Calle Larga S. Marco

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Calle Larga San Marco

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Calle Larga San Marco

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autunno 1943 ................................................................................................ 3 la storia di Gino .......................................................................................... 17 inverno 1943 - primavera 1944 ............................................................... 28 la storia di Mario......................................................................................... 38 primavera 1944 ........................................................................................... 56 la storia del capitano Bianco ......................................................................... 68 inverno 1944 ............................................................................................... 78 la storia di Vincenzo .................................................................................. 88 28 aprile 1945.............................................................................................. 98 la storia di Liguria......................................................................................108 25 aprile 1946............................................................................................121 la storia di Fred ..........................................................................................134 6 giugno 1946............................................................................................147

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autunno 1943

La singolare dote si manifestò alla fine dell’estate del 1943.

Verso la metà di settembre, pochi giorni dopo il suo compleanno,

ignaro delle conseguenze della fatidica data dell’8 settembre,

Armando avrebbe iniziato a frequentare la scuola a poche

centinaia di metri da casa.

A quei tempi i soldatini erano di terracotta, con il filo di

ferro dentro, una specie di vena che ne percorreva tutto il corpo,

ancorato alla terracotta della base, quasi sempre dipinta di verde.

Il sottufficiale della Regia Marina Italiana, base azzurra - roba di

mare - era stato ferito gravemente. Armando non era ancora

riuscito a trovare una soluzione per la posizione che dovevano

assumere i feriti. Fino a quel momento li distendeva, ma distesi

voleva dire morti. I feriti come potevano stare? Lo appoggiò su

uno spigolo della base e quello rimase in perfetto equilibrio,

immobile, in attesa di cadere se doveva morire, messo di traverso

rispetto all’orizzonte del pavimento.

Così cominciò. Lì per lì la cosa non lo colpì. Anzi, era

molto soddisfatto di aver trovato una buona posizione per i feriti.

Né in piedi né distesi. Nel giro di pochi secondi gli riuscì anche

con l’indiano dalla mano sugli occhi, teso a scrutare un orizzonte

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che da quel momento avrebbe visto di sbieco; con il soldato

dall’armatura argentata, il poderoso cimiero e la mano destra

vuota, chiusa su un’arma che non c’era più, ma tuttavia pronto a

colpire; con l’alpino inginocchiato per poter sparare meglio con il

suo fucile (aveva anche le fasce alle gambe). Solo il porta-feriti

della Croce Rossa non ne volle sapere. Rimase nella posizione

verticale che recuperava ogni qualvolta veniva messo di traverso

su uno spigolo della base.

Un leggero soffio, e fu la morte generale. La

concentrazione per realizzare la fantasia della battaglia - il porta-

feriti non voleva saperne nemmeno di morire - gli fece

rapidamente dimenticare quella prima volta in cui si manifestò la

sua singolare dote.

Ogni giorno, per alcune ore, Armando metteva in scena la

sua guerra, astraendosi dalla confusione di casa e delle persone

che per i più vari motivi la frequentavano fino all’ora del

coprifuoco. I rumori che gli servivano per accompagnare con il

sonoro la battaglia li produceva tra sé e sé, gonfiando le gote,

emettendo di volta in volta sbuffi, sibili, tonfi: fssss, puuf, pschh… .

Suoni più forti, sostenuti da un’emissione d’aria più consistente,

producevano l’immediata fine della battaglia, facendo

miseramente cadere per terra i combattenti feriti, quelli che se ne

stavano inclinati. L’aria emessa dalla bocca, o spostata dal

movimento del ginocchio libero - l’altro era piegato sotto il

sedere per isolarsi dal freddo del pavimento - oppure da un

rapido movimento della mano, assumeva le direzioni più

impensate e si abbatteva sul campo di battaglia come una bomba

imbizzarrita colpendo casualmente qua e là.

Così per ore nessuno si accorgeva di lui. Qualcuno ogni

tanto andava a controllarlo ma guardava lui, non quello che stava

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facendo. Del resto per le sue battaglie Armando sceglieva con

cura luoghi della casa fuori dal normale circuito di andirivieni

degli adulti. In genere erano angoli di stanza, meglio se con un

terzo lato protetto dal fianco di un mobile, che poteva costituire

un ottimo riparo per tendere agguati, lanciare offensive o per

ritirarsi in attesa del momento propizio per contrattaccare. Il

quarto lato era la sua schiena e quindi difficilmente qualcuno

poteva accorgersi di quei singolari accadimenti che si verificavano

negli anfratti di casa.

Ad Armando questo stare in equilibrio dei suoi soldatini

sembrava un fatto del tutto normale. La caserma era una scatola

di scarpe alla quale aveva tentato, senza successo, di montare

delle ruote e il motore a molla di un’automobilina smontata

appena avuta tra le mani. Colpita da un ben centrato buoff la

caserma fece due giri in aria. La prese al volo e riuscì a metterla in

perfetto equilibrio sullo spigolo in basso, dalla parte corta, dove

c’era l’etichetta con la marca, il colore e il numero delle scarpe.

Ancora una volta non si stupì; anzi, che la caserma colpita

rimanesse in perfetto equilibrio su uno spigolo, gli sembrò del

tutto conseguente con la condizione della sua armata.

I soldatini non si potevano portare in classe: era una regola

della nuova scuola. Entrava in classe e, alzando il braccio destro

un po’ inclinato in avanti, - saluto romano lo chiamavano -

pronunciava, come tutti, la formula di rito per iniziare la giornata

“sia lodato gesù cristo” ... “sempre sia lodato” rispondeva suor

Giuseppina.

Un pomeriggio durante una battaglia, poche settimane

dopo l’inizio della scuola, la baionetta del bersagliere, nello

scontro con il pellerossa, aveva subito seri danni e Armando era

molto preoccupato. La sera, prima di addormentarsi, aveva

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prelevato il bersagliere dalla caserma e, convinto che a causa di

questa menomazione avesse un grande bisogno di assistenza,

l’aveva come ingessato, incastrandolo delicatamente tra le

lenzuola, sul fianco del materasso, dalla parte del letto senza

sponda, dove facilmente lo poteva toccare. L’indomani mattina

non aveva avuto il coraggio di rimetterlo nella caserma, spinto da

un sentimento di protezione che spesso riservava ai giocattoli.

Eludendo facilmente qualsiasi controllo l’aveva portato a scuola

nella tasca del capotto, avvolto nella cuffia di lana blu che si

vergognava di mettere in testa. Poi nella tasca del grembiule nero,

braccio destro alzato, “sia lodato gesù cristo” ... “sempre sia

lodato”. Preghiera. Segno della croce. Seduti con le braccia

conserte. Breve e silenziosa ginnastica solo con le braccia.

Canzoncina per il papa. Poi le lettere.

Quel giorno toccava alla Q. QUADRO … QUERCIA -

per tutta la classe questa parola non aveva alcun significato:

nessuno l’aveva mai vista una quercia a Venezia - …

QUARESIMA – occasione buona per parlare un po’ di penitenza

e roba simile: anche questi argomenti incomprensibili. Insomma,

questa Q era veramente una lettera strana. Vuoi mettere la A …

ARMANDO, ASTA, ARCO, ANIMALE, poi parole sempre

più complicate ACROBATA, ABBAINO, si sa, si poteva

disegnare ogni cosa e colorarla. Veniva proprio bene. Oppure la

M. MAMMA, MAIALE, veniva in mente anche MERDA, ma

non avrebbe potuto mai scriverla o, peggio ancora, disegnarla e

colorarla.

Chiamare merda la cacca era stato uno dei primi effetti

dell’inizio della scuola elementare. Armando sapeva com’era

perché ogni volta la guardava e la annusava con ammirazione

mista ad orgoglio prima di rassegnarsi a vederla scomparire.

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La Q lo annoiava; era anche un po’ ridicola, con quella codina,

sembrava un maiale.

Alcuni anni dopo, in terza media, avrebbe incontrato un

anziano signore che insegnava disegno: un bravo pittore astratto

che gli insegnò a scrivere ordinatamente tutte le lettere

dell’alfabeto in stampatello nei fogli a quadretti, racchiuse dentro

rettangoli o quadrati di tre quadretti per due, tre quadretti per tre,

diritto e inclinato. Come se soltanto molti anni dopo fosse

riuscito, facendo questo esercizio, a mettere un po’ d’ordine nel

mondo così complicato delle lettere.

Le trecce di Teresa, come ogni giorno, spazzolavano

delicatamente il suo banco e le loro estremità, spontaneamente o

debitamente pilotate dalla cannuccia delle penna di Armando,

potevano infilarsi per un pezzetto dentro il calamaio pieno di

inchiostro nero incorporato nel banco. Erano anch’esse nere, e

quel giorno divennero un drago dalle cui fauci usciva

fiammeggiante il rosso del nastro che all’estremità le teneva ben

strette.

Il bersagliere saltò fuori da sotto il banco, dove stava

riposando a fianco della cartella. Anche se menomato caricò il

drago . Fu però ferito dal movimento della treccia, fece tra le dita

di Armando, al riparo della schiena di Teresa, due capriole per

aria e si fermò a pochi centimetri dal calamaio, in equilibrio sulla

sola punta del moncone di baionetta, con la base per aria quasi

avesse infilzato il banco.

“ … QUADERNO … QUATTORDICI … QUINDICI

… QUOTIDIANO - quello del dacci oggi il nostro pane - …

QUALUNQUE ben due Q - questa non la scriviamo, impariamo

solo a dirla bene – … QUADRATO … ”. Armando si convinse

che anche la maestra una volta arrivata alla Q aveva difficoltà a

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spiegarsi e che in fondo la Q non interessava nemmeno ai

maestri, era troppo strana.

Riuscì a concentrasi per poco sul rumore che il gesso di

suor Giuseppina faceva sulla lavagna, quasi un

accompagnamento alla sua voce, ma fu di nuovo distratto

dall’energia proveniente da un’altra direzione: sentì due occhi che

guardavano il bersagliere. Il soldatino, al sicuro dalle trecce di

Teresa che nel frattempo erano state portate sul davanti a far

compagnia alla loro padrona, manteneva il suo equilibrio e

Sandro si chiedeva in quale fessura o piccolo buco Armando

l’avesse mai infilato per farlo stare in quella posizione. Lui,

Sandro, fessure o buchi sul suo banco non ne aveva.

La campanella della madre portiera, suor Bianca,

amplificata dalle volte dei corridoi del convento, chiamò alla

ricreazione. Rapidamente Armando ripose il bersagliere nella

cartella, bene in fondo, al posto del pane umido e una spolverata

di zucchero, ma non riuscì a sottrarsi all’ispezione di Sandro.

Prima di fare qualsiasi domanda guardò attentamente il piano del

banco nella zona dove il bersagliere era stato fino a pochi istanti

prima; passò più volte la mano paffuta sulla superficie, inclinò la

testa da una parte per vedere controluce qualche imperfezione

del piano del banco e, finalmente, guardò Armando fisso negli

occhi. Gli offrì, come ormai era solito fare, metà del suo pane

olio e sale in cambio della metà di pane e zucchero. Armando

sentì che quel giorno la loro intesa poteva diventare qualcosa di

diverso da quello che era stato nelle ultime settimane, e avvertì

confusamente che lo scambio andava al di là dei due pezzi di

pane. Ebbe la tentazione di rifiutare, per non condividere con

qualcuno una parte di sé. Poi, non attribuendo quella strana e

fuggevole sensazione a nient’altro che non fosse l’invadenza

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curiosa di Sandro, accettò e, come sempre da quando avevano

iniziato la scuola, cominciarono a rincorrersi tra i banchi urtando

quante più compagne possibile.

Stare assieme a Sandro, da quel giorno, divenne

un’abitudine. Tuttavia tra loro qualcosa rimaneva in sospeso: da

parte di Sandro, una domanda che non veniva fatta per non avere

un rifiuto; da parte di Armando, la sensazione di non poter

ripetere un gesto, che peraltro riteneva normale, davanti a occhi

che non fossero i suoi.

L’oggetto dei loro giochi era sempre la guerra che, ora nella

casa dell’uno, ora nella casa dell’altro, si snodava sempre uguale

tutti i giorni. Sandro aspettava il momento in cui Armando si

sarebbe esibito in quella strana cosa. Armando percepiva

quell’attesa, ma la ignorava. Da una parte era convinto di non

fare nulla di straordinario, dall’altra sentiva che quegli

accadimenti erano suoi e basta.

Un sabato mattina, inaspettatamente, uscirono di scuola

alle undici. Armando era abituato, fin dall’asilo, ad andare e

tornare da scuola da solo. Poca strada lungo la quale tutti lo

conoscevano: i bottegai, i camerieri di bar e ristoranti, il

giornalaio e soprattutto Teresa, la commessa del negozio di

giocattoli. Accanto al portone di casa la farmacia, con i grandi

vasi di vetro e ceramica; subito a sinistra il negozio di giocattoli -

purtroppo chiuso la mattina all’ora di andare a scuola; pochi passi

e, dopo il negozio di alimentari, ancora a destra per una calle

stretta e ventosa; lungo la calle il ciabattino, la pensione, il lattaio,

il salumiere; poi, prima di girare ancora a destra, il fruttivendolo;

quindi il campo da percorrere tenendosi distante dalla puzza del

pisciatoio sistemato nel sottoportico a destra; poi l’asta rossa della

bandiera - mai vista una bandiera su quel pennone; breve sosta

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per decifrare le incomprensibili parole incise sulla pietra alla base

del pennone: “AGLI ARDITI DI VENEZIA CHE SOLO LA MORTE

FERMÒ NELL’ASSALTO”; lo slancio per superare il ponte: su per

il ponte, giù dal ponte e subito a sinistra, la breve fondamenta che

porta al portone e all’odore zuccheroso di scuola che dà il

benvenuto.

Anche quel giorno, come tutti i giorni, appena tornato a

casa, Armando raccontò quello che aveva imparato a scuola

ripetendo al primo adulto che incontrava e seguendolo per casa, a

voce alta, tutto quello che aveva attentamente ascoltato a scuola.

Poi, soddisfatto e in attesa di mangiare, si dedicò a organizzare

una battaglia. Scelse l’angolo tra la zampa di una grande credenza

scura nella sala dove si entrava di rado e la porta della stanza da

letto grande che non veniva mai aperta perché in quella stanza si

entrava dal corridoio dell’ingresso. Aveva appena disposto la

scatola di scarpe nell’angolo a destra del vano della porta,

sistemati sopra la caserma l’alpino, il guerriero medievale, il

porta-feriti e un bastoncino di legno che fungeva da cannone;

dietro lo stipite sinistro della porta era in agguato il pellerossa e

dietro la zampa della credenza un marinaio con le ghette e il

bavero bianco che gli avevano regalato qualche giorno prima,

come premio per un biglietto d’onore d’oro in aritmetica. La

battaglia di quel giorno si svolgeva attorno a una parte del

meccanismo di un orologio da nave in ottone, abbandonato in un

cassetto di casa e considerato da Armando un inestimabile

tesoro. Lo aveva appena messo in equilibrio, in mezzo al campo

di battaglia, su un perno che spuntava dal cuore di una grande

molla, quando dall’Arsenale partì un colpo di cannone. Le grandi

campane del campanile di San Marco cominciarono a suonare il

mezzogiorno: suoni grandi, lenti come se il campanile fosse un

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gigante e il suono delle campane la sua voce. Sovrapposti agli

ultimi rintocchi, proprio sotto casa, nella piazzetta dei Leoncini,

risuonarono tre squilli di tromba.

Nulla come il suono di una tromba aveva il potere di

eccitare di più Armando. Abbandonò la battaglia e di corsa uscì

dalla stanza. Entrò nel salotto e da qui, con la solita fatica perché

la maniglia della porta-finestra era troppo alta e dura da

manovrare, uscì in terrazza. Scansò la gallina che gli si era fatta

incontro aspettandosi del cibo. Appoggiando la mano destra sulla

ringhiera di ferro della terrazza e la sinistra sul coperchio in

lamiera del cassone del carbone costruito sul lato della casa fece,

come era solito fare, quattro balzi e arrivò al parapetto che dava

sulla piazzetta. Spostò vicino al muro del parapetto il vaso di fiori

rovesciato che, all’insaputa di tutti, usava per alzarsi quel tanto

che bastava per afferrare il corrente di ferro fissato sulla pietra, si

issò e piegato in due, con la testa oltre il ferro e la pancia

appoggiata al marmo, vide finalmente l’origine di quel richiamo.

Erano disposti su due file, messi in ordine dai più piccoli ai

più grandi, tutti vestiti uguali. Avevano un cappelluccio con il

fiocco, la camicia, i calzoni corti, i calzettoni, le scarpe, tutto

nero. Avevano un cinturone, e due bandoliere bianche che si

incrociavano sulla schiena. I due più grandi avevano il tamburo

appeso al cinturone e in mano le bacchette per suonarlo. Gli altri

avevano dei piccoli fucili di legno. Un adulto senza bandoliere,

ma con una rivoltella e un manganello legati alla cintura, e la

tromba in mano, stava urlando degli ordini in risposta ai quali

tutti assieme, come se dei fili invisibili li legassero, facevano dei

movimenti pur rimanendo ognuno al suo posto. A un comando

dell’adulto alzarono tutti contemporaneamente il braccio destro

inclinato in avanti, come facevano entrando in classe, e urlarono

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tutti insieme qualcosa che Armando non capì. Erano davanti alla

tomba di Daniele Manin, ultimo doge di Venezia, collocata

all’esterno del transetto della chiesa di San Marco. Il sarcofago di

bronzo era sistemato su uno zoccolo di pietra che sporgeva

all’esterno della pesante cancellata pure di bronzo scuro, quasi

nero. La posizione defilata dalla strada e i vari anfratti di cui era

formato facevano di questo posto un luogo prediletto dai

bambini per i loro giochi. Armando intuì che quelli, però, non

stavano giocando: non poteva essere veramente un gioco se

stavano tutti lì a farsi comandare da un adulto. Lasciando un po’

di spazio attorno ai balilla si erano fermati alcuni passanti. Altri

davano un’occhiata e scuotendo leggermente la testa

proseguivano. Anche i camerieri dei bar sotto casa si

avvicinarono sistemando con la mano destra il tovagliolo a

cavallo dell’avambraccio sinistro piegato. Armando conosceva

quel gesto perché il tovagliolo era l’arma dei camerieri contro i

bambini che giocavano a palla, e lo tenevano lì, come in una

fondina, pronti a colpire. Un altro ordine e tutti assieme si

voltarono, girando tutti dalla stessa parte. In quel momento

Armando vide Sandro. Era il terzo a cominciare dal più piccolo e

si trovava nella fila proprio di fronte a lui.

“Sandro, SANDRO!” gridò con quanto fiato aveva in gola.

Poi, visto che il primo richiamo non aveva avuto effetto, di

nuovo “SANDROOOO”. Niente. Sandro, che conosceva bene

quella terrazza, alzò appena gli occhi tenendo ferma la testa,

sicuro di vedere Armando e decise che per nulla al mondo

avrebbe risposto a quel richiamo perché Armando non gli aveva

rivelato il suo segreto. Nello stesso istante pensò anche che se lo

avesse salutato, in qualche modo, anche a costo di essere

rimproverato dall’adulto, forse Armando…

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“Avanti… marche! Unò, dué, unò dué…”. Appena urlato

il comando cominciarono a rullare i tamburi e seguendo la

cadenza da marcia militare se ne andarono tutti impettiti, Sandro

più impettito di tutti, seguiti dallo sguardo attento di Armando.

Rimase a fissare ancora per un po’ la corona di fiori appesa

all’esterno della tomba “Armando dove sei? vieni è pronto”. Era

ora di mangiare.

Mise in equilibrio sulle punte la forchetta che veniva usata

per rimestare la terra nei vasi. Osservò con attenzione i percorsi

che le file di formiche ordivano lungo gli spigoli dei muri della

terrazza per vedere se c’era qualche novità, rimbalzò per quattro

volte tra il cassone del carbone e la ringhiera e rientrò in casa

indirizzando alla gallina un saluto da pulcino. Era talmente preso

da quello che gli era appena successo che, una volta seduto a

tavola, senza pensarci, prese un bicchiere e lo mise in equilibrio

sul bordo inferiore e vicino mise un cucchiaio dritto, in verticale,

con il manico verso l’alto. “Smettila. Non si gioca in tavola”.

Pasta e fagioli.

Il lunedì mattina, tornando a scuola, Armando aveva

deciso cosa fare con Sandro. Aveva capito, pensandoci e

ripensandoci per quasi due giorni, che effettivamente riuscire a

mettere con sicurezza in equilibrio precario qualsiasi oggetto gli

capitasse per le mani era un grande segreto. Forse, si immaginava,

poteva essere perfino un’arma: uno si mette là, davanti al nemico,

prende una camionetta, la mette in equilibrio sull’angolo in basso

a sinistra del paraurti posteriore; quello, il nemico, sulle prime

non capisce e poi continua a non capire, prende paura perché

non capisce; viene a vedere vicino vicino e tu… zac… lo fai

prigioniero. Più numerosi erano i nemici più grande era la cosa da

mettere in equilibrio: un carro armato, una nave; più grande

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l’oggetto messo in equilibrio, più prigionieri si potevano fare.

La domenica pomeriggio, subito dopo pranzo,

approfittando del riposo degli adulti Armando, per provare le

idee che con molta fatica e tra mille distrazioni tentava di

afferrare, era riuscito a mettere in equilibrio, sullo spigolo della

gamba sinistra, una sedia del salone. A fatica, perché la sedia era

pesante e, per poterla sollevare poggiandola sullo spigolo di una

sola gamba e inclinarla in avanti, aveva dovuto spingerla e

bloccarla su una sporgenza dei piedi del pianoforte. Sì, decise

Armando, era un’arma formidabile; lui solo sapeva come usarla e

quindi doveva rimanere un segreto. Se finiva il segreto, finiva

anche l’efficacia dell’arma.

In più Armando, dopo quel sabato mattina, era stato preso

nei confronti di Sandro da un miscuglio di sentimenti. Invidia per

la sua divisa così uguale a quella di tutti gli altri: avrebbe voluto

averne una uguale anche lui; ne rimase talmente colpito che si

immaginò tutti i bambini con quella divisa in classe, a casa, per

strada. Paura per quel fare le cose tutti assieme come se dei fili

invisibili li obbligassero a fare gli stessi movimenti: per esempio,

come facevano a grattarsi? dovevano farlo tutti assieme?

Avversione per quel lasciarsi comandare da un adulto senza poter

giocare. Con grande disagio, senza riuscire a spiegarsi

chiaramente tutte queste sensazioni che lo confondevano,

Armando aveva messo Sandro dalla parte dei nemici. Peraltro,

Sandro, non avendo capito quello che stava succedendo nella

testa di Armando, mandava segnali di paura. Proprio la reazione

che Armando si aspettava da un nemico.

Da sopra al ponte, prima della breve fondamenta alla fine

della quale c’era il portone della scuola, vide Sandro che veniva

dalla calle di fronte. Arrivati vicini non riuscirono a salutarsi tale

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era l’imbarazzo di entrambi. Si guardarono un po’ di sottecchi e

Armando disse in fretta: “Un segreto che non è più un segreto

non c’è più”. Con questa frase un po’ oscura, era però tutto

quello che in quel momento gli era uscito dalla bocca, si consumò

la loro rottura. Ognuno dalla sua parte, come spesso succedeva in

quegli anni anche a tanti adulti, senza riuscire a spiegarsi fino in

fondo tutti i perché.

Con il passare dei giorni, quasi senza accorgersene,

Armando si trovò isolato dal resto della classe. Non che nessuno

più lo urtasse, oppure gli rivolgesse la parola, giocasse con lui

durante la ricreazione o scambiasse pezzi di merenda. Ma, chi per

un motivo chi per un altro, nessuno andò più a giocare da lui né

tantomeno lo invitò a casa sua. Armando non dava peso a questa

cosa. Del resto di questa situazione si sarebbe accorto solo chi si

fosse messo ad osservare da fuori quello che succedeva nella

classe; ma gli adulti, in quegli anni, con difficoltà dedicavano

attenzioni particolari ai bambini, presi com’erano da problemi

che sovrastavano anche loro. Allora, naturalmente e

apparentemente senza effetti collaterali, Armando sviluppò una

serie di strategie di gioco solitario al centro delle quali collocò la

casa. Un vasto e inesauribile territorio da esplorare. Ogni più

piccola parte della casa offriva qualche cosa. Spazi piccolissimi

dentro ai quali raggomitolarsi e stare immobile fin tanto che non

lo trovavano. Luoghi semibui dai quali organizzare agguati al

gatto o saltare improvvisamente sui piedi di qualche adulto.

Oppure chiudere gli occhi e passare attraverso le stanze senza

toccare nulla, andare da una stanza all’altra senza farsi vedere e

senza farsi sentire ed esplodere nell’urlo-canto.

L’urlo-canto era un incrocio tra cantare note diverse che gli

davano un’intima soddisfazione a sentirle in sequenza e urlarle

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con il tono più alto possibile introducendo, ad un certo punto

anche il massimo di asprezza nel timbro. In casa non era molto

amato per questa sua esibizione. Ma Armando, dentro di sé, era

molto soddisfatto: come se attraverso la voce riuscisse ad

esprimere un’immensa forza che sapeva di non avere nei muscoli.

E si sentiva anche meno solo. Come se quella sua “grande voce”

fosse un’altra cosa da sé che gli teneva compagnia.

L’urlo-canto dava molto fastidio, anche perché non c’era

abituato, ad un adulto che da pochi giorni si era installato in casa:

Gino. Ad Armando dissero di chiamarlo papà.

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la storia di Gino

“In territorio occupato dal nemico dal 9-9-943 all’8-5-945”.

C’è da immaginare l’espressione soddisfatta del burocrate con le

stellette che ha elaborato questa laconica frase. Capolavoro di

diplomazia e di ipocrisia, tenta di nascondere il disfacimento

dell’esercito italiano in patria e negli altri teatri di guerra e il

dramma di migliaia di italiani abbandonati in divisa dai loro stessi

superiori. In realtà Gino dopo pochi giorni dalla fatidica data è a

Venezia nascosto tra casa sua e case di parenti e amici. Appunto,

in territorio occupato dal nemico.

La mattina dell’8 settembre 1943, alcuni minuti prima che i

tedeschi occupino MARISCUOLE di Pola, Gino riesce a lasciare

la caserma coprendo con un dito il timbro sul documento che lo

qualifica come militare insegnante. Gli è andata bene perché è

stato scambiato per un insegnante civile. E’ la caserma dove

insegna ai marinai a sparare con il cannone da bordo delle navi: la

velocità della tua nave, la stima di quella del nemico, la tua rotta e

la stima di quella del nemico; il tipo di cannone e di proiettile; la

traiettoria e quindi l’alzo; il primo tiro lungo, il secondo corto, il

terzo quello buono.

Ha appena sentito nell’aula di radiocomunicazioni il

comunicato di Badoglio. Non parla con nessuno, non si consiglia

con nessuno. Mette l’abito borghese ed esce: l’ufficiale di

picchetto non ha ancora ordini precisi. È già in treno diretto a

Trieste da Pola quando i tedeschi attaccano senza trovare

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nessuna resistenza la caserma della Regia Marina Italiana e si

apprestano a spedire tutti in Germania assieme ad altri

seicentomila ramazzati in mezza Europa.

Arrivato a Trieste non riesce ad andare oltre con il treno, i

controlli per chi si allontana da Trieste sono già diventati molto

rigidi. Più facile uscire dalla stazione. Decide di andare al porto,

nell’unico posto dove un uomo di mare si sente se non proprio al

sicuro almeno protetto. C’è l’ufficio di un’agenzia di spedizioni in

cui lavora un amico che gli dice di un cargo, in partenza per

Venezia la mattina dopo, dove è imbarcato barba Bepin. Con la

complicità del nostromo - barba, cioè zio, è l’appellativo in uso a

bordo per chiamare i nostromi dalmati -, con il quale ha già

navigato, e che incrocerà negli equipaggi delle navi sotto il suo

comando per molti anni, sale a bordo e viene nascosto in uno dei

tanti recessi misteriosi di una nave. Tira un sospiro di sollievo

solo quando comincia a sentire le vibrazioni del motore che si

propagano attraverso le paratie. Arrivato a Venezia aspetta la

notte. A bordo sono rimasti in pochi. Barba Bepin ha trovato,

con l’aiuto di uno scaricatore, una barca che lo viene a prelevare.

Alla sera è a casa. Lo avevano già dato per disperso o prigioniero

in Germania. “El paron, xe rivà el paron!” così Lisetta comunica il

suo ritorno alle donne di casa esterrefatte. Si mettono a piangere

dalla gioia. “ ’Ste stupide le pianze invece de rider”. Così finisce la

guerra di Gino, ma si dovrà ancora nascondere dalle ricerche

della polizia militare della Repubblica Sociale Italiana. Non ne

può più dei militari. Non ne vuole più sapere.

Ancora molti anni dopo continua a maledire i militari e la

Marina Militare. Quando gli arriva la promozione a tenente di

vascello, ha già passato in mare più di quindici anni della sua vita,

prende le carte e le rispedisce al mittente rifiutando la nomina.

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Cavaliere del Regno. Il titolo si tramuta dopo molti anni in

Cavaliere della Repubblica. Trova tutto ciò ridicolo e ci scherza

sopra. Gli hanno dato quel titolo perché il piroscafo “Luciano”,

sotto il suo comando, è l’ultima nave a rientrare in Italia

attraversando lo stretto di Gibilterra dopo la dichiarazione di

guerra.

Gino ha già navigato sul “Luciano” un mese prima: due

viaggi da Philippeville, l’odierna Skikda algerina, a Genova prima

di essere richiamato per un breve periodo dalla Regia Marina che

si sta preparando per la guerra. Poi via di nuovo: parte in treno da

Venezia l’11 maggio. L’ultimo viaggio del “Luciano” comincia a

Cardiff il 16 maggio. In porto, prima di caricare il carbone,

vengono effettuate alcune riparazioni e Gino ne approfitta per

completare il carico di cibo e acqua: vuole essere pronto a salpare

in qualsiasi momento. L’armatore gli ha dato carta bianca: se si

trova in difficoltà, il primo obiettivo e riportare la nave in Italia.

Se salva la nave ci sarà da guadagnare con i trasporti diretti ai vari

fronti.

Nei giorni in cui la nave è ferma a Cardiff ordina al

radiotelegrafista di rimanere incollato agli strumenti e di

raccogliere dall’aria tutte le informazioni possibili. Al minimo

segnale che possa essere interpretato come l’inizio della guerra

deve avvertirlo immediatamente. Ascoltando la radio si ha la

sensazione che la tensione stia crescendo. E’ inquieto e, come

spesso gli succede, si incupisce. E’ abituato a tenersi tutto dentro

da quando, a vent’anni, la morte del padre e del fratello maggiore

gli hanno assegnato responsabilità troppo grandi per la sua età.

La mancanza di notizie certe lo mette di cattivo umore: la

interpreta come un segno di quiete prima della tempesta. Alla

fine del turno di lavoro pomeridiano del 7 giugno rompe gli

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indugi e decide di partire. Sospende le operazioni di carico, dà ai

suoi ufficiali ordini rapidi e secchi, di quelli che non ammettono

replica, di approntare la nave per la partenza. Va a terra, firma le

carte relative al carico non completato e ottiene dalle autorità

portuali di partire all’una di notte del giorno successivo. Si sente

più sicuro in mare dove la sua angoscia viene sempre sciolta dalla

concentrazione necessaria per elaborare istantaneamente le

informazioni che vengono dalla natura, dagli uomini e dalla radio

di bordo. Se dovesse succedere qualcosa si troverà comunque in

mare, oscurerà la nave e proverà ad allontanarsi quanto più

possibile dalla Gran Bretagna.

Si annuncia tempo buono quando molla gli ormeggi e

prende il largo guidato dal rimorchiatore. E’ una notte senza luna.

La situazione più propizia per lasciare che le vibrazioni della nave

gli entrino dentro attraverso le parti del corpo a contatto diretto

con lo scafo: dai piedi, dalla schiena o da una mano appoggiata

alla murata, dal gomito sul tavolo di carteggio. Lasciato dal

rimorchiatore, Gino manovra per seguire la rotta dell’asse del

canale di Bristol: si vuole tenere il più lontano possibile dalle due

coste. Il radiotelegrafista non molla la radio per un istante.

Appena in rotta sull’asse del canale comunica a Genova la

partenza. Per cinque volte, ogni tre minuti, senza aspettare

risposta. Poi, nonostante le proteste del suo secondo, starà in

silenzio radio per giorni, fin quando avrà portato la nave ben

dentro il Mediterraneo. Parlerà in continuazione solo con se

stesso. Per controllare la bontà della rotta. Per orientare le

reazioni dell’equipaggio agli ordini. Per fissare nella memoria gli

snodi di una storia che non sarebbe mai riuscito a raccontare a

nessuno.

Ha deciso di allungare la rotta. Vuole evitare un eventuale

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blocco all’imbocco della Manica che sicuramente sarebbe scattato

subito dopo la dichiarazione di guerra. Meglio essere in mare

aperto in pieno giorno; esce dal canale di Cardiff dopo circa dieci

ore di navigazione e decide per una rotta di 265° verso ovest. Poi

a sud, il più rapidamente possibile, per non incontrare i

sommergibili alleati e tedeschi che pattugliano l’ingresso al Canale

della Manica. Superato questo primo possibile ostacolo passa al

secondo la nuova rotta e finalmente va a riposare convinto di

aver fatto la scelta giusta. Alla radio si danno il cambio il

radiotelegrafista e il primo ufficiale. La mattina successiva

incrocia un cargo inglese diretto verso il canale della Manica e sul

pelo dell’orizzonte, a circa 12 miglia, vede apparire e scomparire

la sagoma inconfondibile di un sommergibile che lo tiene in

apprensione per un paio d’ore. Dal sommergibile non li degnano

nemmeno di uno sguardo.

A bordo del “Luciano” si lavora sodo: la nave è

leggermente improdata e inclinata di un paio di gradi a babordo

perché il carico è stato sistemato male per la fretta di salpare.

Decide di ristabilire l’assetto della nave e si libera di una parte del

carico di carbone buttandolo in mare. Fa in modo però di non

alleggerirla troppo, per non ballare in caso di mare duro. Fra

l’altro, in questo modo aumenterà la velocità media di crociera.

Fa aprire le stive: una parte dell’equipaggio scende con le pale per

riempire di carbone dei grandi teloni che vengono issati con i

verricelli di bordo, virati fuori bordo e svuotati in mare. Il lavoro

è lento e faticoso. Hanno solamente due teloni e otto pale: quelle

che servono a spalare la sabbia in caso di incendio. A turni di due

ore lavorano in quattordici per turno dandosi il cambio ogni

mezz’ora: otto con le pale, due ai teloni e due per ogni verricello.

Lavorano così per trentadue ore di fila, di notte quasi al buio

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spegnendo le luci delle stive prima di aprire i portelloni. Un paio

di volte vengono sorvolati da aerei militari inglesi in volo ad alta

quota.

La notte del 9 giugno Gino prolunga il suo turno di

comando oltre la mezzanotte. Vuole fare il punto nave ed

eventualmente, se sono dove pensa, decidere per il cambiamento

di rotta. E’ circa l’una del 10 giugno quando, prima di andare a

dormire, ordina la nuova rotta: 180°, a sud, allineati all’incirca sul

10° meridiano ad ovest di Greenvich. Il “Luciano”, alleggerito di

una parte del carico, viaggia a una velocità di 12-13 nodi. I venti

meridionali, in questa stagione, non hanno ancora la forza che

acquistano in autunno e quindi non frenano la nave.

Il pomeriggio di quello stesso giorno la radio annuncia lo

scoppio della guerra.

La notizia, diventa immediatamente il centro dei pensieri e

delle chiacchere dell’intero equipaggio. Il loro parlare riduce la

devastante portata della guerra ai loro affetti, alle famiglie, al loro

tentativo di rientrare in Italia, agli amici in divisa. La notizia della

guerra viene accolta dall’equipaggio quasi con rassegnazione,

fatto salvo l’entusiasmo del secondo ufficiale che è

dichiaratamente fascista. A Cardiff Gino ha incontrato un amico

comandante che gli ha confessato l’intenzione di attendere in

porto la dichiarazione di guerra per essere fatto prigioniero

assieme all’equipaggio e chiamarsi fuori dagli orrori della guerra.

I pensieri di tutti si concentrano rapidamente su un solo

punto: hanno davanti circa quattro giorni di navigazione per

preparasi ad affrontare il passaggio dello stretto di Gibilterra. Se

non va, finiranno tutti prigionieri per l’intera durata della guerra.

Anche questa può essere una soluzione. Oppure dovranno

affrontare una nave da guerra nemica o peggio un sommergibile:

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ma questa alternativa rimane chiusa nella testa di ognuno e fa sì

che tutti si concentrino sul lavoro e sui segnali che provengono

dal mare, dal cielo e dalla radio. Gino non è un eroe e nella scelta

di provare a tornare è un po’ spinto dall’orgoglio di portare a casa

la nave, un po’ dal gusto di sfidare la Marina britannica, un po’

dalla responsabilità che sente verso la sua famiglia e l’equipaggio,

quasi una seconda famiglia. La decisione Gino l’ha presa con il

consenso pieno degli ufficiali. In ogni caso sono tutti d’accordo,

anche il fascista, di arrendersi al primo colpo di cannone sparato

contro.

Una volta in mare Gino ha parlato con gli ufficiali, ben

sapendo che nel giro di pochi minuti il quadro della situazione

sarebbe stato noto anche al mozzo di cucina. Proprio

quest’ultimo, presentandosi nella sua cabina con la scusa di

rassettarla o per portargli la biancheria stirata, gli avrebbe fatto

capire che le comunicazioni fatte agli ufficiali avevano fatto il giro

completo dell’equipaggio. Con poche parole le avrebbe corrette e

le correzioni avrebbero risalito la scala gerarchica fino al

nostromo. Poche frasi con il nostromo e il cerchio si sarebbe

chiuso. Se qualcuno non fosse stato d’accordo lo si sarebbe

saputo all’istante, così come si poteva controllare con certezza

che tutti avessero capito chiaramente quello che li aspettava.

Gino sa che Gibilterra è stata informata di una nave

italiana proveniente da Cardiff. Di conseguenza immagina che le

rotte provenienti da nord saranno quelle più vigilate. Decide

allora di confondere la sua provenienza passando lo stretto di

Gibilterra da sud ovest come se stesse arrivando dal sud America.

Le notizie che raccolgono non sono rassicuranti: il giorno 12

dalla radio costantemente presidiata captano il segnale che un

cargo italiano trasmette poco prima di essere bloccato dalla

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Marina britannica proprio a nord dell’imbocco dello stretto di

Gibilterra.

Comincia a fare calcoli per trovarsi nel punto più stretto

del canale fra l’una e le quattro del mattino. Intanto a bordo,

sotto la guida del nostromo, l’equipaggio è impegnato a dipingere

di nero tutta la nave compreso il nome a poppa e a prua e

l’insegna dell’armatore: due onde bianche che avvolgono la

ciminiera nera. Il giorno 13 deve ridurre la velocità per non

trovarsi in anticipo nel punto stabilito e accoglie con

soddisfazione l’annuncio di una perturbazione in arrivo nella

zona: non è frequente in questa stagione. Nello stesso giorno, a

pomeriggio inoltrato, incrocia a una decina di miglia un cargo

americano in rotta per attraversare l’Atlantico e due ore dopo,

quasi al buio, un cargo olandese diretto a nord. I colleghi

americano e olandese passano senza dedicargli particolari

attenzioni. Del resto non sono ancora coinvolti nella guerra e la

solidarietà tra uomini di mare lo convince che non hanno

comunicato a nessuno il loro incontro. Infatti, per fortuna, né per

radio né a vista – in contro plancia sono in due a controllare

l’intero orizzonte armati di binocoli giorno e notte – avvistano

navi militari o sentono rumori di aerei.

A mezzanotte esatta del 14 giugno, dopo aver sorpassato di

un bel po’ di miglia l’asse del canale di Gibilterra, abbandona il

10° meridiano ovest e mette la nave in rotta per 65°. A 12 nodi

ha un giorno di navigazione davanti prima di affrontare la parte

più stretta del canale. Vento e mare hanno rinforzato e gli

sgombrano la strada: può cominciare ad accostare alla costa

dell’Africa senza incrociare pescherecci o altre piccole

imbarcazioni che con questo tempo non rischiano di mettersi in

mare. Verso sera la situazione peggiora, le nuvole si fanno più

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basse. Le condizioni del tempo sembrano assecondare le

intenzioni di Gino. Comincia il momento più difficile del viaggio.

Chi sa pregare prega senza farsi vedere. Esclusi i macchinisti di

turno sono tutti fuori, appoggiati alle murate, incuranti del

pulviscolo d’acqua che le raffiche di vento scaraventa in coperta,

pronti ad eseguire qualsiasi manovra nel più breve tempo

possibile.

Gino, in piedi accanto alla porta della sala carteggio, alle

spalle del timoniere di turno, accosta il più possibile alla costa

africana. Macchine a mezza forza, poi al minimo per fare meno

rumore possibile e non lasciare scia in mare. Due nodi e

quaranta, cinquanta metri di mare sotto: sono a non più di due o

tre miglia dalla costa e nonostante la brutta nottata vedono

baluginare da terra alcune luci. Il “Luciano” ha anche le luci di

posizione spente. In plancia la sala carteggio è stata oscurata

completamente e così tutti gli oblò. In coperta è vietato fumare.

Non si vede una stella. È di quelle notti nelle quali il nero del

mare e il nero del cielo si confondono e assieme sono come un

enorme buco nel quale il “Luciano” si tuffa come dentro ad un

tunnel. L’ora e la nottata non favoriscono chi sorveglia lo stretto.

È anche probabile che le routines militari per il controllo non

siano ancora del tutto operative.

Inizia il passaggio del punto più stretto del canale alle due

di mattina del 15 giugno e ne esce alle quattro. E’ ancora buio.

Nessuno si è mosso dal suo posto. Il cuoco e il mozzo di cucina

hanno lavorato tutta la notte a preparare caffè e a quell’ora

sfornano la pizza genovese, quella alta con i grani di sale grosso

incistati nella crosta assieme al rosmarino.

Il “Luciano” può allontanarsi dalla costa. “Macchine avanti

tutta”. Un uomo proveniente da prua arriva correndo trafelato in

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plancia: a trenta, quaranta metri dalla nave hanno visto uno

strano movimento. Per un istante tutti temono il peggio.

Sporgendosi a babordo Gino vede un branco di cinquanta,

sessanta delfini che, come spesso succede, accolgono e scortano

le navi che passano da una parte all’altra dello stretto di

Gibilterra. Con un gesto quasi involontario li saluta.

Si stacca dalla costa dell’Africa, rotta su Alboran. Sa, dalla

radio, che due caccia italiani incrociano attorno all’isola per

proteggere le navi che riescono a forzare il blocco di Gibilterra.

Rimane in plancia finché non vede a una dozzina di miglia, verso

est, i segnali luminosi di uno dei due caccia. Spunta dalle nuvole

un aereo inglese quando a bordo stanno già ripulendo il nome e

le insegne sulla ciminiera. Se è un aereo silurante può essere la

fine, peggio che esser fatti prigionieri… La paura passa quando

dalla plancia Gino, dopo aver attentamente esaminato l’aereo con

il binocolo, annuncia con il megafono che non ha siluri attaccati

sotto alle ali. E’ solo un ricognitore. Ha imparato a riconoscere le

sagome degli aerei nelle ultime settimane fatte da militare prima

di riprendere il comando del “Luciano”.

Finalmente può comunicare la sua posizione all’armatore e

sa che questa notizia farà il giro dell’Italia in risposta alle ansie

delle famiglie dell’equipaggio. Per festeggiare la riuscita

dell’impresa si accende finalmente una sigaretta il cui desiderio –

è un accanito fumatore – lo ha ciclicamente assalito nel corso

della nottata. Ma l’ordine per tutti era di non fumare.

E’ finita una di quelle giornate nelle quali i marinai

invecchiano più rapidamente di quelli che passano lo stesso

tempo a terra.

Pochi mesi dopo viene arruolato per comandare i trasporti

diretti in Africa. Partono da Taranto, da Brindisi o da Napoli. Al

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momento dell’imbarco la destinazione è sconosciuta. Il plico

sigillato con la destinazione, la rotta da seguire e la posizione da

tenere nel convoglio – scortato da una nave militare, in genere

non più di una corvetta – viene aperto dopo un certo numero di

ore di navigazione. Questi ordini gli sembrano sempre insensati:

tutti in fila a una certa distanza uno dall’altro, pronti per essere

silurati dai sommergibili nemici che li aspettano al varco. Con

rapide comunicazioni tra i vari comandanti delle altre navi del

convoglio ogni volta decidono altrimenti. Nonostante tutte le

precauzioni per due volte una nave viene silurata. Per fortuna

non la sua.

Di giornate come queste Gino durante la guerra ne passa

molte. Altre ne passerà anche a guerra finta collezionando venti

anni, tre mesi e ventun giorni di mare, un terzo della sua vita fino

al momento di andare in pensione. Il primo viaggio, da mozzo,

negli Stati Uniti, nel 1919, sedici anni, tra andata e ritorno otto

mesi e ventisei giorni, doveva essere solo la punizione per una

bocciatura a scuola. E’ diventata la sua vita.

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inverno 1943 - primavera 1944 Molti anni dopo, durante i giorni della grande acqua alta

del 1966 Armando ebbe una febbre altissima. Stando a letto

percepì la sovrapposizione dei suoni della pioggia battente,

continua, che cadeva nell’acqua e dello sciabordio dell’acqua che

veniva smossa dalle ruote del carro del ghiaccio che trasportava

tra due punti asciutti le poche persone che, in quei giorni, si

avventuravano in strada. L’acqua uscendo dai canali aveva invaso

gran parte di Venezia. Lo scirocco intenso aveva impedito alla

marea di defluire dalla laguna; alla prima marea se n’era aggiunta

un’altra proveniente dal mare e un’altra ancora si era aggiunta

proveniente dal cielo. I suoni e i rumori dentro alla città avevano

assunto una specie di riflesso metallico, l’acqua li faceva

rimbalzare in modo inusuale su per i muri delle case, fin dentro le

finestre. Farneticando, come da sempre gli succedeva quando

aveva la febbre molto alta, avvisò in casa che l’acqua sarebbe

salita fino al primo piano e che tanto valeva mettersi tutti a letto

in attesa di essere definitivamente sommersi perché non c’era più

niente da fare.

Poche settimane prima, senza parlarne con nessuno, aveva

deciso di andarsene da Venezia. La città gli sembrava un corpo in

disfacimento e pensava che l’unica soluzione fosse di vendere

tutto alla Coca Cola. Aveva immaginato anche i costumi da far

indossare agli abitanti e le babbucce da dispensare ai turisti per

consumarla un po’ meno.

Una delle iniziative prese dopo quella storica acqua alta,

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utile soprattutto per i commercianti diventati i veri padroni della

città, fu quella di installare delle sirene che a qualsiasi ora del

giorno e della notte avrebbero suonato quando la previsione della

marea avesse superato certi valori. Qualche anno dopo, tornato a

Venezia, fu svegliato verso le quattro di mattina, dal lugubre

ululato di una sirena, potente, vicinissima. Immediatamente a

questa se ne aggiunse un’altra e un’altra ancora…

Bisognava sbrigarsi. Armando si preoccupò come al solito

di due sole cose. La coperta giallo grigia di lana con il bordo di

raso rosa e il pinocchio. La coperta, indispensabile per

addormentarsi, la trovò subito allungando la mano al buio. Il

pinocchio aveva imparato ad adagiarlo sopra il mucchio di vestiti

che abbandonava ogni sera vicino al divano dove dormiva. Bastò

scendere e lo ebbe tra i piedi. La coperta gli serviva, nel senso che

non ne poteva fare assolutamente a meno, per strofinarne il

bordo di raso tra il naso e il labbro superiore; con metodo,

leggerezza e senza fretta per controllare i momenti di maggiore

paura, come erano quelli che precedevano il sonno. Il pinocchio

per Armando non era ancora Pinocchio delle bugie, del naso

lungo, della balena; serviva per giocarci e difendersi dalle paure

del giorno. Aveva gli occhi vispi del burattino furbo, il naso

lungo ma non moltissimo, girava la testa, aveva gambe e braccia

snodate e un bel sorriso stampato in faccia.

La sirena continuava a ululare a intervalli regolari e l’effetto

più immediato del suo lugubre suono era la paura degli adulti. Ad

Armando sembrava di toccarla quando li vedeva colti

dall’incertezza sulle cose da fare e allora si avvicinava cauto e li

prendeva per mano. Non provava paura per sé ma soprattutto

per loro che della paura erano l’origine. Cominciavano a

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confondersi, a non decidere cosa fare: stare a casa, andare in

rifugio, in mezzo alla piazza, oppure tentare di entrare nella

chiesa di San Marco imbacuccata sotto i sacchi di sabbia. Usciti

da casa si accorgevano sempre di aver dimenticato qualcosa; la

candela, la bottiglia dell’acqua, un pezzo di pane, una maglia in

più, un paio di calzettoni per proteggersi dal freddo, il cuscino

per appoggiarsi al muro di cemento del rifugio. Tutto ciò

aggiungeva ansia e disagio alla paura mentre le sirene, una volta

usciti, si sentivano molto più forte e oltre il profilo dell’ala

napoleonica, in fondo alla piazza, si espandevano i bagliori delle

bombe che cadevano su porto Marghera e con un attimo di

ritardo arrivava, ovattato, il rumore dello scoppio.

Armando, di suo, aveva così poca paura che avrebbe

voluto sentire quel rumore avvicinarsi sempre di più. Fino a

veder le bombe scoppiare vicine. Belle, come lui le immaginava,

gialle e rosse, e tutto che volava in pezzi per aria. Invece dentro il

rifugio i rumori di fuori erano attutiti, erano dei tonfi lontani che

non potevano far paura. Quando diventavano più vicini e più

affrettati tutti dicevano “È Pippo! È tornato Pippo!”. Pippo era

un pilota austriaco della prima guerra mondiale che attaccava le

retrovie italiane, forse innamorato di Venezia, dove veniva a fare

delle esibizioni spezzonando qualche barca in laguna. Ad

Armando sarebbe piaciuto incontrare Pippo. Per lui era uno dei

personaggi del rifugio: forse quel signore alto, elegante e

compassato con i capelli grigi e gli occhiali che arrivava sempre

per ultimo e se ne stava in piedi vicino all’ingresso, pronto a

uscire per primo.

Come al solito Armando arrivò al rifugio nella concitazione

generale: chi chiamava a voce alta nomi, chi perdeva qualcosa per

strada, chi si perdeva e veniva preso per mano: bisognava

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attraversare tutta la piazza, passare davanti all’incastellatura di

legno addossata alla chiesa di San Marco, percorrere per lungo la

piazza verso il bacino, girare verso sinistra, passare davanti alla

facciata corta di Palazzo Ducale, fare il ponte della Paglia e

arrivare al rifugio. Per strada c’era sempre qualcuno che,

approfittando del buio, malediva la guerra, pensava che fare tutta

quella strada era inutile e rischioso, che tanto valeva stare in casa,

che se uno doveva morire almeno moriva nel suo letto. C’era chi

gridava e correva e travolgeva tutto e tutti pur di entrare prima

possibile nel rifugio, la cui sagoma scura emergeva sempre più

vicina poco oltre il ponte.

Il rifugio era un tunnel di cemento armato con un solo

ingresso e due sedili sempre di cemento lungo i lati. Per

costruirlo avevano tolto i masegni da terra e a vederlo da fuori era

come una piccola montagnola sulla quale i bambini avrebbero

continuato a giocare anche dopo la fine della guerra, fino alla sua

demolizione. Il contatto con il terreno nudo procurava ad

Armando una sensazione particolare perché quello era, a sua

conoscenza, il solo luogo dove poteva toccarlo. Immaginava che

tutto quello che vedeva, le strade, l’acqua dei canali, le case, le

chiese, fosse la pelle della terra e, che se avesse scavato sotto i

pavimenti di casa o dentro ai muri avrebbe trovato il terreno:

bruno e umido come quello del rifugio, che bastava passare un

po’ con il piede e diventava liscio e lucente. Le formiche che

abitavano nel parapetto della terrazza venivano sicuramente dal

terreno che arrivava fin dentro al muro di casa.

Armando era molto contento di andare al rifugio perché

aveva la sensazione, ogni volta, di entrare dentro la terra, di

esserne inghiottito e tenuto nascosto, al sicuro in un luogo antico,

dove fantasticava di scavare e di penetrare sempre più a fondo,

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sempre più lontano dalla superficie.

Non aveva ancora messo in relazione il terreno con le

piante, gli alberi e l’erba. La prima volta che lo portarono a

sant’Elena, dove esistevano rimasugli di vegetazione con erba e

alberi, ne fu sorpreso e turbato: i fili d’erba agitati dal vento gli

sembravano animaletti verdi con la testa all’ingiù che muovevano

in continuazione la coda e le gambe. Per paura di calpestarli non

ne volle sapere di scendere dalla panchina sulla quale si era

rapidamente rifugiato.

Ogni volta che entrava nel rifugio Armando si godeva per

un tempo che gli pareva lunghissimo il brulichio di questo

impasto oscuro di sagome, voci, luci qui e là baluginanti, odori,

rumori di dentro e rumori di fuori che lentamente prendevano

una forma, si acquietavano e diventavano come un unico

complicato animale che lentamente si sistemava dentro la sua

tana. Anche quella notte era successa la stessa cosa. Lui aveva la

sua coperta e il suo pinocchio e tutto era come le altre volte: le

solite proteste contro qualcuno che fumava e il bagliore dei

fiammiferi che accendevano le sigarette, il bisbigliare sommesso

di chi non riusciva a dormire e qualche risata e pianto di

bambino, o anche di adulti, qualche protesta ad alta voce, il

baluginare di una candela di chi tentava di leggere un libro,

l’odore del vino o della grappa o del surrogato di caffè che i più

previdenti si erano portati per consolarsi, per vincere la paura e il

sonno.

In fondo al rifugio, dietro al muro che non arrivava alla

volta, era sistemata una latrina. La fretta e gli spintoni delle

persone per entrare erano dovuti anche al desiderio di occupare i

posti più vicino possibile alla porta di entrata e quindi più lontani

dalla latrina. Almeno ogni mezz’ora il responsabile del rifugio,

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dopo aver ordinato di spegnere tutte le candele, le lampade a

carburo e le sigarette, apriva per far cambiare l’aria. La puzza

infatti era sicuramente la presenza più ingombrante del rifugio.

Armando si era convinto che quella doveva essere la puzza della

paura di tante persone messe insieme. Aveva un non so che di

oleoso, era come uno strato verdastro e viscido che avvolgeva

oggetti e persone, che appannava la vista e prendeva alla gola.

Molti respiravano in fretta, sempre più in fretta come se stessero

soffocando.

Una notte Armando, appena qualche lampada a carburo o

candela o fiammifero dava luce a qualcosa, cominciò a fissarsi in

mente l’immagine momentaneamente rischiarata come se

riuscisse a catturare un solo fotogramma di un film senza capo né

coda. Molti anni dopo si sarebbe ricordato di quella notte

nell’assistere all’esibizione di un gruppo teatrale d’avanguardia

che dal palcoscenico gli faceva rivivere un’analoga suggestione.

Armando cominciò a smontare gli adulti nei piccoli pezzi di

corpo che riusciva ad afferrare nel breve volgere di un bagliore.

Una bocca di donna, una grande mano con il guanto di lana, un

orecchio, un naso illuminato da sotto, un ginocchio, il piede nudo

di qualcuno che aveva perduta la ciabatta per strada, due occhi

che all’improvviso sentiva fissati su di sé. Poi il doppio mento

della signora grassa di fronte, l’orecchio pieno di pelo del

responsabile del rifugio, le unghie colorate dell’anziana signora

entrata per ultima, la testa rosa e lucida del lattaio, i baffi bianchi

del signore che vendeva frutta caramellata dentro la vetrinetta

portatile…

Portava la vetrinetta infilata nel braccio sinistro, per il

manico del coperchio di vetro fissato alla scatola anch’essa di

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vetro. Il manico aveva la forma di una G coricata con la gobba

sopra; nella parte alta infilava il braccio e nella mano teneva un

treppiede fatto di tre aste argentate collegate da un perno e da tre

catenelle che servivano a mantenere aperto il treppiede all’altezza

dovuta. Quando qualcuno chiedeva un caramello il signore con i

baffi bianchi, con un solo gesto, apriva il treppiede e vi

appoggiava sopra la scatola e con la mano sinistra liberata dal

treppiede, apriva la sua cassaforte. Essendo trasparente il cliente

aveva avuto tutto il tempo di decidere cosa comprare; tuttavia,

all’apertura della vetrinetta, il profumo dello zucchero

caramellato che ne usciva era così intenso e piacevole da

rimettere in discussione per un attimo ancora la scelta. Uva, uva

passita grande, prugne nere e verdi, albicocche, datteri, fette di

mela, fragole di bosco, spicchi di pera: tutto era in ordine, ogni

frutto infilato assieme ai suoi simili in bastoncini di bambù fatti a

mano lunghi una ventina di centimetri e ogni frutto luccicava

sotto lo spessore dello zucchero che ne abbruniva un po’ il

colore. Qualche volta c’erano anche dei bastoncini con la frutta

mista e delle tavolette di croccante di mandorle. Con la mano

destra prendeva un pezzetto di carta oleata da un’apposita tasca

metallica fissata alla scatola e così porgeva il caramello desiderato,

senza sporcarsi le mani. Con la sinistra incassava i soldi

riponendoli in una tasca di pelle fissata alla cintura dei calzoni,

sotto alla giacca.

Provando a chiudere gli occhi Armando si accorse di poter

archiviare ogni frammento di corpo che gli appariva. Di poterlo

vedere all’interno dei suoi occhi, come sullo sfondo di uno

schermo nero, in attesa di riaprirli e rubare un altro pezzo

all’oscurità. Fissava il buio in attesa che comparisse un

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frammento di corpo con le mani attorno agli occhi, in modo che

nessuno potesse accorgersi di quello che stava rubando.

Immaginò di custodirli tutti in una grande scatola di legno e di

metterla in una buca profonda scavata nel pavimento del rifugio.

Poi di ricoprirla con la terra e aspettare. Forse sarebbe nato

l’albero dei nasi, l’albero degli occhi, delle ginocchia, delle mani,

delle orecchie. Chissà.

Da quella sera scappare in rifugio divenne per Armando

uno dei giochi preferiti per molti motivi. Sentiva di partecipare

alla guerra, quasi come un soldato in battaglia, poi c’era la gioia di

calpestare la terra e di esserne accolto, e poi raccoglieva pezzi di

persona e con il favore della semi oscurità del rifugio ricostruiva a

suo piacimento un mondo fantastico.

Qualche volta tuttavia la paura e l’angoscia degli adulti

erano talmente forti da diventare come uno schermo

impermeabile anche alla fantasia di Armando. Piangevano,

pregavano, litigavano: la loro paura era come la marea che saliva

in laguna, quando l’acqua si intrufolava dappertutto, fuori e

dentro le persone.

Una notte si concentrò sulle bocche e per la prima volta si

accorse che quelle delle donne erano diverse da quelle degli

uomini. Più carnose e sporgenti quelle delle donne, più stirate

quelle degli uomini. Registrò anche che da vecchi, uomini o

donne, le bocche si assomigliavano di più. Però erano tutte una

differente dall’altra. Quante bocche c’erano al mondo? E se tutte

assieme, proprio nello stesso istante, avessero emesso un:

“Aaahh?”. Oppure avessero detto: “No!”. “Altro che bombe”

pensò Armando. E si dedicò a vedere come erano fatte. Nella sua

testa si era costruito una specie di archetipo di bocca fatto di due

labbra. Cominciò con il fargli fare le boccacce, poi le smorfie. Poi

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si dedicò a mescolare il labbro superiore di una persona con

quello inferiore di un’altra. Finché la bocca non divenne qualcosa

di mostruoso.

Aveva imparato a isolare i pezzi del corpo degli adulti

anche fuori dal rifugio. A scuola piantava gli occhi sulla bocca di

suor Giuseppina che spiegava la lezione. A un certo momento lei

lo vedeva ridere, ridere, ma non riusciva a farsi spiegare il perché.

Il fatto era che la bocca di suor Giuseppina, presa per conto suo,

sembrava un animaletto che faceva strani movimenti, quasi

volesse scapparle via dalla faccia. Armando rideva a crepapelle

perché immaginava la faccia di suor Giuseppina senza bocca e la

bocca che, fuggita in un angolo della classe, parlava per conto

suo.

Era inevitabile che i primi disegni di Armando riflettessero

l’instabile mosaico di pezzi attraverso il quale percepiva il mondo

che lo circondava. Occhi, bocche, nasi, piedi, orecchie, dita,

unghie se ne andavano per conto loro: una faccia aveva solo tante

bocche e un corpo poteva essere fatto di pance; i piedi

camminavano da soli e gli occhi spuntavano al posto delle

unghie. Accadeva anche che i frammenti si scambiassero i colori:

bocche azzurre e occhi rossi, nasi gialli e pelli verdi. L’altra faccia

di quanto veniva percepito come disordine o fantasia dagli adulti

era racchiuso per Armando nella scatola dei colori Giotto: un

piccolo universo.

Il segnalibri che si trovava nella scatola da dodici colori era

un oggetto che Armando non avrebbe mai dimenticato.

L’immagine, che ripeteva quella della scatola, era racchiusa da un

bordo bianco, a sua volta circondato da un ulteriore bordo fatto

di rombi e di triangoli colorati, quasi fosse un lembo del vestito

di Arlecchino. Sotto un albero il pastorello Giotto - si capiva che

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era un pastorello perché attorno a lui pascolavano alcune pecore -

su una bella pietra bianca e liscia, tracciava a mano libera il suo

cerchio perfetto, sotto lo sguardo attento e compiaciuto di

Cimabue, che passava da lì per caso. La spiegazione data da suor

Giuseppina aveva impressionato molto Armando. Spesso - non

su una pietra, ma su tutti i fogli di carta che trovava in giro per

casa - provava e riprovava la O di Giotto. Come se avesse capito

che quell’unico segno, fatto con assoluta precisione,

rappresentava una regola fondamentale per diventare pittore. Il

pensiero della O di Giotto lo riportava a casa, davanti al quadro

dell’Arlecchino in piedi su un ponte di Venezia, che con la mano

guantata di bianco teneva sollevata davanti al viso mascherato

una gabbia con un canarino. Il pollice e l’indice che reggevano la

gabbia formavano un cerchio perfetto.

Il ricordo di Mario il pittore, che gli aveva regalato la

scatola di colori e che per Armando era anche l’autore del

quadro, chiudeva il percorso del suo vagare con il pensiero, per

tenere a bada la paura e aspettare il momento in cui la ripetizione

dell’ululato delle sirene avrebbe segnalato la fine dell’allarme.

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la storia di Mario

Mario aveva capito da almeno una decina di giorni che da

quella situazione non ne sarebbero usciti tanto facilmente.

Cinque mesi prima, in una tersa mattina di aprile, quando

l’Adriatico può ancora essere sferzato dal vento freddo e teso di

nord–est, li hanno sbarcati a Durazzo, con un trasporto truppe

salpato da Bari. Prima di partire la destinazione in Albania era

sembrata a tutto il reparto una passeggiata. Dal 1939 l’Italia ha

inglobato il territorio albanese in quello dell’Impero e dalla

primavera del ’41 Jugoslavia e Grecia sono stabilmente sotto il

controllo dell’Asse. In quei primi mesi del ’43 la presenza di

soldati italiani è a mala pena tollerata nelle città dove la borghesia

ricca traffica con il regime fascista. Sulle montagne è sempre più

forte la presenza dei partigiani sia slavi che albanesi. Di loro in

Italia non si sa nulla e i soldati non sono preparati ad affrontare

un esercito invisibile. È proprio in montagna che viene dislocato

il reparto di Mario. Altro che passeggiata. Da tre mesi sono

impantanati nelle montagne intorno a Kükes per proteggere la

strada per Prizren e Priština nel sud della Serbia: devono garantire

le comunicazioni e i trasporti dagli attacchi dei partigiani.

I più giovani del reparto che gli è stato affidato lo

guardano, e guardandolo, muti, lo interrogano. Quasi che la

dolcezza dello sguardo che Mario restituisce fosse già

un’anticipazione del ritorno, della casa, delle madri, delle zite, dei

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fratelli e degli amici lasciati al paese. E’ bastata qualche parola

detta ogni tanto, con quel sorriso buono che gli spiana la faccia

irregolare e dura da montanaro, per far capire anche a loro che da

quella situazione non usciranno tanto facilmente. Dalle poche

notizie che Mario riesce ad avere dal comando sa che non sarà

semplice rifare la strada che hanno fatto fin lì e tornare a casa.

Questo barlume di coscienza, tuttavia, non è sufficiente per

consentirgli di immaginare quello che sta per accadere.

La sua testa non è fatta per queste cose. Gli unici momenti

in cui ritrova intatto il suo equilibrio interiore, senza lasciarsi

invadere dalla miseria della guerra, sono quelli in cui riesce a

mettersi in un luogo riparato del campo a dipingere le variazioni

di colore di quelle terre, tanto simili all’Irpinia dalla quale

proviene. Ancora pochi giorni e tutto il giallo che pervade

l’orizzonte si sarebbe progressivamente ingrigito senza alcuna

fioritura. Molti suoi compagni sarebbero piombati nel quarto

inverno di guerra, il primo al fronte per lui. Sulle cime attorno

sarebbe ricomparsa la neve e subito dopo il gelo li avrebbe

attanagliati come l’inverno precedente. Approfitta delle piante

spoglie per registrare le sinuosità della terra e per usare i colori

che preferisce: la terra di Siena, l’ocra, la terra d’Ombra, il

seppia… Quando tiene ggenio obbliga qualcuno dei suoi a mettersi

in posa e scava nelle loro facce le stesse sinuosità che vede nel

terreno, come se dopo tanti mesi fossero ormai diventati una

cosa sola, anche loro partecipi del paesaggio. Prima di partire

stava sperimentando la scomposizione dei volumi alla maniera di

Cézanne e quella delle superfici alla maniera di Klee. I risultati

della sua pittura non danno soddisfazione né lui né ai destinatari

dei suoi dipinti. Rimangono perplessi di fronte a qui tagli netti e

ai repentini cambiamenti di colore dietro ai quali si vede nitida la

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figura, quasi sepolta sotto le deformazioni dovute alla fatica di

impossessarsene secondo dei canoni non ancora dominati.

Mario è nato in una famiglia borghese di un paese

dell’avellinese ai confini con la Basilicata. Per la famiglia dipingere

non può essere un mestiere né rappresentare un futuro

accettabile. Ha dovuto perciò laurearsi in legge senza aver mai

rinunciato a dipingere e soprattutto a studiare la pittura. Si è

abituato a lavorare ovunque, adattando di volta in volta la sua

abilità ai materiali disponibili. In Albania è riuscito ogni tanto a

farsi mandare buone tele e carte, buoni colori dagli amici rimasti

in Italia. Qualcosa è riuscito a comprare o a farsi comprare da chi

è andato in licenza nelle città di mare. Continuerà tutta la vita a

dipingere su ogni genere di materiale interessandosi ben poco di

quanto durerà il quadro, delle scrostature della pittura, del

degrado dei colori, facendo diventare le difficoltà dei suoi primi

anni un vezzo del suo fare.

Per quanto riguarda la guerra, né lui né i suoi soldati hanno

nessuna animosità nei confronti degli albanesi. Anche se

appartengono a un esercito invasore, non possono fare a meno di

pensare che gli albanesi sembrano uguali ai paesani: la stessa

miseria, la stessa capacità di adattarsi a quello che c’è, la stessa

fatica di vivere. Nessuno dei soldati ha mai osato sottrarre

qualcosa ai contadini: vivono in una condizione di dignitosa

miseria, se possibile ancora più profonda di quella in cui si vive

nei loro paesi d’origine. Alla fine è difficile non condividere una

pagnotta, un pacchetto di sigarette, un po’ di zucchero, un fiasco

di vino, il salame casereccio ricevuto dall’Italia, anche se con i

mussulmani non ha molto successo. Spesso si tratta delle stesse

persone che di notte li attaccano.

Quando hanno preso posizione nel luogo assegnato,

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avanzando in un territorio impervio e inospitale, si sono resi

conto dell’inadeguatezza dei mezzi di trasporto, dell’armamento,

delle divise: gli scarponi che non riparano dalla pioggia e dal

fango nel quale camminano per mesi, le mantelle impermeabili

che lasciano passare l’acqua dalle cuciture. Il cibo è sempre più

scadente anche perché non può essere integrato da quasi nulla

che si possa trovare sul posto. Andando avanti si lasciano

inalterata alle spalle la rete di mulattiere sterrate che mai nessun

mezzo pesante potrà percorrere.

La notizia degli eventi dell’8 settembre arriva al campo di

Mario confusa e con qualche giorno di ritardo. E’ accolta con

entusiasmo perché sulle prime viene interpretata come la fine

della guerra. Senza aspettare notizie dal comando con il quale da

giorni non riesce a parlare Mario dà ordine di smantellare il

campo. Ha deciso di ritornare a casa. Subito. Nei due giorni che

impiegano per preparasi a partire dal comando continuano a non

arrivare ordini, come se fossero tutti scappati o non fossero in

grado di prendere decisioni. Dentro quest’uomo mite e tranquillo

monta una rabbia e una furia violente contro le gerarchie militari,

contro la guerra e l’impotenza che probabilmente non gli

consentirà di proteggere i suoi uomini. E’ sicuro di essere stato

completamente abbandonato.

A casa. A casa. Ma come? Fa mettere fuori uso le armi

pesanti per le quali non ha mezzi di trasporto; dei proiettili fa un

solo botto, di notte, così assomiglia quasi a una festa, come

fossero fuochi d’artificio. Tutto quello che non possono

trasportare a spalla, o sui sette muli rimasti, e che non può essere

usato contro di loro, Mario ordina di non distruggerlo. Lo lascia

alla gente del luogo, quasi per risarcirla della loro presenza. Si

avviano a piedi – per fortuna non hanno ammalati – senza altro

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obiettivo che non sia di scendere a valle il più rapidamente

possibile. A un giorno e mezzo di marcia c’è la strada che

avevano il compito di difendere. Lì sperano di incrociare qualche

colonna di mezzi diretti verso la costa.

Arrivati sulla strada, dopo circa tre ore di marcia, sentono il

rumore di camion che si avvicinano: sono tedeschi e sono diretti

a nord. La colonna si ferma: “Dare armi… andare Italia… casa”,

questo capiscono dallo stentato italiano dell’ufficiale che

comanda la colonna. Hanno una mitragliera pesante puntata

contro e sono stati rapidamente circondati. Non rimane altro da

fare. Vengono disarmati, separati gli ufficiali dai soldati, fatti

salire sui camion che continuano il loro viaggio verso nord tra le

urla e le imprecazioni degli italiani. Qualcuno capisce e salta giù,

ma solo per essere freddato con una raffica e lasciato a morire in

mezzo alla strada. I tedeschi stanno rastrellando tutti i militari

italiani che trovano e li concentrano alla stazione ferroviaria di

Priština. Mario non ha saputo nulla dell’ultimatum lanciato alle

truppe italiane dai tedeschi: continuare a combattere al loro

fianco o consegnare le armi. Anche se lo avesse saputo

sicuramente né lui né i suoi sarebbero andati con i tedeschi.

Sarebbero andati piuttosto con i partigiani. Quando lo disarmano

e lo perquisiscono pensa a un’unica cosa: salvare il tascapane

dove ha raccolto i colori ad acquerello, un paio di pennelli, una

mezza matita e un taccuino. Il rotolo con i quadri dipinti su pezzi

di lenzuolo, i disegni più grandi e gli acquerelli è su uno dei muli.

Chissà che fine ha fatto.

“Abbiamo attraversato l’Europa in lungo e in largo, l’ho

vista tutta”. Di giorno e di notte legge i cartelli delle stazioni dove

passano e ancora molti anni dopo sarà in grado di recitarli in

ordine, uno dopo l’altro, descrivendone la giusta grafia e

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pronunciandoli esattamente: “Kraljevo, Beograd, Vinkovci,

Osijek, Našice. Poi verso nord-ovest lungo la pianura che

costeggia la Drava, Koprivnika, Zagre, Kacovec, Maribor. Graz,

Wien, Brno, Praha, Jelena Góra, Wroclaw, Pozna�, Warszawa,

Bia�ystok”. Elenca le stazioni lentamente, con lunghe pause tra

un nome e l’altro, come se volesse farti capire il tempo che ci è

voluto ad attraversarle tutte. Ti guarda con quei suoi occhi

spiritati mezzi nascosti nella profondità delle orbite, ma non ti

vede. Ti attraversa, e il suo sguardo mette a fuoco a ogni nome, a

ogni stazione, i brandelli di paesaggio intravisti. A contare la

strada fatta sono quasi quattromila chilometri, ventotto giorni

durante i quali il problema più importante è bere e arrivare vivi

alla fine, che però non sai né quando né dove sarà. Continua ad

avere nel naso gli odori delle stazioni dove hanno passato ore e

ore senza potersi muovere, stipati nel carro bestiame. Continua

ad avere nelle orecchie i rumori registrati durante le soste,

sopratutto voci che parlano lingue mai sentite. Ad avere negli

occhi i barlumi di colore dei cieli che la piccola inferriata posta in

alto o le sconnessioni delle tavole del carro consentono di vedere.

Come se avesse cancellato completamente l’odore di putridume e

di morte nel quale ha vissuto quasi per un mese, le urla i lamenti

le imprecazioni dei suoi compagni e l’incomprensibile aggressività

delle voci delle guardie, il colore all’interno del carro che sembra

quello della tavolozza di un pittore inesperto che ha mescolato

assieme tutti i colori. In ventotto giorni hanno avuto ogni tanto

un po’ di pane e l’hanno fatto bastare anche per sei giorni.

Fossero stati dei signorini di città nessuno di loro ce l’avrebbe

fatta ad arrivare fino in fondo. Ma sono contadini, abituati alle

asprezze dell’Appennino e soltanto tre si sono persi per strada su

cinquantadue del suo carro.

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Dai momenti più duri del viaggio, quelli in cui ti viene da

mollare tutto, da lasciarti andare e sparire nel gorgo di

disperazione e paura che ti si apre dentro, ne è uscito chiudendo

gli occhi e cercando al buio dentro di sé i colori. Quelli

fondamentali, il rosso, poi il giallo e il blu. Lentamente li mette a

fuoco, li identifica con precisione… quel rosso… quel giallo… quel

blu, come un suonatore che accorda con esattezza il suo

strumento. Lentamente assapora il piacere di immergere un

pennello nuovo in quelle forme burrose e lucenti, aggiunge un

po’ di bianco cadmio al giallo, lo diluisce con l’olio di lino cotto e

tratteggia velocemente il soggetto sulla tela fissata con delle

puntine a un piano di legno appoggiato al tavolo, come è solito

fare. È difficile procurarsi delle buone tele ma in quei giorni, nel

treno, dipinge sulla tela migliore, sulla quale con pazienza ha

steso più mani di preparazione. Prende forma il gruppo di case

del suo paese, a strapiombo sulla forra che lo circonda da due

lati. Traccia superfici nette, precise, che devono accogliere

sfaccettandoli i primi bagliori del sole all’alba, in contrasto con la

cupezza della natura ancorata al fondo della forra, che la luce del

giorno non riesce mai a rimuovere del tutto. Quanto tempo

lavora a questo quadro? Non riesce a ricordarlo. Per giorni interi.

Ed è la stanchezza per quel modo così intenso di dipingere che lo

fa piombare nel sonno, non la fame, non la sete.

Tornato dalla prigionia più di una volta riproverà a

dipingerlo per davvero quel quadro. Proverà anche a riprenderlo

dal vero, alzandosi prima dell’alba e andandosi a sistemare

dall’altra parte della forra. Disegnerà e disegnerà ancora cento

volte. Proverà a dipingerlo senza alcuna traccia sotto ai colori.

Niente. Niente, il lavoro che ha impresso nella mente con grande

precisione non troverà la strada per venire alla luce. I colori non

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riusciranno mai ad essere quelli che ha immaginato: né i primi

bagliori dell’alba, né i verdi scuri della forra. Come se la luce e il

buio immaginati nel corso di quell’infinito trasferimento avessero

bruciata e occultata la fantasia che lo ha accompagnato in quelle

lunghe giornate. Troppo lunghe. Senza misura.

Una volta giunto al campo Mario non ci mette molto a

capire che sarà difficile uscire vivi. I più deboli, ulteriormente

indeboliti dal viaggio, sono morti appena arrivati, quasi che

l'esasperante lentezza del trasferimento sia stato un modo

spietato per selezionarli. Erano allo stremo delle forze e la

brodaglia di cui li hanno nutriti non è bastata a farli sopravvivere.

Ogni giorno muoiono in tanti. E non solo per la fame o le

malattie. Basta anche un involontario atto di insubordinazione, il

capriccio di una guardia o la risposta a una provocazione,

l’esasperazione o la follia che porta ad aggredire a mani nude gli

aguzzini e sei finito. Una breve raffica e il terrore sulla faccia di

quelli che assistono impotenti. E continuano a vivere una

quotidianità che alla luce della ragione è impossibile da accettare.

“Eppure, maledizione, ti abitui”. Lentamente e forse

inconsciamente vengono messe in atto delle piccole strategie per

rimanere vivi il più a lungo possibile, anche imparando da quelli

che nel Kriegsgefangenelager ci sono da più tempo. Sembra

impossibile ma in quel dominio della morte e della disperazione

tutta l’intelligenza disponibile viene utilizzata per vivere. Si può

sentirla ronzare di giorno e di notte, in tutto il campo, quasi fosse

un controcanto al ronzio dell’alta tensione che percorre i

reticolati che delimitano il campo.

Difficile in quella situazione concepire l’idea di “nostro”

nel senso di un possesso collettivo. Molto più facile concepire il

“mio” privato e mettere in atto tutti gli stratagemmi per dare

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corpo a questa idea. In Mario, tuttavia, le due idee riescono a

convivere, anche se in modo particolare. L’idea di “nostro” la

applica a tutto quello che può condividere con i suoi compagni:

un cucchiaio di brodaglia, un qualsiasi indumento per quanto

sdrucito, un mozzicone di sigaretta, una scaglia di sapone. L’idea

di “mio” la applica alla pittura. E’ riuscito a salvare la sua piccola

dotazione di colori e pennelli. Ha finito rapidamente le poche

pagine del taccuino che gli è rimasto dipingendole sul dritto e sul

rovescio. Poi, ogni qual volta entra in possesso di un pezzo di

carta – non è impossibile perché la carta non ha grande valore di

scambio nel campo – riempie la gavetta d’acqua e, se le forze

glielo consentono, si mette a dipingere. Nella baracca lo

osservano in tanti – del resto non hanno niente da fare – ma lui è

lì solo, con il suo problema di come rappresentare, come dare

forma, colore, contenuti a un’idea che gli passa per la testa, al

volto di un compagno, alle montagne che vede all’orizzonte.

Quando riesce a venire a capo dei suoi problemi, una volta finito

il lavoro che può durare anche delle settimane, prevale in Mario

l’idea del “nostro”. Si è accorto che, per quanto piccolo e banale

possa essere il suo dipinto, viene apprezzato e lui lo regala

volentieri, a condizione che non venga immesso nel circuito degli

scambi: deve essere “nostro”, magari per scrostare un po’ di

squallore dalle pareti delle baracche. E’ vero che Mario dipinge

per sé ma è altrettanto vero che la sua mano è fatta dalla somma

delle mani di tutti, e ogni cellula dei suoi occhi contiene gli occhi

di qualcuno.

Queste sensazioni riesce ad averle molto raramente.

Assieme ai suoi compagni passa giorni e giorni nell’assoluta

immobilità. Stanno stesi sui giacigli subito dopo aver lentamente

ingoiato la broda calda che se contiene un qualche principio

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nutritivo lo contiene in dosi infinitesimali. Appena mangiato il

rischio che si corre a rimanere in piedi o seduti è di sentirsela

scivolare dentro, percorrere l’intestino come se questo fosse un

piano inclinato ed espellerla come l’acqua di un clistere. Le

giornate dell’inverno con poco cibo e un freddo insopportabile

pesano come macigni. In quei primi mesi di prigionia il corpo

ferrigno di Mario si scava, soprattutto in faccia. L’aspetto di

affamato che assume, privo di qualsiasi ombra di grasso, la pelle

attaccata direttamente alle ossa, continuerà ad averlo anche dopo,

una volta tornato dalla prigionia.

E’ giugno avanzato quando scoppia la protesta in una

baracca vicina a quella di Mario. Durante l’ispezione il nuovo

ufficiale responsabile di questo settore del campo, uscendo dalla

baracca, vede sopra la porta d’ingresso un foglio colorato. Chi lo

ha preceduto ha lasciato correre, ma lui no: “Tutti i componenti

della baracca verranno puniti”. Il caporale, un gigante biondo,

alza il braccio, strappa l’acquerello di Mario dalla parete e lo

porge al suo ufficiale. Lui lo piega, lo mette in tasca e dà ordine di

cercare nelle altre baracche. Altri cinque acquerelli vengono

requisiti, mentre in tre baracche fanno in tempo a nascondere ciò

che ormai è diventato un simbolo, un modo per riconoscersi. E’

bastato un acquerello per far sì che il sistematico annullamento

dell’identità singola e collettiva messo in atto nel campo di

prigionia fosse per un attimo dimenticato: la ribellione scatta

quasi spontaneamente. Al coperto dalla vista delle guardie

comincia uno, poi un altro, poi un altro ancora, poi tutti insieme.

Battono sulle pareti di legno delle baracche, gavette, cucchiai,

mani, piedi. Molti lo fanno senza sapere nemmeno perché. E’ la

prima volta che sono coinvolti in un’azione che permette loro di

identificarsi come un tutt’uno. Il frastuono è grande e si unisce

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all’urlo delle sirene del campo che scattano dopo alcuni minuti.

Immediatamente vengono prese misure di massima all’erta.

Chiusi tutti i varchi verso l’esterno e quelli di comunicazione tra i

diversi settori del campo, in tutte le torrette le mitragliere

vengono puntate verso le baracche. Una voce imperiosa ordina

dagli altoparlanti prima in tedesco e poi in italiano di smetterla. I

cani infastiditi dal rumore vengono trattenuti a stento. La

protesta coglie di sorpresa tutti, anche gli stessi prigionieri.

Passano ancora alcuni minuti e, come per un muto accordo, gli

uomini della prima baracca decidono di rientrare e lo fanno uno

alla volta, continuando a battere finché non sono dentro.

Lentamente vengono imitati da tutti gli altri, finché il campo non

rimane immerso in un silenzio irreale. Si sente soltanto il ronzio

della corrente elettrica aggrovigliato al ronzio dell’intelligenza e il

ringhio isolato di qualche cane.

Mai Mario avrebbe immaginato che i suoi acquerelli

potessero scatenare tutto questo e che potessero diventare dei

simboli da sollevare in difesa dell’identità e della dignità di tutti i

prigionieri. Da quel momento è un punto d’onore per ogni

baracca avere un suo disegno da nascondere e il suo lavoro, quel

poco che riesce a fare, viene agevolato e protetto in tutti i modi

possibili.

L’episodio della protesta non sembra avere lì per lì delle

conseguenze. E’ una mattina di sole, verso la fine dell’estate, e

Mario è appoggiato al muro della baracca esposto a mezzogiorno.

Le mani in tasca, gli occhi chiusi, una gamba a terra e l’altra

piegata, rivive la sensazione di essere nella piazza del suo paese.

La testa è sollevata, la faccia rivolta al sole ad abbeverarsi di

calore, in attesa dell’inverno che a quelle latitudini è ormai molto

vicino. Viene quasi sollevato di peso e a spintoni condotto verso

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la parte opposta del campo, davanti alla palazzina del comando.

Una volta dentro viene portato nell’ufficio del comandante, un

colonnello, che lo accoglie con gentilezza. “Sigaretta?” Con un

leggero cenno del capo che non ha saputo trattenere e con uno

sguardo di cupidigia che non è riuscito a dissimulare, Mario

accetta. Da quanti mesi non vede una sigaretta intera? “Sieda,

prego”. E’ talmente preso dalla sigaretta della quale sta

assaporando le prime boccate che non sente l’invito del

colonnello e rimane in piedi. “Sieda!”. Il tono perentorio è

sufficiente perché Mario emerga da una specie di trance nella

quale è caduto. In quell’istante si rende conto di barcollare… si

siede. “Ach so!” esclama soddisfatto il colonnello che si presenta

“Karl Heinz Altebrunner, colonnello della riserva”. Mario è

bianco come la carta della sigaretta che sta rimirando con i suoi

occhi spiritati da affamato, la barba ispida lunga di giorni, sente in

lontananza una voce che parla in italiano con lentezza. Viene

risvegliato definitivamente dal profumo di cioccolato che emana

da due tazze posate sul tavolo davanti al quale è seduto.

Automaticamente allunga la mano e, a piccoli sorsi, senza che

l’altro intervenga, beve. E’ come se vedesse il percorso che il

liquido denso, caldo, zuccherato, arricchito dal sapore del latte, fa

dentro il suo corpo. La sosta in bocca per sollecitare l’eccitazione

di tutti i terminali nervosi della lingua e del palato, la discesa in

gola dove si diffonde il calore e poi l’ingresso nello stomaco e la

festa che vi si svolge in onore di quel cibo così raro e nutriente.

Solo a questo punto comincia a registrare il significato delle

parole che sente. Il colonnello sta parlando di pittura, di pittura

italiana, dei quadri dei grandi italiani che ha visto a Vienna, a

Venezia, a Firenze, Roma, Napoli.

Metà della sua testa ascolta mentre l’altra metà lavora per

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preparasi alla fine di quella messa in scena. Finirà male, ne è quasi

sicuro e tutte quelle attenzioni servono per far pesare di più la

punizione che ha a che vedere con l’episodio di giugno. Quando

gli viene detto di alzarsi pensa che sia finita. Mentre spegne il

mozzicone di sigaretta gli viene indicato un angolo della stanza

dove c’è un pacco piuttosto grande. “Apra… apra!”. La seconda

volta la parola viene pronunciata sempre con un tono più

imperioso della prima. Una dozzina di tele su telai di due misure

diverse. Due grandi blocchi di carta da schizzi. Un pacco di carta

da acquerello di ottima qualità che Mario non aveva mai visto.

Pennelli, colori ad olio, colori ad acquerello, olio di lino,

trementina….

“Cominciamo domani, arrivederci”. Il colonnello tira un

cordone che pende dallo stipite della porta dietro alla sua

scrivania, si sente ovattato il suono di un campanello e sulla porta

appaiono due giovani donne con i capelli cortissimi, come se le

avessero rasate da qualche giorno, pensa Mario. A causa dei

capelli i loro lineamenti, naso affilato, bocca grande e carnosa,

zigomi alti e sporgenti, sembrano ancora più marcati come i

grandi occhi bruni velati da qualcosa che Mario non capisce. Una

lo prende per un braccio e lo guida dentro alla casa fin davanti ad

una porta: “Waschen Sie, waschen Sie bitte” bisbiglia aprendo,

mentre l’altra gli porge un pacco di vestiti, un rasoio, sapone e

asciugamani. E’ in un bagno… un bagno.

Quando finisce gli sembra di essere un’altra persona, quasi

non si riconosce anche perché è da molto tempo che non si vede

allo specchio. Infila la saponetta dentro l’involto dei suoi vestiti,

esce, trova le due ad aspettarlo. Una delle due entra in bagno,

vede che non c’è più la saponetta e con un mezzo sorriso gli fa

capire che se la può portare. Rientra nell’ufficio. Il colonnello

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non c’è ma immediatamente compaiono i due militari che gli

fanno cenno di uscire per tornare alla baracca.

Fatti i primi passi nel campo con una certa voluttà – si

sente più pulito, più in forze – si rende conto dello stupore con il

quale viene guardato. Non ci ha pensato, non sa nemmeno lui

che spiegazione dare se non che il comandante del campo è un

appassionato di pittura e che… “Non ho capito, mi ha detto di

cominciare domani ma non ho capito che cosa. Mi ha fatto

trovare carte, tele, colori e pennelli, tutto nuovo di zecca, ma non

so per cosa”. Così inizia l’incontro con i suoi superiori, che lo

hanno convocato appena la notizia è circolata nel campo.

Rinviano ogni decisione al giorno dopo, quando Mario avrà

capito cosa deve fare. Insieme troveranno la soluzione che può

procurare il massimo dei vantaggi per tutti. Ma quello che è

accaduto diventa un incubo per Mario perché in qualche modo lo

rende unico, diverso dagli altri, insomma lo isola. Passa la notte

preso da questo conflitto che gli si è creato dentro.

Ha gli occhi rossi di sonno all’appello della mattina dopo.

Una parte dei vestiti puliti è già spartita per cui si veste mettendo

insieme i suoi abiti vecchi con quelli nuovi che gli sono rimasti.

Mentre si lava il profumo del sapone ha attirato molti nasi e a

ogni paio d’occhi desiderosi corrispondenti a un naso Mario non

sa resistere. Una piccola porzione di saponetta per uno e

all’appello è tutta la baracca che profuma. Quando viene

prelevato dagli stessi due del giorno prima si sente più sollevato

perché con i vestiti metà nuovi e metà vecchi si sente molto più

simile a tutti gli altri. Stesso tragitto del giorno prima. Senza

l’angoscia che lo aveva attanagliato vede per la prima volta,

avvicinandosi alla palazzina del comando, dall’altra parte della

linea ferrata con la quale anche lui è arrivato, un altro campo. In

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lontananza intravede una ciminiera e sagome di persone con delle

divise a strisce. Si chiede se nell’altro campo c’è una fabbrica.

Quando entra nella palazzina del comando gli viene

indicata una stanza a fianco dell’ufficio del colonnello con una

finestra a nord in direzione del campo che ha visto arrivando. Gli

hanno organizzato uno studio da pittore. Dentro ci sono tutti i

materiali che ha visto nel pacco il giorno prima più un

rudimentale cavalletto, un tavolo, un paio di sedie, un secchio

d’acqua, un pacchetto di sigarette, fiammiferi, accendino e un

posacenere. Sul tavolo ci sono delle fotografie di un giovane in

divisa di capitano delle SS e alcune riproduzioni a colori di quadri

del Tiziano. Mario, che conosce gli originali, è colpito dalla

bellezza delle riproduzioni. Mentre le sta rimirando attraverso il

fumo della sigaretta che gli pencola tra le labbra, entra il

colonnello. “Buongiorno tenente. Le foto che vede sono di mio

figlio. Ha aderito al nazismo giovanissimo. È considerato un eroe

nazionale. Desidero che lei dipinga il suo ritratto. Grazie”. La

determinazione del colonnello non ammette repliche. “Lo sfondo

del ritratto deve essere quello di uno dei quadri di Tiziano. Scelga

lei quale. Il suo compleanno è a febbraio e voglio regalare il

ritratto alla fidanzata. Il capitano Schöller le darà tutte le

istruzioni per muoversi nel campo e per gli orari di lavoro. Buon

lavoro e grazie”.

Rimasto solo Mario non comincia subito a lavorare. Con

lentezza si impossessa di carte, colori, pennelli, toccando,

annusando. Poi prende un grande foglio di carta per acquerello,

lo bagna abbondantemente con il pennello più grande e appena

comincia ad asciugare, dove è rimasta ancora dell’acqua non

assorbita, schiaccia una piccola porzione di colore dal tubetto del

rot vermillon. Il colore a contatto con l’acqua si espande come una

Page 53: Calle Larga S. Marco

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deflagrazione. Bagna nuovamente la zona dove il rosso è più

denso e sollevando il foglio con le due mani lo inclina in diverse

direzioni lasciando scorrere il colore liberamente in forma di

gocce che improvvisamente si allargano quando incontrano una

zona di carta ancora umida. Mario non se ne rende conto ma è lo

stesso gioco che aveva inventato da bambino. Quasi che il

ritrovarsi attorniato dagli strumenti della sua passione lo abbia

fatto regredire all’infanzia. Il risultato del gioco è una specie di

ferita sanguinante che non può non riportarlo alla sua condizione

presente. Il suo sguardo viene attratto da un movimento

all’esterno. Solleva gli occhi dal foglio e dalla ciminiera nel campo

accanto sia alza una colonna di denso fumo nero. Senza pensarci

sposta il tavolo in direzione della finestra e sullo stesso foglio

dipinge con pochi tratti il profilo del campo e la colonna di fumo

che oscura il cielo. Le imprecazioni che lo distolgono dal

tentativo di dare un significato a quello che vede sono del

capitano Schöller. Mario si rende conto che l’immagine lo irrita

profondamente. Il tedesco gli strappa il foglio dalle mani e,

urlando parole incomprensibili, lo calpesta lasciandovi sopra

impronte nere di lucido da scarpe.

Dal pessimo italiano del capitano, che non è d’accordo con

l’iniziativa del suo colonnello ma è costretto a subirla, apprende

le regole: deve recarsi al comando ogni giorno dopo l’appello del

mattino, questo è il lasciapassare per circolare nel campo da solo,

deve mangiare nello studio e lavorare fino alle tre pomeridiane,

poi tornare nella sua baracca. Le condizioni vengono ritenute

vantaggiose dai superiori di Mario che deve superare le sue

resistenze all’idea di fare il ritratto a una SS. In compenso può

muoversi liberamente per il campo diventando un veicolo di

informazioni; può procurare all’ufficiale medico un po’ di cibo e

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sigarette da distribuire ai compagni.

Comincia a lavorare sullo sfondo del ritratto studiando le

riproduzioni dei quadri di Tiziano, per ritardare il momento in

cui dovrà affrontare le fotografie del giovane nazista. Prova a

dipingere prima ad acquerello, poi ad olio. Ruscelli, forre, fiumi,

boschi e alberi isolati, colline e monti azzurri in lontananza. Ma

senza sapere bene perché, gli sembra che l’unico sfondo

appropriato sarebbe il campo di prigionia che vede di fronte e

quella colonna di fumo che ormai non smette mai di salire al

cielo. A novembre inoltrato viene “incoraggiato” a dipingere il

ritratto. Lavora sulla tela più grande alla divisa nera, alle

decorazioni, ai gradi e sulle tele più piccole fa delle prove per la

testa, che gli viene sempre in una luce sinistra, con riflessi giallo

verdastri di un livore quasi mortale. Queste prime prove vengono

duramente criticate dal colonnello Altebrunner, con tono pacato

ma inflessibile. Il ritratto deve restituire la giovinezza, la forza,

l’orgoglio di servire il proprio paese, la felicità di modellare con le

proprie mani il futuro del mondo. Non il rampollo di una

famiglia ma di una nazione intera. Mario si sforza, ma quella

faccia senza ombre di dubbi di giovane SS proprio non gli esce.

Abbandona i colori ad olio e prova con l’acquerello. I contorni

sono più morbidi, i colori meno aggressivi e alla fine soddisfano il

colonnello che prende uno dei bozzetti per regalarlo alla moglie.

All’improvviso, negli ultimi giorni dell’anno, il suo lavoro

viene interrotto. Gli fanno capire che il colonnello è partito dopo

aver avuto la notizia della morte del figlio. A Mario viene un

brivido perché capisce che il ritratto sul cavalletto, ancora

decapitato, contiene una specie di premonizione. Non ricorda

più se è il 12, o il 13 o il 14 di gennaio, di sicuro una di quelle

mattine, viene svegliato da grandi clamori che provengono dal

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campo. “Sono scappati… siamo liberi… non ci sono più

tedeschi… liberi… liberi”. Quel poco che è rimasto nella

palazzina del comando è già stato depredato e quando Mario

trafelato vi arriva trova solamente, buttato in un angolo, il primo

acquerello che ha fatto tanti mesi prima. Poi, in un momento di

relativo silenzio, sente dei timidi colpi alla porta. Sono le due

ragazze che lo hanno fatto lavare mesi prima. Senza dire nulla gli

si attaccano addosso, una per parte, e, come avevano fatto il

giorno del bagno, lo spingono questa volta fuori in direzione

dell’altro campo. I cancelli del suo campo sono aperti, non si

sente più il ronzio della corrente. Passano la doppia barriera.

Stanno superando i binari della ferrovia che separa i due campi

quando all’altro cancello si affollano dei fantasmi, scheletri mezzo

vestiti che fanno fatica a reggersi in piedi. “Wir sind Juden, Juden…

siamo ebrei…” bisbiglia una delle due ragazze. A Mario mancano

le forze. Si siede sulla massicciata della ferrovia e scoppia a

piangere.

Per moltissimi anni, ancora oggi qualche volta gli succede,

Mario si sveglia e seduto sul letto urla ordini in tedesco. Una

lingua che non conosce e che riesce a parlare solo di notte. Di

giorno dipinge e insegna a dipingere con felicità e passione

sempre uguali.

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primavera 1944

Quando Armando era costretto a non uscire finiva quasi

sempre per passare al setaccio la casa seguendo un itinerario tutto

suo, lungo il quale cercava conferme e sorprese. Controllava che

cose già trovate fossero al loro posto e conosceva luoghi che di

tanto in tanto potevano riservare delle novità. Le indagini

potevano occupare un’intera mattinata o potevano anche essere

interrotte e riprese alcuni giorni dopo. In ogni caso nessun adulto

doveva accorgersi di quello che stava facendo, quindi le attività di

ricerca andavano accoppiate con qualche gioco di copertura che

nascondesse il suo girovagare per la casa. Se la cosa ritrovata

riguardava gli adulti andava lasciata al suo posto: averla trovata e

sentirsi nella condizione di decidere di non spostarla era come

possederla. Se il ritrovamento era veramente emozionante

bisognava controllarsi e rimandare al momento opportuno l’urlo-

canto che tanto fastidio dava agli adulti.

Il fine ultimo di queste attività era conoscere a fondo la

casa e tutti i suoi recessi più nascosti. Gli sembrava così di

esserne il dominatore e lo spirito segreto. Quando sentiva un

adulto brontolare perché non trovava qualcosa poteva

permettersi il lusso di fargliela trovare. Non subito, perché

altrimenti avrebbe capito che lui sapeva.

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Era una domenica mattina di primavera. Di notte aveva

piovuto e il sole non era ancora riuscito a sbrogliarsi da tutte le

nuvole che circolavano per aria. Per terra era ancora bagnato, le

lastre di pietra luccicavano come canali e, per una di quelle

decisioni che i bambini non capiranno mai, non si poteva uscire.

Armando cominciò dall’armadietto di cucina verniciato di

azzurro pallido e grigio. Bastava infilare un dito nel buco della

serratura che non esisteva più da tempo e le ante si aprivano.

L’armadietto apparteneva alla categoria dei luoghi dove il

disordine e la confusione nascondevano di sicuro cose buone,

come il vano segreto sotto il secondo gradino della scala di legno

per salire in soffitta, come i bauli stivati in soffitta o i cassetti dei

comodini della stanza da letto grande. Nell’armadietto si erano

accumulati negli anni un mucchio di pezzi di legno, metallo e

stoffa, che erano il risultato di modifiche apportate da Armando

o dal tempo ai suoi giocattoli. Perché alcuni erano indistruttibili,

come il pinocchio, altri continuavano a modificarsi e a ogni

rovinosa ricerca di qualche cosa cambiavano ancora un po’.

Spostò la scatola di scarpe-caserma, il suo posto era in cima

al mucchio, caddero due dadi di legno colorati, un cerchietto di

bambù e la pelle di pezza di un cane-orso-gatto-coniglio. Aveva

un obiettivo preciso: cercava la parte superiore di un furgone di

legno nella cui cabina aveva infilato una cosa interessante trovata

qualche giorno prima per terra davanti alla porta del bagno.

Appena la ritrovò Armando si sincerò dalla morbidezza della

spugna e dall’aria che usciva da tutte quelle bocche collegate tra

loro. Non aveva mai visto una cosa che come quella, che poteva

essere infilata dentro la piccola cabina del furgone e poi, una

volta tirata fuori, ridiventava grande come prima.

Con le mani nell’armadietto e le due ante accostate in

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modo che nessuno potesse vedere quello che succedeva dentro,

la estrasse dalla cabina e se la passò leggermente tra la radice del

naso e il labbro superiore. Come per saggiarne le proprietà

magiche. Era simile al bordo di raso della sua coperta, solo

leggermente più ruvida. Quasi perfetta. La manipolò ancora un

po’, nessuno l’aveva ancora reclamata. La rimise al suo posto e

rimestò per infilare il pezzo di furgone tra gli altri pezzi. Trovò

l’ascia argentata del guerriero con la corazza e piume colorate

sull’elmo, la mise nella caserma. Infilò alla meglio gli oggetti che

erano caduti, sopra a tutto appoggiò la caserma e chiuse le ante

dell’armadietto come fossero quelle di una cassaforte. Nessuno

avrebbe osato aprire.

Passò in tinello, quello dove si mangiava. C’erano luoghi

che potevano riservare grandi sorprese perché gli adulti, senza

accorgersene, perdevano cose dalle tasche. Le pieghe della fodera

delle poltrone e del divano, o dietro il divano – era abbastanza

leggero ed era facile scostarlo dal muro; poi ancora dietro la

cassapanca in ingresso, dove tutti buttavano i cappotti, e sotto i

letti. Non era facile infilare le mani nella fessura tra il bracciolo e

la parte con le molle sotto il cuscino della poltrona. Il gioco che

mascherava la ricerca consisteva nel saltare da seduti sulla

poltrona. Bisognava fare tutto rapidamente perché quel gioco

non poteva durare a lungo. Arrivava sempre qualcuno a dire di

smettere. Nella fase bassa del salto bisognava affondare le mani

nella sacca che la fodera formava tra il bracciolo e il sedile. Prima

da una parte, poi dall’altra. Niente nella prima poltrona vicina alla

porta della terrazza. Sotto il bracciolo di destra della seconda

poltrona trovò un mozzicone di matita copiativa con la punta

dalle due parti e, sotto quello di sinistra, una moneta. Gli parve di

aver trovato un tesoro. Con molta circospezione la mise in tasca

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in attesa di decidere dove nasconderla. Era un ritrovamento da

urlo-canto ma purtroppo non si poteva e allora sfogò la sua

eccitazione saltando per tre, quattro, cinque volte a piedi uniti i

due gradini che dal soggiorno conducevano alla cucina.

“Smettila!”. Quell’imperativo lo distolse dalla strana sensazione

che gli dava toccare la moneta in tasca. Sentiva che era una cosa

preziosa, anche se non ne conosceva il valore, e allo stesso tempo

un po’ pericolosa.

Tornò in tinello per occuparsi del divano. Per esplorarlo la

cosa migliore era recuperare uno dei suoi albi di Topolino e

Paperino dietro i libri degli adulti, nello stipetto che faceva

tutt’uno col divano. Avevano la copertina gialla della stessa carta

dell’interno, stampati per lungo con tre quadretti per ogni pagina.

Mentre con una mano sfogliava e osservava i disegni nei minimi

particolari, leggendo a fatica le parole scritte dentro i fumetti che

uscivano dalla bocca dei personaggi, con l’altra cercava. Bastava

sedersi sul cuscino di mezzo per poter rovistare sia sotto i cuscini

dei sedili che sotto quelli dello schienale. Sotto l’ultimo a destra,

quasi incastrati tra lo schienale di legno e la parte a molle del

divano, trovò un piccolo braccio rosa di bambola, un sacchetto di

pezza con tre palline di terracotta colorate, un rocchetto di legno

su cui era avvolto il filo per cucire. Si ricordò di aver costituito

quel deposito alcuni mesi prima. Mise in tasca le palline e lasciò il

resto dove l’aveva trovato. Poi ci ripensò, prese anche il

rocchetto, che poteva diventare un cannone, e lasciò solo il

braccio della bambola.

Dal tinello passò in ingresso dove qualche volta, ma di

solito veniva interrotto, riusciva a giocare con una palla sul muro,

come vedeva fare alle bambine. Bisognava gettare la palla e

durante la traiettoria, andata rimbalzo ritorno, fare dei movimenti

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e dire delle cose e riprenderla prima che cadesse a terra. Armando

riusciva a fare il gioco, ma non aveva ben imparato tutte le

parole, anche perché aveva la sensazione che alcune fossero

magiche: samaiò, finnallà. Quella mattina si distese per terra e

traguardò l’orizzonte del pavimento per cogliere la più piccola

sporgenza: si potevano trovare piccoli chiodi, aghi da cucire,

spilli, insomma merci di scambio. Notò solamente una stecca del

parquet, una parte della quale era sotto la zampa di leone della

cassapanca, un po’ sollevata da un lato. Provò a toccarla e si rese

conto che si muoveva. Non era una novità, quando era umido, o

se entrava un po’ di pioggia dalle finestre dimenticate aperte, le

liste di legno si alzavano, si gonfiavano e si ingobbivano al punto

da diventare piste in pendenza su cui far rotolare tutto che

rotolava: palle, palline, rocchetti, automobiline a molla senza la

carica. Una volta Armando rovesciò dell’acqua sul pavimento in

modo da produrre un effetto pioggia. Gli adulti si arrabbiarono

molto.

Ma quel tassello di parquet era strano perché, a differenza

da tutti gli altri che erano incastrati uno con l’altro, era staccato.

Dando dei colpi con il sedere, poi con le ginocchia e poi

puntando i piedi sulla porta di ingresso e spingendo Armando

riuscì a liberare il pezzo di parquet dal piede di leone alla

cassapanca. Sollevò la lista di legno e sotto trovò un foglio di

carta molto sottile piegato come una fisarmonica, con sopra dei

segni e delle scritte incomprensibili. Era una scoperta

straordinaria, di sicuro un grande segreto di qualcuno,

emozionante e terribile allo stesso tempo. Controllò se per caso il

nascondiglio sotto il pavimento continuasse e immaginò di

arrivare giù giù nella terra fino al rifugio. Decise di rimettere tutto

a posto il più rapidamente possibile. Fu molto faticoso, anche

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perché uno dei piedi della cassapanca urtava sulla lista di legno

leggermente sollevata invece di salirci sopra. Girò il listello al

contrario; da quella parte era più consumato e finalmente, poco

prima che suonassero alla porta, riuscì a sistemare tutto.

C’era un altro gruppo di nascondigli da controllare: dietro il

pannello inferiore del pianoforte che nascondeva i tiranti che

trasferiscono i movimenti dei pedali, negli incavi dove scorrevano

le prolunghe del tavolo con le zampe e dietro i quadri, dove

qualche giorno prima aveva visto armeggiare un adulto.

Ma la scoperta di quella mattina era talmente grande che

decise di ritirasi in soffitta dove c’era la sua armeria: un casco di

sughero del corpo di spedizione in Africa foderato di stoffa

biancastra pieno di macchie, due sciabole, una della Marina e

l’altra della Cavalleria, una sciarpa azzurra da ufficiale con due

grandi fiocchi come quelli delle tende, un elmo di latta della

Fanteria italiana ammaccato e scrostato, un fuciletto di legno

nero con il grilletto a molla e la canna di latta un po’ piegata.

Ricordò di aver visto bambini più grandi che comperavano, con

monete simili a quella che aveva in tasca, rotolini di carta rossa

che contenevano come dei nei di polvere da sparo che

scoppiavano quando venivano colpiti con il manico della pistola

o del fucile di latta.

Casco in testa, sciarpa e fucile a tracolla, Armando

impugnò una delle due sciabole e cominciò la sua battaglia

infilando la lama, come l’avrebbe infilata nelle costole del nemico,

nel muro che divideva le due parti della soffitta, fatto di listelli di

legno, canne di palude e intonaco. La battaglia non poteva durare

a lungo perché la sciabola era pesante e perché il muro andava

sforacchiato un po’ alla volta, altrimenti qualcuno poteva

accorgersene.

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Per finire in bellezza la mattinata decise di ripetere un

agguato di guerra, ma all’aperto. Scese in silenzio dalla soffitta

con l’elmo e il fuciletto, le altre cose non si potevano spostare.

Sgattaiolò prima in ingresso, da qui dietro una poltrona, poi in

terrazza. Si era appena acquattato dietro il cassone del carbone,

dalla parte opposta alla stia delle galline che era la postazione da

conquistare, quando si sentì colpire da qualcosa che cadde poi a

terra con un leggero fruscio di carta. Armando sapeva di cosa si

trattava perché altre volte era successo. La caramella che padre

Giulio gli lanciava dall’altra parte della calle, dalle finestre del

Patriarcato, era sempre l’inizio di un colloquio segreto nel corso

del quale i due si raccontavano i loro giochi. Ma quel giorno nella

faccia di padre Giulio non c’era traccia di quel sorriso largo e

accattivante che di solito si faceva spazio tra i peli della barba

rossiccia. Doveva parlare con un adulto. Armando chiamò e

aspettò facendo finta di niente, accoccolato per terra

scartocciando la sua caramella. Non capì il significato delle parole

“arrestato... concentramento... esse esse”, ma dalla paura che si

impossessò dell’adulto capì che si trattava di qualcosa di molto

minaccioso e pericoloso.

Non sapeva bene quale importanza dare a quella paura e

cosa fare, se non impaurirsi a sua volta. Ma Armando era armato

e cominciò a combattere con le armi in pugno. Sotto l’incalzare

dei colpi il suo elmo, privo del sottogola, volò via e cadde in

strada. Armando si nascose dietro il parapetto della terrazza per

non farsi vedere da sotto. Poco dopo sentì suonare il campanello

di casa. Era ancora in terrazza quando venne investito dai

rimproveri di tutti gli adulti di casa con l’aggiunta di due vestiti

come quello che comandava i balilla. Anzi, questi due gridavano

più di tutti ed erano minacciosi anche nei confronti degli altri

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adulti. Per la prima volta Armando sentì la parola “perquisizione”

e subito dopo capì di cosa si trattava. I due vollero vedere dentro

i cassetti, gli armadi, dentro la cassapanca; poi in soffitta, dentro il

cassettone, dentro i bauli. Poi trovarono l’armeria di Armando.

Volevano portare via le sciabole, alla fine si convinsero a lasciarle.

Uscirono di casa minacciando che sarebbero tornati.

Armando venne preso da un profondo senso di colpa,

come se il suo gioco delle ispezioni fosse diventato all’improvviso

pericoloso, dannoso; non solo quello, anche l’armeria era

pericolosa. Soprattutto poteva scatenare quel terribile frastuono

di parole minacciose del quale Armando pensava di essere stato

la causa. Quel giorno stesso decise di smettere con quei giochi

anche se nella sua fantasia continuava a percorrere la casa

utilizzando percorsi e itinerari solo a lui conosciuti. Fu allora che

con la fantasia cominciò a giocare sul soffitto: era perfettamente

liscio, senza ostacoli, come una grande pista dove le automobiline

potevano andare in tutte le direzioni.

Pochi giorni dopo, tornato da scuola, non riuscì a fare a

qualcuno il suo solito rapporto su tutto quello che aveva

imparato quella mattina perché trovò tutti presi da una grande

agitazione. Andavano e venivano dalle stanze alla cucina.

Sembravano delle formiche, si parlavano quando si incontravano,

si mostravano foglietti di carta, vecchi giornali, libri, dicevano

“sì”, “no”, “meglio in più che in meno”, “guarda dietro i cassetti

del salone”. In fretta e furia veniva bruciato tutto quello che

arrivava in cucina. Il fuoco gli era sempre piaciuto e Armando

approfittò subito del trambusto generale. Anche lui cominciò a

infilare nella cucina a legna i suoi pezzetti di carta e di legno per

alimentare le fiamme. I libri venivano aperti uno a uno, sfogliati,

scossi tenendoli per le copertina piegata all’indietro come se

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fossero le ali di una gallina. Tutto quello che usciva, segnalibri,

foto, foglietti non veniva nemmeno guardato ma subito buttato

nel fuoco. Alcuni libri vennero strappati lungo la rilegatura,

strappati a loro volta in libri più piccoli e buttati nel fuoco in

modo che bruciassero più rapidamente. La piastra delle cucina

economica era diventava rovente, rossa come Armando non

l’aveva mai vista. Pensò che l’acqua per lavarsi, che si riscaldava

in un apposito recipiente infilato a destra nella piastra della

cucina, lo avrebbe scottato. Gli adulti erano sempre più allarmati

per le cose che via via trovavano rovistando ognuno in una parte

della casa.

Armando si mise in grande agitazione. Pensò che tutta

quella confusione fosse colpa sua. Dopo l’altra volta in cui la casa

era stata minacciata dai due vestiti di nero, questa volta erano gli

adulti di casa che avevano deciso di scovare tutti i suoi luoghi

segreti. Li guardava con grande ansia mentre si avvicinavano o si

allontanavano da qualcuno dei suoi nascondigli. Si accorse con

stupore che anche gli adulti avevano i loro posti segreti perché a

un certo momento trovarono un pacchetto di fogli stampati tutti

uguali rovesciando una poltrona e infilando la mano dentro un

taglio che era stato fatto nella stoffa del fondo. Non se n’era mai

accorto, finirono anche quelli nel fuoco. Poi, siccome nessuno lo

sgridava pensò che quello fosse un gioco e per partecipare anche

lui portò delle cose da bruciare che però gli adulti scartavano

come se non volessero farlo giocare. Fino a quando non accostò

una poltrona al muro, si arrampicò sulla spalliera e infilò una

mano dietro al quadro dell’arlecchino sul ponte con la gabbia del

canarino in mano. Ululando tirò fuori un rotolino di carta. Sulle

prime nessuno gli badò. Armando continuò il suo urlo-canto

finché qualcuno si accorse della posizione precaria nella quale si

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trovava, lo mise per terra, e solo dopo le sue insistenze prese quel

rotolino di carta. Atterrito si precipitò a bruciarlo. Furono allora

tolti dai muri tutti i quadri ma Armando non capì se avevano

trovato dell’altro.

Molti anni dopo avrebbe saputo che in quella striscia di

carta arrotolata c’era un elenco di quarantadue nomi che nessuno

avrebbe dovuto conoscere.

Quel piccolo evento mise Armando al centro

dell’attenzione degli adulti e della loro paura. Ancora una volta si

sentì oscuramente preda del senso di colpa. Come se incarnare lo

spirito della casa fosse una cosa grave, molto grave perché

impauriva gli adulti e di conseguenza anche lui. In quel momento

suonarono e, senza aspettare che qualcuno andasse ad aprire,

cominciarono a colpire la porta con dei pugni gridando

“Polizia… polizia… aprite!”. Da quel momento la casa fu invasa

dal rumore. Allo stesso modo le voci e i gesti producevano un

frastuono assordante, confuso e paralizzante. Furono spinti tutti

in cucina. Solo un adulto fu autorizzato a seguirli in giro per casa.

Il risultato di quell’invasione Armando lo vide ch’era già

buio, anche perché si era addormentato. Qualcuno lo aveva preso

in braccio quando erano entrati in cucina e per fuggire dalla

confusione, dal rumore, dalla paura si era addormentato di botto.

Il sonno in quel momento era stato un rifugio mentre di solito -

da quando si sera fatto la domanda “ma dove va uno quando

dorme?”, senza trovare una plausibile risposta - addormentarsi

non era per lui una cosa piacevole. Avevano chiuso le imposte e

tirato le tende scure che servivano per non far passare all’esterno

neanche una stilla di luce. Armando sapeva che quello era il

coprifuoco. Era ormai sera. Non riuscirono a impedire ad

Armando di vedere. Tutti i mobili avevano i cassetti sfilati

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accatastati vuoti uno sull’altro; il contenuto dei cassetti era

rovesciato per terra e gli adulti stavano tentando di rimettere un

po’ di ordine. I letti erano disfatti, i materassi rovesciati

sottosopra; la fodera di qualche materasso era strappata, come

tagliata con un coltello, cosa che Armando aveva pensato più

volte di fare senza mai osare tanto; da alcuni cuscini uscivano

grumi di lana come se fossero le interiora di un animale

sbudellato. Gli armadi erano stati svuotati, i vestiti buttati sui letti

disfatti; alcuni vestiti avevano le fodere lacerate. Sopra i vestiti

erano buttati lenzuola, asciugamani, federe. I libri che si erano

salvati dal fuoco erano tutti in disordine, molti rovesciati per

terra, tutti confusi assieme. Gli fu impedito di salire in soffitta

perché non c’era luce ma si ripromise di andarci il giorno dopo.

Anche in cucina regnava la più totale confusione e i suoi giochi

erano mescolati con gli stracci, i fili per cucire, le stoviglie;

c’erano barattoli di vetro rotti e il loro contenuto era sparso

ovunque.

La casa aveva perso tutti i suoi segreti e Armando sentiva

di non aver più luoghi sui quali esercitare la sua supremazia.

Aveva perso quel potere magico che da solo si era costruito, non

poteva più essere lo spirito segreto della casa. Ancora una volta si

sentì preda di quell’oscuro sentimento che lo faceva sentire

colpevole di tutto quello che era successo. In quel momento gli

sembrava soprattutto di poter toccare la paura degli adulti; la

sentiva come una presenza fisica che prendeva alla gola.

Qualcuno piangeva, altri in silenzio tentavano di porre rimedio

mettendo ordine, ammucchiando da una parte tutto quello che

era stato rotto.

Aveva voglia di scappare, nascondersi e non farsi più

trovare da nessuno. Andò in ingresso per tentare di infilare la

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porta di casa. Non ci riuscì, era stata chiusa a chiave. Sconfortato

scostò con il piede coperte, ritagli di stoffa, maglioni e calzettoni

che erano stati buttati fuori dalla cassapanca, si buttò per terra,

traguardò il pavimento come aveva fatto quella mattina, vide il

listello del pavimento leggermente sollevato al suo posto.

Nessuno si sera accorto di nulla. Si sentì meglio, molto meglio.

Gli sembrò di riprendere in mano se stesso, come se si fosse

ritrovato là, spiaccicato sul parquet, partecipe della materia di cui

la casa era costruita. Non avevano trovato proprio un bel niente.

Qualche anno dopo seppe che la violenza dalla quale era

stata investita la casa era dovuta all’arresto del capitano Bianco,

quell’adulto con i baffi e gli occhiali che di lì a qualche mese, il

giorno della liberazione, sarebbe ricomparso in casa, con una

pistola in mano e bombe a mano agganciate alla cintura

dell’impermeabile.

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la storia di capitano Bianco Le SS italiane lo arrestano in una fresca mattina di marzo

del 1944 in piazza san Marco, dopo una breve colluttazione, un

attimo prima che due corrieri che gli consegnino le richieste dei

partigiani impegnati nel bosco del Cansiglio, vicino Belluno,

sopra il lago di santa Croce, a combattere per contendere a

fascisti e tedeschi il controllo di una delle strade di

comunicazione con l’Austria.

Giulio è monarchico e partigiano. Non badogliano,

monarchico e partigiano. Nome di battaglia: capitano Bianco. In

tutta Italia saranno forse qualche centinaio. Laureato in scienze

politiche, ultimo nato di una famiglia di costruttori di piccole

navi, destinato, unico dei figli ad aver studiato, a rappresentare il

nuovo status guadagnato con la volontà, il lavoro e l’intelligenza

di Giovanni e Regina, i genitori provenienti dall’entroterra

veneziano. Ufficiale del Savoia Cavalleria spedito in Africa poi, se

gli fosse riuscito, carriera diplomatica.

Viene ferito all’inizio della primavera del 1943 e rimandato

in Italia. E’ in congedo illimitato perché l’omero sinistro non ne

vuole sapere di andare a posto. L’8 settembre è a Venezia.

Durante la convalescenza ha visto i suoi vecchi compagni di

studio e insieme hanno cominciato a ragionare sul futuro.

Attraverso alcuni di loro si mette a disposizione del Comitato di

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Liberazione Nazionale. L’8 settembre non lo coglie impreparato.

Abbandona la casa dei genitori, frequenta senza alcuna regola

case di amici e parenti e fino al momento del suo arresto riesce a

organizzare una rete efficiente per trovare e trasportare in

montagna armi e medicine.

E’ un uomo taciturno, dedito soprattutto alla lettura, con

una passione per i testi giuridici e storici e per quelli che

raccontano degli eserciti, delle guerre e delle divise dei militari. E’

gentile con tutti e un ampio sorriso gli illumina la faccia larga e

piatta quando ha la sensazione di essere capito. Non è uno che si

fa notare e solo quando parla, con quel suo modo pacato e sicuro

di esprimersi, capisci che è ben piantato nelle sue convinzioni.

Durante gli interrogatori dopo l’arresto si rende conto che i suoi

interlocutori non conoscono il suo ruolo – per loro è solo un

disertore – e lo ritengono una figura marginale, anche perché alla

questura è noto per essere monarchico e viene trattato quasi da

“politico”. Riesce a non coinvolgere perciò altri compagni e si

ritrova, senza aver subito gravi danni nella prima fase della

prigionia a Venezia, a Mauthausen, uno dei campi di

concentramento dei prigionieri di guerra.

Il comandante Bianco ha un buon carattere: nonostante sia

stato coccolato e viziato da un intero clan familiare in quanto

ultimo di sette fratelli, nonostante sia cresciuto nei migliori collegi

del Veneto e abbia frequentato l’università e il corso ufficiali alla

scuola di cavalleria di Pinerolo - a quell’epoca di non facile

accesso per uno privo di quarti di nobiltà - si adatta rapidamente

alla vita del campo.

Molti anni dopo, vicino ai sessanta, coinvolto a sua

insaputa in una truffa finirà a San Vittore, dove si occuperà della

biblioteca, scriverà le comparse per i detenuti che lo ripagano con

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sigarette che regala ad altri detenuti e commenterà: “Non si sta

poi tanto male; nessuno ha idea di cosa sia un campo di prigionia

tedesco”.

Il campo è un impasto di violenza, sopraffazione, piccole

furbizie e grandi carognate che possono arrivare dai compagni

come dagli aguzzini. Pochi giorni dopo l’arrivo interviene in una

violenta disputa tra due prigionieri della sua baracca che ha

richiamato l’attenzione e la presenza di un vecchio caporale

bavarese. Nel tentativo di limitare danni e punizioni gli si rivolge

in tedesco, a bassa voce, in modo pacato, con la sua cadenza

veneta poco adatta a parlare quella lingua, quasi sorridendo sotto

i sottili baffi. In altre circostanze si è accorto che i suoi interventi

hanno l’effetto di calmare gli interlocutori. I due prigionieri

italiani temono il peggio ma si accorgono con stupore che il

caporale invece di imprecare, minacciarli, distribuire alla cieca

colpi con il calcio del fucile, è come ammaliato. Lui, contadino

del meridione della Germania, colpito dal fluente tedesco che in

bocca al prigioniero perde ogni durezza e ogni asperità, forse

capisce poco di quella lingua colta.

Giulio conosce molto bene il tedesco. Negli anni in cui ha

frequentato l’università per chi ambiva alla carriera diplomatica la

conoscenza del tedesco era obbligatoria.

La notizia di un ufficiale italiano che parla correntemente il

tedesco arriva rapida al comando dove cercano bilingui per

facilitare la gestione dei servizi del campo. Meglio se è un

ufficiale. Pochi giorni dopo viene destinato a comandare i

prigionieri che lavorano al forno del pane.

Nel regime di scarsezza alimentare in cui vivono i

prigionieri tutti i lavori che hanno a che vedere con il cibo sono

molto ambiti, in particolare il lavoro al forno. Metodico e preciso

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com’è, il capitano Bianco conquista rapidamente la fiducia dei

tedeschi e comincia a godere di una certa autonomia. Assieme ai

suoi studia con attenzione il ciclo della lavorazione del pane, i

giorni dei controlli, il modo in cui i controlli vengono effettuati e

stabilisce qual è il momento per attuare il suo piano per

recuperare un po’ di pane per gli ammalati e i più deboli: è il

momento in cui il pane viene infornato. Appena si accorge che i

controlli dei tedeschi sul lavoro del suo gruppo si allentano, dà

l’ordine di accantonare pochi grammi di pane da ogni pagnotta

che viene infornata. L’operazione va fatta dopo la pesata, perché

ogni pezzo di pane ha un suo peso ben determinato. E’ un

abilissimo abruzzese che dopo la pesata, con grande destrezza,

nel sistemare sulla pala le forme di pane da infornare, riesce a

sottrarre dal sotto della forma il materiale per avviare una piccola

produzione parallela. Producono sfilatini sottili da poter

facilmente nascondere in una manica o nei calzoni. Con lo stesso

sistema riesce ad accantonare anche un po’ di lievito che assieme

al pane viene distribuito con grande parsimonia. In un paio di

occasioni qualche prigioniero escluso dalla lista fatta dai

responsabili delle baracche minaccia di parlare. Allora il mite

capitano Bianco, tra mille ripensamenti, dubbi e nonostante

rimanga profondamente convinto del valore della parola e della

sua personale capacità di convinzione, dà il suo assenso a delle

minacce di avvertimento, poi a un pestaggio. E’ un conservatore,

un militare e per lui le regole contano.

Ogni venerdì i tedeschi misurano le riserve di farina, sale,

lievito e controllano la quantità di pane in uscita dal forno. Ogni

lunedì mattina vengono reintegrate le scorte e nessuno ha il

sospetto di quanto sta accadendo. Si fidano del capitano Bianco. Il

peso del pane in uscita viene contabilizzato quotidianamente a

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ogni sfornata e le pesate le fanno i soldati ai suoi ordini. Ci

vorrebbe un’ispezione radicale per mettere in luce la produzione

parallela. Sanno il grande rischio che corrono, ma sotto la guida

attenta e meticolosa del capitano Bianco si sentono sicuri.

Durante le operazioni di controllo Giulio intrattiene buoni

rapporti con l’ufficiale tedesco, la cui attenzione viene

dolcemente dirottata sull’ordine, la pulizia e la sistematicità con

cui si lavora e si tengono i registri. Questo provoca grandi cenni

di approvazione.

La “squadra del pane” sotto la direzione del capitano Bianco

diventa celebre nel campo di Mauthausen, come viene a sapere

molti anni dopo conoscendo meglio uno dei fornitori - anche lui

prigioniero nello stesso campo - della filiale OM di Milano che

con poca fortuna metterà in piedi verso la fine degli anni ’50. In

verità tutte le sue intraprese dopo un inizio felice, per qualche

motivo non si sviluppano, non decollano e quasi sempre, a

sentire lui, per colpe non sue. Fosse durata più a lungo, forse

anche la “squadra del pane” avrebbe fatto la stessa fine.

Appena Giulio è stato fatto prigioniero i fratelli hanno

inviato al Ministero della Guerra la domanda per ottenere la sua

liberazione, dichiarandolo indispensabile per la produttività del

piccolo cantiere navale e della fonderia di proprietà della famiglia.

Giovanni, il padre, non ha mai voluto iscriversi al Partito

Nazionale Fascista e finché c’è stato lui di commesse belliche il

cantiere ne ha viste ben poche. Quando Giovanni muore, poco

prima dell’entrata in guerra, uno dei fratelli prende la tessera.

Non lo fa per convinzione fascista, ma solo per portare avanti

l’azienda. Subito il cantiere entra nel novero delle industrie

belliche e piovono ordini, prima dal Ministero della Guerra di

Roma, poi da quello della Repubblica Sociale Italiana.

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L’aumento delle commesse e il contemporaneo richiamo al

fronte di una parte del personale fanno sì che la domanda per la

liberazione di Giulio venga accolta, con l’obbligo di presentarsi

ogni giorno alla firma del registro in questura - è considerato un

“politico” - e l’assunzione da parte dei fratelli delle responsabilità

conseguenti all’eventuale ripresa delle sue attività illegali.

Per una singolare coincidenza molti dei prigionieri della

“squadra del pane” sono veneziani, anche loro “politici”, rossi,

specialisti civili dell’Arsenale militare di Venezia, arsenaloti, l’élite

della classe operaia veneziana. Anche per loro la direzione del

personale dell’Arsenale ha presentato la richiesta di reintegro nei

ruoli pena l’impossibilità, in loro assenza, di realizzare

determinate lavorazioni legate a obiettivi militari.

E’ così che ai primi di ottobre del 1944 il capitano Bianco e

un’altra quindicina di prigionieri vengono caricati in un camion

tedesco e rispediti a Venezia. Prima di andarsene dal campo

mette al corrente il suo sostituto alla direzione del forno del

funzionamento della “squadra”. Lo fa con calma e precisione,

come se si trattasse di lasciare la sede di un ufficio per trasferirsi

in una nuova sede.

Durante il viaggio all’interno dell’Austria i suoi compagni

di viaggio lo prendono in giro quando capiscono che è

monarchico. Non riescono a farsene una ragione né lui accetta

critiche al suo credo politico che, in effetti, non gli consente

margini di compromesso: sono dalla stessa parte, ma lui si trova

all’estremo opposto.

Poi il discorso si sposta sulle probabilità, una volta in Italia,

di venire attaccati dai partigiani passando in una delle valli che

portano in pianura. Qualcuno dei suoi compagni lo spera, ma il

rischio è alto perché nessuno può immaginare che quel camion

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tedesco trasporti prigionieri italiani. Il capitano Bianco spera di

arrivare a Venezia senza incontrare nessuno.

Al confine con l’Austria vengono presi in consegna dai

militi della Repubblica Sociale Italiana e, se possibile, trattati

peggio di quanto hanno fatto i tedeschi. Al valico di Tarvisio fa

freddo e piove, una pioggia gelida che a quelle quote annuncia

l’arrivo dell’inverno e sa già di neve.

Giulio riconosce i luoghi di una spensierata vacanza da

studente, ma non ne parla con i suoi compagni. Dal tendone del

camion penetrano rivoli d’acqua che finiscono per gocciolare

addosso ai prigionieri e ai due militi che li sorvegliano con il

Beretta imbracciato. In pianura il freddo non diminuisce, è ormai

buio. Da quando sono nelle mani degli italiani sono stati zitti,

non vogliono farsi capire da quelle carogne che non li hanno fatti

né mangiare né bere. Uno dei prigionieri se la fa addosso perché

non li fanno scendere nemmeno per pisciare.

Le carogne sono quattro ragazzini e un giovane caporale e

hanno una paura terribile di sbagliare.

Sono alla periferia di Mestre quando il camion, nel buio

pesto e con i fari a mezza luce, va a sbattere contro un

semicingolato tedesco carico di soldati uscito all’improvviso da

un incrocio. I due militi di guardia nel cassone del camion sono

colti di sorpresa. L’alterco tra tedeschi e italiani scoppia

immediatamente e i tedeschi, anche se hanno torto, mettono

sotto accusa i giovani italiani. Una parte dei prigionieri decide di

sfruttare la situazione: impadronirsi delle armi dei militi e tentare

di scappare con il camion. Il capitano Bianco che sta sonnecchiando

vicino a uno dei due militi, si è svegliato al momento dell’impatto

e la sua prima reazione è stata quella di saltare giù dal camion. Un

istante dopo si rende conto che contro fascisti e tedeschi insieme

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non possono farcela. Si butta verso l’interno del cassone e cerca

di bloccare i movimenti di quelli che dal fondo stanno avanzando

verso i militi per disarmarli. Il parapiglia che ne segue - il capitano

Bianco si mette a gridare che stiano fermi perché potrebbero

calpestare gli occhiali che gli sono volati via dal naso - sposta sui

prigionieri l’attenzione dei militi e dei tedeschi che stanno

discutendo. Con i mitra spianati i prigionieri vengono costretti,

tra maledizioni e bestemmie che tagliano l’aria, a rimettersi ai loro

posti. Per ultimo il capitano Bianco. Per fortuna è riuscito a

ritrovare gli occhiali.

Quando a piazzale Roma scendono dal camion e vengono

prelevati dalle SS italiane per essere accompagnati in questura

nessuno dice niente ma gli sguardi torvi che incrociano gli occhi

del capitano Bianco parlano da soli.

Come racconterà anni dopo è convinto di aver salvato la

pelle a tutti: “Dal fondo del cassone non si erano resi conto che

nel semicingolato tedesco c’erano venti soldati armati fino ai

denti. Se andava bene ci rispedivano in campo di

concentramento, se andava male ci falciavano tutti lì per strada”.

Ha ripreso il lavoro da una settimana che già rientra nel

ruolo di partigiano e ristabilisce i contatti con il comando del

Comitato di Liberazione Nazionale da cui dipende. Anche se ha

la copertura del lavoro in fonderia ora la situazione è più

rischiosa perché viene controllato e spesso pedinato. La fonderia

stessa è un luogo militarizzato, ma i suoi dipendenti, tutti della

Giudecca - la maggior parte sono comunisti o socialisti - sanno

chi è e lo proteggono in tutti modi. Durante l’orario di lavoro

approfitta del via vai di fornitori e dei trasporti per acqua delle

materie prime o dei prodotti della fonderia e fa giungere a

destinazione armi, uomini e informazioni.

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Nello stesso tempo lavora per riorganizzare a Venezia il

movimento monarchico. Dà ormai per scontato che il primo

passaggio obbligato dopo la liberazione riguarderà la scelta tra

monarchia e repubblica. Sa anche che i fautori della repubblica si

preparano a prendere il potere a guerra finita facendo pesare sul

paese, anche al di là della sua portata, la fuga del re dopo l’8

settembre. Spera che molti sostenitori della monarchia si siano

schierati come ha fatto lui contro i fascisti e spera anche

nell’appoggio dei cattolici. Sa quanto siano fragili le sue speranze

ma non rinuncia a credere, anche al di là delle apparenze.

I fratelli lo lasciano fare e, come molti imprenditori in

quegli anni, approfittano del suo ruolo per tenere i piedi in due

staffe, sempre in nome dell’azienda e del lavoro. Sanno che la

maggioranza degli operai è di sinistra, che fra loro ci sono

militanti dei Gruppi Armati Partigiani e che se qualcuno

scompare dal lavoro è stato arrestato o si è dato alla macchia.

Anche in questo caso il ruolo del capitano Bianco permette ai

fratelli di governare al meglio la situazione: attraverso canali che

solo lui conosce sa sempre come sostituire gli operai che se ne

vanno e così il cantiere rispetta le consegne.

All’inizio dell’inverno le notizie che arrivano dalla

montagna non sono rassicuranti, al contrario di quelle che

provengono dai vari fronti di guerra. Alla fine di gennaio

l’Armata rossa entra a Novgorod, gli alleati sbarcano ad Anzio e

gli americani di Mac Hartur sulle isole Marshall . Sono tutti indizi

delle gravi difficoltà dell’Asse.

Il capitano Bianco si augura che gli alleati risalgano la penisola

il più rapidamente possibile. Solo così ci sono buone probabilità

di arginare la spinta delle sinistre che, almeno a lui, sembra

puntare a un immediato cambio di regime subito dopo la

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liberazione. La scelta del governo Badoglio da parte del re gli è

sembrata perdente.

I monarchici come lui che hanno abbracciato la guerra

partigiana sono pochi e per questo la sua influenza nel

movimento monarchico veneziano aumenta e viene riconosciuta

anche dalle altre forze politiche. Per gli stessi motivi una parte dei

suoi non lo vede di buon occhio. Alla vigilia del referendum del

giugno ’46 diventerà uno dei finanziatori della campagna a favore

della monarchia. Dalla sua fonderia uscirà una gigantesca stella

luminosa in vetro e ferro, simbolo del movimento monarchico,

che verrà presa a sassate, probabilmente dai suoi stessi operai,

poche notti dopo essere stata montata in campo San Luca.

Ai primi di marzo del ’45 l’ordine è di organizzare e

sostenere le azioni partigiane dei Gruppi Armati Partigiani in città

e di preparasi per la liberazione. Il CLN ha fretta e vuole

muoversi prima dell’arrivo delle truppe alleate, organizzare il più

presto possibile forme di governo locale appena buttati fuori i

tedeschi e resi inoffensivi i fascisti. Con la sua solita flemma, con

l’aria di quello sempre immerso nella lettura di un libro, il capitano

Bianco lavora, anche se queste attività vanno contro le sue

convinzioni. Sia in cantiere che nella fonderia all’insaputa dei

fratelli, sia nelle case di parenti e amici organizza uomini,

accantona armi e munizioni. Così fino al giorno della liberazione

quando, indossato il trench sopra il doppiopetto blu, con i guanti

di pelle nera, le scarpe nere lucide, la pistola d’ordinanza nella

tasca destra e due bombe a mano alla cintura, esce di casa per

andare a stanare gli ultimi fascisti trincerati nell’Ala Napoleonica,

in fondo alla piazza, di fronte alla basilica di San Marco.

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inverno 1944

Quella sera Armando non volle sentire ragione. Gli

avevano regalato un carretto di legno con il timone per tirarlo e le

ruote che giravano girando il timone? Un carretto che pareva

fatto apposta per trasportare una piccola damigiana d’acqua? Sì.

E allora lui doveva andare con loro a prendere l’acqua alla

fontana.

L’acqua, dai rubinetti delle case, mancava da giorni. Tutti

facevano la fila alla fontana che stava oltre l’Ala Napoleonica,

dall’altra parte della piazza San Marco. Sarebbe stato l’ultimo

viaggio della giornata per approvvigionarsi per i giorni successivi.

C’erano due damigiane già piene nello sgabuzzino in terrazza,

quella dell’ultimo carico l’avrebbero messa nella vasca da bagno,

per lavarsi e per il gabinetto.

Armando non era mai uscito con il buio se non per andare

in rifugio. Spesso in quelle occasioni si addormentava e si

svegliava solo quando, una volta dentro, veniva invaso da quel

caldo appiccicoso e puzzolente. Anche se non dormiva ricordava

poco di quei trasferimenti, perché c’era l’allarme e al buio tutto

diventava confuso.

Quella sera dell’acqua era particolare, perché si poteva

circolare con una lampada. Armando riuscì a spuntarla e si avviò

con il suo carretto e, al colmo della soddisfazione, con una

piccola torcia a batteria in mano con la quale doveva illuminare il

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cammino di tutti gli altri.

L’entrata in piazza con quella magica luce fu un’emozione

indimenticabile. Gli sembrò di poter parlare con tutte le altre luci

che si muovevano intorno a lui. A un certo momento ebbe la

sensazione di sentire un suono, una specie di coro, e pensò che

fossero tutte le luci che si erano messe a cantare. Era una di

quelle sere di inizio inverno quasi miti. I venti freddi da un po’ di

giorni dormivano e il sole era riuscito, in quell’intervallo di

tempo, a penetrare nelle pietre grigie del selciato. Ora il sole

usciva dalle pietre sotto forma di calore dando l’illusione di un

inverno ancora lontano. Armando capofila della sua famiglia

abbandonò per un attimo il ruolo di guida che aveva assunto,

attratto dalla possibilità di seguire con il suo carretto il tortuoso

tracciato delle pietre bianche che disegnano la piazza e che anche

di sera si poteva vedere senza bisogno di luce, tale era il contrasto

tra il grigio dei masegni e il bianco dei marmi del disegno. La

deviazione durò poco e Armando riprese il gioco di comandare

con la luce tutti gli altri.

In fondo alla piazza si cominciava a intravedere la lunga

fila bisbigliante di persone che aspettavano il loro turno per

riempire d’acqua recipienti di tutti i tipi. A destra e a sinistra della

fila si distinguevano, ogni quindici o venti metri, soldati tedeschi

con i fucili mitragliatori imbracciati. Un gruppo di ragazze

canticchiava sottovoce una canzone che Armando aveva sentito

uscire dalla scatola bianca della piccola Emerson.

La radio americana con una chiave di violino dorata

avviluppata attorno alla lucina arancione che si accendeva

manovrando la manopola di sinistra, stava appoggiata sul suo

vecchio seggiolone ormai in disuso. Quando la voleva ascoltare,

proprio solo lei dimenticando tutto il resto, si infilava tra le

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gambe del seggiolone e si acquattava sotto il sedile come per

rinchiudersi in una gabbia di musica e parole spesso

incomprensibili.

All’improvviso sentì delle urla provenire dal punto della fila

più vicino alla fontana e abbandonato per un momento il suo

carretto si avvicinò per sentire meglio. Si sentivano voci acute di

donne che strillavano e rumore di secchi sbattuti. Mentre cercava

di farsi largo fra le gambe della gente in fila qualcuno lo prelevò e

lo mise a sedere sul carretto. Nello stesso momento, le urla

cessarono perché erano intervenuti i soldati tedeschi. Rimase a

giocare seduto sul carretto spostandolo con i piedi un po’ alla

volta verso la cima della fila, finché non arrivò il suo turno.

Volle fare tutto da solo, lasciando cadere per due volte il

recipiente di alluminio quando, pieno d’acqua, diventava troppo

pesante. Dietro di lui le persone protestavano per il tempo che si

perdeva e per la preoccupazione che l’erogazione dell’acqua

potesse cessare improvvisamente. Finalmente, i piedi bagnati e le

maniche del cappotto e della maglia fradice fino al gomito, riuscì

a mettere il recipiente sul carretto e a fare le prove di traino in

attesa degli adulti che dovevano riempire i secchi e le pentole da

portare in due con le mani protette dai fazzoletti ripiegati.

Si avviarono. Arrivato ai tre gradini per scendere dalle

Procuratie Nuove alla piazza Armando si fermò incespicando,

come spesso succede ai bambini, sui piedi degli adulti che lo

seguivano. Non sapeva come fare a superare l’ostacolo. Avevano

tutti fretta. L’acqua pesava e avevano tutti fretta. Armando si

accorse di aver già perso per strada una parte dell’acqua uscita dal

suo recipiente senza coperchio e si preoccupò molto. Gli venne

quasi da piangere ma subito si tranquillizzò quando qualcuno,

posati i secchi, sollevò lui, lampada, acqua e carretto e, senza

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ulteriori perdite, li depose sulla piazza. Avevano risalito la fila fin

quasi alla coda dove brontolando si stavano raccogliendo gli

ultimi arrivati sperando di non rimanere senza acqua. Armando

camminava impettito davanti a tutti. Salutò, come aveva imparato

fin dall’asilo, il soldato tedesco con il braccio teso inclinato in

avanti e quello ridendo diede un calcio al suo carretto

rovesciandolo assieme a tutta l’acqua.

Il soldato rideva; rideva qualcuno di quelli ch’erano in fila e

anche qualcuno degli adulti ch’erano con lui rideva. Armando

rimase paralizzato. Tutta quella fatica sprecata. L’eccitazione di

quella avventura notturna si trasformò in una rabbia cieca. Prima

di scoppiare a piangere si avventò imbestialito sul soldato tedesco

e gli sputò sugli stivali. Per Armando era il massimo dell’offesa

possibile. Se gli capitava di pensare cattiverie di qualcuno, di

sentire un’avversione profonda anche se indistinta, di desiderare

che scomparisse, il modo di distruggerlo era sputargli sulle

scarpe.

Un adulto se lo caricò fradicio d’acqua e disperato a

cavalcioni sulle spalle; le lacrime di Armando gli piovevano sulla

testa. Allontanandosi sentiva ancora ridere il soldato tedesco ma

solo perché, pensava Armando, non si era accorto dello sputo

sugli stivali.

Non riuscì a prendere sonno. Era annichilito per la

violenza subita. Agitato dalla confusione che gli procuravano i

pensieri di distruzione dell’altro, lo sputo sugli stivali era stato per

Armando un’azione terribile che si stava ritorcendo contro di lui.

Non capiva più verso chi era diretto il furore che sentiva dentro.

Più aumentava il numero delle persone da distruggere - chi lo

aveva spogliato, chi lo aveva accompagnato in bagno, chi gli

aveva messo il pigiama – più il bersaglio della sua collera

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diventava indistinto.

Sentì parlottare in cucina e poi registrò, tentando di

immaginare cosa fosse, un rumore ritmico “… sss… zzz…

sss…”. Non riuscì a capire di cosa si trattava. La cadenza del

rumore lo aiutò ad addormentarsi.

La mattina dopo, prima di andare a scuola, ispezionò con

cura la cucina e trovò vicino alla gamba di legno del tavolo della

polvere molto fine dello stesso colore della segatura che in

mancanza di legna si usava nella cucina economica.

Si avvicinava Natale e Armando era in grado di apprezzare

fino in fondo i vantaggi che gli potevano derivare da questa festa.

I piccoli obblighi temporanei: “non urlare, chiedi per favore, non

sporcarti, vai a dormire senza discutere” erano in fondo

accettabili perché passato Natale, pensava, poteva riprendere a

fare come pareva a lui.

Il Natale che Armando aveva imparato a conoscere nei

pochi anni della sua vita era un Natale di guerra, ma ciò

nonostante gli sembrava il massimo. Era diventato molto difficile

trovare un abete perché i boschi delle montagne del Veneto

erano in mano ai partigiani, ma ad Armando pareva già

straordinario l’albero di carta verde che veniva fissato con le

puntine da disegno sul muro del soggiorno. Le palle di vetro

bianco o trasparente con le polverine colorate e le figurine di

carta incollate sopra venivano portate giù dalla soffitta, dove

stavano a riposare per tutto l’anno dentro scatole di cartone

bianco divise a scomparti - un po’ di paglia sotto a ognuna e un

quadrato di carta bianca leggera per avvolgerle. Sembravano delle

uova fantastiche. L’albero di carta veniva contornato da fili

d’argento e a questi appese le palle e le candeline di cera colorata.

Sotto veniva steso un foglio di carta marrone, la terra da cui

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nasceva l’albero, che serviva anche per raccogliere la cera che

gocciolava dalle candele accese e a sistemare il presepe.

Armando aveva con il presepe una vecchia ruggine. L’anno

precedente, offeso perché qualche adulto gli aveva impedito di

toccarlo, si era impadronito di nascosto delle statuine, aveva

riorganizzato sotto una sedia il suo presepe personale – ma aveva

fatto confusione fra le statuine, perché non ne capiva bene i ruoli

– e ci aveva fatto la pipì sopra. Un rito di impossessamento,

come un gatto che segna il suo territorio.

A scuola dalle suore Armando pregava, aveva imparato a

dire “sia lodato gesù cristo”, e a cantare delle canzoncine che

parlavano di Gesù. Ma della religione capiva poco. Afferrava

qualche immagine, ma molte, come quella del presepe, non

riuscivano a emozionarlo, se non come un gioco divertente da

fare e rifare, inventando ogni volta una storia diversa.

“... sss… zzz… sss… zzz…”. Se riusciva a non

addormentarsi subito quasi tutte le sere poteva sintonizzarsi su

quello strano rumore sempre uguale - ogni tanto smetteva e poi

riprendeva - e ogni mattina, alzandosi, trovava tracce di segatura

vicino alla gamba del tavolo di cucina. Solo anni dopo riuscì a

stabilire un rapporto tra i rumori, la segatura, e il garage grigio,

giallo e rosa che trovò quell’anno sotto l’albero di Natale: grigia la

rampa per entrare nei quattro box, gialli i muri, rosa il tetto che

sporgendo sul davanti formava una bellissima tettoia. C’erano

anche due paracarri bianchi e neri all’estremità della rampa, in

basso. Magnifico. La Befana, qualche giorno dopo, avrebbe

portato due piccole macchine da corsa, una argento e una rossa,

di ghisa con le ruote di gomma.

Le due auto da corsa venivano con religiosa cura ricoverate

nel garage dopo aver percorso in lungo e in largo tutte le piste di

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casa. Quando si poteva uscire il grande circuito, che qualche

bambino più grande chiamava “monza”, era costituito dall’anello

di pietra d’Istria che delimita la parte centrale rialzata della

piazzetta dei Leoncini. La corsa doveva interrompersi nel

passaggio davanti ai due leoni dove il bordo si riduceva a pochi

centimetri; qui i distacchi fra i concorrenti venivano misurati a

spanne, e la corsa riprendeva oltre l’ostacolo.

In altre stagioni, anni dopo, al tempo del giro d’Italia, lo

stesso percorso diventava una gara di ciclisti e i corridori erano i

tappi a rosetta metallici della gazzosa o della birra.

I tappi erano una specie di moneta. I più rari, quelli che

avevano sul dritto il marchio di una fabbrica o di una bibita

molto rara potevano valere anche dieci, quindici tappi “normali”;

cinque tappi rari valevano il tacco di una scarpa da uomo. Il

tacco, per diventare un buon tacco per giocare, veniva chiodato e

incerato. Partendo da una base ognuno tirava il suo tacco più o

meno lontano dalla base. Quando tutti erano fuori dalla base a

turno bisognava con un solo lancio riportare il proprio tacco

dentro il masegno che fungeva da base. Se si riusciva a rientrare

alla base si acquisiva il diritto di provare a colpire con il proprio

uno dei tacchi degli altri giocatori. Bastava toccarlo per essere

ricompensati con un certo numero di figurine patteggiato

all’inizio. Oppure bulloni, balete de fragna, e tappi. Normali o rari,

questi erano una merce molto preziosa per Armando, perché

quando i camerieri li gettavano addosso ai bambini che giocavano

vicino ai bar, davano origine a zuffe nelle quali i più grandi

avevano sempre la meglio.

Fu così che un giorno barattò il suo triciclo - ma era molto

mal ridotto, chissà quanti altri bambini l’avevano usato - per dieci

tappi. Quando questo episodio, che scatenò un putiferio tra gli

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adulti, gli tornava in mente arrivava sempre alla stessa

conclusione: aveva fatto un ottimo affare, perché il grado di

importanza, nella gerarchia che vigeva nella piazzetta dei leoncini,

era dato dalla quantità di tappi che si possedeva e non da un

vecchio triciclo scassato.

Sul finire dell’inverno, seppe poi ch’era stato il più duro

della guerra, si sparse la voce tra i bambini che in laguna c’era

grande abbondanza di pesce. Non appena i pomeriggi

cominciarono ad allungarsi, gli imbarcaderi delle gondole sulla

riva della piazzetta di San Marco, sotto le colonne di Marco e

Todaro, diventarono un campo di gara di pesca alle anguele: la più

grande non arrivava a sei centimetri, buone al massimo per farne

frittura. “Pesse da gato”, dicevano ridendo i gondolieri, ma per i

bambini era questione di vita o di morte. Solo un urlo “La

visigola!” poteva interrompere la loro concentrazione: era

l’annuncio dell’arrivo dell’aguglia che a pelo d’acqua passava a

pochi metri dalla riva scompaginando il tranquillo andare degli

sciami di anguele.

La riva della piazzetta, dove trascorreva interi pomeriggi,

era diventata per Armando una specie di rifugio dal quale

osservava da lontano, come da bordo di una barca che aveva

lasciato gli ormeggi, pezzi della propria vita e delle persone che la

intersecavano. Mentre gli altri pescavano Armando si perdeva a

guardare le forme e i colori che assumeva l’acqua, in continua

mutazione come le onde che si formavano quando passava una

nave o un vaporetto. Immaginava che il mare potesse riflettere

tutte le facce delle persone del mondo, quelle che avevano già

vissuto, quelle che vivevano e quelle che ancora dovevano

nascere.

Ad Armando gli adulti avevano proibito di pescare: “no,

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86

l’amo no, è troppo pericoloso”; provò allora con uno spillo

piegato, qualche metro di filo per cucire e delle palline di mollica.

Sognava di procurare cibo per tutti, un grande piatto di anguele da

mangiare con la polenta. Tornò a casa con un solo pescetto che

finì nella ciotola del gatto.

La delusione di non riuscire a procurare cibo per tutti non

lo angustiava più di tanto perché si era fatto l’idea che procurarsi

da mangiare fosse un’impresa facile e divertente: c’erano i negozi,

uno entrava, chiedeva quello di cui aveva bisogno e il bottegaio,

se aveva il cibo richiesto, subito esaudiva il desiderio. Poi sfilava

la matita da dietro l’orecchio e scriveva qualcosa in un quaderno,

ma a questo gesto, che non capiva, Armando non dava troppa

importanza. Insomma la strada era come la dispensa di casa:

bastava scendere e si poteva portare via quel poco che si trovava

nei negozi. Riso conservato in grandi sacchi bianchi: con una

piccola pala argentata veniva versato con colpi sapienti sulla

bilancia e poi incartato con abile mossa delle due mani a fare un

sacchetto da un foglio di carta, quante volte Armando aveva

provato a rifarlo senza mai riuscirci. Piccole semisfere verdi che si

separavano in due parti quando la buccia si seccava, bisognava

metterli a bagno nell’acqua e cercare i sassetti che c’erano dentro.

Sapone che serviva per lavare tutto: i capelli, i vestiti, il

pavimento, la faccia; per fortuna non era facile trovarlo.

Armando si era convinto che quel poco che c’era, serviva per

lavare solo lui.

Qualche volta si trovava il latte e allora bisognava andarlo a

prendere con la bottiglia di vetro, ne aveva già rotte due, per

fortuna vuote. Un adulto gli aveva parlato delle mucche ma non

aveva capito bene di cosa si trattava. Per Armando che cresceva

nella città di pietra risultava difficile, quasi impossibile, mettere in

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87

relazione latte e mucca, olio e ulivo, la pasta con il grano.

Qualcosa gli avevano spiegato, ma per lui era come credere a

Gesù Bambino e alla Madonna. Poteva anche credere, ma non

capiva, e tutte le spiegazioni aspettavano la verifica degli occhi,

del tatto, dell’esperienza diretta.

Le maggiori perplessità gli erano suscitate dal banco del

fruttivendolo. Guardava le file di cassette messe in ordine da

sopra a sotto, a ridosso del muro, a destra e a sinistra

dell’ingresso della bottega. Da una parte le verdure, dall’altra la

frutta. Da una parte le patate, i cavoli, le verze; dall’altra le mele,

le arance, i limoni. Non c’era mai molta roba, ma tutte quelle

forme e quei colori erano sufficienti per disorientarlo: mai

avrebbe immaginato che la terra che lui conosceva – quella umida

e scura del rifugio – potesse produrre cavoli e patate; che

esistessero alberi sui quali crescevano - per lui era impossibile

capire come - mele, arance e limoni.

In casa sentiva parlare con nostalgia della frutta che

Vincenzo mandava da Napoli prima della guerra: era il modo con

cui annunciava il suo arrivo a Venezia dove aveva preso

l’abitudine di fermarsi prima di andare a Monaco a piazzare i suoi

treni di frutta e verdura.

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la storia di Vincenzo

Dovrebbe chiamarsi di Vincenzo e Maria, perché Vincenzo

comincia a convivere con la sua storia attraverso i racconti che fa

alla giovane moglie. In qualche modo Maria è da sempre dentro

la storia; per mille volte, da lontano, il pensiero di lei, il ricordo

del suo viso, degli occhi luccicanti, della pelle, del sorriso, delle

mani, del suo corpo, lo hanno aiutato a vivere. Raccontando,

Vincenzo rivive con assoluta precisione le occasioni nelle quali il

ricordo di Maria è diventato, di volta in volta, struggente,

sensuale, angoscioso. Anche le volte in cui il ricordo è

scomparso; non poteva esserci, tale era l’abisso di rumore, di

violenza, di spavento nel quale precipitava: per uscirne, doveva

pensare solamente a se stesso.

Vincenzo torna a Calvizzano, appena fuori Napoli, verso la

fine di agosto del 1945. Non è riuscito ad avvisare nessuno del

suo arrivo. Gli ultimi chilometri di treno sono stati di una

lentezza esasperante. Lungo la linea ci sono in continuazione

cantieri pieni di uomini che riparano i danni della guerra.

Approfittano del passaggio del treno per scostarsi dal terrapieno

dove stanno lavorando. Si appoggiano sui loro attrezzi, si

asciugano il sudore, accendono una sigaretta e salutano quando

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vedono il gruppo di giovani militari affacciati ai finestrini a bersi

con gli occhi la loro terra. Molti di quelli che lavorano sono

vestiti con pezzi di divise militari di tutti gli eserciti che sono

passati di là. Per Vincenzo e i suoi compagni che ritornano dalla

Germania è il primo vero benvenuto; come se la terra, gli alberi,

le case li avessero riconosciuti, anche se sono cambiati molto

rispetto a due, tre anni prima.

Intravede casa sua tra gli alberi ancora prima di entrare in

stazione. E’ come l’ha ripensata tante volte in quegli anni:

piantata in mezzo alla campagna, forte, protettiva. Si incammina a

piedi e per strada lo riconoscono in molti finché Antonio, un

vecchio potatore che tante volte ha lavorato per la sua famiglia, lo

carica sul sellino della sua Guzzi. I frutteti e i campi di verdura

hanno l’aria stanca di quelli che hanno lavorato per un’intera

stagione e aspettano di essere preparati per riposarsi fino alla

prossima. Accorrono in tanti quando arriva sulla vecchia aia. Poi

dentro, accolto dalla fresca protezione della casa e dalle festose

attenzioni della famiglia. Sono passati quasi due anni da quando

ha fatto l’ultimo pasto decente e ha dormito in un letto vero.

Vincenzo ci mette molto tempo prima di riuscire a dormire

di nuovo in un letto vero. Prova tutte le sere, ma alla fine riesce

ad addormentarsi solo se si stende per terra. Una sera mette per

terra il cuscino, un’altra mette sopra il pavimento il copriletto

piegato per lungo, un’altra ancora la passa metà a letto poi, verso

mattina, per riaddormentarsi deve rimettersi per terra. Vincenzo

deve riabituarsi a dormire nel letto anche perché a ottobre sposa.

L’hanno deciso assieme a Maria il giorno stesso del suo ritorno.

La notte per Vincenzo non è mai intera. Da quando è

tornato è sempre spezzata in due, tre parti. E tra i vari pezzi di

notte c’è il segno dei due anni di prigionia. È successo tutte le

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notti che precedono le nozze, succede anche la prima notte di

nozze e succederà per trent’anni. E ancora dopo, anche se più di

rado.

“Dovevo tornare prima, con la nave, ma poi le navi le

hanno usate gli americani per tornare a casa loro”. Lo dice come

se volesse scusarsi con Maria che, accanto a lui, si è svegliata di

soprassalto quando ha sentito una voce aspra urlare parole

sconosciute. Maria non chiede spiegazioni, non saprebbe

nemmeno da che parte cominciare, ma capisce che lì al buio, con

un’intimità tutta da costruire, può solamente far sentire la sua

presenza accogliente.

“Solo due volte ho pensato che non sarei più tornato. Però

anche quelle due volte non ho mai desiderato morire come tanti

altri. Però mi sentivo senza scampo, in balia della ferocia, della

violenza….”.

Vincenzo non riesce a raccontare delle due volte che,

durante la prigionia ad Amburgo, è finito nelle mani delle SS. Si è

salvato perché parlava bene il tedesco ed era utile per organizzare

le attività dei prigionieri. Era molto difficile sfuggire dalle mani

delle SS e tornare in quelle dei riservisti della Wehrmacht che

amministravano i prigionieri. Non era capitato a molti, una volta

entrati nella caserme delle SS, non si usciva vivi.

Nel silenzio, come in un film che scorre rapido sullo

schermo dei suoi occhi aperti nel buio, ricorda il rumore delle

voci, delle percosse, delle celle. Sente un brivido percorrergli

tutto il corpo. Sente anche Maria che gli si fa vicino e che

dolcemente, con mille cautele, lo riporta lì, in quella stanza, in

quel letto, con lei.

Nessuno dei due immagina in quel momento che cercarsi,

trovarsi e amarsi nel tempo che separa i pezzi di notte di

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Vincenzo sarebbe stato per loro entrare in contatto con il bene e

il male, il bello e il brutto, per tutti gli anni a venire.

Come se ogni notte si lasciassero trasportare attraverso le

due entità in opposizione che fanno muovere il mondo.

“L’acqua. La cosa più importante quando stai chiuso in

ottanta dentro un vagone merci per tre giorni, attraversi l’Europa

da Zagabria ad Amburgo, non è la stanchezza perché puoi stare

solo in piedi, non è la nausea perché devi convivere con gli

escrementi tuoi e di altre ottanta persone, non è la fame perché se

ne fregano di darti da mangiare. È la sete, è l’acqua che ti manca.

Arrivati alla periferia di Amburgo, abbiamo fatto a piedi ancora

sette, otto chilometri. Di notte, aiutandoci uno con l’altro.

Almeno si respirava aria pulita. Uno del nostro vagone non ce

l’ha fatta. Con le ultime forze che aveva è saltato addosso a un

soldato tedesco che prima l’ha colpito con il calcio del fucile poi,

a colpi di baionetta, l’ha ammazzato. Davanti a tutti. Arrivati al

campo molti si sono buttati su una lunga vasca piena d’acqua. A

colpi di calcio di fucile sono stati allontanati. Non è acqua da

bere, è per lavarsi. Morire sventrati sì, di dissenteria no”.

Con un filo di voce spiega a Maria che quell’acqua era

imbevibile perché affiorava attraverso la torba. Si formavano dei

serbatoi naturali e da lì l’acqua veniva portata ai campi di

prigionia più vicini perché i prigionieri si lavassero e lavassero le

baracche.

Vincenzo si sveglia con la gola riarsa, quasi non riesce a

respirare, si agita e annaspa con le braccia, sveglia Maria che si

precipita giù, al piano terra, a prendere dell’acqua. Maria ascolta,

si lascia trasportare dentro le angosce notturne di Vincenzo, non

domanda mai, aspetta il momento per andarlo a prendere alla

porta della baracca, dove l’hanno immatricolato la sera del suo

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arrivo - un numero e basta - come se fosse dall’altra parte della

strada, di fronte alla porta della caserma, da dove Vincenzo, nella

sua divisa nuova di sottotenente, le corre incontro in libera uscita.

È seduto sul letto e non sa perché. Maria così lo

intravede nella luce dell’alba che sta forzando l’oscurità. Vincenzo

non sa perché ma sta piangendo. Piangendo come può piangere

un bambino, piegato in due con le mani sulla testa come se

dovesse proteggersi da qualcuno e, nello stesso tempo, non

volesse disperdere attorno a sé lo strazio che sente dentro. Maria

dolcemente gli carezza la schiena pronunciando a bassa voce il

suo nome che lui fatica a sentire. Come se la voce che lo

pronuncia fosse irriconoscibile, troppo lontana. Anche durante la

prigionia ha sentito spesso questa voce e nel dormiveglia si

convinceva ch’era Maria a chiamarlo. Ha smesso di fare quel

sogno perché la delusione di trovarsi ogni volta da solo era

troppo forte. Poi lentamente si lascia cadere su un fianco per

accoccolarsi tra le braccia di Maria.

“Sull’asfalto c’erano ancora le sagome dei corpi bruciati.

Come se una colata di lava uscita da un vulcano piantato a

rovescio nel cielo si fosse abbattuta sulla città. Il fosforo, le

bombe al fosforo degli inglesi, per giorni hanno liquefatto intere

strade di Amburgo. Tanti sono morti di paura. Scendevano in

strada e respiravano fuoco. Poi tentavano di scappare e

rimanevano invischiati in un fiume di colla rovente che

cominciava a bruciare le scarpe e poi impediva qualsiasi

movimento. La morte per altri è stata più pietosa, li ha sepolti

sotto le macerie delle case che crollavano”.

Pensa a quel bombardamento come a un’apocalisse nella

quale per la prima volta ha visto gli effetti delle bombe al fosforo.

Quando arrivano gli aerei sta lavorando per strada a sgomberare

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macerie. E’ da poco arrivato ad Amburgo, di notte torna nel

lager, di giorno lavora in città.

A lui e ai suoi sette compagni vogliono impedire di entrare

nel rifugio. I civili non li vogliono dentro anche se i militari, loro

guardiani, insistono per farli entrare. Alla fine si rifugiano dentro

a dei grossi tubi di cemento in un piazzale vicino alla strada.

Pensa con raccapriccio alle fiamme che in un solo istante

avrebbero potuto bloccare le due uscite del tubo. Ricorda

l’orizzonte di Amburgo.

Finito l’allarme sulla città scende la notte e i riflessi

rossastri sul fumo nero sembrano quelli delle ristoppie che

bruciano.

“Sapessi cosa scrivevano le donne tedesche ai prigionieri…

mi portavano i biglietti da tradurre, ma alle volte c’erano oscenità

tali che non capivo nemmeno le parole”.

Vincenzo racconta a Maria delle storie d’amore nate tra i

prigionieri e le donne di Amburgo e sorride pensando, al buio,

alla fila davanti alla sua cella nella prigione dove, dopo l’attentato

a Hitler, lo avevano trasferito assieme ai suoi compagni. “Si stava

bene, molto meglio che nel lager”.

“Ho dovuto accettare che questo traffico fosse organizzato

da due paesani che si facevano pagare in sigarette: tante righe da

tradurre, tante sigarette. Qualche volta, senza che i due lo

sapessero - chissà la tariffa che avrebbero chiesto -, nei biglietti

aggiungevo qualcosa, per aiutare due persone a conoscersi e

capirsi meglio”.

Vincenzo è abbracciato a Maria. Quella notte, nel

dormiveglia che precede il secondo pezzo di notte, l’ha cercata.

In realtà cercava un altro corpo del quale non parla.

“In città, esclusi i vecchi e i militari non adatti al fronte che

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ci facevano la guardia, non c’erano uomini. Eravamo cinquanta,

sessantamila giovani da tutta Europa. Un soldato tedesco non più

abile per il fronte ogni duecentocinquanta prigionieri. Avremmo

potuto prendere la città in poche ore”.

Sorride tra sé ricordando le risse tra prigionieri e soldati

tedeschi ritornati in città a guerra finita. Come se avessero sentito

i loro letti ancora caldi. Ricorda il marito di Annette, visto da

lontano uscire di casa incupito per le troppe sconfitte subite.

Si sveglia per prima Maria, sente dei flebili lamenti e

accende la lampada che debolmente illumina il pezzo di notte

dedicato a rivivere i giorni del passato e a costruire il futuro. Poca

luce per non distinguere chiaramente i contorni di ciò che si

affaccia alla memoria ma anche per poter immergersi con più

voluttà nel loro presente quando i corpi hanno mille occhi.

Lo vede che si tocca le mani come se volesse curarsi delle

ferite che non ha più. Le muove, quasi per rendersi conto di

averle ancora, le apre, le chiude. Sono gli stessi movimenti che

faceva nelle settimane durante le quali, nel gelo di Amburgo, ha

trasportato a mano, assieme a tanti altri prigionieri, i mattoni che

servono per ricostruire o riparare gli edifici distrutti o danneggiati

dai bombardamenti. Dalle chiatte sul molo, dal molo ai depositi

alle spalle del molo, dai depositi ai carri e ai camion che li portano

a destinazione.

Maria prende tra le sue le mani di Vincenzo e le accarezza.

Lentamente lui smette di lamentarsi e torna alla realtà di quella

stanza, di quel letto diventato ormai per entrambi il luogo di un

faticoso percorso obbligato.

“In mezzo a tutte quelle difficoltà siamo riusciti a

organizzare perfino un boicottaggio. Appena non ci guardavano,

i mattoni li lasciavamo scivolare nell’acqua. Così facevamo meno

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fatica, ostruivamo poco alla volta i canali del porto e sprecavamo

del materiale per loro prezioso. Organizzati come sono ti davano

pure i guanti, ma dopo due, tre ore di lavoro le mani non le

muovi quasi più. I guanti si rompono e cominci a tagliarti le

mani”.

Sfrega leggermente le sue mani tra quelle di Maria. Le

accarezza prima le spalle, poi il seno…

“Una volta uno dei militari di guardia ci ha visto che

buttavamo i mattoni, ci ha guardati scuotendo la testa. Avrebbe

potuto falciarci con una raffica. Tornando al campo ci siamo

parlati, era un vecchio contadino in divisa, strappato alla sua terra

per fare quel servizio di sorveglianza dei prigionieri, troppo

vecchio per andare al fronte. Non vedeva l’ora di tornare alle sue

vacche e ai suoi maiali. Ha detto: “La guerra è terribile perché

rovina i contadini, la terra e gli animali”. Voleva che finisse: persa

o vinta per lui era lo stesso, bastava che finisse. Dopo un pezzo

di strada, lontano dai suoi commilitoni, quasi sottovoce, per farlo

sentire a me solo ha aggiunto: “Non farti più vedere mentre butti

i mattoni in acqua, la prossima volta sparo”.

Un brivido attraversa il corpo di Maria. Vincenzo riprende

ad accarezzarla. Per compiere il rito di quella notte. Poi ancora

allacciati si addormentano.

In poco tempo Vincenzo è diventato il capo del personale

di un’azienda con più di seimila dipendenti: i prigionieri italiani di

Amburgo sono i “suoi” operai. I tedeschi gli hanno affidato la

responsabilità di organizzare gli uomini: sgomberare le macerie

dopo i bombardamenti, disfarsi dei cadaveri, trasportare materiali

per riparare strade, edifici, linee elettriche e telefoniche, lavorare

nelle aziende agricole dei dintorni, macellare gli animali, fare il

pane, scavare la torba.

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Queste e altre cento attività che tutte assieme fanno

funzionare la città sono il lavoro della “sua” azienda. Bisogna

confrontarsi con le aziende di prigionieri delle altre nazioni alle

quali vanno disputati i servizi migliori, quelli che consentono di

procurarsi merce di scambio pregiata - cibo soprattutto - di

lavorare meno e, se possibile, al coperto.

Quando Vincenzo riesce a scalzare i francesi dal macello la

sua popolarità arriva alle stelle; così come quando riesce a infilare

prigionieri indeboliti dalle malattie nelle squadre destinate ai

lavori nelle fattorie nei dintorni di Amburgo.

Nelle notti in cui racconta a Maria i tanti episodi nei quali

ha messo alla prova le sue capacità di organizzatore e i risultati

che ha ottenuto, ricorda anche i tanti segni di apprezzamento sia

dei compagni di prigionia che dei tedeschi.

La consapevolezza del suo valore gli provoca un profondo

rammarico, che diventa nel tempo opposizione e rivalità nei

confronti del padre, padrone della grande azienda agricola di

famiglia, che non gli riconosce altro ruolo se non quello di un

subalterno al quale non vanno affidate grandi responsabilità.

Anche per le angosce di oggi, come per quelle della memoria, c’è

sempre pronta Maria, concentrata in questo lavoro notturno, per

preparare al meglio la realtà dei giorni a venire.

Vincenzo ha impiegato anni a raccontare a Maria quello

che poteva raccontare della prigionia. Sa di essersi tenuto dentro i

momenti più feroci, quelli troppo densi di violenza e terrore,

quelli che subito censura. Si accorge, con l’andare del tempo, di

riuscire a raccontare solo gli episodi più accettabili, come se la

violenza fosse un muro invalicabile, davanti al quale si è fermato

allora e si ferma ancora oggi. Racconta solo cose che possono

strappare perfino un sorriso: le torte che le donne di Amburgo,

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con sorrisi complici, facevano trovare ai prigionieri,

accuratamente incartate, nei bidoni della spazzatura,

riconoscendo in loro i figli, i mariti, i fratelli; il pane sottratto da

quelli che lavoravano nel forno. No, degli incontri con Frau

Annette non se la sente di raccontare niente a nessuno.

È faticoso ritornare tutte le notti da quelle lontananze

sempre più remote. Sarebbe ancora più faticoso se alla fine dei

suoi viaggi non trovasse, puntuale, Maria. Come se il loro fosse

un appuntamento preso da sempre e per sempre, fissato in un

angolo di una comune memoria, che appartiene solo a loro.

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28 aprile 1945

Se c’erano stati segnali che qualcosa di importante stava per

accadere, Armando non li aveva registrati. Non aveva notato che se

per caso lui o qualcuno dei suoi compagni, entrando in classe

dimenticavano di salutare con il braccio destro alzato teso in avanti

“sia lodato gesù cristo, sempre sia lodato”, suor Giuseppina non li

rimproverava. Né gli era parso strano veder circolare per casa adulti

sconosciuti, alcuni dei quali parlavano lingue incomprensibili, perché

questo era successo anche prima della perquisizione: ricordava un

polacco, un inglese, due fiumani, Marco e Zeno, che parlavano un

dialetto veneto dolce come una nenia.

Se gli avvenimenti non interferivano con i suoi giochi non li

prendeva in considerazione anche se, ogni tanto, i suoi movimenti in

casa venivano limitati e gli adulti si chiudevano in una stanza dove

gli impedivano di entrare finché non avevano finito.

Ma anche questa era diventata un’abitudine. L’unica vera

novità era la proibizione di entrare in una delle due camere della

soffitta, sulla porta era stato perfino montato un lucchetto. Il fatto

fu considerato da Armando una stranezza degli adulti, e non un

elemento che potesse fargli capire che qualcosa di importante stava

per accadere.

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La paura dopo la perquisizione si era lentamente attenuata e

tutto sembrava procedere come prima. Le privazioni che facevano

soffrire gli adulti erano per Armando la normalità, perché da quando

aveva il lume della ragione non aveva conosciuto altra vita che

questa. Le poche cose disponibili erano per lui, e lui si stupiva di

tutto: del cibo che qualche volta si materializzava in tavola come dal

nulla, non importa se assieme alla pasta si masticava un po’ di terra.

Di un paio di scarpe nuove, anche se dopo un po’ che le portava si

accorgeva da segni occultati con cura che erano state usate da

qualche altro bambino. Della cartella di juta colorata di verde scuro

che fino a poco tempo prima era la fodera di un vecchio materasso

di lana.

Armando apprezzava molto questo lavorio degli adulti e

spesso si perdeva a fantasticare attorno a trasformazioni impossibili.

Reali o fantastici che fossero i suoi progetti, aveva capito che

qualunque cosa poteva tornare utile e che un oggetto in più, anche

se al momento inservibile, era una piccola ricchezza in più.

Mentre gli adulti conservavano, scambiavano e sottoponevano

gli oggetti a inimmaginabili mutazioni - da fodere a cartelle, da

giornali a combustibile, da coperte a cappotti - Armando creava nei

nascondigli di casa, all’insaputa di tutti, piccoli tesori personali fatti

di cose minute e insignificanti, spesso raccolte per strada. Messi

insieme in angoli della casa noti solo a lui i frammenti ricreavano,

secondo logiche segrete e fantastiche, nessi e legami: era il suo modo

di ricomporre il mondo in frantumi che vedeva attorno a sé e di

partecipare al grande gioco degli adulti.

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Fra tutte le cose che gli insegnavano a scuola invece, non

riusciva a trovare legami. Leggere, scrivere, disegnare, pregare, gli

sembravano tante isole, ma al contrario di ciò che accadeva a

Venezia non c’erano ponti per collegarle e solo con la fantasia

riusciva a tenerle insieme, anche se dentro di sé avvertiva solo una

gran confusione.

Quasi senza accorgersene, forse per limitare l’area delle cose

nuove da controllare, dopo i primi mesi di scuola, senza alcun

motivo apparente, aveva maturato una profonda avversione per

tutto ciò che aveva a che fare con le lettere dell’alfabeto e le parole,

con il combinare lettere per scrivere parole. Avrebbe voluto

mescolare le lettere liberamente, senza regole, e poi giocare leggendo

queste parole misteriose, che avrebbero descritto cose fantastiche

che solo lui avrebbe compreso.

Ma non si poteva. Aveva esteso la sua avversione ai quaderni

a righe inutilmente complicati: due righe vicine, una lontana, bordi a

destra e a sinistra. Sognava di utilizzare solo quaderni a quadretti e

numeri. Era convinto che si sarebbe potuto scrivere solo con i

numeri, ma che nessuno aveva voluto insegnarglielo. Gli piacevano

molto lo zero, l’uno, il tre e il sette. Per lo zero aveva una passione

segreta, ma nessuno gliene aveva parlato. A sentire gli adulti

sembrava che esistesse solo in compagnia di un altro numero e dopo

un altro numero, come se avesse minore importanza. Da solo

sembrava che non potesse esistere ma ad Armando piaceva proprio

per questo, perché era certo che stesse lì a segnalare qualcosa, anche

se ancora non capiva cosa. Di sicuro era molto meglio della “o”,

così tondo, perfetto, senza appendici o peduncoli.

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Perso in questa ostinata opposizione alle lettere aveva pensato

di creare un suo alfabeto associando a ogni lettera un numero: 1

uguale a, 2 uguale b, e così via. Aveva abbandonato l’idea perché

troppo facile da scoprire e anche poco pratica: come si faceva con la

z? Z uguale 21, non si sarebbe confusa la b e la a? Non riuscì a

immaginare nulla di più convincente e la curiosità per i giochi con i

numeri gli sarebbe sempre rimasta.

In realtà Armando non dava alcun peso alle parole e parlava

poco. Preferiva fare, manovrare le sue piccole mani già abbastanza

sapienti per costruire piccoli oggetti, inseguendo attraverso essi i fili

della sua fantasia.

Stava sognando di costruire una miriade di soldatini per

creare un grande esercito che occupasse tutto il pavimento della

cucina quando fu svegliato di soprassalto dallo squillo del

campanello. Nessuno era ancora alzato e dietro il vetro della porta,

dove arrivò per primo, intravide due sagome scure di sconosciuti.

Percepì subito la paura che aveva colto l’adulto che lo aveva

raggiunto in ingresso. I due da fuori però erano gentili, non

gridavano, non battevano i pugni sulla porta com’era successo il

giorno della perquisizione.

Fu aperto con la catena. Erano due marinai, come quelli di

Armando, le ghette bianche sugli scarponi neri, il berretto rigido in

mano per farsi aria e calmare il calore della corsa. Portavano una

mitragliera, un pezzo per uno, e chiedevano di poter andare in

terrazza per sparare verso l’Ala Napoleonica, dall’altra parte della

piazza.

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Fu così che, per Armando, iniziò la liberazione di Venezia.

Un’inquietudine di cose non capite e un’eccitazione incontenibile

non lo lasciarono per tutto il giorno, finché la sera stremato si

addormentò. La notte passò in un lampo, sicché nella sua mente

quei giorni diventarono un unico lungo giorno che iniziò con

l’ingresso dei marinai in casa e finì con la corsa per vedere gli ultimi

tedeschi stanati dall’Ala Napoleonica passare prigionieri, a testa

bassa, tra la gente che voleva linciarli: chi urlava, chi sputava, chi

tentava di tirare calci o pugni.

I marinai si piazzarono con la loro mitragliera dietro il

muretto della terrazza e Armando ogni tanto sentiva partire una

raffica. In un momento di disattenzione degli adulti riuscì ad

affacciarsi alla finestra della stanza prima della terrazza e vide la

piazza vuota, due militari nascosti dietro le basi dei leoncini - lucidi

per lo strofinio dei bambini che in continuazione li cavalcavano -

distesi per terra con due mitragliatrici davanti. Altri erano appostati

lungo la protezione dei sacchi di sabbia della chiesa di San Marco.

Vedeva delle nuvolette e dopo sentiva il rumore degli spari che

provenivano dal fondo della piazza, dall’Ala Napoleonica, dov’erano

trincerati gli ultimi fascisti.

La finestra fu chiusa con violenza e Armando rimproverato.

Ma che pericolo poteva correre, se sparavano da tanto lontano?

Strappato dalla finestra del soggiorno corse a quella della

cucina, che affacciava su calle Larga San Marco, perché da sotto

arrivavano voci concitate e rumore di gente che correva. Ma anche lì

non si poteva stare.

Page 103: Calle Larga S. Marco

103

Quel che aveva visto succedere in quell’inizio di giornata era

troppo emozionate perché potesse mettersi a giocare in uno dei suoi

angoli preferiti. E poi tutti gli scuri di casa erano chiusi e non si

poteva certo accendere la luce elettrica. Si rifugiò in soffitta, lì non

c’erano scuri da chiudere e poteva controllare lo stato della sua

armeria, alla quale aveva aggiunto da poco delle carte militari che

venivano dall’Africa, utili per predisporre i piani delle future

battaglie. Com’era solito fare in questi frangenti si muoveva per casa

non visto e in assoluto silenzio.

Arrivato in soffitta trovò socchiusa la porta che nelle ultime

settimane era stata bloccata con il lucchetto. Dentro c’era qualcuno.

Dalla fessura vide due mani che aprivano scatole di munizioni.

Qualcun altro aveva fatto un’armeria nella sua soffitta, e che armeria!

Spinse con grande circospezione la porta e vide una mezza parete

della soffitta, quella in fondo sotto il lucernario, occupata da

scatoloni. Dentro c’erano bombe a mano uguali a quelle che aveva

visto attaccate al cinturone dei soldati tedeschi, rivoltelle di varia

forma e munizioni. Vide spuntare delle canne nere che immaginò

essere di fucili o di mitragliatrici. Quello spettacolo lo ammaliò a tal

punto che stava per dimenticare qualsiasi precauzione.

Di sotto squillò di nuovo il campanello della porta, Armando

sentì entrare altre persone che, dopo un breve parlottare, si diressero

in soffitta. Si nascose dietro le pareti di tavole di legno che

chiudevano il lucernario che dava luce all’ingresso. Entrarono due

uomini, presero le armi, poi sentì che aprivano l’abbaino dell’altra

stanza. Quante volte in piedi sui bauli c’aveva provato anche lui, per

seguire il gatto sui tetti; non c’era mai riuscito perché era tutto

Page 104: Calle Larga S. Marco

104

arrugginito. Li sentì camminare sul tetto, li immaginò piegati i due,

con i piedi di traverso sulle tegole, attenti a non cadere ma anche a

controllare da che parte venivano gli spari. Partirono dei colpi

fortissimi, vicini, più forti di come li immaginava quando inscenava

la guerra con i suoi soldatini.

Erano due alpini mandati a sostenere la posizione dei marinai.

Oppure mandati dall’esercito che non sapeva quello che faceva la

Marina.

Qualcuno da sotto lo chiamava. Scese, e in ingresso c’era un

adulto con un impermeabile. Seduto sulla cassapanca stava

caricando la rivoltella, metteva altri colpi in tasca; poi si infilò due

bombe a mano di quelle ch’erano in soffitta alla cintura

dell’impermeabile, mise i guanti di pelle e uscì seguito dalle

raccomandazioni degli adulti di casa. Andava in piazza. Armando

corse nella stanza vicina alla terrazza e questa volta gli fu consentito

di sbirciare da una fessura dello scuro. Poco dopo lo vide:

attraversava, attento a non scoprirsi, la piazzetta dei Leoncini con la

rivoltella in mano. Raggiunse a ridosso della protezione della chiesa

altri tre che lo aspettavano; assieme girarono l’angolo della chiesa e

scomparvero. Subito dopo ripresero gli spari. Colpi lontani e colpi

vicini.

Era passata poco più di un’ora dal brusco risveglio di quella

mattina e il via vai in casa aumentava. Era arrivato un ufficiale di

Marina per vedere com’erano sistemati i due marinai e poi un altro,

sempre un marinaio, aveva lasciato un cartone dov’erano messi alla

rinfusa proiettili e scatolette di roba da mangiare. Poi ancora un

ufficiale degli alpini per vedere se andava bene la postazione di quelli

Page 105: Calle Larga S. Marco

105

sul tetto, uno dei due se n’era andato per tornare poco dopo con

pane e scatolette e anche un po’ di zucchero. “Per il caffè”, aveva

detto ad Armando che aveva preso in consegna il pacchetto. Poi

altri senza divisa, con una fascia tricolore sul braccio sinistro.

Entravano, andavano da uno degli adulti di casa, parlottavano,

tiravano fuori delle carte, salivano in soffitta, ritornavano giù con

delle bombe a mano alla cintura e qualche arma in mano. Chi una

pistola, chi un fucile, chi un mitra.

I colpi che si sentivano erano intermittenti. Una vera battaglia

Armando se l’era immaginata ben più rumorosa: o non era una

battaglia o avevano pochi colpi da sparare.

Quel giorno in casa non ci fu tempo per cucinare e furono

divise tra i presenti le scatolette portate dai militari. Armando non

aveva mai aveva immaginato che potesse esistere del cibo chiuso

dentro a scatole di latta. All’ora del pranzo la situazione era

tranquilla e gli fu permesso di mangiare in terrazza tra i due marinai.

La roba nelle scatolette non aveva odore né sapore – carne? pesce?

formaggio? – ma lui non ci fece caso. I marinai gli avevano messo

in testa uno dei loro berretti che sapeva di rancido e di sudore.

L’odore gli si impresse nella mente, insieme a quello del lubrificante

un po’ bruciato della mitragliera installata in terrazza.

Nel primo pomeriggio cominciarono ad andarsene: per primi

gli alpini, trascinandosi alcune cassette di munizioni che erano state

portate in soffitta e da lì sul tetto. Poi toccò ai marinai e alla

mitragliatrice. In casa, assieme ad Armando, c’erano solo donne

quando, a pomeriggio inoltrato, da piazza San Marco salirono grida

e applausi.

Page 106: Calle Larga S. Marco

106

Li vide dalla terrazza, circondati da gruppi di persone armate,

chi in divisa, chi in borghese con dei bracciali tricolori. La gente

accorreva per vederli passare e qualcuno tentava di colpirli con i

pugni, chi con dei calci, chi sputava, chi tirava qualsiasi cosa avesse

in mano. Erano in fila, tutti vestiti di nero, tutti un po’ malconci e

tentavano di evitare i colpi. Gli armati in qualche modo li

proteggevano. Passarono sotto la terrazza e sparirono dietro l’angolo

del Patriarcato. “Copei! Copei ‘sti schifosi… in preson… carogne… a

morte!, a morte!”.

Stremato dalla giornata Armando prese sonno con la testa sul

piatto ancora prima di cominciare a cenare. La mattina dopo si

svegliò per primo spinto dalla fame e il suo maldestro armeggiare in

cucina per tentare di procurarsi del cibo produsse l’immediato

risveglio di un adulto. Circa mezz’ora dopo, dovevano essere le sette

del mattino, il passo ritmato di scarponi frantumò il silenzio di

quell’ora.

Spostò rapidamente una sedia davanti alla finestra della

cucina, si sporse e vide avanzare in fila per quattro - occupavano

tutta la larghezza della calle - giovani uomini con una divisa mai

vista. Il colore era una specie di giallo che dava sul grigio e sul

marroncino, ma non tutti l’avevano dello stesso colore, come non

tutti avevano i calzoni lunghi, chi era in maniche di camicia e chi era

in maglione, chi aveva una giubba, chi aveva il berretto, chi il basco

e chi niente, ma erano tutti armati di mitra.

Come Armando anche altri si affacciarono alle finestre ma dai

soldati che passavano sotto - in casa gli adulti li chiamavano

partigiani - si levarono grida “Sera! Chiudi, chiudi!… Via dai

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balconi!” e qualche raffica di mitra. I ricordi del giorno prima

riaffiorarono tutti insieme facendolo ripiombare in uno stato di

grande eccitazione: cosa stava succedendo ancora? Fu brutalmente

strappato dalla finestra e le imposte furono sbarrate “I xe mati… i se

mete a sparar in cale” disse qualcuno in casa come se questi soldati non

dovessero sparare come tutti gli altri. Avevano paura dei cecchini, gli

spiegò uno di questi giovani uomini che qualche ora dopo salì a casa.

Chissà cosa voleva dire Liguria con quella parola: cecchini.

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la storia di Liguria

“Voi cinque che avete ricevuto la cartolina vi presentate in

caserma della decima, tuto a posto? dal maresciallo Vianello che è

dei nostri, appena finite il corso di addestramento, tuto a posto? lui

vi dirà quello che dovete fare, tuto a posto?”.

Manine non è mai stato di molte parole e quel suo

intercalare invece di infastidirli o farli sorridere, li rassicura. Ha

due mani immense, dure come possono averle solo quelli che

lavorano al porto a scaricare le navi. E’ lui che organizza il

traffico: i compagni si arruolano, fanno qualche mese di

addestramento, poi scappano con le armi.

Sono in sette tre mesi dopo, in una sera di pioggia battente,

quando l’acqua della laguna diventa tutt’uno con l’acqua del cielo.

Attraversano la laguna in barca, poi da Mestre dentro a un

furgone usato di solito per il trasporto della verdura. Si respira

odore di foglie marcite. Ognuno ha con sé l’armamento

personale leggero in dotazione alla decima MAS, gli scarponi neri

e lo zaino con la roba di lana e qualcosa da mangiare. Nel

furgone ci sono due fiaschi di vino, pane e salame. Armi e bagagli

sono in un doppio fondo. I documenti di tutti sono nella cabina

di guida dove si è installato il maresciallo Vianello: sono un

gruppo di giovani camicie nere che vanno a Trieste in libera

uscita per festeggiare l’occupazione dell’Istria.

Liguria ha deciso di chiamarsi così perché ha saputo che

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109

suo fratello più piccolo è sulle montagne della Liguria, anche lui

partigiano, nella 3.a divisione Garibaldi Osoppo Friuli. Il nome è

frutto di un equivoco perché Fred è sull’Appennino ligure, ma sul

versante emiliano. Lui non lo sa e facendosi chiamare Liguria ha

la sensazione di proteggere il fratello.

Il primo maggio del 1945 è già a casa. Con Fausto e

Amelia, la morosa di Fausto, entra nell’osteria di un compagno,

poco distante dal punto nel quale erano saliti nel furgone in

quella notte del febbraio 1943. Girano armati, in divisa caki, il

fazzoletto rosso al collo. Hanno fatto il picchetto d’onore sotto al

palco di piazza Ferretto a Mestre, alla manifestazione del partito.

L’osteria è piena di gente. Bisogna mangiare fuori, nel retro, dove

sono stati sistemati sotto la pergola una decina di tavoli ancora

liberi. Hanno appena ordinato, felici stanno brindando a un sacco

di cose tutte assieme: al primo maggio ch’è il primo che

festeggiano assieme, alle donne che gli sono mancate per tanto

tempo e che qualcuno non conosce ancora, alla vita che sono

riusciti a portare a casa, al partito che li aiuterà e alla repubblica

socialista che verrà. All’Amelia che si vuole sposare, alla morosa

che Liguria non ha ancora ma che presto troverà.

Richiamata dall’evaporazione della laguna una brezza di

primavera fresca, senza odori, nuova, scompiglia i capelli e alza i

bordi della tovaglia rossa. Gli sembra di mangiare su una delle

loro bandiere.

Dalla porta del retro dell’osteria escono due carabinieri,

reduci anche loro dalla manifestazione, uno dei due, l’appuntato,

più anziano dell’altro. Prendono posto all’estremo opposto della

pergola e prima di sedersi appoggiano su una sedia la bandoliera e

le rivoltelle. Si tolgono il berretto, lo asciugano per dentro e si

asciugano il sudore in testa e sul collo. Si comincia a mangiare.

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L’appuntato seduto di fronte a Fausto prima lo sbircia di sotto in

su con occhiate rapide, poi lo guarda con sempre maggiore

insistenza, parlotta con il collega e comincia ad agitarsi sulla sedia.

Fausto ha già capito, sa ciò che l’altro sta mettendo a fuoco. Sa

che dalla polizia di Gorizia, pochi giorni prima, è arrivato un

ordine di cattura con la sua foto segnaletica, glielo ha detto un

compagno che lavora in prefettura. E’ ricercato per aver

ammazzato un sarto, otto mesi prima, durante un’azione vicino al

confine jugoslavo: lo accusano di omicidio volontario, niente a

che vedere con la guerra partigiana.

Ora l’appuntato lo fissa senza però decidere la mossa da

fare. Fausto estrae la rivoltella e con due colpi lo fredda.

Prima che il carabiniere più giovane abbia il tempo di

riprendersi dal terrore di vedere la testa del collega abbattersi sul

piatto in un lago di sangue e di sugo, Liguria e Fausto sono già in

piedi. Amelia bianca in volto è paralizzata, Fausto imbambolato

con la rivoltella ancora fumante in mano. E’ Liguria che lo

strattona, uno sguardo angosciato all’Amelia e vanno.

Attraversano il frutteto con cui confina la pergola, saltano la rete

e scompaiono correndo piegati lungo il fosso, protetti dalle

canne. Incrociano una strada, a passo normale raggiungono una

parallela dove sanno di poter trovare un autobus diretto a

Venezia. Dopo pochi minuti, come in quel tempo poteva

succedere, fanno fermare l’autobus esibendo il tesserino di

partigiani. Salgono accolti dalle grida di gioia dei tanti giovani che

tornano dalla manifestazione cantando le loro canzoni.

Hanno entrambi la sensazione di respirare per la prima

volta dopo i colpi di rivoltella. Nei tre anni precedenti hanno

imparato a dominare il misto di paura, angoscia e sollievo di

essere ancora vivi. Liguria ha ventun anni, Fausto ventidue appena

Page 111: Calle Larga S. Marco

111

compiuti. E’ un carpentiere, ancora da rifinire, cresciuto nello

squero dello zio a Castello, due anni per cominciare a fare sul serio

e poi si sarebbe sposato con l’Amelia. Non parlano mentre, per

abitudine, da piazzale Roma si avviano verso campo Santa

Margherita. Una strada che hanno fatto molte volte già prima

della guerra, quando tornavano con le biciclette da corsa alla

mano, dopo un allenamento o una gara. Ognuno sta passando in

rassegna le decisioni da prendere, come si sono abituati a fare in

quegli anni di difficoltà affrontate assieme. Il più rapido come

sempre è Liguria. Si ricorda della Carmen che abita nella calle a

fianco della questura e decide che quello è il posto dove Fausto

per ora si deve nascondere.

I giorni successivi servono a Liguria per ristabilire una serie

di contatti fuori Venezia e, nello stesso tempo, attraverso canali

che di lì a poco si sarebbero chiusi, a registrare il progressivo

allentamento dell’attenzione della polizia e dei carabinieri sulla

vicenda di Fausto.

Carmen ha una bella voce e quando le va a genio sa cantare

le arie delle opere. Ma da sola. Non le piacciono i duetti e non ha

bisogno della musica. Anche lei è iscritta al partito e lavora in un

albergo importante dove ogni tanto riesce a pescare qualche

informazione utile. Si fida di Liguria. Sa che non la metterà nei

guai.

Dopo una decina di giorni le acque si sono un calmate.

Anche dall’interno della prefettura arrivano le stesse

informazioni. Sono convinti che Fausto sia riuscito ad andarsene

da Venezia, anche perché hanno ricostruito i suoi movimenti fino

al rientro in città e pensano che con una barca sia riuscito a

raggiungere la terra ferma. Anche Liguria non si fa vedere in giro:

per controllare Fausto si è installato anche lui dalla Carmen che ha

Page 112: Calle Larga S. Marco

112

il compito di tenere lontana da casa Amelia che sicuramente è

stata messa sotto controllo.

In prefettura sanno che la rete di assistenza tra partigiani

delle stesse formazioni è ancora molto forte e che non ci vuole

molto a trovarne uno disposto ad attraversare la laguna in

qualsiasi direzione. Così la tesi della fuga in barca prende piede.

Invece Liguria e Fausto lasciano Venezia venti giorni dopo nella

macchina di un compagno che lavora in un autonoleggio. I due si

vestono eleganti, prendono posto dietro, Fausto ha un documento

falso e per loro fortuna arrivano senza incidenti, viaggiando di

domenica, fino ai confini con la Jugoslavia, dove hanno

combattuto.

Conoscono i luoghi, conoscono compagni dei quali

possono fidarsi di qua e di là del confine; quelli per intendersi che

sono stati d’accordo con Togliatti a far arrivare il comunismo fin

là, pronti a farlo entrare in Italia. Giunti vicino a un bosco

lasciano la macchina, l’autista e i vestiti prestati, si cambiano e si

avviano a piedi. Sanno la strada che devono percorrere, in quali

case entrare e quali evitare, abbandonando per alcuni tratti il

sentiero. Sanno dove possono dormire e dove trovare da

mangiare e, se serve, anche delle armi. Prima di passare il confine

riescono, attraverso i loro canali, a preparare il terreno anche

dall’altra parte. Un forte abbraccio silenzioso, una pacca sulla

spalla, a tutti e due viene la pelle d’oca perché sono commossi e

non sanno cosa dire. Non sanno nemmeno cosa gli riserva il

futuro. Manca poco all’alba quando Liguria vede Fausto passare il

valico per il sentiero che più di una volta li ha salvati dai

rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti e che altre volte hanno

percorso in senso inverso per attaccare tedeschi, fascisti e anche

partigiani di formazioni non comuniste.

Page 113: Calle Larga S. Marco

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Liguria rientra a Venezia facendo un lungo giro. Arriva fino

a Padova e da lì a Milano, per organizzarsi una copertura per i

giorni in cui è sparito da Venezia. Da Milano rientra a Venezia in

treno. Sa già che l’hanno identificato come la persona che era

insieme a Fausto nella trattoria. Hanno già fermato l’Amelia,

interrogata e rilasciata. Quando si presentano a casa, dove quasi

nulla ha lasciato capire alla madre e alle zie, per portarlo in

questura e interrogarlo, è pronto. Non si fa sorprendere dalle

informazioni che hanno messo assieme. Non nega l’evidenza, ma

riesce a dimostrare che la sera stessa del rientro a Venezia con

Fausto, per un precedente impegno di partito, è andato a Milano

dove si è trattenuto. Tre giorni di camera di sicurezza con ripetuti

interrogatori, uno di notte pesante e minaccioso, consentono di

verificare la sua versione dei fatti. Sia pure con molta riluttanza lo

rilasciano.

Liguria sa di non poter prendere contatto direttamente con

l’Amelia e per questo è rimasto d’accordo con Fausto di utilizzare

un altro compagno, Ventura, che la conosce e che lui vede quasi

tutti giorni in federazione dove lavora da quando è tornato. Al

partito l’hanno scelto per organizzare il servizio di assistenza sia

per i compagni che rientrano dalle formazioni dove hanno

combattuto, sia per i parenti che cercano notizie. Nello stesso

tempo anche con l’aiuto del partito cerca lavoro perché, l’ha

detto chiaramente al segretario della federazione, non ha alcuna

intenzione di fare il funzionario.

Nei suoi anni da partigiano Liguria ha vissuto esperienze

terribili. Il territorio dove ha combattuto con la sua brigata ha

visto di tutto, le cose più efferate della guerra partigiana sono

successe lì. Alla guerra tra italiani fascisti e partigiani, tra

partigiani e partigiani si è sovrapposta quella tra slavi delle varie

Page 114: Calle Larga S. Marco

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nazionalità e delle varie fedi politiche e religiose; si sono

sovrapposte faide di partito, di paese, di gruppi etnici, tra

partigiani italiani e partigiani slavi. Vendette incrociate, razzie e

omicidi inutili, punizioni esemplari inferte dall’una e dall’altra

parte, crudeltà gratuite che non sarebbero mai state cancellate.

Liguria di queste cose ne ha parlato con sua madre per giorni,

appena tornato a casa, piangendo: di quelli che ha ammazzato, di

quelli che ha dovuto lasciar morire, compagni o nemici che

fossero; dei compagni che gli sono morti tra le braccia, dei civili

che venivano brutalmente puniti per aver tradito ogni volta che

cambiava l’occupante della loro terra, delle donne violentate,

rapate, uccise, dei compagni inchiodati agli alberi, di altri

partigiani fatti sparire perché non erano comunisti oppure non

erano d’accordo con la linea del partito.

Tenta di liberarsi di questa massa scura che lo opprime, ma

è come preso in una sorta di ragnatela di violenze fatte e subite.

Nei giorni in cui racconta alla madre, per essere capito e

accettato, la sua parte della tragedia collettiva di cui è stato

partecipe, lentamente si rende conto di aver sperimentato dentro

al partito in guerra due anime: quella che guarda alla democrazia e

quella che usa l’autorità.

L’una potrebbe aiutarlo a colmare i solchi di disperazione

che in quegli anni hanno segnato lui e i suoi compagni, a dipanare

la confusione dei perché che gli si sono accumulati dentro e

indurre, in lui e in una generazione intera, un processo di

trasformazione delle capacità di analisi e di confronto con il

mondo esterno al partito. L’altra è una struttura rigida,

piramidale, nella quale i margini per un’evoluzione che non sia

decisa e legittimata dal partito sono molto ristretti, la libertà di

percorrere una strada personale fortemente combattuta.

Page 115: Calle Larga S. Marco

115

Si rende conto che il suo incarico deve rispondere anche a

questa seconda anima del partito: sempre più pressanti si fanno le

richieste di controllare con quali idee ritornano i compagni, cosa

si aspettano dal partito, cosa ne pensano le famiglie. Insomma,

prima ancora dell’aiuto che il partito potrebbe dare è importante

verificare l’atteggiamento dei compagni e più di una volta Liguria

è costretto a non rispondere, a essere vago perché questo è

l’ordine che ha ricevuto dopo che qualcuno in federazione ha

letto i suoi rapporti. Altre volte è reticente nei rapporti quando si

rende conto che il suo interlocutore ha problemi simili ai suoi.

Liguria continua a interrogarsi, e interrogando se stesso

interroga anche i suoi compagni con pignoleria. Insieme a loro

riesce a ricostruire situazioni in cui si è trovato e che sul

momento non controllava; riesce a capire il motivo profondo di

un ordine sul quale non era d’accordo, riesce a inquadrare l’intera

scena dall’esterno, mentre dall’interno non ne aveva percepito

che alcuni particolari.

A poco a poco sistema la sua storia di quegli anni, ricollega

un giorno all’altro, soffre come allora, ma non si risparmia nulla.

Con precisione quasi maniacale, costruisce dentro di sé un

archivio solo suo fatto dei giorni, degli uomini, delle donne, dei

fatti, dei torti e delle ragioni di ognuno, di tutte le occasioni in cui

poteva essere coltivata la democrazia e invece si è preferito agire

con autorità. Il giorno in cui sente di aver sistemato tutto, di non

aver perso nulla per strada, di poter rispondere con serenità di

tutte le sue azioni, non ne parla più con nessuno. Anche la sua

storia non la racconta lui, ma chi lo conosce.

Verso la fine di settembre, quando lo avvisano di

presentarsi in una ditta di spedizioni per cominciare un nuovo

lavoro, è contento. Pensa che sarà più facile chiudere con gli anni

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116

della guerra, potrà cominciare a organizzarsi una vita diversa,

soltanto sua, potrà mettere su casa da solo.

Nello stesso tempo sente crescergli dentro un

atteggiamento ambivalente nei confronti del partito: sa di dover

molto ai compagni con cui ha combattuto e a quelli che l’hanno

aiutato a guerra finita. Sente che molti strumenti di comprensione

che possiede gli vengono da loro, sa anche che il clima di

sospetto che sembra coagularsi attorno ai compagni che

esprimono dei punti di vista non del tutto in linea, non può

portare molto lontano e rischia di chiudere il partito a qualsiasi

novità. Liguria si orienta a fatica tra queste due sponde, spesso la

reticenza alla quale si sente costretto si scontra con l’esigenza di

una verità assoluta, simile a quella che lo ha spinto a nemmeno

vent’anni a combattere con il partito per il comunismo.

Da quando comincia a lavorare il distacco dal partito

diventa sempre più profondo. Dal partito questo atteggiamento

viene vissuto paradossalmente come se Liguria fosse maturato,

fosse diventato più “politico”. Per questi motivi lo cercano, gli

offrono incarichi e lui, sia pure gratificato, rifiuta. Gli sembra di

capire il prezzo che dovrebbe pagare, sa per certo di non voler

dipendere economicamente dal partito e di voler d’ora in avanti

costruire il futuro con le sue mani.

Lavora da poche settimane quando gli arriva la notizia che

l’Amelia è andata ai confini con quel pezzo di Jugoslavia che oggi

si chiama Slovenia dove ha incontrato Fausto che lo manda a

salutare. Liguria si incazza. Cerca di far capire all’Amelia che il

rischio per loro tre e per il partito è altissimo e che deve

rassegnarsi a non rivedere Fausto ancora per alcuni mesi. Amelia

capisce, ma è già rimasta d’accordo con Fausto di rivederlo tra

Natale e Capodanno. E infatti lo rivede nel casolare di un

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117

compagno, in territorio italiano, a una decina di chilometri dal

confine. In quei giorni si sposano, per conto loro, facendo tutti i

programmi per il futuro: il posto allo squero, la casa della madre di

Fausto da sistemare per andarci a vivere, la barca a motore per

fare trasporti in laguna - come un camion sull’acqua - da costruire

un poco alla volta, con i risparmi di tutti e due.

Fausto fa progetti e Amelia lo ascolta, e si fa anche lei

trasportare nel sogno delle tante cose che vorrebbe fare con lui, e

gli racconta dell’amnistia di cui le hanno parlato i compagni, che

potrebbe risolvere tutti i loro problemi.

Li arrestano che Amelia è incinta di tre mesi e mancano

pochi giorni al primo anniversario della Liberazione. Sono le

cinque di una fredda e tersa mattina di inizio primavera,

camminano abbracciati per l’ultimo pezzo di strada da fare

assieme prima di separarsi.

Appena Fausto si rende conto di non avere via di scampo si

immobilizza, alza le mani e spera con tutta l’anima che il suo

caso, quello di Amelia e del loro bambino non venga risolto

ricostruendo a posteriori uno scontro armato. Mentre quattro

giovani carabinieri e un appuntato avanzano con cautela nella

loro direzione pensa con sollievo al fatto di non essere armato

perché avrebbe fatto fatica a non reagire sparando. Amelia ripete

i gesti di Fausto e viene presa dallo stesso smarrimento di un anno

prima.

I carabinieri provano a farsi raccontare subito tutta la

vicenda della sua fuga dall’Italia. Ma Fausto non parla, anche

perché spera che rilascino Amelia. Parlerà quando sarà sicuro che

i compagni siano al sicuro. Nemmeno Amelia ha parlato: ha

subito detto di essere incinta e questo suo stato , dopo tutte le

morti della guerra, l’ha protetta. Dopo due giorni passati nella

Page 118: Calle Larga S. Marco

118

caserma dei carabinieri di Gxxxx viene accompagnata a Venezia.

Il capitano che li ha arrestati è già molto soddisfatto di aver

incastrato Fausto e prima di rivolgere le sue attenzioni alla sue

coperture a Venezia è più interessato a mettere le mani sulla rete

di complicità che li ha fino a quel momento protetti localmente.

Al confine con la Jugoslavia si stava ormai chiudendo la cortina

di ferro e non ci potevano essere varchi tra i due mondi.

Con l’arresto di Fausto si chiude un cerchio attorno alla vita

di tre persone. Sogni, aspirazioni, speranze, il comunismo, il

lavoro per tutti, vengono spazzati via. Ognuno di loro è chiamato

ad assumersi grandi responsabilità. Fausto deve resistere più a

lungo possibile prima di confermare quello che i carabinieri

sanno quasi per intero. Amelia deve a tutti costi proteggere se

stessa e il bambino che le sta crescendo dentro anche per dare un

motivo in più a Fausto per lottare. Liguria dopo aver parlato con

gli avvocati del partito sa che l’accusa di favoreggiamento lo può

portare dritto in galera per anni. Passa un pomeriggio chiuso in

una stanza con gli anziani della famiglia di Armando e nel giro di

due giorni si imbarca per il Brasile. Partenza da Genova. Viaggio

di sola andata.

Amelia è sola e capisce che il rischio per Fausto è alto,

anche l’eventuale amnistia di cui si parla non lo può salvare,

faranno di tutto per non fargli avere nessuno sconto, nessuna

attenuante. E’ orgogliosa, non vuole mostrare le sue ansie e le sua

paure a nessuno, si fa vedere sicura e tranquilla.

Ma non fa i conti con il suo dentro. Comincia a stare male:

vomito, febbre, giramenti di testa, non riesce più a mangiare. La

ricoverano in ospedale: aborto spontaneo, raschiamento e poi

un’infezione. Poche settimane dopo anche Fausto parte per il suo

viaggio di sola andata: l’ergastolo.

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119

Amelia non è iscritta al partito: è una delle tante persone,

uno dei tanti giovani che ha vissuto nella tempesta di quegli anni

tentando di realizzare un sogno di normalità, lasciando che Fausto

coltivasse ideali anche per lei. Perso il figlio è come se si

accorgesse di aver perso la sua guerra personale. Ha difeso con

tutte le forze la sua normalità ma dentro di lei qualcosa più forte

della volontà ha spezzato il filo che la teneva legata al suo sogno.

Il figlio nella pancia era il “pieno” che aveva colmato il vuoto

della lontananza di Fausto e che lo avrebbe colmato ancora di più

in futuro; un pieno che avrebbe aiutato anche Fausto a sopportare

meglio la condanna.

L’accanimento di eventi che Amelia vive sul suo corpo le

danno la stessa sensazione di cosa strappata da dentro che hanno

tanti compagni quando si rendono conto che il futuro che

sognavano, e per il quale hanno combattuto, non arriverà mai.

Sono tanti quelli che, come lei, vivono lo svuotamento di quanto

hanno costruito con grande fatica e sacrifici nei pochi anni in cui

sono diventati all’improvviso adulti. I compromessi dei vertici,

forse necessari, molti li vivono come lei ha vissuto la sua

infezione. Come qualcosa che ti attacca e ti costringe a spostare il

centro dell’attenzione su di te, ti costringe a lasciar perdere i

compagni, il partito; ti costringe a lasciar perdere i tuoi sogni di

donna normale e a coltivare, giorno per giorno per lunghi anni, la

memoria di una stagione che non può più ritornare.

Da allora Liguria non è più tornato in Italia. Dopo pochi

mesi dalla sua partenza ha smesso di scrivere anche alla madre.

Qualcuno che lo conosce e torna in Italia, se si trova a passare

per Venezia, porta sue notizie anche se non è lui a mandarle.

Vive alla periferia di San Paolo, amministrando i risultati dei

cento lavori fatti in Brasile. Sul pianerottolo della sua casa vive

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una mulatta con i due figli più piccoli, avuti da padri diversi come

gli altri due più grandi, che Liguria ha aiutato a studiare e a trovare

lavoro. Questa è la sua famiglia.

Torna in Italia, a Venezia, una volta sola, nel 1976.

L’ergastolo di Fausto è stato trasformato in una condanna a

trent’anni grazie alla buona condotta e all’incessante dedizione di

Amelia che ha lavorato per anni per ottenere questo risultato.

Il fratello di Liguria, a loro insaputa, li fa incontrare tutti e

tre il giorno in cui Fausto, uscito di galera, arriva a Venezia.

Quando si incontrano cominciano a guardarsi: ognuno di

loro cerca sul volto dell’altro qualche segno fissato nella memoria

trent’anni prima e lentamente le fisionomie di allora si

sovrappongono a quelle di quel momento. Liguria, Fausto e

Amelia si stringono in un unico abbraccio. Senza parole, tutti e

tre. Si tengono stretti a lungo. Il velo delle lacrime confonde il

ricordo che ognuno aveva dell’altro e li riporta là, in quell’istante,

trent’anni dopo.

Non hanno nulla da rimproverarsi. Vanno al ristorante

quasi dovessero riprendere il pranzo bruscamente interrotto in

quel lontano primo maggio. Parleranno di un futuro ormai non

più lunghissimo; del tempo ancora utilizzabile per sciogliere

l’invisibile nodo che ha legato le loro vite.

Page 121: Calle Larga S. Marco

121

25 aprile 1946

La mattina presto Armando aveva assistito con grande

eccitazione all’alzabandiera sui grandi pennoni di piazza San

Marco. Era arrivata la fanfara della Regia Marina seguita da un

drappello di marinai in armi. Tre giovani marò, con le ghette

bianche come il suo soldatino, erano andati davanti all’unico

pennone che riusciva a vedere dalla terrazza, avevano aperto la

grande cassa verde di legno e avevano armeggiato con delle cime.

Poi si erano fermati sull’attenti.

Il silenzio venne rotto dal suono possente e armonioso

delle campane di San Marco. Non si era ancora spenta quella

coda di vibrazioni che occupava tutta l’aria quando le campane

smettono di suonare che una tromba solitaria suonò le note

dell’alzabandiera. Subito dopo la fanfara attaccò una marcetta e i

giovani marò cominciarono, tenendo in ordine le cime che si

svolgevano, a sollevare dalla cassa un’enorme bandiera tricolore

con lo stemma sabaudo. Armando non ricordava di aver mai

visto una bandiera di quelle dimensioni. Sapeva, per aver assistito

all’alza bandiera dalla piazza San Marco, che le bandiere erano

tre: quella centrale rosso granata con il grande leone di San Marco

e le lunghe frange giallo oro mentre le due laterali – dalla terrazza

ne vedeva una sola – erano due tricolori uguali che negli ultimi

tempi avevano cambiato lo stemma in centro.

Era una bella giornata ancora fresca. Il sole arrivava da

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122

sopra le guglie della chiesa di San Marco e la pietra d’Istria,

assorbito il primo calore, rifletteva una luce bianco azzurrognola

che si impastava con il colore del cielo.

Appena aveva sentito la fanfara era balzato su dal divano in

salotto dove dormiva, aveva assistito all’alzabandiera ancora in

pigiama, poi era stato obbligato ai soliti riti quotidiani finché,

lavato e vestito, cominciò a dedicarsi a uno dei suoi giochi

preferiti: le formiche in terrazza. Così poteva tenere d’occhio

anche quello che succedeva in strada.

Si trattava di aiutare o, a seconda dei casi, ostacolare

l’attività frenetica delle formiche che avevano le loro tane nella

terra che da sotto le grandi pietre grigie che pavimentavano la

strada saliva fin dentro il muro del parapetto della terrazza.

Aiutare significava spezzettare delle briciole di pane o un poco di

zucchero sottratto in cucina, in modo che le formiche deviassero

dai loro abituali percorsi lungo le linee tra pavimento e muro, tra

muro e muro. Per ostacolare invece bisognava individuare le

esploratrici, seguirle mentre ritornando alla base parlottavano con

le loro colleghe, cogliere il momento in cui il trasporto di quella

ricchezza veniva organizzato, piazzare degli ostacoli fatti con

rametti di vite americana, organizzare dei tunnel con le prime

foglie, controllare le briciole più grandi che a un certo momento

cominciavano a spostarsi trainate e spinte da due, tre, quattro

formiche. Armando in quei momenti si sentiva una formica,

come una formica sentiva di avere antenne attraverso le quali

parlava, sentiva il frastuono di tutte quelle parole, cominciava a

muovere le mandibole come una formica e affrettava i

movimenti delle mani, delle braccia e delle gambe per tenersi al

passo con quel frenetico andare.

Passò sotto la terrazza un gruppo di persone che cantavano

Page 123: Calle Larga S. Marco

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e portavano bandiere rosse. Si dirigevano con allegria verso la

piazza. Issato sul parapetto vide che in piazza stavano recintando

un percorso con delle transenne, impedendo alla gente di

entrarci, e capì che quel giorno poteva essere diverso dagli altri.

In quel momento sentì suonare il campanello di casa. Lo vennero

a chiamare. Doveva vestirsi per uscire.

Appena scese le scale gli misero un fazzoletto attorno al

collo, rosso come le bandiere che poco prima aveva visto passare.

Avevano fretta, uno lo sollevò e se lo mise a cavalcioni sul collo.

Chi lo portava aveva una divisa kaki, il fazzoletto rosso annodato

dietro al collo - immediatamente Armando girò anche il suo - i

calzoni corti, un cinturone ai fianchi con la rivoltella e gli

scarponi da montagna. La divisa era un po’ sporca, come se non

fosse stata lavato dopo l’ultima volta ch’era stata usata, oppure

come se lo sporco non avesse più voluto venire via. Solo il

cinturone e la rivoltella luccicavano, e Armando guardava da

sopra, confrontando la rivoltella con quelle che vedeva pendere

dai cinturoni degli altri che camminavano con lui.

Arrivarono in un posto che Armando non aveva mai visto,

una delle strade più larghe di Venezia, via Garibaldi, un canale

interrato, una delle poche strade di Venezia che si chiamava via e

non calle o calletta. C’era moltissima gente. Divise e armi

personali di tutti i tipi, bandiere, tante non erano neanche nuove

ma avevano strappi, buchi bruciacchiati o bordi consumati.

Militari con le divise tutte uguali erano già inquadrati, tutti in fila,

tutti fermi come i balilla che aveva visto quando era piccolo, gli

ufficiali con la sciabola in mano e la sciarpa azzurra di traverso.

Armando pensò alla sua armeria: se gli avessero dato un po’ di

tempo e gli avessero spiegato dove lo portavano avrebbe potuto

prepararsi anche lui. Alcuni degli adulti che lo avevano portato

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fin là li conosceva per nome. Ma quando si incontravano con altri

si salutavano e si chiamavano con nomi che lui non conosceva.

Molti anni dopo, più di quarant’anni dopo, con due di quegli

adulti avrebbe fatto il giro dei bacari andando per ombre, e loro, tra

loro, si chiamavano ancora con quei nomi, i loro nomi di

battaglia.

Era il 25 aprile del 1946. Armando ebbe a un certo

momento l’impressione che fosse la festa della vita, tale era

l’eccitazione che gli adulti si comunicavano l’un l’altro, quasi

fossero le formiche della terrazza che avevano trovato del cibo.

Non aveva mai visto gli adulti in quello stato d’animo. Era la

prima volta che tutti assieme potevano festeggiare il loro ritorno

e ricordarsi, da vivi, dei loro morti. Alcuni riuscivano a ripensare

con un brivido anche a quelli che avevano ammazzato. Una

giornata di sole intenso, quasi estivo, tersa, con il caldo che ti

arrivava addosso e non lo sentivi perché dal bacino di San Marco

soffiava una brezza fresca, radente l’acqua. Armando si teneva

stretto alla mano ora dell’uno ora dell’altro, stando bene attento a

non perdersi in quella confusione. Si entrava e si usciva dai bar,

abbracci, grandi pacche sulle spalle, ancora abbracci e ogni tanto

delle espressioni tristi. Poi ancora grandi risate, richiami, grida,

nomi che volavano: pensieri, che si infilavano nei rari momenti di

quiete, già diventati ricordi.

Lentamente e un po’ riottosi anche i partigiani si misero in

fila, come i soldati. Armando fu di nuovo issato sulle spalle, era

nell’ultima fila, circa a metà. Gli ufficiali non si distinguevano

dagli altri se non per il fatto che non stavano in fila e

camminavano su e giù per il plotone ridendo e scherzando con i

vecchi compagni. Scoppiò improvvisa la musica di una banda che

stava all’inizio della via. Uno alla volta i segmenti del grande

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serpente formato dai vari corpi si mossero. Armando, da sopra,

rimase colpito dal repentino passaggio dal disordine al muoversi

all’unisono di tutte quelle persone. Per ultimi si mossero i

battaglioni dei partigiani. Dalle finestre cominciarono a piovere

fiori rossi. Quelli li prendevano al volo - anche Armando riuscì a

prenderne uno - e marciando li sventolavano, e cantavano a voce

piena, e sorridevano alla gente. Anche Armando sventolava il suo

fiore; poi, rotto il fiore, sventolò il fazzoletto rosso come se fosse

una bandiera e cantava, cantava come gli veniva, era il suo urlo-

canto che si aggiungeva ed era sommerso dalle voci dei suoi

compagni. Ogni tanto fra la gente che premeva sulle transenne,

lungo le quali c’erano poliziotti e partigiani con il mitra in mano

con le spalle voltate a quelli che sfilavano, esplodeva un nome,

quello ch’era stato chiamato si girava, cercava le facce degli amici

o dei parenti, salutava con grandi gesti e sorrisi.

Armando aveva perso ogni riferimento con la realtà. Gli

sembrava di far parte di un unico grande corpo allegro che

poteva da un momento all’altro mettersi a fare le capriole per la

contentezza, oppure di un corpo forte che poteva da un

momento all’altro scagliarsi di corsa contro un ostacolo e

abbatterlo. O fare un grande salto, tutti insieme nel grande corpo,

passare l’acqua e andare dall’altra parte del canale senza bisogno

dei ponti, o ritrovarsi sul tetto della chiesa che stavano sfiorando.

La gente che li vedeva passare rideva, applaudiva, cantava le

stesse canzoni che loro cantavano. Qualche bambino sgusciato

tra le transenne e le gambe degli adulti riusciva a marciare al loro

fianco per un po’. Qualcuno indicava anche Armando, che aveva

assunto un’aria così fiera da sembrare il condottiero di

quell’armata sorridente.

Finita via Garibaldi girarono a sinistra e lì, di fronte al

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mare, con il sole in faccia tutti in ordine, in fila fino al ponte

verso Sant’Elena, si fermarono. Armando fu messo a terra e si

intrufolò fra le gambe per vedere cosa succedeva. C’era un palco

con la tenda sopra, pieno di gente con i vestiti scuri. Anche un

prete vestito di rosso e assieme a lui anche padre Giulio. La voce

di quelli che parlavano si sentiva fortissima, come mai Armando

aveva sentito una voce. C’erano anche delle donne vestite di nero

che a un certo punto si trovarono isolate tra il palco e il muro di

una casa da dove avevano appena tirato giù una bandiera che

copriva una lapide. Qualcuno spiegò ad Armando che erano tutti

seri perché stavano pensando a sette compagni che erano stati

fucilati dai tedeschi e aggiunse: “Chissà di quanti nessuno si

ricorda già più”. Armando non capì bene il significato di quella

sosta e della tristezza in un giorno come quello, ma capì il senso

degli sguardi che aveva visto volare la mattina quando qualcuno

diceva il nome di un compagno morto.

Di nuovo la banda, di nuovo in marcia, di nuovo issato

sulle spalle. Ancora fiori, fazzoletti che sventolavano, bandiere,

bandiere rosse, saluti, sorrisi, canzoni da cantare. Qualche ragazza

ogni tanto usciva dalle transenne e per un pezzetto di strada si

metteva al braccio di un partigiano e Armando se ne stava beato

lì sopra a suscitare l’invidia dei bambini. Arrivati all’altezza della

chiesa della Pietà il suono della banda fu sovrastato dalle sirene

dei rimorchiatori e dai getti d’acqua delle pompe di bordo che

salivano fino al cielo.

Armando da sopra vedeva questo enorme serpente che

davanti a lui saliva i ponti ed era come fosse un ponte di teste che

cambiava colore con il colore delle divise e dei berretti. Quando

era sopra il ponte vedeva avanti fino al ponte successivo dove un

altro spezzone del serpente si snodava.

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Ogni tanto si fermavano. La gente dietro le transenne

offriva da bere e da mangiare e anche ad Armando arrivò un

uovo sodo, un pezzo di pane e un sorso d’acqua. Sotto di lui

circolavano fiaschi di vino ma stavano attenti a non farsi vedere

dall’ufficiale. Offrivano da bere e da mangiare anche ai soldati,

quelli con le divise tutte uguali, ma loro non prendevano niente e

i partigiani ci scherzavano un po’ sopra. Poi riattaccava la banda e

si ricominciava a marciare verso piazza San Marco e Armando

cominciò a riconoscere i luoghi. Passarono a fianco del rifugio

antiaereo che era diventato ormai un deposito di spazzatura.

Passarono sopra il ponte della Paglia.

Improvvisamente davanti al plotone nel quale Armando

era inquadrato si parò un uomo tutto vestito di rosso che

cominciò a muoversi avanti e indietro attorno al plotone.

Saltellava, poi faceva dei balzi, dei piccoli passi come di danza,

poi correva. Con le mani, le braccia aperte sopra la testa, teneva

una bandiera, rossa pure quella che usava come se fossero le sue

ali. Ci saltava sopra facendosela passare sotto i piedi senza

toccarla, si avvolgeva e si svolgeva, quando correva si stendeva

tutta. Qualcuno del plotone di Armando lo riconobbe, lo chiamò

per nome e, prima che arrivassero a mandarlo via, sparì tra gli

applausi in mezzo alla folla.

Dalla sua posizione soprelevata Armando vedeva la piazza

piena di gente come non l’aveva mai vista. Le campane

cominciarono a suonare il mezzogiorno, dall’Arsenale rispose un

colpo di cannone. La grande bandiera che aveva visto issare la

mattina sventolava quasi a coprire la facciata della chiesa. Vedeva

moltissime braccia alzate che agitavano bandierine tricolori,

fazzoletti, fiori: la piazza sembrava un grande prato. Non c’era

una cosa, una sola che stesse ferma, proprio come l’erba di un

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prato. Ogni tanto qualcuno sfiorava una gamba di Armando che

si voltava sorridendo e salutando persone che non conosceva. In

una di questa giravolte, che non poco fastidio dovevano dare a

chi lo portava, intravide Sandro. Sporgeva con la testa e un

braccio tra due carabinieri e lo chiamava a squarciagola

sventolando una bandierina tricolore di carta. Armando tolse il

fazzoletto rosso dal collo e lo sventolò finché non lo perse di

vista. Si sentì sollevato da tutti i pesi oscuri che la vicenda con

Sandro gli aveva procurato, sepolti da mesi uscirono fuori e

trovarono un contrappeso sull’altro piatto della bilancia, il piatto

dell’entusiasmo che in quel momento contagiava tutto e tutti.

Armando continuava la sua sfilata tra due muri di persone.

Arrivati tra la chiesa e il campanile di San Marco girarono a

sinistra, passarono davanti a un palco dove stavano altre persone,

però più ordinate e composte di quelle che erano per strada.

Erano le autorità, e furono salutate all’unisono dal plotone di

Armando consolidando la sua convinzione di muoversi dentro

un unico corpo che girava la testa per vedere, batteva nello stesso

momento il piede destro per farsi sentire, cantava come se fosse

una sola grande bocca a cantare. Arrivati in fondo alla piazza

girarono a destra, poi ancora a destra. Poi dedicando canzoni,

bandiere, sorrisi, di nuovo verso la chiesa di San Marco.

Armando vide la terrazza di casa, con il braccio salutò, ma non

c’era nessuno. Girarono a sinistra e sparirono sotto alla Torretta

dell’Orologio, dentro le Mercerie. Finalmente un po’ d’ombra,

girarono a destra in Calle Larga San Marco, fecero ancora

cinquanta metri in formazione e fu dato l’ordine di sciogliersi.

Fu rimesso a terra. Era vicino alla porta di casa ma non ne

volle sapere di salire. Allora si avviò con i suoi compagni verso

un barcone che li attendeva nel canale in fondo alla calle. Salirono

Page 129: Calle Larga S. Marco

129

uno alla volta e Armando prese posto a prua con le gambe

incrociate, il fazzoletto rosso al collo e una bandiera rossa in

mano. Faceva fatica a tenerla ben dritta perché l’aria si infilava nei

canali, prendeva velocità tra le case e batteva con forza sulla

bandiera. La marcia nell’acqua fu altrettanto entusiasmante di

quella per strada. Cominciarono a cantare, e il canto rimbombava

tra le pareti delle case che affacciavano sui rii chiamando alle

finestre quelli che non erano andati a vederli per strada. Passare

sotto i ponti era come passare sotto archi di trionfo fatti di

persone. Molti gettavano fiori, applaudivano, riconoscevano

qualcuno. Si andava da un canale all’altro e si passava dai

richiami, dagli applausi della gente sul ponte precedente a quelli

che provenivano dal ponte successivo.

In barca finalmente si sentiva un po’ di fresco. Passarono

per Santi Giovanni e Paolo, davanti alla statua di Bartolomeo

Colleoni sulla quale era stata piantata una bandiera rossa. Poi nel

rio dell’Ospedale Civile, dove raccolsero gli applausi e i saluti

degli ammalati. Poi finalmente in laguna, verso nord, sbucarono

proprio davanti all’isola di San Michele, dove c’è il cimitero.

Presero il canale marcato dalle bricole che portava lungo il bordo

nord della città verso l’isola delle Vignole. Le Casermette,

l’Arsenale, poi tagliarono rasentando una barena e, ridotta la

velocità, si infilarono nel canale che taglia in due l’isola.

L’acqua aveva la stessa trasparenza del cielo, quel giorno.

Anni dopo, quando lontano da Venezia Armando lasciava che la

nostalgia lo prendesse, se pensava alla laguna ricordava l’isola

delle Vignole come l’aveva scoperta allora. Prima non c’era mai

stato: a sinistra del canale arrivando c’era una casa padronale a

due piani in mattoni e pietra bianca con un grande fumaiolo che

assomigliava a una tromba; a destra una casa di campagna con

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l’aia e davanti un molo di legno dove attraccarono. Lungo il

canale degli strani alberi con le foglie lunghe e sottili messe con

ordine lungo dei rami filiformi che dalla cima dell’albero

ricadevano verso l’acqua come se fossero i capelli di qualcuno

che si specchiava. Armando si trovò in terra. Attorno era tutto

verde. Per la prima volta vide gli alberi con le mele attaccate,

andò vicino a una pianta che assieme a tante altre, con mille

contorcimenti, era avvinta a dei pali. Gli spiegarono che si

chiamava vite e gli mostrarono le piccole sfere verdi che

sarebbero diventate un grappolo d’uva.

Dietro la casa erano stati costruiti con paletti e assi di legno

un lungo tavolo e due panche sui lati. In tavola c’era già il vino e

piatti di sopressa e di uova sode e i taglieri con la polenta.

Piantarono due bandiere rosse agli estremi del tavolo; un po’ alla

volta si sistemarono tutti. I compagni che erano vicini, ridendo,

gli fecero assaggiare del vino rosso direttamente dal fiasco. Un

po’ gli piacque, un po’ fu nauseato dal sapore che lasciava in gola.

Armando era stanchissimo, distrutto dalle emozioni di

quella giornata di cui tuttavia non coglieva fino in fondo

l’eccezionalità. Si mise in piedi sulla panca per prendere due uova,

una fetta di polenta e di sopressa. Ogni tanto qualcuno diceva una

cosa ad alta voce e tutti ridevano, poi si sentiva un gallo cantare, e

il rumore della brezza tra i rami degli alberi. Qualcuno cominciò a

parlare e tutti fecero silenzio Si alzarono tutti in piedi e anche

Armando. Nessuno rideva più. Uno solo chiamava dei nomi, ma

nessuno rispondeva.

Finito l’appello senza risposta, forse riprovando le stesse

sensazioni provate ogni volta che capivano di essere sfuggiti alla

morte, si scatenò un’allegria ancora più sfrenata di quella che li

aveva accompagnati per tutta la mattina. Armando un po’ per il

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vino, un po’ per il sole, un po’ anche per quell’ultima intensa

emozione, si distese sulla panca e si addormentò con un uovo

sodo ancora in mano.

Si risvegliò in barca sulla via del ritorno. In un primo

momento i movimenti del barcone lo avevano cullato facendolo

risprofondare nel sonno dopo il trasporto da terra. Poi un odore

acre che occupava per intero il suo respiro lo fece svegliare. Era

sempre a prua e lo avevano avvolto nella giubba di uno di loro e

quello era il loro odore, il loro sudore. Era la fatica che avevano

fatto, era l’odore delle paure che avevano avuto ma anche quello

dell’eccitazione per le battaglie vinte, era l’odore delle speranze

che avevano coltivato in quegli anni terribili. Mentre si

avvicinavano a Venezia gli fu proposto di andare a casa oppure di

andare a ballare nella sede del consolato dell’Argentina dove

avevano organizzato una festa. Non ebbe dubbi, ormai era uno di

loro.

La sala era grandissima, molto più grande di tutta la sua

casa, e un sacco di persone strette una all’altra ballavano

seguendo le musiche di un’orchestrina. Mangiò dei dolci che gli

diedero un po’ di energia e lo misero in condizione di seguire

quello che succedeva. Gli adulti erano allegrissimi, non aveva mai

visto tanta gente ridere, farsi gli scherzi, abbracciarsi, baciarsi. La

cosa che lo divertì di più era una specie di gioco nel quale c’era

uno che ballicchiando da solo con un bastone in mano

comandava a tutti gli altri quello che dovevano fare e quelli si

mettevano in fila per due, poi si separavano, si facevano

l’inchino, poi ancora in fila per due. I primi della fila, tenendosi

per mano, si fermavano e si allargavano facendo un arco con le

braccia, quelli dietro passavano sotto e facevano la stessa cosa

finché i primi passavano sotto le braccia di tutti gli altri. Poi le

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coppie si separavano, i maschi da una parte e le femmine

dall’altra, giravano su loro stessi, sfilavano come dei soldatini,

giravano ancora e si ritrovavano dall’altra parte della sala. Poi si

separavano di nuovo, si mettevano su quattro file e bastava

girarsi per trovarsi di fronte a un’altra femmina e a un altro

maschio.

L’orchestra suonava sempre più forte e sempre più svelta,

finché non cominciarono tutti a correre attorno alla sala

agganciati uno all’altro come se fosse un millepiedi che si

snodava; uscirono da una porta, rientrarono da un’altra finché

tutto finì e scoppiò un grande applauso di chi si era divertito a

ballare e di chi si era divertito a guardare. Armando applaudiva in

piedi su una sedia, ma avrebbe voluto essere fra quelli che

ballavano.

Poco dopo l’orchestrina cominciò a suonare una musica

dolce e struggente e si formarono le coppie. Armando non

avrebbe mai più dimenticato la musica, il suono della fisarmonica,

i movimenti dei piedi e quelli dei corpi che quasi si fermavano,

indugiavano un istante, riprendevano subito dopo un movimento

diverso, si lanciavano sguardi e sorrisi, si respingevano e si

attraevano, giravano uno attorno all’altro.

Molti anni dopo, quando imparò a ballare, Armando si

ricordò di quel giorno in cui aveva visto per la prima volta il

tango.

Guardava incantato le spalle nude di una ragazza, ne

seguiva con attenzione i movimenti finché, caduta una spallina,

mentre si piegava all’indietro con un movimento quasi brusco,

per un attimo un seno uscì dal vestito. E scatenò in Armando

una grande nostalgia del seno di Lisetta.

Quando in casa non c’era nessuno lei lo portava in soffitta

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dove le avevano sistemato il letto. Si spogliava fino alla cintola e

lo spogliava. Poi si distendeva sul letto, lo faceva distendere sopra

e lo incoraggiava a giocare con i suoi capezzoli ridendo e

guardandolo con gli occhi luccicanti. Questa fu l’ultima, intensa

emozione di una giornata indimenticabile: il più grande regalo

che Fred gli avesse mai fatto. Lentamente Armando si distese su

due sedie e si addormentò, sognando di essere tra le braccia di

Lisetta.

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la storia di Fred

Ancora adesso se parli di lui con i compagni di allora non

prendono l’aria mogia di chi sta ricordando un morto ma si

aprono in risate che li fanno sembrare più giovani. E ti

raccontano storie di lui, e ancora ridono. Storie di donne, di vino,

di bici, di caccia, di viaggi, di guerra. E continuano a chiamarlo

Fred, il suo nome di allora.

Fred entra nella divisione Garibaldi Pinon Cichero a

diciotto anni compiuti da poco. Come sempre ha voluto fare di

testa sua, non ha raggiunto il fratello più grande come gli hanno

proposto. La divisione opera in una zona di montagna sopra

Piacenza e il reparto di Fred è uno dei più esposti alle rappresaglie

e ai rastrellamenti dei fascisti della RSI. Alle loro spalle

controllano ormai tutte le valli e i valichi che portano in Liguria e

possono perciò a piacimento allungarsi verso la pianura o ritirarsi

nei boschi e sui monti.

Ha smesso di studiare presto, troppe energie addosso per

star fermo sui libri. Hanno provato a fargli frequentare le

commerciali ma non c’è stato verso. I giorni in cui di nascosto

prendeva la bici, arrivava a piazzale Roma e si infilava nelle strade

dritte e ombreggiate della pianura veneta sono stati molti di più di

quelli in cui andava a scuola. Il suo sogno è fare il ciclista. Al

Pedale Neroverde lo incoraggiano: va bene in montagna e per

fare risultato deve staccare tutti, altrimenti in volata non la

spunterà mai, è troppo leggero e senza cattiveria.

Da partigiano si ritrova in un ambiente che non è il suo al

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quale tuttavia si abitua in poco tempo. Impara subito a usare le

armi, gli piace molto una mitraglietta che però non gli viene

assegnata perché è troppo giovane. Dopo poche settimane ha

memorizzato boschi, torrenti, strade, sorgenti, casolari e si

muove a suo agio, veloce, preciso. Un corpo ben allenato, sempre

pronto assieme al sorriso. Il territorio sotto il controllo del

gruppo di Fred va dalla confluenza di due piccoli torrenti a valle

della quale c’è il ponte della strada provinciale per Piacenza che

scende dai monti di M. utilizzata da repubblichini per iniziare i

rastrellamenti in montagna. Dallo stesso punto la divisione

Garibaldi si muove quando decide di andare ad attaccare i fascisti

giù in pianura.

Negli ultimi mesi, da una parte e dall’altra, quasi fosse stato

firmato un tacito armistizio, nessuno si è mosso dalle sue

posizioni. Solo qualche scaramuccia mirata a proteggere o a

colpire informatori veri o presunti.

La causa dell’armistizio è l’inverno. Duro, faticoso,

soprattutto per i partigiani bloccati nei casolari in montagna, con

scarse comunicazioni anche tra i vari gruppi, difesi dalle stesse

condizioni che li tengono bloccati.

Per Fred è il primo inverno da partigiano. Quasi tutte le

compagne che sono in montagna, se le condizioni dei loro paesi e

città lo consentivano, sono tornate a casa o nelle vicinanze di casa

da parenti, per proteggersi da eventuali ritorsioni fasciste. Alcune

vengono dai paesi dell’Appennino Ligure, la maggior parte dai

paesi della campagna attorno a Piacenza dove più duro è stato nel

passato lo scontro con i padroni e con i fascisti.

“E’ finito il sapone”, questo è stato il segnale che ha

indotto molte compagne ad allontanarsi con il consenso dei capi.

A Fred piace ballare. Arrivato da pochi giorni ascolta con i

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compagni canzoni americane da una radio paracadutata alcune

settimane prima. Presa al volo una giovane compagna si è messo

a ballare con leggerezza, ritmo e felicità, talmente abile nel

disegnare con i piedi e il corpo le figure da rendere le cose facili

per la sua inesperta compagna di danza. Per prenderlo in giro, ma

anche ammirati per la sua abilità, lo chiamano Fred come il

ballerino. Questo sarà il suo nome di battaglia. Gli rimane anche

se il commissario politico non è affatto contento di questo

americanismo poco adeguato a un comunista. Ma a Fred questa

specie di riconoscimento piace; e d’altra parte è un comunista che

pensa sia giusto prendere certe cose molto sul serio, e per il resto

conserva la sua allegria, la sua voglia di divertirsi e il suo

approccio leggero alla vita. Fred gli sembrava un nome leggero,

come lui si sente leggero.

Per questo è amato da tutti e pur essendo il più giovane del

gruppo ha la determinazione di un adulto. Capisce al volo le

situazioni come se avesse un sesto senso che lo orienta senza

bisogno di cultura, se non quella delle cose, e dei rapporti che si

instaurano attorno a esse. Lavora già da tre anni quando a

diciotto anni entra nella decima MAS e scappa con le armi. E’

sempre sicuro di farcela perché sa di governare con assoluta

padronanza il proprio corpo e le sue reazioni. Durante le azioni è

il più rapido a eseguire gli ordini, e sa prendere le decisioni giuste

quando si trova da solo, senza fatica, come se ogni volta avesse

una briscola da giocarsi. Fare il partigiano è come fare un lavoro

che gli piace anche se ogni tanto ha nostalgia del fratello,

dell’amicizia, della complicità e delle botte che di quando in

quando si davano di santa ragione. Con le compagne è dolce e

spiritoso ma ancora troppo giovane per competere con i capi

branco che trova in montagna.

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Durante l’inverno, e più spesso con l’avvicinarsi della

primavera, si parla dei rastrellamenti che ricominceranno quando

le strade sopra i 7-800 metri saranno sgombre dalla neve. Si

aspettano lanci di materiale da parte degli alleati, armi, munizioni

e ricetrasmittenti. Durante l’anno precedente hanno avuto

difficoltà a coordinare i movimenti dei vari gruppi proprio per

l’assenza di comunicazioni. Per questo motivo la forza e la

capacità della divisione sono state sotto utilizzate e qualche volta

condizioni di vantaggio sull’avversario si sono capovolte in

perdite inutili. I primi mesi dell’anno nuovo passano a

riorganizzare le file. Tornano anche le compagne che hanno

svernato in pianura, non tutte perché alcune sono incappate nel

tradimento di qualcuno. Verso la fine di marzo vengono

effettuati tre lanci. Al gruppo di Fred vengono destinate 9

mitragliette, munizioni e una ricetrasmittente portatile. A Fred

viene consegnata la mitraglietta che tanto gli era piaciuta al suo

arrivo.

Ad aprile, con il bel tempo, cominciano ad arrivare anche

notizie certe dei rastrellamenti. Già da alcuni giorni i preparativi a

Piacenza sono stati notati e comunicati su in montagna.

L’occasione del rastrellamento questa volta è stata data dalla

sparizione di Fernando, il massaro della tenuta di Vxxx Per un

po’ ha tentato di fare il doppio gioco, poi i suoi contadini che

hanno i figli in montagna lo hanno scoperto. Dalla montagna

sono scesi in una notte fredda e asciutta e nelle cantine della casa

padronale hanno trovato roba da sfamare un paese per sei mesi:

hanno diviso con i contadini e il resto su, a spalla, a rimpinguare

le scorte ormai esigue delle divisione.

Hanno saputo che a Piacenza è arrivato anche un reparto

di semicingolati tedeschi, più adatti dei carri armati ad affrontare

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le strade di montagna, strette e fragili dopo il disgelo. Di questo

arrivo sono stati avvisati tutti i comandi partigiani lì attorno. Il

rastrellamento viene preannunciato per il secondo sabato di

aprile. La notizia arriva in montagna due giorni prima e gli

uomini della divisione, rimasti fermi per tutto l’inverno, escono

dal letargo.

Il gruppo di Fred ha tutto il tempo di smontare il campo e

di trasferirlo oltre il passo di Txxx, nella valle del torrente Vxxx.

In quella valle sono sempre stati al sicuro, esclusi sporadici

passaggi di aerei da ricognizione, il bosco è talmente fitto che la

ricognizione non li ha mai individuati. Spostato il campo tornano

a valle per prendere posizione, come ha ordinato il comando.

Non c’è alcuna intenzione di subire il rastrellamento senza

reagire. Il comando della divisione ha deciso di colpire duro per

impedire che al ritorno ci rimettano i civili, esposti alla rabbia dei

fascisti tornati a mani vuote dal rastrellamento. La giornata di

sabato passa senza che si manifestino movimenti in pianura e

quando stanno per abbandonare le posizioni e tornare in

montagna arriva una staffetta che Fred conosce. Fantasma è una

ragazza bruna della sua età che arriva e riparte senza che nessuno

se ne accorga: porta la notizia sicura che il rastrellamento è per il

giorno dopo. L’informazione sbagliata fatta circolare ad arte è

servita a prendere qualche vantaggio: un giorno di tensione

inflitto ai partigiani, una notte passata fuori dal campo, scorte di

viveri limitate.

Finalmente il giorno dopo li vedono arrivare. Vedono la

colonna avanzare piano sullo sterrato della provinciale senza

sollevare polvere per l’umidità delle notte. I gruppi di partigiani

più avanzati li lasciano passare all’altezza di S. dove, poco più

avanti, è difficile manovrare con i camion e i semicingolati e

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dove, invece, è facile per i partigiani attaccare molto protetti,

sganciarsi e manovrare a loro piacimento.

I fascisti non si aspettano posizioni avanzate di partigiani in

quella zona anche perché da alcune settimane non ricevono più

informazioni: l’unico riferimento era il massaro della tenuta di V.

Anche alle pendici delle montagne i fascisti hanno fatto terra

bruciata: dopo le puntate partigiane dell’inverno non hanno più

informatori e il loro obiettivo è quello di costringere i partigiani a

ritirarsi alle quote alte distruggendo i campi organizzati alle quote

intermedie.

Fred, Ivana, il Mago, Salto e Ribelle - è il suo nome vero e

non l’ha voluto cambiare - hanno il compito di precedere le

avanguardie della colonna a rastrellamento iniziato, di segnalarne

i movimenti in modo che il comando possa organizzare la sacca

nella quale ha intenzione di chiudere la colonna. Devono lasciarli

penetrare più a fondo possibile creando dei piccoli diversivi sui

fianchi in modo da convincerli di essere sulla strada giusta.

Soprattutto devono avvisare quando fascisti e tedeschi

decideranno di tornare indietro: loro cinque sono il tappo della

bottiglia dentro alla quale devono finire chiusi, una volta chiusi

basteranno i mortai per averne ragione senza inutili perdite.

I fascisti e i tedeschi arrivano fino al campo e vedono le

tracce che salgono verso il passo dove c’è ancora neve. A quel

punto devono decidere se andare avanti o tornare indietro. Non

sono attrezzati per affrontare due giorni di marcia: i tedeschi

partecipano all’operazione avendo programmato l’uscita di una

sola giornata. Per continuare il rastrellamento dovrebbero

abbandonare semicingolati e camion a procedere a piedi.

Distruggono il poco che hanno trovato al campo, baracche,

gabinetti, minano gli accessi al campo e dopo una vivace

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discussione tra i due ufficiali italiano e tedesco decidono di

tornare indietro. E’ circa l’una quando iniziano a ripercorrere il

cammino della mattina; sono nervosi, stanchi e scoglionati per la

modestia del risultato del rastrellamento. Gli ufficiali stanno

pensando su quale dei paesi alle porte di Piacenza far sfogare la

rabbia dei militi e dei tedeschi. Come quei cacciatori che dopo

una giornata senza prede, sulla via del ritorno, sparano a tutto

quello che si muove. Procedono a ritroso, lentamente, con una

parte degli uomini a piedi raccolti attorno ai mezzi. Allentano

anche i controlli sui fianchi del loro schieramento dove lasciano

due squadre di cinque uomini, a destra e a sinistra della strada, a

camminare nel bosco.

Anche Fred e i suoi compagni camminano nel bosco,

disposti a ventaglio, a un tiro di voce uno dall’altro: gli aggressori

camminano dieci minuti avanti a loro. Fred sta al centro e

cammina lungo il sentiero percorso poco prima da fascisti e

tedeschi a valle della strada. Salto, alla sua sinistra, porta la

ricetrasmittente e comunica quello che vede al comando. Fred sta

per attraversare una zona di bosco più rada quando intravede un

chiarore di carni, ancora prima di identificare una divisa. E’ il

culo di un fascista che, ormai convinto della fine dell’azione, si è

fermato a cagare. Fred non ha ancora ucciso nessuno e gli sembra

ridicolo sparare a uno con le braghe in mano. Lascia il sentiero,

avvisa con un gesto Salto, aggira il fascista verso valle e lo taglia

fuori dai suoi camerati. Pensa di farlo prigioniero rapidamente e

convincerlo a passare dalla loro parte. Controllandolo a vista da

dietro un castagno aspetta che si tiri su le braghe e poi, prima che

riprenda in mano il breda che ha appoggiato per terra “mani in

alto, arrenditi cagasotto!”, urla quasi ridendo. L’altro si butta su

un fianco, rotolando prende il breda e riesce, prima che Fred

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riesca a sparare, a infrattarsi sotto a un cespuglio, poi dietro a un

altro castagno e finalmente riesce a tirarsi su le braghe.

Per Vittorio il fascista e Fred il partigiano comincia il

pomeriggio più lungo della loro guerra. Sono poco più delle due

di pomeriggio, nessuno dei due ha ancora mangiato. Vittorio,

oltre a tre caricatori, ha solo un pacchetto semivuoto di sigarette,

niente cibo perché avrebbe mangiato in camion tornando. Fred ha

un tascapane a tracolla, quello che usava per il cibo quando

correva in bici, due caricatori, un pezzo di cioccolata, due gallette

e sigarette. La lingua che entrambi usano per apostrofarsi è fatta

da una base di italiano mista a modi di dire e parole italianizzate

prese dai rispettivi dialetti. Forse anche per questo nella loro

comunicazione non ci sono equivoci.

Fred sa di averlo in pugno dal punto di vista militare. Sente

i primi colpi di mortaio e capisce che la fase finale dell’azione dei

suoi compagni è cominciata. E avvisa Vittorio. Gli spiega cosa sta

succedendo: “Sei fregato, vieni fuori. Butta il mitra e vieni fuori”.

Vuole sbrigarsi e andare giù per svolgere il compito che gli è stato

assegnato. Gli spiega che appena i compagni hanno finito giù con

fascisti e tedeschi tornano su, una raffica, e lui è andato. I

compagni di Fred sono ormai lontani, appostati per tagliare la

strada ai nemici che avessero tentato di sganciarsi, tornare

indietro e tentare di prendere su un fianco i partigiani.

Vittorio è convinto che i suoi, non vedendolo, torneranno

a cercarlo. Quando comincia a sentire i colpi delle mitragliere

pesanti montate sui semicingolati staccarsi secchi dal silenzio del

fondovalle, interrotto dai colpi cadenzati dei mortai, quasi fossero

il verso di un potente uccello meccanico, sfotte Fred. Lo provoca

sulla madre, sulla sorella e sulla morosa non sapendo che non ha

né sorelle né morose. Lo insulta, e a sua volta gli intima di uscire

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con le mani in alto chè tanto non ha altra possibilità.

Ognuno dietro al suo castagno decide di fumarsi una

sigaretta e in un momentaneo silenzio si sentono distinti i rumori

dei due accendini e si vedono i vapori biancastri delle prime

boccate dissolversi dietro i due alberi. La sigaretta contribuisce ad

allentare la tensione e Fred chiede a Vittorio se ha fame. L’altro

senza pensarci risponde di sì. Subito dopo, resosi conto del sia

pur minimo vantaggio concesso al nemico, si sente schioccare nel

bosco una bestemmia. Vittorio si abbassa, e dalla parte più larga

del tronco lascia partire una raffica, Fred sente i sibili delle

pallottole che passano e i piccoli tonfi di quelle che si piantano

sul suo albero e su quelli vicini. “Non ti serve a niente,

arrenditi!”, gli urla Fred, e per convincerlo delle sue buone

intenzioni gli chiede come si chiama. “Vaffanculo”. “Io mi

chiamo Fred, ho vent’anni, vengo da Venezia”. “Vaffanculo

merda d’un rosso ‘un potevi affogare in quella merdaccia della tù

laguna. Va’ gioventù d’Italia, disperdi ogni nemico, contro il tristo

bolscevico, va’ Milizia Nazionale… Eja, Eja, Alalà… Eja, Eja, Alalà”.

Fred decide di non rispondere, anche perché ha barato sugli anni:

gli sembra di sentirsi più forte a dire che ne ha venti.

Vittorio ha vent’anni. Figlio di un capo manipolo livornese

della marcia su Roma, fascista convinto è stato cresciuto senza

dubbi. Appena nata la RSI non ha avuto dubbi, era una cosa

ovvia: la logica conseguenza dei suoi primi vent’anni di vita.

Mentre Fred continua a parlargli, Vittorio non lo ascolta, pensa

che quello parla perché ha paura e si distrae dietro l’immagine di

questo suo primo pezzo di vita: una strada dritta, liscia, tutta

uguale, senza accidenti.

Sopra pensiero non si è accorto che Fred si è spostato e la

raffica che gli passa vicina per poco non lo frega. Si sposta lungo

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la circonferenza del suo albero per proteggersi meglio rispetto

alla nuova posizione di Fred e risponde. Finisce un caricatore e il

rumore che fa mentre lo cambia viene registrato da Fred.

“Mangio”, annuncia Fred, “mangio pane e cioccolata”.

“Pane e merda tu mangi, merda d’un rosso”. “Ti xe un mona”.

Sono passate più di due ore, i rumori della battaglia a valle non

diminuiscono né parlano con precisione a nessuno dei due circa

l’esito dello scontro. Fred sente più vicina una raffica di uno dei

suoi e capisce che è destinata a qualche fascista o tedesco che ha

tentato di rompere l’accerchiamento e lo spiega a Vittorio.

Vittorio è in piedi dalle cinque di mattina. Le sigarette che

ha fumato in quelle due ore gli hanno scavato un buco nello

stomaco anche perché ha cominciato a fumare da poco, per non

essere da meno degli altri camerati. Ha un po’ di nausea, respira a

fondo. “Mi chiamo Vittorio, merda di un rosso. Ora ciascuno va

per la sua strada, così è come se non fosse successo niente”. La

risposta di Fred è una raffica che si stampa per intero sul tronco

dell’albero di Vittorio. “Vitorio ti xe un mona, ’rendite”. Passano più

di mezz’ora senza parlarsi, a tentare piccole sortite, raffiche ora

brevi ora lunghe mentre i colpi della battaglia a valle non

accennano a diminuire. Se si riducono i colpi di mortaio, come

spera Vittorio, torneranno a cercarlo. Fred ha ormai capito che,

comunque vada lo scontro, i suoi compagni ripasseranno di là e

per Vittorio è finita. Gli basta tenerlo inchiodato dietro l’albero.

Quasi nello stesso momento cambiano i caricatori.

Ognuno tenta di azzardare una previsione sui colpi che restano

all’altro e cominciano a darsi la voce su questo argomento.

Vittorio non riesce più a star fermo, vuole uscire da quella

situazione e, stando sempre al riparo dell’albero, camminando

curvo, si allontana in verticale rispetto alla posizione di Fred.

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Insospettito dal silenzio Fred esce alla sinistra del suo riparo, lo

vede, spara e Vittorio è costretto a ripararsi precipitosamente di

nuovo dietro al suo albero. Nella calma che segue la concitazione

di questo breve episodio della loro guerra tutti e due decidono di

pisciare e, sentendo l’uno il rumore dell’altro, sorridono e si

lanciano altri insulti. Vittorio è affamato, Fred ha sete e le scariche

di adrenalina gli impediscono di sentire la stanchezza di una notte

passata all’aperto.

A valle i colpi di mortaio si sono fatti più radi, si sente il

crepitare di una sola mitragliera e ciò significa che i botti di

mezz’ora prima erano di semicingolati centrati da colpi di

mortaio. Si sono fatti più fitti i colpi di armi leggere segno che giù

sono entrati in contatto ravvicinato e che l’azione sta per finire.

Verso le cinque e mezza si sente ancora qualche colpo isolato.

Vittorio ritenta la manovra di sganciamento di prima, questa

volta arretrando e sparando brevi raffiche a destra e a sinistra

dell’albero di Fred. A quattro, cinque metri dall’albero che si è

prefisso di raggiungere vede con la coda dell’occhio una figura

muoversi nel bosco alla sua sinistra. Capisce che non sono i suoi,

si butta per terra e strisciando riesce ad arrivare al suo obiettivo.

Non pensa nemmeno lontanamente ad arrendersi, però gli

viene una crisi di pianto, una cosa che non conosce, non può

capire che si tratta di paura. E’ seduto con le spalle al suo nuovo

albero, il mitra in mano perché si aspetta di essere attaccato

anche da altri lati che non sia il lato di Fred che nel frattempo si è

spostato ed è protetto dal castagno che prima proteggeva

Vittorio. Fred vede le cicche per terra, i bossoli delle pallottole, i

due caricatori vuoti, poi vede Ivana, e prima che lei apra bocca, a

segni la avvisa della situazione. Lei mulina il pugno sopra la testa

per dirgli che hanno vinto, poi lo raggiunge, e mentre lui va

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silenzioso verso l’albero di Vittorio, lei spara brevi raffiche per

tenerlo occupato.

“Oh Vittorio!”. A sentire quella voce vicina e

quell’apostrofare quasi toscano Vittorio tarda a reagire. Dietro il

velo delle lacrime che non riescono a staccarsi dagli occhi ha

pensato per un attimo di essersela cavata, ha intravisto,

completamente sfuocata, la figura snella di Fred, poi più nulla.

Questo pomeriggio non segna Fred. Non per cinismo, forse

c’è in lui una certa dose di superficialità. Quello c’era da fare,

anche per proteggere i compagni, e quello ha fatto. Ha tentato di

convincere Vittorio ad arrendersi, gli ha spiegato cosa stava

succedendo a valle, che lui non aveva scampo, che più passava il

tempo e meno probabilità aveva di salvarsi.

Pensa di avere fatto la cosa giusta. Non racconta a nessuno

di averlo chiamato prima di premere il grilletto e ogni tanto gli

vengono in mente gli occhi di Vittorio che per un istante, prima

di chiudersi, lo guardano senza vederlo.

E’ goloso di tutto, un’azione militare se la gusta anche

fisicamente, ne coglie gli aspetti più oscuri, ed è questo che forse

gli consente di voltare pagina per primo e cominciare a scherzare

sul domani, perché l’oggi ha già messo profonde radici dentro di

lui. Così come l’amore con una compagna, fatto poco lontano dal

campo, nel tempo solo suo ma anche rubato al tempo di tutti,

che lo investe ogni volta con pazienza e ardore, con dolcezza e

desiderio, anche dopo una grande paura o prima di un grande

rischio.

Anche se sta per affrontare la vecchiaia è rimasto un

giovane uomo sempre sulla soglia della maturità: i capelli sono

ancora neri, ricci e folti come un tempo, lo sguardo dritto,

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limpido di chi non ha nulla da nascondere, né strumenti per

nascondere nulla, e tante cose ancora da vedere.

Ha superato di poco i sessant’anni quando muore per aver

mangiato cape sante avariate regalate da un vecchio compagno che

da sempre coltiva la laguna. Gli è di sicuro dispiaciuto perché

proprio della vita è sempre stato goloso e l’ha vissuta fino in

fondo, avendo sempre chiara davanti a sé la distinzione tra bene

e male, senza mezze misure. Ma scoppierebbe in una delle sue

contagiose risate se potesse raccontare come e perché è morto.

Non riderebbe se fosse vissuto tanto da vedere i fascisti

legittimati a governare il paese.

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6 giugno 1946

Dal giorno in cui aveva sfilato per festeggiare il primo

anniversario della Liberazione Armando aveva più occhi e più

orecchie del solito per quello che gli succedeva intorno.

Capiva bene che da quel giorno gli adulti non si erano più

calmati, come se delle formiche continuassero a rimanere in

movimento sotto la loro pelle. Verso la metà di maggio si erano

radunati in piazza San Marco in così tanti che sembravano

davvero un formicaio. Ma non erano allegri come il giorno della

sfilata. Metà piazza, verso l’ala napoleonica di fronte alla Basilica,

era mantenuta sgombra dai soldati, li chiamavano “celerini”. Gli

fu spiegato, non senza una certa ironia, che era per proteggere

dagli attentati un adulto, come un puntino lontano, la cui voce

prorompeva dagli altoparlanti. Il formicaio sventolava bandiere

bianche con uno stemma rosso in mezzo e c’erano anche

bandiere tricolori e stendardi con la madonna e suore e preti

come delle macchie in mezzo alla gente.

Due giorni dopo ancora più gente. Questa volta le bandiere

erano rosse e anche tricolori e anche tanti striscioni con le scritte

che Armando non riusciva a decifrare perché venivano agitati in

continuazione. I soldati “celerini” questa volta erano dietro e la

gente sembrò ad Armando un po’ più mal vestita di quella di due

giorni prima. Qualcuno aveva ancora dei baschi militari in testa o

pezzi di divisa addosso.

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Armando osservò a voce alta che i parlanti, così si

dovevano chiamare se gli altoparlanti diffondevano la loro voce,

si mettevano tutti dalla stessa parte e usavano lo stesso balcone

anche se sotto c’erano bandiere diverse. Come quelle azzurre e i

tricolori, quelli normali con lo stemma sabaudo in mezzo, che

immancabilmente si presentarono tre giorni dopo. Tutta gente

piuttosto elegante, molti ufficiali in uniforme, pochi soldati

“celerini”, voci meno rimbombanti ma sempre stesso balcone.

Nel frattempo le strade attorno a casa si erano riempite di

manifesti che venivano attaccati ovunque. Aveva perfino assistito

a delle liti tra gli adulti che attaccavano i manifesti ma la cosa che

lo attraeva di più era il secchio pieno di colla gialla e trasparente;

non come quella bianca fatta con l’acqua e la farina mescolando

piano piano per evitare che si formassero grumi. Armando ormai

leggeva bene, ma di molte parole non riusciva a capire il

significato e anche le immagini, alcune veramente paurose, non

aiutavano.

Verso la fine del mese di maggio stranamente la scuola

chiuse e il bel tempo consentì ad Armando di muoversi con

tranquillità tra la casa, la terrazza e la piazzetta dei Leoncini dove,

per l’ennesima stagione, venivano rielaborati gli statuti dei giochi

che avrebbero occupato i ragazzini per i mesi estivi, fino

all’autunno. Il 6 giugno era rientrato da poco in casa per la

merenda di metà mattina. Aveva finito il primo giro d’Italia della

giornata: i corridori erano tappi di bottiglia all’interno dei quali

era fissata, colando della cera, la figurina ritagliata del corridore, le

strade venivano tracciate sui masegni con il gesso e c’erano le

tappe, quelle a cronometro dritte e larghe - con un solo abile e

fortunato tiro si poteva anche tagliare il traguardo - quelle di

montagna strette e piene di curve.

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Appena rientrato fu colpito da un insolito clamore che

arrivava dalla piazza, gente che correva, qualcuno urlava: da tutta

la città arrivava gente a piazza San Marco con le bandiere di tutti i

colori. No, un momento, quelle azzurre non c’erano. Riuscirono

a stento a non farlo ridiscendere in strada. E allora Armando, che

doveva pur partecipare a qualcosa che fin dall’inizio gli era parso

eccezionale, preso da una di quelle frenesie incontenibili dalle

quali aveva imparato a farsi rapire per non rendere conto a

nessuno di quello che faceva, corse in soffitta, tirò fuori da uno

dei bauli il tricolore con lo stemma sabaudo. A precipizio giù

dalla scala della soffitta e senza esitazioni lo espose in terrazza,

verso la piazza.

Da sotto cominciarono prima a fischiare, poi a inveire, poi

arrivò su qualche pietra, chissà dove l’avevano trovata. Dopo

qualche minuto suonarono alla porta.