Calle Larga San Marco
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autunno 1943 ................................................................................................ 3 la storia di Gino .......................................................................................... 17 inverno 1943 - primavera 1944 ............................................................... 28 la storia di Mario......................................................................................... 38 primavera 1944 ........................................................................................... 56 la storia del capitano Bianco ......................................................................... 68 inverno 1944 ............................................................................................... 78 la storia di Vincenzo .................................................................................. 88 28 aprile 1945.............................................................................................. 98 la storia di Liguria......................................................................................108 25 aprile 1946............................................................................................121 la storia di Fred ..........................................................................................134 6 giugno 1946............................................................................................147
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autunno 1943
La singolare dote si manifestò alla fine dell’estate del 1943.
Verso la metà di settembre, pochi giorni dopo il suo compleanno,
ignaro delle conseguenze della fatidica data dell’8 settembre,
Armando avrebbe iniziato a frequentare la scuola a poche
centinaia di metri da casa.
A quei tempi i soldatini erano di terracotta, con il filo di
ferro dentro, una specie di vena che ne percorreva tutto il corpo,
ancorato alla terracotta della base, quasi sempre dipinta di verde.
Il sottufficiale della Regia Marina Italiana, base azzurra - roba di
mare - era stato ferito gravemente. Armando non era ancora
riuscito a trovare una soluzione per la posizione che dovevano
assumere i feriti. Fino a quel momento li distendeva, ma distesi
voleva dire morti. I feriti come potevano stare? Lo appoggiò su
uno spigolo della base e quello rimase in perfetto equilibrio,
immobile, in attesa di cadere se doveva morire, messo di traverso
rispetto all’orizzonte del pavimento.
Così cominciò. Lì per lì la cosa non lo colpì. Anzi, era
molto soddisfatto di aver trovato una buona posizione per i feriti.
Né in piedi né distesi. Nel giro di pochi secondi gli riuscì anche
con l’indiano dalla mano sugli occhi, teso a scrutare un orizzonte
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che da quel momento avrebbe visto di sbieco; con il soldato
dall’armatura argentata, il poderoso cimiero e la mano destra
vuota, chiusa su un’arma che non c’era più, ma tuttavia pronto a
colpire; con l’alpino inginocchiato per poter sparare meglio con il
suo fucile (aveva anche le fasce alle gambe). Solo il porta-feriti
della Croce Rossa non ne volle sapere. Rimase nella posizione
verticale che recuperava ogni qualvolta veniva messo di traverso
su uno spigolo della base.
Un leggero soffio, e fu la morte generale. La
concentrazione per realizzare la fantasia della battaglia - il porta-
feriti non voleva saperne nemmeno di morire - gli fece
rapidamente dimenticare quella prima volta in cui si manifestò la
sua singolare dote.
Ogni giorno, per alcune ore, Armando metteva in scena la
sua guerra, astraendosi dalla confusione di casa e delle persone
che per i più vari motivi la frequentavano fino all’ora del
coprifuoco. I rumori che gli servivano per accompagnare con il
sonoro la battaglia li produceva tra sé e sé, gonfiando le gote,
emettendo di volta in volta sbuffi, sibili, tonfi: fssss, puuf, pschh… .
Suoni più forti, sostenuti da un’emissione d’aria più consistente,
producevano l’immediata fine della battaglia, facendo
miseramente cadere per terra i combattenti feriti, quelli che se ne
stavano inclinati. L’aria emessa dalla bocca, o spostata dal
movimento del ginocchio libero - l’altro era piegato sotto il
sedere per isolarsi dal freddo del pavimento - oppure da un
rapido movimento della mano, assumeva le direzioni più
impensate e si abbatteva sul campo di battaglia come una bomba
imbizzarrita colpendo casualmente qua e là.
Così per ore nessuno si accorgeva di lui. Qualcuno ogni
tanto andava a controllarlo ma guardava lui, non quello che stava
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facendo. Del resto per le sue battaglie Armando sceglieva con
cura luoghi della casa fuori dal normale circuito di andirivieni
degli adulti. In genere erano angoli di stanza, meglio se con un
terzo lato protetto dal fianco di un mobile, che poteva costituire
un ottimo riparo per tendere agguati, lanciare offensive o per
ritirarsi in attesa del momento propizio per contrattaccare. Il
quarto lato era la sua schiena e quindi difficilmente qualcuno
poteva accorgersi di quei singolari accadimenti che si verificavano
negli anfratti di casa.
Ad Armando questo stare in equilibrio dei suoi soldatini
sembrava un fatto del tutto normale. La caserma era una scatola
di scarpe alla quale aveva tentato, senza successo, di montare
delle ruote e il motore a molla di un’automobilina smontata
appena avuta tra le mani. Colpita da un ben centrato buoff la
caserma fece due giri in aria. La prese al volo e riuscì a metterla in
perfetto equilibrio sullo spigolo in basso, dalla parte corta, dove
c’era l’etichetta con la marca, il colore e il numero delle scarpe.
Ancora una volta non si stupì; anzi, che la caserma colpita
rimanesse in perfetto equilibrio su uno spigolo, gli sembrò del
tutto conseguente con la condizione della sua armata.
I soldatini non si potevano portare in classe: era una regola
della nuova scuola. Entrava in classe e, alzando il braccio destro
un po’ inclinato in avanti, - saluto romano lo chiamavano -
pronunciava, come tutti, la formula di rito per iniziare la giornata
“sia lodato gesù cristo” ... “sempre sia lodato” rispondeva suor
Giuseppina.
Un pomeriggio durante una battaglia, poche settimane
dopo l’inizio della scuola, la baionetta del bersagliere, nello
scontro con il pellerossa, aveva subito seri danni e Armando era
molto preoccupato. La sera, prima di addormentarsi, aveva
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prelevato il bersagliere dalla caserma e, convinto che a causa di
questa menomazione avesse un grande bisogno di assistenza,
l’aveva come ingessato, incastrandolo delicatamente tra le
lenzuola, sul fianco del materasso, dalla parte del letto senza
sponda, dove facilmente lo poteva toccare. L’indomani mattina
non aveva avuto il coraggio di rimetterlo nella caserma, spinto da
un sentimento di protezione che spesso riservava ai giocattoli.
Eludendo facilmente qualsiasi controllo l’aveva portato a scuola
nella tasca del capotto, avvolto nella cuffia di lana blu che si
vergognava di mettere in testa. Poi nella tasca del grembiule nero,
braccio destro alzato, “sia lodato gesù cristo” ... “sempre sia
lodato”. Preghiera. Segno della croce. Seduti con le braccia
conserte. Breve e silenziosa ginnastica solo con le braccia.
Canzoncina per il papa. Poi le lettere.
Quel giorno toccava alla Q. QUADRO … QUERCIA -
per tutta la classe questa parola non aveva alcun significato:
nessuno l’aveva mai vista una quercia a Venezia - …
QUARESIMA – occasione buona per parlare un po’ di penitenza
e roba simile: anche questi argomenti incomprensibili. Insomma,
questa Q era veramente una lettera strana. Vuoi mettere la A …
ARMANDO, ASTA, ARCO, ANIMALE, poi parole sempre
più complicate ACROBATA, ABBAINO, si sa, si poteva
disegnare ogni cosa e colorarla. Veniva proprio bene. Oppure la
M. MAMMA, MAIALE, veniva in mente anche MERDA, ma
non avrebbe potuto mai scriverla o, peggio ancora, disegnarla e
colorarla.
Chiamare merda la cacca era stato uno dei primi effetti
dell’inizio della scuola elementare. Armando sapeva com’era
perché ogni volta la guardava e la annusava con ammirazione
mista ad orgoglio prima di rassegnarsi a vederla scomparire.
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La Q lo annoiava; era anche un po’ ridicola, con quella codina,
sembrava un maiale.
Alcuni anni dopo, in terza media, avrebbe incontrato un
anziano signore che insegnava disegno: un bravo pittore astratto
che gli insegnò a scrivere ordinatamente tutte le lettere
dell’alfabeto in stampatello nei fogli a quadretti, racchiuse dentro
rettangoli o quadrati di tre quadretti per due, tre quadretti per tre,
diritto e inclinato. Come se soltanto molti anni dopo fosse
riuscito, facendo questo esercizio, a mettere un po’ d’ordine nel
mondo così complicato delle lettere.
Le trecce di Teresa, come ogni giorno, spazzolavano
delicatamente il suo banco e le loro estremità, spontaneamente o
debitamente pilotate dalla cannuccia delle penna di Armando,
potevano infilarsi per un pezzetto dentro il calamaio pieno di
inchiostro nero incorporato nel banco. Erano anch’esse nere, e
quel giorno divennero un drago dalle cui fauci usciva
fiammeggiante il rosso del nastro che all’estremità le teneva ben
strette.
Il bersagliere saltò fuori da sotto il banco, dove stava
riposando a fianco della cartella. Anche se menomato caricò il
drago . Fu però ferito dal movimento della treccia, fece tra le dita
di Armando, al riparo della schiena di Teresa, due capriole per
aria e si fermò a pochi centimetri dal calamaio, in equilibrio sulla
sola punta del moncone di baionetta, con la base per aria quasi
avesse infilzato il banco.
“ … QUADERNO … QUATTORDICI … QUINDICI
… QUOTIDIANO - quello del dacci oggi il nostro pane - …
QUALUNQUE ben due Q - questa non la scriviamo, impariamo
solo a dirla bene – … QUADRATO … ”. Armando si convinse
che anche la maestra una volta arrivata alla Q aveva difficoltà a
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spiegarsi e che in fondo la Q non interessava nemmeno ai
maestri, era troppo strana.
Riuscì a concentrasi per poco sul rumore che il gesso di
suor Giuseppina faceva sulla lavagna, quasi un
accompagnamento alla sua voce, ma fu di nuovo distratto
dall’energia proveniente da un’altra direzione: sentì due occhi che
guardavano il bersagliere. Il soldatino, al sicuro dalle trecce di
Teresa che nel frattempo erano state portate sul davanti a far
compagnia alla loro padrona, manteneva il suo equilibrio e
Sandro si chiedeva in quale fessura o piccolo buco Armando
l’avesse mai infilato per farlo stare in quella posizione. Lui,
Sandro, fessure o buchi sul suo banco non ne aveva.
La campanella della madre portiera, suor Bianca,
amplificata dalle volte dei corridoi del convento, chiamò alla
ricreazione. Rapidamente Armando ripose il bersagliere nella
cartella, bene in fondo, al posto del pane umido e una spolverata
di zucchero, ma non riuscì a sottrarsi all’ispezione di Sandro.
Prima di fare qualsiasi domanda guardò attentamente il piano del
banco nella zona dove il bersagliere era stato fino a pochi istanti
prima; passò più volte la mano paffuta sulla superficie, inclinò la
testa da una parte per vedere controluce qualche imperfezione
del piano del banco e, finalmente, guardò Armando fisso negli
occhi. Gli offrì, come ormai era solito fare, metà del suo pane
olio e sale in cambio della metà di pane e zucchero. Armando
sentì che quel giorno la loro intesa poteva diventare qualcosa di
diverso da quello che era stato nelle ultime settimane, e avvertì
confusamente che lo scambio andava al di là dei due pezzi di
pane. Ebbe la tentazione di rifiutare, per non condividere con
qualcuno una parte di sé. Poi, non attribuendo quella strana e
fuggevole sensazione a nient’altro che non fosse l’invadenza
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curiosa di Sandro, accettò e, come sempre da quando avevano
iniziato la scuola, cominciarono a rincorrersi tra i banchi urtando
quante più compagne possibile.
Stare assieme a Sandro, da quel giorno, divenne
un’abitudine. Tuttavia tra loro qualcosa rimaneva in sospeso: da
parte di Sandro, una domanda che non veniva fatta per non avere
un rifiuto; da parte di Armando, la sensazione di non poter
ripetere un gesto, che peraltro riteneva normale, davanti a occhi
che non fossero i suoi.
L’oggetto dei loro giochi era sempre la guerra che, ora nella
casa dell’uno, ora nella casa dell’altro, si snodava sempre uguale
tutti i giorni. Sandro aspettava il momento in cui Armando si
sarebbe esibito in quella strana cosa. Armando percepiva
quell’attesa, ma la ignorava. Da una parte era convinto di non
fare nulla di straordinario, dall’altra sentiva che quegli
accadimenti erano suoi e basta.
Un sabato mattina, inaspettatamente, uscirono di scuola
alle undici. Armando era abituato, fin dall’asilo, ad andare e
tornare da scuola da solo. Poca strada lungo la quale tutti lo
conoscevano: i bottegai, i camerieri di bar e ristoranti, il
giornalaio e soprattutto Teresa, la commessa del negozio di
giocattoli. Accanto al portone di casa la farmacia, con i grandi
vasi di vetro e ceramica; subito a sinistra il negozio di giocattoli -
purtroppo chiuso la mattina all’ora di andare a scuola; pochi passi
e, dopo il negozio di alimentari, ancora a destra per una calle
stretta e ventosa; lungo la calle il ciabattino, la pensione, il lattaio,
il salumiere; poi, prima di girare ancora a destra, il fruttivendolo;
quindi il campo da percorrere tenendosi distante dalla puzza del
pisciatoio sistemato nel sottoportico a destra; poi l’asta rossa della
bandiera - mai vista una bandiera su quel pennone; breve sosta
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per decifrare le incomprensibili parole incise sulla pietra alla base
del pennone: “AGLI ARDITI DI VENEZIA CHE SOLO LA MORTE
FERMÒ NELL’ASSALTO”; lo slancio per superare il ponte: su per
il ponte, giù dal ponte e subito a sinistra, la breve fondamenta che
porta al portone e all’odore zuccheroso di scuola che dà il
benvenuto.
Anche quel giorno, come tutti i giorni, appena tornato a
casa, Armando raccontò quello che aveva imparato a scuola
ripetendo al primo adulto che incontrava e seguendolo per casa, a
voce alta, tutto quello che aveva attentamente ascoltato a scuola.
Poi, soddisfatto e in attesa di mangiare, si dedicò a organizzare
una battaglia. Scelse l’angolo tra la zampa di una grande credenza
scura nella sala dove si entrava di rado e la porta della stanza da
letto grande che non veniva mai aperta perché in quella stanza si
entrava dal corridoio dell’ingresso. Aveva appena disposto la
scatola di scarpe nell’angolo a destra del vano della porta,
sistemati sopra la caserma l’alpino, il guerriero medievale, il
porta-feriti e un bastoncino di legno che fungeva da cannone;
dietro lo stipite sinistro della porta era in agguato il pellerossa e
dietro la zampa della credenza un marinaio con le ghette e il
bavero bianco che gli avevano regalato qualche giorno prima,
come premio per un biglietto d’onore d’oro in aritmetica. La
battaglia di quel giorno si svolgeva attorno a una parte del
meccanismo di un orologio da nave in ottone, abbandonato in un
cassetto di casa e considerato da Armando un inestimabile
tesoro. Lo aveva appena messo in equilibrio, in mezzo al campo
di battaglia, su un perno che spuntava dal cuore di una grande
molla, quando dall’Arsenale partì un colpo di cannone. Le grandi
campane del campanile di San Marco cominciarono a suonare il
mezzogiorno: suoni grandi, lenti come se il campanile fosse un
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gigante e il suono delle campane la sua voce. Sovrapposti agli
ultimi rintocchi, proprio sotto casa, nella piazzetta dei Leoncini,
risuonarono tre squilli di tromba.
Nulla come il suono di una tromba aveva il potere di
eccitare di più Armando. Abbandonò la battaglia e di corsa uscì
dalla stanza. Entrò nel salotto e da qui, con la solita fatica perché
la maniglia della porta-finestra era troppo alta e dura da
manovrare, uscì in terrazza. Scansò la gallina che gli si era fatta
incontro aspettandosi del cibo. Appoggiando la mano destra sulla
ringhiera di ferro della terrazza e la sinistra sul coperchio in
lamiera del cassone del carbone costruito sul lato della casa fece,
come era solito fare, quattro balzi e arrivò al parapetto che dava
sulla piazzetta. Spostò vicino al muro del parapetto il vaso di fiori
rovesciato che, all’insaputa di tutti, usava per alzarsi quel tanto
che bastava per afferrare il corrente di ferro fissato sulla pietra, si
issò e piegato in due, con la testa oltre il ferro e la pancia
appoggiata al marmo, vide finalmente l’origine di quel richiamo.
Erano disposti su due file, messi in ordine dai più piccoli ai
più grandi, tutti vestiti uguali. Avevano un cappelluccio con il
fiocco, la camicia, i calzoni corti, i calzettoni, le scarpe, tutto
nero. Avevano un cinturone, e due bandoliere bianche che si
incrociavano sulla schiena. I due più grandi avevano il tamburo
appeso al cinturone e in mano le bacchette per suonarlo. Gli altri
avevano dei piccoli fucili di legno. Un adulto senza bandoliere,
ma con una rivoltella e un manganello legati alla cintura, e la
tromba in mano, stava urlando degli ordini in risposta ai quali
tutti assieme, come se dei fili invisibili li legassero, facevano dei
movimenti pur rimanendo ognuno al suo posto. A un comando
dell’adulto alzarono tutti contemporaneamente il braccio destro
inclinato in avanti, come facevano entrando in classe, e urlarono
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tutti insieme qualcosa che Armando non capì. Erano davanti alla
tomba di Daniele Manin, ultimo doge di Venezia, collocata
all’esterno del transetto della chiesa di San Marco. Il sarcofago di
bronzo era sistemato su uno zoccolo di pietra che sporgeva
all’esterno della pesante cancellata pure di bronzo scuro, quasi
nero. La posizione defilata dalla strada e i vari anfratti di cui era
formato facevano di questo posto un luogo prediletto dai
bambini per i loro giochi. Armando intuì che quelli, però, non
stavano giocando: non poteva essere veramente un gioco se
stavano tutti lì a farsi comandare da un adulto. Lasciando un po’
di spazio attorno ai balilla si erano fermati alcuni passanti. Altri
davano un’occhiata e scuotendo leggermente la testa
proseguivano. Anche i camerieri dei bar sotto casa si
avvicinarono sistemando con la mano destra il tovagliolo a
cavallo dell’avambraccio sinistro piegato. Armando conosceva
quel gesto perché il tovagliolo era l’arma dei camerieri contro i
bambini che giocavano a palla, e lo tenevano lì, come in una
fondina, pronti a colpire. Un altro ordine e tutti assieme si
voltarono, girando tutti dalla stessa parte. In quel momento
Armando vide Sandro. Era il terzo a cominciare dal più piccolo e
si trovava nella fila proprio di fronte a lui.
“Sandro, SANDRO!” gridò con quanto fiato aveva in gola.
Poi, visto che il primo richiamo non aveva avuto effetto, di
nuovo “SANDROOOO”. Niente. Sandro, che conosceva bene
quella terrazza, alzò appena gli occhi tenendo ferma la testa,
sicuro di vedere Armando e decise che per nulla al mondo
avrebbe risposto a quel richiamo perché Armando non gli aveva
rivelato il suo segreto. Nello stesso istante pensò anche che se lo
avesse salutato, in qualche modo, anche a costo di essere
rimproverato dall’adulto, forse Armando…
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“Avanti… marche! Unò, dué, unò dué…”. Appena urlato
il comando cominciarono a rullare i tamburi e seguendo la
cadenza da marcia militare se ne andarono tutti impettiti, Sandro
più impettito di tutti, seguiti dallo sguardo attento di Armando.
Rimase a fissare ancora per un po’ la corona di fiori appesa
all’esterno della tomba “Armando dove sei? vieni è pronto”. Era
ora di mangiare.
Mise in equilibrio sulle punte la forchetta che veniva usata
per rimestare la terra nei vasi. Osservò con attenzione i percorsi
che le file di formiche ordivano lungo gli spigoli dei muri della
terrazza per vedere se c’era qualche novità, rimbalzò per quattro
volte tra il cassone del carbone e la ringhiera e rientrò in casa
indirizzando alla gallina un saluto da pulcino. Era talmente preso
da quello che gli era appena successo che, una volta seduto a
tavola, senza pensarci, prese un bicchiere e lo mise in equilibrio
sul bordo inferiore e vicino mise un cucchiaio dritto, in verticale,
con il manico verso l’alto. “Smettila. Non si gioca in tavola”.
Pasta e fagioli.
Il lunedì mattina, tornando a scuola, Armando aveva
deciso cosa fare con Sandro. Aveva capito, pensandoci e
ripensandoci per quasi due giorni, che effettivamente riuscire a
mettere con sicurezza in equilibrio precario qualsiasi oggetto gli
capitasse per le mani era un grande segreto. Forse, si immaginava,
poteva essere perfino un’arma: uno si mette là, davanti al nemico,
prende una camionetta, la mette in equilibrio sull’angolo in basso
a sinistra del paraurti posteriore; quello, il nemico, sulle prime
non capisce e poi continua a non capire, prende paura perché
non capisce; viene a vedere vicino vicino e tu… zac… lo fai
prigioniero. Più numerosi erano i nemici più grande era la cosa da
mettere in equilibrio: un carro armato, una nave; più grande
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l’oggetto messo in equilibrio, più prigionieri si potevano fare.
La domenica pomeriggio, subito dopo pranzo,
approfittando del riposo degli adulti Armando, per provare le
idee che con molta fatica e tra mille distrazioni tentava di
afferrare, era riuscito a mettere in equilibrio, sullo spigolo della
gamba sinistra, una sedia del salone. A fatica, perché la sedia era
pesante e, per poterla sollevare poggiandola sullo spigolo di una
sola gamba e inclinarla in avanti, aveva dovuto spingerla e
bloccarla su una sporgenza dei piedi del pianoforte. Sì, decise
Armando, era un’arma formidabile; lui solo sapeva come usarla e
quindi doveva rimanere un segreto. Se finiva il segreto, finiva
anche l’efficacia dell’arma.
In più Armando, dopo quel sabato mattina, era stato preso
nei confronti di Sandro da un miscuglio di sentimenti. Invidia per
la sua divisa così uguale a quella di tutti gli altri: avrebbe voluto
averne una uguale anche lui; ne rimase talmente colpito che si
immaginò tutti i bambini con quella divisa in classe, a casa, per
strada. Paura per quel fare le cose tutti assieme come se dei fili
invisibili li obbligassero a fare gli stessi movimenti: per esempio,
come facevano a grattarsi? dovevano farlo tutti assieme?
Avversione per quel lasciarsi comandare da un adulto senza poter
giocare. Con grande disagio, senza riuscire a spiegarsi
chiaramente tutte queste sensazioni che lo confondevano,
Armando aveva messo Sandro dalla parte dei nemici. Peraltro,
Sandro, non avendo capito quello che stava succedendo nella
testa di Armando, mandava segnali di paura. Proprio la reazione
che Armando si aspettava da un nemico.
Da sopra al ponte, prima della breve fondamenta alla fine
della quale c’era il portone della scuola, vide Sandro che veniva
dalla calle di fronte. Arrivati vicini non riuscirono a salutarsi tale
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era l’imbarazzo di entrambi. Si guardarono un po’ di sottecchi e
Armando disse in fretta: “Un segreto che non è più un segreto
non c’è più”. Con questa frase un po’ oscura, era però tutto
quello che in quel momento gli era uscito dalla bocca, si consumò
la loro rottura. Ognuno dalla sua parte, come spesso succedeva in
quegli anni anche a tanti adulti, senza riuscire a spiegarsi fino in
fondo tutti i perché.
Con il passare dei giorni, quasi senza accorgersene,
Armando si trovò isolato dal resto della classe. Non che nessuno
più lo urtasse, oppure gli rivolgesse la parola, giocasse con lui
durante la ricreazione o scambiasse pezzi di merenda. Ma, chi per
un motivo chi per un altro, nessuno andò più a giocare da lui né
tantomeno lo invitò a casa sua. Armando non dava peso a questa
cosa. Del resto di questa situazione si sarebbe accorto solo chi si
fosse messo ad osservare da fuori quello che succedeva nella
classe; ma gli adulti, in quegli anni, con difficoltà dedicavano
attenzioni particolari ai bambini, presi com’erano da problemi
che sovrastavano anche loro. Allora, naturalmente e
apparentemente senza effetti collaterali, Armando sviluppò una
serie di strategie di gioco solitario al centro delle quali collocò la
casa. Un vasto e inesauribile territorio da esplorare. Ogni più
piccola parte della casa offriva qualche cosa. Spazi piccolissimi
dentro ai quali raggomitolarsi e stare immobile fin tanto che non
lo trovavano. Luoghi semibui dai quali organizzare agguati al
gatto o saltare improvvisamente sui piedi di qualche adulto.
Oppure chiudere gli occhi e passare attraverso le stanze senza
toccare nulla, andare da una stanza all’altra senza farsi vedere e
senza farsi sentire ed esplodere nell’urlo-canto.
L’urlo-canto era un incrocio tra cantare note diverse che gli
davano un’intima soddisfazione a sentirle in sequenza e urlarle
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con il tono più alto possibile introducendo, ad un certo punto
anche il massimo di asprezza nel timbro. In casa non era molto
amato per questa sua esibizione. Ma Armando, dentro di sé, era
molto soddisfatto: come se attraverso la voce riuscisse ad
esprimere un’immensa forza che sapeva di non avere nei muscoli.
E si sentiva anche meno solo. Come se quella sua “grande voce”
fosse un’altra cosa da sé che gli teneva compagnia.
L’urlo-canto dava molto fastidio, anche perché non c’era
abituato, ad un adulto che da pochi giorni si era installato in casa:
Gino. Ad Armando dissero di chiamarlo papà.
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la storia di Gino
“In territorio occupato dal nemico dal 9-9-943 all’8-5-945”.
C’è da immaginare l’espressione soddisfatta del burocrate con le
stellette che ha elaborato questa laconica frase. Capolavoro di
diplomazia e di ipocrisia, tenta di nascondere il disfacimento
dell’esercito italiano in patria e negli altri teatri di guerra e il
dramma di migliaia di italiani abbandonati in divisa dai loro stessi
superiori. In realtà Gino dopo pochi giorni dalla fatidica data è a
Venezia nascosto tra casa sua e case di parenti e amici. Appunto,
in territorio occupato dal nemico.
La mattina dell’8 settembre 1943, alcuni minuti prima che i
tedeschi occupino MARISCUOLE di Pola, Gino riesce a lasciare
la caserma coprendo con un dito il timbro sul documento che lo
qualifica come militare insegnante. Gli è andata bene perché è
stato scambiato per un insegnante civile. E’ la caserma dove
insegna ai marinai a sparare con il cannone da bordo delle navi: la
velocità della tua nave, la stima di quella del nemico, la tua rotta e
la stima di quella del nemico; il tipo di cannone e di proiettile; la
traiettoria e quindi l’alzo; il primo tiro lungo, il secondo corto, il
terzo quello buono.
Ha appena sentito nell’aula di radiocomunicazioni il
comunicato di Badoglio. Non parla con nessuno, non si consiglia
con nessuno. Mette l’abito borghese ed esce: l’ufficiale di
picchetto non ha ancora ordini precisi. È già in treno diretto a
Trieste da Pola quando i tedeschi attaccano senza trovare
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nessuna resistenza la caserma della Regia Marina Italiana e si
apprestano a spedire tutti in Germania assieme ad altri
seicentomila ramazzati in mezza Europa.
Arrivato a Trieste non riesce ad andare oltre con il treno, i
controlli per chi si allontana da Trieste sono già diventati molto
rigidi. Più facile uscire dalla stazione. Decide di andare al porto,
nell’unico posto dove un uomo di mare si sente se non proprio al
sicuro almeno protetto. C’è l’ufficio di un’agenzia di spedizioni in
cui lavora un amico che gli dice di un cargo, in partenza per
Venezia la mattina dopo, dove è imbarcato barba Bepin. Con la
complicità del nostromo - barba, cioè zio, è l’appellativo in uso a
bordo per chiamare i nostromi dalmati -, con il quale ha già
navigato, e che incrocerà negli equipaggi delle navi sotto il suo
comando per molti anni, sale a bordo e viene nascosto in uno dei
tanti recessi misteriosi di una nave. Tira un sospiro di sollievo
solo quando comincia a sentire le vibrazioni del motore che si
propagano attraverso le paratie. Arrivato a Venezia aspetta la
notte. A bordo sono rimasti in pochi. Barba Bepin ha trovato,
con l’aiuto di uno scaricatore, una barca che lo viene a prelevare.
Alla sera è a casa. Lo avevano già dato per disperso o prigioniero
in Germania. “El paron, xe rivà el paron!” così Lisetta comunica il
suo ritorno alle donne di casa esterrefatte. Si mettono a piangere
dalla gioia. “ ’Ste stupide le pianze invece de rider”. Così finisce la
guerra di Gino, ma si dovrà ancora nascondere dalle ricerche
della polizia militare della Repubblica Sociale Italiana. Non ne
può più dei militari. Non ne vuole più sapere.
Ancora molti anni dopo continua a maledire i militari e la
Marina Militare. Quando gli arriva la promozione a tenente di
vascello, ha già passato in mare più di quindici anni della sua vita,
prende le carte e le rispedisce al mittente rifiutando la nomina.
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Cavaliere del Regno. Il titolo si tramuta dopo molti anni in
Cavaliere della Repubblica. Trova tutto ciò ridicolo e ci scherza
sopra. Gli hanno dato quel titolo perché il piroscafo “Luciano”,
sotto il suo comando, è l’ultima nave a rientrare in Italia
attraversando lo stretto di Gibilterra dopo la dichiarazione di
guerra.
Gino ha già navigato sul “Luciano” un mese prima: due
viaggi da Philippeville, l’odierna Skikda algerina, a Genova prima
di essere richiamato per un breve periodo dalla Regia Marina che
si sta preparando per la guerra. Poi via di nuovo: parte in treno da
Venezia l’11 maggio. L’ultimo viaggio del “Luciano” comincia a
Cardiff il 16 maggio. In porto, prima di caricare il carbone,
vengono effettuate alcune riparazioni e Gino ne approfitta per
completare il carico di cibo e acqua: vuole essere pronto a salpare
in qualsiasi momento. L’armatore gli ha dato carta bianca: se si
trova in difficoltà, il primo obiettivo e riportare la nave in Italia.
Se salva la nave ci sarà da guadagnare con i trasporti diretti ai vari
fronti.
Nei giorni in cui la nave è ferma a Cardiff ordina al
radiotelegrafista di rimanere incollato agli strumenti e di
raccogliere dall’aria tutte le informazioni possibili. Al minimo
segnale che possa essere interpretato come l’inizio della guerra
deve avvertirlo immediatamente. Ascoltando la radio si ha la
sensazione che la tensione stia crescendo. E’ inquieto e, come
spesso gli succede, si incupisce. E’ abituato a tenersi tutto dentro
da quando, a vent’anni, la morte del padre e del fratello maggiore
gli hanno assegnato responsabilità troppo grandi per la sua età.
La mancanza di notizie certe lo mette di cattivo umore: la
interpreta come un segno di quiete prima della tempesta. Alla
fine del turno di lavoro pomeridiano del 7 giugno rompe gli
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indugi e decide di partire. Sospende le operazioni di carico, dà ai
suoi ufficiali ordini rapidi e secchi, di quelli che non ammettono
replica, di approntare la nave per la partenza. Va a terra, firma le
carte relative al carico non completato e ottiene dalle autorità
portuali di partire all’una di notte del giorno successivo. Si sente
più sicuro in mare dove la sua angoscia viene sempre sciolta dalla
concentrazione necessaria per elaborare istantaneamente le
informazioni che vengono dalla natura, dagli uomini e dalla radio
di bordo. Se dovesse succedere qualcosa si troverà comunque in
mare, oscurerà la nave e proverà ad allontanarsi quanto più
possibile dalla Gran Bretagna.
Si annuncia tempo buono quando molla gli ormeggi e
prende il largo guidato dal rimorchiatore. E’ una notte senza luna.
La situazione più propizia per lasciare che le vibrazioni della nave
gli entrino dentro attraverso le parti del corpo a contatto diretto
con lo scafo: dai piedi, dalla schiena o da una mano appoggiata
alla murata, dal gomito sul tavolo di carteggio. Lasciato dal
rimorchiatore, Gino manovra per seguire la rotta dell’asse del
canale di Bristol: si vuole tenere il più lontano possibile dalle due
coste. Il radiotelegrafista non molla la radio per un istante.
Appena in rotta sull’asse del canale comunica a Genova la
partenza. Per cinque volte, ogni tre minuti, senza aspettare
risposta. Poi, nonostante le proteste del suo secondo, starà in
silenzio radio per giorni, fin quando avrà portato la nave ben
dentro il Mediterraneo. Parlerà in continuazione solo con se
stesso. Per controllare la bontà della rotta. Per orientare le
reazioni dell’equipaggio agli ordini. Per fissare nella memoria gli
snodi di una storia che non sarebbe mai riuscito a raccontare a
nessuno.
Ha deciso di allungare la rotta. Vuole evitare un eventuale
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blocco all’imbocco della Manica che sicuramente sarebbe scattato
subito dopo la dichiarazione di guerra. Meglio essere in mare
aperto in pieno giorno; esce dal canale di Cardiff dopo circa dieci
ore di navigazione e decide per una rotta di 265° verso ovest. Poi
a sud, il più rapidamente possibile, per non incontrare i
sommergibili alleati e tedeschi che pattugliano l’ingresso al Canale
della Manica. Superato questo primo possibile ostacolo passa al
secondo la nuova rotta e finalmente va a riposare convinto di
aver fatto la scelta giusta. Alla radio si danno il cambio il
radiotelegrafista e il primo ufficiale. La mattina successiva
incrocia un cargo inglese diretto verso il canale della Manica e sul
pelo dell’orizzonte, a circa 12 miglia, vede apparire e scomparire
la sagoma inconfondibile di un sommergibile che lo tiene in
apprensione per un paio d’ore. Dal sommergibile non li degnano
nemmeno di uno sguardo.
A bordo del “Luciano” si lavora sodo: la nave è
leggermente improdata e inclinata di un paio di gradi a babordo
perché il carico è stato sistemato male per la fretta di salpare.
Decide di ristabilire l’assetto della nave e si libera di una parte del
carico di carbone buttandolo in mare. Fa in modo però di non
alleggerirla troppo, per non ballare in caso di mare duro. Fra
l’altro, in questo modo aumenterà la velocità media di crociera.
Fa aprire le stive: una parte dell’equipaggio scende con le pale per
riempire di carbone dei grandi teloni che vengono issati con i
verricelli di bordo, virati fuori bordo e svuotati in mare. Il lavoro
è lento e faticoso. Hanno solamente due teloni e otto pale: quelle
che servono a spalare la sabbia in caso di incendio. A turni di due
ore lavorano in quattordici per turno dandosi il cambio ogni
mezz’ora: otto con le pale, due ai teloni e due per ogni verricello.
Lavorano così per trentadue ore di fila, di notte quasi al buio
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spegnendo le luci delle stive prima di aprire i portelloni. Un paio
di volte vengono sorvolati da aerei militari inglesi in volo ad alta
quota.
La notte del 9 giugno Gino prolunga il suo turno di
comando oltre la mezzanotte. Vuole fare il punto nave ed
eventualmente, se sono dove pensa, decidere per il cambiamento
di rotta. E’ circa l’una del 10 giugno quando, prima di andare a
dormire, ordina la nuova rotta: 180°, a sud, allineati all’incirca sul
10° meridiano ad ovest di Greenvich. Il “Luciano”, alleggerito di
una parte del carico, viaggia a una velocità di 12-13 nodi. I venti
meridionali, in questa stagione, non hanno ancora la forza che
acquistano in autunno e quindi non frenano la nave.
Il pomeriggio di quello stesso giorno la radio annuncia lo
scoppio della guerra.
La notizia, diventa immediatamente il centro dei pensieri e
delle chiacchere dell’intero equipaggio. Il loro parlare riduce la
devastante portata della guerra ai loro affetti, alle famiglie, al loro
tentativo di rientrare in Italia, agli amici in divisa. La notizia della
guerra viene accolta dall’equipaggio quasi con rassegnazione,
fatto salvo l’entusiasmo del secondo ufficiale che è
dichiaratamente fascista. A Cardiff Gino ha incontrato un amico
comandante che gli ha confessato l’intenzione di attendere in
porto la dichiarazione di guerra per essere fatto prigioniero
assieme all’equipaggio e chiamarsi fuori dagli orrori della guerra.
I pensieri di tutti si concentrano rapidamente su un solo
punto: hanno davanti circa quattro giorni di navigazione per
preparasi ad affrontare il passaggio dello stretto di Gibilterra. Se
non va, finiranno tutti prigionieri per l’intera durata della guerra.
Anche questa può essere una soluzione. Oppure dovranno
affrontare una nave da guerra nemica o peggio un sommergibile:
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ma questa alternativa rimane chiusa nella testa di ognuno e fa sì
che tutti si concentrino sul lavoro e sui segnali che provengono
dal mare, dal cielo e dalla radio. Gino non è un eroe e nella scelta
di provare a tornare è un po’ spinto dall’orgoglio di portare a casa
la nave, un po’ dal gusto di sfidare la Marina britannica, un po’
dalla responsabilità che sente verso la sua famiglia e l’equipaggio,
quasi una seconda famiglia. La decisione Gino l’ha presa con il
consenso pieno degli ufficiali. In ogni caso sono tutti d’accordo,
anche il fascista, di arrendersi al primo colpo di cannone sparato
contro.
Una volta in mare Gino ha parlato con gli ufficiali, ben
sapendo che nel giro di pochi minuti il quadro della situazione
sarebbe stato noto anche al mozzo di cucina. Proprio
quest’ultimo, presentandosi nella sua cabina con la scusa di
rassettarla o per portargli la biancheria stirata, gli avrebbe fatto
capire che le comunicazioni fatte agli ufficiali avevano fatto il giro
completo dell’equipaggio. Con poche parole le avrebbe corrette e
le correzioni avrebbero risalito la scala gerarchica fino al
nostromo. Poche frasi con il nostromo e il cerchio si sarebbe
chiuso. Se qualcuno non fosse stato d’accordo lo si sarebbe
saputo all’istante, così come si poteva controllare con certezza
che tutti avessero capito chiaramente quello che li aspettava.
Gino sa che Gibilterra è stata informata di una nave
italiana proveniente da Cardiff. Di conseguenza immagina che le
rotte provenienti da nord saranno quelle più vigilate. Decide
allora di confondere la sua provenienza passando lo stretto di
Gibilterra da sud ovest come se stesse arrivando dal sud America.
Le notizie che raccolgono non sono rassicuranti: il giorno 12
dalla radio costantemente presidiata captano il segnale che un
cargo italiano trasmette poco prima di essere bloccato dalla
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Marina britannica proprio a nord dell’imbocco dello stretto di
Gibilterra.
Comincia a fare calcoli per trovarsi nel punto più stretto
del canale fra l’una e le quattro del mattino. Intanto a bordo,
sotto la guida del nostromo, l’equipaggio è impegnato a dipingere
di nero tutta la nave compreso il nome a poppa e a prua e
l’insegna dell’armatore: due onde bianche che avvolgono la
ciminiera nera. Il giorno 13 deve ridurre la velocità per non
trovarsi in anticipo nel punto stabilito e accoglie con
soddisfazione l’annuncio di una perturbazione in arrivo nella
zona: non è frequente in questa stagione. Nello stesso giorno, a
pomeriggio inoltrato, incrocia a una decina di miglia un cargo
americano in rotta per attraversare l’Atlantico e due ore dopo,
quasi al buio, un cargo olandese diretto a nord. I colleghi
americano e olandese passano senza dedicargli particolari
attenzioni. Del resto non sono ancora coinvolti nella guerra e la
solidarietà tra uomini di mare lo convince che non hanno
comunicato a nessuno il loro incontro. Infatti, per fortuna, né per
radio né a vista – in contro plancia sono in due a controllare
l’intero orizzonte armati di binocoli giorno e notte – avvistano
navi militari o sentono rumori di aerei.
A mezzanotte esatta del 14 giugno, dopo aver sorpassato di
un bel po’ di miglia l’asse del canale di Gibilterra, abbandona il
10° meridiano ovest e mette la nave in rotta per 65°. A 12 nodi
ha un giorno di navigazione davanti prima di affrontare la parte
più stretta del canale. Vento e mare hanno rinforzato e gli
sgombrano la strada: può cominciare ad accostare alla costa
dell’Africa senza incrociare pescherecci o altre piccole
imbarcazioni che con questo tempo non rischiano di mettersi in
mare. Verso sera la situazione peggiora, le nuvole si fanno più
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basse. Le condizioni del tempo sembrano assecondare le
intenzioni di Gino. Comincia il momento più difficile del viaggio.
Chi sa pregare prega senza farsi vedere. Esclusi i macchinisti di
turno sono tutti fuori, appoggiati alle murate, incuranti del
pulviscolo d’acqua che le raffiche di vento scaraventa in coperta,
pronti ad eseguire qualsiasi manovra nel più breve tempo
possibile.
Gino, in piedi accanto alla porta della sala carteggio, alle
spalle del timoniere di turno, accosta il più possibile alla costa
africana. Macchine a mezza forza, poi al minimo per fare meno
rumore possibile e non lasciare scia in mare. Due nodi e
quaranta, cinquanta metri di mare sotto: sono a non più di due o
tre miglia dalla costa e nonostante la brutta nottata vedono
baluginare da terra alcune luci. Il “Luciano” ha anche le luci di
posizione spente. In plancia la sala carteggio è stata oscurata
completamente e così tutti gli oblò. In coperta è vietato fumare.
Non si vede una stella. È di quelle notti nelle quali il nero del
mare e il nero del cielo si confondono e assieme sono come un
enorme buco nel quale il “Luciano” si tuffa come dentro ad un
tunnel. L’ora e la nottata non favoriscono chi sorveglia lo stretto.
È anche probabile che le routines militari per il controllo non
siano ancora del tutto operative.
Inizia il passaggio del punto più stretto del canale alle due
di mattina del 15 giugno e ne esce alle quattro. E’ ancora buio.
Nessuno si è mosso dal suo posto. Il cuoco e il mozzo di cucina
hanno lavorato tutta la notte a preparare caffè e a quell’ora
sfornano la pizza genovese, quella alta con i grani di sale grosso
incistati nella crosta assieme al rosmarino.
Il “Luciano” può allontanarsi dalla costa. “Macchine avanti
tutta”. Un uomo proveniente da prua arriva correndo trafelato in
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plancia: a trenta, quaranta metri dalla nave hanno visto uno
strano movimento. Per un istante tutti temono il peggio.
Sporgendosi a babordo Gino vede un branco di cinquanta,
sessanta delfini che, come spesso succede, accolgono e scortano
le navi che passano da una parte all’altra dello stretto di
Gibilterra. Con un gesto quasi involontario li saluta.
Si stacca dalla costa dell’Africa, rotta su Alboran. Sa, dalla
radio, che due caccia italiani incrociano attorno all’isola per
proteggere le navi che riescono a forzare il blocco di Gibilterra.
Rimane in plancia finché non vede a una dozzina di miglia, verso
est, i segnali luminosi di uno dei due caccia. Spunta dalle nuvole
un aereo inglese quando a bordo stanno già ripulendo il nome e
le insegne sulla ciminiera. Se è un aereo silurante può essere la
fine, peggio che esser fatti prigionieri… La paura passa quando
dalla plancia Gino, dopo aver attentamente esaminato l’aereo con
il binocolo, annuncia con il megafono che non ha siluri attaccati
sotto alle ali. E’ solo un ricognitore. Ha imparato a riconoscere le
sagome degli aerei nelle ultime settimane fatte da militare prima
di riprendere il comando del “Luciano”.
Finalmente può comunicare la sua posizione all’armatore e
sa che questa notizia farà il giro dell’Italia in risposta alle ansie
delle famiglie dell’equipaggio. Per festeggiare la riuscita
dell’impresa si accende finalmente una sigaretta il cui desiderio –
è un accanito fumatore – lo ha ciclicamente assalito nel corso
della nottata. Ma l’ordine per tutti era di non fumare.
E’ finita una di quelle giornate nelle quali i marinai
invecchiano più rapidamente di quelli che passano lo stesso
tempo a terra.
Pochi mesi dopo viene arruolato per comandare i trasporti
diretti in Africa. Partono da Taranto, da Brindisi o da Napoli. Al
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momento dell’imbarco la destinazione è sconosciuta. Il plico
sigillato con la destinazione, la rotta da seguire e la posizione da
tenere nel convoglio – scortato da una nave militare, in genere
non più di una corvetta – viene aperto dopo un certo numero di
ore di navigazione. Questi ordini gli sembrano sempre insensati:
tutti in fila a una certa distanza uno dall’altro, pronti per essere
silurati dai sommergibili nemici che li aspettano al varco. Con
rapide comunicazioni tra i vari comandanti delle altre navi del
convoglio ogni volta decidono altrimenti. Nonostante tutte le
precauzioni per due volte una nave viene silurata. Per fortuna
non la sua.
Di giornate come queste Gino durante la guerra ne passa
molte. Altre ne passerà anche a guerra finta collezionando venti
anni, tre mesi e ventun giorni di mare, un terzo della sua vita fino
al momento di andare in pensione. Il primo viaggio, da mozzo,
negli Stati Uniti, nel 1919, sedici anni, tra andata e ritorno otto
mesi e ventisei giorni, doveva essere solo la punizione per una
bocciatura a scuola. E’ diventata la sua vita.
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inverno 1943 - primavera 1944 Molti anni dopo, durante i giorni della grande acqua alta
del 1966 Armando ebbe una febbre altissima. Stando a letto
percepì la sovrapposizione dei suoni della pioggia battente,
continua, che cadeva nell’acqua e dello sciabordio dell’acqua che
veniva smossa dalle ruote del carro del ghiaccio che trasportava
tra due punti asciutti le poche persone che, in quei giorni, si
avventuravano in strada. L’acqua uscendo dai canali aveva invaso
gran parte di Venezia. Lo scirocco intenso aveva impedito alla
marea di defluire dalla laguna; alla prima marea se n’era aggiunta
un’altra proveniente dal mare e un’altra ancora si era aggiunta
proveniente dal cielo. I suoni e i rumori dentro alla città avevano
assunto una specie di riflesso metallico, l’acqua li faceva
rimbalzare in modo inusuale su per i muri delle case, fin dentro le
finestre. Farneticando, come da sempre gli succedeva quando
aveva la febbre molto alta, avvisò in casa che l’acqua sarebbe
salita fino al primo piano e che tanto valeva mettersi tutti a letto
in attesa di essere definitivamente sommersi perché non c’era più
niente da fare.
Poche settimane prima, senza parlarne con nessuno, aveva
deciso di andarsene da Venezia. La città gli sembrava un corpo in
disfacimento e pensava che l’unica soluzione fosse di vendere
tutto alla Coca Cola. Aveva immaginato anche i costumi da far
indossare agli abitanti e le babbucce da dispensare ai turisti per
consumarla un po’ meno.
Una delle iniziative prese dopo quella storica acqua alta,
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utile soprattutto per i commercianti diventati i veri padroni della
città, fu quella di installare delle sirene che a qualsiasi ora del
giorno e della notte avrebbero suonato quando la previsione della
marea avesse superato certi valori. Qualche anno dopo, tornato a
Venezia, fu svegliato verso le quattro di mattina, dal lugubre
ululato di una sirena, potente, vicinissima. Immediatamente a
questa se ne aggiunse un’altra e un’altra ancora…
Bisognava sbrigarsi. Armando si preoccupò come al solito
di due sole cose. La coperta giallo grigia di lana con il bordo di
raso rosa e il pinocchio. La coperta, indispensabile per
addormentarsi, la trovò subito allungando la mano al buio. Il
pinocchio aveva imparato ad adagiarlo sopra il mucchio di vestiti
che abbandonava ogni sera vicino al divano dove dormiva. Bastò
scendere e lo ebbe tra i piedi. La coperta gli serviva, nel senso che
non ne poteva fare assolutamente a meno, per strofinarne il
bordo di raso tra il naso e il labbro superiore; con metodo,
leggerezza e senza fretta per controllare i momenti di maggiore
paura, come erano quelli che precedevano il sonno. Il pinocchio
per Armando non era ancora Pinocchio delle bugie, del naso
lungo, della balena; serviva per giocarci e difendersi dalle paure
del giorno. Aveva gli occhi vispi del burattino furbo, il naso
lungo ma non moltissimo, girava la testa, aveva gambe e braccia
snodate e un bel sorriso stampato in faccia.
La sirena continuava a ululare a intervalli regolari e l’effetto
più immediato del suo lugubre suono era la paura degli adulti. Ad
Armando sembrava di toccarla quando li vedeva colti
dall’incertezza sulle cose da fare e allora si avvicinava cauto e li
prendeva per mano. Non provava paura per sé ma soprattutto
per loro che della paura erano l’origine. Cominciavano a
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confondersi, a non decidere cosa fare: stare a casa, andare in
rifugio, in mezzo alla piazza, oppure tentare di entrare nella
chiesa di San Marco imbacuccata sotto i sacchi di sabbia. Usciti
da casa si accorgevano sempre di aver dimenticato qualcosa; la
candela, la bottiglia dell’acqua, un pezzo di pane, una maglia in
più, un paio di calzettoni per proteggersi dal freddo, il cuscino
per appoggiarsi al muro di cemento del rifugio. Tutto ciò
aggiungeva ansia e disagio alla paura mentre le sirene, una volta
usciti, si sentivano molto più forte e oltre il profilo dell’ala
napoleonica, in fondo alla piazza, si espandevano i bagliori delle
bombe che cadevano su porto Marghera e con un attimo di
ritardo arrivava, ovattato, il rumore dello scoppio.
Armando, di suo, aveva così poca paura che avrebbe
voluto sentire quel rumore avvicinarsi sempre di più. Fino a
veder le bombe scoppiare vicine. Belle, come lui le immaginava,
gialle e rosse, e tutto che volava in pezzi per aria. Invece dentro il
rifugio i rumori di fuori erano attutiti, erano dei tonfi lontani che
non potevano far paura. Quando diventavano più vicini e più
affrettati tutti dicevano “È Pippo! È tornato Pippo!”. Pippo era
un pilota austriaco della prima guerra mondiale che attaccava le
retrovie italiane, forse innamorato di Venezia, dove veniva a fare
delle esibizioni spezzonando qualche barca in laguna. Ad
Armando sarebbe piaciuto incontrare Pippo. Per lui era uno dei
personaggi del rifugio: forse quel signore alto, elegante e
compassato con i capelli grigi e gli occhiali che arrivava sempre
per ultimo e se ne stava in piedi vicino all’ingresso, pronto a
uscire per primo.
Come al solito Armando arrivò al rifugio nella concitazione
generale: chi chiamava a voce alta nomi, chi perdeva qualcosa per
strada, chi si perdeva e veniva preso per mano: bisognava
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attraversare tutta la piazza, passare davanti all’incastellatura di
legno addossata alla chiesa di San Marco, percorrere per lungo la
piazza verso il bacino, girare verso sinistra, passare davanti alla
facciata corta di Palazzo Ducale, fare il ponte della Paglia e
arrivare al rifugio. Per strada c’era sempre qualcuno che,
approfittando del buio, malediva la guerra, pensava che fare tutta
quella strada era inutile e rischioso, che tanto valeva stare in casa,
che se uno doveva morire almeno moriva nel suo letto. C’era chi
gridava e correva e travolgeva tutto e tutti pur di entrare prima
possibile nel rifugio, la cui sagoma scura emergeva sempre più
vicina poco oltre il ponte.
Il rifugio era un tunnel di cemento armato con un solo
ingresso e due sedili sempre di cemento lungo i lati. Per
costruirlo avevano tolto i masegni da terra e a vederlo da fuori era
come una piccola montagnola sulla quale i bambini avrebbero
continuato a giocare anche dopo la fine della guerra, fino alla sua
demolizione. Il contatto con il terreno nudo procurava ad
Armando una sensazione particolare perché quello era, a sua
conoscenza, il solo luogo dove poteva toccarlo. Immaginava che
tutto quello che vedeva, le strade, l’acqua dei canali, le case, le
chiese, fosse la pelle della terra e, che se avesse scavato sotto i
pavimenti di casa o dentro ai muri avrebbe trovato il terreno:
bruno e umido come quello del rifugio, che bastava passare un
po’ con il piede e diventava liscio e lucente. Le formiche che
abitavano nel parapetto della terrazza venivano sicuramente dal
terreno che arrivava fin dentro al muro di casa.
Armando era molto contento di andare al rifugio perché
aveva la sensazione, ogni volta, di entrare dentro la terra, di
esserne inghiottito e tenuto nascosto, al sicuro in un luogo antico,
dove fantasticava di scavare e di penetrare sempre più a fondo,
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sempre più lontano dalla superficie.
Non aveva ancora messo in relazione il terreno con le
piante, gli alberi e l’erba. La prima volta che lo portarono a
sant’Elena, dove esistevano rimasugli di vegetazione con erba e
alberi, ne fu sorpreso e turbato: i fili d’erba agitati dal vento gli
sembravano animaletti verdi con la testa all’ingiù che muovevano
in continuazione la coda e le gambe. Per paura di calpestarli non
ne volle sapere di scendere dalla panchina sulla quale si era
rapidamente rifugiato.
Ogni volta che entrava nel rifugio Armando si godeva per
un tempo che gli pareva lunghissimo il brulichio di questo
impasto oscuro di sagome, voci, luci qui e là baluginanti, odori,
rumori di dentro e rumori di fuori che lentamente prendevano
una forma, si acquietavano e diventavano come un unico
complicato animale che lentamente si sistemava dentro la sua
tana. Anche quella notte era successa la stessa cosa. Lui aveva la
sua coperta e il suo pinocchio e tutto era come le altre volte: le
solite proteste contro qualcuno che fumava e il bagliore dei
fiammiferi che accendevano le sigarette, il bisbigliare sommesso
di chi non riusciva a dormire e qualche risata e pianto di
bambino, o anche di adulti, qualche protesta ad alta voce, il
baluginare di una candela di chi tentava di leggere un libro,
l’odore del vino o della grappa o del surrogato di caffè che i più
previdenti si erano portati per consolarsi, per vincere la paura e il
sonno.
In fondo al rifugio, dietro al muro che non arrivava alla
volta, era sistemata una latrina. La fretta e gli spintoni delle
persone per entrare erano dovuti anche al desiderio di occupare i
posti più vicino possibile alla porta di entrata e quindi più lontani
dalla latrina. Almeno ogni mezz’ora il responsabile del rifugio,
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dopo aver ordinato di spegnere tutte le candele, le lampade a
carburo e le sigarette, apriva per far cambiare l’aria. La puzza
infatti era sicuramente la presenza più ingombrante del rifugio.
Armando si era convinto che quella doveva essere la puzza della
paura di tante persone messe insieme. Aveva un non so che di
oleoso, era come uno strato verdastro e viscido che avvolgeva
oggetti e persone, che appannava la vista e prendeva alla gola.
Molti respiravano in fretta, sempre più in fretta come se stessero
soffocando.
Una notte Armando, appena qualche lampada a carburo o
candela o fiammifero dava luce a qualcosa, cominciò a fissarsi in
mente l’immagine momentaneamente rischiarata come se
riuscisse a catturare un solo fotogramma di un film senza capo né
coda. Molti anni dopo si sarebbe ricordato di quella notte
nell’assistere all’esibizione di un gruppo teatrale d’avanguardia
che dal palcoscenico gli faceva rivivere un’analoga suggestione.
Armando cominciò a smontare gli adulti nei piccoli pezzi di
corpo che riusciva ad afferrare nel breve volgere di un bagliore.
Una bocca di donna, una grande mano con il guanto di lana, un
orecchio, un naso illuminato da sotto, un ginocchio, il piede nudo
di qualcuno che aveva perduta la ciabatta per strada, due occhi
che all’improvviso sentiva fissati su di sé. Poi il doppio mento
della signora grassa di fronte, l’orecchio pieno di pelo del
responsabile del rifugio, le unghie colorate dell’anziana signora
entrata per ultima, la testa rosa e lucida del lattaio, i baffi bianchi
del signore che vendeva frutta caramellata dentro la vetrinetta
portatile…
Portava la vetrinetta infilata nel braccio sinistro, per il
manico del coperchio di vetro fissato alla scatola anch’essa di
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vetro. Il manico aveva la forma di una G coricata con la gobba
sopra; nella parte alta infilava il braccio e nella mano teneva un
treppiede fatto di tre aste argentate collegate da un perno e da tre
catenelle che servivano a mantenere aperto il treppiede all’altezza
dovuta. Quando qualcuno chiedeva un caramello il signore con i
baffi bianchi, con un solo gesto, apriva il treppiede e vi
appoggiava sopra la scatola e con la mano sinistra liberata dal
treppiede, apriva la sua cassaforte. Essendo trasparente il cliente
aveva avuto tutto il tempo di decidere cosa comprare; tuttavia,
all’apertura della vetrinetta, il profumo dello zucchero
caramellato che ne usciva era così intenso e piacevole da
rimettere in discussione per un attimo ancora la scelta. Uva, uva
passita grande, prugne nere e verdi, albicocche, datteri, fette di
mela, fragole di bosco, spicchi di pera: tutto era in ordine, ogni
frutto infilato assieme ai suoi simili in bastoncini di bambù fatti a
mano lunghi una ventina di centimetri e ogni frutto luccicava
sotto lo spessore dello zucchero che ne abbruniva un po’ il
colore. Qualche volta c’erano anche dei bastoncini con la frutta
mista e delle tavolette di croccante di mandorle. Con la mano
destra prendeva un pezzetto di carta oleata da un’apposita tasca
metallica fissata alla scatola e così porgeva il caramello desiderato,
senza sporcarsi le mani. Con la sinistra incassava i soldi
riponendoli in una tasca di pelle fissata alla cintura dei calzoni,
sotto alla giacca.
Provando a chiudere gli occhi Armando si accorse di poter
archiviare ogni frammento di corpo che gli appariva. Di poterlo
vedere all’interno dei suoi occhi, come sullo sfondo di uno
schermo nero, in attesa di riaprirli e rubare un altro pezzo
all’oscurità. Fissava il buio in attesa che comparisse un
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frammento di corpo con le mani attorno agli occhi, in modo che
nessuno potesse accorgersi di quello che stava rubando.
Immaginò di custodirli tutti in una grande scatola di legno e di
metterla in una buca profonda scavata nel pavimento del rifugio.
Poi di ricoprirla con la terra e aspettare. Forse sarebbe nato
l’albero dei nasi, l’albero degli occhi, delle ginocchia, delle mani,
delle orecchie. Chissà.
Da quella sera scappare in rifugio divenne per Armando
uno dei giochi preferiti per molti motivi. Sentiva di partecipare
alla guerra, quasi come un soldato in battaglia, poi c’era la gioia di
calpestare la terra e di esserne accolto, e poi raccoglieva pezzi di
persona e con il favore della semi oscurità del rifugio ricostruiva a
suo piacimento un mondo fantastico.
Qualche volta tuttavia la paura e l’angoscia degli adulti
erano talmente forti da diventare come uno schermo
impermeabile anche alla fantasia di Armando. Piangevano,
pregavano, litigavano: la loro paura era come la marea che saliva
in laguna, quando l’acqua si intrufolava dappertutto, fuori e
dentro le persone.
Una notte si concentrò sulle bocche e per la prima volta si
accorse che quelle delle donne erano diverse da quelle degli
uomini. Più carnose e sporgenti quelle delle donne, più stirate
quelle degli uomini. Registrò anche che da vecchi, uomini o
donne, le bocche si assomigliavano di più. Però erano tutte una
differente dall’altra. Quante bocche c’erano al mondo? E se tutte
assieme, proprio nello stesso istante, avessero emesso un:
“Aaahh?”. Oppure avessero detto: “No!”. “Altro che bombe”
pensò Armando. E si dedicò a vedere come erano fatte. Nella sua
testa si era costruito una specie di archetipo di bocca fatto di due
labbra. Cominciò con il fargli fare le boccacce, poi le smorfie. Poi
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si dedicò a mescolare il labbro superiore di una persona con
quello inferiore di un’altra. Finché la bocca non divenne qualcosa
di mostruoso.
Aveva imparato a isolare i pezzi del corpo degli adulti
anche fuori dal rifugio. A scuola piantava gli occhi sulla bocca di
suor Giuseppina che spiegava la lezione. A un certo momento lei
lo vedeva ridere, ridere, ma non riusciva a farsi spiegare il perché.
Il fatto era che la bocca di suor Giuseppina, presa per conto suo,
sembrava un animaletto che faceva strani movimenti, quasi
volesse scapparle via dalla faccia. Armando rideva a crepapelle
perché immaginava la faccia di suor Giuseppina senza bocca e la
bocca che, fuggita in un angolo della classe, parlava per conto
suo.
Era inevitabile che i primi disegni di Armando riflettessero
l’instabile mosaico di pezzi attraverso il quale percepiva il mondo
che lo circondava. Occhi, bocche, nasi, piedi, orecchie, dita,
unghie se ne andavano per conto loro: una faccia aveva solo tante
bocche e un corpo poteva essere fatto di pance; i piedi
camminavano da soli e gli occhi spuntavano al posto delle
unghie. Accadeva anche che i frammenti si scambiassero i colori:
bocche azzurre e occhi rossi, nasi gialli e pelli verdi. L’altra faccia
di quanto veniva percepito come disordine o fantasia dagli adulti
era racchiuso per Armando nella scatola dei colori Giotto: un
piccolo universo.
Il segnalibri che si trovava nella scatola da dodici colori era
un oggetto che Armando non avrebbe mai dimenticato.
L’immagine, che ripeteva quella della scatola, era racchiusa da un
bordo bianco, a sua volta circondato da un ulteriore bordo fatto
di rombi e di triangoli colorati, quasi fosse un lembo del vestito
di Arlecchino. Sotto un albero il pastorello Giotto - si capiva che
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era un pastorello perché attorno a lui pascolavano alcune pecore -
su una bella pietra bianca e liscia, tracciava a mano libera il suo
cerchio perfetto, sotto lo sguardo attento e compiaciuto di
Cimabue, che passava da lì per caso. La spiegazione data da suor
Giuseppina aveva impressionato molto Armando. Spesso - non
su una pietra, ma su tutti i fogli di carta che trovava in giro per
casa - provava e riprovava la O di Giotto. Come se avesse capito
che quell’unico segno, fatto con assoluta precisione,
rappresentava una regola fondamentale per diventare pittore. Il
pensiero della O di Giotto lo riportava a casa, davanti al quadro
dell’Arlecchino in piedi su un ponte di Venezia, che con la mano
guantata di bianco teneva sollevata davanti al viso mascherato
una gabbia con un canarino. Il pollice e l’indice che reggevano la
gabbia formavano un cerchio perfetto.
Il ricordo di Mario il pittore, che gli aveva regalato la
scatola di colori e che per Armando era anche l’autore del
quadro, chiudeva il percorso del suo vagare con il pensiero, per
tenere a bada la paura e aspettare il momento in cui la ripetizione
dell’ululato delle sirene avrebbe segnalato la fine dell’allarme.
38
la storia di Mario
Mario aveva capito da almeno una decina di giorni che da
quella situazione non ne sarebbero usciti tanto facilmente.
Cinque mesi prima, in una tersa mattina di aprile, quando
l’Adriatico può ancora essere sferzato dal vento freddo e teso di
nord–est, li hanno sbarcati a Durazzo, con un trasporto truppe
salpato da Bari. Prima di partire la destinazione in Albania era
sembrata a tutto il reparto una passeggiata. Dal 1939 l’Italia ha
inglobato il territorio albanese in quello dell’Impero e dalla
primavera del ’41 Jugoslavia e Grecia sono stabilmente sotto il
controllo dell’Asse. In quei primi mesi del ’43 la presenza di
soldati italiani è a mala pena tollerata nelle città dove la borghesia
ricca traffica con il regime fascista. Sulle montagne è sempre più
forte la presenza dei partigiani sia slavi che albanesi. Di loro in
Italia non si sa nulla e i soldati non sono preparati ad affrontare
un esercito invisibile. È proprio in montagna che viene dislocato
il reparto di Mario. Altro che passeggiata. Da tre mesi sono
impantanati nelle montagne intorno a Kükes per proteggere la
strada per Prizren e Priština nel sud della Serbia: devono garantire
le comunicazioni e i trasporti dagli attacchi dei partigiani.
I più giovani del reparto che gli è stato affidato lo
guardano, e guardandolo, muti, lo interrogano. Quasi che la
dolcezza dello sguardo che Mario restituisce fosse già
un’anticipazione del ritorno, della casa, delle madri, delle zite, dei
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fratelli e degli amici lasciati al paese. E’ bastata qualche parola
detta ogni tanto, con quel sorriso buono che gli spiana la faccia
irregolare e dura da montanaro, per far capire anche a loro che da
quella situazione non usciranno tanto facilmente. Dalle poche
notizie che Mario riesce ad avere dal comando sa che non sarà
semplice rifare la strada che hanno fatto fin lì e tornare a casa.
Questo barlume di coscienza, tuttavia, non è sufficiente per
consentirgli di immaginare quello che sta per accadere.
La sua testa non è fatta per queste cose. Gli unici momenti
in cui ritrova intatto il suo equilibrio interiore, senza lasciarsi
invadere dalla miseria della guerra, sono quelli in cui riesce a
mettersi in un luogo riparato del campo a dipingere le variazioni
di colore di quelle terre, tanto simili all’Irpinia dalla quale
proviene. Ancora pochi giorni e tutto il giallo che pervade
l’orizzonte si sarebbe progressivamente ingrigito senza alcuna
fioritura. Molti suoi compagni sarebbero piombati nel quarto
inverno di guerra, il primo al fronte per lui. Sulle cime attorno
sarebbe ricomparsa la neve e subito dopo il gelo li avrebbe
attanagliati come l’inverno precedente. Approfitta delle piante
spoglie per registrare le sinuosità della terra e per usare i colori
che preferisce: la terra di Siena, l’ocra, la terra d’Ombra, il
seppia… Quando tiene ggenio obbliga qualcuno dei suoi a mettersi
in posa e scava nelle loro facce le stesse sinuosità che vede nel
terreno, come se dopo tanti mesi fossero ormai diventati una
cosa sola, anche loro partecipi del paesaggio. Prima di partire
stava sperimentando la scomposizione dei volumi alla maniera di
Cézanne e quella delle superfici alla maniera di Klee. I risultati
della sua pittura non danno soddisfazione né lui né ai destinatari
dei suoi dipinti. Rimangono perplessi di fronte a qui tagli netti e
ai repentini cambiamenti di colore dietro ai quali si vede nitida la
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figura, quasi sepolta sotto le deformazioni dovute alla fatica di
impossessarsene secondo dei canoni non ancora dominati.
Mario è nato in una famiglia borghese di un paese
dell’avellinese ai confini con la Basilicata. Per la famiglia dipingere
non può essere un mestiere né rappresentare un futuro
accettabile. Ha dovuto perciò laurearsi in legge senza aver mai
rinunciato a dipingere e soprattutto a studiare la pittura. Si è
abituato a lavorare ovunque, adattando di volta in volta la sua
abilità ai materiali disponibili. In Albania è riuscito ogni tanto a
farsi mandare buone tele e carte, buoni colori dagli amici rimasti
in Italia. Qualcosa è riuscito a comprare o a farsi comprare da chi
è andato in licenza nelle città di mare. Continuerà tutta la vita a
dipingere su ogni genere di materiale interessandosi ben poco di
quanto durerà il quadro, delle scrostature della pittura, del
degrado dei colori, facendo diventare le difficoltà dei suoi primi
anni un vezzo del suo fare.
Per quanto riguarda la guerra, né lui né i suoi soldati hanno
nessuna animosità nei confronti degli albanesi. Anche se
appartengono a un esercito invasore, non possono fare a meno di
pensare che gli albanesi sembrano uguali ai paesani: la stessa
miseria, la stessa capacità di adattarsi a quello che c’è, la stessa
fatica di vivere. Nessuno dei soldati ha mai osato sottrarre
qualcosa ai contadini: vivono in una condizione di dignitosa
miseria, se possibile ancora più profonda di quella in cui si vive
nei loro paesi d’origine. Alla fine è difficile non condividere una
pagnotta, un pacchetto di sigarette, un po’ di zucchero, un fiasco
di vino, il salame casereccio ricevuto dall’Italia, anche se con i
mussulmani non ha molto successo. Spesso si tratta delle stesse
persone che di notte li attaccano.
Quando hanno preso posizione nel luogo assegnato,
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avanzando in un territorio impervio e inospitale, si sono resi
conto dell’inadeguatezza dei mezzi di trasporto, dell’armamento,
delle divise: gli scarponi che non riparano dalla pioggia e dal
fango nel quale camminano per mesi, le mantelle impermeabili
che lasciano passare l’acqua dalle cuciture. Il cibo è sempre più
scadente anche perché non può essere integrato da quasi nulla
che si possa trovare sul posto. Andando avanti si lasciano
inalterata alle spalle la rete di mulattiere sterrate che mai nessun
mezzo pesante potrà percorrere.
La notizia degli eventi dell’8 settembre arriva al campo di
Mario confusa e con qualche giorno di ritardo. E’ accolta con
entusiasmo perché sulle prime viene interpretata come la fine
della guerra. Senza aspettare notizie dal comando con il quale da
giorni non riesce a parlare Mario dà ordine di smantellare il
campo. Ha deciso di ritornare a casa. Subito. Nei due giorni che
impiegano per preparasi a partire dal comando continuano a non
arrivare ordini, come se fossero tutti scappati o non fossero in
grado di prendere decisioni. Dentro quest’uomo mite e tranquillo
monta una rabbia e una furia violente contro le gerarchie militari,
contro la guerra e l’impotenza che probabilmente non gli
consentirà di proteggere i suoi uomini. E’ sicuro di essere stato
completamente abbandonato.
A casa. A casa. Ma come? Fa mettere fuori uso le armi
pesanti per le quali non ha mezzi di trasporto; dei proiettili fa un
solo botto, di notte, così assomiglia quasi a una festa, come
fossero fuochi d’artificio. Tutto quello che non possono
trasportare a spalla, o sui sette muli rimasti, e che non può essere
usato contro di loro, Mario ordina di non distruggerlo. Lo lascia
alla gente del luogo, quasi per risarcirla della loro presenza. Si
avviano a piedi – per fortuna non hanno ammalati – senza altro
42
obiettivo che non sia di scendere a valle il più rapidamente
possibile. A un giorno e mezzo di marcia c’è la strada che
avevano il compito di difendere. Lì sperano di incrociare qualche
colonna di mezzi diretti verso la costa.
Arrivati sulla strada, dopo circa tre ore di marcia, sentono il
rumore di camion che si avvicinano: sono tedeschi e sono diretti
a nord. La colonna si ferma: “Dare armi… andare Italia… casa”,
questo capiscono dallo stentato italiano dell’ufficiale che
comanda la colonna. Hanno una mitragliera pesante puntata
contro e sono stati rapidamente circondati. Non rimane altro da
fare. Vengono disarmati, separati gli ufficiali dai soldati, fatti
salire sui camion che continuano il loro viaggio verso nord tra le
urla e le imprecazioni degli italiani. Qualcuno capisce e salta giù,
ma solo per essere freddato con una raffica e lasciato a morire in
mezzo alla strada. I tedeschi stanno rastrellando tutti i militari
italiani che trovano e li concentrano alla stazione ferroviaria di
Priština. Mario non ha saputo nulla dell’ultimatum lanciato alle
truppe italiane dai tedeschi: continuare a combattere al loro
fianco o consegnare le armi. Anche se lo avesse saputo
sicuramente né lui né i suoi sarebbero andati con i tedeschi.
Sarebbero andati piuttosto con i partigiani. Quando lo disarmano
e lo perquisiscono pensa a un’unica cosa: salvare il tascapane
dove ha raccolto i colori ad acquerello, un paio di pennelli, una
mezza matita e un taccuino. Il rotolo con i quadri dipinti su pezzi
di lenzuolo, i disegni più grandi e gli acquerelli è su uno dei muli.
Chissà che fine ha fatto.
“Abbiamo attraversato l’Europa in lungo e in largo, l’ho
vista tutta”. Di giorno e di notte legge i cartelli delle stazioni dove
passano e ancora molti anni dopo sarà in grado di recitarli in
ordine, uno dopo l’altro, descrivendone la giusta grafia e
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pronunciandoli esattamente: “Kraljevo, Beograd, Vinkovci,
Osijek, Našice. Poi verso nord-ovest lungo la pianura che
costeggia la Drava, Koprivnika, Zagre, Kacovec, Maribor. Graz,
Wien, Brno, Praha, Jelena Góra, Wroclaw, Pozna�, Warszawa,
Bia�ystok”. Elenca le stazioni lentamente, con lunghe pause tra
un nome e l’altro, come se volesse farti capire il tempo che ci è
voluto ad attraversarle tutte. Ti guarda con quei suoi occhi
spiritati mezzi nascosti nella profondità delle orbite, ma non ti
vede. Ti attraversa, e il suo sguardo mette a fuoco a ogni nome, a
ogni stazione, i brandelli di paesaggio intravisti. A contare la
strada fatta sono quasi quattromila chilometri, ventotto giorni
durante i quali il problema più importante è bere e arrivare vivi
alla fine, che però non sai né quando né dove sarà. Continua ad
avere nel naso gli odori delle stazioni dove hanno passato ore e
ore senza potersi muovere, stipati nel carro bestiame. Continua
ad avere nelle orecchie i rumori registrati durante le soste,
sopratutto voci che parlano lingue mai sentite. Ad avere negli
occhi i barlumi di colore dei cieli che la piccola inferriata posta in
alto o le sconnessioni delle tavole del carro consentono di vedere.
Come se avesse cancellato completamente l’odore di putridume e
di morte nel quale ha vissuto quasi per un mese, le urla i lamenti
le imprecazioni dei suoi compagni e l’incomprensibile aggressività
delle voci delle guardie, il colore all’interno del carro che sembra
quello della tavolozza di un pittore inesperto che ha mescolato
assieme tutti i colori. In ventotto giorni hanno avuto ogni tanto
un po’ di pane e l’hanno fatto bastare anche per sei giorni.
Fossero stati dei signorini di città nessuno di loro ce l’avrebbe
fatta ad arrivare fino in fondo. Ma sono contadini, abituati alle
asprezze dell’Appennino e soltanto tre si sono persi per strada su
cinquantadue del suo carro.
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Dai momenti più duri del viaggio, quelli in cui ti viene da
mollare tutto, da lasciarti andare e sparire nel gorgo di
disperazione e paura che ti si apre dentro, ne è uscito chiudendo
gli occhi e cercando al buio dentro di sé i colori. Quelli
fondamentali, il rosso, poi il giallo e il blu. Lentamente li mette a
fuoco, li identifica con precisione… quel rosso… quel giallo… quel
blu, come un suonatore che accorda con esattezza il suo
strumento. Lentamente assapora il piacere di immergere un
pennello nuovo in quelle forme burrose e lucenti, aggiunge un
po’ di bianco cadmio al giallo, lo diluisce con l’olio di lino cotto e
tratteggia velocemente il soggetto sulla tela fissata con delle
puntine a un piano di legno appoggiato al tavolo, come è solito
fare. È difficile procurarsi delle buone tele ma in quei giorni, nel
treno, dipinge sulla tela migliore, sulla quale con pazienza ha
steso più mani di preparazione. Prende forma il gruppo di case
del suo paese, a strapiombo sulla forra che lo circonda da due
lati. Traccia superfici nette, precise, che devono accogliere
sfaccettandoli i primi bagliori del sole all’alba, in contrasto con la
cupezza della natura ancorata al fondo della forra, che la luce del
giorno non riesce mai a rimuovere del tutto. Quanto tempo
lavora a questo quadro? Non riesce a ricordarlo. Per giorni interi.
Ed è la stanchezza per quel modo così intenso di dipingere che lo
fa piombare nel sonno, non la fame, non la sete.
Tornato dalla prigionia più di una volta riproverà a
dipingerlo per davvero quel quadro. Proverà anche a riprenderlo
dal vero, alzandosi prima dell’alba e andandosi a sistemare
dall’altra parte della forra. Disegnerà e disegnerà ancora cento
volte. Proverà a dipingerlo senza alcuna traccia sotto ai colori.
Niente. Niente, il lavoro che ha impresso nella mente con grande
precisione non troverà la strada per venire alla luce. I colori non
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riusciranno mai ad essere quelli che ha immaginato: né i primi
bagliori dell’alba, né i verdi scuri della forra. Come se la luce e il
buio immaginati nel corso di quell’infinito trasferimento avessero
bruciata e occultata la fantasia che lo ha accompagnato in quelle
lunghe giornate. Troppo lunghe. Senza misura.
Una volta giunto al campo Mario non ci mette molto a
capire che sarà difficile uscire vivi. I più deboli, ulteriormente
indeboliti dal viaggio, sono morti appena arrivati, quasi che
l'esasperante lentezza del trasferimento sia stato un modo
spietato per selezionarli. Erano allo stremo delle forze e la
brodaglia di cui li hanno nutriti non è bastata a farli sopravvivere.
Ogni giorno muoiono in tanti. E non solo per la fame o le
malattie. Basta anche un involontario atto di insubordinazione, il
capriccio di una guardia o la risposta a una provocazione,
l’esasperazione o la follia che porta ad aggredire a mani nude gli
aguzzini e sei finito. Una breve raffica e il terrore sulla faccia di
quelli che assistono impotenti. E continuano a vivere una
quotidianità che alla luce della ragione è impossibile da accettare.
“Eppure, maledizione, ti abitui”. Lentamente e forse
inconsciamente vengono messe in atto delle piccole strategie per
rimanere vivi il più a lungo possibile, anche imparando da quelli
che nel Kriegsgefangenelager ci sono da più tempo. Sembra
impossibile ma in quel dominio della morte e della disperazione
tutta l’intelligenza disponibile viene utilizzata per vivere. Si può
sentirla ronzare di giorno e di notte, in tutto il campo, quasi fosse
un controcanto al ronzio dell’alta tensione che percorre i
reticolati che delimitano il campo.
Difficile in quella situazione concepire l’idea di “nostro”
nel senso di un possesso collettivo. Molto più facile concepire il
“mio” privato e mettere in atto tutti gli stratagemmi per dare
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corpo a questa idea. In Mario, tuttavia, le due idee riescono a
convivere, anche se in modo particolare. L’idea di “nostro” la
applica a tutto quello che può condividere con i suoi compagni:
un cucchiaio di brodaglia, un qualsiasi indumento per quanto
sdrucito, un mozzicone di sigaretta, una scaglia di sapone. L’idea
di “mio” la applica alla pittura. E’ riuscito a salvare la sua piccola
dotazione di colori e pennelli. Ha finito rapidamente le poche
pagine del taccuino che gli è rimasto dipingendole sul dritto e sul
rovescio. Poi, ogni qual volta entra in possesso di un pezzo di
carta – non è impossibile perché la carta non ha grande valore di
scambio nel campo – riempie la gavetta d’acqua e, se le forze
glielo consentono, si mette a dipingere. Nella baracca lo
osservano in tanti – del resto non hanno niente da fare – ma lui è
lì solo, con il suo problema di come rappresentare, come dare
forma, colore, contenuti a un’idea che gli passa per la testa, al
volto di un compagno, alle montagne che vede all’orizzonte.
Quando riesce a venire a capo dei suoi problemi, una volta finito
il lavoro che può durare anche delle settimane, prevale in Mario
l’idea del “nostro”. Si è accorto che, per quanto piccolo e banale
possa essere il suo dipinto, viene apprezzato e lui lo regala
volentieri, a condizione che non venga immesso nel circuito degli
scambi: deve essere “nostro”, magari per scrostare un po’ di
squallore dalle pareti delle baracche. E’ vero che Mario dipinge
per sé ma è altrettanto vero che la sua mano è fatta dalla somma
delle mani di tutti, e ogni cellula dei suoi occhi contiene gli occhi
di qualcuno.
Queste sensazioni riesce ad averle molto raramente.
Assieme ai suoi compagni passa giorni e giorni nell’assoluta
immobilità. Stanno stesi sui giacigli subito dopo aver lentamente
ingoiato la broda calda che se contiene un qualche principio
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nutritivo lo contiene in dosi infinitesimali. Appena mangiato il
rischio che si corre a rimanere in piedi o seduti è di sentirsela
scivolare dentro, percorrere l’intestino come se questo fosse un
piano inclinato ed espellerla come l’acqua di un clistere. Le
giornate dell’inverno con poco cibo e un freddo insopportabile
pesano come macigni. In quei primi mesi di prigionia il corpo
ferrigno di Mario si scava, soprattutto in faccia. L’aspetto di
affamato che assume, privo di qualsiasi ombra di grasso, la pelle
attaccata direttamente alle ossa, continuerà ad averlo anche dopo,
una volta tornato dalla prigionia.
E’ giugno avanzato quando scoppia la protesta in una
baracca vicina a quella di Mario. Durante l’ispezione il nuovo
ufficiale responsabile di questo settore del campo, uscendo dalla
baracca, vede sopra la porta d’ingresso un foglio colorato. Chi lo
ha preceduto ha lasciato correre, ma lui no: “Tutti i componenti
della baracca verranno puniti”. Il caporale, un gigante biondo,
alza il braccio, strappa l’acquerello di Mario dalla parete e lo
porge al suo ufficiale. Lui lo piega, lo mette in tasca e dà ordine di
cercare nelle altre baracche. Altri cinque acquerelli vengono
requisiti, mentre in tre baracche fanno in tempo a nascondere ciò
che ormai è diventato un simbolo, un modo per riconoscersi. E’
bastato un acquerello per far sì che il sistematico annullamento
dell’identità singola e collettiva messo in atto nel campo di
prigionia fosse per un attimo dimenticato: la ribellione scatta
quasi spontaneamente. Al coperto dalla vista delle guardie
comincia uno, poi un altro, poi un altro ancora, poi tutti insieme.
Battono sulle pareti di legno delle baracche, gavette, cucchiai,
mani, piedi. Molti lo fanno senza sapere nemmeno perché. E’ la
prima volta che sono coinvolti in un’azione che permette loro di
identificarsi come un tutt’uno. Il frastuono è grande e si unisce
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all’urlo delle sirene del campo che scattano dopo alcuni minuti.
Immediatamente vengono prese misure di massima all’erta.
Chiusi tutti i varchi verso l’esterno e quelli di comunicazione tra i
diversi settori del campo, in tutte le torrette le mitragliere
vengono puntate verso le baracche. Una voce imperiosa ordina
dagli altoparlanti prima in tedesco e poi in italiano di smetterla. I
cani infastiditi dal rumore vengono trattenuti a stento. La
protesta coglie di sorpresa tutti, anche gli stessi prigionieri.
Passano ancora alcuni minuti e, come per un muto accordo, gli
uomini della prima baracca decidono di rientrare e lo fanno uno
alla volta, continuando a battere finché non sono dentro.
Lentamente vengono imitati da tutti gli altri, finché il campo non
rimane immerso in un silenzio irreale. Si sente soltanto il ronzio
della corrente elettrica aggrovigliato al ronzio dell’intelligenza e il
ringhio isolato di qualche cane.
Mai Mario avrebbe immaginato che i suoi acquerelli
potessero scatenare tutto questo e che potessero diventare dei
simboli da sollevare in difesa dell’identità e della dignità di tutti i
prigionieri. Da quel momento è un punto d’onore per ogni
baracca avere un suo disegno da nascondere e il suo lavoro, quel
poco che riesce a fare, viene agevolato e protetto in tutti i modi
possibili.
L’episodio della protesta non sembra avere lì per lì delle
conseguenze. E’ una mattina di sole, verso la fine dell’estate, e
Mario è appoggiato al muro della baracca esposto a mezzogiorno.
Le mani in tasca, gli occhi chiusi, una gamba a terra e l’altra
piegata, rivive la sensazione di essere nella piazza del suo paese.
La testa è sollevata, la faccia rivolta al sole ad abbeverarsi di
calore, in attesa dell’inverno che a quelle latitudini è ormai molto
vicino. Viene quasi sollevato di peso e a spintoni condotto verso
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la parte opposta del campo, davanti alla palazzina del comando.
Una volta dentro viene portato nell’ufficio del comandante, un
colonnello, che lo accoglie con gentilezza. “Sigaretta?” Con un
leggero cenno del capo che non ha saputo trattenere e con uno
sguardo di cupidigia che non è riuscito a dissimulare, Mario
accetta. Da quanti mesi non vede una sigaretta intera? “Sieda,
prego”. E’ talmente preso dalla sigaretta della quale sta
assaporando le prime boccate che non sente l’invito del
colonnello e rimane in piedi. “Sieda!”. Il tono perentorio è
sufficiente perché Mario emerga da una specie di trance nella
quale è caduto. In quell’istante si rende conto di barcollare… si
siede. “Ach so!” esclama soddisfatto il colonnello che si presenta
“Karl Heinz Altebrunner, colonnello della riserva”. Mario è
bianco come la carta della sigaretta che sta rimirando con i suoi
occhi spiritati da affamato, la barba ispida lunga di giorni, sente in
lontananza una voce che parla in italiano con lentezza. Viene
risvegliato definitivamente dal profumo di cioccolato che emana
da due tazze posate sul tavolo davanti al quale è seduto.
Automaticamente allunga la mano e, a piccoli sorsi, senza che
l’altro intervenga, beve. E’ come se vedesse il percorso che il
liquido denso, caldo, zuccherato, arricchito dal sapore del latte, fa
dentro il suo corpo. La sosta in bocca per sollecitare l’eccitazione
di tutti i terminali nervosi della lingua e del palato, la discesa in
gola dove si diffonde il calore e poi l’ingresso nello stomaco e la
festa che vi si svolge in onore di quel cibo così raro e nutriente.
Solo a questo punto comincia a registrare il significato delle
parole che sente. Il colonnello sta parlando di pittura, di pittura
italiana, dei quadri dei grandi italiani che ha visto a Vienna, a
Venezia, a Firenze, Roma, Napoli.
Metà della sua testa ascolta mentre l’altra metà lavora per
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preparasi alla fine di quella messa in scena. Finirà male, ne è quasi
sicuro e tutte quelle attenzioni servono per far pesare di più la
punizione che ha a che vedere con l’episodio di giugno. Quando
gli viene detto di alzarsi pensa che sia finita. Mentre spegne il
mozzicone di sigaretta gli viene indicato un angolo della stanza
dove c’è un pacco piuttosto grande. “Apra… apra!”. La seconda
volta la parola viene pronunciata sempre con un tono più
imperioso della prima. Una dozzina di tele su telai di due misure
diverse. Due grandi blocchi di carta da schizzi. Un pacco di carta
da acquerello di ottima qualità che Mario non aveva mai visto.
Pennelli, colori ad olio, colori ad acquerello, olio di lino,
trementina….
“Cominciamo domani, arrivederci”. Il colonnello tira un
cordone che pende dallo stipite della porta dietro alla sua
scrivania, si sente ovattato il suono di un campanello e sulla porta
appaiono due giovani donne con i capelli cortissimi, come se le
avessero rasate da qualche giorno, pensa Mario. A causa dei
capelli i loro lineamenti, naso affilato, bocca grande e carnosa,
zigomi alti e sporgenti, sembrano ancora più marcati come i
grandi occhi bruni velati da qualcosa che Mario non capisce. Una
lo prende per un braccio e lo guida dentro alla casa fin davanti ad
una porta: “Waschen Sie, waschen Sie bitte” bisbiglia aprendo,
mentre l’altra gli porge un pacco di vestiti, un rasoio, sapone e
asciugamani. E’ in un bagno… un bagno.
Quando finisce gli sembra di essere un’altra persona, quasi
non si riconosce anche perché è da molto tempo che non si vede
allo specchio. Infila la saponetta dentro l’involto dei suoi vestiti,
esce, trova le due ad aspettarlo. Una delle due entra in bagno,
vede che non c’è più la saponetta e con un mezzo sorriso gli fa
capire che se la può portare. Rientra nell’ufficio. Il colonnello
51
non c’è ma immediatamente compaiono i due militari che gli
fanno cenno di uscire per tornare alla baracca.
Fatti i primi passi nel campo con una certa voluttà – si
sente più pulito, più in forze – si rende conto dello stupore con il
quale viene guardato. Non ci ha pensato, non sa nemmeno lui
che spiegazione dare se non che il comandante del campo è un
appassionato di pittura e che… “Non ho capito, mi ha detto di
cominciare domani ma non ho capito che cosa. Mi ha fatto
trovare carte, tele, colori e pennelli, tutto nuovo di zecca, ma non
so per cosa”. Così inizia l’incontro con i suoi superiori, che lo
hanno convocato appena la notizia è circolata nel campo.
Rinviano ogni decisione al giorno dopo, quando Mario avrà
capito cosa deve fare. Insieme troveranno la soluzione che può
procurare il massimo dei vantaggi per tutti. Ma quello che è
accaduto diventa un incubo per Mario perché in qualche modo lo
rende unico, diverso dagli altri, insomma lo isola. Passa la notte
preso da questo conflitto che gli si è creato dentro.
Ha gli occhi rossi di sonno all’appello della mattina dopo.
Una parte dei vestiti puliti è già spartita per cui si veste mettendo
insieme i suoi abiti vecchi con quelli nuovi che gli sono rimasti.
Mentre si lava il profumo del sapone ha attirato molti nasi e a
ogni paio d’occhi desiderosi corrispondenti a un naso Mario non
sa resistere. Una piccola porzione di saponetta per uno e
all’appello è tutta la baracca che profuma. Quando viene
prelevato dagli stessi due del giorno prima si sente più sollevato
perché con i vestiti metà nuovi e metà vecchi si sente molto più
simile a tutti gli altri. Stesso tragitto del giorno prima. Senza
l’angoscia che lo aveva attanagliato vede per la prima volta,
avvicinandosi alla palazzina del comando, dall’altra parte della
linea ferrata con la quale anche lui è arrivato, un altro campo. In
52
lontananza intravede una ciminiera e sagome di persone con delle
divise a strisce. Si chiede se nell’altro campo c’è una fabbrica.
Quando entra nella palazzina del comando gli viene
indicata una stanza a fianco dell’ufficio del colonnello con una
finestra a nord in direzione del campo che ha visto arrivando. Gli
hanno organizzato uno studio da pittore. Dentro ci sono tutti i
materiali che ha visto nel pacco il giorno prima più un
rudimentale cavalletto, un tavolo, un paio di sedie, un secchio
d’acqua, un pacchetto di sigarette, fiammiferi, accendino e un
posacenere. Sul tavolo ci sono delle fotografie di un giovane in
divisa di capitano delle SS e alcune riproduzioni a colori di quadri
del Tiziano. Mario, che conosce gli originali, è colpito dalla
bellezza delle riproduzioni. Mentre le sta rimirando attraverso il
fumo della sigaretta che gli pencola tra le labbra, entra il
colonnello. “Buongiorno tenente. Le foto che vede sono di mio
figlio. Ha aderito al nazismo giovanissimo. È considerato un eroe
nazionale. Desidero che lei dipinga il suo ritratto. Grazie”. La
determinazione del colonnello non ammette repliche. “Lo sfondo
del ritratto deve essere quello di uno dei quadri di Tiziano. Scelga
lei quale. Il suo compleanno è a febbraio e voglio regalare il
ritratto alla fidanzata. Il capitano Schöller le darà tutte le
istruzioni per muoversi nel campo e per gli orari di lavoro. Buon
lavoro e grazie”.
Rimasto solo Mario non comincia subito a lavorare. Con
lentezza si impossessa di carte, colori, pennelli, toccando,
annusando. Poi prende un grande foglio di carta per acquerello,
lo bagna abbondantemente con il pennello più grande e appena
comincia ad asciugare, dove è rimasta ancora dell’acqua non
assorbita, schiaccia una piccola porzione di colore dal tubetto del
rot vermillon. Il colore a contatto con l’acqua si espande come una
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deflagrazione. Bagna nuovamente la zona dove il rosso è più
denso e sollevando il foglio con le due mani lo inclina in diverse
direzioni lasciando scorrere il colore liberamente in forma di
gocce che improvvisamente si allargano quando incontrano una
zona di carta ancora umida. Mario non se ne rende conto ma è lo
stesso gioco che aveva inventato da bambino. Quasi che il
ritrovarsi attorniato dagli strumenti della sua passione lo abbia
fatto regredire all’infanzia. Il risultato del gioco è una specie di
ferita sanguinante che non può non riportarlo alla sua condizione
presente. Il suo sguardo viene attratto da un movimento
all’esterno. Solleva gli occhi dal foglio e dalla ciminiera nel campo
accanto sia alza una colonna di denso fumo nero. Senza pensarci
sposta il tavolo in direzione della finestra e sullo stesso foglio
dipinge con pochi tratti il profilo del campo e la colonna di fumo
che oscura il cielo. Le imprecazioni che lo distolgono dal
tentativo di dare un significato a quello che vede sono del
capitano Schöller. Mario si rende conto che l’immagine lo irrita
profondamente. Il tedesco gli strappa il foglio dalle mani e,
urlando parole incomprensibili, lo calpesta lasciandovi sopra
impronte nere di lucido da scarpe.
Dal pessimo italiano del capitano, che non è d’accordo con
l’iniziativa del suo colonnello ma è costretto a subirla, apprende
le regole: deve recarsi al comando ogni giorno dopo l’appello del
mattino, questo è il lasciapassare per circolare nel campo da solo,
deve mangiare nello studio e lavorare fino alle tre pomeridiane,
poi tornare nella sua baracca. Le condizioni vengono ritenute
vantaggiose dai superiori di Mario che deve superare le sue
resistenze all’idea di fare il ritratto a una SS. In compenso può
muoversi liberamente per il campo diventando un veicolo di
informazioni; può procurare all’ufficiale medico un po’ di cibo e
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sigarette da distribuire ai compagni.
Comincia a lavorare sullo sfondo del ritratto studiando le
riproduzioni dei quadri di Tiziano, per ritardare il momento in
cui dovrà affrontare le fotografie del giovane nazista. Prova a
dipingere prima ad acquerello, poi ad olio. Ruscelli, forre, fiumi,
boschi e alberi isolati, colline e monti azzurri in lontananza. Ma
senza sapere bene perché, gli sembra che l’unico sfondo
appropriato sarebbe il campo di prigionia che vede di fronte e
quella colonna di fumo che ormai non smette mai di salire al
cielo. A novembre inoltrato viene “incoraggiato” a dipingere il
ritratto. Lavora sulla tela più grande alla divisa nera, alle
decorazioni, ai gradi e sulle tele più piccole fa delle prove per la
testa, che gli viene sempre in una luce sinistra, con riflessi giallo
verdastri di un livore quasi mortale. Queste prime prove vengono
duramente criticate dal colonnello Altebrunner, con tono pacato
ma inflessibile. Il ritratto deve restituire la giovinezza, la forza,
l’orgoglio di servire il proprio paese, la felicità di modellare con le
proprie mani il futuro del mondo. Non il rampollo di una
famiglia ma di una nazione intera. Mario si sforza, ma quella
faccia senza ombre di dubbi di giovane SS proprio non gli esce.
Abbandona i colori ad olio e prova con l’acquerello. I contorni
sono più morbidi, i colori meno aggressivi e alla fine soddisfano il
colonnello che prende uno dei bozzetti per regalarlo alla moglie.
All’improvviso, negli ultimi giorni dell’anno, il suo lavoro
viene interrotto. Gli fanno capire che il colonnello è partito dopo
aver avuto la notizia della morte del figlio. A Mario viene un
brivido perché capisce che il ritratto sul cavalletto, ancora
decapitato, contiene una specie di premonizione. Non ricorda
più se è il 12, o il 13 o il 14 di gennaio, di sicuro una di quelle
mattine, viene svegliato da grandi clamori che provengono dal
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campo. “Sono scappati… siamo liberi… non ci sono più
tedeschi… liberi… liberi”. Quel poco che è rimasto nella
palazzina del comando è già stato depredato e quando Mario
trafelato vi arriva trova solamente, buttato in un angolo, il primo
acquerello che ha fatto tanti mesi prima. Poi, in un momento di
relativo silenzio, sente dei timidi colpi alla porta. Sono le due
ragazze che lo hanno fatto lavare mesi prima. Senza dire nulla gli
si attaccano addosso, una per parte, e, come avevano fatto il
giorno del bagno, lo spingono questa volta fuori in direzione
dell’altro campo. I cancelli del suo campo sono aperti, non si
sente più il ronzio della corrente. Passano la doppia barriera.
Stanno superando i binari della ferrovia che separa i due campi
quando all’altro cancello si affollano dei fantasmi, scheletri mezzo
vestiti che fanno fatica a reggersi in piedi. “Wir sind Juden, Juden…
siamo ebrei…” bisbiglia una delle due ragazze. A Mario mancano
le forze. Si siede sulla massicciata della ferrovia e scoppia a
piangere.
Per moltissimi anni, ancora oggi qualche volta gli succede,
Mario si sveglia e seduto sul letto urla ordini in tedesco. Una
lingua che non conosce e che riesce a parlare solo di notte. Di
giorno dipinge e insegna a dipingere con felicità e passione
sempre uguali.
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primavera 1944
Quando Armando era costretto a non uscire finiva quasi
sempre per passare al setaccio la casa seguendo un itinerario tutto
suo, lungo il quale cercava conferme e sorprese. Controllava che
cose già trovate fossero al loro posto e conosceva luoghi che di
tanto in tanto potevano riservare delle novità. Le indagini
potevano occupare un’intera mattinata o potevano anche essere
interrotte e riprese alcuni giorni dopo. In ogni caso nessun adulto
doveva accorgersi di quello che stava facendo, quindi le attività di
ricerca andavano accoppiate con qualche gioco di copertura che
nascondesse il suo girovagare per la casa. Se la cosa ritrovata
riguardava gli adulti andava lasciata al suo posto: averla trovata e
sentirsi nella condizione di decidere di non spostarla era come
possederla. Se il ritrovamento era veramente emozionante
bisognava controllarsi e rimandare al momento opportuno l’urlo-
canto che tanto fastidio dava agli adulti.
Il fine ultimo di queste attività era conoscere a fondo la
casa e tutti i suoi recessi più nascosti. Gli sembrava così di
esserne il dominatore e lo spirito segreto. Quando sentiva un
adulto brontolare perché non trovava qualcosa poteva
permettersi il lusso di fargliela trovare. Non subito, perché
altrimenti avrebbe capito che lui sapeva.
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Era una domenica mattina di primavera. Di notte aveva
piovuto e il sole non era ancora riuscito a sbrogliarsi da tutte le
nuvole che circolavano per aria. Per terra era ancora bagnato, le
lastre di pietra luccicavano come canali e, per una di quelle
decisioni che i bambini non capiranno mai, non si poteva uscire.
Armando cominciò dall’armadietto di cucina verniciato di
azzurro pallido e grigio. Bastava infilare un dito nel buco della
serratura che non esisteva più da tempo e le ante si aprivano.
L’armadietto apparteneva alla categoria dei luoghi dove il
disordine e la confusione nascondevano di sicuro cose buone,
come il vano segreto sotto il secondo gradino della scala di legno
per salire in soffitta, come i bauli stivati in soffitta o i cassetti dei
comodini della stanza da letto grande. Nell’armadietto si erano
accumulati negli anni un mucchio di pezzi di legno, metallo e
stoffa, che erano il risultato di modifiche apportate da Armando
o dal tempo ai suoi giocattoli. Perché alcuni erano indistruttibili,
come il pinocchio, altri continuavano a modificarsi e a ogni
rovinosa ricerca di qualche cosa cambiavano ancora un po’.
Spostò la scatola di scarpe-caserma, il suo posto era in cima
al mucchio, caddero due dadi di legno colorati, un cerchietto di
bambù e la pelle di pezza di un cane-orso-gatto-coniglio. Aveva
un obiettivo preciso: cercava la parte superiore di un furgone di
legno nella cui cabina aveva infilato una cosa interessante trovata
qualche giorno prima per terra davanti alla porta del bagno.
Appena la ritrovò Armando si sincerò dalla morbidezza della
spugna e dall’aria che usciva da tutte quelle bocche collegate tra
loro. Non aveva mai visto una cosa che come quella, che poteva
essere infilata dentro la piccola cabina del furgone e poi, una
volta tirata fuori, ridiventava grande come prima.
Con le mani nell’armadietto e le due ante accostate in
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modo che nessuno potesse vedere quello che succedeva dentro,
la estrasse dalla cabina e se la passò leggermente tra la radice del
naso e il labbro superiore. Come per saggiarne le proprietà
magiche. Era simile al bordo di raso della sua coperta, solo
leggermente più ruvida. Quasi perfetta. La manipolò ancora un
po’, nessuno l’aveva ancora reclamata. La rimise al suo posto e
rimestò per infilare il pezzo di furgone tra gli altri pezzi. Trovò
l’ascia argentata del guerriero con la corazza e piume colorate
sull’elmo, la mise nella caserma. Infilò alla meglio gli oggetti che
erano caduti, sopra a tutto appoggiò la caserma e chiuse le ante
dell’armadietto come fossero quelle di una cassaforte. Nessuno
avrebbe osato aprire.
Passò in tinello, quello dove si mangiava. C’erano luoghi
che potevano riservare grandi sorprese perché gli adulti, senza
accorgersene, perdevano cose dalle tasche. Le pieghe della fodera
delle poltrone e del divano, o dietro il divano – era abbastanza
leggero ed era facile scostarlo dal muro; poi ancora dietro la
cassapanca in ingresso, dove tutti buttavano i cappotti, e sotto i
letti. Non era facile infilare le mani nella fessura tra il bracciolo e
la parte con le molle sotto il cuscino della poltrona. Il gioco che
mascherava la ricerca consisteva nel saltare da seduti sulla
poltrona. Bisognava fare tutto rapidamente perché quel gioco
non poteva durare a lungo. Arrivava sempre qualcuno a dire di
smettere. Nella fase bassa del salto bisognava affondare le mani
nella sacca che la fodera formava tra il bracciolo e il sedile. Prima
da una parte, poi dall’altra. Niente nella prima poltrona vicina alla
porta della terrazza. Sotto il bracciolo di destra della seconda
poltrona trovò un mozzicone di matita copiativa con la punta
dalle due parti e, sotto quello di sinistra, una moneta. Gli parve di
aver trovato un tesoro. Con molta circospezione la mise in tasca
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in attesa di decidere dove nasconderla. Era un ritrovamento da
urlo-canto ma purtroppo non si poteva e allora sfogò la sua
eccitazione saltando per tre, quattro, cinque volte a piedi uniti i
due gradini che dal soggiorno conducevano alla cucina.
“Smettila!”. Quell’imperativo lo distolse dalla strana sensazione
che gli dava toccare la moneta in tasca. Sentiva che era una cosa
preziosa, anche se non ne conosceva il valore, e allo stesso tempo
un po’ pericolosa.
Tornò in tinello per occuparsi del divano. Per esplorarlo la
cosa migliore era recuperare uno dei suoi albi di Topolino e
Paperino dietro i libri degli adulti, nello stipetto che faceva
tutt’uno col divano. Avevano la copertina gialla della stessa carta
dell’interno, stampati per lungo con tre quadretti per ogni pagina.
Mentre con una mano sfogliava e osservava i disegni nei minimi
particolari, leggendo a fatica le parole scritte dentro i fumetti che
uscivano dalla bocca dei personaggi, con l’altra cercava. Bastava
sedersi sul cuscino di mezzo per poter rovistare sia sotto i cuscini
dei sedili che sotto quelli dello schienale. Sotto l’ultimo a destra,
quasi incastrati tra lo schienale di legno e la parte a molle del
divano, trovò un piccolo braccio rosa di bambola, un sacchetto di
pezza con tre palline di terracotta colorate, un rocchetto di legno
su cui era avvolto il filo per cucire. Si ricordò di aver costituito
quel deposito alcuni mesi prima. Mise in tasca le palline e lasciò il
resto dove l’aveva trovato. Poi ci ripensò, prese anche il
rocchetto, che poteva diventare un cannone, e lasciò solo il
braccio della bambola.
Dal tinello passò in ingresso dove qualche volta, ma di
solito veniva interrotto, riusciva a giocare con una palla sul muro,
come vedeva fare alle bambine. Bisognava gettare la palla e
durante la traiettoria, andata rimbalzo ritorno, fare dei movimenti
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e dire delle cose e riprenderla prima che cadesse a terra. Armando
riusciva a fare il gioco, ma non aveva ben imparato tutte le
parole, anche perché aveva la sensazione che alcune fossero
magiche: samaiò, finnallà. Quella mattina si distese per terra e
traguardò l’orizzonte del pavimento per cogliere la più piccola
sporgenza: si potevano trovare piccoli chiodi, aghi da cucire,
spilli, insomma merci di scambio. Notò solamente una stecca del
parquet, una parte della quale era sotto la zampa di leone della
cassapanca, un po’ sollevata da un lato. Provò a toccarla e si rese
conto che si muoveva. Non era una novità, quando era umido, o
se entrava un po’ di pioggia dalle finestre dimenticate aperte, le
liste di legno si alzavano, si gonfiavano e si ingobbivano al punto
da diventare piste in pendenza su cui far rotolare tutto che
rotolava: palle, palline, rocchetti, automobiline a molla senza la
carica. Una volta Armando rovesciò dell’acqua sul pavimento in
modo da produrre un effetto pioggia. Gli adulti si arrabbiarono
molto.
Ma quel tassello di parquet era strano perché, a differenza
da tutti gli altri che erano incastrati uno con l’altro, era staccato.
Dando dei colpi con il sedere, poi con le ginocchia e poi
puntando i piedi sulla porta di ingresso e spingendo Armando
riuscì a liberare il pezzo di parquet dal piede di leone alla
cassapanca. Sollevò la lista di legno e sotto trovò un foglio di
carta molto sottile piegato come una fisarmonica, con sopra dei
segni e delle scritte incomprensibili. Era una scoperta
straordinaria, di sicuro un grande segreto di qualcuno,
emozionante e terribile allo stesso tempo. Controllò se per caso il
nascondiglio sotto il pavimento continuasse e immaginò di
arrivare giù giù nella terra fino al rifugio. Decise di rimettere tutto
a posto il più rapidamente possibile. Fu molto faticoso, anche
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perché uno dei piedi della cassapanca urtava sulla lista di legno
leggermente sollevata invece di salirci sopra. Girò il listello al
contrario; da quella parte era più consumato e finalmente, poco
prima che suonassero alla porta, riuscì a sistemare tutto.
C’era un altro gruppo di nascondigli da controllare: dietro il
pannello inferiore del pianoforte che nascondeva i tiranti che
trasferiscono i movimenti dei pedali, negli incavi dove scorrevano
le prolunghe del tavolo con le zampe e dietro i quadri, dove
qualche giorno prima aveva visto armeggiare un adulto.
Ma la scoperta di quella mattina era talmente grande che
decise di ritirasi in soffitta dove c’era la sua armeria: un casco di
sughero del corpo di spedizione in Africa foderato di stoffa
biancastra pieno di macchie, due sciabole, una della Marina e
l’altra della Cavalleria, una sciarpa azzurra da ufficiale con due
grandi fiocchi come quelli delle tende, un elmo di latta della
Fanteria italiana ammaccato e scrostato, un fuciletto di legno
nero con il grilletto a molla e la canna di latta un po’ piegata.
Ricordò di aver visto bambini più grandi che comperavano, con
monete simili a quella che aveva in tasca, rotolini di carta rossa
che contenevano come dei nei di polvere da sparo che
scoppiavano quando venivano colpiti con il manico della pistola
o del fucile di latta.
Casco in testa, sciarpa e fucile a tracolla, Armando
impugnò una delle due sciabole e cominciò la sua battaglia
infilando la lama, come l’avrebbe infilata nelle costole del nemico,
nel muro che divideva le due parti della soffitta, fatto di listelli di
legno, canne di palude e intonaco. La battaglia non poteva durare
a lungo perché la sciabola era pesante e perché il muro andava
sforacchiato un po’ alla volta, altrimenti qualcuno poteva
accorgersene.
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Per finire in bellezza la mattinata decise di ripetere un
agguato di guerra, ma all’aperto. Scese in silenzio dalla soffitta
con l’elmo e il fuciletto, le altre cose non si potevano spostare.
Sgattaiolò prima in ingresso, da qui dietro una poltrona, poi in
terrazza. Si era appena acquattato dietro il cassone del carbone,
dalla parte opposta alla stia delle galline che era la postazione da
conquistare, quando si sentì colpire da qualcosa che cadde poi a
terra con un leggero fruscio di carta. Armando sapeva di cosa si
trattava perché altre volte era successo. La caramella che padre
Giulio gli lanciava dall’altra parte della calle, dalle finestre del
Patriarcato, era sempre l’inizio di un colloquio segreto nel corso
del quale i due si raccontavano i loro giochi. Ma quel giorno nella
faccia di padre Giulio non c’era traccia di quel sorriso largo e
accattivante che di solito si faceva spazio tra i peli della barba
rossiccia. Doveva parlare con un adulto. Armando chiamò e
aspettò facendo finta di niente, accoccolato per terra
scartocciando la sua caramella. Non capì il significato delle parole
“arrestato... concentramento... esse esse”, ma dalla paura che si
impossessò dell’adulto capì che si trattava di qualcosa di molto
minaccioso e pericoloso.
Non sapeva bene quale importanza dare a quella paura e
cosa fare, se non impaurirsi a sua volta. Ma Armando era armato
e cominciò a combattere con le armi in pugno. Sotto l’incalzare
dei colpi il suo elmo, privo del sottogola, volò via e cadde in
strada. Armando si nascose dietro il parapetto della terrazza per
non farsi vedere da sotto. Poco dopo sentì suonare il campanello
di casa. Era ancora in terrazza quando venne investito dai
rimproveri di tutti gli adulti di casa con l’aggiunta di due vestiti
come quello che comandava i balilla. Anzi, questi due gridavano
più di tutti ed erano minacciosi anche nei confronti degli altri
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adulti. Per la prima volta Armando sentì la parola “perquisizione”
e subito dopo capì di cosa si trattava. I due vollero vedere dentro
i cassetti, gli armadi, dentro la cassapanca; poi in soffitta, dentro il
cassettone, dentro i bauli. Poi trovarono l’armeria di Armando.
Volevano portare via le sciabole, alla fine si convinsero a lasciarle.
Uscirono di casa minacciando che sarebbero tornati.
Armando venne preso da un profondo senso di colpa,
come se il suo gioco delle ispezioni fosse diventato all’improvviso
pericoloso, dannoso; non solo quello, anche l’armeria era
pericolosa. Soprattutto poteva scatenare quel terribile frastuono
di parole minacciose del quale Armando pensava di essere stato
la causa. Quel giorno stesso decise di smettere con quei giochi
anche se nella sua fantasia continuava a percorrere la casa
utilizzando percorsi e itinerari solo a lui conosciuti. Fu allora che
con la fantasia cominciò a giocare sul soffitto: era perfettamente
liscio, senza ostacoli, come una grande pista dove le automobiline
potevano andare in tutte le direzioni.
Pochi giorni dopo, tornato da scuola, non riuscì a fare a
qualcuno il suo solito rapporto su tutto quello che aveva
imparato quella mattina perché trovò tutti presi da una grande
agitazione. Andavano e venivano dalle stanze alla cucina.
Sembravano delle formiche, si parlavano quando si incontravano,
si mostravano foglietti di carta, vecchi giornali, libri, dicevano
“sì”, “no”, “meglio in più che in meno”, “guarda dietro i cassetti
del salone”. In fretta e furia veniva bruciato tutto quello che
arrivava in cucina. Il fuoco gli era sempre piaciuto e Armando
approfittò subito del trambusto generale. Anche lui cominciò a
infilare nella cucina a legna i suoi pezzetti di carta e di legno per
alimentare le fiamme. I libri venivano aperti uno a uno, sfogliati,
scossi tenendoli per le copertina piegata all’indietro come se
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fossero le ali di una gallina. Tutto quello che usciva, segnalibri,
foto, foglietti non veniva nemmeno guardato ma subito buttato
nel fuoco. Alcuni libri vennero strappati lungo la rilegatura,
strappati a loro volta in libri più piccoli e buttati nel fuoco in
modo che bruciassero più rapidamente. La piastra delle cucina
economica era diventava rovente, rossa come Armando non
l’aveva mai vista. Pensò che l’acqua per lavarsi, che si riscaldava
in un apposito recipiente infilato a destra nella piastra della
cucina, lo avrebbe scottato. Gli adulti erano sempre più allarmati
per le cose che via via trovavano rovistando ognuno in una parte
della casa.
Armando si mise in grande agitazione. Pensò che tutta
quella confusione fosse colpa sua. Dopo l’altra volta in cui la casa
era stata minacciata dai due vestiti di nero, questa volta erano gli
adulti di casa che avevano deciso di scovare tutti i suoi luoghi
segreti. Li guardava con grande ansia mentre si avvicinavano o si
allontanavano da qualcuno dei suoi nascondigli. Si accorse con
stupore che anche gli adulti avevano i loro posti segreti perché a
un certo momento trovarono un pacchetto di fogli stampati tutti
uguali rovesciando una poltrona e infilando la mano dentro un
taglio che era stato fatto nella stoffa del fondo. Non se n’era mai
accorto, finirono anche quelli nel fuoco. Poi, siccome nessuno lo
sgridava pensò che quello fosse un gioco e per partecipare anche
lui portò delle cose da bruciare che però gli adulti scartavano
come se non volessero farlo giocare. Fino a quando non accostò
una poltrona al muro, si arrampicò sulla spalliera e infilò una
mano dietro al quadro dell’arlecchino sul ponte con la gabbia del
canarino in mano. Ululando tirò fuori un rotolino di carta. Sulle
prime nessuno gli badò. Armando continuò il suo urlo-canto
finché qualcuno si accorse della posizione precaria nella quale si
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trovava, lo mise per terra, e solo dopo le sue insistenze prese quel
rotolino di carta. Atterrito si precipitò a bruciarlo. Furono allora
tolti dai muri tutti i quadri ma Armando non capì se avevano
trovato dell’altro.
Molti anni dopo avrebbe saputo che in quella striscia di
carta arrotolata c’era un elenco di quarantadue nomi che nessuno
avrebbe dovuto conoscere.
Quel piccolo evento mise Armando al centro
dell’attenzione degli adulti e della loro paura. Ancora una volta si
sentì oscuramente preda del senso di colpa. Come se incarnare lo
spirito della casa fosse una cosa grave, molto grave perché
impauriva gli adulti e di conseguenza anche lui. In quel momento
suonarono e, senza aspettare che qualcuno andasse ad aprire,
cominciarono a colpire la porta con dei pugni gridando
“Polizia… polizia… aprite!”. Da quel momento la casa fu invasa
dal rumore. Allo stesso modo le voci e i gesti producevano un
frastuono assordante, confuso e paralizzante. Furono spinti tutti
in cucina. Solo un adulto fu autorizzato a seguirli in giro per casa.
Il risultato di quell’invasione Armando lo vide ch’era già
buio, anche perché si era addormentato. Qualcuno lo aveva preso
in braccio quando erano entrati in cucina e per fuggire dalla
confusione, dal rumore, dalla paura si era addormentato di botto.
Il sonno in quel momento era stato un rifugio mentre di solito -
da quando si sera fatto la domanda “ma dove va uno quando
dorme?”, senza trovare una plausibile risposta - addormentarsi
non era per lui una cosa piacevole. Avevano chiuso le imposte e
tirato le tende scure che servivano per non far passare all’esterno
neanche una stilla di luce. Armando sapeva che quello era il
coprifuoco. Era ormai sera. Non riuscirono a impedire ad
Armando di vedere. Tutti i mobili avevano i cassetti sfilati
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accatastati vuoti uno sull’altro; il contenuto dei cassetti era
rovesciato per terra e gli adulti stavano tentando di rimettere un
po’ di ordine. I letti erano disfatti, i materassi rovesciati
sottosopra; la fodera di qualche materasso era strappata, come
tagliata con un coltello, cosa che Armando aveva pensato più
volte di fare senza mai osare tanto; da alcuni cuscini uscivano
grumi di lana come se fossero le interiora di un animale
sbudellato. Gli armadi erano stati svuotati, i vestiti buttati sui letti
disfatti; alcuni vestiti avevano le fodere lacerate. Sopra i vestiti
erano buttati lenzuola, asciugamani, federe. I libri che si erano
salvati dal fuoco erano tutti in disordine, molti rovesciati per
terra, tutti confusi assieme. Gli fu impedito di salire in soffitta
perché non c’era luce ma si ripromise di andarci il giorno dopo.
Anche in cucina regnava la più totale confusione e i suoi giochi
erano mescolati con gli stracci, i fili per cucire, le stoviglie;
c’erano barattoli di vetro rotti e il loro contenuto era sparso
ovunque.
La casa aveva perso tutti i suoi segreti e Armando sentiva
di non aver più luoghi sui quali esercitare la sua supremazia.
Aveva perso quel potere magico che da solo si era costruito, non
poteva più essere lo spirito segreto della casa. Ancora una volta si
sentì preda di quell’oscuro sentimento che lo faceva sentire
colpevole di tutto quello che era successo. In quel momento gli
sembrava soprattutto di poter toccare la paura degli adulti; la
sentiva come una presenza fisica che prendeva alla gola.
Qualcuno piangeva, altri in silenzio tentavano di porre rimedio
mettendo ordine, ammucchiando da una parte tutto quello che
era stato rotto.
Aveva voglia di scappare, nascondersi e non farsi più
trovare da nessuno. Andò in ingresso per tentare di infilare la
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porta di casa. Non ci riuscì, era stata chiusa a chiave. Sconfortato
scostò con il piede coperte, ritagli di stoffa, maglioni e calzettoni
che erano stati buttati fuori dalla cassapanca, si buttò per terra,
traguardò il pavimento come aveva fatto quella mattina, vide il
listello del pavimento leggermente sollevato al suo posto.
Nessuno si sera accorto di nulla. Si sentì meglio, molto meglio.
Gli sembrò di riprendere in mano se stesso, come se si fosse
ritrovato là, spiaccicato sul parquet, partecipe della materia di cui
la casa era costruita. Non avevano trovato proprio un bel niente.
Qualche anno dopo seppe che la violenza dalla quale era
stata investita la casa era dovuta all’arresto del capitano Bianco,
quell’adulto con i baffi e gli occhiali che di lì a qualche mese, il
giorno della liberazione, sarebbe ricomparso in casa, con una
pistola in mano e bombe a mano agganciate alla cintura
dell’impermeabile.
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la storia di capitano Bianco Le SS italiane lo arrestano in una fresca mattina di marzo
del 1944 in piazza san Marco, dopo una breve colluttazione, un
attimo prima che due corrieri che gli consegnino le richieste dei
partigiani impegnati nel bosco del Cansiglio, vicino Belluno,
sopra il lago di santa Croce, a combattere per contendere a
fascisti e tedeschi il controllo di una delle strade di
comunicazione con l’Austria.
Giulio è monarchico e partigiano. Non badogliano,
monarchico e partigiano. Nome di battaglia: capitano Bianco. In
tutta Italia saranno forse qualche centinaio. Laureato in scienze
politiche, ultimo nato di una famiglia di costruttori di piccole
navi, destinato, unico dei figli ad aver studiato, a rappresentare il
nuovo status guadagnato con la volontà, il lavoro e l’intelligenza
di Giovanni e Regina, i genitori provenienti dall’entroterra
veneziano. Ufficiale del Savoia Cavalleria spedito in Africa poi, se
gli fosse riuscito, carriera diplomatica.
Viene ferito all’inizio della primavera del 1943 e rimandato
in Italia. E’ in congedo illimitato perché l’omero sinistro non ne
vuole sapere di andare a posto. L’8 settembre è a Venezia.
Durante la convalescenza ha visto i suoi vecchi compagni di
studio e insieme hanno cominciato a ragionare sul futuro.
Attraverso alcuni di loro si mette a disposizione del Comitato di
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Liberazione Nazionale. L’8 settembre non lo coglie impreparato.
Abbandona la casa dei genitori, frequenta senza alcuna regola
case di amici e parenti e fino al momento del suo arresto riesce a
organizzare una rete efficiente per trovare e trasportare in
montagna armi e medicine.
E’ un uomo taciturno, dedito soprattutto alla lettura, con
una passione per i testi giuridici e storici e per quelli che
raccontano degli eserciti, delle guerre e delle divise dei militari. E’
gentile con tutti e un ampio sorriso gli illumina la faccia larga e
piatta quando ha la sensazione di essere capito. Non è uno che si
fa notare e solo quando parla, con quel suo modo pacato e sicuro
di esprimersi, capisci che è ben piantato nelle sue convinzioni.
Durante gli interrogatori dopo l’arresto si rende conto che i suoi
interlocutori non conoscono il suo ruolo – per loro è solo un
disertore – e lo ritengono una figura marginale, anche perché alla
questura è noto per essere monarchico e viene trattato quasi da
“politico”. Riesce a non coinvolgere perciò altri compagni e si
ritrova, senza aver subito gravi danni nella prima fase della
prigionia a Venezia, a Mauthausen, uno dei campi di
concentramento dei prigionieri di guerra.
Il comandante Bianco ha un buon carattere: nonostante sia
stato coccolato e viziato da un intero clan familiare in quanto
ultimo di sette fratelli, nonostante sia cresciuto nei migliori collegi
del Veneto e abbia frequentato l’università e il corso ufficiali alla
scuola di cavalleria di Pinerolo - a quell’epoca di non facile
accesso per uno privo di quarti di nobiltà - si adatta rapidamente
alla vita del campo.
Molti anni dopo, vicino ai sessanta, coinvolto a sua
insaputa in una truffa finirà a San Vittore, dove si occuperà della
biblioteca, scriverà le comparse per i detenuti che lo ripagano con
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sigarette che regala ad altri detenuti e commenterà: “Non si sta
poi tanto male; nessuno ha idea di cosa sia un campo di prigionia
tedesco”.
Il campo è un impasto di violenza, sopraffazione, piccole
furbizie e grandi carognate che possono arrivare dai compagni
come dagli aguzzini. Pochi giorni dopo l’arrivo interviene in una
violenta disputa tra due prigionieri della sua baracca che ha
richiamato l’attenzione e la presenza di un vecchio caporale
bavarese. Nel tentativo di limitare danni e punizioni gli si rivolge
in tedesco, a bassa voce, in modo pacato, con la sua cadenza
veneta poco adatta a parlare quella lingua, quasi sorridendo sotto
i sottili baffi. In altre circostanze si è accorto che i suoi interventi
hanno l’effetto di calmare gli interlocutori. I due prigionieri
italiani temono il peggio ma si accorgono con stupore che il
caporale invece di imprecare, minacciarli, distribuire alla cieca
colpi con il calcio del fucile, è come ammaliato. Lui, contadino
del meridione della Germania, colpito dal fluente tedesco che in
bocca al prigioniero perde ogni durezza e ogni asperità, forse
capisce poco di quella lingua colta.
Giulio conosce molto bene il tedesco. Negli anni in cui ha
frequentato l’università per chi ambiva alla carriera diplomatica la
conoscenza del tedesco era obbligatoria.
La notizia di un ufficiale italiano che parla correntemente il
tedesco arriva rapida al comando dove cercano bilingui per
facilitare la gestione dei servizi del campo. Meglio se è un
ufficiale. Pochi giorni dopo viene destinato a comandare i
prigionieri che lavorano al forno del pane.
Nel regime di scarsezza alimentare in cui vivono i
prigionieri tutti i lavori che hanno a che vedere con il cibo sono
molto ambiti, in particolare il lavoro al forno. Metodico e preciso
71
com’è, il capitano Bianco conquista rapidamente la fiducia dei
tedeschi e comincia a godere di una certa autonomia. Assieme ai
suoi studia con attenzione il ciclo della lavorazione del pane, i
giorni dei controlli, il modo in cui i controlli vengono effettuati e
stabilisce qual è il momento per attuare il suo piano per
recuperare un po’ di pane per gli ammalati e i più deboli: è il
momento in cui il pane viene infornato. Appena si accorge che i
controlli dei tedeschi sul lavoro del suo gruppo si allentano, dà
l’ordine di accantonare pochi grammi di pane da ogni pagnotta
che viene infornata. L’operazione va fatta dopo la pesata, perché
ogni pezzo di pane ha un suo peso ben determinato. E’ un
abilissimo abruzzese che dopo la pesata, con grande destrezza,
nel sistemare sulla pala le forme di pane da infornare, riesce a
sottrarre dal sotto della forma il materiale per avviare una piccola
produzione parallela. Producono sfilatini sottili da poter
facilmente nascondere in una manica o nei calzoni. Con lo stesso
sistema riesce ad accantonare anche un po’ di lievito che assieme
al pane viene distribuito con grande parsimonia. In un paio di
occasioni qualche prigioniero escluso dalla lista fatta dai
responsabili delle baracche minaccia di parlare. Allora il mite
capitano Bianco, tra mille ripensamenti, dubbi e nonostante
rimanga profondamente convinto del valore della parola e della
sua personale capacità di convinzione, dà il suo assenso a delle
minacce di avvertimento, poi a un pestaggio. E’ un conservatore,
un militare e per lui le regole contano.
Ogni venerdì i tedeschi misurano le riserve di farina, sale,
lievito e controllano la quantità di pane in uscita dal forno. Ogni
lunedì mattina vengono reintegrate le scorte e nessuno ha il
sospetto di quanto sta accadendo. Si fidano del capitano Bianco. Il
peso del pane in uscita viene contabilizzato quotidianamente a
72
ogni sfornata e le pesate le fanno i soldati ai suoi ordini. Ci
vorrebbe un’ispezione radicale per mettere in luce la produzione
parallela. Sanno il grande rischio che corrono, ma sotto la guida
attenta e meticolosa del capitano Bianco si sentono sicuri.
Durante le operazioni di controllo Giulio intrattiene buoni
rapporti con l’ufficiale tedesco, la cui attenzione viene
dolcemente dirottata sull’ordine, la pulizia e la sistematicità con
cui si lavora e si tengono i registri. Questo provoca grandi cenni
di approvazione.
La “squadra del pane” sotto la direzione del capitano Bianco
diventa celebre nel campo di Mauthausen, come viene a sapere
molti anni dopo conoscendo meglio uno dei fornitori - anche lui
prigioniero nello stesso campo - della filiale OM di Milano che
con poca fortuna metterà in piedi verso la fine degli anni ’50. In
verità tutte le sue intraprese dopo un inizio felice, per qualche
motivo non si sviluppano, non decollano e quasi sempre, a
sentire lui, per colpe non sue. Fosse durata più a lungo, forse
anche la “squadra del pane” avrebbe fatto la stessa fine.
Appena Giulio è stato fatto prigioniero i fratelli hanno
inviato al Ministero della Guerra la domanda per ottenere la sua
liberazione, dichiarandolo indispensabile per la produttività del
piccolo cantiere navale e della fonderia di proprietà della famiglia.
Giovanni, il padre, non ha mai voluto iscriversi al Partito
Nazionale Fascista e finché c’è stato lui di commesse belliche il
cantiere ne ha viste ben poche. Quando Giovanni muore, poco
prima dell’entrata in guerra, uno dei fratelli prende la tessera.
Non lo fa per convinzione fascista, ma solo per portare avanti
l’azienda. Subito il cantiere entra nel novero delle industrie
belliche e piovono ordini, prima dal Ministero della Guerra di
Roma, poi da quello della Repubblica Sociale Italiana.
73
L’aumento delle commesse e il contemporaneo richiamo al
fronte di una parte del personale fanno sì che la domanda per la
liberazione di Giulio venga accolta, con l’obbligo di presentarsi
ogni giorno alla firma del registro in questura - è considerato un
“politico” - e l’assunzione da parte dei fratelli delle responsabilità
conseguenti all’eventuale ripresa delle sue attività illegali.
Per una singolare coincidenza molti dei prigionieri della
“squadra del pane” sono veneziani, anche loro “politici”, rossi,
specialisti civili dell’Arsenale militare di Venezia, arsenaloti, l’élite
della classe operaia veneziana. Anche per loro la direzione del
personale dell’Arsenale ha presentato la richiesta di reintegro nei
ruoli pena l’impossibilità, in loro assenza, di realizzare
determinate lavorazioni legate a obiettivi militari.
E’ così che ai primi di ottobre del 1944 il capitano Bianco e
un’altra quindicina di prigionieri vengono caricati in un camion
tedesco e rispediti a Venezia. Prima di andarsene dal campo
mette al corrente il suo sostituto alla direzione del forno del
funzionamento della “squadra”. Lo fa con calma e precisione,
come se si trattasse di lasciare la sede di un ufficio per trasferirsi
in una nuova sede.
Durante il viaggio all’interno dell’Austria i suoi compagni
di viaggio lo prendono in giro quando capiscono che è
monarchico. Non riescono a farsene una ragione né lui accetta
critiche al suo credo politico che, in effetti, non gli consente
margini di compromesso: sono dalla stessa parte, ma lui si trova
all’estremo opposto.
Poi il discorso si sposta sulle probabilità, una volta in Italia,
di venire attaccati dai partigiani passando in una delle valli che
portano in pianura. Qualcuno dei suoi compagni lo spera, ma il
rischio è alto perché nessuno può immaginare che quel camion
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tedesco trasporti prigionieri italiani. Il capitano Bianco spera di
arrivare a Venezia senza incontrare nessuno.
Al confine con l’Austria vengono presi in consegna dai
militi della Repubblica Sociale Italiana e, se possibile, trattati
peggio di quanto hanno fatto i tedeschi. Al valico di Tarvisio fa
freddo e piove, una pioggia gelida che a quelle quote annuncia
l’arrivo dell’inverno e sa già di neve.
Giulio riconosce i luoghi di una spensierata vacanza da
studente, ma non ne parla con i suoi compagni. Dal tendone del
camion penetrano rivoli d’acqua che finiscono per gocciolare
addosso ai prigionieri e ai due militi che li sorvegliano con il
Beretta imbracciato. In pianura il freddo non diminuisce, è ormai
buio. Da quando sono nelle mani degli italiani sono stati zitti,
non vogliono farsi capire da quelle carogne che non li hanno fatti
né mangiare né bere. Uno dei prigionieri se la fa addosso perché
non li fanno scendere nemmeno per pisciare.
Le carogne sono quattro ragazzini e un giovane caporale e
hanno una paura terribile di sbagliare.
Sono alla periferia di Mestre quando il camion, nel buio
pesto e con i fari a mezza luce, va a sbattere contro un
semicingolato tedesco carico di soldati uscito all’improvviso da
un incrocio. I due militi di guardia nel cassone del camion sono
colti di sorpresa. L’alterco tra tedeschi e italiani scoppia
immediatamente e i tedeschi, anche se hanno torto, mettono
sotto accusa i giovani italiani. Una parte dei prigionieri decide di
sfruttare la situazione: impadronirsi delle armi dei militi e tentare
di scappare con il camion. Il capitano Bianco che sta sonnecchiando
vicino a uno dei due militi, si è svegliato al momento dell’impatto
e la sua prima reazione è stata quella di saltare giù dal camion. Un
istante dopo si rende conto che contro fascisti e tedeschi insieme
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non possono farcela. Si butta verso l’interno del cassone e cerca
di bloccare i movimenti di quelli che dal fondo stanno avanzando
verso i militi per disarmarli. Il parapiglia che ne segue - il capitano
Bianco si mette a gridare che stiano fermi perché potrebbero
calpestare gli occhiali che gli sono volati via dal naso - sposta sui
prigionieri l’attenzione dei militi e dei tedeschi che stanno
discutendo. Con i mitra spianati i prigionieri vengono costretti,
tra maledizioni e bestemmie che tagliano l’aria, a rimettersi ai loro
posti. Per ultimo il capitano Bianco. Per fortuna è riuscito a
ritrovare gli occhiali.
Quando a piazzale Roma scendono dal camion e vengono
prelevati dalle SS italiane per essere accompagnati in questura
nessuno dice niente ma gli sguardi torvi che incrociano gli occhi
del capitano Bianco parlano da soli.
Come racconterà anni dopo è convinto di aver salvato la
pelle a tutti: “Dal fondo del cassone non si erano resi conto che
nel semicingolato tedesco c’erano venti soldati armati fino ai
denti. Se andava bene ci rispedivano in campo di
concentramento, se andava male ci falciavano tutti lì per strada”.
Ha ripreso il lavoro da una settimana che già rientra nel
ruolo di partigiano e ristabilisce i contatti con il comando del
Comitato di Liberazione Nazionale da cui dipende. Anche se ha
la copertura del lavoro in fonderia ora la situazione è più
rischiosa perché viene controllato e spesso pedinato. La fonderia
stessa è un luogo militarizzato, ma i suoi dipendenti, tutti della
Giudecca - la maggior parte sono comunisti o socialisti - sanno
chi è e lo proteggono in tutti modi. Durante l’orario di lavoro
approfitta del via vai di fornitori e dei trasporti per acqua delle
materie prime o dei prodotti della fonderia e fa giungere a
destinazione armi, uomini e informazioni.
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Nello stesso tempo lavora per riorganizzare a Venezia il
movimento monarchico. Dà ormai per scontato che il primo
passaggio obbligato dopo la liberazione riguarderà la scelta tra
monarchia e repubblica. Sa anche che i fautori della repubblica si
preparano a prendere il potere a guerra finita facendo pesare sul
paese, anche al di là della sua portata, la fuga del re dopo l’8
settembre. Spera che molti sostenitori della monarchia si siano
schierati come ha fatto lui contro i fascisti e spera anche
nell’appoggio dei cattolici. Sa quanto siano fragili le sue speranze
ma non rinuncia a credere, anche al di là delle apparenze.
I fratelli lo lasciano fare e, come molti imprenditori in
quegli anni, approfittano del suo ruolo per tenere i piedi in due
staffe, sempre in nome dell’azienda e del lavoro. Sanno che la
maggioranza degli operai è di sinistra, che fra loro ci sono
militanti dei Gruppi Armati Partigiani e che se qualcuno
scompare dal lavoro è stato arrestato o si è dato alla macchia.
Anche in questo caso il ruolo del capitano Bianco permette ai
fratelli di governare al meglio la situazione: attraverso canali che
solo lui conosce sa sempre come sostituire gli operai che se ne
vanno e così il cantiere rispetta le consegne.
All’inizio dell’inverno le notizie che arrivano dalla
montagna non sono rassicuranti, al contrario di quelle che
provengono dai vari fronti di guerra. Alla fine di gennaio
l’Armata rossa entra a Novgorod, gli alleati sbarcano ad Anzio e
gli americani di Mac Hartur sulle isole Marshall . Sono tutti indizi
delle gravi difficoltà dell’Asse.
Il capitano Bianco si augura che gli alleati risalgano la penisola
il più rapidamente possibile. Solo così ci sono buone probabilità
di arginare la spinta delle sinistre che, almeno a lui, sembra
puntare a un immediato cambio di regime subito dopo la
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liberazione. La scelta del governo Badoglio da parte del re gli è
sembrata perdente.
I monarchici come lui che hanno abbracciato la guerra
partigiana sono pochi e per questo la sua influenza nel
movimento monarchico veneziano aumenta e viene riconosciuta
anche dalle altre forze politiche. Per gli stessi motivi una parte dei
suoi non lo vede di buon occhio. Alla vigilia del referendum del
giugno ’46 diventerà uno dei finanziatori della campagna a favore
della monarchia. Dalla sua fonderia uscirà una gigantesca stella
luminosa in vetro e ferro, simbolo del movimento monarchico,
che verrà presa a sassate, probabilmente dai suoi stessi operai,
poche notti dopo essere stata montata in campo San Luca.
Ai primi di marzo del ’45 l’ordine è di organizzare e
sostenere le azioni partigiane dei Gruppi Armati Partigiani in città
e di preparasi per la liberazione. Il CLN ha fretta e vuole
muoversi prima dell’arrivo delle truppe alleate, organizzare il più
presto possibile forme di governo locale appena buttati fuori i
tedeschi e resi inoffensivi i fascisti. Con la sua solita flemma, con
l’aria di quello sempre immerso nella lettura di un libro, il capitano
Bianco lavora, anche se queste attività vanno contro le sue
convinzioni. Sia in cantiere che nella fonderia all’insaputa dei
fratelli, sia nelle case di parenti e amici organizza uomini,
accantona armi e munizioni. Così fino al giorno della liberazione
quando, indossato il trench sopra il doppiopetto blu, con i guanti
di pelle nera, le scarpe nere lucide, la pistola d’ordinanza nella
tasca destra e due bombe a mano alla cintura, esce di casa per
andare a stanare gli ultimi fascisti trincerati nell’Ala Napoleonica,
in fondo alla piazza, di fronte alla basilica di San Marco.
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inverno 1944
Quella sera Armando non volle sentire ragione. Gli
avevano regalato un carretto di legno con il timone per tirarlo e le
ruote che giravano girando il timone? Un carretto che pareva
fatto apposta per trasportare una piccola damigiana d’acqua? Sì.
E allora lui doveva andare con loro a prendere l’acqua alla
fontana.
L’acqua, dai rubinetti delle case, mancava da giorni. Tutti
facevano la fila alla fontana che stava oltre l’Ala Napoleonica,
dall’altra parte della piazza San Marco. Sarebbe stato l’ultimo
viaggio della giornata per approvvigionarsi per i giorni successivi.
C’erano due damigiane già piene nello sgabuzzino in terrazza,
quella dell’ultimo carico l’avrebbero messa nella vasca da bagno,
per lavarsi e per il gabinetto.
Armando non era mai uscito con il buio se non per andare
in rifugio. Spesso in quelle occasioni si addormentava e si
svegliava solo quando, una volta dentro, veniva invaso da quel
caldo appiccicoso e puzzolente. Anche se non dormiva ricordava
poco di quei trasferimenti, perché c’era l’allarme e al buio tutto
diventava confuso.
Quella sera dell’acqua era particolare, perché si poteva
circolare con una lampada. Armando riuscì a spuntarla e si avviò
con il suo carretto e, al colmo della soddisfazione, con una
piccola torcia a batteria in mano con la quale doveva illuminare il
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cammino di tutti gli altri.
L’entrata in piazza con quella magica luce fu un’emozione
indimenticabile. Gli sembrò di poter parlare con tutte le altre luci
che si muovevano intorno a lui. A un certo momento ebbe la
sensazione di sentire un suono, una specie di coro, e pensò che
fossero tutte le luci che si erano messe a cantare. Era una di
quelle sere di inizio inverno quasi miti. I venti freddi da un po’ di
giorni dormivano e il sole era riuscito, in quell’intervallo di
tempo, a penetrare nelle pietre grigie del selciato. Ora il sole
usciva dalle pietre sotto forma di calore dando l’illusione di un
inverno ancora lontano. Armando capofila della sua famiglia
abbandonò per un attimo il ruolo di guida che aveva assunto,
attratto dalla possibilità di seguire con il suo carretto il tortuoso
tracciato delle pietre bianche che disegnano la piazza e che anche
di sera si poteva vedere senza bisogno di luce, tale era il contrasto
tra il grigio dei masegni e il bianco dei marmi del disegno. La
deviazione durò poco e Armando riprese il gioco di comandare
con la luce tutti gli altri.
In fondo alla piazza si cominciava a intravedere la lunga
fila bisbigliante di persone che aspettavano il loro turno per
riempire d’acqua recipienti di tutti i tipi. A destra e a sinistra della
fila si distinguevano, ogni quindici o venti metri, soldati tedeschi
con i fucili mitragliatori imbracciati. Un gruppo di ragazze
canticchiava sottovoce una canzone che Armando aveva sentito
uscire dalla scatola bianca della piccola Emerson.
La radio americana con una chiave di violino dorata
avviluppata attorno alla lucina arancione che si accendeva
manovrando la manopola di sinistra, stava appoggiata sul suo
vecchio seggiolone ormai in disuso. Quando la voleva ascoltare,
proprio solo lei dimenticando tutto il resto, si infilava tra le
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gambe del seggiolone e si acquattava sotto il sedile come per
rinchiudersi in una gabbia di musica e parole spesso
incomprensibili.
All’improvviso sentì delle urla provenire dal punto della fila
più vicino alla fontana e abbandonato per un momento il suo
carretto si avvicinò per sentire meglio. Si sentivano voci acute di
donne che strillavano e rumore di secchi sbattuti. Mentre cercava
di farsi largo fra le gambe della gente in fila qualcuno lo prelevò e
lo mise a sedere sul carretto. Nello stesso momento, le urla
cessarono perché erano intervenuti i soldati tedeschi. Rimase a
giocare seduto sul carretto spostandolo con i piedi un po’ alla
volta verso la cima della fila, finché non arrivò il suo turno.
Volle fare tutto da solo, lasciando cadere per due volte il
recipiente di alluminio quando, pieno d’acqua, diventava troppo
pesante. Dietro di lui le persone protestavano per il tempo che si
perdeva e per la preoccupazione che l’erogazione dell’acqua
potesse cessare improvvisamente. Finalmente, i piedi bagnati e le
maniche del cappotto e della maglia fradice fino al gomito, riuscì
a mettere il recipiente sul carretto e a fare le prove di traino in
attesa degli adulti che dovevano riempire i secchi e le pentole da
portare in due con le mani protette dai fazzoletti ripiegati.
Si avviarono. Arrivato ai tre gradini per scendere dalle
Procuratie Nuove alla piazza Armando si fermò incespicando,
come spesso succede ai bambini, sui piedi degli adulti che lo
seguivano. Non sapeva come fare a superare l’ostacolo. Avevano
tutti fretta. L’acqua pesava e avevano tutti fretta. Armando si
accorse di aver già perso per strada una parte dell’acqua uscita dal
suo recipiente senza coperchio e si preoccupò molto. Gli venne
quasi da piangere ma subito si tranquillizzò quando qualcuno,
posati i secchi, sollevò lui, lampada, acqua e carretto e, senza
81
ulteriori perdite, li depose sulla piazza. Avevano risalito la fila fin
quasi alla coda dove brontolando si stavano raccogliendo gli
ultimi arrivati sperando di non rimanere senza acqua. Armando
camminava impettito davanti a tutti. Salutò, come aveva imparato
fin dall’asilo, il soldato tedesco con il braccio teso inclinato in
avanti e quello ridendo diede un calcio al suo carretto
rovesciandolo assieme a tutta l’acqua.
Il soldato rideva; rideva qualcuno di quelli ch’erano in fila e
anche qualcuno degli adulti ch’erano con lui rideva. Armando
rimase paralizzato. Tutta quella fatica sprecata. L’eccitazione di
quella avventura notturna si trasformò in una rabbia cieca. Prima
di scoppiare a piangere si avventò imbestialito sul soldato tedesco
e gli sputò sugli stivali. Per Armando era il massimo dell’offesa
possibile. Se gli capitava di pensare cattiverie di qualcuno, di
sentire un’avversione profonda anche se indistinta, di desiderare
che scomparisse, il modo di distruggerlo era sputargli sulle
scarpe.
Un adulto se lo caricò fradicio d’acqua e disperato a
cavalcioni sulle spalle; le lacrime di Armando gli piovevano sulla
testa. Allontanandosi sentiva ancora ridere il soldato tedesco ma
solo perché, pensava Armando, non si era accorto dello sputo
sugli stivali.
Non riuscì a prendere sonno. Era annichilito per la
violenza subita. Agitato dalla confusione che gli procuravano i
pensieri di distruzione dell’altro, lo sputo sugli stivali era stato per
Armando un’azione terribile che si stava ritorcendo contro di lui.
Non capiva più verso chi era diretto il furore che sentiva dentro.
Più aumentava il numero delle persone da distruggere - chi lo
aveva spogliato, chi lo aveva accompagnato in bagno, chi gli
aveva messo il pigiama – più il bersaglio della sua collera
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diventava indistinto.
Sentì parlottare in cucina e poi registrò, tentando di
immaginare cosa fosse, un rumore ritmico “… sss… zzz…
sss…”. Non riuscì a capire di cosa si trattava. La cadenza del
rumore lo aiutò ad addormentarsi.
La mattina dopo, prima di andare a scuola, ispezionò con
cura la cucina e trovò vicino alla gamba di legno del tavolo della
polvere molto fine dello stesso colore della segatura che in
mancanza di legna si usava nella cucina economica.
Si avvicinava Natale e Armando era in grado di apprezzare
fino in fondo i vantaggi che gli potevano derivare da questa festa.
I piccoli obblighi temporanei: “non urlare, chiedi per favore, non
sporcarti, vai a dormire senza discutere” erano in fondo
accettabili perché passato Natale, pensava, poteva riprendere a
fare come pareva a lui.
Il Natale che Armando aveva imparato a conoscere nei
pochi anni della sua vita era un Natale di guerra, ma ciò
nonostante gli sembrava il massimo. Era diventato molto difficile
trovare un abete perché i boschi delle montagne del Veneto
erano in mano ai partigiani, ma ad Armando pareva già
straordinario l’albero di carta verde che veniva fissato con le
puntine da disegno sul muro del soggiorno. Le palle di vetro
bianco o trasparente con le polverine colorate e le figurine di
carta incollate sopra venivano portate giù dalla soffitta, dove
stavano a riposare per tutto l’anno dentro scatole di cartone
bianco divise a scomparti - un po’ di paglia sotto a ognuna e un
quadrato di carta bianca leggera per avvolgerle. Sembravano delle
uova fantastiche. L’albero di carta veniva contornato da fili
d’argento e a questi appese le palle e le candeline di cera colorata.
Sotto veniva steso un foglio di carta marrone, la terra da cui
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nasceva l’albero, che serviva anche per raccogliere la cera che
gocciolava dalle candele accese e a sistemare il presepe.
Armando aveva con il presepe una vecchia ruggine. L’anno
precedente, offeso perché qualche adulto gli aveva impedito di
toccarlo, si era impadronito di nascosto delle statuine, aveva
riorganizzato sotto una sedia il suo presepe personale – ma aveva
fatto confusione fra le statuine, perché non ne capiva bene i ruoli
– e ci aveva fatto la pipì sopra. Un rito di impossessamento,
come un gatto che segna il suo territorio.
A scuola dalle suore Armando pregava, aveva imparato a
dire “sia lodato gesù cristo”, e a cantare delle canzoncine che
parlavano di Gesù. Ma della religione capiva poco. Afferrava
qualche immagine, ma molte, come quella del presepe, non
riuscivano a emozionarlo, se non come un gioco divertente da
fare e rifare, inventando ogni volta una storia diversa.
“... sss… zzz… sss… zzz…”. Se riusciva a non
addormentarsi subito quasi tutte le sere poteva sintonizzarsi su
quello strano rumore sempre uguale - ogni tanto smetteva e poi
riprendeva - e ogni mattina, alzandosi, trovava tracce di segatura
vicino alla gamba del tavolo di cucina. Solo anni dopo riuscì a
stabilire un rapporto tra i rumori, la segatura, e il garage grigio,
giallo e rosa che trovò quell’anno sotto l’albero di Natale: grigia la
rampa per entrare nei quattro box, gialli i muri, rosa il tetto che
sporgendo sul davanti formava una bellissima tettoia. C’erano
anche due paracarri bianchi e neri all’estremità della rampa, in
basso. Magnifico. La Befana, qualche giorno dopo, avrebbe
portato due piccole macchine da corsa, una argento e una rossa,
di ghisa con le ruote di gomma.
Le due auto da corsa venivano con religiosa cura ricoverate
nel garage dopo aver percorso in lungo e in largo tutte le piste di
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casa. Quando si poteva uscire il grande circuito, che qualche
bambino più grande chiamava “monza”, era costituito dall’anello
di pietra d’Istria che delimita la parte centrale rialzata della
piazzetta dei Leoncini. La corsa doveva interrompersi nel
passaggio davanti ai due leoni dove il bordo si riduceva a pochi
centimetri; qui i distacchi fra i concorrenti venivano misurati a
spanne, e la corsa riprendeva oltre l’ostacolo.
In altre stagioni, anni dopo, al tempo del giro d’Italia, lo
stesso percorso diventava una gara di ciclisti e i corridori erano i
tappi a rosetta metallici della gazzosa o della birra.
I tappi erano una specie di moneta. I più rari, quelli che
avevano sul dritto il marchio di una fabbrica o di una bibita
molto rara potevano valere anche dieci, quindici tappi “normali”;
cinque tappi rari valevano il tacco di una scarpa da uomo. Il
tacco, per diventare un buon tacco per giocare, veniva chiodato e
incerato. Partendo da una base ognuno tirava il suo tacco più o
meno lontano dalla base. Quando tutti erano fuori dalla base a
turno bisognava con un solo lancio riportare il proprio tacco
dentro il masegno che fungeva da base. Se si riusciva a rientrare
alla base si acquisiva il diritto di provare a colpire con il proprio
uno dei tacchi degli altri giocatori. Bastava toccarlo per essere
ricompensati con un certo numero di figurine patteggiato
all’inizio. Oppure bulloni, balete de fragna, e tappi. Normali o rari,
questi erano una merce molto preziosa per Armando, perché
quando i camerieri li gettavano addosso ai bambini che giocavano
vicino ai bar, davano origine a zuffe nelle quali i più grandi
avevano sempre la meglio.
Fu così che un giorno barattò il suo triciclo - ma era molto
mal ridotto, chissà quanti altri bambini l’avevano usato - per dieci
tappi. Quando questo episodio, che scatenò un putiferio tra gli
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adulti, gli tornava in mente arrivava sempre alla stessa
conclusione: aveva fatto un ottimo affare, perché il grado di
importanza, nella gerarchia che vigeva nella piazzetta dei leoncini,
era dato dalla quantità di tappi che si possedeva e non da un
vecchio triciclo scassato.
Sul finire dell’inverno, seppe poi ch’era stato il più duro
della guerra, si sparse la voce tra i bambini che in laguna c’era
grande abbondanza di pesce. Non appena i pomeriggi
cominciarono ad allungarsi, gli imbarcaderi delle gondole sulla
riva della piazzetta di San Marco, sotto le colonne di Marco e
Todaro, diventarono un campo di gara di pesca alle anguele: la più
grande non arrivava a sei centimetri, buone al massimo per farne
frittura. “Pesse da gato”, dicevano ridendo i gondolieri, ma per i
bambini era questione di vita o di morte. Solo un urlo “La
visigola!” poteva interrompere la loro concentrazione: era
l’annuncio dell’arrivo dell’aguglia che a pelo d’acqua passava a
pochi metri dalla riva scompaginando il tranquillo andare degli
sciami di anguele.
La riva della piazzetta, dove trascorreva interi pomeriggi,
era diventata per Armando una specie di rifugio dal quale
osservava da lontano, come da bordo di una barca che aveva
lasciato gli ormeggi, pezzi della propria vita e delle persone che la
intersecavano. Mentre gli altri pescavano Armando si perdeva a
guardare le forme e i colori che assumeva l’acqua, in continua
mutazione come le onde che si formavano quando passava una
nave o un vaporetto. Immaginava che il mare potesse riflettere
tutte le facce delle persone del mondo, quelle che avevano già
vissuto, quelle che vivevano e quelle che ancora dovevano
nascere.
Ad Armando gli adulti avevano proibito di pescare: “no,
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l’amo no, è troppo pericoloso”; provò allora con uno spillo
piegato, qualche metro di filo per cucire e delle palline di mollica.
Sognava di procurare cibo per tutti, un grande piatto di anguele da
mangiare con la polenta. Tornò a casa con un solo pescetto che
finì nella ciotola del gatto.
La delusione di non riuscire a procurare cibo per tutti non
lo angustiava più di tanto perché si era fatto l’idea che procurarsi
da mangiare fosse un’impresa facile e divertente: c’erano i negozi,
uno entrava, chiedeva quello di cui aveva bisogno e il bottegaio,
se aveva il cibo richiesto, subito esaudiva il desiderio. Poi sfilava
la matita da dietro l’orecchio e scriveva qualcosa in un quaderno,
ma a questo gesto, che non capiva, Armando non dava troppa
importanza. Insomma la strada era come la dispensa di casa:
bastava scendere e si poteva portare via quel poco che si trovava
nei negozi. Riso conservato in grandi sacchi bianchi: con una
piccola pala argentata veniva versato con colpi sapienti sulla
bilancia e poi incartato con abile mossa delle due mani a fare un
sacchetto da un foglio di carta, quante volte Armando aveva
provato a rifarlo senza mai riuscirci. Piccole semisfere verdi che si
separavano in due parti quando la buccia si seccava, bisognava
metterli a bagno nell’acqua e cercare i sassetti che c’erano dentro.
Sapone che serviva per lavare tutto: i capelli, i vestiti, il
pavimento, la faccia; per fortuna non era facile trovarlo.
Armando si era convinto che quel poco che c’era, serviva per
lavare solo lui.
Qualche volta si trovava il latte e allora bisognava andarlo a
prendere con la bottiglia di vetro, ne aveva già rotte due, per
fortuna vuote. Un adulto gli aveva parlato delle mucche ma non
aveva capito bene di cosa si trattava. Per Armando che cresceva
nella città di pietra risultava difficile, quasi impossibile, mettere in
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relazione latte e mucca, olio e ulivo, la pasta con il grano.
Qualcosa gli avevano spiegato, ma per lui era come credere a
Gesù Bambino e alla Madonna. Poteva anche credere, ma non
capiva, e tutte le spiegazioni aspettavano la verifica degli occhi,
del tatto, dell’esperienza diretta.
Le maggiori perplessità gli erano suscitate dal banco del
fruttivendolo. Guardava le file di cassette messe in ordine da
sopra a sotto, a ridosso del muro, a destra e a sinistra
dell’ingresso della bottega. Da una parte le verdure, dall’altra la
frutta. Da una parte le patate, i cavoli, le verze; dall’altra le mele,
le arance, i limoni. Non c’era mai molta roba, ma tutte quelle
forme e quei colori erano sufficienti per disorientarlo: mai
avrebbe immaginato che la terra che lui conosceva – quella umida
e scura del rifugio – potesse produrre cavoli e patate; che
esistessero alberi sui quali crescevano - per lui era impossibile
capire come - mele, arance e limoni.
In casa sentiva parlare con nostalgia della frutta che
Vincenzo mandava da Napoli prima della guerra: era il modo con
cui annunciava il suo arrivo a Venezia dove aveva preso
l’abitudine di fermarsi prima di andare a Monaco a piazzare i suoi
treni di frutta e verdura.
88
la storia di Vincenzo
Dovrebbe chiamarsi di Vincenzo e Maria, perché Vincenzo
comincia a convivere con la sua storia attraverso i racconti che fa
alla giovane moglie. In qualche modo Maria è da sempre dentro
la storia; per mille volte, da lontano, il pensiero di lei, il ricordo
del suo viso, degli occhi luccicanti, della pelle, del sorriso, delle
mani, del suo corpo, lo hanno aiutato a vivere. Raccontando,
Vincenzo rivive con assoluta precisione le occasioni nelle quali il
ricordo di Maria è diventato, di volta in volta, struggente,
sensuale, angoscioso. Anche le volte in cui il ricordo è
scomparso; non poteva esserci, tale era l’abisso di rumore, di
violenza, di spavento nel quale precipitava: per uscirne, doveva
pensare solamente a se stesso.
Vincenzo torna a Calvizzano, appena fuori Napoli, verso la
fine di agosto del 1945. Non è riuscito ad avvisare nessuno del
suo arrivo. Gli ultimi chilometri di treno sono stati di una
lentezza esasperante. Lungo la linea ci sono in continuazione
cantieri pieni di uomini che riparano i danni della guerra.
Approfittano del passaggio del treno per scostarsi dal terrapieno
dove stanno lavorando. Si appoggiano sui loro attrezzi, si
asciugano il sudore, accendono una sigaretta e salutano quando
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vedono il gruppo di giovani militari affacciati ai finestrini a bersi
con gli occhi la loro terra. Molti di quelli che lavorano sono
vestiti con pezzi di divise militari di tutti gli eserciti che sono
passati di là. Per Vincenzo e i suoi compagni che ritornano dalla
Germania è il primo vero benvenuto; come se la terra, gli alberi,
le case li avessero riconosciuti, anche se sono cambiati molto
rispetto a due, tre anni prima.
Intravede casa sua tra gli alberi ancora prima di entrare in
stazione. E’ come l’ha ripensata tante volte in quegli anni:
piantata in mezzo alla campagna, forte, protettiva. Si incammina a
piedi e per strada lo riconoscono in molti finché Antonio, un
vecchio potatore che tante volte ha lavorato per la sua famiglia, lo
carica sul sellino della sua Guzzi. I frutteti e i campi di verdura
hanno l’aria stanca di quelli che hanno lavorato per un’intera
stagione e aspettano di essere preparati per riposarsi fino alla
prossima. Accorrono in tanti quando arriva sulla vecchia aia. Poi
dentro, accolto dalla fresca protezione della casa e dalle festose
attenzioni della famiglia. Sono passati quasi due anni da quando
ha fatto l’ultimo pasto decente e ha dormito in un letto vero.
Vincenzo ci mette molto tempo prima di riuscire a dormire
di nuovo in un letto vero. Prova tutte le sere, ma alla fine riesce
ad addormentarsi solo se si stende per terra. Una sera mette per
terra il cuscino, un’altra mette sopra il pavimento il copriletto
piegato per lungo, un’altra ancora la passa metà a letto poi, verso
mattina, per riaddormentarsi deve rimettersi per terra. Vincenzo
deve riabituarsi a dormire nel letto anche perché a ottobre sposa.
L’hanno deciso assieme a Maria il giorno stesso del suo ritorno.
La notte per Vincenzo non è mai intera. Da quando è
tornato è sempre spezzata in due, tre parti. E tra i vari pezzi di
notte c’è il segno dei due anni di prigionia. È successo tutte le
90
notti che precedono le nozze, succede anche la prima notte di
nozze e succederà per trent’anni. E ancora dopo, anche se più di
rado.
“Dovevo tornare prima, con la nave, ma poi le navi le
hanno usate gli americani per tornare a casa loro”. Lo dice come
se volesse scusarsi con Maria che, accanto a lui, si è svegliata di
soprassalto quando ha sentito una voce aspra urlare parole
sconosciute. Maria non chiede spiegazioni, non saprebbe
nemmeno da che parte cominciare, ma capisce che lì al buio, con
un’intimità tutta da costruire, può solamente far sentire la sua
presenza accogliente.
“Solo due volte ho pensato che non sarei più tornato. Però
anche quelle due volte non ho mai desiderato morire come tanti
altri. Però mi sentivo senza scampo, in balia della ferocia, della
violenza….”.
Vincenzo non riesce a raccontare delle due volte che,
durante la prigionia ad Amburgo, è finito nelle mani delle SS. Si è
salvato perché parlava bene il tedesco ed era utile per organizzare
le attività dei prigionieri. Era molto difficile sfuggire dalle mani
delle SS e tornare in quelle dei riservisti della Wehrmacht che
amministravano i prigionieri. Non era capitato a molti, una volta
entrati nella caserme delle SS, non si usciva vivi.
Nel silenzio, come in un film che scorre rapido sullo
schermo dei suoi occhi aperti nel buio, ricorda il rumore delle
voci, delle percosse, delle celle. Sente un brivido percorrergli
tutto il corpo. Sente anche Maria che gli si fa vicino e che
dolcemente, con mille cautele, lo riporta lì, in quella stanza, in
quel letto, con lei.
Nessuno dei due immagina in quel momento che cercarsi,
trovarsi e amarsi nel tempo che separa i pezzi di notte di
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Vincenzo sarebbe stato per loro entrare in contatto con il bene e
il male, il bello e il brutto, per tutti gli anni a venire.
Come se ogni notte si lasciassero trasportare attraverso le
due entità in opposizione che fanno muovere il mondo.
“L’acqua. La cosa più importante quando stai chiuso in
ottanta dentro un vagone merci per tre giorni, attraversi l’Europa
da Zagabria ad Amburgo, non è la stanchezza perché puoi stare
solo in piedi, non è la nausea perché devi convivere con gli
escrementi tuoi e di altre ottanta persone, non è la fame perché se
ne fregano di darti da mangiare. È la sete, è l’acqua che ti manca.
Arrivati alla periferia di Amburgo, abbiamo fatto a piedi ancora
sette, otto chilometri. Di notte, aiutandoci uno con l’altro.
Almeno si respirava aria pulita. Uno del nostro vagone non ce
l’ha fatta. Con le ultime forze che aveva è saltato addosso a un
soldato tedesco che prima l’ha colpito con il calcio del fucile poi,
a colpi di baionetta, l’ha ammazzato. Davanti a tutti. Arrivati al
campo molti si sono buttati su una lunga vasca piena d’acqua. A
colpi di calcio di fucile sono stati allontanati. Non è acqua da
bere, è per lavarsi. Morire sventrati sì, di dissenteria no”.
Con un filo di voce spiega a Maria che quell’acqua era
imbevibile perché affiorava attraverso la torba. Si formavano dei
serbatoi naturali e da lì l’acqua veniva portata ai campi di
prigionia più vicini perché i prigionieri si lavassero e lavassero le
baracche.
Vincenzo si sveglia con la gola riarsa, quasi non riesce a
respirare, si agita e annaspa con le braccia, sveglia Maria che si
precipita giù, al piano terra, a prendere dell’acqua. Maria ascolta,
si lascia trasportare dentro le angosce notturne di Vincenzo, non
domanda mai, aspetta il momento per andarlo a prendere alla
porta della baracca, dove l’hanno immatricolato la sera del suo
92
arrivo - un numero e basta - come se fosse dall’altra parte della
strada, di fronte alla porta della caserma, da dove Vincenzo, nella
sua divisa nuova di sottotenente, le corre incontro in libera uscita.
È seduto sul letto e non sa perché. Maria così lo
intravede nella luce dell’alba che sta forzando l’oscurità. Vincenzo
non sa perché ma sta piangendo. Piangendo come può piangere
un bambino, piegato in due con le mani sulla testa come se
dovesse proteggersi da qualcuno e, nello stesso tempo, non
volesse disperdere attorno a sé lo strazio che sente dentro. Maria
dolcemente gli carezza la schiena pronunciando a bassa voce il
suo nome che lui fatica a sentire. Come se la voce che lo
pronuncia fosse irriconoscibile, troppo lontana. Anche durante la
prigionia ha sentito spesso questa voce e nel dormiveglia si
convinceva ch’era Maria a chiamarlo. Ha smesso di fare quel
sogno perché la delusione di trovarsi ogni volta da solo era
troppo forte. Poi lentamente si lascia cadere su un fianco per
accoccolarsi tra le braccia di Maria.
“Sull’asfalto c’erano ancora le sagome dei corpi bruciati.
Come se una colata di lava uscita da un vulcano piantato a
rovescio nel cielo si fosse abbattuta sulla città. Il fosforo, le
bombe al fosforo degli inglesi, per giorni hanno liquefatto intere
strade di Amburgo. Tanti sono morti di paura. Scendevano in
strada e respiravano fuoco. Poi tentavano di scappare e
rimanevano invischiati in un fiume di colla rovente che
cominciava a bruciare le scarpe e poi impediva qualsiasi
movimento. La morte per altri è stata più pietosa, li ha sepolti
sotto le macerie delle case che crollavano”.
Pensa a quel bombardamento come a un’apocalisse nella
quale per la prima volta ha visto gli effetti delle bombe al fosforo.
Quando arrivano gli aerei sta lavorando per strada a sgomberare
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macerie. E’ da poco arrivato ad Amburgo, di notte torna nel
lager, di giorno lavora in città.
A lui e ai suoi sette compagni vogliono impedire di entrare
nel rifugio. I civili non li vogliono dentro anche se i militari, loro
guardiani, insistono per farli entrare. Alla fine si rifugiano dentro
a dei grossi tubi di cemento in un piazzale vicino alla strada.
Pensa con raccapriccio alle fiamme che in un solo istante
avrebbero potuto bloccare le due uscite del tubo. Ricorda
l’orizzonte di Amburgo.
Finito l’allarme sulla città scende la notte e i riflessi
rossastri sul fumo nero sembrano quelli delle ristoppie che
bruciano.
“Sapessi cosa scrivevano le donne tedesche ai prigionieri…
mi portavano i biglietti da tradurre, ma alle volte c’erano oscenità
tali che non capivo nemmeno le parole”.
Vincenzo racconta a Maria delle storie d’amore nate tra i
prigionieri e le donne di Amburgo e sorride pensando, al buio,
alla fila davanti alla sua cella nella prigione dove, dopo l’attentato
a Hitler, lo avevano trasferito assieme ai suoi compagni. “Si stava
bene, molto meglio che nel lager”.
“Ho dovuto accettare che questo traffico fosse organizzato
da due paesani che si facevano pagare in sigarette: tante righe da
tradurre, tante sigarette. Qualche volta, senza che i due lo
sapessero - chissà la tariffa che avrebbero chiesto -, nei biglietti
aggiungevo qualcosa, per aiutare due persone a conoscersi e
capirsi meglio”.
Vincenzo è abbracciato a Maria. Quella notte, nel
dormiveglia che precede il secondo pezzo di notte, l’ha cercata.
In realtà cercava un altro corpo del quale non parla.
“In città, esclusi i vecchi e i militari non adatti al fronte che
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ci facevano la guardia, non c’erano uomini. Eravamo cinquanta,
sessantamila giovani da tutta Europa. Un soldato tedesco non più
abile per il fronte ogni duecentocinquanta prigionieri. Avremmo
potuto prendere la città in poche ore”.
Sorride tra sé ricordando le risse tra prigionieri e soldati
tedeschi ritornati in città a guerra finita. Come se avessero sentito
i loro letti ancora caldi. Ricorda il marito di Annette, visto da
lontano uscire di casa incupito per le troppe sconfitte subite.
Si sveglia per prima Maria, sente dei flebili lamenti e
accende la lampada che debolmente illumina il pezzo di notte
dedicato a rivivere i giorni del passato e a costruire il futuro. Poca
luce per non distinguere chiaramente i contorni di ciò che si
affaccia alla memoria ma anche per poter immergersi con più
voluttà nel loro presente quando i corpi hanno mille occhi.
Lo vede che si tocca le mani come se volesse curarsi delle
ferite che non ha più. Le muove, quasi per rendersi conto di
averle ancora, le apre, le chiude. Sono gli stessi movimenti che
faceva nelle settimane durante le quali, nel gelo di Amburgo, ha
trasportato a mano, assieme a tanti altri prigionieri, i mattoni che
servono per ricostruire o riparare gli edifici distrutti o danneggiati
dai bombardamenti. Dalle chiatte sul molo, dal molo ai depositi
alle spalle del molo, dai depositi ai carri e ai camion che li portano
a destinazione.
Maria prende tra le sue le mani di Vincenzo e le accarezza.
Lentamente lui smette di lamentarsi e torna alla realtà di quella
stanza, di quel letto diventato ormai per entrambi il luogo di un
faticoso percorso obbligato.
“In mezzo a tutte quelle difficoltà siamo riusciti a
organizzare perfino un boicottaggio. Appena non ci guardavano,
i mattoni li lasciavamo scivolare nell’acqua. Così facevamo meno
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fatica, ostruivamo poco alla volta i canali del porto e sprecavamo
del materiale per loro prezioso. Organizzati come sono ti davano
pure i guanti, ma dopo due, tre ore di lavoro le mani non le
muovi quasi più. I guanti si rompono e cominci a tagliarti le
mani”.
Sfrega leggermente le sue mani tra quelle di Maria. Le
accarezza prima le spalle, poi il seno…
“Una volta uno dei militari di guardia ci ha visto che
buttavamo i mattoni, ci ha guardati scuotendo la testa. Avrebbe
potuto falciarci con una raffica. Tornando al campo ci siamo
parlati, era un vecchio contadino in divisa, strappato alla sua terra
per fare quel servizio di sorveglianza dei prigionieri, troppo
vecchio per andare al fronte. Non vedeva l’ora di tornare alle sue
vacche e ai suoi maiali. Ha detto: “La guerra è terribile perché
rovina i contadini, la terra e gli animali”. Voleva che finisse: persa
o vinta per lui era lo stesso, bastava che finisse. Dopo un pezzo
di strada, lontano dai suoi commilitoni, quasi sottovoce, per farlo
sentire a me solo ha aggiunto: “Non farti più vedere mentre butti
i mattoni in acqua, la prossima volta sparo”.
Un brivido attraversa il corpo di Maria. Vincenzo riprende
ad accarezzarla. Per compiere il rito di quella notte. Poi ancora
allacciati si addormentano.
In poco tempo Vincenzo è diventato il capo del personale
di un’azienda con più di seimila dipendenti: i prigionieri italiani di
Amburgo sono i “suoi” operai. I tedeschi gli hanno affidato la
responsabilità di organizzare gli uomini: sgomberare le macerie
dopo i bombardamenti, disfarsi dei cadaveri, trasportare materiali
per riparare strade, edifici, linee elettriche e telefoniche, lavorare
nelle aziende agricole dei dintorni, macellare gli animali, fare il
pane, scavare la torba.
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Queste e altre cento attività che tutte assieme fanno
funzionare la città sono il lavoro della “sua” azienda. Bisogna
confrontarsi con le aziende di prigionieri delle altre nazioni alle
quali vanno disputati i servizi migliori, quelli che consentono di
procurarsi merce di scambio pregiata - cibo soprattutto - di
lavorare meno e, se possibile, al coperto.
Quando Vincenzo riesce a scalzare i francesi dal macello la
sua popolarità arriva alle stelle; così come quando riesce a infilare
prigionieri indeboliti dalle malattie nelle squadre destinate ai
lavori nelle fattorie nei dintorni di Amburgo.
Nelle notti in cui racconta a Maria i tanti episodi nei quali
ha messo alla prova le sue capacità di organizzatore e i risultati
che ha ottenuto, ricorda anche i tanti segni di apprezzamento sia
dei compagni di prigionia che dei tedeschi.
La consapevolezza del suo valore gli provoca un profondo
rammarico, che diventa nel tempo opposizione e rivalità nei
confronti del padre, padrone della grande azienda agricola di
famiglia, che non gli riconosce altro ruolo se non quello di un
subalterno al quale non vanno affidate grandi responsabilità.
Anche per le angosce di oggi, come per quelle della memoria, c’è
sempre pronta Maria, concentrata in questo lavoro notturno, per
preparare al meglio la realtà dei giorni a venire.
Vincenzo ha impiegato anni a raccontare a Maria quello
che poteva raccontare della prigionia. Sa di essersi tenuto dentro i
momenti più feroci, quelli troppo densi di violenza e terrore,
quelli che subito censura. Si accorge, con l’andare del tempo, di
riuscire a raccontare solo gli episodi più accettabili, come se la
violenza fosse un muro invalicabile, davanti al quale si è fermato
allora e si ferma ancora oggi. Racconta solo cose che possono
strappare perfino un sorriso: le torte che le donne di Amburgo,
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con sorrisi complici, facevano trovare ai prigionieri,
accuratamente incartate, nei bidoni della spazzatura,
riconoscendo in loro i figli, i mariti, i fratelli; il pane sottratto da
quelli che lavoravano nel forno. No, degli incontri con Frau
Annette non se la sente di raccontare niente a nessuno.
È faticoso ritornare tutte le notti da quelle lontananze
sempre più remote. Sarebbe ancora più faticoso se alla fine dei
suoi viaggi non trovasse, puntuale, Maria. Come se il loro fosse
un appuntamento preso da sempre e per sempre, fissato in un
angolo di una comune memoria, che appartiene solo a loro.
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28 aprile 1945
Se c’erano stati segnali che qualcosa di importante stava per
accadere, Armando non li aveva registrati. Non aveva notato che se
per caso lui o qualcuno dei suoi compagni, entrando in classe
dimenticavano di salutare con il braccio destro alzato teso in avanti
“sia lodato gesù cristo, sempre sia lodato”, suor Giuseppina non li
rimproverava. Né gli era parso strano veder circolare per casa adulti
sconosciuti, alcuni dei quali parlavano lingue incomprensibili, perché
questo era successo anche prima della perquisizione: ricordava un
polacco, un inglese, due fiumani, Marco e Zeno, che parlavano un
dialetto veneto dolce come una nenia.
Se gli avvenimenti non interferivano con i suoi giochi non li
prendeva in considerazione anche se, ogni tanto, i suoi movimenti in
casa venivano limitati e gli adulti si chiudevano in una stanza dove
gli impedivano di entrare finché non avevano finito.
Ma anche questa era diventata un’abitudine. L’unica vera
novità era la proibizione di entrare in una delle due camere della
soffitta, sulla porta era stato perfino montato un lucchetto. Il fatto
fu considerato da Armando una stranezza degli adulti, e non un
elemento che potesse fargli capire che qualcosa di importante stava
per accadere.
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La paura dopo la perquisizione si era lentamente attenuata e
tutto sembrava procedere come prima. Le privazioni che facevano
soffrire gli adulti erano per Armando la normalità, perché da quando
aveva il lume della ragione non aveva conosciuto altra vita che
questa. Le poche cose disponibili erano per lui, e lui si stupiva di
tutto: del cibo che qualche volta si materializzava in tavola come dal
nulla, non importa se assieme alla pasta si masticava un po’ di terra.
Di un paio di scarpe nuove, anche se dopo un po’ che le portava si
accorgeva da segni occultati con cura che erano state usate da
qualche altro bambino. Della cartella di juta colorata di verde scuro
che fino a poco tempo prima era la fodera di un vecchio materasso
di lana.
Armando apprezzava molto questo lavorio degli adulti e
spesso si perdeva a fantasticare attorno a trasformazioni impossibili.
Reali o fantastici che fossero i suoi progetti, aveva capito che
qualunque cosa poteva tornare utile e che un oggetto in più, anche
se al momento inservibile, era una piccola ricchezza in più.
Mentre gli adulti conservavano, scambiavano e sottoponevano
gli oggetti a inimmaginabili mutazioni - da fodere a cartelle, da
giornali a combustibile, da coperte a cappotti - Armando creava nei
nascondigli di casa, all’insaputa di tutti, piccoli tesori personali fatti
di cose minute e insignificanti, spesso raccolte per strada. Messi
insieme in angoli della casa noti solo a lui i frammenti ricreavano,
secondo logiche segrete e fantastiche, nessi e legami: era il suo modo
di ricomporre il mondo in frantumi che vedeva attorno a sé e di
partecipare al grande gioco degli adulti.
100
Fra tutte le cose che gli insegnavano a scuola invece, non
riusciva a trovare legami. Leggere, scrivere, disegnare, pregare, gli
sembravano tante isole, ma al contrario di ciò che accadeva a
Venezia non c’erano ponti per collegarle e solo con la fantasia
riusciva a tenerle insieme, anche se dentro di sé avvertiva solo una
gran confusione.
Quasi senza accorgersene, forse per limitare l’area delle cose
nuove da controllare, dopo i primi mesi di scuola, senza alcun
motivo apparente, aveva maturato una profonda avversione per
tutto ciò che aveva a che fare con le lettere dell’alfabeto e le parole,
con il combinare lettere per scrivere parole. Avrebbe voluto
mescolare le lettere liberamente, senza regole, e poi giocare leggendo
queste parole misteriose, che avrebbero descritto cose fantastiche
che solo lui avrebbe compreso.
Ma non si poteva. Aveva esteso la sua avversione ai quaderni
a righe inutilmente complicati: due righe vicine, una lontana, bordi a
destra e a sinistra. Sognava di utilizzare solo quaderni a quadretti e
numeri. Era convinto che si sarebbe potuto scrivere solo con i
numeri, ma che nessuno aveva voluto insegnarglielo. Gli piacevano
molto lo zero, l’uno, il tre e il sette. Per lo zero aveva una passione
segreta, ma nessuno gliene aveva parlato. A sentire gli adulti
sembrava che esistesse solo in compagnia di un altro numero e dopo
un altro numero, come se avesse minore importanza. Da solo
sembrava che non potesse esistere ma ad Armando piaceva proprio
per questo, perché era certo che stesse lì a segnalare qualcosa, anche
se ancora non capiva cosa. Di sicuro era molto meglio della “o”,
così tondo, perfetto, senza appendici o peduncoli.
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Perso in questa ostinata opposizione alle lettere aveva pensato
di creare un suo alfabeto associando a ogni lettera un numero: 1
uguale a, 2 uguale b, e così via. Aveva abbandonato l’idea perché
troppo facile da scoprire e anche poco pratica: come si faceva con la
z? Z uguale 21, non si sarebbe confusa la b e la a? Non riuscì a
immaginare nulla di più convincente e la curiosità per i giochi con i
numeri gli sarebbe sempre rimasta.
In realtà Armando non dava alcun peso alle parole e parlava
poco. Preferiva fare, manovrare le sue piccole mani già abbastanza
sapienti per costruire piccoli oggetti, inseguendo attraverso essi i fili
della sua fantasia.
Stava sognando di costruire una miriade di soldatini per
creare un grande esercito che occupasse tutto il pavimento della
cucina quando fu svegliato di soprassalto dallo squillo del
campanello. Nessuno era ancora alzato e dietro il vetro della porta,
dove arrivò per primo, intravide due sagome scure di sconosciuti.
Percepì subito la paura che aveva colto l’adulto che lo aveva
raggiunto in ingresso. I due da fuori però erano gentili, non
gridavano, non battevano i pugni sulla porta com’era successo il
giorno della perquisizione.
Fu aperto con la catena. Erano due marinai, come quelli di
Armando, le ghette bianche sugli scarponi neri, il berretto rigido in
mano per farsi aria e calmare il calore della corsa. Portavano una
mitragliera, un pezzo per uno, e chiedevano di poter andare in
terrazza per sparare verso l’Ala Napoleonica, dall’altra parte della
piazza.
102
Fu così che, per Armando, iniziò la liberazione di Venezia.
Un’inquietudine di cose non capite e un’eccitazione incontenibile
non lo lasciarono per tutto il giorno, finché la sera stremato si
addormentò. La notte passò in un lampo, sicché nella sua mente
quei giorni diventarono un unico lungo giorno che iniziò con
l’ingresso dei marinai in casa e finì con la corsa per vedere gli ultimi
tedeschi stanati dall’Ala Napoleonica passare prigionieri, a testa
bassa, tra la gente che voleva linciarli: chi urlava, chi sputava, chi
tentava di tirare calci o pugni.
I marinai si piazzarono con la loro mitragliera dietro il
muretto della terrazza e Armando ogni tanto sentiva partire una
raffica. In un momento di disattenzione degli adulti riuscì ad
affacciarsi alla finestra della stanza prima della terrazza e vide la
piazza vuota, due militari nascosti dietro le basi dei leoncini - lucidi
per lo strofinio dei bambini che in continuazione li cavalcavano -
distesi per terra con due mitragliatrici davanti. Altri erano appostati
lungo la protezione dei sacchi di sabbia della chiesa di San Marco.
Vedeva delle nuvolette e dopo sentiva il rumore degli spari che
provenivano dal fondo della piazza, dall’Ala Napoleonica, dov’erano
trincerati gli ultimi fascisti.
La finestra fu chiusa con violenza e Armando rimproverato.
Ma che pericolo poteva correre, se sparavano da tanto lontano?
Strappato dalla finestra del soggiorno corse a quella della
cucina, che affacciava su calle Larga San Marco, perché da sotto
arrivavano voci concitate e rumore di gente che correva. Ma anche lì
non si poteva stare.
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Quel che aveva visto succedere in quell’inizio di giornata era
troppo emozionate perché potesse mettersi a giocare in uno dei suoi
angoli preferiti. E poi tutti gli scuri di casa erano chiusi e non si
poteva certo accendere la luce elettrica. Si rifugiò in soffitta, lì non
c’erano scuri da chiudere e poteva controllare lo stato della sua
armeria, alla quale aveva aggiunto da poco delle carte militari che
venivano dall’Africa, utili per predisporre i piani delle future
battaglie. Com’era solito fare in questi frangenti si muoveva per casa
non visto e in assoluto silenzio.
Arrivato in soffitta trovò socchiusa la porta che nelle ultime
settimane era stata bloccata con il lucchetto. Dentro c’era qualcuno.
Dalla fessura vide due mani che aprivano scatole di munizioni.
Qualcun altro aveva fatto un’armeria nella sua soffitta, e che armeria!
Spinse con grande circospezione la porta e vide una mezza parete
della soffitta, quella in fondo sotto il lucernario, occupata da
scatoloni. Dentro c’erano bombe a mano uguali a quelle che aveva
visto attaccate al cinturone dei soldati tedeschi, rivoltelle di varia
forma e munizioni. Vide spuntare delle canne nere che immaginò
essere di fucili o di mitragliatrici. Quello spettacolo lo ammaliò a tal
punto che stava per dimenticare qualsiasi precauzione.
Di sotto squillò di nuovo il campanello della porta, Armando
sentì entrare altre persone che, dopo un breve parlottare, si diressero
in soffitta. Si nascose dietro le pareti di tavole di legno che
chiudevano il lucernario che dava luce all’ingresso. Entrarono due
uomini, presero le armi, poi sentì che aprivano l’abbaino dell’altra
stanza. Quante volte in piedi sui bauli c’aveva provato anche lui, per
seguire il gatto sui tetti; non c’era mai riuscito perché era tutto
104
arrugginito. Li sentì camminare sul tetto, li immaginò piegati i due,
con i piedi di traverso sulle tegole, attenti a non cadere ma anche a
controllare da che parte venivano gli spari. Partirono dei colpi
fortissimi, vicini, più forti di come li immaginava quando inscenava
la guerra con i suoi soldatini.
Erano due alpini mandati a sostenere la posizione dei marinai.
Oppure mandati dall’esercito che non sapeva quello che faceva la
Marina.
Qualcuno da sotto lo chiamava. Scese, e in ingresso c’era un
adulto con un impermeabile. Seduto sulla cassapanca stava
caricando la rivoltella, metteva altri colpi in tasca; poi si infilò due
bombe a mano di quelle ch’erano in soffitta alla cintura
dell’impermeabile, mise i guanti di pelle e uscì seguito dalle
raccomandazioni degli adulti di casa. Andava in piazza. Armando
corse nella stanza vicina alla terrazza e questa volta gli fu consentito
di sbirciare da una fessura dello scuro. Poco dopo lo vide:
attraversava, attento a non scoprirsi, la piazzetta dei Leoncini con la
rivoltella in mano. Raggiunse a ridosso della protezione della chiesa
altri tre che lo aspettavano; assieme girarono l’angolo della chiesa e
scomparvero. Subito dopo ripresero gli spari. Colpi lontani e colpi
vicini.
Era passata poco più di un’ora dal brusco risveglio di quella
mattina e il via vai in casa aumentava. Era arrivato un ufficiale di
Marina per vedere com’erano sistemati i due marinai e poi un altro,
sempre un marinaio, aveva lasciato un cartone dov’erano messi alla
rinfusa proiettili e scatolette di roba da mangiare. Poi ancora un
ufficiale degli alpini per vedere se andava bene la postazione di quelli
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sul tetto, uno dei due se n’era andato per tornare poco dopo con
pane e scatolette e anche un po’ di zucchero. “Per il caffè”, aveva
detto ad Armando che aveva preso in consegna il pacchetto. Poi
altri senza divisa, con una fascia tricolore sul braccio sinistro.
Entravano, andavano da uno degli adulti di casa, parlottavano,
tiravano fuori delle carte, salivano in soffitta, ritornavano giù con
delle bombe a mano alla cintura e qualche arma in mano. Chi una
pistola, chi un fucile, chi un mitra.
I colpi che si sentivano erano intermittenti. Una vera battaglia
Armando se l’era immaginata ben più rumorosa: o non era una
battaglia o avevano pochi colpi da sparare.
Quel giorno in casa non ci fu tempo per cucinare e furono
divise tra i presenti le scatolette portate dai militari. Armando non
aveva mai aveva immaginato che potesse esistere del cibo chiuso
dentro a scatole di latta. All’ora del pranzo la situazione era
tranquilla e gli fu permesso di mangiare in terrazza tra i due marinai.
La roba nelle scatolette non aveva odore né sapore – carne? pesce?
formaggio? – ma lui non ci fece caso. I marinai gli avevano messo
in testa uno dei loro berretti che sapeva di rancido e di sudore.
L’odore gli si impresse nella mente, insieme a quello del lubrificante
un po’ bruciato della mitragliera installata in terrazza.
Nel primo pomeriggio cominciarono ad andarsene: per primi
gli alpini, trascinandosi alcune cassette di munizioni che erano state
portate in soffitta e da lì sul tetto. Poi toccò ai marinai e alla
mitragliatrice. In casa, assieme ad Armando, c’erano solo donne
quando, a pomeriggio inoltrato, da piazza San Marco salirono grida
e applausi.
106
Li vide dalla terrazza, circondati da gruppi di persone armate,
chi in divisa, chi in borghese con dei bracciali tricolori. La gente
accorreva per vederli passare e qualcuno tentava di colpirli con i
pugni, chi con dei calci, chi sputava, chi tirava qualsiasi cosa avesse
in mano. Erano in fila, tutti vestiti di nero, tutti un po’ malconci e
tentavano di evitare i colpi. Gli armati in qualche modo li
proteggevano. Passarono sotto la terrazza e sparirono dietro l’angolo
del Patriarcato. “Copei! Copei ‘sti schifosi… in preson… carogne… a
morte!, a morte!”.
Stremato dalla giornata Armando prese sonno con la testa sul
piatto ancora prima di cominciare a cenare. La mattina dopo si
svegliò per primo spinto dalla fame e il suo maldestro armeggiare in
cucina per tentare di procurarsi del cibo produsse l’immediato
risveglio di un adulto. Circa mezz’ora dopo, dovevano essere le sette
del mattino, il passo ritmato di scarponi frantumò il silenzio di
quell’ora.
Spostò rapidamente una sedia davanti alla finestra della
cucina, si sporse e vide avanzare in fila per quattro - occupavano
tutta la larghezza della calle - giovani uomini con una divisa mai
vista. Il colore era una specie di giallo che dava sul grigio e sul
marroncino, ma non tutti l’avevano dello stesso colore, come non
tutti avevano i calzoni lunghi, chi era in maniche di camicia e chi era
in maglione, chi aveva una giubba, chi aveva il berretto, chi il basco
e chi niente, ma erano tutti armati di mitra.
Come Armando anche altri si affacciarono alle finestre ma dai
soldati che passavano sotto - in casa gli adulti li chiamavano
partigiani - si levarono grida “Sera! Chiudi, chiudi!… Via dai
107
balconi!” e qualche raffica di mitra. I ricordi del giorno prima
riaffiorarono tutti insieme facendolo ripiombare in uno stato di
grande eccitazione: cosa stava succedendo ancora? Fu brutalmente
strappato dalla finestra e le imposte furono sbarrate “I xe mati… i se
mete a sparar in cale” disse qualcuno in casa come se questi soldati non
dovessero sparare come tutti gli altri. Avevano paura dei cecchini, gli
spiegò uno di questi giovani uomini che qualche ora dopo salì a casa.
Chissà cosa voleva dire Liguria con quella parola: cecchini.
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la storia di Liguria
“Voi cinque che avete ricevuto la cartolina vi presentate in
caserma della decima, tuto a posto? dal maresciallo Vianello che è
dei nostri, appena finite il corso di addestramento, tuto a posto? lui
vi dirà quello che dovete fare, tuto a posto?”.
Manine non è mai stato di molte parole e quel suo
intercalare invece di infastidirli o farli sorridere, li rassicura. Ha
due mani immense, dure come possono averle solo quelli che
lavorano al porto a scaricare le navi. E’ lui che organizza il
traffico: i compagni si arruolano, fanno qualche mese di
addestramento, poi scappano con le armi.
Sono in sette tre mesi dopo, in una sera di pioggia battente,
quando l’acqua della laguna diventa tutt’uno con l’acqua del cielo.
Attraversano la laguna in barca, poi da Mestre dentro a un
furgone usato di solito per il trasporto della verdura. Si respira
odore di foglie marcite. Ognuno ha con sé l’armamento
personale leggero in dotazione alla decima MAS, gli scarponi neri
e lo zaino con la roba di lana e qualcosa da mangiare. Nel
furgone ci sono due fiaschi di vino, pane e salame. Armi e bagagli
sono in un doppio fondo. I documenti di tutti sono nella cabina
di guida dove si è installato il maresciallo Vianello: sono un
gruppo di giovani camicie nere che vanno a Trieste in libera
uscita per festeggiare l’occupazione dell’Istria.
Liguria ha deciso di chiamarsi così perché ha saputo che
109
suo fratello più piccolo è sulle montagne della Liguria, anche lui
partigiano, nella 3.a divisione Garibaldi Osoppo Friuli. Il nome è
frutto di un equivoco perché Fred è sull’Appennino ligure, ma sul
versante emiliano. Lui non lo sa e facendosi chiamare Liguria ha
la sensazione di proteggere il fratello.
Il primo maggio del 1945 è già a casa. Con Fausto e
Amelia, la morosa di Fausto, entra nell’osteria di un compagno,
poco distante dal punto nel quale erano saliti nel furgone in
quella notte del febbraio 1943. Girano armati, in divisa caki, il
fazzoletto rosso al collo. Hanno fatto il picchetto d’onore sotto al
palco di piazza Ferretto a Mestre, alla manifestazione del partito.
L’osteria è piena di gente. Bisogna mangiare fuori, nel retro, dove
sono stati sistemati sotto la pergola una decina di tavoli ancora
liberi. Hanno appena ordinato, felici stanno brindando a un sacco
di cose tutte assieme: al primo maggio ch’è il primo che
festeggiano assieme, alle donne che gli sono mancate per tanto
tempo e che qualcuno non conosce ancora, alla vita che sono
riusciti a portare a casa, al partito che li aiuterà e alla repubblica
socialista che verrà. All’Amelia che si vuole sposare, alla morosa
che Liguria non ha ancora ma che presto troverà.
Richiamata dall’evaporazione della laguna una brezza di
primavera fresca, senza odori, nuova, scompiglia i capelli e alza i
bordi della tovaglia rossa. Gli sembra di mangiare su una delle
loro bandiere.
Dalla porta del retro dell’osteria escono due carabinieri,
reduci anche loro dalla manifestazione, uno dei due, l’appuntato,
più anziano dell’altro. Prendono posto all’estremo opposto della
pergola e prima di sedersi appoggiano su una sedia la bandoliera e
le rivoltelle. Si tolgono il berretto, lo asciugano per dentro e si
asciugano il sudore in testa e sul collo. Si comincia a mangiare.
110
L’appuntato seduto di fronte a Fausto prima lo sbircia di sotto in
su con occhiate rapide, poi lo guarda con sempre maggiore
insistenza, parlotta con il collega e comincia ad agitarsi sulla sedia.
Fausto ha già capito, sa ciò che l’altro sta mettendo a fuoco. Sa
che dalla polizia di Gorizia, pochi giorni prima, è arrivato un
ordine di cattura con la sua foto segnaletica, glielo ha detto un
compagno che lavora in prefettura. E’ ricercato per aver
ammazzato un sarto, otto mesi prima, durante un’azione vicino al
confine jugoslavo: lo accusano di omicidio volontario, niente a
che vedere con la guerra partigiana.
Ora l’appuntato lo fissa senza però decidere la mossa da
fare. Fausto estrae la rivoltella e con due colpi lo fredda.
Prima che il carabiniere più giovane abbia il tempo di
riprendersi dal terrore di vedere la testa del collega abbattersi sul
piatto in un lago di sangue e di sugo, Liguria e Fausto sono già in
piedi. Amelia bianca in volto è paralizzata, Fausto imbambolato
con la rivoltella ancora fumante in mano. E’ Liguria che lo
strattona, uno sguardo angosciato all’Amelia e vanno.
Attraversano il frutteto con cui confina la pergola, saltano la rete
e scompaiono correndo piegati lungo il fosso, protetti dalle
canne. Incrociano una strada, a passo normale raggiungono una
parallela dove sanno di poter trovare un autobus diretto a
Venezia. Dopo pochi minuti, come in quel tempo poteva
succedere, fanno fermare l’autobus esibendo il tesserino di
partigiani. Salgono accolti dalle grida di gioia dei tanti giovani che
tornano dalla manifestazione cantando le loro canzoni.
Hanno entrambi la sensazione di respirare per la prima
volta dopo i colpi di rivoltella. Nei tre anni precedenti hanno
imparato a dominare il misto di paura, angoscia e sollievo di
essere ancora vivi. Liguria ha ventun anni, Fausto ventidue appena
111
compiuti. E’ un carpentiere, ancora da rifinire, cresciuto nello
squero dello zio a Castello, due anni per cominciare a fare sul serio
e poi si sarebbe sposato con l’Amelia. Non parlano mentre, per
abitudine, da piazzale Roma si avviano verso campo Santa
Margherita. Una strada che hanno fatto molte volte già prima
della guerra, quando tornavano con le biciclette da corsa alla
mano, dopo un allenamento o una gara. Ognuno sta passando in
rassegna le decisioni da prendere, come si sono abituati a fare in
quegli anni di difficoltà affrontate assieme. Il più rapido come
sempre è Liguria. Si ricorda della Carmen che abita nella calle a
fianco della questura e decide che quello è il posto dove Fausto
per ora si deve nascondere.
I giorni successivi servono a Liguria per ristabilire una serie
di contatti fuori Venezia e, nello stesso tempo, attraverso canali
che di lì a poco si sarebbero chiusi, a registrare il progressivo
allentamento dell’attenzione della polizia e dei carabinieri sulla
vicenda di Fausto.
Carmen ha una bella voce e quando le va a genio sa cantare
le arie delle opere. Ma da sola. Non le piacciono i duetti e non ha
bisogno della musica. Anche lei è iscritta al partito e lavora in un
albergo importante dove ogni tanto riesce a pescare qualche
informazione utile. Si fida di Liguria. Sa che non la metterà nei
guai.
Dopo una decina di giorni le acque si sono un calmate.
Anche dall’interno della prefettura arrivano le stesse
informazioni. Sono convinti che Fausto sia riuscito ad andarsene
da Venezia, anche perché hanno ricostruito i suoi movimenti fino
al rientro in città e pensano che con una barca sia riuscito a
raggiungere la terra ferma. Anche Liguria non si fa vedere in giro:
per controllare Fausto si è installato anche lui dalla Carmen che ha
112
il compito di tenere lontana da casa Amelia che sicuramente è
stata messa sotto controllo.
In prefettura sanno che la rete di assistenza tra partigiani
delle stesse formazioni è ancora molto forte e che non ci vuole
molto a trovarne uno disposto ad attraversare la laguna in
qualsiasi direzione. Così la tesi della fuga in barca prende piede.
Invece Liguria e Fausto lasciano Venezia venti giorni dopo nella
macchina di un compagno che lavora in un autonoleggio. I due si
vestono eleganti, prendono posto dietro, Fausto ha un documento
falso e per loro fortuna arrivano senza incidenti, viaggiando di
domenica, fino ai confini con la Jugoslavia, dove hanno
combattuto.
Conoscono i luoghi, conoscono compagni dei quali
possono fidarsi di qua e di là del confine; quelli per intendersi che
sono stati d’accordo con Togliatti a far arrivare il comunismo fin
là, pronti a farlo entrare in Italia. Giunti vicino a un bosco
lasciano la macchina, l’autista e i vestiti prestati, si cambiano e si
avviano a piedi. Sanno la strada che devono percorrere, in quali
case entrare e quali evitare, abbandonando per alcuni tratti il
sentiero. Sanno dove possono dormire e dove trovare da
mangiare e, se serve, anche delle armi. Prima di passare il confine
riescono, attraverso i loro canali, a preparare il terreno anche
dall’altra parte. Un forte abbraccio silenzioso, una pacca sulla
spalla, a tutti e due viene la pelle d’oca perché sono commossi e
non sanno cosa dire. Non sanno nemmeno cosa gli riserva il
futuro. Manca poco all’alba quando Liguria vede Fausto passare il
valico per il sentiero che più di una volta li ha salvati dai
rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti e che altre volte hanno
percorso in senso inverso per attaccare tedeschi, fascisti e anche
partigiani di formazioni non comuniste.
113
Liguria rientra a Venezia facendo un lungo giro. Arriva fino
a Padova e da lì a Milano, per organizzarsi una copertura per i
giorni in cui è sparito da Venezia. Da Milano rientra a Venezia in
treno. Sa già che l’hanno identificato come la persona che era
insieme a Fausto nella trattoria. Hanno già fermato l’Amelia,
interrogata e rilasciata. Quando si presentano a casa, dove quasi
nulla ha lasciato capire alla madre e alle zie, per portarlo in
questura e interrogarlo, è pronto. Non si fa sorprendere dalle
informazioni che hanno messo assieme. Non nega l’evidenza, ma
riesce a dimostrare che la sera stessa del rientro a Venezia con
Fausto, per un precedente impegno di partito, è andato a Milano
dove si è trattenuto. Tre giorni di camera di sicurezza con ripetuti
interrogatori, uno di notte pesante e minaccioso, consentono di
verificare la sua versione dei fatti. Sia pure con molta riluttanza lo
rilasciano.
Liguria sa di non poter prendere contatto direttamente con
l’Amelia e per questo è rimasto d’accordo con Fausto di utilizzare
un altro compagno, Ventura, che la conosce e che lui vede quasi
tutti giorni in federazione dove lavora da quando è tornato. Al
partito l’hanno scelto per organizzare il servizio di assistenza sia
per i compagni che rientrano dalle formazioni dove hanno
combattuto, sia per i parenti che cercano notizie. Nello stesso
tempo anche con l’aiuto del partito cerca lavoro perché, l’ha
detto chiaramente al segretario della federazione, non ha alcuna
intenzione di fare il funzionario.
Nei suoi anni da partigiano Liguria ha vissuto esperienze
terribili. Il territorio dove ha combattuto con la sua brigata ha
visto di tutto, le cose più efferate della guerra partigiana sono
successe lì. Alla guerra tra italiani fascisti e partigiani, tra
partigiani e partigiani si è sovrapposta quella tra slavi delle varie
114
nazionalità e delle varie fedi politiche e religiose; si sono
sovrapposte faide di partito, di paese, di gruppi etnici, tra
partigiani italiani e partigiani slavi. Vendette incrociate, razzie e
omicidi inutili, punizioni esemplari inferte dall’una e dall’altra
parte, crudeltà gratuite che non sarebbero mai state cancellate.
Liguria di queste cose ne ha parlato con sua madre per giorni,
appena tornato a casa, piangendo: di quelli che ha ammazzato, di
quelli che ha dovuto lasciar morire, compagni o nemici che
fossero; dei compagni che gli sono morti tra le braccia, dei civili
che venivano brutalmente puniti per aver tradito ogni volta che
cambiava l’occupante della loro terra, delle donne violentate,
rapate, uccise, dei compagni inchiodati agli alberi, di altri
partigiani fatti sparire perché non erano comunisti oppure non
erano d’accordo con la linea del partito.
Tenta di liberarsi di questa massa scura che lo opprime, ma
è come preso in una sorta di ragnatela di violenze fatte e subite.
Nei giorni in cui racconta alla madre, per essere capito e
accettato, la sua parte della tragedia collettiva di cui è stato
partecipe, lentamente si rende conto di aver sperimentato dentro
al partito in guerra due anime: quella che guarda alla democrazia e
quella che usa l’autorità.
L’una potrebbe aiutarlo a colmare i solchi di disperazione
che in quegli anni hanno segnato lui e i suoi compagni, a dipanare
la confusione dei perché che gli si sono accumulati dentro e
indurre, in lui e in una generazione intera, un processo di
trasformazione delle capacità di analisi e di confronto con il
mondo esterno al partito. L’altra è una struttura rigida,
piramidale, nella quale i margini per un’evoluzione che non sia
decisa e legittimata dal partito sono molto ristretti, la libertà di
percorrere una strada personale fortemente combattuta.
115
Si rende conto che il suo incarico deve rispondere anche a
questa seconda anima del partito: sempre più pressanti si fanno le
richieste di controllare con quali idee ritornano i compagni, cosa
si aspettano dal partito, cosa ne pensano le famiglie. Insomma,
prima ancora dell’aiuto che il partito potrebbe dare è importante
verificare l’atteggiamento dei compagni e più di una volta Liguria
è costretto a non rispondere, a essere vago perché questo è
l’ordine che ha ricevuto dopo che qualcuno in federazione ha
letto i suoi rapporti. Altre volte è reticente nei rapporti quando si
rende conto che il suo interlocutore ha problemi simili ai suoi.
Liguria continua a interrogarsi, e interrogando se stesso
interroga anche i suoi compagni con pignoleria. Insieme a loro
riesce a ricostruire situazioni in cui si è trovato e che sul
momento non controllava; riesce a capire il motivo profondo di
un ordine sul quale non era d’accordo, riesce a inquadrare l’intera
scena dall’esterno, mentre dall’interno non ne aveva percepito
che alcuni particolari.
A poco a poco sistema la sua storia di quegli anni, ricollega
un giorno all’altro, soffre come allora, ma non si risparmia nulla.
Con precisione quasi maniacale, costruisce dentro di sé un
archivio solo suo fatto dei giorni, degli uomini, delle donne, dei
fatti, dei torti e delle ragioni di ognuno, di tutte le occasioni in cui
poteva essere coltivata la democrazia e invece si è preferito agire
con autorità. Il giorno in cui sente di aver sistemato tutto, di non
aver perso nulla per strada, di poter rispondere con serenità di
tutte le sue azioni, non ne parla più con nessuno. Anche la sua
storia non la racconta lui, ma chi lo conosce.
Verso la fine di settembre, quando lo avvisano di
presentarsi in una ditta di spedizioni per cominciare un nuovo
lavoro, è contento. Pensa che sarà più facile chiudere con gli anni
116
della guerra, potrà cominciare a organizzarsi una vita diversa,
soltanto sua, potrà mettere su casa da solo.
Nello stesso tempo sente crescergli dentro un
atteggiamento ambivalente nei confronti del partito: sa di dover
molto ai compagni con cui ha combattuto e a quelli che l’hanno
aiutato a guerra finita. Sente che molti strumenti di comprensione
che possiede gli vengono da loro, sa anche che il clima di
sospetto che sembra coagularsi attorno ai compagni che
esprimono dei punti di vista non del tutto in linea, non può
portare molto lontano e rischia di chiudere il partito a qualsiasi
novità. Liguria si orienta a fatica tra queste due sponde, spesso la
reticenza alla quale si sente costretto si scontra con l’esigenza di
una verità assoluta, simile a quella che lo ha spinto a nemmeno
vent’anni a combattere con il partito per il comunismo.
Da quando comincia a lavorare il distacco dal partito
diventa sempre più profondo. Dal partito questo atteggiamento
viene vissuto paradossalmente come se Liguria fosse maturato,
fosse diventato più “politico”. Per questi motivi lo cercano, gli
offrono incarichi e lui, sia pure gratificato, rifiuta. Gli sembra di
capire il prezzo che dovrebbe pagare, sa per certo di non voler
dipendere economicamente dal partito e di voler d’ora in avanti
costruire il futuro con le sue mani.
Lavora da poche settimane quando gli arriva la notizia che
l’Amelia è andata ai confini con quel pezzo di Jugoslavia che oggi
si chiama Slovenia dove ha incontrato Fausto che lo manda a
salutare. Liguria si incazza. Cerca di far capire all’Amelia che il
rischio per loro tre e per il partito è altissimo e che deve
rassegnarsi a non rivedere Fausto ancora per alcuni mesi. Amelia
capisce, ma è già rimasta d’accordo con Fausto di rivederlo tra
Natale e Capodanno. E infatti lo rivede nel casolare di un
117
compagno, in territorio italiano, a una decina di chilometri dal
confine. In quei giorni si sposano, per conto loro, facendo tutti i
programmi per il futuro: il posto allo squero, la casa della madre di
Fausto da sistemare per andarci a vivere, la barca a motore per
fare trasporti in laguna - come un camion sull’acqua - da costruire
un poco alla volta, con i risparmi di tutti e due.
Fausto fa progetti e Amelia lo ascolta, e si fa anche lei
trasportare nel sogno delle tante cose che vorrebbe fare con lui, e
gli racconta dell’amnistia di cui le hanno parlato i compagni, che
potrebbe risolvere tutti i loro problemi.
Li arrestano che Amelia è incinta di tre mesi e mancano
pochi giorni al primo anniversario della Liberazione. Sono le
cinque di una fredda e tersa mattina di inizio primavera,
camminano abbracciati per l’ultimo pezzo di strada da fare
assieme prima di separarsi.
Appena Fausto si rende conto di non avere via di scampo si
immobilizza, alza le mani e spera con tutta l’anima che il suo
caso, quello di Amelia e del loro bambino non venga risolto
ricostruendo a posteriori uno scontro armato. Mentre quattro
giovani carabinieri e un appuntato avanzano con cautela nella
loro direzione pensa con sollievo al fatto di non essere armato
perché avrebbe fatto fatica a non reagire sparando. Amelia ripete
i gesti di Fausto e viene presa dallo stesso smarrimento di un anno
prima.
I carabinieri provano a farsi raccontare subito tutta la
vicenda della sua fuga dall’Italia. Ma Fausto non parla, anche
perché spera che rilascino Amelia. Parlerà quando sarà sicuro che
i compagni siano al sicuro. Nemmeno Amelia ha parlato: ha
subito detto di essere incinta e questo suo stato , dopo tutte le
morti della guerra, l’ha protetta. Dopo due giorni passati nella
118
caserma dei carabinieri di Gxxxx viene accompagnata a Venezia.
Il capitano che li ha arrestati è già molto soddisfatto di aver
incastrato Fausto e prima di rivolgere le sue attenzioni alla sue
coperture a Venezia è più interessato a mettere le mani sulla rete
di complicità che li ha fino a quel momento protetti localmente.
Al confine con la Jugoslavia si stava ormai chiudendo la cortina
di ferro e non ci potevano essere varchi tra i due mondi.
Con l’arresto di Fausto si chiude un cerchio attorno alla vita
di tre persone. Sogni, aspirazioni, speranze, il comunismo, il
lavoro per tutti, vengono spazzati via. Ognuno di loro è chiamato
ad assumersi grandi responsabilità. Fausto deve resistere più a
lungo possibile prima di confermare quello che i carabinieri
sanno quasi per intero. Amelia deve a tutti costi proteggere se
stessa e il bambino che le sta crescendo dentro anche per dare un
motivo in più a Fausto per lottare. Liguria dopo aver parlato con
gli avvocati del partito sa che l’accusa di favoreggiamento lo può
portare dritto in galera per anni. Passa un pomeriggio chiuso in
una stanza con gli anziani della famiglia di Armando e nel giro di
due giorni si imbarca per il Brasile. Partenza da Genova. Viaggio
di sola andata.
Amelia è sola e capisce che il rischio per Fausto è alto,
anche l’eventuale amnistia di cui si parla non lo può salvare,
faranno di tutto per non fargli avere nessuno sconto, nessuna
attenuante. E’ orgogliosa, non vuole mostrare le sue ansie e le sua
paure a nessuno, si fa vedere sicura e tranquilla.
Ma non fa i conti con il suo dentro. Comincia a stare male:
vomito, febbre, giramenti di testa, non riesce più a mangiare. La
ricoverano in ospedale: aborto spontaneo, raschiamento e poi
un’infezione. Poche settimane dopo anche Fausto parte per il suo
viaggio di sola andata: l’ergastolo.
119
Amelia non è iscritta al partito: è una delle tante persone,
uno dei tanti giovani che ha vissuto nella tempesta di quegli anni
tentando di realizzare un sogno di normalità, lasciando che Fausto
coltivasse ideali anche per lei. Perso il figlio è come se si
accorgesse di aver perso la sua guerra personale. Ha difeso con
tutte le forze la sua normalità ma dentro di lei qualcosa più forte
della volontà ha spezzato il filo che la teneva legata al suo sogno.
Il figlio nella pancia era il “pieno” che aveva colmato il vuoto
della lontananza di Fausto e che lo avrebbe colmato ancora di più
in futuro; un pieno che avrebbe aiutato anche Fausto a sopportare
meglio la condanna.
L’accanimento di eventi che Amelia vive sul suo corpo le
danno la stessa sensazione di cosa strappata da dentro che hanno
tanti compagni quando si rendono conto che il futuro che
sognavano, e per il quale hanno combattuto, non arriverà mai.
Sono tanti quelli che, come lei, vivono lo svuotamento di quanto
hanno costruito con grande fatica e sacrifici nei pochi anni in cui
sono diventati all’improvviso adulti. I compromessi dei vertici,
forse necessari, molti li vivono come lei ha vissuto la sua
infezione. Come qualcosa che ti attacca e ti costringe a spostare il
centro dell’attenzione su di te, ti costringe a lasciar perdere i
compagni, il partito; ti costringe a lasciar perdere i tuoi sogni di
donna normale e a coltivare, giorno per giorno per lunghi anni, la
memoria di una stagione che non può più ritornare.
Da allora Liguria non è più tornato in Italia. Dopo pochi
mesi dalla sua partenza ha smesso di scrivere anche alla madre.
Qualcuno che lo conosce e torna in Italia, se si trova a passare
per Venezia, porta sue notizie anche se non è lui a mandarle.
Vive alla periferia di San Paolo, amministrando i risultati dei
cento lavori fatti in Brasile. Sul pianerottolo della sua casa vive
120
una mulatta con i due figli più piccoli, avuti da padri diversi come
gli altri due più grandi, che Liguria ha aiutato a studiare e a trovare
lavoro. Questa è la sua famiglia.
Torna in Italia, a Venezia, una volta sola, nel 1976.
L’ergastolo di Fausto è stato trasformato in una condanna a
trent’anni grazie alla buona condotta e all’incessante dedizione di
Amelia che ha lavorato per anni per ottenere questo risultato.
Il fratello di Liguria, a loro insaputa, li fa incontrare tutti e
tre il giorno in cui Fausto, uscito di galera, arriva a Venezia.
Quando si incontrano cominciano a guardarsi: ognuno di
loro cerca sul volto dell’altro qualche segno fissato nella memoria
trent’anni prima e lentamente le fisionomie di allora si
sovrappongono a quelle di quel momento. Liguria, Fausto e
Amelia si stringono in un unico abbraccio. Senza parole, tutti e
tre. Si tengono stretti a lungo. Il velo delle lacrime confonde il
ricordo che ognuno aveva dell’altro e li riporta là, in quell’istante,
trent’anni dopo.
Non hanno nulla da rimproverarsi. Vanno al ristorante
quasi dovessero riprendere il pranzo bruscamente interrotto in
quel lontano primo maggio. Parleranno di un futuro ormai non
più lunghissimo; del tempo ancora utilizzabile per sciogliere
l’invisibile nodo che ha legato le loro vite.
121
25 aprile 1946
La mattina presto Armando aveva assistito con grande
eccitazione all’alzabandiera sui grandi pennoni di piazza San
Marco. Era arrivata la fanfara della Regia Marina seguita da un
drappello di marinai in armi. Tre giovani marò, con le ghette
bianche come il suo soldatino, erano andati davanti all’unico
pennone che riusciva a vedere dalla terrazza, avevano aperto la
grande cassa verde di legno e avevano armeggiato con delle cime.
Poi si erano fermati sull’attenti.
Il silenzio venne rotto dal suono possente e armonioso
delle campane di San Marco. Non si era ancora spenta quella
coda di vibrazioni che occupava tutta l’aria quando le campane
smettono di suonare che una tromba solitaria suonò le note
dell’alzabandiera. Subito dopo la fanfara attaccò una marcetta e i
giovani marò cominciarono, tenendo in ordine le cime che si
svolgevano, a sollevare dalla cassa un’enorme bandiera tricolore
con lo stemma sabaudo. Armando non ricordava di aver mai
visto una bandiera di quelle dimensioni. Sapeva, per aver assistito
all’alza bandiera dalla piazza San Marco, che le bandiere erano
tre: quella centrale rosso granata con il grande leone di San Marco
e le lunghe frange giallo oro mentre le due laterali – dalla terrazza
ne vedeva una sola – erano due tricolori uguali che negli ultimi
tempi avevano cambiato lo stemma in centro.
Era una bella giornata ancora fresca. Il sole arrivava da
122
sopra le guglie della chiesa di San Marco e la pietra d’Istria,
assorbito il primo calore, rifletteva una luce bianco azzurrognola
che si impastava con il colore del cielo.
Appena aveva sentito la fanfara era balzato su dal divano in
salotto dove dormiva, aveva assistito all’alzabandiera ancora in
pigiama, poi era stato obbligato ai soliti riti quotidiani finché,
lavato e vestito, cominciò a dedicarsi a uno dei suoi giochi
preferiti: le formiche in terrazza. Così poteva tenere d’occhio
anche quello che succedeva in strada.
Si trattava di aiutare o, a seconda dei casi, ostacolare
l’attività frenetica delle formiche che avevano le loro tane nella
terra che da sotto le grandi pietre grigie che pavimentavano la
strada saliva fin dentro il muro del parapetto della terrazza.
Aiutare significava spezzettare delle briciole di pane o un poco di
zucchero sottratto in cucina, in modo che le formiche deviassero
dai loro abituali percorsi lungo le linee tra pavimento e muro, tra
muro e muro. Per ostacolare invece bisognava individuare le
esploratrici, seguirle mentre ritornando alla base parlottavano con
le loro colleghe, cogliere il momento in cui il trasporto di quella
ricchezza veniva organizzato, piazzare degli ostacoli fatti con
rametti di vite americana, organizzare dei tunnel con le prime
foglie, controllare le briciole più grandi che a un certo momento
cominciavano a spostarsi trainate e spinte da due, tre, quattro
formiche. Armando in quei momenti si sentiva una formica,
come una formica sentiva di avere antenne attraverso le quali
parlava, sentiva il frastuono di tutte quelle parole, cominciava a
muovere le mandibole come una formica e affrettava i
movimenti delle mani, delle braccia e delle gambe per tenersi al
passo con quel frenetico andare.
Passò sotto la terrazza un gruppo di persone che cantavano
123
e portavano bandiere rosse. Si dirigevano con allegria verso la
piazza. Issato sul parapetto vide che in piazza stavano recintando
un percorso con delle transenne, impedendo alla gente di
entrarci, e capì che quel giorno poteva essere diverso dagli altri.
In quel momento sentì suonare il campanello di casa. Lo vennero
a chiamare. Doveva vestirsi per uscire.
Appena scese le scale gli misero un fazzoletto attorno al
collo, rosso come le bandiere che poco prima aveva visto passare.
Avevano fretta, uno lo sollevò e se lo mise a cavalcioni sul collo.
Chi lo portava aveva una divisa kaki, il fazzoletto rosso annodato
dietro al collo - immediatamente Armando girò anche il suo - i
calzoni corti, un cinturone ai fianchi con la rivoltella e gli
scarponi da montagna. La divisa era un po’ sporca, come se non
fosse stata lavato dopo l’ultima volta ch’era stata usata, oppure
come se lo sporco non avesse più voluto venire via. Solo il
cinturone e la rivoltella luccicavano, e Armando guardava da
sopra, confrontando la rivoltella con quelle che vedeva pendere
dai cinturoni degli altri che camminavano con lui.
Arrivarono in un posto che Armando non aveva mai visto,
una delle strade più larghe di Venezia, via Garibaldi, un canale
interrato, una delle poche strade di Venezia che si chiamava via e
non calle o calletta. C’era moltissima gente. Divise e armi
personali di tutti i tipi, bandiere, tante non erano neanche nuove
ma avevano strappi, buchi bruciacchiati o bordi consumati.
Militari con le divise tutte uguali erano già inquadrati, tutti in fila,
tutti fermi come i balilla che aveva visto quando era piccolo, gli
ufficiali con la sciabola in mano e la sciarpa azzurra di traverso.
Armando pensò alla sua armeria: se gli avessero dato un po’ di
tempo e gli avessero spiegato dove lo portavano avrebbe potuto
prepararsi anche lui. Alcuni degli adulti che lo avevano portato
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fin là li conosceva per nome. Ma quando si incontravano con altri
si salutavano e si chiamavano con nomi che lui non conosceva.
Molti anni dopo, più di quarant’anni dopo, con due di quegli
adulti avrebbe fatto il giro dei bacari andando per ombre, e loro, tra
loro, si chiamavano ancora con quei nomi, i loro nomi di
battaglia.
Era il 25 aprile del 1946. Armando ebbe a un certo
momento l’impressione che fosse la festa della vita, tale era
l’eccitazione che gli adulti si comunicavano l’un l’altro, quasi
fossero le formiche della terrazza che avevano trovato del cibo.
Non aveva mai visto gli adulti in quello stato d’animo. Era la
prima volta che tutti assieme potevano festeggiare il loro ritorno
e ricordarsi, da vivi, dei loro morti. Alcuni riuscivano a ripensare
con un brivido anche a quelli che avevano ammazzato. Una
giornata di sole intenso, quasi estivo, tersa, con il caldo che ti
arrivava addosso e non lo sentivi perché dal bacino di San Marco
soffiava una brezza fresca, radente l’acqua. Armando si teneva
stretto alla mano ora dell’uno ora dell’altro, stando bene attento a
non perdersi in quella confusione. Si entrava e si usciva dai bar,
abbracci, grandi pacche sulle spalle, ancora abbracci e ogni tanto
delle espressioni tristi. Poi ancora grandi risate, richiami, grida,
nomi che volavano: pensieri, che si infilavano nei rari momenti di
quiete, già diventati ricordi.
Lentamente e un po’ riottosi anche i partigiani si misero in
fila, come i soldati. Armando fu di nuovo issato sulle spalle, era
nell’ultima fila, circa a metà. Gli ufficiali non si distinguevano
dagli altri se non per il fatto che non stavano in fila e
camminavano su e giù per il plotone ridendo e scherzando con i
vecchi compagni. Scoppiò improvvisa la musica di una banda che
stava all’inizio della via. Uno alla volta i segmenti del grande
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serpente formato dai vari corpi si mossero. Armando, da sopra,
rimase colpito dal repentino passaggio dal disordine al muoversi
all’unisono di tutte quelle persone. Per ultimi si mossero i
battaglioni dei partigiani. Dalle finestre cominciarono a piovere
fiori rossi. Quelli li prendevano al volo - anche Armando riuscì a
prenderne uno - e marciando li sventolavano, e cantavano a voce
piena, e sorridevano alla gente. Anche Armando sventolava il suo
fiore; poi, rotto il fiore, sventolò il fazzoletto rosso come se fosse
una bandiera e cantava, cantava come gli veniva, era il suo urlo-
canto che si aggiungeva ed era sommerso dalle voci dei suoi
compagni. Ogni tanto fra la gente che premeva sulle transenne,
lungo le quali c’erano poliziotti e partigiani con il mitra in mano
con le spalle voltate a quelli che sfilavano, esplodeva un nome,
quello ch’era stato chiamato si girava, cercava le facce degli amici
o dei parenti, salutava con grandi gesti e sorrisi.
Armando aveva perso ogni riferimento con la realtà. Gli
sembrava di far parte di un unico grande corpo allegro che
poteva da un momento all’altro mettersi a fare le capriole per la
contentezza, oppure di un corpo forte che poteva da un
momento all’altro scagliarsi di corsa contro un ostacolo e
abbatterlo. O fare un grande salto, tutti insieme nel grande corpo,
passare l’acqua e andare dall’altra parte del canale senza bisogno
dei ponti, o ritrovarsi sul tetto della chiesa che stavano sfiorando.
La gente che li vedeva passare rideva, applaudiva, cantava le
stesse canzoni che loro cantavano. Qualche bambino sgusciato
tra le transenne e le gambe degli adulti riusciva a marciare al loro
fianco per un po’. Qualcuno indicava anche Armando, che aveva
assunto un’aria così fiera da sembrare il condottiero di
quell’armata sorridente.
Finita via Garibaldi girarono a sinistra e lì, di fronte al
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mare, con il sole in faccia tutti in ordine, in fila fino al ponte
verso Sant’Elena, si fermarono. Armando fu messo a terra e si
intrufolò fra le gambe per vedere cosa succedeva. C’era un palco
con la tenda sopra, pieno di gente con i vestiti scuri. Anche un
prete vestito di rosso e assieme a lui anche padre Giulio. La voce
di quelli che parlavano si sentiva fortissima, come mai Armando
aveva sentito una voce. C’erano anche delle donne vestite di nero
che a un certo punto si trovarono isolate tra il palco e il muro di
una casa da dove avevano appena tirato giù una bandiera che
copriva una lapide. Qualcuno spiegò ad Armando che erano tutti
seri perché stavano pensando a sette compagni che erano stati
fucilati dai tedeschi e aggiunse: “Chissà di quanti nessuno si
ricorda già più”. Armando non capì bene il significato di quella
sosta e della tristezza in un giorno come quello, ma capì il senso
degli sguardi che aveva visto volare la mattina quando qualcuno
diceva il nome di un compagno morto.
Di nuovo la banda, di nuovo in marcia, di nuovo issato
sulle spalle. Ancora fiori, fazzoletti che sventolavano, bandiere,
bandiere rosse, saluti, sorrisi, canzoni da cantare. Qualche ragazza
ogni tanto usciva dalle transenne e per un pezzetto di strada si
metteva al braccio di un partigiano e Armando se ne stava beato
lì sopra a suscitare l’invidia dei bambini. Arrivati all’altezza della
chiesa della Pietà il suono della banda fu sovrastato dalle sirene
dei rimorchiatori e dai getti d’acqua delle pompe di bordo che
salivano fino al cielo.
Armando da sopra vedeva questo enorme serpente che
davanti a lui saliva i ponti ed era come fosse un ponte di teste che
cambiava colore con il colore delle divise e dei berretti. Quando
era sopra il ponte vedeva avanti fino al ponte successivo dove un
altro spezzone del serpente si snodava.
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Ogni tanto si fermavano. La gente dietro le transenne
offriva da bere e da mangiare e anche ad Armando arrivò un
uovo sodo, un pezzo di pane e un sorso d’acqua. Sotto di lui
circolavano fiaschi di vino ma stavano attenti a non farsi vedere
dall’ufficiale. Offrivano da bere e da mangiare anche ai soldati,
quelli con le divise tutte uguali, ma loro non prendevano niente e
i partigiani ci scherzavano un po’ sopra. Poi riattaccava la banda e
si ricominciava a marciare verso piazza San Marco e Armando
cominciò a riconoscere i luoghi. Passarono a fianco del rifugio
antiaereo che era diventato ormai un deposito di spazzatura.
Passarono sopra il ponte della Paglia.
Improvvisamente davanti al plotone nel quale Armando
era inquadrato si parò un uomo tutto vestito di rosso che
cominciò a muoversi avanti e indietro attorno al plotone.
Saltellava, poi faceva dei balzi, dei piccoli passi come di danza,
poi correva. Con le mani, le braccia aperte sopra la testa, teneva
una bandiera, rossa pure quella che usava come se fossero le sue
ali. Ci saltava sopra facendosela passare sotto i piedi senza
toccarla, si avvolgeva e si svolgeva, quando correva si stendeva
tutta. Qualcuno del plotone di Armando lo riconobbe, lo chiamò
per nome e, prima che arrivassero a mandarlo via, sparì tra gli
applausi in mezzo alla folla.
Dalla sua posizione soprelevata Armando vedeva la piazza
piena di gente come non l’aveva mai vista. Le campane
cominciarono a suonare il mezzogiorno, dall’Arsenale rispose un
colpo di cannone. La grande bandiera che aveva visto issare la
mattina sventolava quasi a coprire la facciata della chiesa. Vedeva
moltissime braccia alzate che agitavano bandierine tricolori,
fazzoletti, fiori: la piazza sembrava un grande prato. Non c’era
una cosa, una sola che stesse ferma, proprio come l’erba di un
128
prato. Ogni tanto qualcuno sfiorava una gamba di Armando che
si voltava sorridendo e salutando persone che non conosceva. In
una di questa giravolte, che non poco fastidio dovevano dare a
chi lo portava, intravide Sandro. Sporgeva con la testa e un
braccio tra due carabinieri e lo chiamava a squarciagola
sventolando una bandierina tricolore di carta. Armando tolse il
fazzoletto rosso dal collo e lo sventolò finché non lo perse di
vista. Si sentì sollevato da tutti i pesi oscuri che la vicenda con
Sandro gli aveva procurato, sepolti da mesi uscirono fuori e
trovarono un contrappeso sull’altro piatto della bilancia, il piatto
dell’entusiasmo che in quel momento contagiava tutto e tutti.
Armando continuava la sua sfilata tra due muri di persone.
Arrivati tra la chiesa e il campanile di San Marco girarono a
sinistra, passarono davanti a un palco dove stavano altre persone,
però più ordinate e composte di quelle che erano per strada.
Erano le autorità, e furono salutate all’unisono dal plotone di
Armando consolidando la sua convinzione di muoversi dentro
un unico corpo che girava la testa per vedere, batteva nello stesso
momento il piede destro per farsi sentire, cantava come se fosse
una sola grande bocca a cantare. Arrivati in fondo alla piazza
girarono a destra, poi ancora a destra. Poi dedicando canzoni,
bandiere, sorrisi, di nuovo verso la chiesa di San Marco.
Armando vide la terrazza di casa, con il braccio salutò, ma non
c’era nessuno. Girarono a sinistra e sparirono sotto alla Torretta
dell’Orologio, dentro le Mercerie. Finalmente un po’ d’ombra,
girarono a destra in Calle Larga San Marco, fecero ancora
cinquanta metri in formazione e fu dato l’ordine di sciogliersi.
Fu rimesso a terra. Era vicino alla porta di casa ma non ne
volle sapere di salire. Allora si avviò con i suoi compagni verso
un barcone che li attendeva nel canale in fondo alla calle. Salirono
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uno alla volta e Armando prese posto a prua con le gambe
incrociate, il fazzoletto rosso al collo e una bandiera rossa in
mano. Faceva fatica a tenerla ben dritta perché l’aria si infilava nei
canali, prendeva velocità tra le case e batteva con forza sulla
bandiera. La marcia nell’acqua fu altrettanto entusiasmante di
quella per strada. Cominciarono a cantare, e il canto rimbombava
tra le pareti delle case che affacciavano sui rii chiamando alle
finestre quelli che non erano andati a vederli per strada. Passare
sotto i ponti era come passare sotto archi di trionfo fatti di
persone. Molti gettavano fiori, applaudivano, riconoscevano
qualcuno. Si andava da un canale all’altro e si passava dai
richiami, dagli applausi della gente sul ponte precedente a quelli
che provenivano dal ponte successivo.
In barca finalmente si sentiva un po’ di fresco. Passarono
per Santi Giovanni e Paolo, davanti alla statua di Bartolomeo
Colleoni sulla quale era stata piantata una bandiera rossa. Poi nel
rio dell’Ospedale Civile, dove raccolsero gli applausi e i saluti
degli ammalati. Poi finalmente in laguna, verso nord, sbucarono
proprio davanti all’isola di San Michele, dove c’è il cimitero.
Presero il canale marcato dalle bricole che portava lungo il bordo
nord della città verso l’isola delle Vignole. Le Casermette,
l’Arsenale, poi tagliarono rasentando una barena e, ridotta la
velocità, si infilarono nel canale che taglia in due l’isola.
L’acqua aveva la stessa trasparenza del cielo, quel giorno.
Anni dopo, quando lontano da Venezia Armando lasciava che la
nostalgia lo prendesse, se pensava alla laguna ricordava l’isola
delle Vignole come l’aveva scoperta allora. Prima non c’era mai
stato: a sinistra del canale arrivando c’era una casa padronale a
due piani in mattoni e pietra bianca con un grande fumaiolo che
assomigliava a una tromba; a destra una casa di campagna con
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l’aia e davanti un molo di legno dove attraccarono. Lungo il
canale degli strani alberi con le foglie lunghe e sottili messe con
ordine lungo dei rami filiformi che dalla cima dell’albero
ricadevano verso l’acqua come se fossero i capelli di qualcuno
che si specchiava. Armando si trovò in terra. Attorno era tutto
verde. Per la prima volta vide gli alberi con le mele attaccate,
andò vicino a una pianta che assieme a tante altre, con mille
contorcimenti, era avvinta a dei pali. Gli spiegarono che si
chiamava vite e gli mostrarono le piccole sfere verdi che
sarebbero diventate un grappolo d’uva.
Dietro la casa erano stati costruiti con paletti e assi di legno
un lungo tavolo e due panche sui lati. In tavola c’era già il vino e
piatti di sopressa e di uova sode e i taglieri con la polenta.
Piantarono due bandiere rosse agli estremi del tavolo; un po’ alla
volta si sistemarono tutti. I compagni che erano vicini, ridendo,
gli fecero assaggiare del vino rosso direttamente dal fiasco. Un
po’ gli piacque, un po’ fu nauseato dal sapore che lasciava in gola.
Armando era stanchissimo, distrutto dalle emozioni di
quella giornata di cui tuttavia non coglieva fino in fondo
l’eccezionalità. Si mise in piedi sulla panca per prendere due uova,
una fetta di polenta e di sopressa. Ogni tanto qualcuno diceva una
cosa ad alta voce e tutti ridevano, poi si sentiva un gallo cantare, e
il rumore della brezza tra i rami degli alberi. Qualcuno cominciò a
parlare e tutti fecero silenzio Si alzarono tutti in piedi e anche
Armando. Nessuno rideva più. Uno solo chiamava dei nomi, ma
nessuno rispondeva.
Finito l’appello senza risposta, forse riprovando le stesse
sensazioni provate ogni volta che capivano di essere sfuggiti alla
morte, si scatenò un’allegria ancora più sfrenata di quella che li
aveva accompagnati per tutta la mattina. Armando un po’ per il
131
vino, un po’ per il sole, un po’ anche per quell’ultima intensa
emozione, si distese sulla panca e si addormentò con un uovo
sodo ancora in mano.
Si risvegliò in barca sulla via del ritorno. In un primo
momento i movimenti del barcone lo avevano cullato facendolo
risprofondare nel sonno dopo il trasporto da terra. Poi un odore
acre che occupava per intero il suo respiro lo fece svegliare. Era
sempre a prua e lo avevano avvolto nella giubba di uno di loro e
quello era il loro odore, il loro sudore. Era la fatica che avevano
fatto, era l’odore delle paure che avevano avuto ma anche quello
dell’eccitazione per le battaglie vinte, era l’odore delle speranze
che avevano coltivato in quegli anni terribili. Mentre si
avvicinavano a Venezia gli fu proposto di andare a casa oppure di
andare a ballare nella sede del consolato dell’Argentina dove
avevano organizzato una festa. Non ebbe dubbi, ormai era uno di
loro.
La sala era grandissima, molto più grande di tutta la sua
casa, e un sacco di persone strette una all’altra ballavano
seguendo le musiche di un’orchestrina. Mangiò dei dolci che gli
diedero un po’ di energia e lo misero in condizione di seguire
quello che succedeva. Gli adulti erano allegrissimi, non aveva mai
visto tanta gente ridere, farsi gli scherzi, abbracciarsi, baciarsi. La
cosa che lo divertì di più era una specie di gioco nel quale c’era
uno che ballicchiando da solo con un bastone in mano
comandava a tutti gli altri quello che dovevano fare e quelli si
mettevano in fila per due, poi si separavano, si facevano
l’inchino, poi ancora in fila per due. I primi della fila, tenendosi
per mano, si fermavano e si allargavano facendo un arco con le
braccia, quelli dietro passavano sotto e facevano la stessa cosa
finché i primi passavano sotto le braccia di tutti gli altri. Poi le
132
coppie si separavano, i maschi da una parte e le femmine
dall’altra, giravano su loro stessi, sfilavano come dei soldatini,
giravano ancora e si ritrovavano dall’altra parte della sala. Poi si
separavano di nuovo, si mettevano su quattro file e bastava
girarsi per trovarsi di fronte a un’altra femmina e a un altro
maschio.
L’orchestra suonava sempre più forte e sempre più svelta,
finché non cominciarono tutti a correre attorno alla sala
agganciati uno all’altro come se fosse un millepiedi che si
snodava; uscirono da una porta, rientrarono da un’altra finché
tutto finì e scoppiò un grande applauso di chi si era divertito a
ballare e di chi si era divertito a guardare. Armando applaudiva in
piedi su una sedia, ma avrebbe voluto essere fra quelli che
ballavano.
Poco dopo l’orchestrina cominciò a suonare una musica
dolce e struggente e si formarono le coppie. Armando non
avrebbe mai più dimenticato la musica, il suono della fisarmonica,
i movimenti dei piedi e quelli dei corpi che quasi si fermavano,
indugiavano un istante, riprendevano subito dopo un movimento
diverso, si lanciavano sguardi e sorrisi, si respingevano e si
attraevano, giravano uno attorno all’altro.
Molti anni dopo, quando imparò a ballare, Armando si
ricordò di quel giorno in cui aveva visto per la prima volta il
tango.
Guardava incantato le spalle nude di una ragazza, ne
seguiva con attenzione i movimenti finché, caduta una spallina,
mentre si piegava all’indietro con un movimento quasi brusco,
per un attimo un seno uscì dal vestito. E scatenò in Armando
una grande nostalgia del seno di Lisetta.
Quando in casa non c’era nessuno lei lo portava in soffitta
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dove le avevano sistemato il letto. Si spogliava fino alla cintola e
lo spogliava. Poi si distendeva sul letto, lo faceva distendere sopra
e lo incoraggiava a giocare con i suoi capezzoli ridendo e
guardandolo con gli occhi luccicanti. Questa fu l’ultima, intensa
emozione di una giornata indimenticabile: il più grande regalo
che Fred gli avesse mai fatto. Lentamente Armando si distese su
due sedie e si addormentò, sognando di essere tra le braccia di
Lisetta.
134
la storia di Fred
Ancora adesso se parli di lui con i compagni di allora non
prendono l’aria mogia di chi sta ricordando un morto ma si
aprono in risate che li fanno sembrare più giovani. E ti
raccontano storie di lui, e ancora ridono. Storie di donne, di vino,
di bici, di caccia, di viaggi, di guerra. E continuano a chiamarlo
Fred, il suo nome di allora.
Fred entra nella divisione Garibaldi Pinon Cichero a
diciotto anni compiuti da poco. Come sempre ha voluto fare di
testa sua, non ha raggiunto il fratello più grande come gli hanno
proposto. La divisione opera in una zona di montagna sopra
Piacenza e il reparto di Fred è uno dei più esposti alle rappresaglie
e ai rastrellamenti dei fascisti della RSI. Alle loro spalle
controllano ormai tutte le valli e i valichi che portano in Liguria e
possono perciò a piacimento allungarsi verso la pianura o ritirarsi
nei boschi e sui monti.
Ha smesso di studiare presto, troppe energie addosso per
star fermo sui libri. Hanno provato a fargli frequentare le
commerciali ma non c’è stato verso. I giorni in cui di nascosto
prendeva la bici, arrivava a piazzale Roma e si infilava nelle strade
dritte e ombreggiate della pianura veneta sono stati molti di più di
quelli in cui andava a scuola. Il suo sogno è fare il ciclista. Al
Pedale Neroverde lo incoraggiano: va bene in montagna e per
fare risultato deve staccare tutti, altrimenti in volata non la
spunterà mai, è troppo leggero e senza cattiveria.
Da partigiano si ritrova in un ambiente che non è il suo al
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quale tuttavia si abitua in poco tempo. Impara subito a usare le
armi, gli piace molto una mitraglietta che però non gli viene
assegnata perché è troppo giovane. Dopo poche settimane ha
memorizzato boschi, torrenti, strade, sorgenti, casolari e si
muove a suo agio, veloce, preciso. Un corpo ben allenato, sempre
pronto assieme al sorriso. Il territorio sotto il controllo del
gruppo di Fred va dalla confluenza di due piccoli torrenti a valle
della quale c’è il ponte della strada provinciale per Piacenza che
scende dai monti di M. utilizzata da repubblichini per iniziare i
rastrellamenti in montagna. Dallo stesso punto la divisione
Garibaldi si muove quando decide di andare ad attaccare i fascisti
giù in pianura.
Negli ultimi mesi, da una parte e dall’altra, quasi fosse stato
firmato un tacito armistizio, nessuno si è mosso dalle sue
posizioni. Solo qualche scaramuccia mirata a proteggere o a
colpire informatori veri o presunti.
La causa dell’armistizio è l’inverno. Duro, faticoso,
soprattutto per i partigiani bloccati nei casolari in montagna, con
scarse comunicazioni anche tra i vari gruppi, difesi dalle stesse
condizioni che li tengono bloccati.
Per Fred è il primo inverno da partigiano. Quasi tutte le
compagne che sono in montagna, se le condizioni dei loro paesi e
città lo consentivano, sono tornate a casa o nelle vicinanze di casa
da parenti, per proteggersi da eventuali ritorsioni fasciste. Alcune
vengono dai paesi dell’Appennino Ligure, la maggior parte dai
paesi della campagna attorno a Piacenza dove più duro è stato nel
passato lo scontro con i padroni e con i fascisti.
“E’ finito il sapone”, questo è stato il segnale che ha
indotto molte compagne ad allontanarsi con il consenso dei capi.
A Fred piace ballare. Arrivato da pochi giorni ascolta con i
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compagni canzoni americane da una radio paracadutata alcune
settimane prima. Presa al volo una giovane compagna si è messo
a ballare con leggerezza, ritmo e felicità, talmente abile nel
disegnare con i piedi e il corpo le figure da rendere le cose facili
per la sua inesperta compagna di danza. Per prenderlo in giro, ma
anche ammirati per la sua abilità, lo chiamano Fred come il
ballerino. Questo sarà il suo nome di battaglia. Gli rimane anche
se il commissario politico non è affatto contento di questo
americanismo poco adeguato a un comunista. Ma a Fred questa
specie di riconoscimento piace; e d’altra parte è un comunista che
pensa sia giusto prendere certe cose molto sul serio, e per il resto
conserva la sua allegria, la sua voglia di divertirsi e il suo
approccio leggero alla vita. Fred gli sembrava un nome leggero,
come lui si sente leggero.
Per questo è amato da tutti e pur essendo il più giovane del
gruppo ha la determinazione di un adulto. Capisce al volo le
situazioni come se avesse un sesto senso che lo orienta senza
bisogno di cultura, se non quella delle cose, e dei rapporti che si
instaurano attorno a esse. Lavora già da tre anni quando a
diciotto anni entra nella decima MAS e scappa con le armi. E’
sempre sicuro di farcela perché sa di governare con assoluta
padronanza il proprio corpo e le sue reazioni. Durante le azioni è
il più rapido a eseguire gli ordini, e sa prendere le decisioni giuste
quando si trova da solo, senza fatica, come se ogni volta avesse
una briscola da giocarsi. Fare il partigiano è come fare un lavoro
che gli piace anche se ogni tanto ha nostalgia del fratello,
dell’amicizia, della complicità e delle botte che di quando in
quando si davano di santa ragione. Con le compagne è dolce e
spiritoso ma ancora troppo giovane per competere con i capi
branco che trova in montagna.
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Durante l’inverno, e più spesso con l’avvicinarsi della
primavera, si parla dei rastrellamenti che ricominceranno quando
le strade sopra i 7-800 metri saranno sgombre dalla neve. Si
aspettano lanci di materiale da parte degli alleati, armi, munizioni
e ricetrasmittenti. Durante l’anno precedente hanno avuto
difficoltà a coordinare i movimenti dei vari gruppi proprio per
l’assenza di comunicazioni. Per questo motivo la forza e la
capacità della divisione sono state sotto utilizzate e qualche volta
condizioni di vantaggio sull’avversario si sono capovolte in
perdite inutili. I primi mesi dell’anno nuovo passano a
riorganizzare le file. Tornano anche le compagne che hanno
svernato in pianura, non tutte perché alcune sono incappate nel
tradimento di qualcuno. Verso la fine di marzo vengono
effettuati tre lanci. Al gruppo di Fred vengono destinate 9
mitragliette, munizioni e una ricetrasmittente portatile. A Fred
viene consegnata la mitraglietta che tanto gli era piaciuta al suo
arrivo.
Ad aprile, con il bel tempo, cominciano ad arrivare anche
notizie certe dei rastrellamenti. Già da alcuni giorni i preparativi a
Piacenza sono stati notati e comunicati su in montagna.
L’occasione del rastrellamento questa volta è stata data dalla
sparizione di Fernando, il massaro della tenuta di Vxxx Per un
po’ ha tentato di fare il doppio gioco, poi i suoi contadini che
hanno i figli in montagna lo hanno scoperto. Dalla montagna
sono scesi in una notte fredda e asciutta e nelle cantine della casa
padronale hanno trovato roba da sfamare un paese per sei mesi:
hanno diviso con i contadini e il resto su, a spalla, a rimpinguare
le scorte ormai esigue delle divisione.
Hanno saputo che a Piacenza è arrivato anche un reparto
di semicingolati tedeschi, più adatti dei carri armati ad affrontare
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le strade di montagna, strette e fragili dopo il disgelo. Di questo
arrivo sono stati avvisati tutti i comandi partigiani lì attorno. Il
rastrellamento viene preannunciato per il secondo sabato di
aprile. La notizia arriva in montagna due giorni prima e gli
uomini della divisione, rimasti fermi per tutto l’inverno, escono
dal letargo.
Il gruppo di Fred ha tutto il tempo di smontare il campo e
di trasferirlo oltre il passo di Txxx, nella valle del torrente Vxxx.
In quella valle sono sempre stati al sicuro, esclusi sporadici
passaggi di aerei da ricognizione, il bosco è talmente fitto che la
ricognizione non li ha mai individuati. Spostato il campo tornano
a valle per prendere posizione, come ha ordinato il comando.
Non c’è alcuna intenzione di subire il rastrellamento senza
reagire. Il comando della divisione ha deciso di colpire duro per
impedire che al ritorno ci rimettano i civili, esposti alla rabbia dei
fascisti tornati a mani vuote dal rastrellamento. La giornata di
sabato passa senza che si manifestino movimenti in pianura e
quando stanno per abbandonare le posizioni e tornare in
montagna arriva una staffetta che Fred conosce. Fantasma è una
ragazza bruna della sua età che arriva e riparte senza che nessuno
se ne accorga: porta la notizia sicura che il rastrellamento è per il
giorno dopo. L’informazione sbagliata fatta circolare ad arte è
servita a prendere qualche vantaggio: un giorno di tensione
inflitto ai partigiani, una notte passata fuori dal campo, scorte di
viveri limitate.
Finalmente il giorno dopo li vedono arrivare. Vedono la
colonna avanzare piano sullo sterrato della provinciale senza
sollevare polvere per l’umidità delle notte. I gruppi di partigiani
più avanzati li lasciano passare all’altezza di S. dove, poco più
avanti, è difficile manovrare con i camion e i semicingolati e
139
dove, invece, è facile per i partigiani attaccare molto protetti,
sganciarsi e manovrare a loro piacimento.
I fascisti non si aspettano posizioni avanzate di partigiani in
quella zona anche perché da alcune settimane non ricevono più
informazioni: l’unico riferimento era il massaro della tenuta di V.
Anche alle pendici delle montagne i fascisti hanno fatto terra
bruciata: dopo le puntate partigiane dell’inverno non hanno più
informatori e il loro obiettivo è quello di costringere i partigiani a
ritirarsi alle quote alte distruggendo i campi organizzati alle quote
intermedie.
Fred, Ivana, il Mago, Salto e Ribelle - è il suo nome vero e
non l’ha voluto cambiare - hanno il compito di precedere le
avanguardie della colonna a rastrellamento iniziato, di segnalarne
i movimenti in modo che il comando possa organizzare la sacca
nella quale ha intenzione di chiudere la colonna. Devono lasciarli
penetrare più a fondo possibile creando dei piccoli diversivi sui
fianchi in modo da convincerli di essere sulla strada giusta.
Soprattutto devono avvisare quando fascisti e tedeschi
decideranno di tornare indietro: loro cinque sono il tappo della
bottiglia dentro alla quale devono finire chiusi, una volta chiusi
basteranno i mortai per averne ragione senza inutili perdite.
I fascisti e i tedeschi arrivano fino al campo e vedono le
tracce che salgono verso il passo dove c’è ancora neve. A quel
punto devono decidere se andare avanti o tornare indietro. Non
sono attrezzati per affrontare due giorni di marcia: i tedeschi
partecipano all’operazione avendo programmato l’uscita di una
sola giornata. Per continuare il rastrellamento dovrebbero
abbandonare semicingolati e camion a procedere a piedi.
Distruggono il poco che hanno trovato al campo, baracche,
gabinetti, minano gli accessi al campo e dopo una vivace
140
discussione tra i due ufficiali italiano e tedesco decidono di
tornare indietro. E’ circa l’una quando iniziano a ripercorrere il
cammino della mattina; sono nervosi, stanchi e scoglionati per la
modestia del risultato del rastrellamento. Gli ufficiali stanno
pensando su quale dei paesi alle porte di Piacenza far sfogare la
rabbia dei militi e dei tedeschi. Come quei cacciatori che dopo
una giornata senza prede, sulla via del ritorno, sparano a tutto
quello che si muove. Procedono a ritroso, lentamente, con una
parte degli uomini a piedi raccolti attorno ai mezzi. Allentano
anche i controlli sui fianchi del loro schieramento dove lasciano
due squadre di cinque uomini, a destra e a sinistra della strada, a
camminare nel bosco.
Anche Fred e i suoi compagni camminano nel bosco,
disposti a ventaglio, a un tiro di voce uno dall’altro: gli aggressori
camminano dieci minuti avanti a loro. Fred sta al centro e
cammina lungo il sentiero percorso poco prima da fascisti e
tedeschi a valle della strada. Salto, alla sua sinistra, porta la
ricetrasmittente e comunica quello che vede al comando. Fred sta
per attraversare una zona di bosco più rada quando intravede un
chiarore di carni, ancora prima di identificare una divisa. E’ il
culo di un fascista che, ormai convinto della fine dell’azione, si è
fermato a cagare. Fred non ha ancora ucciso nessuno e gli sembra
ridicolo sparare a uno con le braghe in mano. Lascia il sentiero,
avvisa con un gesto Salto, aggira il fascista verso valle e lo taglia
fuori dai suoi camerati. Pensa di farlo prigioniero rapidamente e
convincerlo a passare dalla loro parte. Controllandolo a vista da
dietro un castagno aspetta che si tiri su le braghe e poi, prima che
riprenda in mano il breda che ha appoggiato per terra “mani in
alto, arrenditi cagasotto!”, urla quasi ridendo. L’altro si butta su
un fianco, rotolando prende il breda e riesce, prima che Fred
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riesca a sparare, a infrattarsi sotto a un cespuglio, poi dietro a un
altro castagno e finalmente riesce a tirarsi su le braghe.
Per Vittorio il fascista e Fred il partigiano comincia il
pomeriggio più lungo della loro guerra. Sono poco più delle due
di pomeriggio, nessuno dei due ha ancora mangiato. Vittorio,
oltre a tre caricatori, ha solo un pacchetto semivuoto di sigarette,
niente cibo perché avrebbe mangiato in camion tornando. Fred ha
un tascapane a tracolla, quello che usava per il cibo quando
correva in bici, due caricatori, un pezzo di cioccolata, due gallette
e sigarette. La lingua che entrambi usano per apostrofarsi è fatta
da una base di italiano mista a modi di dire e parole italianizzate
prese dai rispettivi dialetti. Forse anche per questo nella loro
comunicazione non ci sono equivoci.
Fred sa di averlo in pugno dal punto di vista militare. Sente
i primi colpi di mortaio e capisce che la fase finale dell’azione dei
suoi compagni è cominciata. E avvisa Vittorio. Gli spiega cosa sta
succedendo: “Sei fregato, vieni fuori. Butta il mitra e vieni fuori”.
Vuole sbrigarsi e andare giù per svolgere il compito che gli è stato
assegnato. Gli spiega che appena i compagni hanno finito giù con
fascisti e tedeschi tornano su, una raffica, e lui è andato. I
compagni di Fred sono ormai lontani, appostati per tagliare la
strada ai nemici che avessero tentato di sganciarsi, tornare
indietro e tentare di prendere su un fianco i partigiani.
Vittorio è convinto che i suoi, non vedendolo, torneranno
a cercarlo. Quando comincia a sentire i colpi delle mitragliere
pesanti montate sui semicingolati staccarsi secchi dal silenzio del
fondovalle, interrotto dai colpi cadenzati dei mortai, quasi fossero
il verso di un potente uccello meccanico, sfotte Fred. Lo provoca
sulla madre, sulla sorella e sulla morosa non sapendo che non ha
né sorelle né morose. Lo insulta, e a sua volta gli intima di uscire
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con le mani in alto chè tanto non ha altra possibilità.
Ognuno dietro al suo castagno decide di fumarsi una
sigaretta e in un momentaneo silenzio si sentono distinti i rumori
dei due accendini e si vedono i vapori biancastri delle prime
boccate dissolversi dietro i due alberi. La sigaretta contribuisce ad
allentare la tensione e Fred chiede a Vittorio se ha fame. L’altro
senza pensarci risponde di sì. Subito dopo, resosi conto del sia
pur minimo vantaggio concesso al nemico, si sente schioccare nel
bosco una bestemmia. Vittorio si abbassa, e dalla parte più larga
del tronco lascia partire una raffica, Fred sente i sibili delle
pallottole che passano e i piccoli tonfi di quelle che si piantano
sul suo albero e su quelli vicini. “Non ti serve a niente,
arrenditi!”, gli urla Fred, e per convincerlo delle sue buone
intenzioni gli chiede come si chiama. “Vaffanculo”. “Io mi
chiamo Fred, ho vent’anni, vengo da Venezia”. “Vaffanculo
merda d’un rosso ‘un potevi affogare in quella merdaccia della tù
laguna. Va’ gioventù d’Italia, disperdi ogni nemico, contro il tristo
bolscevico, va’ Milizia Nazionale… Eja, Eja, Alalà… Eja, Eja, Alalà”.
Fred decide di non rispondere, anche perché ha barato sugli anni:
gli sembra di sentirsi più forte a dire che ne ha venti.
Vittorio ha vent’anni. Figlio di un capo manipolo livornese
della marcia su Roma, fascista convinto è stato cresciuto senza
dubbi. Appena nata la RSI non ha avuto dubbi, era una cosa
ovvia: la logica conseguenza dei suoi primi vent’anni di vita.
Mentre Fred continua a parlargli, Vittorio non lo ascolta, pensa
che quello parla perché ha paura e si distrae dietro l’immagine di
questo suo primo pezzo di vita: una strada dritta, liscia, tutta
uguale, senza accidenti.
Sopra pensiero non si è accorto che Fred si è spostato e la
raffica che gli passa vicina per poco non lo frega. Si sposta lungo
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la circonferenza del suo albero per proteggersi meglio rispetto
alla nuova posizione di Fred e risponde. Finisce un caricatore e il
rumore che fa mentre lo cambia viene registrato da Fred.
“Mangio”, annuncia Fred, “mangio pane e cioccolata”.
“Pane e merda tu mangi, merda d’un rosso”. “Ti xe un mona”.
Sono passate più di due ore, i rumori della battaglia a valle non
diminuiscono né parlano con precisione a nessuno dei due circa
l’esito dello scontro. Fred sente più vicina una raffica di uno dei
suoi e capisce che è destinata a qualche fascista o tedesco che ha
tentato di rompere l’accerchiamento e lo spiega a Vittorio.
Vittorio è in piedi dalle cinque di mattina. Le sigarette che
ha fumato in quelle due ore gli hanno scavato un buco nello
stomaco anche perché ha cominciato a fumare da poco, per non
essere da meno degli altri camerati. Ha un po’ di nausea, respira a
fondo. “Mi chiamo Vittorio, merda di un rosso. Ora ciascuno va
per la sua strada, così è come se non fosse successo niente”. La
risposta di Fred è una raffica che si stampa per intero sul tronco
dell’albero di Vittorio. “Vitorio ti xe un mona, ’rendite”. Passano più
di mezz’ora senza parlarsi, a tentare piccole sortite, raffiche ora
brevi ora lunghe mentre i colpi della battaglia a valle non
accennano a diminuire. Se si riducono i colpi di mortaio, come
spera Vittorio, torneranno a cercarlo. Fred ha ormai capito che,
comunque vada lo scontro, i suoi compagni ripasseranno di là e
per Vittorio è finita. Gli basta tenerlo inchiodato dietro l’albero.
Quasi nello stesso momento cambiano i caricatori.
Ognuno tenta di azzardare una previsione sui colpi che restano
all’altro e cominciano a darsi la voce su questo argomento.
Vittorio non riesce più a star fermo, vuole uscire da quella
situazione e, stando sempre al riparo dell’albero, camminando
curvo, si allontana in verticale rispetto alla posizione di Fred.
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Insospettito dal silenzio Fred esce alla sinistra del suo riparo, lo
vede, spara e Vittorio è costretto a ripararsi precipitosamente di
nuovo dietro al suo albero. Nella calma che segue la concitazione
di questo breve episodio della loro guerra tutti e due decidono di
pisciare e, sentendo l’uno il rumore dell’altro, sorridono e si
lanciano altri insulti. Vittorio è affamato, Fred ha sete e le scariche
di adrenalina gli impediscono di sentire la stanchezza di una notte
passata all’aperto.
A valle i colpi di mortaio si sono fatti più radi, si sente il
crepitare di una sola mitragliera e ciò significa che i botti di
mezz’ora prima erano di semicingolati centrati da colpi di
mortaio. Si sono fatti più fitti i colpi di armi leggere segno che giù
sono entrati in contatto ravvicinato e che l’azione sta per finire.
Verso le cinque e mezza si sente ancora qualche colpo isolato.
Vittorio ritenta la manovra di sganciamento di prima, questa
volta arretrando e sparando brevi raffiche a destra e a sinistra
dell’albero di Fred. A quattro, cinque metri dall’albero che si è
prefisso di raggiungere vede con la coda dell’occhio una figura
muoversi nel bosco alla sua sinistra. Capisce che non sono i suoi,
si butta per terra e strisciando riesce ad arrivare al suo obiettivo.
Non pensa nemmeno lontanamente ad arrendersi, però gli
viene una crisi di pianto, una cosa che non conosce, non può
capire che si tratta di paura. E’ seduto con le spalle al suo nuovo
albero, il mitra in mano perché si aspetta di essere attaccato
anche da altri lati che non sia il lato di Fred che nel frattempo si è
spostato ed è protetto dal castagno che prima proteggeva
Vittorio. Fred vede le cicche per terra, i bossoli delle pallottole, i
due caricatori vuoti, poi vede Ivana, e prima che lei apra bocca, a
segni la avvisa della situazione. Lei mulina il pugno sopra la testa
per dirgli che hanno vinto, poi lo raggiunge, e mentre lui va
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silenzioso verso l’albero di Vittorio, lei spara brevi raffiche per
tenerlo occupato.
“Oh Vittorio!”. A sentire quella voce vicina e
quell’apostrofare quasi toscano Vittorio tarda a reagire. Dietro il
velo delle lacrime che non riescono a staccarsi dagli occhi ha
pensato per un attimo di essersela cavata, ha intravisto,
completamente sfuocata, la figura snella di Fred, poi più nulla.
Questo pomeriggio non segna Fred. Non per cinismo, forse
c’è in lui una certa dose di superficialità. Quello c’era da fare,
anche per proteggere i compagni, e quello ha fatto. Ha tentato di
convincere Vittorio ad arrendersi, gli ha spiegato cosa stava
succedendo a valle, che lui non aveva scampo, che più passava il
tempo e meno probabilità aveva di salvarsi.
Pensa di avere fatto la cosa giusta. Non racconta a nessuno
di averlo chiamato prima di premere il grilletto e ogni tanto gli
vengono in mente gli occhi di Vittorio che per un istante, prima
di chiudersi, lo guardano senza vederlo.
E’ goloso di tutto, un’azione militare se la gusta anche
fisicamente, ne coglie gli aspetti più oscuri, ed è questo che forse
gli consente di voltare pagina per primo e cominciare a scherzare
sul domani, perché l’oggi ha già messo profonde radici dentro di
lui. Così come l’amore con una compagna, fatto poco lontano dal
campo, nel tempo solo suo ma anche rubato al tempo di tutti,
che lo investe ogni volta con pazienza e ardore, con dolcezza e
desiderio, anche dopo una grande paura o prima di un grande
rischio.
Anche se sta per affrontare la vecchiaia è rimasto un
giovane uomo sempre sulla soglia della maturità: i capelli sono
ancora neri, ricci e folti come un tempo, lo sguardo dritto,
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limpido di chi non ha nulla da nascondere, né strumenti per
nascondere nulla, e tante cose ancora da vedere.
Ha superato di poco i sessant’anni quando muore per aver
mangiato cape sante avariate regalate da un vecchio compagno che
da sempre coltiva la laguna. Gli è di sicuro dispiaciuto perché
proprio della vita è sempre stato goloso e l’ha vissuta fino in
fondo, avendo sempre chiara davanti a sé la distinzione tra bene
e male, senza mezze misure. Ma scoppierebbe in una delle sue
contagiose risate se potesse raccontare come e perché è morto.
Non riderebbe se fosse vissuto tanto da vedere i fascisti
legittimati a governare il paese.
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6 giugno 1946
Dal giorno in cui aveva sfilato per festeggiare il primo
anniversario della Liberazione Armando aveva più occhi e più
orecchie del solito per quello che gli succedeva intorno.
Capiva bene che da quel giorno gli adulti non si erano più
calmati, come se delle formiche continuassero a rimanere in
movimento sotto la loro pelle. Verso la metà di maggio si erano
radunati in piazza San Marco in così tanti che sembravano
davvero un formicaio. Ma non erano allegri come il giorno della
sfilata. Metà piazza, verso l’ala napoleonica di fronte alla Basilica,
era mantenuta sgombra dai soldati, li chiamavano “celerini”. Gli
fu spiegato, non senza una certa ironia, che era per proteggere
dagli attentati un adulto, come un puntino lontano, la cui voce
prorompeva dagli altoparlanti. Il formicaio sventolava bandiere
bianche con uno stemma rosso in mezzo e c’erano anche
bandiere tricolori e stendardi con la madonna e suore e preti
come delle macchie in mezzo alla gente.
Due giorni dopo ancora più gente. Questa volta le bandiere
erano rosse e anche tricolori e anche tanti striscioni con le scritte
che Armando non riusciva a decifrare perché venivano agitati in
continuazione. I soldati “celerini” questa volta erano dietro e la
gente sembrò ad Armando un po’ più mal vestita di quella di due
giorni prima. Qualcuno aveva ancora dei baschi militari in testa o
pezzi di divisa addosso.
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Armando osservò a voce alta che i parlanti, così si
dovevano chiamare se gli altoparlanti diffondevano la loro voce,
si mettevano tutti dalla stessa parte e usavano lo stesso balcone
anche se sotto c’erano bandiere diverse. Come quelle azzurre e i
tricolori, quelli normali con lo stemma sabaudo in mezzo, che
immancabilmente si presentarono tre giorni dopo. Tutta gente
piuttosto elegante, molti ufficiali in uniforme, pochi soldati
“celerini”, voci meno rimbombanti ma sempre stesso balcone.
Nel frattempo le strade attorno a casa si erano riempite di
manifesti che venivano attaccati ovunque. Aveva perfino assistito
a delle liti tra gli adulti che attaccavano i manifesti ma la cosa che
lo attraeva di più era il secchio pieno di colla gialla e trasparente;
non come quella bianca fatta con l’acqua e la farina mescolando
piano piano per evitare che si formassero grumi. Armando ormai
leggeva bene, ma di molte parole non riusciva a capire il
significato e anche le immagini, alcune veramente paurose, non
aiutavano.
Verso la fine del mese di maggio stranamente la scuola
chiuse e il bel tempo consentì ad Armando di muoversi con
tranquillità tra la casa, la terrazza e la piazzetta dei Leoncini dove,
per l’ennesima stagione, venivano rielaborati gli statuti dei giochi
che avrebbero occupato i ragazzini per i mesi estivi, fino
all’autunno. Il 6 giugno era rientrato da poco in casa per la
merenda di metà mattina. Aveva finito il primo giro d’Italia della
giornata: i corridori erano tappi di bottiglia all’interno dei quali
era fissata, colando della cera, la figurina ritagliata del corridore, le
strade venivano tracciate sui masegni con il gesso e c’erano le
tappe, quelle a cronometro dritte e larghe - con un solo abile e
fortunato tiro si poteva anche tagliare il traguardo - quelle di
montagna strette e piene di curve.
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Appena rientrato fu colpito da un insolito clamore che
arrivava dalla piazza, gente che correva, qualcuno urlava: da tutta
la città arrivava gente a piazza San Marco con le bandiere di tutti i
colori. No, un momento, quelle azzurre non c’erano. Riuscirono
a stento a non farlo ridiscendere in strada. E allora Armando, che
doveva pur partecipare a qualcosa che fin dall’inizio gli era parso
eccezionale, preso da una di quelle frenesie incontenibili dalle
quali aveva imparato a farsi rapire per non rendere conto a
nessuno di quello che faceva, corse in soffitta, tirò fuori da uno
dei bauli il tricolore con lo stemma sabaudo. A precipizio giù
dalla scala della soffitta e senza esitazioni lo espose in terrazza,
verso la piazza.
Da sotto cominciarono prima a fischiare, poi a inveire, poi
arrivò su qualche pietra, chissà dove l’avevano trovata. Dopo
qualche minuto suonarono alla porta.
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