e ricollegano alle

prescrizioni introdotte un effetto giuridico diretto (l’impossibilità di prendere atto alla gara) che appare

immediatamente lesivo dell’interesse sostanziale degli aspiranti.

14. (omissis)

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Corte di Giustizia, Santex, sentenza del 27 febbraio 2002 in C 327/2000;

La direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative,

regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione

degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992,

92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, deve essere

interpretata nel senso che essa - una volta accertato che un'autorità aggiudicatrice con il suo comportamento ha

reso impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico

comunitario a un cittadino dell'Unione leso da una decisione di tale autorità - impone ai giudici nazionali

competenti l'obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di diritto basati sull'incompatibilità del bando di gara con

il diritto comunitario, dedotti a sostegno di un'impugnazione proposta contro la detta decisione, ricorrendo, se

del caso, alla possibilità prevista dal diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza

delle quali, decorso il termine per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare una tale

incompatibilità.

(omissis)

Alla luce delle considerazioni che precedono, la prima questione va intesa come diretta a stabilire, in sostanza, se

la direttiva 89/665 debba essere interpretata nel senso che essa - una volta accertato che un'autorità

aggiudicatrice con il suo comportamento ha reso impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei

diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario a un cittadino dell'Unione leso da una decisione

di tale autorità - impone ai giudici nazionali competenti l'obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di

diritto basati sull'incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario, dedotti a sostegno di

un'impugnazione proposta contro la detta decisione, ricorrendo, se del caso, alla possibilità prevista dal

diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine

per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare una tale incompatibilità.

Per rispondere alla questione così riformulata, occorre rammentare che la Corte ha già avuto occasione di

pronunciarsi in via generale sulla compatibilità con la direttiva 89/665 di norme nazionali che prevedono termini

di decadenza per le impugnazioni avverso decisioni delle autorità aggiudicatrici di cui alla detta direttiva.

(omissis)

In particolare, la Corte ha constatato che, sebbene spetti all'ordinamento nazionale di ogni Stato membro

definire le modalità relative al termine di ricorso destinate ad assicurare la salvaguardia dei diritti

conferiti dal diritto comunitario ai candidati e agli offerenti lesi da decisioni delle amministrazioni

aggiudicatrici, tali modalità non devono mettere in pericolo l'effetto utile della direttiva 89/665, la quale

è intesa a garantire che le decisioni illegittime di tali amministrazioni aggiudicatrici possano essere

oggetto di un ricorso efficace e quanto più rapido possibile (sentenza Universale-Bau e a., cit., punti 71, 72

e 74).

È in tale contesto che la Corte ha rilevato che la fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza

risponde, in linea di principio, all'esigenza di effettività derivante dalla direttiva 89/665, in quanto costituisce

l'applicazione del principio della certezza del diritto (sentenza Universale-Bau e a., cit., punto 76).

Si deve pertanto verificare se il termine di decadenza di cui trattasi nella causa principale risponda alle esigenze

della direttiva 89/665, come elaborate dalla giurisprudenza ricordata ai punti 50-52 della presente sentenza.

A tale proposito occorre rilevare, da un lato, che il termine di decadenza di 60 giorni applicabile in materia di

appalti pubblici in forza dell'art. 36, n. 1, del regio decreto n. 1054/1924, come interpretato dal Consiglio di

Stato, risulta ragionevole sotto il profilo sia dell'obiettivo della direttiva 89/665 sia del principio della certezza del

diritto.

Dall'altro, occorre constatare che un tale termine, che decorre dalla data di notifica dell'atto o dalla data in cui

risulta che l'interessato ne ha avuto piena conoscenza, è conforme anche al principio d'effettività, in quanto non

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è idoneo, di per sé, a rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti

eventualmente riconosciuti all'interessato dal diritto comunitario.

Tuttavia, ai fini dell'applicazione del principio d'effettività, ciascun caso in cui si pone la questione se una norma

processuale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l'applicazione del diritto comunitario

dev'essere esaminato tenendo conto, in particolare, del ruolo di detta norma nell'insieme del procedimento,

nonché dello svolgimento e delle peculiarità di quest'ultimo (v. sentenza 14 dicembre 1995, causa C-312/93,

Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 14).

Pertanto, se un termine di decadenza come quello della causa principale non è, di per sé, contrario al principio di

effettività, non si può escludere che, nelle particolari circostanze della causa sottoposta al giudice a quo,

l'applicazione di tale termine possa comportare una violazione del detto principio.

In tale prospettiva, occorre prendere in considerazione il fatto che, nel caso di specie, sebbene la clausola

controversa sia stata portata a conoscenza degli interessati all'atto della pubblicazione del bando di gara, l'autorità

aggiudicatrice, con il suo comportamento, ha creato uno stato d'incertezza in ordine all'interpretazione da dare a

tale clausola e che questa incertezza è stata dissipata solo con l'adozione della decisione di esclusione.

Infatti, come risulta dalle informazioni fornite dal giudice a quo, l'USL all'inizio ha lasciato intendere che avrebbe

tenuto conto delle riserve espresse dalla Santex e che non avrebbe applicato nella fase dell'ammissione delle

offerte il requisito economico di cui alla clausola controversa. Soltanto con la decisione di esclusione, che ha

estromesso dalla procedura di gara tutti gli offerenti che non rispondevano al detto requisito, l'autorità

aggiudicatrice ha espresso la sua posizione definitiva sull'interpretazione della clausola controversa.

Si deve pertanto riconoscere che, nella fattispecie principale, l'offerente leso ha potuto conoscere l'effettiva

interpretazione della detta clausola del bando di gara da parte dell'autorità aggiudicatrice soltanto quando è stato

informato della decisione di esclusione. Orbene, tenuto conto del fatto che, a quel punto, il termine previsto per

l'impugnazione del detto bando era già scaduto, tale offerente è stato privato, per effetto delle norme di

decadenza, di qualsiasi possibilità di far valere in giudizio, nei confronti di successive decisioni arrecantigli

pregiudizio, l'incompatibilità di tale interpretazione con il diritto comunitario.

Nella fattispecie principale, si può affermare che il comportamento mutevole dell'autorità aggiudicatrice,

vista l'esistenza di un termine di decadenza, ha reso eccessivamente difficile per l'offerente leso

l'esercizio dei diritti conferitigli dall'ordinamento giuridico comunitario.

Poiché solamente il giudice a quo è competente a interpretare e applicare la normativa nazionale, spetta ad esso,

in circostanze quali quelle della causa principale, interpretare, per quanto possibile, le norme che prevedono tale

termine di decadenza in modo da garantire il rispetto del principio di effettività derivante dalla direttiva 89/665.

Come risulta dalla giurisprudenza della Corte, infatti, spetta al giudice nazionale conferire alla legge

nazionale che è chiamato ad applicare un'interpretazione per quanto possibile conforme ai precetti del

diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 5 ottobre 1994, causa C-165/91, Van Munster, Racc. pag. I-

4661, punto 34, e 26 settembre 2000, causa C-262/97, Engelbrecht, Racc. pag. I-7321, punto 39).

Se una tale applicazione conforme non è possibile, il giudice nazionale ha l'obbligo di applicare

integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, eventualmente

disapplicando ogni disposizione nazionale la cui applicazione, date le circostanze della fattispecie,

condurrebbe a un risultato contrario al diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 5 marzo 1998, causa

C-347/96, Solred, Racc. pag. I-937, punto 30, e Engelbrecht, cit., punto 40).

Ne consegue che, in circostanze quali quelle della causa principale, spetta al giudice a quo assicurare il

rispetto del principio di effettività derivante dalla direttiva 89/665, applicando il proprio diritto

nazionale in modo tale da consentire all'offerente leso da una decisione dell'autorità aggiudicatrice,

adottata in violazione del diritto comunitario, di conservare la possibilità di addurre motivi di diritto

inerenti a tale violazione a sostegno di impugnazioni avverso altre decisioni dell'autorità aggiudicatrice,

ricorrendo, se del caso, alla possibilità, derivante secondo il suddetto giudice dall'art. 5 della legge n.

2248/1865, di disapplicare le norme nazionali di decadenza che disciplinano tali impugnazioni.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la prima questione pregiudiziale dichiarando

che la direttiva 89/665 deve essere interpretata nel senso che essa - una volta accertato che un'autorità

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aggiudicatrice con il suo comportamento ha reso impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti

conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario a un cittadino dell'Unione leso da una decisione di tale autorità -

impone ai giudici nazionali competenti l'obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di diritto basati

sull'incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario, dedotti a sostegno di un'impugnazione

proposta contro la detta decisione, ricorrendo, se del caso, alla possibilità prevista dal diritto nazionale

di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine per impugnare il

bando di gara, non è più possibile invocare una tale incompatibilità.

(omissis)

2- I REGOLAMENTI AMMINISTRATIVI TRA DISAPPLICAZIONE,

INAPPLICABILITÀ E INVALIDAZIONE:

Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 154/1992;

Il contrasto tra norma legislativa e regolamentare si risolve sulla base del principio di sovraordinazione di una

fonte ad un’altra. Deve ritenersi, quindi, inapplicabile la disposizione regolamentare ove contrastante con

specifica norma di legge, pur in difetto di specifica doglianza di parte, essendo consentito al giudice sindacare

gli atti di normazione secondaria al fine di accertarne l’idoneità ad innovare l’ordinamento e, in concreto, a

fornire la regola di giudizio per risolvere la questione controversa.

Il contrasto tra norma legislativa e norma regolamentare di esecuzione che incida su diritti soggettivi di terzi,

comporta la disapplicazione della disposizione della fonte gradata.

(omissis) Dall’esame delle due disposizioni legislativa e regolamentare è evidente il contrasto tra le stesse. Anche se

ambedue adoperano il concetto di interruzione per specificare la sorte dei termini per l’esercizio del potere di

annullamento in seguito della richiesta di chiarimenti disposta dall’organo di controllo, la prima fa decorrere

«nuovamente» gli stessi dalla ricezione dei chiarimenti mentre la seconda comporta che, da quest’ultimo

momento, «i termini riprendono a scorrere per il tempo ancora mancante alla scadenza». In sostanza, si

verifica che una norma regolamentare di esecuzione della legge non solo si discosta dalla stessa (che,

peraltro, è conforme anche a quanto disposto in tema di controlli dell’art. 59, 2° e 3° comma, della legge statale

10 febbraio 1953, n. 62), ma introduce una norma del tutto contraria, stabilendo che, una volta ricevuti i

chiarimenti, il termine per l’esercizio del potere di annullamento non riprende il suo decorso ex novo

ma solo per quel numero di giorni mancante al 20°, contando il tempo già trascorso dal ricevimento

della deliberazione da controllare e sino al momento della richiesta di elementi integrativi.

3. Ciò premesso, e prima della risoluzione dell’esposto contrasto normativo, il Collegio ritiene che le

deliberazioni della Giunta della Provincia Autonoma di Trento, n. 569/6 – Comp. in data 11 luglio 1986 e n.

1216/4 – Comp. in data 7 agosto 1986 siano comunque illegittime per tardività, anche se si propendesse per la

tesi più favorevole all’appellante. (omissis)

4. Diverso discorso è invece a farsi per le deliberazioni della Giunta provinciale in data 27 giugno 1986, in quanto

queste risultano rese 14 giorni dopo la ricezione dei chiarimenti (avvenuta il 13 giugno precedente). Residuavano

però solo 5 giorni per l’esercizio del controllo in ossequio al disposto dell’art. 53 D.P.G.R. n. 12/L del 1984,

detraendo i 15 giorni già maturati tra il ricevimento degli atti deliberativi del Comprensorio (5 maggio 1986) e le

richieste istruttorie (20 maggio successivo). Nel conflitto tra due norme di rango diverso il Collegio non può

che dare preminenza a quella legislativa, di livello superiore rispetto a quello regolamentare. Questo in

applicazione degli artt. 1, 3 e 4 delle disposizioni preliminari al codice civile e in ossequio ai principi generali sulla

gerarchia delle fonti per i quali non è consentito ad un regolamento di esecuzione dettare disposizioni in

contrasto con quelle, di carattere superiore e prevalente, contenute per la stessa materia in un provvedimento

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legislativo, a meno che in questo non vi sia un’espressa previsione di deroga. Inerisce al rapporto di

sovraordinazione di una fonte ad un’altra l’idoneità dell’atto maggiore a determinare l’abrogazione delle

norme di minor forza (oltre che di quelle di pari rango) che racchiudono precetti incompatibili. Per

converso, ogni ordinamento non può non prevedere altresì un meccanismo invalidante delle norme di grado

inferiore che sopraggiungano e urtino contro precetti poziori dell’ordinamento medesimo. Per l’atto avente

forza di legge il meccanismo, nel nostro ordinamento, è dato dall’invalidazione a seguito di pronuncia

di incostituzionalità. Per l’atto normativo emanato dalla pubblica amministrazione il meccanismo è

rappresentato, innanzi al giudice civile e penale, dalla disapplicazione dell’atto stesso, anche se le parti

non controvertono sul punto. Ma se si tratta di un atto di normazione secondaria, e se quindi per esso possano

valere criteri analoghi a quelli recepiti in qualunque caso di concorso di norme, fra loro contrastanti pur se idonee

in astratto a regolare la medesima fattispecie, deve proporsi identica soluzione ove quell’atto (di normazione

secondaria) sia in conflitto con un atto di normazione primaria e non sia oggetto di impugnazione innanzi al

giudice amministrativo. Ne consegue che, qualora la norma primaria preesista all’atto amministrativo a

contenuto normativo, questo deve essere considerato non idoneo, a causa della maggiore forza della

norma primaria, ad innovare sulle statuizioni da essa recate. Anche nei giudizi amministrativi, quindi, l’atto

regolamentare sarà inapplicabile, come qualsiasi atto legislativo altrettanto inidoneo a regolare la fattispecie.

In tal modo – senza violare i principi che informano il processo amministrativo e sulla falsa riga di quanto

avviene per gli atti di normazione primaria per mezzo del sindacato di costituzionalità – al giudice

amministrativo è consentito, anche in mancanza di richiesta delle parti, sindacare gli atti di normazione

secondaria al fi ne di stabilire se essi abbiano attitudine, in generale, ad innovare l’ordinamento e, in

concreto, a fornire la regola di giudizio per risolvere la questione controversa. Va rilevato, inoltre, che la

disposizione regolamentare di cui trattasi incide direttamente su di un diritto soggettivo di una persona giuridica

di diritto pubblico; tale diritto costituisce manifestazione di quella particolare posizione di supremazia nei

confronti della rispettiva comunità locale e del corrispondente territorio propria in via generale degli enti

territoriali a carattere locale ai quali l’art. 5 della Costituzione riconosce ampia autonomia. In sostanza, il potere di

controllo della Giunta provinciale, così come conferito e definito dalla legge (D.P.G.R. n. 6/L del 1984)

rappresenta una posizione di supremazia riconosciuta, nella rispettiva sfera di attribuzioni, all’Ente Provincia in

tal modo qualificato all’esercizio di potestà amministrative, e costituisce un diritto soggettivo (a carattere

costituzionale). Ne consegue che la disapplicazione di una norma regolamentare (emanata dalla Regione),

la quale ha in qualche modo limitato – anche se temporalmente – l’esercizio del detto potere di controllo

della Provincia in contrasto con la legge attributiva dello stesso, e resa possibile dal fatto che ci si trova

in presenza di un diritto soggettivo perfetto, non essendo consentito al giudice amministrativo

disapplicare soltanto atti amministrativi autoritativi, in applicazione della regola del giudizio di

impugnazione, con tutte le decadenze conseguenti, connesse a situazione di interesse legittimo. Ma nel

caso de quo si è in presenza di un rapporto paritetico (tra Regione e Provincia) e di diritti soggettivi il cui

contenuto è completamente riconducibile ad una norma di legge.

5. (omissis)

3- LA CONTROVERSA NATURA GIURIDICA DELL’ACCESSO: Consiglio di

Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 16 del 1999;

L’Adunanza Plenaria pronunciandosi sulla questione inerente alla ammissibilità del ricorso proposto ai sensi

dell’art. 25 della legge n. 241 del 1990 e non notificato all’unico controinteressato aderisce all’orientamento

secondo cui è inammissibile il ricorso non notificato ad almeno un controinteressato ed è inammissibile il

ricorso contro un diniego di accesso meramente confermativo di un precedente espresso diniego. Ed infatti, va

considerato atecnico il riferimento al “diritto”, poiché la pretesa (cui non è correlativo un obbligo o un

comportamento dovuto) non è esercitabile senz’altro nei confronti dell’Amministrazione o del gestore del

pubblico servizio: la sua fondatezza va verificata di volta in volta dapprima in sede amministrativa e poi, nel

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caso di tempestiva impugnazione della determinazione in sede giurisdizionale, esaminando l’eventuale

preminenza delle ragioni di chi abbia chiesto l’accesso, rispetto a quelle riscontrate nel diniego o alle esigenze di

riservatezza del terzo cui si riferiscono i documenti.

(omissis)

La Sesta Sezione, con l’ordinanza n. 332 del 1999, ha rimesso l’appello all’esame dell’Adunanza Plenaria,

rilevando un contrasto di giurisprudenza sulle seguenti questioni:

a) se sia ammissibile il ricorso proposto ai sensi dell’art. 25 della legge n. 241 del 1990 e che non sia

stato

notificato al controinteressato, ovvero se vada ordinata l’integrazione del contraddittorio ai sensi

dell’art. 102 del codice di procedura civile.

b) se possa esercitarsi il diritto d’accesso nei confronti dell’attività privatistica della pubblica

amministrazione e

del concessionario di un pubblico servizio.

(omissis)

2.1. Tale censura è fondata e va accolta.

Per la pacifica giurisprudenza di questo Consiglio, vanno considerati come controinteressati i soggetti

determinati cui si riferiscono i documenti richiesti con la domanda di accesso (Sez. V, 2 dicembre 1998, n. 1725;

Sez. VI, 8 luglio 1997, n. 1117; Sez. IV, 11 giugno 1997, n. 643; Sez. VI, 5 ottobre 1995, n. 1085; Sez. VI, 20

maggio 1995, n. 506; Sez. VI, 6 febbraio 1995, n. 71; Sez. IV, 15 settembre 1994, n. 713; Sez. IV, 7 marzo 1994,

n. 216).

(omissis)

Tale principio si applica altresì quando (come è avvenuto col ricorso di primo grado) si impugni un rifiuto di

accesso a documenti riguardanti un soggetto determinato: la posizione formale di controinteressato sussiste

anche quando col ricorso sia censurata l’inerzia dell’Amministrazione nell’adottare un provvedimento dal

contenuto sfavorevole per un terzo (Sez. V, 26 novembre 1994, n. 1381; Sez. IV, 26 novembre 1993, n. 1036) e,

a maggior ragione, qualora in sede giurisdizionale sia chiesto al giudice amministrativo di ordinare direttamente

l’esibizione di documenti, in luogo dell’Amministrazione (o del concessionario di un pubblico servizio) che non

abbia provveduto sull’originaria istanza (Sez. IV, 15 settembre 1994, n. 713).

Chi ricorre al giudice amministrativo per accedere a documenti amministrativi, che coinvolgano

aspetti di

riservatezza di un altro soggetto, deve notificargli il ricorso, ai sensi dell’art. 21, primo comma, della

legge n. 1034 del 1971.

2.2. (omissis)

3. Ciò premesso, l’Adunanza Plenaria deve pronunciarsi sulla questione se sia o meno ammissibile il

ricorso proposto ai sensi dell’art. 25 della legge n. 241 del 1990 e non notificato all’unico

controinteressato.

3.1. Come ha evidenziato l’ordinanza di rimessione, sul punto vi sono due orientamenti giurisprudenziali.

Per il primo, il giudizio proposto contro il diniego di accesso alla documentazione ha natura

impugnatoria,

sicché è inammissibile il ricorso non notificato ad almeno un controinteressato (cfr. Sez. V, 2 dicembre

1998, n. 1725, che ha ritenuto che il diniego di accesso incide su un interesse legittimo; Sez. IV, 6 febbraio 1995,

n. 71; Sez. IV, 15 settembre 1994, n. 713; Sez. IV, 7 marzo 1994, n. 216) ed è inammissibile il ricorso contro

un diniego di accesso meramente confermativo di un precedente espresso diniego (Sez. V, 17 dicembre

1997, n. 1537).

Per il secondo, il diritto di accesso va qualificato come un diritto in senso tecnico, sicché il ricorso

proposto per la sua tutela va inteso non come impugnativa di un provvedimento amministrativo, ma

come diretto all’accertamento del diritto ed alla condanna del soggetto obbligato ad esibire i documenti

richiesti (cfr. Sez. IV, 16 aprile 1998, n. 641; Sez. IV, 20 febbraio 1995, n. 108; Sez. IV, 20 settembre 1994, n.

758; Sez. IV, 30 luglio 1994): pertanto, può trovare applicazione l’art. 102 del codice di procedura civile, che

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disciplina l’istituto del litisconsorzio necessario, configurabile quando il rapporto controverso è comune a più

parti e necessita di una pronuncia inscindibile (Sez. IV, 9 luglio 1998, n. 1079; Sez. IV, 11 giugno 1997, n. 643),

ed è impugnabile un diniego di accesso meramente confermativo di un diniego precedente (Sez. IV, 22 gennaio

1999, n. 56).

L’ordinanza di rimessione ha rilevato che potrebbe ritenersi preferibile quest’ultimo orientamento, poiché in

materia vi sarebbe una controversia su diritti soggettivi contrapposti (diritto di acce sso del richiedente e diritto

alla riservatezza del contraddittore necessario)

3.2. Ritiene l’Adunanza Plenaria che vada fatta applicazione del principio per cui il giudizio previsto dall’art. 25

della legge n. 241 del 1990 (salve le deroghe da esso espressamente previste) è sottoposto alla generale disciplina

del processo amministrativo (cfr. Sez. VI, 16 dicembre 1998, n. 1683; Sez. VI, 8 luglio 1998, n. 1051; Sez. VI, 10

febbraio 1996, n. 184).

Tra i principi generali del processo amministrativo, vi è quello sancito dall’art. 21, primo comma, della legge 6

dicembre 1971, n. 1034 (per il quale “il ricorso deve essere notificato tanto all’organo che ha emanato l’atto

impugnato quanto ai controinteressati ai quali l’atto direttamente si riferisce, o almeno uno tra essi”).

Tale regola (tipica del processo di impugnazione di provvedimenti autoritativi, di per s é idonei a divenire

inoppugnabili se non impugnati tempestivamente e incidenti su interessi legittimi) è coerente col giudizio

sull’accesso e con la posizione giuridica fatta valere col ricorso ex art. 25 della legge n. 241 del 1990.

Il legislatore, pur avendo qualificato come “diritto” la posizione di chi ha titolo ad accedere ai

documenti (articoli da 22 a 25 della legge n. 241 del 1990), in considerazione degli interessi pubblici

coinvolti ha disposto all’art. 25, comma 5, un termine perentorio entro il quale è proponibile il ricorso

“contro le determinazioni amministrative concernenti il diritto di accesso”.

In tal modo, il legislatore:

- in un’ottica di controllo democratico dell’attività della pubblica Amministrazione e dei concessionari dei

servizi pubblici, ha enfaticamente rimarcato il fondamento costituzionale e la notevole dignità sostanziale della

posizione di chi formula l’istanza di accesso (il più delle volte riferibile a una posizione direttamente tutelabile ai

sensi dell’articolo 24 della Costituzione, oppure riconducibile all’esigenza di essere informati sul contenuto dei

documenti e sugli aspetti attinenti alla legalità, alla trasparenza ed all’imparzialità dell’azione amministrativa, in

attuazione dei valori espressi dagli articoli 21 e 97 della Costituzione);

- ha tenuto in considerazione tutti gli interessi in conflitto (del richiedente, dell ’amministrazione o del

concessionario pubblico che detiene gli atti, dell’eventuale terzo cui gli atti richiesti si riferiscono);

- ha disposto che sull’istanza di accesso debba provvedersi con un atto motivato (art. 25, comma 3), idoneo a

determinare uno stabile assetto degli interessi coinvolti con l’istanza, modificabile in sede giurisdizionale solo nel

caso di tempestiva impugnazione innanzi al tribunale amministrativo regionale entro il termine perentorio di

trenta giorni (art. 25, comma 5).

La tutela del diritto di accesso è stata così riferita all’impugnazione di un provvedimento autoritativo (o

dell’inerzia) dell’Amministrazione (cui l’art. 23 della legge n. 241 del 1990 ha equiparato, anche ai fini processuali,

la determinazione del gestore di un pubblico servizio: cfr. Ad. Plen., 22 aprile 1999, n. 4 e 5; Sez. V, 20 dicembre

1996, n. 1577).

3.3. Il termine “diritto”, più volte adoperato nel suo senso più generico dal legislatore nei richiamati articoli

da 22 a 25, va interpretato alla luce della norma che prescrive il termine perentorio per la proposizione del

ricorso, nonché delle regole generali del processo amministrativo di legittimità, compatibili con il rito speciale

previsto dall’articolo 25.

Sussiste una notevole similitudine tra i principi riguardanti altri settori del diritto amministrativo (e delle

correlative regole processuali) e quelli concernenti la tutela del diritto d’accesso: chi aspira a concludere un

contratto di appalto con la pubblica amministrazione o ad essere proclamato eletto in una competizione

elettorale (anche al Parlamento europeo: art. 42 della legge 24 gennaio 1979, n. 18) ne ha “diritto” secondo il

linguaggio comune, ma sul piano giuridico può impugnare innanzi al giudi ce amministrativo, entro il prescritto

termine di decadenza, il provvedimento concretamente lesivo che abbia disconosciuto tale posizione, da

qualificare come interesse legittimo.

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Più in generale (e tranne i casi in cui una legge compatibile con la Costituzione determini la giurisdizione

ordinaria), è ravvisabile la posizione di interesse legittimo, tutelata dall ’art. 103 della Costituzione, quando un

provvedimento amministrativo è impugnabile come di regola entro un termine perentorio, pure se esso incide su

posizioni che, nel linguaggio comune, sono più spesso definite come di “diritto”.

(omissis)

In tutti tali settori (in cui le leggi attribuiscono all’Amministrazione il potere di natura pubblicistica di valutare

tutti gli interessi coinvolti e di incidere unilateralmente col provvedimento autoritativo sull ’altrui sfera giuridica),

la posizione del soggetto leso dall’atto è presa in considerazione dalle specifiche norme costituzionali che

regolano i settori, è qualificata come interesse legittimo (v. articoli 24, 103 e 113 della Costituzione) ed è

pienamente tutelata in sede giurisdizionale con un giudizio di impugnazione del provvedimento lesivo, nel corso

del quale può verificarsi se l’atto sia affetto non solo da vizi formali, ma anche da profili di eccesso di potere.

Come per la tutela del diritto di accesso, le normative riferibili ai richiamati settori mirano al soddisfacimento

dell’interesse individuale, nell’ambito del contestuale e coessenziale soddisfacimento dell’interesse pubblico

3.4. Neppure può ritenersi (come ha ipotizzato l’ordinanza di rimessione) che in materia di accesso siano

ravvisabili controversie su “diritti soggettivi contrapposti”, quali il diritto di accesso del richiedente e il diritto alla

riservatezza del contraddittore necessario.

Come in materia di accesso, quando l’Amministrazione emana provvedimenti che incidono su più soggetti, con

effetti favorevoli per alcuni e sfavorevoli per altri (come nel caso di rilascio di una concessione di un bene

pubblico o di aggiudicazione di un appalto o di nomina al pubblico impiego, in favore di un soggetto in luogo di

un altro), non sono riscontrabili “diritti” contrapposti, ma “interessi legittimi” contrapposti: l’interesse del

soggetto leso dall’atto giustifica il ricorso giurisdizionale e la sua legittimazione, mentre l’interesse del soggetto

non leso dall’atto, ma che lo sarebbe nel caso di accoglimento del ricorso, comporta la sussistenza di un

controinteressato in senso tecnico.

Del resto, la posizione di diritto o di interesse va determinata tenendo conto della incidenza che ha il

provvedimento lesivo, e non comparando le contrapposte posizioni dei soggetti che, rispettivamente, siano lesi o

favoriti dall’atto medesimo. Inoltre, nella materia dell’accesso le controversie vanno decise tenendo conto delle

varie posizioni coinvolte e sulla base di giudizi di prevalenza (cfr. Ad. Plen., 28 aprile 1999, n. 6; 22 aprile 1999,

nn. 4 e 5; 4 febbraio 1997, n. 5).

Va quindi considerato atecnico il riferimento al “diritto”, poiché la pretesa (cui non è correlativo un

obbligo o un comportamento dovuto) non è esercitabile senz’altro nei confronti dell’Amministrazione o del

gestore del pubblico servizio: la sua fondatezza va verificata di volta in volta dapprima in sede amministrativa e

poi, nel caso di tempestiva impugnazione della determinazione in sede giurisdizionale, esaminando l’eventuale

preminenza delle ragioni di chi abbia chiesto l’accesso, rispetto a quelle riscontrate nel diniego o alle esigenze di

riservatezza del terzo cui si riferiscono i documenti.

3.4. Quanto precede comporta che:

- va considerata come controinteressata la società Ni.Vi. Credit, quale soggetto determinato cui si riferiscono i

documenti richiesti con la domanda di accesso;

- il ricorso previsto dall’articolo 25, comma 5, della legge n. 241 del 1990 andava notificato alla medesima

società, ai sensi dell’art. 21, primo comma, della legge n. 1034 del 1971;

- va annullata la sentenza di primo grado, che ha accolto l’originario ricorso ed ha ordinato l’esibizione dei

documenti.

4. (omissis)

4- ACCESSO E RISERVATEZZA: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 5 del

1997;

Ritiene l’Adunanza plenaria che l'accesso, qualora venga in rilievo per la cura o la difesa di propri interessi

giuridici, debba prevalere rispetto all'esigenza di riservatezza del terzo.

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Non sembra esservi dubbio che nel conflitto tra accesso e riservatezza dei terzi la normativa statale abbia dato

prevalenza al primo, allorché sia necessario per curare o difendere i propri interessi giuridici.

Sia la norma primaria (art. 24 secondo comma lett. d) L. n. 241 del 1990) sia la norma regolamentare (art.

8 quinto comma, lett. d) D.P.R. n. 352 del 1992) hanno cercato di contemperare esigenze diverse, stabilendo

che i richiedenti, di fronte a documenti che riguardano la vita privata o la riservatezza di altri soggetti, non

possono ottenere copia dei documenti, né trascriverli, ma possono solo prendere visione degli « atti » di quei

procedimenti amministrativi che sono relativi ai loro interessi.

Si deve, pertanto, concludere che l'interesse alla riservatezza, tutelato dalla normativa mediante una

limitazione del diritto di accesso, recede quando l'accesso stesso sia esercitato per la difesa di un interesse

giuridico, nei limiti ovviamente in cui esso è necessario alla difesa di quell'interesse

(omissis)

- 1. La L. 7 agosto 1990 n. 241, nel disciplinare i rapporti fra cittadino e Pubblica amministrazione, delinea un

ordinamento ispirato, da un lato, all'esigenza di un'azione amministrativa celere ed efficiente (art. 1), e dall'altro,

ai principi di partecipazione dell'amministrato e di conoscibilità del concreto svolgimento della funzione

pubblica. Ciò, al fine di assicurare, attraverso la salvaguardia del valore della « trasparenza », l'efficienza

dell'Amministrazione e, al contempo, la garanzia del privato e la « legalità » dell'ordinamento nel suo insieme.

Il diritto di accesso ai documenti amministrativi è, infatti, riconosciuto (art. 22 della L. n. 241) al fine « di

assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale ».

Il diritto di conoscibilità degli atti e documenti amministrativi, inquadrati nel contesto più generale delle

disposizioni contenute nella legge n. 241 - le quali delineano istituti (diritto di accesso, moduli di amministrazione

per accordi, partecipazione procedimentale) e modalità dell'azione e dell'organizzazione amministrative

(motivazione, certezza dei tempi e responsa bile del procedimento, predeterminazione dei criteri per ausili

economici) preordinate alla configurazione di un nuovo modello di organizzazione amministrativa e di rapporti

di questa con il cittadino - mira ad assicurare la circolazione delle informazioni tra Pubbliche amministrazioni e,

soprattutto, tra Amministrazione e cittadino.

Il riconoscimento legislativo nel nostro ordinamento del principio di pubblicità dei documenti

amministrativi segna un totale cambiamento di prospettiva, perché comporta che se finora il segreto

era la regola e la pubblicità l'eccezione, ora è vero il contrario.

Di fronte all'esercizio del diritto di accesso, è la Pubblica amministrazione che deve giustificare il proprio rifiuto

all'accesso, motivandolo con la necessità di proteggere mediante il segreto uno o più degli interessi previsti

dal legislatore.

L'esigenza di motivazione del segreto fondata sul rapporto fra determinate informazioni (che

l'Amministrazione ritiene debbano essere segrete) e determinati interessi (che il legislatore ha previsto debbano

essere protetti) indica il passaggio anche nel nostro ordinamento da una concezione soggettiva e «

personale » del segreto amministrativo ad una concezione oggettiva e « reale », più consona ad

un'Amministrazione moderna.

Il segreto amministrativo, cioè, non è più rapportato alla « qualità » della persona che lo detiene, bensì alla «

qualità » delle informazioni protette dal segreto; nel segreto di nuovo tipo ciò che rileva è la « qualità » delle

informazioni, cioè il loro rapporto con determinati interessi, non la « qualità » del soggetto che le detiene, prevale

in sostanza l'elemento oggettivo e « reale » costituito dalle informazioni oggetto del segreto e quindi,

indirettamente, dagli interessi che ne formano il vero contenuto.

Al rispetto di tale nuovo principio, in base al quale la regola generale è l'accesso e le ipotesi in cui i

documenti possono essere sottratti all'accesso sono soltanto eccezioni, è informato anche l'art. 8 del

regolamento per la disciplina delle modalità di esercizio e dei casi di esclusione del diritto di accesso ai

documenti amministrativi, approvato con D.P.R. 27 giugno 1992 n. 352 in attuazione dell'art. 24

secondo comma della L. 7 agosto 1990 n. 241.

La norma, che è intitolata alla « disciplina dei casi di esclusione » all'accesso, (omissis)

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L'ultimo inciso della lett. d) stabilisce, però, che « deve comunque essere garantita ai richiedenti la visione degli

atti dei procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro stessi

interessi giuridici ».

2. Alla stregua di tale ultima disposizione, che ribadisce quanto già stabilito alla lett. d) del secondo comma

dell'art. 24 della L. n. 241 del 1990, ritiene questa Adunanza plenaria che il quesito sottoposto dall'ordinanza di

rimessione deve essere risolto nel senso che l'accesso, qualora venga in rilievo per la cura o la difesa di

propri interessi giuridici, debba prevalere rispetto all'esigenza di riservatezza del terzo.

Anche se la norma non prevede che i documenti arrechino o possano arrecare un pregiudizio ovvero dalla loro

conoscenza possa derivare una lesione specifica ed individuata, e ritiene sufficiente, ai fini di escluderne la

conoscibilità, che questi documenti « riguardino », si riferiscano, in senso ampio, alla vita privata o alla

riservatezza, non sembra esservi dubbio che nel conflitto tra accesso e riservatezza dei terzi la normativa

statale abbia dato prevalenza al primo, allorché sia necessario per curare o difendere i propri interessi

giuridici.

Sia la norma primaria (art. 24 secondo comma lett. d) L. n. 241 del 1990) sia la norma regolamentare (art. 8

quinto comma, lett. d) D.P.R. n. 352 del 1992) hanno cercato di contemperare esigenze diverse, stabilendo che i

richiedenti, di fronte a documenti che riguardano la vita privata o la riservatezza di altri soggetti, non possono

ottenere copia dei documenti, né trascriverli, ma possono solo prendere visione degli « atti » di quei procedimenti

amministrativi che sono relativi ai loro interessi.

Si deve, pertanto, concludere che l'interesse alla riservatezza, tutelato dalla normativa mediante una

limitazione del diritto di accesso, recede quando l'accesso stesso sia esercitato per la difesa di un

interesse giuridico, nei limiti ovviamente in cui esso è necessario alla difesa di quell'interesse.

(omissis)

5- L’ACCESSO ALL’ATTIVITÀ DI DIRITTO PRIVATO: UN EQUILIBRIO

DELICATO

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 4 del 1999;

Il diritto di accesso agli atti e ai documenti trova applicazione nei confronti di ogni tipologia di attività della

pubblica amministrazione, compresi gli atti di diritto privato, poiché ogni attività dell'amministrazione è

vincolata all'interesse collettivo; possono essere esclusi soltanto i casi previsti tassativamente dalla legge.

Per i concessionari di servizio pubblico la trasparenza degli atti deve prevalere sulla natura giuridica

privatistica, nei casi in cui l'attività sia direttamente inerente all'erogazione del servizio e alla sua

organizzazione e gestione. Per l'attività residuale è necessario svolgere un giudizio di bilanciamento secondo

criteri prefissati. Non si può, dunque, negare l'accesso agli atti riguar-danti la sua attività di diritto privato

solo in ragione della loro natura privatistica.

(omissis)

Nel presente giudizio, è controverso se gli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, si

applichino quando un dipendente della s.p.a. Ferrovie dello Stato chieda alla società di accedere agli

atti di un procedimento concorsuale, cui abbia partecipato per ottenere il passaggio ad un profilo

superiore. (omissis)

La sesta sezione ha richiamato i contrapposti orientamenti giurisprudenziali che si sono formati sulla questione

se possa esercitarsi il diritto d'accesso nei confronti dell'attività privatistica della pubblica

amministrazione ed ha manifestato la propria adesione al c.d. orientamento restrittivo. Peraltro, con-

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siderato l'evidente carattere di massima della questione, la sesta sezione ha ritenuto opportuno deferire la

soluzione della controversia all'Adunanza plenaria, per una composizione dei vari orientamenti delle Sezioni e,

"ove dovesse prevalere la tesi dell'interpretazione estensiva", affinché "vengano adeguatamente

precisati i limiti oltre i quali la disciplina sull'accesso non può spingersi in tema di attività privatistica".

2. Ritiene l'Adunanza plenaria che, potendosi seguire l'impostazione dell'ordinanza di rimessione, vada dapprima

esaminato l'ambito di applicabilità nei confronti della pubblica amministrazione degli articoli 22 e

seguenti della l. n. 241/1990 e vadano poi verificati i limiti entro i quali l'accesso possa aver luogo nei

confronti dell'attività dei concessionari dei pubblici servizi.

3. Per quanto riguarda l'accesso agli atti di diritto privato della pubblica amministrazione, si sono formati vari

orientamenti.

3.1. Per quello definito "restrittivo" dall'ordinanza di rimessione, in linea di principio va escluso l'accesso,

sulla base delle seguenti considerazioni:

gli obiettivi del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione sarebbero perseguibili

solo quando essa "si presenti come autorità", e non anche quando "agisca con il diritto dei privati, senza godere

di potestà particolari o di posizioni di supremazia";

non sarebbe "giustificabile alcuna intrusione" quando l'ente agisca con il diritto dei privati,

poiché "il diritto di accesso rappresenta una sorta di contrappeso in favore dell'amministrato nei

confronti di una posizione del soggetto pubblico o assimilato che si trovi in una condizione di potestà

ed eserciti strumenti pubblicistici" (omissis)

3.2. L'opposto orientamento è stato seguito dalle decisioni per le quali anche l'attività di diritto privato

"costituisce cura concreta di interessi della collettività non meno dell'attività di diritto amministrativo",

non potendosi "discriminare l'attuazione della trasparenza e dell'imparzialità in base al criterio formale

del regime giuridico dell'attività delle pubbliche amministrazioni" (sez. IV, 17 giugno 1997, n. 649; sez.

VI, 3 giugno 1997, n. 843; sez. IV, 4 febbraio 1997, n. 82, rispettivamente riguardanti l'attività dei Ministero delle

Finanze, dell'Inail e del Ministero dei tesoro).

Si è al riguardo precisato che "l'accesso agli atti di diritto privato posti in essere da un soggetto pubblico

o da un concessionario di pubblici servizi è ammissibile allorché detti atti accedano ad un'attività che,

indipendentemente dal regime giuridico formale, costituisca, nella sua essenza, cura concreta di

interessi della collettività" (sez. VI, 14 aprile 1998, n. 484).

3.3. Per un orientamento intermedio, l'accesso agli atti di diritto privato delle pubbliche amministrazioni (e

degli enti pubblici economici) va ammesso, tranne quando si tratti "di attività esclusivamente privatistica

e del tutto disancorata dall'interesse pubblico di settore istituzionalmente rimesso alle cure

dell'apparato amministrativo" (sez. IV. 15 gennaio 1998, n. 14, che ha ammesso l'accesso agli atti della Sace,

riguardanti una pratica di indennizzo in relazione ad un contratto da eseguire all'estero per la costruzione di un

tronco stradale).

4. Ritiene l'Adunanza plenaria che l'istituto dell'accesso trovi applicazione nei confronti di ogni

tipologia di attività della pubblica amministrazione.

4.1. L'art. 22, l. n. 241/1990 ha disciplinato il "diritto di accesso ai documenti amministrativi", "al fine di

assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale", e ha dato

attuazione all'art. 97 della Costituzione, per il quale la legge assicura "il buon andamento e l'imparzialità

dell'amministrazione".

Tali principi costituiscono i valori essenziali di riferimento di ogni comportamento dell'amministrazione. Le

esigenze del buon andamento e della imparzialità "dell'amministrazione" (come disciplinate dall'art. 97

della Costituzione) riguardano allo stesso modo l'attività volta all'emanazione dei provvedimenti e quella

con cui sorgono o sono gestiti i rapporti giuridici disciplinati dal diritto privato.

Ogni attività dell'amministrazione, anche quando le leggi amministrative consentono l'utilizzazione di

istituti del diritto privato, è vincolata all'interesse collettivo, in quanto deve tendere alla sua cura

concreta, mediante atti e comportamenti comunque finalizzati al perseguimento dell'interesse

generale.

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L'attività amministrativa è quindi configurabile non solo quando l'amministrazione eserciti pubbliche

funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa (nei limiti consentiti dall'ordinamento) persegua le

proprie finalità istituzionali mediante una attività sottoposta, in tutto o in parte, alla disciplina prevista

per i rapporti tra i soggetti privati (anche quando gestisca un servizio pubblico o amministri il proprio

patrimonio o il proprio personale).

4.2. In attuazione del principio costituzionale per cui l'attività amministrativa nel suo complesso deve essere

trasparente e controllabile, l'art. 22, l. n. 241/1990 (nonché l'art. 1 ss., d.lgs. 24 febbraio 1997, n. 39, attuativo

della direttiva comunitaria n. 313/1990 in materia di ambiente) non ha attribuito decisivo rilievo alla natura

pubblicistica o privatistica degli atti nei cui confronti si chieda l'accesso e non ha indicato una particolare

tipologia di atti dell'amministrazione nei cui confronti l'accesso sia radicalmente precluso.

Mediante la disciplina sull'accesso, il legislatore:

- ha permesso una più diffusa conoscenza dei processi decisionali (agevolando il concreto perseguimento dei

valori dell'imparzialità e del buon andamento);

- ha favorito la partecipazione ed il controllo degli amministrati sui comportamenti dei soggetti che agiscono per

l'amministrazione, che sono pertanto stimolati a comportarsi responsabilmente, con attenzione, diligenza e

correttezza e sulla base di parametri di legalità, con il conseguente svolgimento di un'attività controllabile e,

pertanto, qualitativamente migliore;

- ha introdotto un istituto che può anche avere un effetto deflattivo dei giudizi, poiché la conoscenza dei

documenti rilevanti, "o corroborando la legittimità degli atti amministrativi o comunque ingenerando il

convincimento dell'inopportunità dell'impugnazione, può dissuadere dall'azione giurisdizionale" (sez. V, 18

dicembre 1997, n. 1591; sez. IV, 6 marzo 1995, n. 158).

Né la ratio né il testo dell'art. 22, l. n. 241/1990 consentono di affermare che l'accesso vada escluso per

gli atti dell'amministrazione disciplinati dal diritto privato:

- tali atti rientrano nell'attività di amministrazione in senso stretto degli interessi della collettività;

- la legge non ha introdotto alcuna deroga alla generale operatività dei principi della trasparenza e dell'imparzialità

e non ha garantito alcuna "zona franca" nei confronti dell'attività disciplinata dal diritto privato.

L'accesso, quindi, va escluso nei soli casi espressamente previsti dalla legge (cfr. l'art. 24, l. n.

241/1990 e l'art. 8, d.P.R. n. 352/1992, l'art. 4, d.lgs. n. 39/1997), ma non per il solo fatto che sia rivolto

verso gli atti che, tenuto conto delle leggi amministrative di settore, sono disciplinati dal diritto privato.

4.3. Il legislatore, nel sancire che l'accesso possa avere luogo anche nei confronti degli atti dell'amministrazione

disciplinati dal diritto privato, ha determinato una regola coerente con le più recenti tendenze volte a ridurre il

tradizionale rilievo della distinzione tra gli atti amministrativi autoritativi e quelli di diritto privato della pubblica

amministrazione.

(omissis)

5. Occorre a questo punto esaminare l'ambito di applicazione dell'art. 23, l. n. 241/1990 e l'art. 2, c. 1, lett.

b), d.lgs. n. 39/1997, per i quali l'accesso si esercita anche nei confronti degli "enti pubblici" e dei

"concessionari di pubblici servizi".

5.1. Dal punto di vista soggettivo, nell'ambito dei "concessionari di pubblici servizi" vanno annoverati

tutti i soggetti, comunque denominati, che gestiscono un servizio pubblico (come inteso dall'art. 33, d.lgs.

n. 80/1998), sulla base di un titolo giuridico, sia esso la legge o un atto anche non avente il nomen di concessione

(ad esempio per conto del Servizio sanitario nazionale: sez. un., 12 luglio 1995, n. 7641; 27 aprile 1995, n. 4679;

24 novembre 1994, n. 997 1; 9 ottobre 1990, n. 9923).

L'imprenditore privato, quando svolge in base a tale titolo il servizio pubblico, è assoggettato dall'art. 23, l. n.

241/1990 ad un regime sostanziale particolare (che incide anche sulla sua organizzazione interna), perché è

tenuto a soddisfare gli interessi pubblici e a far esercitare l'accesso (nei limiti consentiti dalla stessa legge e dal

regolamento di cui al d.P.R. 27 giugno 1992, n. 352, ovvero, in materia di ambiente, dalla direttiva comunitaria n.

313/1990 e dal d.lgs. n. 39/1997).

5.2. Dal punto di vista oggettivo dell'attività svolta dal gestore, il legislatore (in coerenza con la tendenza che non

attribuisce rilievo decisivo alla natura del soggetto che cura gli interessi collettivi) ha disposto che le esigenze di

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trasparenza dell'attività amministrativa e del suo svolgimento imparziale concernano anche le attività di natura

tipicamente negoziale e materiale (svolte in regime pubblicistico nei soli casi previsti dalla legge) con cui si

gestisce un servizio pubblico e si entra in contatto con gli utenti.

Il richiamo agli enti pubblici, anche economici, ed ai concessionari di pubblici servizi evidenzia che in linea di

principio la legge consente l'accesso alle loro attività di interesse pubblico, anche se sottoposte in tutto o in parte

alla disciplina sostanziale del diritto privato: gli interessi collettivi meritano una identica tutela quando è gestito un

servizio pubblico, poco importando sotto tale aspetto se esso sia svolto da un soggetto pubblico o da un privato

in regime di mercato e concorrenza o di esclusiva (il che fa risultare al pubblico un vero e proprio alter ego

dell'amministrazione).

Anche l'attività degli enti pubblici economici e dei gestori di pubblici servizi, quando si manifesta nella

gestione di interessi pubblici, rientra quindi nell'ambito di applicazione dell'art. 97 della Costituzione (e

non dell'art. 41, sulla libertà dell'iniziativa economica): essa, pur se sottoposta di regola al diritto comune, è

svolta, oltre che nell'interesse proprio, anche per soddisfare quelli della collettività ed ha rilievo

pubblicistico, sicché si deve attenere ai principi della trasparenza e del buon andamento (le cui violazioni

possono anche indurre l'amministrazione, o le autorità indipendenti, a esercitare i propri poteri di autotutela, di

vigilanza e di controllo).

In primo luogo, l'accesso previsto dall'art. 23, l. n. 241/1990 riguarda i casi in cui una norma comunitaria o di

diritto interno (in ragione delle esigenze di mercato, degli interessi pubblici coinvolti o della gestione del denaro

pubblico) imponga al gestore del pubblico servizio l'attivazione di procedimenti per la formalizzazione delle

proprie motivate determinazioni, anche di scelta dei propri contraenti (come avviene in materia di appalti

pubblici di lavori, servizi o forniture).

In tali casi (nei quali la norma affida al gestore del servizio anche lo svolgimento di una pubblica funzione, tale da

giustificare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: art. 33, d.lgs. n. 80/1998), la normativa di settore

equipara l'attività del soggetto privato a quella tipicamente amministrativa, per quanto riguarda l'ambito di

operatività dell'art. 97 della Costituzione e dell'istituto dell'accesso.

In secondo luogo, l'accesso è esercitabile nei confronti del gestore in relazione alle modalità con cui è

materialmente gestito il servizio pubblico e a ciò che attenga alla sua organizzazione: i destinatari del servizio

possono accedere agli atti suscettibili di incidere sulla qualità del servizio, sul rispetto delle norme che proteggono

gli utenti e sul soddisfacimento delle loro esigenze.

In terzo luogo, oltre alle attività da svolgere sulla base di una norma ed a quelle direttamente riguardanti la

gestione del servizio, l'accesso può avere luogo anche in relazione alla residua attività dei gestore, quando si

manifesti un interesse pubblico prevalente rispetto a quello imprenditoriale, sulla base di un giudizio di

bilanciamento.

Tale giudizio caso per caso va svolto in sede di giurisdizione esclusiva sulla base di una valutazione

composita, che tenga conto:

- del pubblico servizio in concreto svolto, della strumentalità, rispetto ad esso, dell'attività oggetto della

domanda di accesso, nonché delle eventuali previsioni delle carte di servizio del settore;

- del regime sostanziale dell'attività del gestore, svolto in regime di esclusività (che rende ravvisabile

all'utenza un vero e proprio alter ego dell'amministrazione) o in un sistema di mercato e di concorrenza

(che, se del caso, possono far ravvisare le esigenze di riservatezza tassativamente previste dall'art. 8, c.

5, lett. d), d.P.R. n. 352/1992);

- delle eventuali regole procedimentali, anche di diritto privato, che il gestore si sia posto per

organizzare il servizio con determinazioni basate sulla trasparenza e sui principi di buona fede e di

correttezza.

(omissis)

L'accesso agli atti del gestore del servizio pubblico, pur quando essi sono disciplinati dal diritto privato e

comportano la giurisdizione ordinaria, consente il perseguimento delle medesime finalità connesse all'accesso agli

atti dell'amministrazione (e cioè una più diffusa conoscenza dei processi decisionali, lo stimolo a comportamenti

ispirati ai canoni di diligenza, buona fede e correttezza, ad una deflazione delle controversie): vi è l'interesse

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pubblico all'effettuazione di scelte corrette da parte del gestore, quando esse siano finalizzate all'organizzazione

efficiente ed alla qualità dei servizio.

Pertanto, quando il gestore di un servizio pubblico pone in essere un procedimento disciplinato dal diritto

privato, prevale l'interesse pubblico alla trasparenza e può chiedere l'accesso chi abbia interesse ad accertare se vi

sia stata una scorrettezza.

(omissis)

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 16 del 2016.

La società Poste Italiane s.p.a. è soggetta alla disciplina, di cui agli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto

1990, n. 241, con riferimento al pubblico servizio di cui è affidataria;

Il diritto di accesso è esercitabile dai dipendenti della medesima società, limitatamente alle prove selettive di

accesso, alla progressione in carriera ed ai provvedimenti di auto-organizzazione generale degli uffici, incidenti

in modo diretto sulla disciplina, di rilevanza pubblicistica, del rapporto di lavoro.

E’ sottoposta all’Adunanza Plenaria una questione complessa, inerente al diritto di accesso – a norma degli

articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo

e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come successivamente modificata ed integrata – dei

dipendenti di Poste Italiane s.p.a., con riferimento al rapporto di impiego (di natura privata) in corso fra gli stessi

e la citata società.

Nell’ordinanza di remissione non si pone in dubbio la legittimazione passiva di detta società, come

concessionaria ex lege di un pubblico servizio, nei confronti degli utenti del servizio stesso, ma si postula che

non abbiano titolo al riguardo i lavoratori dipendenti, quali soggetti privati in rapporto ai quali il datore

di lavoro (a sua volta privato) ponga in essere atti non riconducibili al servizio pubblico ed estranei,

pertanto, alla “ratio” di trasparenza, riconducibile in via esclusiva al perseguimento di interessi della

collettività ed al correlativo, sostanziale stato di soggezione dei singoli componenti di quest’ultima, in

rapporto alla gestione di interessi generali effettuata dall’ente.

La prospettazione, al riguardo formulata dalla III sezione del Consiglio di Stato, trova appoggio nel testo letterale

del ricordato art. 22, comma 1, lettera e) della legge n. 241 – nel testo introdotto dall’art. 15, comma 1 della legge

11 febbraio 2005, n. 15 – che definisce “pubblica amministrazione”, ai fini di cui trattasi, “tutti i soggetti di diritto

pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse, disciplinata dal diritto

nazionale o comunitario”. L’indirizzo giurisprudenziale, sinora costante, circa il pieno riconoscimento del diritto

di accesso nei confronti dei dipendenti di enti privati, cui sia affidato un pubblico servizio, ha il suo fulcro, in

effetti in una pronuncia (Cons. Stato, Ad. Plen., 22 aprile 1999, n. 4), emessa quando il citato art. 22 l. cit. era

formulato come segue: “1. Al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne lo

svolgimento imparziale, è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente

rilevanti, il diritto di accesso ai documenti amministrativi…. 2. E’ considerato documento amministrativo ogni

rappresentazione….del contenuto di atti, anche interni, formati dalle pubbliche amministrazioni, o, comunque,

utilizzati ai fini dell’attività amministrativa…”: nessun accenno ai “limiti”, che ora circoscrivono l’accesso con

riferimento all’attività dei soggetti privati, chiamati a svolgere funzioni di interesse pubblico, in termini che

l’Adunanza Plenaria è chiamata a valutare e chiarire.

E’ in base al nuovo testo normativo, pertanto, che nell’ordinanza di remissione si prospetta una “nuova

indagine interpretativa”, che tenga conto degli interventi di modifica della legge in questione, nonché

delle relative disposizioni processuali (attualmente, art. 116 cod. proc. amm.).

Tale indagine richiede una valutazione sistematica dell’istituto dell’accesso, quale “principio generale dell’attività

amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22 cit,

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comma 2), nonchè della nozione di “pubblica amministrazione”, nei termini – non univoci – di volta in volta

riconosciuti dall’ordinamento.

(omissis)

Il richiamo alla nozione di organismo di diritto pubblico si rende opportuno perché – pur non essendovi espliciti

riferimenti al riguardo negli articoli 22 e seguenti della citata legge n. 241 del 1990 – la giurisprudenza ha spesso

fatto coincidere le esigenze di trasparenza, sottese all’istituto dell’accesso anche come garanzia di imparzialità,

con le analoghe esigenze cui rispondono le procedure contrattuali, cosiddette “ad evidenza pubblica” (…).

Di fatto, può senz’altro convenirsi sull’assoggettamento degli organismi di diritto pubblico anche al

diritto di accesso (essendo per essi tipico il perseguimento di “esigenze di interesse generale, aventi carattere

non industriale o commerciale”), ma senza dimenticare la linea evolutiva che – a livello nazionale e

comunitario – interessa la nozione stessa di “pubblica amministrazione”, quale nozione non univoca,

ma da ricondurre, di volta in volta, a normative diverse e alle relative finalità (omissis).

Nei vari contesti normativi (quelli sopra indicati caratterizzati, rispettivamente, dal controllo e dal finanziamento

pubblico, nonchè dal contrasto della illegalità nell’amministrazione) all’apparato – centrale e decentrato – dello

Stato ed alle Autonomie locali si aggiungono diverse tipologie di soggetti privati (o privatizzati), cui sono

attribuite prerogative pubblicistiche, tali (per quanto qui interessa) da consentire che i relativi atti, “anche interni,

o non relativi ad uno specifico procedimento…e concernenti attività di pubblico interesse”, possano essere

considerati “documenti amministrativi”, sui quali si riconosce il diritto di accesso “indipendentemente dalla

natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.

Si introduce in tal modo quella nozione funzionale di Stato, che è stata individuata dalla giurisprudenza

comunitaria a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia del 20 settembre 1988 (causa 31/87 - Beentjes), che

riconduceva a detta nozione personalità giuridiche distinte, ma dipendenti in modo sostanziale dai pubblici

poteri, per il perseguimento di interessi che lo Stato stesso intende soddisfare direttamente, o nei confronti dei

quali sceglie di mantenere un’influenza determinante.

Si deve valutare, pertanto, sotto quale profilo la società, di natura privata, Poste Italiane s.p.a. sia

destinataria delle norme in tema di accesso e quali siano i limiti della relativa attività di pubblico

interesse, a cui la norma circoscrive l’applicabilità dell’Istituto.

E’ noto come, sul piano soggettivo, la società Poste Italiane sia subentrata, con intenti di efficientamento del

servizio, alla preesistente amministrazione centrale, (omissis)

Appare d’altra parte evidente come l’elemento fondante dell’organismo di diritto pubblico sia appunto quello,

riconducibile alla rilevanza degli interessi generali perseguiti, in rapporto ai quali – anche qualora la gestione fosse

produttiva di utili – non può venire meno una funzione amministrativa di controllo, da intendere come

possibilità di condizionamento aziendale, anche in termini di scelta maggioritaria degli amministratori, chiamati a

perseguire determinati obiettivi di qualità del servizio (in tal senso depone il carattere espressamente disgiunto dei

requisiti, di cui al punto “c” del ricordato art. 3, comma 26, del codice degli appalti: cfr. anche Cass. SS.UU., 7

aprile 2010, n. 8225). E’ propria dell’Amministrazione, infatti, la cura concreta di interessi della

collettività, che lo Stato ritiene corrispondenti a servizi da rendere ai cittadini e che pertanto, anche ove

affidati a soggetti esterni all’Apparato amministrativo vero e proprio, debbono comunque rispondere a

corretti parametri gestionali, sul piano dell’imparzialità, del buon andamento e della trasparenza. A

detti principi non può non considerarsi ispirato anche l’art. 22, comma 1, lettera e) della più volte citata

legge n. 241 del 1990, nel ricondurre alla nozione di “pubblica amministrazione” anche i “soggetti di

diritto privato, limitatamente alla loro attività di pubblico interesse, disciplinata dal diritto nazionale e

comunitario”.

La qualificazione di Poste Italiane s.p.a. come organismo di diritto pubblico è dunque un fattore che

rende pacifica l’estensione a detta società delle norme in tema di accesso, ma non chiarisce i limiti,

entro cui l’attività societaria debba ritenersi di “pubblico interesse”.

In particolare, nell’ordinanza di remissione si dubita della riconducibilità a detto interesse del rapporto di lavoro,

contrattualmente disciplinato ed implicante diritti ed obblighi, pienamente tutelabili innanzi al giudice ordinario.

L’interpretazione proposta introduce in qualche misura, con riferimento all’accesso, la dicotomia che, in materia

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contrattuale, è stata introdotta dalla giurisprudenza per i settori speciali (in precedenza denominati “esclusi”),

circa l’attinenza dell’appalto alle specifiche attività disciplinate nella parte III del codice, dovendosi escludere –

per le attività connesse a scopi diversi, rispetto a quelli di interesse pubblico, di cui agli articoli 206 e seguenti del

d.lgs. n. 163 del 2006 – il rispetto della disciplina codicistica e la stessa giurisdizione del giudice amministrativo

(Cons. Stato, Ad. Plen., 5 gennaio 2011, n. 16). (omissis)

La possibilità di applicare una disciplina differenziata a soggetti, cui sono affidate funzioni di interesse pubblico,

ma operanti anche in ambito industriale o commerciale incide, indubbiamente, sul principio di certezza del

diritto, che le pronunce da ultimo indicate sembravano assicurare, ma rispetta la sovranità degli Stati, chiamati a

scegliere il modulo organizzatorio per l’espletamento di attività di interesse generale, nel presupposto che

efficienza e buon andamento dell’Amministrazione possano essere assicurati anche attraverso gestioni, ispirate a

criteri economici di stampo imprenditoriale (C. Giust. CE, 10 novembre 1988, C - 360/96 Arnhem; cfr. anche

però, con specifico riferimento agli organismi di diritto pubblico, C. Giust. CE 10 aprile 2008, C-393/06,

Aigner).

Nell’ottica sopra indicata – e prescindendo da ulteriori tematiche, estranee al presente giudizio – il rapporto di

impiego presso Poste Italiane s.p.a. potrebbe considerarsi circoscritto all’attività esclusivamente privatistica

dell’ente, del tutto disancorata dall’interesse pubblico di settore, istituzionalmente affidato all’apparato di cui

trattasi e perseguito, comunque, in via non esclusiva, ma congiuntamente ad attività di stampo imprenditoriale.

Nell’ordinanza di rimessione tale soluzione è ricondotta, in particolare, allo stato di soggezione, riconducibile

solo agli utenti del servizio pubblico e non anche ai dipendenti della società.

L’adunanza Plenaria condivide solo in parte tale prospettazione.

Appare difficile negare, infatti, sia che il rapporto di lavoro implichi lo “svolgimento di un’attività strettamente

connessa e strumentale alla quotidiana attività di gestione del servizio pubblico” (Ad. Plen. n. 4/1999 cit.), sia che

i dipendenti della società, incaricata di tale servizio possano vantare un “interesse diretto, concreto ed attuale,

corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui si chiede l’accesso” (art.

22, comma 1, lettera “b” della legge n. 241/1990 cit), sia infine che configuri una disparità di trattamento

l’attuazione di modalità differenziate di tutela del predetto interesse, a seconda che si tratti di utenti o di

lavoratori.

E’ anche necessario, tuttavia, attribuire significato alla disposizione legislativa (art. 22 cit., lettera “e”)

che assimila all’amministrazione ai fini di cui trattasi i soggetti privati, ma “limitatamente alla loro

attività di pubblico interesse”.

A quest’ultimo riguardo – e con riferimento al quesito specificamente proposto, per la decisione richiesta nel

caso di specie – l’Adunanza Plenaria ritiene che non si possa prescindere dal recente rafforzamento del

principio di trasparenza, operato col già richiamato d.lgs. n. 33 del 2013, in attuazione della delega

contenuta nell’art. 1, comma 35, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la

repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione). (omissis)

Dall’esame sistematico delle disposizioni sopra citate emergono non solo la considerazione del rapporto di

lavoro, come fattore strumentale alla normale gestione del servizio pubblico postale (Cons. Stato, sez. VI,

n. 2855/2002 cit.), ma anche la rilevanza ex se di tale rapporto, per l’osservanza di regole di imparzialità

e trasparenza, che vincolano tutti i soggetti chiamati a svolgere funzioni pubbliche (anche nella veste di

datori di lavoro), nell’ambito di servizi che le amministrazioni intendono assicurare ai cittadini, direttamente o in

regime di concessione.

Ad avviso di questa Adunanza Plenaria, tuttavia, nel settore lavorativo di cui trattasi opera – benchè in una

prospettiva diversa (avendo qui rilievo il contesto normativo sotto indicato e non la giurisprudenza comunitaria

in tema di appalti, per quanto riguarda gli organismi di diritto pubblico: sentenza C. Giust., C – 396/06 Aigner

cit.) – l’accezione restrittiva rilevata per l’applicazione della direttiva 2004/17/CE, riferita agli enti erogatori di

acqua e di energia, nonché a quelli che forniscono servizi di trasporto e servizi postali. Tali enti – in quanto

titolari di diritti speciali ed esclusivi – agiscono nell’ambito dei settori sopra indicati, ma svolgono anche attività

in pieno regime di concorrenza, direttamente esposti alle regole del mercato e possono, per tale ragione, vedere

in qualche misura attenuata la disciplina propria delle amministrazioni pubbliche. Per quanto riguarda il rapporto

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di lavoro – strumentale a tutte le attività svolte – gli obblighi di trasparenza appaiono dunque coerentemente

suscettibili di delimitazione, con riferimento al combinato disposto degli articoli 11, comma 3, del d.lgs. n. 33 del

2013 (ambito soggettivo degli obblighi di trasparenza), 1, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 (ordinamento del

lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in tema di organizzazione degli uffici e di ottimale

utilizzazione delle risorse umane) e 1, comma 16 della già ricordata legge delega n. 190 del 2012: disposizioni,

quelle appena richiamate, che consentono di circoscrivere l’accesso ai settori di autonoma rilevanza pubblicistica

(e non di quotidiana gestione del rapporto di lavoro), ovvero alle prove selettive per l’assunzione del personale,

alle progressioni in carriera e a provvedimenti attinenti l’auto-organizzazione degli uffici, quando gli stessi –

benchè doverosamente ispirati a tutti i principi, di cui all’art. 24 del già citato d.lgs. n. 150 del 2009 – incidano

negativamente sugli interessi dei lavoratori, protetti anche in ambito comunitario (ad esempio, in tema di mobilità

o di stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari). Nella situazione in esame, pertanto, gli atti richiesti non

potevano essere oggetto di accesso, in quanto attinenti a fasi di gestione ordinaria del personale, per le quali la

società Poste Italiane s.p.a. escludeva persino di possedere riscontri documentali, fatte salve le verifiche,

comunque possibili nella sede giudiziaria propria, ovvero innanzi al giudice del lavoro.

(omissis)