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LA POLITICA ESTERA ITALIANA

Capitolo introduttivo Edizione 2013 dell’Annuario La politica estera dell’Italia

(pubblicato presso il Mulino, Bologna)

L’Italia e la Trasformazione dello scenario internazionale

Il contesto internazionale della politica estera italiana

Anche nel 2012, lo scenario internazionale nel quale si è mossa la politica estera italiana è stato caratterizzato da un insieme di disequilibri, variamente intrecciati fra loro. Al-meno quattro vettori hanno contribuito a complicare il quadro di riferimento di tutti gli attori, Italia compresa. Il primo, di più breve periodo, è la continuazione della crisi eco-nomica scoppiata negli Stati Uniti nel 2008 e diventata, nell’ultimo anno, particolar-mente acuta proprio nel continente europeo. Il secondo, almeno provvisoriamente raf-forzato dal precedente, è la profonda redistribuzione del potere in atto tanto su scala globale, con il declino relativo degli Stati Uniti e l’ascesa di un nuovo gruppo di grandi potenze geograficamente e culturalmente più eterogeneo che nel passato; quanto all’interno della stessa Europa, dove la redistribuzione si è già espressa in un aumento della competizione infra-comunitaria e, quindi, nella gara a guadagnare o non perdere posizioni rispetto agli altri. Il terzo vettore è la trasformazione geopolitica più comples-siva già contenuta nel collasso del sistema bipolare, ma precipitata definitivamente nell’ultimo decennio, e consistente in un indebolimento delle dinamiche politiche e stra-tegiche globali a vantaggio delle dinamiche interne a ciascuna regione, a propria volta sempre più divergenti le une dalle altre. Il quarto vettore infine, di portata per una volta

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propriamente epocale, è il lento spostamento del baricentro politico, strategico ed eco-nomico del sistema internazionale verso l’Asia che, se confermato, segnerebbe il com-pimento della detronizzazione dell’Europa da centro del mondo che aveva già costituito la vicenda fondamentale dell’ultimo secolo.

La tentazione del disimpegno

Questi quattro fattori hanno già prodotto mutamenti significativi nel contesto interna-zionale, visibili anche nel corso dell’ultimo anno. Il primo cambiamento, strettamente collegato alle difficoltà economiche di tutti i principali paesi, è la tentazione da parte di un numero sempre più alto di attori di concentrare attenzione e risorse sul proprio ver-sante interno, selezionando con sempre maggiore prudenza gli impegni esterni anche a costo di indebolire i contesti multilaterali di appartenenza. È la tendenza neo-isolazionista che, con qualche esagerazione, alcuni commentatori hanno già intravisto nel secondo mandato dell’amministrazione Obama. Ma, soprattutto, è la tendenza già manifestatasi anche nel corso dell’ultimo anno tanto su scala regionale europea quanto su scala globale, con ovvie ripercussioni sul tradizionale approccio multilaterale della politica estera italiana.

A livello europeo, la sensibilità ai contesti politici ed economici interni – alimen-tata dalle scadenze elettorali di diversi paesi, Italia inclusa – ha contribuito a rendere a tratti molto aspro il confronto fra i membri dell’Unione, con accuse incrociate di scarsa solidarietà e scarsa credibilità rilanciate dai rispettivi mass media e penetrate in larghe fasce dell’opinione pubblica. A ciò si aggiungono i segnali di disaffezione nei confronti della stessa Unione, in crescita in tutti i paesi europei e, in particolare, nel Regno Unito, dove il governo Cameron appare in sempre maggiori difficoltà di fronte alle richieste di un referendum popolare sull’uscita dall’Unione1.

A livello globale, poi, la tentazione del disimpegno si è manifestata anche nel corso dell’ultimo anno nella paralisi della comunità internazionale innanzi alla tragedia siriana, nella lunga inazione nei confronti della guerra civile in Mali, nella disordinata corsa all’exit strategy dall’Afghanistan, oltre che nel moltiplicarsi dei segnali di chiusu-ra sul terreno critico dell’economia internazionale.

Questa crescente introversione ha un impatto destabilizzante sul sistema interna-zionale globale e sui sistemi regionali che lo compongono. Intanto, essa rende ancora più problematico il rilancio del multilateralismo, proprio in una fase nella quale la natu-ra dei problemi che gravano sulla sicurezza degli attori (tanto statuali quanto non statua-li) sarebbe tale da richiedere risposte concertate e, nei limiti del possibile, multilaterali. Questo vale, scontatamente, per i problemi che investono direttamente le istituzioni esi-stenti, come la crisi del debito e la recessione economica nel quadro dell’Unione euro-pea. Ma, quasi a maggior ragione, questo vale anche per i problemi che si manifestano al di fuori di efficaci quadri istituzionali, tanto all’interno di singoli contesti regionali – come la guerra civile siriana o l’annoso conflitto israelo-palestinese in Medio Oriente –

1 Britains’s Future. Goodbye Europe, in «The Economist», 8 dicembre 2012.

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quanto su scala globale – come la crisi finanziaria, lo stallo del regime del commercio internazionale o l’inquinamento ambientale.

In secondo luogo, la diminuzione delle risorse e la crescente sensibilità ai rispettivi versanti domestici frenano l’assunzione di nuovi impegni del tipo di quelli simboleggiati dal cosiddetto interventismo umanitario degli ultimi due decenni. A maggior ragione, in quanto le difficoltà emerse nella transizione in Libia – in aggiunta alla dispersione di armi nei paesi vicini e, in particolare, proprio in Mali – sembrano destinate a confermare le cautele già suggerite dagli esperimenti fallimentari in Iraq e in Afghanistan.

Infine, la tentazione (reale o semplicemente temuta) del disimpegno rischia di indebolire la stessa credibilità degli impegni già presi, in una fase già tutt’altro che sem-plice per molte alleanze multilaterali (come la stessa Nato) e bilaterali (come quelle de-gli Stati Uniti con tradizionali alleati quali Israele, Egitto, Turchia o Pakistan). Mentre, come vedremo tra poco, ciò rischia di innescare una ricerca in ordine sparso di soluzioni alternative, in possibile conflitto tra loro.

Dalla scomposizione geopolitica alla crisi degli ordini regionali

L’aspettativa o il timore di una diminuzione della disponibilità dei paesi più forti a im-pegnarsi nella stessa misura del recente passato, unita all’ascesa di nuove potenze a li-vello regionale o sub-regionale, tende a rafforzare la propensione già in atto da almeno quindici anni all’inversione dei rapporti tra dinamiche globali e dinamiche regionali. Abbiamo già accennato alla prima conseguenza di questa trasformazione. A mano a mano che le dinamiche globali perdono peso a vantaggio delle dinamiche regionali, ten-dono ad aumentare anche le differenze politiche, strategiche e, in prospettiva, istituzio-nali fra una regione e l’altra. Così, per esempio, il gioco politico che si svolge in Europa ha sempre meno somiglianze con quello che si svolge in Asia orientale, così come que-sto ne ha sempre meno con quelli che si svolgono in Medio Oriente, in Africa, o in Asia centrale. La straordinaria – perché storicamente eccezionale – continuità del sistema in-ternazionale del Novecento ha già lasciato posto a un sistema internazionale nel quale le diverse aree regionali continuano a essere in contatto tra loro grazie alla globalizzazione dell’economia e dell’informazione, ma nel quale ogni regione tende sempre di più ad abbracciare attori, interessi, conflitti e linguaggi diversi. Mentre, con la diversificazione politica e strategica, tende ad aumentare anche l’eterogeneità dei diversi contesti regio-nali sul terreno istituzionale, come mostra la crescente regionalizzazione nella gestione delle crisi e nelle stessa organizzazione degli interventi militari2 – rivelata, anche nel corso dell’ultimo anno, dall’attivismo di paesi quali la Turchia e il Qatar sul fronte si-riano, così come dall’attivazione dell’Ecowas di fronte alla crisi in Mali.

Il prevedibile corrispettivo dell’assunzione di maggiori responsabilità da parte degli attori locali – e siamo alla seconda conseguenza – è l’aggravamento di quello che già all’epoca della sconfitta americana in Vietnam era stato definito il «paradosso della potenza non realizzata»: vale a dire, la difficoltà da parte dei più forti di trasformare in influenza il

2 F. Attinà, La scelta del Multilateralismo. L’Italia e le operazioni di pace, Milano, Giuffrè, 2009.

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proprio strapotere in termini di capacità. Questa difficoltà, simboleggiata per tutto l’ultimo decennio dalle problematiche politiche, militari e diplomatiche degli interventi in Iraq e in Afghanistan, ha trovato conferma nell’ultimo anno nel disincanto delle diplomazie occiden-tali per l’evoluzione delle primavere arabe che, solo l’anno prima, erano state salutate come un successo della propria forza d’attrazione politica, economica e culturale.

A sua volta, questa complicazione sottopone a tensione tutte le alleanze trans-regionali, tanto da rischiare di diffondere una vera e propria sindrome dell’abbandono. A differenza che nei quarantacinque anni di vita del sistema internazionale bipolare, quando la credibilità della garanzia esterna delle superpotenze era puntellata dal loro stesso interesse a non lasciare mano libera all’altra, la credibilità della garanzia esterna dell’unica superpotenza rimasta appare oggi molto più incerta, così come molto più az-zardata è la scelta di dare per scontato il suo sostegno efficace in caso di bisogno (non ne-cessariamente oggi, ma nel prossimo futuro). Questo spiega già, per esempio, le ambigui-tà del Pakistan nel contrasto al terrorismo e nel sostegno alla missione afgana: come os-servava alcuni anni fa un analista pakistano, «gli americani non possono restare in Afgha-nistan per sempre, mentre noi dovremo vivere per sempre qui»3. Questo potrebbe spiegare anche il crescente complesso d’insicurezza di Israele che, pur non avendo nulla da temere dall’attuale equilibrio delle forze in Medio Oriente, non può non considerare la possibilità di un lento esaurimento della rendita di posizione storica, culturale e strategica di cui ha beneficiato fino a oggi nei rapporti con Europa e Stati Uniti. Mentre, a maggior ragione, il timore di un disimpegno almeno parziale degli Stati Uniti avrebbe un effetto destabiliz-zante in Asia orientale, dove costringerebbe a scegliere se attaccarsi al carro di una proba-bile egemonia cinese o perseguire qualche strategia regionale di bilanciamento, col rischio di innescare pericolosi dilemmi della sicurezza fra i principali attori.

Infine, a mano a mano che perdono credibilità o, almeno, faticano a essere proiettati indefinitamente nel futuro, i meccanismi di garanzia esterna del passato – protet-torati, alleanze bilaterali e multilaterali, promesse informali – mutano radicalmente i crite-ri stessi in base ai quali gli attori misurano la propria sicurezza (e in base ai quali, quindi, ispirano le proprie strategie). Nel contesto globale della Guerra fredda, la sicurezza di cia-scun attore dipendeva in ultima istanza dal confronto tra le risorse e le intenzioni del pro-prio sottosistema globale di alleanza e quelle del sottosistema nemico: la sicurezza di Tur-chia, Corea del Sud, Sudafrica e Israele, per esempio, dipendeva in ultima istanza dalla tenuta o dalla superiorità del blocco occidentale rispetto a quello sovietico. Nel contesto internazionale che gli è succeduto, invece, leader e cittadini dei diversi paesi percepiscono le proprie prospettive di pace o di guerra come sempre più dipendenti dalle risorse e dalle intenzioni di antagonisti e partner collocati nella loro regione, e sempre più svincolati dal-le risorse e dalle intenzioni degli attori collocati nelle altre.

Le dinamiche competitive e destabilizzanti implicite in questi mutamenti di lun-go periodo si sono già tradotte, nel corso dell’ultimo anno, in importanti segnali di crisi all’interno di diverse regioni – e, non casualmente, crisi totalmente diverse (e, quindi,

3 Analysis: Pakistan Unlikely to Cooperate With US, in «New York Times», 24 settembre 2009.

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altrettanto diversamente gestibili) le une dalle altre. Nel contesto mediterraneo e medio-rientale, che costituisce una delle inevitabili aree d’interesse della politica estera italia-na, la crisi ha assunto per un verso l’aspetto di un’implosione generalizzata simboleg-giata, a un estremo, dal prolungamento e dal tragico acuirsi della guerra civile siriana e, dall’altro, dall’incerto decorso delle primavere arabe dell’anno precedente, ancora lon-tanissime dall’avere trovato un proprio equilibrio politico e istituzionale. I timori di un allargamento della guerra civile siriana ai paesi limitrofi, la condizione ancora precaria, ai limiti del caos, dell’Iraq post-Saddam Hussein e la nuova breve guerra tra Israele e Hamas hanno segnalato tutti insieme l’indebolimento del controllo esterno sulla regio-ne, lontano anni luce dalle fantasie di Nuovo Medio Oriente coltivate ancora fino a po-chi anni fa dall’amministrazione americana e da non pochi commentatori europei. Tanto più che, oltre alle disponibilità e alle risorse, scarseggia anche il consenso fra i principali attori, come ha confermato, in novembre, l’ennesima spaccatura interna all’Europa e, più in generale, all’Occidente, sulla questione simbolicamente cruciale del riconosci-mento alla Palestina dello status di stato non membro in seno all’Assemblea delle Na-zioni Unite – con il voto favorevole dell’Italia, che ha costituito anche il principale ele-mento di discontinuità nella nostra politica mediorientale.

Ancora più dei rischi d’implosione, inoltre, gravano su diversi sistemi regionali – compreso lo stesso Medio Oriente – i rischi di nuove spirali competitive. Due, in par-ticolare, hanno già pesato sulle relazioni diplomatiche e militari dell’ultimo anno. Un’eredità degli anni precedenti, è l’intreccio fra il conflitto tra Israele e Iran sulla que-stione nucleare e quello tra lo stesso Iran e i paesi arabi del Golfo per l’egemonia sul Golfo Persico, in una regione nella quale cresce anche l’attivismo di un paese, quale la Turchia, cui la politica estera italiana è stata molto sensibile per tutto l’ultimo decennio. L’altra spirale competitiva è quella che si è andata acuendo nel Mar cinese meridionale tra la Cina e i paesi limitrofi, Giappone in testa, spinta dalla nuova assertività della poli-tica estera cinese e dal timore che questo provoca nei paesi della regione.

Infine, queste dinamiche competitive appaiono destinate a consolidare quello che sembra sempre di più emergere come il disegno e il ritmo caratteristico della politi-ca internazionale di questo inizio secolo: la rincorsa tra ciò che resta dell’egemonia glo-bale degli Stati Uniti e la riorganizzazione in senso gerarchico delle diverse aree regio-nali. Questa rincorsa sfocia, a propria volta, nel circolo vizioso di due politiche di rie-quilibrio parallele, ciascuna delle quali tende irresistibilmente ad alimentare l’altra: quella promossa dai possibili stati-guida di ciascuna regione, diretta a controbilanciare lo strapotere degli Stati Uniti su scala globale; e quella favorita dalla maggior parte de-gli altri paesi, diretta a contrastare ogni ipotesi di gerarchizzazione all’interno delle ri-spettive regioni. La prima, che tenta i paesi più disponibili ad «attaccarsi al carro» (bandwagon) dei pivot regionali, spinge a cercare un’alternativa all’unipolarismo a gui-da americana. La seconda, che tenta i paesi più diffidenti nei confronti dei possibili poli di riaggregazione regionale, li spinge ad «attaccarsi al carro» dell’egemonia americana, mentre offre agli Stati Uniti l’opportunità di restare saldamente inseriti nell’equazione

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diplomatica e strategica delle diverse regioni, ma a costo di dovere continuamente ri-mandare la diminuzione dei propri impegni. La riconferma di Barack Obama e l’ennesimo riorientamento della politica estera americana

Proprio questo dilemma fra ridimensionamento e credibilità si sta imponendo come la preoccupazione principale della politica estera degli Stati Uniti. Da un lato, una ripresa economica ancora molto lenta e, soprattutto, le crescenti pressioni sul debito sembrano destinate a suggerire un ridimensionamento degli impegni internazionali e, dopo dieci anni di crescita, un taglio alle stesse spese militari. Attorno a questo nodo avevano già ruotato, peraltro, tutte le principali incognite della politica estera degli Stati Uniti riemerse anche in occasione dell’ultima campagna presidenziale; se e quanto assumersi direttamen-te l’onere del mantenimento dei diversi ordini regionali e se e quanto scaricarlo, invece, sui principali alleati; una volta scelto di assumere l’iniziativa, se agire da soli o con alleati occasionali oppure nel quadro di alleanze e contesti multilaterali permanenti; se, tanto a livello globale quanto a livello regionale, evitare l’emergere di potenze ostili cercando di prevenire l’ostilità, attraverso il coinvolgimento delle potenze emergenti in istituzioni multilaterali comuni (engagement), oppure agendo direttamente sulla potenza, attraverso l’isolamento, l’accerchiamento e il confronto; e, in questo secondo caso, se accontentarsi di una strategia difensiva di dissuasione, o puntare a eliminare la minaccia alla radice at-traverso l’uso preventivo della forza, la sovversione e il regime change.

Spinta dalle stesse considerazioni che, come abbiamo visto, stanno inducendo anche tutti gli altri principali attori a una selezione più accurata dei propri impegni in-ternazionali, l’amministrazione Obama aveva dichiarato sin dall’inizio la propria deci-sione a dedicare maggiore attenzione al versante domestico. «La nostra sicurezza nazio-nale», proclamava enfaticamente la National Security Strategy del 2010, «comincia in casa. Ciò che accade all’interno dei nostri confini è sempre stato la sorgente della nostra forza, e questo è vero a maggior ragione in un’epoca d’interconnessione come la no-stra»4. Mentre proprio in questa preoccupazione andava cercata la motivazione realistica della conclamata scelta multilaterale dell’amministrazione. «Gli oneri di un secolo an-cora giovane», ammoniva lo stesso Barack Obama sin dalla prefazione alla nuova Na-tional Security Strategy , «non possono cadere soltanto sulle spalle dell’America – anzi, ai nostri avversari piacerebbe vedere l’America prosciugare la propria forza estendendo troppo il proprio potere»5.

Sennonché – e siamo all’altro corno del dilemma – proprio mentre le considera-zioni di bilancio suggerirebbero agli Stati Uniti di diminuire i propri impegni, l’aumento della competizione in diverse delle principali aree regionali fa crescere la domanda di protezione degli alleati, che gli Stati Uniti non possono ignorare senza indebolire la cre-dibilità della propria garanzia rischiando di alimentare, alla fine, le stesse competizioni

4 White House, National Security Strategy, 2010, p. 9. 5 B. Obama, Prefazione, in White House, National Security Strategy, cit.

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regionali6. Con l’aggravante che il sostegno agli alleati non può essere spinto fino a pre-giudicare le relazioni con le grandi potenze in ascesa, a meno di rinunciare a quella stra-tegic reassurance nei confronti di paesi quali la Cina e la Russia che avrebbe dovuto co-stituire e, in linea di principio, costituisce ancora il secondo pilastro della politica estera dell’amministrazione Obama.

Sempre da questo dilemma deriva l’ambiguità del segnale giunto da Washington nel corso dell’ultimo anno. Sebbene, confermando Barack Obama alla Casa Bianca, le elezioni presidenziali di novembre abbiano offerto il maggiore elemento di continuità nel quadro in-ternazionale dell’ultimo anno, appare chiaro che il secondo mandato di Barack Obama por-terà con sé un nuovo adattamento della postura strategica e diplomatica degli Stati Uniti, le cui fondamenta sono già state chiaramente gettate nell’ultimo anno e mezzo7.

Osservato dal punto di vista della politica estera italiana, il primo elemento di questo adattamento costituisce un probabile vantaggio in termini di risorse, ma anche una possibile nuova sfida alla vitalità dell’Alleanza Atlantica. Portando alle logiche conseguenze il preannunciato ridimensionamento della guerra al terrore da centro di gravità nell’architettura di sicurezza degli Stati Uniti, la Casa Bianca e il Pentagono hanno già deciso, per gli anni a venire, uno spostamento del baricentro delle attività mi-litari dalla contro-insorgenza e dalla lotta al terrorismo a missioni più tradizionali quali la prevenzione dei conflitti regionali più pericolosi, la dissuasione degli avversari reali o potenziali e l’indirizzo dell’ambiente strategico8. Questo spostamento, unito alla pros-sima conclusione della guerra in Afghanistan, è destinato a sollevare gli alleati e la stes-sa Italia da impegni immediati sul campo. Ma, in compenso, rischia di riaprire la perio-dica crisi d’identità della Nato, spostando definitivamente al di fuori dell’ombrello di comodo della guerra globale al terrore il tema del suo allargamento oltre il tradizionale raggio d’azione europeo.

Più direttamente problematici appaiono, per l’Europa e la stessa Italia, gli altri due aspetti della trasformazione già in corso della politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti. Il primo è la diminuzione già annunciata del bilancio della Difesa, che è de-stinata a fare ulteriormente crescere la pressione sugli alleati già esercitata, anche in termini molto aspri, negli ultimi due anni.

L’altro mutamento, che costituisce il complemento del precedente, è il deciso riorientamento della politica estera e di sicurezza americana verso l’Asia-Pacifico, con-fermato anche nello Strategic Guidance del gennaio 2012. «Gli interessi economici e di sicurezza degli Stati Uniti» recita il documento del dipartimento della Difesa «sono ine-stricabilmente legati agli sviluppi dell’arco che si estende dal Pacifico occidentale e

6 Per due tesi opposte sull’ipotesi del disimpegno, si vedano B.R. Posen, The Case for Restraint, in «The American Interest», vol. 3, n. 1, novembre/dicembre 2007, pp. 7-17; e S. G. Brooks, G.J. Ikenberry e W.C. Wohlforth, Don’t Come Home, America. The Case against Retrenchment, in «International Securi-ty», vol. 37, n. 3, inverno 2012/13, pp. 7-51. 7 M.S. Indyk, K.G. Lieberthal e M.E. O’Hanlon, Scoring Obama’s Foreign Policy: A Progressive Prag-matist Tries to Bend History, in «Foreign Affairs», vol. 91, n. 3, maggio/giugno 2012, pp. 29-43. 8 R.T. Odierno, U.S. Army in a Time of Transition: Buiding a Flexible Force, in «Foreign Affairs», vol. 91, n. 3, maggio/giugno 2012, pp. 7-11.

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l’Asia orientale alla regione dell’Oceano Indiano e dell’Asia meridionale»9. Oltre che attraverso la consueta partnership con Giappone e Corea del Sud – recentemente rilan-ciata dai risultati elettorali dei due paesi – questo riorientamento si è già espresso nel rafforzamento della cooperazione militare con l’Australia, nelle missioni di addestra-mento delle forze speciali nelle Filippine, nei progetti di cooperazione con Singapore, Tailandia e Vietnam e nelle esercitazioni militari comuni con l’India. Mentre, dal punto di vista europeo, questo riorientamento sarà accompagnato dal ritiro dall’Europa di due brigate di circa 3.500 effettivi ciascuna, compensato solo in parte dal rafforzamento del contributo americano alla Forza di Risposta Rapida della Nato.

9 M. Flournoy e J. Davidson, Obama’s New Global Posture: The logic of U.S. Foreign Deployments, in «Foreign Affairs», vol. 91, n. 4, luglio/agosto 2012, pp. 54-63.

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Principali direttrici della politica estera italiana La priorità europea

In questo scenario internazionale caratterizzato da un rapido mutamento degli equilibri di potere tra le diverse aree e paesi e dal conseguente venir meno di alcuni tradizionali punti di riferimento, la sfida per l'Italia è di ridefinire realisticamente la sua capacità di proiezione e il suo ruolo in tre ambiti principali: quello euro-atlantico, e in particolare l’Unione Europea che sta attraversando una crisi profonda e dagli esiti oltremodo incer-ti; il vicinato, a partire da quello mediterraneo, che continua a essere teatro di profondi sommovimenti politici; la cooperazione internazionale e le istituzioni della global go-vernance, il cui assetto, in larga parte obsoleto, è sempre più messo in discussione.

Nel corso del 2012 l’azione del governo si è dispiegata soprattutto nel primo ambito, quello europeo. Né poteva essere altrimenti, essendo le sorti dell’Italia legate a filo doppio a quelle dell’Ue, e in particolare dell’Eurozona. Il governo Monti, nato nel novembre 2011 per rimettere in sesto la situazione finanziaria del paese gravemente de-terioratasi nella seconda metà del 2011, tanto da configurare un rischio concreto di de-fault, ha operato in condizioni di emergenza che richiedevano la rapida adozione di mi-sure che valessero a convincere i creditori esteri e i paesi partner dell’effettiva capacità dell’Italia di risollevarsi. Non si trattava solo di allontanare il paese dal precipizio finan-ziario, ma anche di evitare che fosse costretto a sottomettersi a un programma di salva-taggio che ne avrebbe pesantemente limitato la sovranità in materia di politica economi-ca, come accaduto in precedenza ad altri paesi europei (Grecia, Irlanda, Portogallo). In effetti, il governo è stato sollecitato dai partner europei, in diversi frangenti, a ricorrere al fondo di salvataggio europeo e all’aiuto da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi), ma, grazie a incisive misure correttive del bilancio pubblico, è riuscito a fare a meno di questi sostegni che lo avrebbero messo in una condizione di grave inferiorità rispetto ai suoi partner europei. Da tempo considerata un sorvegliato speciale, l’Italia aveva peraltro già dovuto sottomettersi nel 2011 a una serie di pesanti condizioni dettate da Bruxelles, che ponevano vari vincoli e paletti all’azione del governo per l’aggiustamento macroeconomico. A questi due obiettivi – uscita dall’emergenza finan-ziaria e difesa dei margini di azione in campo economico – se ne è affiancato un terzo, a essi strettamente collegato: il rilancio del ruolo diplomatico del paese in seno all’Ue e segnatamente della sua capacità d’incidere sulla strategia dell’Unione per la gestione della crisi.

Perseguendo con coerenza questi tre obiettivi, il governo Monti ha colto successi significativi, come illustrato in dettaglio da Franco Bruni nel capitolo 1 di questo volu-me. Alla fine del 2012 permaneva, però, una notevole incertezza sul futuro politico ed economico del paese e sul suo ruolo in Europa sia per l’assenza di segni di ripresa dell’economia, che è anzi sprofondata in un’ancora più grave recessione anche per effet-to delle misure di austerità, sia per l’approssimarsi di elezioni politiche dall’esito impre-vedibile. Così, benché l’Italia sia riuscita a riguadagnare credibilità in Europa, con spazi

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sempre più ampi d’interlocuzione con i maggiori paesi europei, ha continuato a essere vista, a causa di debolezze strutturali che il governo Monti è riuscito ad affrontare solo molto parzialmente, come uno degli anelli deboli dell’Eurozona, ancora a rischio di di-ventare l’epicentro di una nuova crisi dell’area, qualora il quadro economico internazio-nale dovesse nuovamente deteriorarsi.

La politica di austerità e il rilancio dei rapporti con Berlino

Anche visto in retrospettiva, il varo del pacchetto di misure di austerità a fine 2011 – at-traverso il decreto cosiddetto «salva-Italia» - è stato di cruciale importanza per disinne-scare il circolo vizioso che stava generando una sfiducia crescente verso il paese in Eu-ropa e sui mercati finanziari. Gli osservatori internazionali hanno apprezzato non solo l’entità del pacchetto «salva-Italia», inclusa, in particolare, un’incisiva riforma, di carat-tere strutturale, del sistema pensionistico, ma anche la rapidità con cui è stato adottato e l’ampia maggioranza parlamentare che lo ha approvato. È stato il primo, decisivo, tas-sello della strategia del governo Monti per riconquistare terreno in ambito Ue, su cui ci siamo già soffermati nella scorsa edizione di questo annuario. Senza quel primo passo non sarebbe stato possibile per l’Italia rientrare, a pieno titolo, nel gioco diplomatico eu-ropeo. Esiste insomma un nesso stretto tra la politica di risanamento finanziario e di ri-forme avviata a fine 2011 e le iniziative diplomatiche intraprese dal governo nel 2012, che hanno consentito all’Italia di avere maggior voce in capitolo sulle politiche europee per la gestione della crisi economica, pur in un quadro di alleanze incerte e mutevoli all’interno dell’’Unione.

La rapida entrata in vigore del «salva-Italia» è servita innanzitutto a riannodare le fila della cooperazione con la Germania, dove peraltro il governo Monti ha goduto sin dall’inizio di un notevole credito grazie anche ai suoi noti orientamenti europeisti e alla sua reputazione internazionale. Anche altri membri del governo, come il ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero, godevano di grande credito all’estero. Dopo alcuni dubbi iniziali, Berlino si è convinta che, con il governo Monti, l’Italia avrebbe potuto effetti-vamente intraprendere, pur tra mille difficoltà, un cammino di risanamento economico e di riforme. Inoltre, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, era palesemente interessata a esplorare nuove forme di cooperazione diplomatica a livello europeo che consentissero di coinvolgere più attivamente altri paesi, oltre la Francia, nella definizione della strate-gia anticrisi. A Berlino si era in realtà convinti da tempo che l’asse con Parigi fosse del tutto insufficiente a rilanciare le sorti dell’Eurozona. Rientrava in questa visione la ri-presa della cooperazione con un’Italia impegnata, in modo più coerente e fattivo, a ri-mettere in ordine i suoi conti. Il governo italiano, dal canto suo, essendo interessato a evitare un ulteriore inasprimento delle politiche di rigore perseguite dalla Germania e ad avviare un programma comune per la crescita, ha attivamente cercato un raccordo con altri paesi dagli interessi analoghi, Francia e Spagna innanzitutto, con l’obiettivo d’indurre il governo tedesco ad accettare una strategia più equilibrata per fronteggiare la crisi. Il gioco diplomatico europeo si è fatto così più aperto e articolato, anche grazie al

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maggior attivismo italiano. Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, parallelamente al va-ro dei decreti economici, Monti è stato impegnato in una serie di incontri con i principa-li leader europei che hanno consentito all’Italia di reinserirsi più pienamente nel proces-so diplomatico dell’Ue. Dal vertice con Angela Merkel e il presidente francese Nicholas Sarkozy del 24 novembre 2011 – un formato a tre che non si vedeva da tempo – è stato un rapido susseguirsi di incontri al più alto livello che hanno riportato l’Italia al centro della scena europea. Il paese è rimasto, in realtà, in una posizione d’intrinseca debolezza a causa dei suoi persistenti squilibri economici, ma è riuscito a giocare le sue carte in modo assai più efficace che nel recente passato.

Fondamentale era per l’Italia scongiurare il rischio che l’Ue decidesse un’ulteriore stretta di vite delle regole fiscali, dopo l’approvazione del Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria, il Fiscal Compact, firmato nel marzo 2012 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2013. Su questo aspetto l’Italia si è trovata ripetutamente in contrasto con la Germania e con gli altri paesi rigoristi del Centro e Nord Europa. L’obiettivo di fondo del governo Monti è stato quello di evitare che si aggiungessero nuovi vincoli, o comunque vincoli troppo pesanti, in cambio di una maggiore solidarietà verso i paesi al centro della tempesta finanziaria.

In Italia non si sono registrate forti opposizioni, né a livello politico né a livello parlamentare, al Fiscal Compact. L’Italia è stato il nono paese membro dell’Ue – il sesto dell’Eurozona – a ratificarlo. Il Parlamento lo ha approvato definitivamente il 19 luglio, a grande maggioranza sia al Senato che alla Camera. Il deposito dello strumento di ratifica è avvenuto il 14 settembre. Inoltre, il 20 dicembre, dando attuazione a uno degli impegni principali previsti dal trattato, il Parlamento ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio nella Costituzione attraverso una modifica dell’articolo 81. Il ddl di riforma costituzionale ha anche istituito l’Ufficio parlamentare di bilancio, un organismo di controllo dei conti pubblici, composto da tre membri eletti dai presidenti delle due Camere. Va notato che l’intento di attuare questa riforma costituzionale era stato già espresso dal governo Berlusconi nell’agosto 2011 nell’ambito di una serie di altri impegni con l’Ue che comprendevano l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013 (previsto in precedenza nel 2014).

Il tentativo di riequilibrare la strategia anticrisi dell’Ue e l’intesa con Hollande

Se con Berlino la strategia è stata all’inizio, quella della rassicurazione, e poi di una co-stante pressione per evitare ulteriori irrigidimenti delle regole fiscali, con Parigi il go-verno Monti ha mirato soprattutto a una convergenza di sforzi per ottenere il lancio di politiche europee a favore della crescita e nuovi meccanismi comuni per sostenere i paesi in difficoltà. Più che con Sarkozy, interessato prevalentemente all’asse con Berli-no, il governo italiano si è trovato in sintonia con il suo successore, François Hollande, apertamente critico delle politiche di austerità e sostenitore di un’«Europa solidale». Con la presidenza di Hollande si sono, in effetti, aperti nuovi spazi di manovra diploma-tica per il governo Monti: nessun rigido asse o fronte comune con la Francia – né peral-

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tro con gli altri paesi dell’Europa mediterranea – che sarebbe stato irrealistico e contro-producente, ma un tentativo comune di ricalibrare verso la crescita l’asse delle politiche europee.

Questa strategia corrispondeva indubbiamente all’interesse di un paese che vole-va dimostrare di saper rispettare gli impegni, ma che, trovandosi in una situazione di strutturale precarietà, non poteva prescindere dalla ricerca di un maggiore sostegno da parte dell’Ue. Ma, in concreto, quali risultati ha prodotto questa strategia?

Una svolta nella strategia europea di gestione della crisi è intervenuta con il Ver-tice Ue del 28 e 29 giugno, che ha adottato nuove direttrici di azione, che, nel loro in-sieme, disegnavano un’articolata “roadmap” da attuare nei mesi a venire. Molte delle decisioni o impegni che sono stati decisi dal Consiglio europeo in quell’occasione erano stati attivamente propugnati nelle settimane precedenti dal governo italiano anche attra-verso una serie di contatti e incontri, in particolare un importante vertice a quattro tra Monti, Merkel, Hollande e il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, svoltosi a Roma il 22 giugno. Il principale risultato ottenuto dall’Italia al Consiglio europeo di giugno è stata la decisione di attivare il cosiddetto «scudo anti-spread» che consente alla Banca centrale europea (Bce), a certe condizioni, di acquistare titoli di stato dei paesi dell’Eurozona sui mercati secondari, operando come agente per conto dei fondi di stabi-lità: una mossa che ha contribuito notevolmente – probabilmente più di qualsiasi altra a livello nazionale ed europeo – alla stabilizzazione dei mercati finanziari verificatasi nel-la seconda metà dell’anno, inclusa una drastica riduzione dei tassi d’interesse pagati dai paesi in difficoltà sui loro titoli di stato sia a breve che a lungo termine. In realtà, il meccanismo non è mai stato attivato nel corso del 2012, ma la determinazione mostrata dal presidente della Bce, Mario Draghi, a farne uso, se si fosse rivelato necessario per salvare l’Eurozona, ha avuto un potente effetto rassicurante sui mercati. Per indurre la Germania e altri paesi a superare le esitazioni sul meccanismo anti-spread, Monti, forte anche dell’appoggio di Hollande e di Rajoy, è giunto a minacciare durante il Vertice il veto su altre decisioni chiave del Consiglio, segnatamente il Patto per la crescita, al qua-le, come detto sopra, l’Italia teneva non meno di altri paesi. Va sottolineato, quindi, co-me il governo italiano abbia svolto un ruolo di primo piano nel processo che ha portato il Consiglio europeo a varare lo strumento che nel corso del 2012 si è rivelato più inci-sivo nell’allontanare il rischio di un ulteriore indebolimento dell’Eurozona e di altri de-fault dopo quello della Grecia.

L’Italia avrebbe voluto, in realtà, che lo scudo anti-spread potesse essere attivato dalla Bce in modo automatico, o quasi, ma ha dovuto alla fine accettare che, come chiesto dalla Germania, la sua messa in opera fosse sottoposta ad alcune condizioni, compresa la firma di un Memorandum di intesa con i paesi che ne avrebbero beneficiato. È rimasto pe-raltro un notevole margine di ambiguità su un punto centrale: benché il governo italiano abbia escluso che, con il Memorandum di intesa, potessero essere richiesti ulteriori impe-gni ai paesi che avessero voluto usufruire dello scudo, la Germania e altri paesi hanno te-so a dare del meccanismo un’interpretazione marcatamente più rigorista.

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Il Consiglio europeo di giugno ha anche approvato il «Patto per la crescita» con l’obiettivo di affiancare al Fiscal Compact una serie di misure per ridare slancio all’economia che costituisse un pilastro complementare della strategia di fuoriuscita dal-la crisi, come chiesto insistentemente dall’Italia, dalla Francia e da altri paesi. Tuttavia, sull’efficacia di tali misure c’è stato, sin dall’inizio, un diffuso scetticismo, data l’esiguità delle nuove risorse stanziate per finanziarle. Il piano include anche i project bonds per attuare specifici progetti infrastrutturali, ma si tratta di uno strumento di scar-sa entità e dai lunghi tempi di attuazione. Nel 2012 non hanno peraltro fatto molta stra-da le varie proposte miranti a una mutualizzazione di una parte dei debiti sovrani attra-verso i cosiddetti eurobond, a cui l’Italia guarda da tempo con favore. La previsione di Monti che un accordo sugli eurobond fosse a portata di mano si è rivelata oltremodo ot-timistica. La stessa Commissione europea che nel novembre 2011 aveva lanciato l’idea degli stability bond ha poi dovuto prendere atto, un anno dopo, che non si sarebbe potu-to introdurli prima di almeno cinque anni (anche perché richiederebbero una modifica dei trattati). Monti è stato anche uno dei più convinti sostenitori della golden rule che consentirebbe lo scorporo delle spese d’investimento dal computo del disavanzo degli Stati membri e quindi di liberare risorse per stimolare la crescita. Al riguardo la Com-missione ha fatto qualche apertura che non ha avuto però seguito a causa dell’opposizione di molti Stati membri.

Così, contrariamente a quanto auspicato dall’Italia, si è rivelato impraticabile un accordo che consentisse, a fronte di controlli più severi sui bilanci, forme di gestione comune del debito sovrano. Al di là delle obiezioni politiche o tecniche sulle singole proposte, a impedire un simile accordo è stato il persistente clima di sfiducia reciproca fra i Paesi membri, riflesso anche di crescenti tendenze nazionalistiche nelle rispettive opinioni pubbliche. Per tutto il 2012 l’Ue ha, di fatto, continuato a dare priorità alle re-gole e ai meccanismi miranti a garantire la disciplina fiscale, mettendo decisamente in secondo piano quelli per rilanciare la crescita attraverso la messa in comune di risorse.

L’altro aspetto, non meno importante, delle politiche per la crescita riguarda le riforme strutturali che, in linea con la strategia europea, ciascun Paese membro è chia-mato ad attuare. I pacchetti di riforme varati dal governo Monti sono stati, nel comples-so, giudicati positivamente da Bruxelles. In particolare, è stata apprezzata, per il suo ca-rattere strutturale, la riforma delle pensioni. Ma in molti altri settori cruciali il cammino delle riforme ha segnato il passo anche con il governo Monti. In Italia resta irrisolto in particolare il problema del continuo calo di competitività del sistema industriale cui si può porre rimedio solo attraverso profondi cambiamenti sistemici, come spiegano Carlo Altomonte e Laura Casi nel capitolo 4 di questo volume analizzando la politica indu-striale italiana nel contesto europeo.

L’Italia ha sostenuto attivamente anche l’obiettivo d’istituire un’Unione bancaria europea, che è stato anch’esso fissato al Vertice Ue di giugno. L’Unione bancaria è stata individuata dal Consiglio europeo come lo strumento chiave per spezzare il circolo vi-zioso tra crisi bancaria e crisi del debito sovrano. Nella seconda metà dell’anno sono pe-rò emerse notevoli esitazioni e resistenze, da parte della Germania e di altri paesi, su alcu-

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ni aspetti fondamentali dell’Unione bancaria, in particolare la creazione di un fondo co-mune di garanzia dei depositi, e, più in generale, sulla ricapitalizzazione diretta delle ban-che da parte del fondo di salvataggio, uno degli obiettivi cardine del progetto. Al Consi-glio europeo del 13-14 dicembre si è raggiunto un accordo sul meccanismo unico di vigi-lanza bancaria, che prevede una divisione di compiti tra la Bce e le autorità nazionali. So-no state però rinviate sia la decisione sulle procedure di risoluzione delle banche in diffi-coltà sia quella su un sistema unico di garanzia dei depositi. Si è quindi data nuovamente la precedenza, come forse inevitabile, agli strumenti di controllo reciproco rispetto a quel-li di solidarietà. È da notare che l’Italia ha sin dall’inizio sostenuto con convinzione il si-stema differenziato di vigilanza, che lascia un ruolo importante, ancorché complementare, alle autorità bancarie nazionali. La Banca d’Italia ha d’altronde dato un contributo notevo-le alla definizione degli aspetti tecnici del progetto di Unione bancaria.

La delusione Cameron

Parallelamente al rinvigorimento della concertazione con Francia e Germania, Monti ha intrapreso, sin dalla fine del 2011, alcune iniziative volte a scongiurare una frattura crescente tra i paesi dell’Eurozona e la Gran Bretagna, sempre più tentata da un allentamento dei legami con l’Ue e dall’idea di rimpatriare alcune competenze ora detenute da Bruxelles. Obiettivo dichiarato di Monti è stato quello di evitare un’esclusione forzata o volontaria della Gran Bretagna dai nuovi meccanismi comuni di risposta alla crisi. Il primo ministro italiano ha guardato con preoccupazione a un distacco progressivo di Londra come a un potenziale fattore d’indebolimento dell’assetto normativo e istituzionale dell’Ue. Una crescente «geometria variabile» di impegni da parte degli Stati membri avrebbe potuto mettere a repentaglio la funzionalità e l’efficacia dell’Ue. Per Monti era inoltre fondamentale preservare l’intesa con la Gran Bretagna sul completamento del mercato unico, considerato dal primo ministro italiano una condizione chiave per la ripresa dell’economia europea. Monti ha cercato, in particolare, di convincere il premier britannico, David Cameron, a firmare il Fiscal Compact. Il tentativo è però fallito. Proprio a causa dell’opposizione di Londra, preoccupata per le ripercussioni dell’accordo sulle attività finanziarie della City londinese, il Fiscal Compact è stato firmato nel marzo 2012 come trattato intergovernativo al di fuori del contesto normativo dell’Ue (vi hanno alla fine aderito solo 25 paesi su 27: poiché oltre alla Gran Bretagna, anche la Repubblica Ceca ne è rimasta fuori). Monti sembra aver sottostimato l’opposizione del governo Cameron a qualsivoglia nuova forma di cooperazione che comporti ulteriori cessioni di sovranità in campo economico o vada nella direzione di un’unione fiscale. Tuttavia, Roma e Londra hanno continuato a muoversi in sintonia sul completamento del mercato unico, sostenendo le iniziative intraprese al riguardo dalla Commissione europea, in particolare il «Single Market Act II» che prevede una serie di misure di liberalizzazione e integrazione in vari settori decisivi per la crescita economica, come le reti di trasporto ed energetiche e l’economia digitale. Va ricordato che tra il 20 febbraio Monti e

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Cameron, insieme ai primi ministri di altri 10 paesi membri, avevano inviato una lettera al presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e a quello del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, proponendo un piano per la crescita in Europa incentrato sull’approfondi-mento del mercato unico che è poi stato recepito dalla Commissione.

Proposte per la riforma istituzionale dell’Ue e altre iniziative di politica europea

In linea con i suoi orientamenti marcatamente europeisti, il governo Monti ha partecipa-to attivamente ai tentativi di rilanciare il processo di riforma istituzionale dell’Ue anche attraverso una revisione dei trattati in vigore, come auspicato dallo stesso presidente della Commissione europea, Barroso. Qui l’iniziativa è stata soprattutto del ministro de-gli Esteri Giulio Terzi che, insieme ai suoi omologhi di altri dieci Paesi membri – Au-stria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna – ha dato vita a un «Gruppo di lavoro sul futuro dell’Europa» con l’obiettivo di avanzare proposte e suggerimenti per il rafforzamento istituzionale dell’Ue e dei suoi meccanismi di partecipazione democratica. Il documento finale presentato dal gruppo nel settembre 2012 include una serie di proposte miranti ad accrescere la capacità di azione dell’Ue, fra cui, l’estensione del voto a maggioranza anche alla politica estera, rappresen-tanze comuni nelle organizzazioni internazionali, la semplificazione delle procedure di revisione dei trattati, una più stretta cooperazione nel campo della difesa, una polizia eu-ropea di frontiera. Gli undici ministri degli Esteri si sono anche dichiarati a favore di mi-sure di riforma di più lungo termine che cambierebbero di non poco il modus operandi dell’Ue, come l’elezione diretta del presidente della Commissione e il conferimento al Parlamento europeo del diritto d’iniziativa legislativa. Sulla necessità di avviare un nuovo ciclo di riforme istituzionali è tornato più volte anche il presidente della Repubblica Gior-gio Napolitano, che ha continuato a esercitare un’azione di stimolo, sia a livello nazionale che europeo, per un approfondimento dell’integrazione europea.

Il governo Monti ha attuato anche altre iniziative volte a irrobustire la capacità dell’Italia d’influire sulle politiche europee e di trarne beneficio. Il 4 gennaio 2013 è en-trata in vigore una nuova legge sulla «partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea», che ha sostituito la precedente legge comunitaria – la cosiddetta «legge Buttiglione» del 2005. La nuova normativa prevede un maggior coinvolgimento del Parlamento sia nella fase di elabora-zione della legislazione europea (fase ascendente) sia in quella del recepimento di quest’ultima nella legislazione nazionale (fase discendente) in coerenza con le disposi-zioni del Trattato di Lisbona che accrescono il ruolo di controllo dei Parlamenti nazio-nali nel processo legislativo dell’Ue. È stato inoltre stabilito che le regioni parteciperan-no alla fase ascendente non in modo autonomo, ma tramite il governo, che dovrà va-gliarne e rappresentarne le istanze. Il raccordo con il Parlamento, le regioni e gli enti lo-cali dovrà essere assicurato dalla presidenza del Consiglio tramite il ministero per gli Affari europei, che assume così un ruolo di preminenza nella gestione delle politiche Ue

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rispetto al ministero degli Affari esteri, in linea con una prassi che si è affermata proprio con il governo Monti. Infatti, nel 2012 è stato soprattutto il ministro per gli Affari euro-pei Moavero, sotto la guida di Monti, a tenere le fila delle principali iniziative in seno Ue, peraltro anche di molte non direttamente legate al processo legislativo. Questa scel-ta di accrescere il ruolo della presidenza del Consiglio nei rapporti con l’Ue riflette sia l’importanza crescente che è venuto assumendo, all’interno dell’Unione, il Consiglio europeo, nel quale siede appunto il capo del governo, sia la presa d’atto che gran parte delle materie europee sono sempre meno catalogabili come meramente «estere», poiché fanno un tutt’uno con quelle interne. Tuttavia, per consolidare questa diversa distribu-zione delle competenze in seno al governo, sarebbe necessario rafforzare la struttura della presidenza del Consiglio che si occupa di politiche europee: un’esigenza di cui c’è diffusa consapevolezza, ma che è rimasta finora inevasa.

Il governo è anche riuscito a ridurre il numero delle procedure d’infrazione aperte dall’Ue contro l’Italia: dalle 132 ereditate dal precedente esecutivo si è passati a 97 a fine 2012. In realtà, il ministro Moavero puntava a un dimezzamento delle procedure d’infrazione. Un obiettivo ambizioso, ma che sarebbe stato raggiunto se contrasti fra i partiti su temi estranei alla materia europea – la responsabilità civile dei magistrati e la vivisezione – non avessero impedito l’approvazione da parte del Parlamento delle leggi comunitarie 2011 e 2012. Così, paradossalmente, proprio nell’anno in cui si è riusciti a riformare la legge che regola la partecipazione dell’Italia alle politiche dell’Ue, sono rimasti bloccati provvedimenti essenziali per rimettere l’Italia in regola con la normativa comunitaria. Al suo attivo il governo può anche vantare un notevole miglioramento della capacità di spesa dei fondi strutturali europei. Secondo dati forniti dal ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca, alla fine dell’anno ben 51 programmi operativi su 52 avevano superato i target di spesa e nei 14 mesi compresi tra l’ottobre 2011 e il dicembre 2012 si era speso più che nei 58 mesi precedenti. Nel complesso, con il governo Monti si è intravista la possibilità che, con una guida politica più adeguata e meccanismi di coordinamento più efficienti, l’Italia non solo partecipi più attivamente alla definizione delle politiche europee, ma recuperi anche lo storico ritardo rispetto ai partner nell’attuarle e nel trarne vantaggio.

Nonostante questi tentativi del governo di rendere più incisiva la partecipazione dell'Italia all'Ue anche dal punto di vista dell'interesse nazionale, nel 2012 si è registrato un ulteriore, marcato, aumento del malcontento e dell'insoddisfazione nei confronti dell'Unione, come evidenziato dai sondaggi di opinione. È notevolmente cresciuta la sfiducia nella capacità dell'Ue di affrontare i nodi della crisi economica e di assicurare un adeguato sostegno ai paesi in difficoltà sulla base di una concreta solidarietà fra i paesi membri. La diffusa percezione che le impopolari misure di austerità attuate dal governo Monti siano state imposte da Bruxelles su pressione, in particolare, della Ger-mania e dei paesi nordici, ha grandemente contribuito a erodere la base di consenso, tra-dizionalmente molto ampia, per l'integrazione europea e per la stessa permanenza dell’Italia nell’Eurozona. Benché la maggioranza degli italiani rimanga favorevole alla partecipazione sia all'Ue sia all’euro, il crescente euroscetticismo dell’opinione pubblica

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rappresenta, nel contesto di una grave crisi economica di cui ancora non si intravvede lo sbocco, una delle sfide più impegnative per le classi dirigenti del paese.

L’azione nel Mediterraneo e in Medio Oriente

Il vicinato mediterraneo è rimato uno dei principali campi d’azione della diplomazia ita-liana. Il ministro degli Affari esteri Giulio Terzi ne ha anzi fatto la sua priorità, anche in ragione della scelta, peraltro obbligata, del presidente del Consiglio di gestire in prima persona il dossier europeo. Per promuovere i rapporti con i paesi del Mediterraneo del Sud Terzi ha anche nominato un inviato speciale nella regione. Molto ampio è, in effet-ti, lo spettro di interessi italiani nel Mediterraneo: politici e di sicurezza, economico-commerciali, energetici, come spiegano più in dettaglio Massimo Campanini, Valeria Talbot e Arturo Varvelli nel capitolo 3 di questo volume.

L’obiettivo strategico perseguito dal governo è stato quello di gettare le basi per partnership solide e funzionali con le nuove leadership arabe in Africa settentrionale, segnatamente nei tre paesi – Egitto, Libia e Tunisia – che sono stati investiti in pieno dall’ondata di rivolte della Primavera araba, sperimentando epocali cambiamenti politi-ci. Questi paesi hanno, in realtà, continuato ad attraversare un periodo di accentuata in-stabilità, che si è anzi aggravata negli ultimi mesi dell’anno. L’Italia, al pari di altri, si è quindi trovata in crescente difficoltà a impostare un’efficace azione diplomatica, soprat-tutto per la fragilità dei nuovi governi e la conseguente debolezza politica degli interlo-cutori. Più che grandi progetti a lungo termine, il governo italiano ha pertanto persegui-to da un lato la conferma e, ove possibile, il consolidamento delle intese esistenti, dall’altro l’avvio di alcuni nuovi progetti di cooperazione in campi specifici. Tipico il caso della Libia, dove il processo di stabilizzazione ha subito pesanti battute d’arresto e, specialmente nella parte orientale del paese, sono emerse forti correnti islamiste antioc-cidentali. In questo contesto, l’Italia ha puntato pragmaticamente su un gestione condi-visa dei problemi di maggiore impatto per i suoi interessi, quelli della sicurezza e dell’immigrazione. Al contempo, però, ha anche cercato di favorire un più ampio coin-volgimento della Libia in vari contesti della cooperazione internazionale. Con l’Egitto si è arrivati a concordare un piano di azione di medio termine per la cooperazione econo-mica. L’espansione della presenza economica in Egitto rimane, infatti, per l’Italia un obiettivo prioritario, ma le crescenti tensioni sociali, il deterioramento del quadro eco-nomico e l’aggravarsi della crisi politica hanno scoraggiato nuove iniziative delle im-prese italiane e creato non poche difficoltà anche a quelle da tempo presenti nel paese. Il ministro Terzi, come già il suo predecessore, ha inoltre posto un forte accento sulla tute-la della sicurezza e dei diritti delle minoranze religiose in Egitto sia nel corso degli in-contri bilaterali che nelle sedi multilaterali. Con la Tunisia è sembrata più concreta la possibilità di dar vita ad accordi stabili in campo economico, e anche per la gestione dei flussi migratori. Tuttavia, con l’inasprirsi dello scontro politico tra i gruppi d’ispirazione islamica e quelli progressisti, il quadro è diventato anche in Tunisia molto più incerto. L’azione diplomatica verso l’Algeria, che nonostante la minaccia di vari gruppi terrori-

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stici è rimasta in apparenza più stabile, si è rivolta soprattutto ai progetti di cooperazio-ne bilaterale in campo energetico, che non hanno però fatto progressi significativi.

Sul piano multilaterale, il tentativo dell’Italia è stato quello di riattivare alcuni contesti di cooperazione sub-regionale, stante la pressoché totale paralisi in cui ha continuato a versare l’Unione per il Mediterraneo, l’iniziativa pan-regionale promossa dall’Ue, che in realtà non è mai decollata per i contrasti sul conflitto israelo-palestinese e poi delle crisi nel mondo arabo, ma anche a causa delle sue carenze istituzionali (fra cui, la pretesa dei governi di ridimensionare il ruolo della Commissione europea). Il governo Monti si è adoperato, in particolare, per rilanciare il Dialogo Mediterraneo «5+5», lo schema di cooperazione sub-regionale cui partecipano altri quattro paesi del Sud Europa – Francia, Malta, Portogallo e Spagna – e i cinque paesi del Maghreb. In generale, il governo Monti ha cercato di rafforzare la dimensione multilaterale della proiezione mediterranea dell’Italia, laddove il precedente esecutivo aveva puntato soprattutto sui rapporti bilaterali, ma ha dovuto fare i conti con un contesto, sia al Nord che al Sud del Mediterraneo, tutt’altro che favorevole a causa della crisi, all’avvio di nuovi progetti impegnativi di cooperazione. Anche nel 2012, infatti, non è stato neppure avviato in seno all’Ue un serio processo di riesame delle potenzialità, e soprattutto dei limiti, dell’Unione per il Mediterraneo.

Se la politica nordafricana del governo Monti si è distinta da quella del suo pre-decessore soprattutto per la maggiore enfasi posta sul multilateralismo, in Medio Orien-te la principale discontinuità ha riguardato la questione palestinese. In verità, Terzi ave-va adottato una linea molto simile a quella del governo Berlusconi, che, in sintonia con il suo orientamento spiccatamente atlantista, aveva teso a privilegiare i rapporti con Israele. A segnare la svolta è stato il voto favorevole dell’Italia all’attribuzione alla Pa-lestina dello status di stato non membro in seno all’Assemblea dell’Onu. Questa deci-sione, che è apparsa in contrasto con la politica fin lì seguita da Terzi, è stata assunta su iniziativa di Monti, preoccupato di un isolamento dell’Italia in seno all’Ue sulla que-stione palestinese. L’Ue si è in realtà divisa, ma la maggior parte dei Paesi membri ha votato a favore del riconoscimento. Che poi questa mossa diplomatica possa effettiva-mente favorire la ripresa dei colloqui di pace è tutto da verificare, anche perché l’Autorità palestinese non ha accolto la richiesta dell’Italia e di altri paesi europei di ri-nunciare alle sue pregiudiziali sull’avvio dei negoziati. D’altronde, la principale pregiu-diziale riguarda la cessazione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, che sono sta-ti ripetutamente condannati dall’Ue, nonché singolarmente dall’Italia, anche in colloqui bilaterali con gli israeliani.

Sulla crisi siriana l’Italia, come gran parte dei paesi europei, ha tenuto un atteg-giamento di cautela, non assecondando, in diversi frangenti, la richiesta della Francia, e poi anche della Gran Bretagna, che l’Ue si schierasse più apertamente con gli insorti sia con un riconoscimento politico che con un sostegno materiale. Alla fine dell’anno anche l’Italia ha riconosciuto la coalizione nazionale delle forze di opposizione come legittimo rappresentante del popolo siriano, pur non facendo aperture all’ipotesi dell’intervento militare né a quella della fornitura di armi. In Italia, anche più che in altri paesi europei,

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è prevalsa la preoccupazione che forze islamiste radicali potessero alla fine prendere il sopravvento in Siria, una volta abbattuto il regime di Bashar al Assad. L’Italia ha peral-tro partecipato attivamente al gruppo «Amici della Siria» che ha assunto un ruolo cen-trale nella gestione della crisi. L’altro importante contributo italiano agli sforzi interna-zionali per la stabilizzazione dell’area mediorientale è stata l’assunzione , per la terza volta, del comando della forza Onu in Libano (Unifil).

La ristrutturazione dello strumento militare

Pur disponendo di un orizzonte temporale limitato, il governo Monti ha intrapreso alcune rilevanti iniziative di riforma nel settore della Difesa, come si evince dall’analisi di Vincenzo Camporini e Alessandro Marrone nel capitolo 5 di questo volume.

A fine anno il Parlamento ha approvato un disegno di legge, messo a punto dal ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, che prevede un’ampia revisione dello strumento militare nazionale al fine di renderlo finanziariamente sostenibile e, insieme, più adeguato alle nuove sfide internazionali. Accanto a tagli del personale, in particolare degli ufficiali, miranti a un riequilibrio della piramide gerarchica, la riforma contempla una razionalizzazione delle strutture della difesa che, nel complesso, dovrebbero subire un ridimensionamento di almeno il 30%. Nel 2012 il bilancio della Difesa, già tra i più bassi fra quelli dei paesi occidentali, si è ulteriormente contratto per effetto delle misure di austerità (spending review) introdotte dal governo. È stato in particolare deciso che verranno acquistati 90 aerei da combattimento F-35 anziché i 131 originariamente previsti. L’acquisto degli F-35 è stato in effetti al centro di ricorrenti polemiche. Il governo ne ha difeso l’importanza per l’ammodernamento e l’efficacia dello strumento militare, ma l’alto costo dei velivoli ha suscitato molte voci critiche nell’opinione pubblica. Rimane il problema strutturale di un bilancio della Difesa squilibrato che riserva risorse insufficienti all’esercizio (addestramento e manutenzione).

Tuttavia, nel 2012 l’impegno dell’Italia nelle missioni internazionali di pace è rimasto al livello dell’anno precedente (circa 6.700 soldati per un totale di 25 missioni). Le due missioni principali a partecipazione italiana sono rimaste quella della Nato (Isaf) in Afghanistan, dove truppe italiane, a differenza di quelle di altri paesi europei, rimarranno fino al 2014, quando è previsto anche il ritiro del contingente americano, e l’Unifil in Libano, di cui l’Italia ha assunto il comando a fine anno, per la terza volta dal suo dispiegamento. Così, anche nel 2012, pur con risorse decrescenti, l’Italia è riuscita a mantenere fermo, con questo impegno nelle missioni, uno degli aspetti più qualificanti della sua proiezione internazionale. Tempi e modi del finanziamento delle missioni sono però rimasti problematici a causa della mancanza di un’adeguata legislazione in materia. Va infine notato che l’Italia ha spinto, con apparentemente maggiore convinzione che in passato, per un rafforzamento della difesa europea, sviluppando un’azione diplomatica volta a creare nuove capacità e strutture per la realizzazione delle missioni a guida Ue.

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Indice Abbreviazioni

Parte prima Rapporto introduttivo

L’Italia e la trasformazione dello scenario internazionale 1. Il contesto internazionale della politica estera italiana 2. Principali direttrici della politica estera italiana

Parte seconda Capitoli settoriali

1. L’Italia nella crisi finanziaria e la costruzione della politica economica europea, di

Franco Bruni 2. Mediterraneo e Medio Oriente, di Massimo Campanini, Valeria Talbot e Arturo

Varvelli 3. La competitività delle imprese italiane e la politica industriale europea, di Carlo Al-

tomonte e Laura Casi 4. Le attività nel campo della sicurezza e difesa, di Vincenzo Camporini e Alessandro

Marrone 5. Il caso della Enrica Lexie e i rapporti Italia-India, di Natalino Ronzitti

Documentazione

Cronologia della politica estera italiana, gennaio-dicembre 2012 Cronologia dei principali eventi europei e internazionali, gennaio-dicembre 2012 Indice dei nomi Indice dei nomi geografici Notizie sugli autori

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Questo volume è stato pubblicato con il sostegno della Compagnia di San Paolo di Torino e della Fondazione Cariplo di Milano

Curatori: Ettore Greco e Alessandro Colombo

Coordinamento scientifico: Andrea Carati

Consulenza scientifica: Gianni Bonvicini e Natalino Ronzitti (Iai); Giancarlo Aragona e Paolo Magri (Ispi)

Coordinamento e cura documentazione: Andrea Carati e Matteo Villa

Coordinamento e cura redazionale: Renata Meda