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Dispensa di diritto amministrativo

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Indice
1- ORGANISMI DI DIRITTO PUBBLICO: Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 108
del 2017;
2- TERMINE RAGIONEVOLE ART. 21 NONIES L.N. 241 DEL 1990: Tar
Abbruzzo I sentenza n. 86 del 2017;
3- RISARCIMENTO E ART. 1227 C.C.: Tar Calabria n. 113 del 2017;
4- RESPOSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA P.A. : Tar Bari sentenza n.
1260 del 2016

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Selezione giurisprudenziale
1- ORGANISMI DI DIRITTO PUBBLICO: Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 108 del 2017;
La nozione di bisogno non industriale o commerciale rientra nel diritto comunitario e non può essere
modificata discrezionalmente dal legislatore nazionale; e che la nozione di organismo di diritto pubblico deve
essere in ogni caso estensivamente intesa, essendo funzionale alla liberalizzazione dei mercati e della
concorrenza, concludendo che servizi mortuari o di pompe funebri rispondono a bisogni di interesse generale
ma l’eventuale esistenza di una concorrenza articolata consente di concludere per l’insussistenza di un bisogno
di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale.
(omissis)
4. Come si evince dalla narrativa che precede, la questione centrale ai fini della presente decisione consiste nello
stabilire se, in considerazione di tutte le circostanze rilevanti nel caso in esame, l’ACI Global s.p.a. sia
qualificabile quale ‘organismo di diritto pubblicò ai sensi della pertinente disciplina eurounitaria e
nazionale.
4.1. I primi Giudici hanno ritenuto che la richiamata qualificazione dovesse essere esclusa in ragione della carenza
del c.d. ‘secondo requisito Mannesmann'(ci si riferisce al fatto che l’organismo della cui natura si discute sia stato
istituito “per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o
commerciale”).
Essi hanno ritenuto dirimente ai fini del decidere il fatto che “nel comparto del soccorso stradale sussiste un
mercato concorrenziale [ragione per cui] l’ACI Global non poteva in alcun modo essere considerata un
organismo di diritto pubblico”.
Per ragioni analoghe a quelle appena richiamate il T.A.R. ha altresì escluso che la giurisdizione del G.A. potesse
essere affermata alla luce dell’articolo 32, lettera c) del decreto legislativo n. 163 del 2006 (a tenore del quale le
disposizioni del previgente ‘Codicé si applica(va)no “[ai] lavori, servizi, forniture affidati dalle società con capitale
pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro
attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati
sul mercato in regime di libera concorrenza, ivi comprese le società di cui agli articoli 113, 113-bis, 115 e 116 del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”).
Sotto tale aspetto si è ritenuta dirimente la circostanza per cui “ACI Global produce una serie di servizi, quale il
servizio di soccorso stradale, destinati ad essere collocati sul mercato in regime di concorrenza”.
5. L’appello è fondato dovendo ritenersi – in senso contrario a quanto opinato dai primi Giudici – che sussistano
i presupposti per qualificare ACI Global come ‘organismo di diritto pubblicò (con quanto ne segue in ordine alla
sussistenza della giurisdizione del Giudice amministrativo).
6. Va in primo luogo osservato che non sussistono dubbi in ordine alla sussistenza in capo ad ACI Global
del primo e del terzo ‘requisito Mannesmann'(ci si riferisce, rispettivamente: i) alla titolarità della
personalità giuridica; ii) al fatto che la relativa attività “sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato,
dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure [che la] gestione sia
soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza
sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o
da altri organismi di diritto pubblico”).
Ci si deve domandare, quindi, se sussista altresì il c.d. ‘requisito teleologico.
Ad avviso del Collegio deve ritenersi che il requisito in parola sia certamente sussistente nel caso in
esame, non potendo pervenirsi a conclusioni opposte sulla base della sola esistenza di un mercato
concorrenziale nel comparto del settore stradale.

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6.1. La giurisprudenza eurounitaria si è domandata sovente nel corso degli anni se il fatto che l’Organismo
della cui natura si discute opera in un mercato aperto alla concorrenza rappresenti di per sé solo un
circostanza idonea ad escludere il richiamato requisito teleologico (ossia, la finalizzazione al
soddisfacimento di esigenze aventi carattere non industriale o commerciale), e quindi se sia idoneo ad
escludere la configurabilità dell’o.d.p.
Al riguardo, l’evoluzione della giurisprudenza comunitaria può essere suddivisa essenzialmente in tre fasi.
6.1.1. Nel corso di una prima fase, la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE sembrava orientata a fornire
al quesito una risposta – per così dire – pancomunitaria (ossia, volta alla massima espansione applicativa della
categoria dell’o.d.p.).
In particolare, con la sentenza BFI Holding del 10 novembre 1998, la Corte di Lussemburgo affermò che la
circostanza per cui un determinato organismo operasse in un mercato tendenzialmente aperto alla concorrenza di
altri operatori non fosse di per sé sufficiente ad escludere la natura di o.d.p.
Al contrario, secondo la Corte, tale circostanza avrebbe – al più – potuto costituire un mero indizio circa il fatto
che il bisogno perseguito avesse carattere non industriale o commerciale.
A tal fine, tuttavia, l’indagine avrebbe dovuto essere completata attraverso il ricorso ad indici ulteriori, come ad
esempio la possibilità che l’organismo di cui trattasi si lasciasse guidare, nell’adottare le proprie scelte, da
considerazioni diverse rispetto a quelle puramente economiche.
In tal caso, l’organismo in questione avrebbe potuto essere comunque considerato come di diritto pubblico, a ciò
non ostando la sua operatività in un mercato aperto alla concorrenza.
6.1.2. In una seconda fase (contrassegnata dalla sentenza Ente Fiera di Milano del 10 maggio 2001) la Corte di
Giustizia sembrò segnare una sorta di inversione di tendenza nell’espansione applicativa dell’istituto dell’o.d.p.
Con la pronuncia in questione, la CGUE ebbe ad escludere la configurabilità dell’Ente Fiera quale o.d.p. ai sensi
della pertinente disciplina comunitaria proprio per la ritenuta carenza del richiamato requisito teleologico.
Sotto tale aspetto, secondo la Corte, la circostanza per cui l’Ente Fiera operasse in un mercato concorrenziale
rappresentava un indizio sostanzialmente determinante al fine di escludere il carattere non industriale o
commerciale dei bisogni perseguiti e, in via mediata, la sua configurabilità quale o.d.p.
6.1.3. Nella terza (e più recente) fase, la Corte ha ritenuto che l’esistenza di un mercato in concorrenza
rappresenti solo un indice nel senso dell’assenza del requisito teleologico (dovendo tale circostanza essere
integrata da ulteriori elementi e configurandosi come una sorta di presunzione semplice).
Si è affermato al riguardo che il diritto dell’UE non richiede affatto che, affinché si qualificabile come o.d.p.
l’organismo della cui natura si tratta debba on radicale assenza di concorrenza (ragione per cui i bisogni
soddisfatti dall’o.d.p. non potrebbero essere parimenti soddisfatti anche da imprese private).
All’opposto, la circostanza per cui esista una concorrenza nello specifico settore «non è sufficiente ad escludere la
possibilità che un ente finanziato dallo Stato, dagli enti territoriali o da altri organismi di diritto pubblico si lasci
guidare da considerazioni di carattere non economico. Così, ad esempio, un ente di tal genere potrebbe essere
indotto a perseguire perdite economiche al fine di perseguire una determinata politica di acquisti dell’ente da cui
dipende strettamente. Inoltre, essendo difficile immaginare attività che non possano essere in alcun caso svolte
da imprese private, la condizione che non vi siano imprese private che possano provvedere a soddisfare bisogni
per i quali l’ente di cui trattasi sia stato creato rischierebbe di svuotare di sostanza la nozione di organismo di
diritto pubblico di cui all’art. 1 lett. b) della direttiva n. 92/50/CEE» (in tal senso la richiamata sentenza sul caso
BFI Holding e la giurisprudenza successiva).
6.2. In definitiva, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha chiarito che, se in linea generale i bisogni non
aventi carattere industriale o commerciale si caratterizzano di norma per il fatto di non trovare una
adeguata “risposta” nell’offerta degli operatori sul mercato, è nondimeno possibile che in alcuni casi
detti bisogni possano presentare una qualche rilevanza economica, sì da indurre anche operatori
economici privati a collocarsi nel settore (e senza che ciò incida sulla possibilità di qualificare
l’organismo della cui natura si controverte come o.d.p.).
Si è in tal modo ammessa la non incompatibilità tra (da un lato) lo svolgimento di attività di impresa e
l’operatività in settori contrassegnati a un’economia di mercato e (dall’altro) la qualificabilità dell’ente come

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organismo di diritto pubblico (in tal senso: CGUE, sentenza 9 giugno 2009 in causa C-480/06, Commissione c.
Germania).
Ne consegue la non condivisibilità della tesi (peraltro richiamata dalla ACI Global) secondo cui per poter
riconoscere a un Organismo la qualificazione di o.d.p. sarebbe sempre e comunque necessario verificare (in
negativo) che lo stesso operi in settori non concorrenziali, ovvero (in positivo) che lo esso operi in regime di
sostanziale privativa.
6.3. La giurisprudenza della CGUE ha poi offerto un criterio ermeneutico generale idoneo a risolvere i
casi dubbi (nel cui ambito, come si è detto, il solo fatto di operare in un settore aperto al mercato non
fornisce ex se elementi dirimenti per escludere la qualificabilità come o.d.p.).
Si è anzi osservato al riguardo che “[la nozione di] bisogno non industriale o commerciale rientra nel diritto
comunitario e non può essere modificata discrezionalmente dal legislatore nazionale; e che la nozione di
organismo di diritto pubblico deve essere in ogni caso estensivamente intesa, essendo funzionale alla
liberalizzazione dei mercati e della concorrenza, concludendo che servizi mortuari o di pompe funebri
rispondono a bisogni di interesse generale ma l’eventuale esistenza di una concorrenza articolata consente di
concludere per l’insussistenza di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale»
(in tal senso: CGUE, 27 febbraio 2003, in causa C-373/00, GmbH v. Bestattung Wien GmbH).
6.4. Ebbene, riconducendo i principi appena richiamati alle peculiarità del caso in esame deve ritenersi: i) che la
circostanza per cui il settore del soccorso stradale sia aperto alla concorrenza non depone ex se nel senso della
non qualificabilità di ACI Global come o.d.p.; ii) che, al contrario, prevalenti indici fattuali e sistematici
depongono nell’opposto senso di qualificare la società in parola come o.d.p. (con quanto ne consegue in punto di
giurisdizione del G.A.).
7. Occorre, quindi, svolgere un’indagine in ordine alla sussistenza nel caso in esame di specifiche
“esigenze di interesse generale”, il cui “carattere non industriale o commerciale” non può coincidere
tout-court con l’impossibilità di ottenerne il soddisfacimento attraverso il ricorso al mercato.
(omissis)
2- TERMINE RAGIONEVOLE ART. 21 NONIES L.N. 241 DEL 1990: Tar Abbruzzo I sentenza
n. 86 del 2017;
1) L’art. 21 nonies, comma1, della legge 241/1990, così come modificato dal d.l. n. 133 del 2014, convertito
dalla legge n. 164 del 2015, prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo possa essere annullato
d’ufficio entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione dei vantaggi economici. La novella del 2015 ha cioè
eliminato il riferimento al termine ragionevole e ha introdotto uno sbarramento temporale di diciotto mesi
all’esercizio del potere di autotutela.
2) L’art. 21 nonies, comma 1, della legge 241/1990, prima della riforma del 2015, nel prevedere il limite
temporale del “termine ragionevole”, ha introdotto un parametro indeterminato ed elastico, finendo così per
lasciare all’interprete il compito di individuarlo in concreto, in considerazione del grado di complessità degli
interessi coinvolti e del relativo consolidamento, secondo il canone costituzionale di ragionevolezza.
3) Sono illegittimi, per violazione dell’art. 21 nonies della Legge 241/1990, gli atti di annullamento d’ufficio
basati anche su pretese violazioni di norme del Codice dei Contratti Pubblici – quali la mancata indizione
della gara e l’approvazione di varianti ex art. 132 d.lgs. 163/2006 - se non adottati entro un termine
ragionevole dall’adozione degli atti annullati.

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(omissis)
4. Passando all’esame dei motivi di ricorso, la società ricorrente ha dedotto, con un primo articolato gruppo di
censure, violazione degli artt. 3, 7, 11 e 21 nonies della legge n. 241del 1990, dell’art. 11 del d.l. n. 398 del 1993
convertito dalla legge n. 493 del 1993, del DM 12.2.2001, nonché eccesso di potere sotto diversi profili.
Ad avviso di parte ricorrente, infatti, mancherebbero i presupposti per l’esercito del potere di annullamento in
autotutela.
In primo luogo, mancherebbe il rispetto di un termine ragionevole dall’adozione dell’atto ritirato e comunque del
termine perentorio e tassativo di 18 mesi.
In particolare, l’adozione degli atti gravati è avvenuta a distanza di un periodo compreso tra i 5 e i 10 anni di
distanza dall’adozione degli atti annullati, nonché a distanza di 12 anni dall’approvazione del PRU e del progetto
di Contratto di quartiere II e degli esiti della selezione pubblica indetta dal Comune di Avezzano.
In proposito, osserva il Collegio quanto segue.
L’art. 21 nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, che disciplina l’annullamento d’ufficio, è stato
modificato dal d.l. n. 133 del 2014, convertito dalla legge n. 164 del 2015, e successivamente dalla legge
n. 124 del 2015.
A seguito di questa novella, è previsto che il provvedimento amministrativo illegittimo possa essere
annullato d’ufficio “entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal
momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”.
La novella del 2015 ha cioè eliminato il riferimento al termine ragionevole e ha introdotto uno
sbarramento temporale di diciotto mesi all’esercizio del potere di autotutela.
Parte ricorrente ha lamentato la violazione dell'art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990 proprio perché i
provvedimenti di autotutela sono stati adottati nel 2016, pur essendo stati adottati gli atti annullati tra il
2005 e il 2011, e quindi oltre il termine di diciotto mesi previsto, ai fini dell'esercizio del potere di
annullamento, dalla sopra citata disposizione normativa.
La censura è infondata, in quanto il termine in questione è stato introdotto dalla legge 7 agosto 2015, n. 124,
mediante modifica dell'art. 21 nonies della legge n. 241 deò 1990, per cui, pur applicandosi in virtù del principio
tempus regit actum alla fattispecie in esame, la sua decorrenza non può che coincidere con l'entrata in vigore
della novella e, quindi, il potere di ritiro risulta nel caso di specie esercitato entro diciotto mesi dalla sopravvenuta
operatività della nuova disciplina normativa.
Tuttavia, la società ricorrente ha lamentato comunque la non ragionevolezza del termine entro cui gli atti di
autoannullamento gravati sono stati adottati, indipendentemente dal mancato rispetto del termine di diciotto
mesi di cui si è detto.
In proposito, osserva il Collegio come la prevalente giurisprudenza amministrativa, prima della riforma
del 2015, aveva rilevato che l'art. 21 nonies citato, nel prevedere il limite temporale del “termine
ragionevole”, ha introdotto un parametro indeterminato ed elastico, finendo così per lasciare
all'interprete il compito di individuarlo in concreto, in considerazione del grado di complessità degli
interessi coinvolti e del relativo consolidamento, secondo il canone costituzionale di ragionevolezza (ex
multis, Tar Lazio, Roma, n. 11008 del 2015; Tar Campania, Napoli, n. 4529 del 2013).
Peraltro, ancorché la novella del 2015 non sia applicabile ratione temporis al caso di specie, essa rileva
pur sempre ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti, soprattutto in
presenza di un affidamento particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso (Cons.
Stato n. 5625 del 2015).
Il decorso del tempo, infatti, contribuisce al consolidamento della posizione del privato ed alla perdita
di attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'atto (Cons. Stato, n. 816 del 2016).
(omissis)
Gli atti di annullamento impugnati, pertanto, sono illegittimi per violazione dell’art. 21 nonies della legge n. 241
del 1990, per essere stati adottati a distanza di un periodo compreso tra gli 11 e i 5 anni dalle delibere e dalle
determinazioni annullate e, quindi, entro un termine non ragionevole.

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La valutazione degli interessi pubblici che vengono in considerazione, ossia la tutela delle risorse economiche
pubbliche, e la loro comparazione con l’affidamento della Irim Srl nella legittimità degli atti annullati, tutelabile ad
avviso dell’Amministrazione comunale tramite l’indennizzo ex art. 2041 c.c. nei limiti in cui risulterà dovuto, non
giustificano il superamento di un termine ragionevole nell’adozione degli atti di ritiro gravati.
Ciò anche in considerazione del fatto che il Comune di Avezzano dispone senz’altro di altri strumenti per
tutelare l’interesse pubblico, facendo valere eventuali inadempienze, sul piano esecutivo, della Irim Srl, quali la
sospensione dei lavori sin dal 2012, la loro eventuale mancata ultimazione (fissata dalla convenzione del 2006 per
quanto concerne il palazzo comunale e le opere di urbanizzazione in tre anni), la realizzazione di un edificio
(corpo A) non funzionale.
Da ultimo, non può non rilevare il Collegio che le giustificazioni addotte dalla difesa comunale, quali la
sostituzione della persona fisica del RUP e il cambiamento del vertice politico dell’Amministrazione, sono del
tutto irrilevanti e ininfluenti al fine della valutazione della legittimità dell’operato della stessa.
5. Alla luce delle considerazioni svolte, la delibera consiliare n. 12 del 2016, la delibera di Giunta n. 142 del 2016
e la determinazione dirigenziale n. 5120 del 2016 del Comune di Avezzano vanno annullate, in quanto illegittime.
6. (omissis)
3- RISARCIMENTO E ART. 1227 C.C.: Tar Calabria n. 113 del 2017;
1) La responsabilità della p.a., in materia di contratti pubblici, è di tipo oggettivo, essendo sufficiente la
ravvisata illegittimità dell’atto per dedurre la colpa presunta della stazione appaltante, senza possibilità di
controprova circa la scusabilità dell’errore.
2) Il danno da perdita di chance può quantificarsi nella misura del 10% del prezzo a base d’asta, diviso
tuttavia per il numero di imprese che hanno partecipato alla gara medesima.
3) Il lucro cessante da mancata aggiudicazione può essere risarcito per intero se e in quanto l’impresa non
abbia potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili per l’espletamento di altri servizi, dovendosi
tener conto dell’aliunde perceptum vel percipiendum, cosicché in difetto di prova specifica a cura di parte
istante, l’importo quantificato deve pertanto esse decurtato e equitativamente rideterminato nel 5% dell’importo
a base d’asta.
4) I costi di partecipazione si colorano come danno emergente solo qualora l’impresa subisca una illegittima
esclusione e chieda il mero danno da esclusione, atteso che in tal caso viene in considerazione il diritto
soggettivo del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili. Per converso, nel caso in cui l’impresa
ottenga il risarcimento del danno per mancata aggiudicazione (o per la perdita della chance di aggiudicazione)
mancano i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, atteso che
mediante il risarcimento non può farsi conseguire all’impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe
dall’aggiudicazione.
5) L’aggiudicazione di un appalto pubblico accresce la capacità di competere sul mercato e quindi la
possibilità di conseguire ulteriori e futuri appalti, derivandone che l’impresa illegittimamente privata della pur
sola chance di esecuzione dell’appalto, può rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della
possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale.
6) Secondo i principi ormai consolidati in materia di risarcimento del danno da contratti pubblici -anche a
seguito della nota decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3/2011-, la mancata tempestiva attivazione degli
opportuni rimedi cautelari rientra sicuramente tra gli sforzi diligenti che gravano sul danneggiato-creditore,
entro il limite dell’apprezzabile sacrifico, al fine di contenere le conseguenze dannose.

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(omissis)
4. Deve dunque essere esaminata nel merito la domanda risarcitoria proposta in via residuale dall’esponente.
Dagli atti di causa e dalle dichiarazioni rese in udienza emerge infatti che l’appalto de quo è stato aggiudicato ed
eseguito da tempo e che dunque la domanda di MTS si concentra, in via residuale, sull’anelato risarcimento del
danno patito a seguito della (dichiarata illegittima esclusione) nonché per effetto della privata possibilità di
partecipare alla gara e finanche di aggiudicarsela.
Viene dunque in rilievo un lamentato danno da illegittima esclusione e da perdita di chance.
Ciò posto, il Collegio ricorda che, a seguito della nota sentenza Graz Stadt resa dalla Corte di Giustizia in data 30
settembre 2010, la responsabilità della PA, in materia di contratti pubblici è di tipo oggettivo, essendo sufficiente
la ravvisata illegittimità dell’atto per dedurre la colpa presunta della Stazione Appaltante, senza possibilità di
controprova circa la scusabilità dell’errore.
Pertanto, dichiarata l’illegittimità della clausola del bando sulla base della quale la ricorrente è stata esclusa dalla
procedura, deve dedursi la responsabilità dell’Amministrazione comunale, causativa del pregiudizio siccome
derivante dalla illegittima esclusione e dalla impossibilità di ambire all’aggiudicazione dell’appalto ovvero alla
possibilità di aggiudicarselo.
5. Quanto alla determinazione del danno – conseguenza, si osserva che la ricorrente ha chiesto genericamente
risarcirsi il danno costituito dalla mancata aggiudicazione ovvero dalla mancata acquisizione della commessa nei
termini programmati.
Tale richiesta risarcitoria, non articolata nelle singole voci e proposta cumulativamente, può essere intesa e
declinata come ricomprendente anzitutto il danno da lucro cessante e cioè l’utile economico che sarebbe derivato
all’impresa dall’esecuzione dell’appalto.
5.1 A tal riguardo, essendo stata l’istante esclusa illegittimamente, spetta, più precisamente, ad MTS il
danno da perdita di chance e cioè il pregiudizio costituito dalla perdita della possibilità di aggiudicarsi
la gara, il quale può quantificarsi nella misura del 10% del prezzo a base d’asta (non avendo potuto
MPS depositare la propria offerta), diviso tuttavia per il numero di imprese che hanno partecipato alla
gara medesima.
Il lucro cessante da mancata aggiudicazione può tuttavia essere risarcito per intero se e in quanto
l’impresa non abbia potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili per l’espletamento di altri
servizi, dovendosi tener conto dell’aliunde perceptum vel percipiendum.
5.2 In difetto di prova specifica a cura di parte istante, l’importo quantificato sub 5.1 deve pertanto esse
decurtato e equitativamente rideterminato nel 5% dell’importo a base d’asta (TAR Toscana Sez. I n.
562/2016; TAR Veneto Sez. II n. 279/2016; nonché si veda CdS Sez. VI n. 2751/2008 circa l’onere della prova
contraria a carico del danneggiato stesso).
5.3 Non possono essere liquidate le spese di partecipazione alla gara, posto che, in caso di domanda di
risarcimento danni per mancata aggiudicazione ovvero per perdita di chance di aggiudicarsi la commessa, dette
spese dovevano comunque essere sostenute dall’impresa, difettando così la riconducibilità del costo all’area del
danno (v. CdS Sez. V n. 3634/2016 e 1904/2016).
Invero, come la giurisprudenza ha avuto pure modo di precisare, i costi di partecipazione si colorano come
danno emergente solo qualora l’impresa subisca una illegittima esclusione e chieda il mero danno da
esclusione, atteso che in tal caso viene in considerazione il diritto soggettivo del contraente a non
essere coinvolto in trattative inutili. Per converso, nel caso in cui l’impresa ottenga il risarcimento del
danno per mancata aggiudicazione (o per la perdita della chance di aggiudicazione) mancano i
presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, atteso che
mediante il risarcimento non può farsi conseguire all’impresa un beneficio maggiore di quello che
deriverebbe dall’aggiudicazione (v. CdS, Sez. VI n. 2751/2008).
5.4 Nell’ambito del chiesto danno può altresì riconoscersi presuntivamente il danno curriculare, posto che
il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico accresce la capacità di competere sul mercato e quindi la possibilità
di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti, derivandone che l’impresa illegittimamente privata della pur sola chance

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di esecuzione dell’appalto, può rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire
il proprio curriculum professionale (Cds Sez. VI n. 4283/2015).
Quanto alla liquidazione di tale voce di danno, per natura estremamente difficoltosa trattandosi di danno non
surrogabile patrimonialmente, il Collegio ritiene che esso possa, equitativamente determinarsi nella misura
dell’1% dell’importo liquidato a titolo di lucro cessante (Cds Sez. VI n. 5611/2015).
Deve infatti osservarsi che tale danno si collega alla mera chance di aggiudicazione e dunque ad una situazione in
cui non vi è certezza di vittoria nella procedura, ridondando tale incertezza sulla minor individuazione della
relativa percentuale.
6. Così quantificato complessivamente il danno – conseguenza, deve tuttavia osservarsi che il relativo
importo va opportunamente ridotto in ragione della percentuale dell’ 80 %, in coerente applicazione
della regola sulla limitazione del danno consacrata nell’art. 1227 2° comma c.c..
Secondo i principi ormai consolidati in materia di risarcimento del danno da contratti pubblici (anche a seguito
della nota decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3/2011), la mancata tempestiva attivazione degli opportuni
rimedi cautelari rientra sicuramente tra gli sforzi diligenti che gravano sul danneggiato – creditore,
entro il limite dell’apprezzabile sacrifico, al fine di contenere le conseguenze dannose.
Tanto più ciò deve essere valorizzato nel caso di specie, posto che l’esponente ha contestato una
clausola del bando che poneva un requisito di partecipazione oltremodo sproporzionato e dunque,
esperendo l’apposito rimedio cautelare, avrebbe potuto verosimilmente limitare il pregiudizio
successivo sin da subito, ottenendo il bene della vita costituito dalla possibilità di partecipare alla
selezione.
(omissis)
Ad avviso del Collegio, il pronto esperimento del rimedio cautelare, considerati gli sviluppi successivi del ricorso
straordinario e la palmare fondatezza dello stesso come ritenuta nel parere n. 4325/2012 reso dal Consiglio di
Stato, avrebbe comportato una tutela immediata con un alto grado di probabilità, che il TAR stima pari alla
percentuale dell’80 % di accoglimento.
Dal che la riduzione della somma complessiva come individuata al superiore punto 5, in ragione della percentuale
sopra citata.
(omissis)
4- RESPOSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA P.A. : Tar Bari sentenza n. 1260 del 2016
1. Secondo l’insegnamento della giurisprudenza civilistica la responsabilità precontrattuale
costituisce species di quella di cui all’art. 2043 c.c., ed è regolata dagli stessi principi a quest’ultima
applicabili. Perché possa affermarsi che ci si trovi innanzi ad un danno risarcibile, in ossequio ai
principi generali in tema di sussumibilità della condotta nel paradigma di cui all’art. 2043 c.c., occorre
che si pervenga al positivo riscontro della compresenza dell'elemento soggettivo e degli elementi oggettivi,
individuati in una condotta posta in essere in violazione di una norma giuridica ("in iure") e in un
danno conseguente qualificabile come ingiusto ("contra ius"), nonché un nesso eziologico che leghi il
fatto come descritto al danno.
2. La omessa stipula del contratto non è imputabile – almeno non solo e non in modo decisivo -
all’operato del Consorzio resistente, dovendosi piuttosto riconoscere che la condotta dell’impresa
aggiudicataria abbia inciso in modo determinante anche sul nesso di causalità, rilevando quale fattore
interruttivo della catena causale (tra condotta del soggetto della cui responsabilità si tratta ed evento), in
grado di deviare lo sviluppo normale di quest'ultima.

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(omissis)
8.- Nel merito il ricorso è, tuttavia, infondato.
8.1.- La ricorrente propone azione risarcitoria per il danno dipendente dalla mancata sottoscrizione del
contratto d’appalto.
La fattispecie configura una forma di responsabilità precontrattuale, ai sensi dell'art. 1337 c.c., che
non discende dalla violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della
pubblica amministrazione, ma deriva dalla violazione delle regole comuni – in particolare, del principio
generale di buona fede in senso oggettivo – che trattano del comportamento precontrattuale, ponendo in
capo alla pubblica amministrazione stessa doveri di correttezza e di buona fede analoghi a quelli che
gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative precontrattuali.
8.2.- Con specifico riferimento ai procedimenti ad evidenza pubblica può ravvisarsi, accanto ad una
responsabilità civile per lesione dell’interesse legittimo derivante dalla illegittimità degli atti o dei
provvedimenti relativi al procedimento amministrativo di scelta del contraente, una responsabilità di tipo
precontrattuale, per violazione di norme imperative che pongono regole di condotta, da osservarsi durante
l’intero svolgimento della procedura (Cons. St., sez. IV, sentenza n. 4674 del 15.9.2014).
Secondo costante giurisprudenza (cfr. Cass. SS.UU. 12 maggio 2008, n. 11656, richiamata da Cons. St., sez.
VI, sentenza n. 633 del 1° febbraio 2013), la responsabilità precontrattuale è una responsabilità da
comportamento, non da provvedimento, che incide non già sull’interesse legittimo pretensivo
all’aggiudicazione, ma sul diritto di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali e, pertanto, sulla
libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui
scorrettezza.
In sostanza, anche i soggetti pubblici, sia nell’ambito di trattative negoziali condotte senza
procedura di evidenza pubblica, sia nell’ambito di procedure di gara, sono tenuti ad improntare la
propria condotta al canone di buona fede e correttezza scolpito nell 'art. 1337 c.c., omettendo di
determinare nella controparte privata affidamenti ingiustificati ovvero di tradire, senza giusta
causa, affidamenti legittimamente ingenerati.
Tale canone si specifica in una serie di regole di condotta, tra le quali l'obbligo di valutare diligentemente le
concrete possibilità di positiva conclusione della trattativa e di informare tempestivamente la controparte
dell'eventuale esistenza di cause ostative rispetto a detto esito (TAR Lazio, sez. II^, sentenza n. 488 del
19.1.2011; cfr. anche, Cons. St., A.P., 5 settembre 2005, n. 6; Cass. S.U. 12 maggio 2008, n. 11656).
Come rilevato dalla sentenza dal Tribunale di Bari con la sentenza n. 2955 del 30 maggio 2016, tale forma
di responsabilità appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo che trova fondamento
sia nella non intervenuta stipulazione (da ritenersi la linea ideale di confine tra fase procedimentale
autoritativa e fase contrattuale da cui origina un rapporto di natura paritetica tra contraenti), sia
nell’essere volta la domanda alla tutela risarcitoria di una posizione giuridica soggettiva che ha
natura di interesse legittimo in quanto si esplica in una fase - quella antecedente alla stipulazione
del contratto - governata dal potere autoritativo dell'Amministrazione (T.A.R. Lombardia,
sent.1918/2015).
Le controversie aventi, inoltre, ad oggetto l’appalto per l’esecuzione di lavori sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per effetto del combinato disposto degli artt.
133, comma 1, lett. e), n. 1 e 30, ultimo comma, c.p.a. (T.A.R. Lazio, sez. II, sent. 9704/2016).
8.3.- Con riguardo alla quantificazione del danno risarcibile, è costante l’orientamento per cui in caso di
responsabilità precontrattuale spetta il solo interesse negativo, essendosi verificata la lesione
dell’interesse giuridico al corretto svolgimento delle trattative (non alla lesione del contratto); il danno
risarcibile è quindi unicamente quello consistente nella perdita derivata dall’aver fatto affidamento nella
conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni
contrattuali perdute (interesse negativo). La differenza in negativo del patrimonio attiene all’interesse a
non essere coinvolti in trattative inutili e dispendiose , non già all’interesse alla positiva esecuzione dei
doveri contrattuali.

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In tale prospettiva, non possono essere risarcite le voci di danno che fanno riferimento all’interesse
positivo in quanto esse attengono, appunto, alle utilità e ai vantaggi che sarebbero derivati dall'esecuzione
del contratto.
L’interesse negativo include poi sia il danno emergente (per le spese sostenute ai fini della partecipazione
alla gara e in previsione della stipulazione del contratto), sia il lucro cessante, dovuto alla perdi ta di
ulteriori occasioni contrattuali, sfumate a causa dell’impegno derivante dall’aggiudicazione, non sfociata
nella stipulazione, o, comunque in ragione dell’affidamento nella positiva conclusione del procedimento
(cfr. Cons. St., sez. V^, sentenza n. 6406 del 29.12.2014).
8.4.- Perché sussista una tale responsabilità precontrattuale occorre però, da un lato, che il
comportamento tenuto dalla P.A. risulti contrastante con le regole di correttezza e di buona fede
di cui all´art. 1337 del cod. civ.; dall’altro, che lo stesso comportamento abbia ingenerato un danno
del quale appunto viene chiesto il ristoro .
8.5.- La giurisprudenza ha escluso l'idoneità dell'atto di aggiudicazione ad instaurare ex se una relazione
negoziale tra stazione appaltante e privato aggiudicatario, ritenendo che tale atto abbia esclusivamente
natura di provvedimento amministrativo ampliativo della sfera soggettiva del destinatario che, per effetto
della stessa, così come diviene titolare di un interesse legittimo oppositivo alla sua conservazione, diviene
al contempo titolare di un interesse legittimo pretensivo alla stipulazione del contratto, sicché nessuna
posizione di diritto soggettivo a detta stipula può essere riconosciuta all'impresa aggiudicataria.
8.6.- Va ancora aggiunto in termini generali che, laddove la stipulazione non avvenga nel termine previsto,
ove l'aggiudicatario intenda ancora conseguire la stipulazione del contratto, vi è la possibilità di ricorrere
avverso il silenzio ex art. 31, c.p.a., ovvero di impugnare in sede di giurisdizione generale di legittimità
eventuali atti di autotutela nel frattempo intervenuti (Cfr. T.A.R. Lazio, sez. II, sent. 9704 del 14.09.2016,
sent. n. 12400 del 3.11.2015).
9.- Delineati i principali caratteri della responsabilità precontrattuale, con specifico riferimento ai
procedimenti ad evidenza pubblica, occorre verificare se, nel caso in esame, tale fattispecie sia
configurabile.
Secondo l’insegnamento della giurisprudenza civilistica (si veda Cassazione civile , sez. I, 26 maggio 2006,
n. 12629 secondo la quale “la posizione dell'imprenditore che abbia fatto legittimo affidamento nella aggiudicazione
dell'appalto e nella successiva stipulazione del contratto e che ne ignorasse, senza sua colpa, una causa di invalidità è
specificamente presa in considerazione dall'art. 1338 c.c.”) potrebbe astrattamente ricorrere una ipotesi di
responsabilità rientrante nel paradigma della responsabilità precontrattuale: essa costituisce speciesdi quella
di cui all’art. 2043 cc, ed è regolata dagli stessi principi a quest’ultima applicabili.
Perché possa affermarsi che ci si trovi innanzi ad un danno risarcibile, in ossequio ai principi generali in
tema di sussumibilità della condotta nel paradigma di cui all’art. 2043 cc., occorre che si pervenga al
positivo riscontro della compresenza dell'elemento soggettivo, costituito dalla colpa o dal dolo dell'agente,
e degli elementi oggettivi, individuati in una condotta posta in essere in violazione di una norma giuridica
("in iure") e in un danno conseguente qualificabile come ingiusto ("contra ius"), ossia che leda una situazione
giuridica altrui, e non che si traduca nell'esercizio di un proprio diritto, nonché un nesso eziologico che
leghi il fatto come descritto al danno. Il rapporto di causalità si ritiene escluso per il sopravvenire di un
fatto che, pur non agendo del tutto indipendentemente dalla condotta del soggetto della cui responsabilità
si controverte, giacché altrimenti darebbe luogo ad una serie causale autonoma, si pone come fattore
interruttivo della catena causale, in grado, cioè, di deviare lo sviluppo normale di quest'ultima. (Consiglio
Stato, sez. VI, 10 settembre 2008, n. 4309; sez. V, 08 marzo 2006, n. 1228).
La Sezione non ignora che dottrina e giurisprudenza hanno in passato elaborato il principio per cui il
potere dell'amministrazione di non dare corso all'aggiudicazione con la stipula del contratto incontra un
limite insuperabile nei principi di buona fede e correttezza alla cui puntuale osservanza è tenuta anche la
p.a. e nella tutela dell'affidamento ingenerato. Da quanto precede deve ritenersi sussistente la colpa
dell'amministrazione che addiviene alla conclusione di una procedura di affidamento lavori senza mai
stipulare il relativo contratto a causa dell'omessa verifica e vigilanza sulla sussistenza della relativa

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copertura finanziaria, in quanto tale comportamento, ingenerando nelle parti un falso affidamento in
ordine alla positiva conclusione della vicenda, deve considerarsi divergente rispetto alle regole cui tenuta
anche la p.a. nella fase precontrattuale.
Si tratta, quindi, di verificare, nel caso in esame, se l’amministrazione si sia comportata da corretto
contraente, senza ingenerare falsi affidamenti e rispettando i legittimi affidamenti comunque creati e
naturalmente senza coinvolgere in trattative che, successivamente, siano colposamente poste nel nulla.
L’esame giudiziale ha in sostanza ad oggetto la correttezza del comportamento assunto dall’ente pubblico
alla luce del dovere di buona fede (Cons. Stato, sez. V, 7 settembre 2009 n. 5245).
10. – (omissis)