Angelo FusariQuesto libro merita particolare attenzione in quanto
offre una esposizione d’insieme di gran parte delle analisi di A.
Fusari sui problemi sociali, con qualche ripetizione utile alla
comprensione dei problemi che vengono affrontati. Ciò vale
soprattutto per i capitoli I e III sul metodo, che sono stati
ripresi da ‘Methodological Misconeptions in the Social Sciences’
pubblicato dall’autore con Springer nel 2014 e che vengono
sintetizzati anche nel breve saggio su ‘Metodologia delle scienze
sociali’ . Il resto di questo libro attinge largamente al predetto
volume su Methodological Misconceptions ed al libro su ‘A New
Economics for Modern Dynamic Economies’, pubblicato da A. Fusari
con Routledge, 2017
SULLA POVERTA’ ANALITICA E INTERPRETATIVA DEL PENSIERO
SOCIALE
di Angelo Fusari
Indirizzo email:
[email protected]
Strani esseri gli uomini!… Vorresti ammirarli e che vedi? Un
sofisma, un inconsistente sofisma, che li fa ciechi di fronte
all’evidenza e li paralizza sulla soglia di una porta aperta.
Forse la principale manchevolezza degli uomini sta in una certa
inerzia mentale, che li rende atti agli sviluppi più mirabili
basati su una concezione affermatasi piuttosto che alla critica e
alla revisione della stessa base.
Bruno De Finetti, Un matematico e l’economia, Franco Angeli,
Milano, 1969, p.33
Premessa generale
Il progresso delle conoscenze sociali appare ostacolato e quasi
ostruito da alcuni basilari equivoci sui caratteri della realtà di
loro pertinenza, come e peggio di quel che accadeva alle conoscenze
sulla natura prima della rivoluzione metodologica del XVII secolo.
Urge far chiarezza su tali equivoci. Tanto più in quanto la
conseguente confusione tende a crescere con l’accelerarsi dei
cambiamenti tecnologici. Essa impedisce, in particolare, di
svolgere correttamente due cruciali tematiche fra loro strettamente
connesse: la combinazione fra essere e dover essere, che
costituisce l’aspetto più tipico dei fenomeni sociali ed è
preliminare, fra l’altro, all’analisi della questione
etico-valutativa; la distinzione fra necessità e
scelta-possibilità-creatività nella vita sociale, che viene
correntemente ed erroneamente assimilata alla distinzione fra
durata e provvisorietà. Questo libro si sforzerà di rimuovere tali
malintesi e di indicare dei modi obbligati per andare oltre.
Da lungo tempo dedichiamo sistematici approfondimenti al metodo del
pensiero sociale. Nel 1984 uscirono sulla rivista Matecon tre
nostri ampi saggi sul tema, che in seguito vennero rielaborati e
raccolti in un libro pubblicato nel 1985 con il titolo “Problemi di
analisi e interpretazione dei processi economici, storici e
sociali” . Eravamo convinti che presto il pensiero sociale avrebbe
fatto piena chiarezza sulle materie trattate. Ciò non è avvenuto.
Neppure il crollo dei socialismi reali è bastato a sospingere
l’attenzione degli studiosi verso quelle tematiche. Anzi, ha avuto
l’effetto contrario e più a portata di mano di rafforzare il ruolo
dell’attendismo spontaneistico e osservazionista che, come vedremo,
costituisce un indirizzo metodologico del tutto inappropriato al
carattere della realtà sociale.
Nei trenta anni trascorsi da quella pubblicazione, abbiamo
continuato ad approfondire la questione del metodo ed a pubblicare
i risultati dei nostri studi. Ed abbiamo dovuto prendere atto che
veramente grande è il potere accecante delle metodologie dominanti,
non solo per chi ne fa uso, ma anche per chi le contesta. In
effetti, le critiche suscitate dalla crescente percezione dei
limiti ed errori di quelle metodologie, anziché arrecare
chiarimenti, hanno seminato confusione, come d’altronde è tipico
dei periodi di grave crisi dei modi abituali di vedere, pensare e
indagare. Le conferenze scientifiche internazionali su materie
sociali, che radunano fior di studiosi, costituiscono forse lo
specchio migliore della gravità della situazione: sia quelle di
ispirazione eterodossa, assai meritoriamente impegnate a promuovere
il pluralismo ma in cui spicca l’incapacità dei partecipanti di
intendersi e confrontarsi causata dalle gabbie metodologiche che li
separano e rendono difficile la reciproca fecondazione dei vari
contributi; sia quelle ortodosse, impenetrabili al dissenso e
dedite a costruire il sapere sociale su errori di impostazione del
tutto evidenti e nondimeno intangibili.
La storia del pensiero offre numerosi esempi di dibattiti intorno a
questioni poi rivelatesi prive di senso. Ma la crisi del pensiero
sociale che stiamo vivendo ha tratti particolari: essa eccelle sia
per le dimensioni dei malintesi in cui si dibatte, sia per le
dimensioni degli effetti negativi di quei malintesi sulle capacità
di governo delle società contemporanee ad alto grado di dinamismo,
e perciò sulla vita dei governati. Il metodo è un’arma a doppio
taglio: può arrecare grandi servizi ma anche grandi danni alla
capacità dell’uomo di comprendere e risolvere i problemi della
vita. Bisogna convenire che i migliori contributi alla conoscenza
sociale provengono dagli studi di autori che non sono condizionati
da apparati metodologici ma si limitano a confidare nel buon senso.
Questo tipo di studi ha il vantaggio di non essere sospinto, da
metodologie ingannatrici, lungo sentieri bui e tortuosi o in vicoli
ciechi. Ma ha lo svantaggio della disorganicità. Inoltre, il fatto
di ignorare il metodo priva tali indagini di efficaci strumenti di
valutazione e selezione dei risultati conseguiti. Per questi
motivi, gli studi suddetti hanno scarse capacità di stimolare la
crescita cumulativa delle conoscenze. La scienza ha bisogno del
metodo; in assenza di questo, non c’è pensiero scientifico e lo
sviluppo della conoscenza procede assai stentatamente.
Lo stato del sapere sociale riveste importanza decisiva nella vita
dell’uomo. Se tale sapere è ostacolato da profondi equivoci
metodologici, l’uso dell’intero patrimonio di conoscenze
tecnologiche, naturalistiche, matematiche, ecc. viene ad essere
pregiudicato, dato che finisce in balia dell’inganno e degli abusi;
mentre gli sviluppi di tale patrimonio accrescono, con i ritmi
evolutivi, l’indecifrabilità della vita sociale e assoggettano
l’uomo alla sindrome dell’apprendista stregone. Suscita un senso di
angoscia il pensiero dei costi crescenti, in termini di sofferenze
umane, di tale stato di cose. Pertanto, ci è sembrato doveroso
contribuire alla denuncia della situazione in atto ed alla
definizione dei modi per rimediarvi.
Questa opera, tirando le fila di lunghi studi, raccoglie, coordina
e completa alcuni nostri saggi più significativi pubblicati nel
corso del tempo sul metodo del pensiero sociale. Riteniamo che
pregiudichi molto le potenzialità esplicative di quei saggi
lasciarli dispersi qua e là e fra loro slegati. Qui viene data
preferenza ai più recenti, ma compatibilmente con una struttura del
libro che affianca, alla trattazione di questioni metodologiche di
carattere generale, esemplificazioni applicative concernenti le
principali branche del sapere sociale: economia, sociologia,
diritto, politica, interpretazione dei processi storici. Pertanto,
nelle esemplificazioni ognuno potrà trovare (e privilegiare) quelle
più prossime alle sue competenze.
Le analisi che vengono proposte possono piacere o dispiacere.
Vedremo nei successivi svolgimenti critici e applicativi sul
pensiero sociale che della nostra principale proposta, definibile
come oggettivismo sociale e culturale, si incontrano tracce in
varie impostazioni correnti e che i suoi basamenti sono oggi
nell’aria, anche se restano oscurati da omissioni, incoerenze e
malintesi. Ciononostante, tale nostra proposta ha finora avuto
riscontri limitati e forse non è esagerato dire che ha subito la
peggiore delle censure, quella del silenzio. Non è facile trovare
udienza se non si milita in alcuna scuola di pensiero e si insiste
nel sottolineare che la teoria sociale è vittima di una grave
confusione metodologica. Ma di fronte a tale assai deleteria
confusione non si può tacere. Bisogna anzi proporzionare il tono
della voce alla sordità delle vestali del conformismo e di quanti,
per interessi o per prudenza, rifiutano di ascoltare e storcono lo
sguardo per non vedere.
È impossibile rimuovere i paraocchi metodologici che oscurano e
distorcono la visuale di studiosi, ortodossi o eterodossi, che
hanno lavorato per una vita sotto la guida dispotica di essi.
Crediamo che la speranza di uscire da questa situazione di stallo
debba essere riposta nei giovani ricercatori, nella loro capacità
di diffidare del pensiero consolidato e di coltivare uno spirito
critico fondato non su mera inclinazione polemica ma sull’analisi
attenta di fatti e misfatti. Moltissimi giovani studiosi sprecano
tempo e acume preziosi sotto l’influenza di metodologie errate.
Urge arrestare questa enorme dilapidazione di energie e capacità
intellettuali.
Questo libro intende delineare i caratteri generali di un metodo
del pensiero sociale a maglie larghe, che non agisca da prigione
per la mente ma stimoli la creatività. La frammentazione
metodologica sulle questioni di base è settaria, ingannatrice,
genera conflitti insanabili e viscerali, si presta ai virtuosismi
dialettici e ostacola la crescita della conoscenza. Naturalmente, è
privo di senso ritenere che il metodo, per quanto ben fondato,
immunizzi dagli errori: aiuta solo a limitarli e ad individuarli.
Qualsiasi opera intellettuale contiene limiti ed errori tanto
maggiori per quanto più ampi ne sono il respiro e le implicazioni:
per il semplice motivo che ogni intelletto umano ha limitate
capacità cognitive. Sta ad altre menti accertare quali sono i
limiti e gli errori di questo nostro contributo. Ma una cosa ci
sentiamo di affermare senza esitazioni: l’estremo bisogno di una
metodologia generale appropriata alla realtà sociale, che agevoli
il confronto fra studiosi, la selezione dei contributi validi e,
pertanto, stimoli la cumulatività del sapere. Abbiamo fatto il
nostro meglio per predisporre al riguardo delle basi affidabili e
meditate, e ce ne siamo serviti in varie applicazioni tese ad
evidenziarne le potenzialità. Le proposte che formuliamo potranno
(anzi dovranno) essere corrette e migliorate, come d’altronde tutte
le cose umane; l’importante è che indichino una strada
giusta.
Il libro si compone di dieci capitoli, di cui otto riprendono
precedenti saggi. Il primo capitolo dal titolo “Discorso sul metodo
del pensiero sociale e sull’interpretazione della storia” ha
carattere introduttivo. Esso presenta la nostra proposta sul
metodo, che riepiloga i risultati di un lungo percorso di studio;
per semplicità, evita riferimenti letterari. Il capitolo si propone
anche di facilitare la lettura e la comprensione degli scritti che
lo seguono e forse è quanto basta a chiarire il nocciolo delle
questioni metodologiche che vengono sollevate e la dimensione dei
problemi coinvolti.
Il secondo capitolo svolge un’ampia analisi critica dei maggiori
contributi e impostazioni sul metodo del pensiero sociale, con lo
scopo di chiarire e giustificare più a fondo la nostra proposta
metodologica. Il capitolo riprende ampie parti di un saggio che
presentammo nel 2004 al World Congress of Social Economy di
Albertville con il titolo “On the method of social theory”, nonché
una parte della pubblicazione di cui al capitolo successivo.
Il terzo capitolo dal titolo “Una riconsiderazione sul metodo delle
scienze sociali: procedura, regole, classificazioni” riprende una
pubblicazione del 1995 sulla rivista Sociologia. Al fine di
evidenziare il più chiaramente possibile l’itinerario delle nostre
ricerche sul metodo, abbiamo omesso di riprendere il saggio con lo
stesso titolo da noi pubblicato nel 2004 sull’International Journal
of Social Economics con alcune modifiche. L’insistenza, anche in
questo capitolo, sulle questioni generali, pur implicando qualche
ripetizione, aiuta la comprensione di vari e delicati aspetti della
nostra proposta, attraverso l’esame di essi da differenti angoli
visuali.
Il quarto capitolo dal titolo “Razionalità, relativismo ed
evoluzione sociale” riprende un saggio pubblicato in francese con
lo stesso titolo sulla Revue International de Sociologie. Esso si
concentra sull’opera del sociologo R. Boudon che riteniamo
fornisca, almeno a nostra conoscenza, l’espressione più coerente
dell’osservazionismo spontaneista-attendista e della posizione
liberale sul metodo e ben ne evidenzia, proprio in virtù della sua
coerenza, i limiti e gli errori. L’analisi di questo autore merita
attenzione anche per lo sforzo di oggettivizzare i valori, che
vediamo finire in un vicolo cieco a causa della pretesa di far ciò
su basi osservazioniste-attendiste, che vietano la distinzione
rigorosa fra “necessità” e “scelta-possibilità”, fra oggettivo e
soggettivo, fra essere e dover essere, indispensabile all’analisi
scientifica dei valori.
Il capitolo quinto dal titolo “Incertezza, imprenditorialità,
innovazione. Su alcune basilari carenze della teoria economica”
costituisce un’applicazione della nostra proposta metodologica tesa
a rimediare ad omissioni nella teoria economica di aspetti centrali
della realtà. Esso è tratto da un saggio presentato alla EAEPE
conference tenutasi in Oporto il 2-3 novembre 2007. Il capitolo dà
conferma del forte ostacolo per la scientificità costituito dalla
grave situazione metodologica in cui versa il pensiero sociale;
tale ostacolo appare confermato nonostante le forti aspirazioni
scientifiche e la grande mobilitazione di matematici, statistici e
metodologi illustri, che distinguono la teoria economica.
Il capitolo sesto dal titolo “Etica e organizzazione dei sistemi
economici”, riprende una nostra pubblicazione del 2005 sulla
American Review of Political Economy dal titolo “Toward a
non-capitalist market system”. Si tratta di un’applicazione tesa
principalmente a dimostrare la possibilità di coniugare giustizia
sociale, efficienza produttiva e autonomia individuale.
Il capitolo settimo dal titolo “La questione dei fondamenti del
diritto. Oggettivismo giuridico contro positivismo giuridico” è
stato scritto appositamente per questo libro. Esso va oltre il
diritto, investendo importanti questioni etiche quali, ad esempio,
il deterioramento del senso morale propiziato dalle vacuità delle
definizioni sul fenomeno del potere e gli abusi che ciò consente,
fra i quali spicca l’amministrazione dell’ingiustizia in nome della
giustizia.
Il capitolo ottavo dal titolo “Problemi di teoria politica” è il
risultato della combinazione di varie parti di tre saggi pubblicati
su Sociologia e Mondoperaio; ad eccezione del paragrafo su “Libertà
e responsabilità”, scritto appositamente per questo studio.
Il capitolo nono dal titolo “Sviluppo e organizzazione dei sistemi
sociali”, espone un saggio pubblicato nel 1996 sulla rivista
Sociologia e costituisce un’applicazione del metodo che proponiamo
all’analisi dei processi storico-sociali e all’interpretazione
della storia.
Infine, il capitolo decimo chiude il discorso chiamando in causa la
religione, che esercita un’influenza decisiva sull’aspetto
metodologicamente più tipico e delicato del pensiero sociale: la
questione etica e dei valori.
Il carattere di raccolta di saggi che caratterizza questo libro
implicherà alcune ripetizioni; le abbiamo mantenute in quanto esse
aiutano a comprendere questioni basilari su cui riteniamo opprtuno
insistere.
CAPITOLO I
Discorso sul metodo del pensiero sociale e sull’interpretazione
della storia
Introduzione
Viviamo nell’età della scienza e della tecnica. Tuttavia l’uomo
moderno appare sempre meno in grado di servirsi dell’intelligenza
per la comprensione di ciò che lo riguarda più da vicino: i
rapporti sociali. Gravi equivoci metodologici, alcuni quasi
puerili, gli ottenebrano la mente e gli legano le mani; equivoci
che, quando finalmente saranno chiariti, forse susciteranno
incredulità nelle future generazioni e sicuramente un grande
rammarico per gli immensi danni da essi provocati. Urge
confrontarsi energicamente con questo stato di cose.
Da lungo tempo il pensiero sociale ha imboccato un vicolo cieco ed
oggi una crisi profonda ne scuote le fondamenta. I dubbi e le
revisioni concettuali in atto vengono spesso considerati quale
indice di vitalità e vivacità culturale. Ma esprimono in verità
forte smarrimento e una gran confusione che, prima o poi,
dovrebbero far emergere in primo piano la necessità di individuare
qualche saldo e valido ancoraggio metodologico verso cui
convergere, così come hanno saputo fare gli altri rami del sapere
scientifico. La ricerca di tale comune ancoraggio costituisce il
principale oggetto di questo studio.
L’uomo è obbligato, dalla limitatezza delle sue capacità cognitive,
a procedere a tentoni, specie nei casi in cui si avventura, o è
costretto, a fare cose diverse dalle abituali. Inoltre, è obbligato
ad apprendere dall’errore. Infine, per poter apprendere, deve
subire le avversità generate dall’errore e trarne insegnamento con
prontezza e flessibilità mentale; la testardaggine e l’arroganza
gli si ritorcono contro e accrescono il peso dei suoi limiti
conoscitivi. Questa dipendenza strutturale dell’apprendimento e del
miglioramento dell’uomo dall’errore e dalle avversità che ne
conseguono fa assomigliare il mondo ad una immensa casa di pena e
di rieducazione.
Tuttavia gli esseri umani sono dotati di uno strumento il cui uso
intenso e ben diretto consente di facilitarne la missione evolutiva
e di addolcire fortemente le sofferenze inflitte dagli errori e dai
processi di apprendimento. Tale strumento è costituito dalla
ragione. Purtroppo, nel campo dei rapporti sociali gli uomini
insistono stoltamente a sprecare e soffocare le loro capacità
cognitive. Ciò è, fra l’altro, all’origine di uno dei fenomeni più
sconcertanti della vicenda umana: il conseguimento da parte
dell’uomo di miglioramenti assai modesti nel campo dell’etica
attraverso i secoli e millenni, a fronte di una evoluzione sempre
più rapida delle conoscenze e capacità tecniche. Fin dalle età
primitive gli uomini ascoltano e approvano le esortazioni delle
religioni al bene, alla bontà e alla fratellanza, osservano ed
esaltano i sacrifici di martiri ed eroi, ma ignorano
disinvoltamente queste cose all’atto pratico. Ciò induce a ritenere
che non sia molto persuasivo muovere dall’etica nell’affrontare il
problema del cattivo impiego della ragione individuale,
dell’offuscamento di essa ad opera degli istinti e del suo uso per
perpetrare abusi, soprusi e per servire il vizio. Noi sposteremo il
discorso su un terreno che riteniamo più solido e coinvolgente,
quello della formazione del patrimonio delle conoscenze umane.
Vedremo che questo punto di attacco conduce a chiarire
scientificamente anche importanti aspetti concernenti il campo
dell’etica e che tali chiarimenti possono rafforzare l’istanza
morale e consentire alle religioni di svolgere la loro opera assai
più incisivamente di quel che accade oggi che la scienza dichiara
la sua incompetenza nel campo dei valori.
Il grande strumento propulsore delle conoscenze umane risiede
nell’attitudine delle singole menti a cooperare e nella capacità di
selezionare e accumulare i limitati contributi arrecati da alcune
di esse alla conoscenza. Più precisamente, risiede
nell’apprestamento di regole metodologiche di larga massima che,
senza imprigionare le capacità creative in rigidi schemi
procedurali, rendano tuttavia possibile il confronto e la
cooperazione fra la moltitudine degli studiosi, nonché di
riconoscere e porre a frutto i contributi veri al progresso della
conoscenza, consentendo così allo sforzo conoscitivo di muovere da
livelli sempre più elevati del sapere, per andare oltre. È stata la
scoperta, da parte dell’uomo, di strumenti capaci di sollecitare,
in maggiore o minor misura, la crescita cumulativa delle conoscenze
che ha scavato, nel corso dei millenni, l’abisso che separa la
condizione umana da quella delle altre specie animali, rimaste
schiacciate dall’egemonia degli uomini.
La scoperta del fuoco, della ruota, della scrittura, di varie
tecniche agricole e di lavorazione dei metalli, la nascita dei
centri urbani e di una classe intellettuale di pensatori
professionali, la scoperta di efficienti modi di governare e del
diritto fecero compiere grandi passi avanti al processo di
civilizzazione e portarono all’edificazione di memorabili sistemi
sociali. Ma non consentirono alle società umane di accelerare
vistosamente il passo. In tali condizioni, il sapere sociale degli
antichi era più che sufficiente alla comprensione e al governo
delle loro società lentamente evolutive. A partire dal XVII secolo,
la rivoluzione del metodo delle scienze della natura ha cambiato
radicalmente la situazione. La crescita sempre più rapida delle
scoperte tecnico-scientifiche e quindi l’accelerazione del
mutamento sociale, che ne sono seguiti, cui l’uomo moderno non ha
saputo affiancare una parallela accelerazione del sapere sociale,
ha determinato un “corto circuito della conoscenza”. È opinione
assai diffusa che ciò fosse inevitabile, e cioè che la comprensione
dei problemi di società che evolvono rapidamente sia più difficile
della comprensione del mondo naturale. Vedremo che non è così e che
il ristagnare delle conoscenze sociali è da addebitare a
sorprendenti malintesi sulla questione del metodo.
Il suddetto corto circuito conoscitivo costituisce un
moltiplicatore degli errori, incomprensioni e difficoltà nel
governo delle società umane, arreca discredito anche ai rami
consolidati del sapere scientifico visti come artefici di
insostenibili fughe in avanti, favorisce usi dissennati della
tecnologia e potrebbe condurci a rimpiangere la stagnazione delle
antiche società ripetitive. Per poter eliminare tale squilibrio
delle capacità conoscitive, occorre che il pensiero sociale scopra
un metodo di indagine che, nell’affrontare le questioni di sua
pertinenza, non sia da meno di quello delle scienze naturali e
logico-formali nell’affrontare le loro. Purtroppo, si inclina a
reagire alle difficoltà attraverso invocazioni assai più che
tramite il rigore della ricerca scientifica, forse perché è assai
più facile parlare al cuore che alla mente; ma è anche assai più
effimero. Noi preferiamo il difficile all’effimero e confidiamo che
il lettore sia indotto ad apprezzare questa nostra scelta dagli
insegnamenti che ne ricaverà.
1. Su alcuni impressionanti errori nell’organizzazione e
interpretazione delle società umane
Sia il mondo naturale che le società umane tendono a gravitare
verso la coerenza e l’efficienza funzionale, verso la razionalità
organizzativa. Tale gravitazione di lunghissimo periodo del mondo
naturale e sociale verso la razionalità è indispensabile alla
sopravvivenza ed evoluzione di essi. Una realtà che agisse
diversamente tenderebbe all’autodistruzione, forse stazionerebbe
nel caos primordiale e noi non staremmo neppure a parlarne.
Ma una grande differenza distingue l’evoluzione delle società umane
da quella del mondo naturale. L‘evoluzione naturale avviene assai
lentamente e ciò dà la possibilità ai processi spontanei di
mutamento e selezione di esplicarsi senza eccessive scosse. Al
contrario, l’uomo, dopo avere a lungo stazionato in società
primitive pressoché immobili e in cui egli non differiva molto
dalle altre specie animali, si è messo in cammino, dapprima
saltellando, poi a piccoli e incerti passi e, più in là,
accelerando progressivamente l’andatura, spesso di malavoglia,
sospinto dall’ardimento e dai successi dei pionieri.
Con l’accelerarsi del movimento evolutivo, la gravitazione
spontanea verso forme organizzative e rapporti sociali razionali ed
efficienti si è fatta sempre più errabonda e travagliata. In parte
tali difficoltà sono ineliminabili in quanto conseguenti alla
limitatezza delle capacità cognitive umane, che obbliga anche le
attività di ricerca dotate dei mezzi e procedure più sofisticati ad
apprendere per tentativi ed errori. È impossibile eliminare gli
errori; ma è sensato mirare alla riduzione delle loro dimensioni al
minimo consentito dalle capacità intellettive umane: non quelle
degli uomini singoli, che sono assai povera cosa, bensì quelle
incarnate dal patrimonio di conoscenze generato dalla “ragione
collettiva”, dalla cooperazione di molte menti.
Nello studio dei processi storici, stupisce l’enormità degli
“errori” che hanno angustiato il divenire delle società umane,
trascinandole a calpestare valori e istituzioni rivelatisi poi
fondamentali. E tutt’oggi il processo di gravitazione verso
soluzioni razionali, coerenti ed efficienti ci fa assistere ad
errori catastrofici e di lunga durata, che offendono la ragione e
il buon senso. Gli esempi in proposito non si contano. Qui ci
limiteremo a citarne uno, a noi contemporaneo e particolarmente
istruttivo.
In un periodo storico appena alle nostre spalle, milioni di uomini
considerarono possibile e urgente organizzare una forma di società
più giusta ed efficiente, più libera e più capace di svilupparsi
dei sistemi capitalisti cresciuti nel mondo occidentale. Intenzione
lodevole ed oggi ancor più attuale di ieri. In nome di tale
progetto, dissenzienti e masse di innocenti hanno subito inaudite
repressioni e intere generazioni hanno lavorato strenuamente per la
sua realizzazione. Ma con risultati profondamente deludenti ed
incontrando, a cose fatte, pene non minori di quelle patite per
poter transitare nell’auspicata nuova società. Grandi studiosi e
rivoluzionari avevano decretato che l’edificazione dell’agognato
nuovo mondo richiedesse la soppressione della funzione
imprenditoriale e del mercato, ritenuti i maggiori artefici dello
sfruttamento e dell’alienazione dell’uomo. Invece, tale abolizione
portò alla nascita di formazioni sociali di tipo
burocratico-centralizzato grigie ed oppressive. Infine, quei
sistemi di “socialismo reale” sono crollati da sé. Essi
costituivano un vicolo cieco, una forma organizzativa che
calpestava fondamentali valori, soffocava la creatività, generava
profonda alienazione ed era incapace di svilupparsi e di reggere
alla competizione dei sistemi occidentali. Si era preteso di aprire
le porte a una più avanzata fase storica e, secondo i fedeli più
entusiasti, al paradiso in terra, semplicemente riproponendo forme
burocratiche e società dell’obbedienza adatte al mondo
quasi-stazionario del passato, adatte a governare con acume e
saggezza il Celeste Impero e le società più avanzate
dell’antichità, ma incapaci di misurarsi con i processi di
cambiamento. In nome di un radioso futuro, si è consumata
un’immensa tragedia.
La causa principale di tale fallimento consiste nel non aver tenuto
conto del fatto che i processi di cambiamento hanno vitale bisogno
di soggetti e istituzioni che, per missione o tornaconto, siano in
grado di e inclini a stimolare il mutamento e a confrontarsi con
l’incertezza da questo generata. Il cambiamento cumulativo richiede
i servizi della funzione imprenditoriale, del decentramento
istituzionale e quindi del mercato, non quelli di una classe di
burocrati bisognosa di conoscenze quasi perfette che solo il moto
ripetitivo può dare, e perciò timorosa dell’innovazione. Tratteremo
diffusamente questi aspetti nel capitolo V. Qui intendiamo
sottolineare che l’esperienza di così grandi errori non immunizza
le moderne società dinamiche dall’incorrere in altri ancora più
gravi, se il pensiero sociale non provvede ad armare l’uomo con le
necessarie conoscenze. L’errore che ha impedito di vedere il vicolo
cieco incarnato dal socialismo reale con la sua burocrazia risulta
incomprensibile, rendendo tale esperienza un ammaestramento
pressoché inutile, se non se ne individuano le radici metodologiche
che consistono nell’aver disatteso quello che vedremo dover essere
un caposaldo del metodo del pensiero sociale: l’attenzione per i
caratteri generali e di base della realtà di riferimento e per le
condizioni generali di sviluppo in atto. Un cruciale errore è
consistito nell’aver ignorato che le moderne società dinamiche sono
società dell’incertezza.
Gli equivoci metodologici hanno una straordinaria capacità di
soffocare l’acume di sapienti e studiosi in quanto abituati al
ragionamento sistematico. Una prova eccellente di ciò è fornita dal
fatto che l’accecamento dei bolscevichi sul ruolo
dell’imprenditorialità lo si ritrova nientemeno che nel padre più
illustre del concetto di imprenditorialità, J. A. Schumpeter,
allorché si spinse a prevedere il crollo del capitalismo ad opera
dell’avanzare dei processi di burocratizzazione. Qualche decennio
più tardi, J. K. Galbraith pronosticò la convergenza fra socialismo
e capitalismo attraverso i processi di burocratizzazione aziendale.
Tali pronostici, rivelatisi del tutto errati, furono suggeriti dal
fatto di aver trascurato un aspetto centrale delle moderne economie
dinamiche: il fenomeno dell’incertezza, nonostante questa
scaturisca copiosamente dal processo schumpeteriano della
“distruzione creatrice”. Se i predetti autori avessero tenuto conto
dell’incertezza (cosiddetta radicale), si sarebbero accorti che
pronosticare un crescente processo di burocratizzazione era privo
di senso. Orbene, se due grandi economisti, sociologi, politologi e
studiosi dei processi storici non videro l’inganno e il vicolo
cieco burocratico negli anni ’40 e ’60 del secolo scorso, come
potevano vederlo Lenin e i bolscevichi all’inizio di quel secolo?
Ci deve essere qualcosa di assai fourviante nelle analisi degli
studiosi sociali se accadono cose di questo genere, e quel qualcosa
non può che risiedere nel metodo, lo strumento che più fortemente
condiziona l’attività e le elaborazioni degli uomini di scienza
.
La vicenda del socialismo reale fa intuire immediatamente una
questione semplice e cruciale: basilari aspetti organizzativi ed
etico-valutativi delle società sono costretti, con l’avvicendarsi
delle fasi di sviluppo, non solo a variare, come è ben evidente, ma
ad assumere precisi connotati generali (come testimonia, ad
esempio, il trapasso dal ruolo cruciale dei rapporti di parentela
fra i primitivi, a quello della burocrazia negli antichi imperi e
del mercato nell’età moderna). Occorre essere profondamente
consapevoli di questo fatto, occorre saper vedere i pilastri
istituzionali, ideologico-valutativi e organizzativi di cui le
società umane non possono fare a meno nelle varie epoche; come pure
occorre saper distinguere gli aspetti che possono invece essere
oggetto di scelta. Tali conoscenze sono indispensabili alla
comprensione dei processi storici e all’oculata amministrazione dei
processi sociali. Eppure le accennate “necessità” istituzionali
continuano ad essere molto spesso disattese. Ad esempio, vediamo
gli odierni processi di transizione dal socialismo reale verso il
mercato prediligere, equivocando il necessario con il possibile,
gli aspetti peggiori (e per nulla indispensabili) del capitalismo o
addirittura assurdità di cui non c’è traccia nella storia del
capitalismo occidentale, e trascurare o sottovalutare aspetti
“necessari” che costituiscono la vera forza del capitalismo. Appare
insensata la svendita, ad oligarchie ed organizzazioni mafiose, del
patrimonio immenso di imprese pubbliche sovietiche che avrebbero
potuto produrre con piena efficienza per il mercato, se affidate
alla gestione di una managerialità di tipo imprenditoriale.
È assai raro, nel corso della storia, vedere una classe di potere
onnipotente e armata fino ai denti farsi da parte quasi
sommessamente. I burocrati del socialismo reale avrebbero potuto
scatenare, per disperazione, una guerra atomica e così alla
stagnazione sarebbe seguita una regressione paurosa a scala
mondiale. Per fortuna, il processo di decadenza era stato
sufficientemente lungo da generare una classe di potere logora,
invertebrata e confusa ; tale logoramento della classe dirigente
socialista ha salvato il mondo; dopo decenni di tribolazioni, la
mela è caduta da sé.
Allorché una forma insensata di società si afferma, le relative
strutture di potere cercano in tutti i modi di conservare
l’esistente, di nascondere errori e insensatezze; ciò allunga i
tempi del ravvedimento e del trapasso. Solo la conoscenza
scientifica riesce ad evidenziare gli errori in modo inequivoco e,
per tal via, sospinge con forza ad abbandonare la strada sbagliata,
dato che smaschera rigorosamente gli interessi mobilitati in difesa
dello status quo. La convergenza dei sistemi sociali verso la
razionalità tramite movimenti spontanei opera solo, se opera, nel
lunghissimo periodo e può seminare sulla sua strada immense
rovine.
Purtroppo, sui processi sociali oggi non disponiamo di conoscenze
più affidabili di chi ci ha preceduto. Dobbiamo convenire che i
sapienti del nostro tempo non sono molto più avveduti dei padri del
socialismo reale. Ad esemplificazione di ciò, ci limitiamo per ora
a richiamare un’opinione che è condivisa, per le ragioni che
vedremo nel prossimo capitolo, dai positivisti, dai loro agguerriti
avversari e da tutte le correnti del pensiero sociale: l’idea che i
valori siano materia di scelta e non abbiano nulla a che fare con
la scienza. Ma è innegabile che, nel momento di effettuare la
scelta, occorre essere consapevoli e ben informati delle sue
conseguenze, altrimenti si sceglie nell’ignoranza. È compito della
scienza generare tale consapevolezza. Se gli alfieri dei valori del
socialismo reale e delle relative forme burocratiche avessero
saputo che quei valori avrebbero condotto in un vicolo cieco, se ne
sarebbero ben guardati. Naturalmente, ci sarà sempre chi preferisce
valori ed istituzioni, per così dire, retrogradi; ma costoro sono
un’infima minoranza, che può sperare di aver seguito solo
giovandosi dell’inganno. Il fatto che i sistemi sociali i quali
eventualmente scegliessero di tornare indietro sarebbero destinati
a subire il dominio dei sistemi sociali che scelgono di andare
avanti è quanto basta a mettere con le spalle al muro i retrogradi.
E se l’iper relativista chiede beffardamente cosa significhi andare
avanti, rispondiamo che significa evolvere verso differenti e più
complesse condizioni generali di sviluppo (tramite la creatività,
le scoperte tecnologiche, l’accumulazione di capitali, di
conoscenze, infrastrutture, ecc.) e verso più elevati livelli di
eticità. L’uomo è condannato ad evolvere dalle umane capacità
creative. Per di più, da quando è stato compreso il modo per
rendere cumulative le conoscenze sul mondo naturale, si è
spalancata la porta del divenire ed è iniziato un cammino sempre
più celere. Ciò determina il bisogno che anche le conoscenze sul
processo sociale acquistino il carattere della cumulatività.
Le società primitive e antiche, con il loro moto circolare e la
loro immobilità, potevano sopravvivere per secoli e millenni.
Invece, le nostre società estremamente mutevoli non possono reggere
ad una ostinata incapacità di comprendere e governare i processi
sociali. Forse il maggior problema scientifico che sovrasta le
presenti generazioni è costituito dalla questione del metodo del
sapere sociale. Occorre attentamente riflettere su tale questione.
Il corto circuito conoscitivo, espresso dal coesistere di grandi
capacità scientifico-tecniche con una sconcertante e crescente
povertà analitica nel campo della realtà sociale, genera una
condizione di estrema fragilità, che si ritorce contro la stessa
scienza. Il sofisticato teorizzare in cui indugia il pensiero
sociale nasconde errori metodologici di una ingenuità eclatante,
che accecano le migliori menti. Per poter chiarire a fondo le
proporzioni del problema, procederemo ora ad evidenziare le
dimensioni di tali errori di metodo.
2. La metodologia del pensiero sociale in quanto contrassegnata da
gravi equivoci sul criterio di razionalità
Varie ed importanti questioni concernenti il metodo hanno carattere
assolutamente generale, ad esempio: il ruolo spettante
all’induzione, alla deduzione, all’analogia, le questioni
dell’assiomatizzazione e dei sistemi chiusi, aperti o semi aperti,
le relazioni fra logica della scoperta e logica della
giustificazione, la questione dell’esistenza o meno di una linea di
demarcazione fra scienza e non scienza. Gli studiosi che
privilegiano questi aspetti del tutto generali tendono ad insistere
sull’unicità del metodo. Ma tale insistenza è mal posta. Infatti,
accanto alle questioni assolutamente generali, esistono variazioni
e specificazioni imposte dal carattere delle problematiche
affrontate; naturalmente, non dal carattere dei singoli problemi
giacché una così estrema specificazione metodologica distruggerebbe
il ruolo del metodo, ma dai caratteri di classi molto generali di
problematiche.
Una tripartizione assume rilievo centrale in quanto condiziona in
maniera decisiva i caratteri delle procedure e delle regole del
metodo relativamente ad amplissime classi di problemi, al punto che
non tenerne conto fa del metodo un ostacolo, anziché un aiuto, alla
ricerca. Tale tripartizione concerne tre grandi indirizzi della
speculazione scientifica: l’indirizzo improntato dall’astrazione e
dalla coerenza logica, e due indirizzi improntati dalla realtà di
riferimento e riguardanti la realtà naturale e quella
sociale.
Esistono profonde differenze nelle modalità dei processi cognitivi
concernenti i suddetti tre campi del sapere, che pertanto esigono
procedure e regole metodologiche del tutto diverse. In questo
paragrafo, parleremo innanzitutto delle procedure dei primi due
indirizzi, allo scopo di sottolineare e dimostrare che esse sono
state indebitamente estese dagli studiosi alla realtà sociale.
Precisamente, l’analisi di tale indebita estensione consentirà di
porre in luce alcuni maggiori equivoci che affliggono gli studi
sociali, nonché le profonde differenze che distinguono la realtà
sociale da quella naturale e le connesse implicazioni
metodologiche. Nel paragrafo successivo, passando dalla critica
alla costruzione, ci sforzeremo di delineare una procedura e delle
regole metodologiche che ci sembrano appropriate al carattere della
realtà sociale.
La procedura metodologica delle scienze logico-formali segue il
criterio che possiamo denominare della “razionalità astratta”;
precisamente, muove da postulati che non si curano della realtà di
fatto e da essi deduce rigorosamente tutte le conseguenze. Tale
astrazione dalla realtà consente di apprestare formulazioni molto
generali, capaci di abbracciare anche casi al momento inesistenti.
Le formulazioni di questo campo del sapere possono anche sembrare
astruse al loro apparire e talora dei giochi logici; ma, proprio
per questo, sono suscettibili di fornire i servizi più imprevisti
al bisogno di razionalità dell’investigazione scientifica.
La procedura logico-formale è del tutto inappropriata agli studi
sociali, giacché questi esigono di tenere ben presenti i tratti di
base della realtà considerata, come dimostrano i gravi errori testé
analizzati, causati dall’assenza di un sano realismo. La teoria
economica, con la sua pretesa spesso esagerata di rigore
matematico, costituisce il ramo del sapere sociale che ha più
disinvoltamente abusato del metodo della razionalità astratta,
specie nelle grandi formulazioni sull’equilibrio economico generale
che ignorano i cruciali fenomeni dell’incertezza e imperfezione
delle conoscenze, dell’imprenditorialità e dell’innovazione. Questo
irrealismo metodologico ha costituito e costituisce un’importante
causa del ristagno delle conoscenze economiche. Ogni teoria esige
astrazione, ma non assunti irrealistici.
Equivoci ancora maggiori e più insidiosi il sapere sociale mutua
dal metodo delle scienze della natura. Tale metodo, la cui
procedura si impernia sull’osservazione stringente e attenta della
realtà considerata, e che perciò chiameremo metodo “osservativo”(o
della razionalità osservativa), sembra a prima vista rimediare
perfettamente alle omissioni e ai malintesi che determina l’impiego
del metodo della razionalità astratta nelle indagini sulla realtà
sociale. Ma non è così. Il criterio della stretta osservazione (e/o
sperimentazione), che impronta in varie forme (positivismo,
neopositivismo, falsificazionismo) il metodo delle scienze
naturali, si rivela profondamente ingannatore nelle applicazioni
alla realtà sociale: sia perché esso implica l’ipotesi di
ripetitività dei fenomeni osservati, cioè l’ipotesi che l’analisi
del passato illumini il futuro, sia perché implica, in modo spesso
inavvertito, l’accettazione dell’esistente e quindi la condivisione
degli andamenti spontanei. Ci si limita ad osservare i fenomeni che
accadono ed a cercarne la spiegazione. Vediamo meglio.
La procedura osservazionista può implicare gravi distorsioni del
criterio di razionalità. Essa è appropriata allo studio della
realtà naturale. Infatti, non essendo la natura opera dell’uomo, si
è costretti ad accettarla e a sforzarsi di comprenderla così come è
ed agisce; inoltre, i fenomeni naturali rispecchiano, dove più dove
meno ma sempre in maniera accettabile (anche in biologia), il
postulato di ripetitività. Diversamente accade nella realtà sociale
che, in quanto opera dell’uomo, appare sempre più intensamente
“disturbata” ed esposta a salti e discontinuità dalle capacità
creative e dall’attività costruttiva umane, dal fenomeno del
mutamento sociale e dai connessi flussi crescenti di incertezza.
L’ipotesi di regolarità e ripetitività che è alla base del metodo
delle scienze della natura, per poter essere estesa alla realtà
sociale, esige che venga presupposta la stazionarietà, stagnazione
e vegetatività di questa; tale estensione metodologica reca dunque
implicito un presupposto stagnazionista. Di più. Il fatto che
l’uomo è autore della sua società comporta che è privo di senso
limitarsi ad osservare ed accettare la società quale è, cioè ad
intenderne gli andamenti come un fenomeno esterno all’uomo, così
come si è obbligati a fare quando si analizza il mondo naturale.
Occorre piuttosto sforzarsi di imparare a costruire il più
oculatamente possibile tale realtà, frutto della nostra attività
giornaliera. Purtroppo, il grande successo arriso al metodo
osservativo nella comprensione dei fenomeni naturali ha indotto il
pensiero sociale a servirsi ampiamente di tale metodo e perciò ad
interiorizzare una sorta di distacco disincantato dal mondo dei
rapporti sociali, a sforzarsi di capire quel che è opera dell’uomo
come se non lo fosse, a limitarsi all’essere, negando scientificità
al dover essere. Il seguente esempio può aiutare a intendere questo
aspetto cruciale e per lo più ignorato, oppure che viene sollevato
in riferimento a questioni secondarie o in modi impropri .
Lo studio dei rapporti esistenti fra le varie specie animali pone
in evidenza che, per larga parte, tali rapporti seguono il modello
predatore-preda, cioè sono spiegati dal sistema differenziale di
Lotka-Volterra. Una volta rinvenuta la forma analitica di tale
modello comportamentale delle specie, l’uomo di scienza non può
andare oltre e, ad esempio, esprimere rimostranze
sull’assoggettamento di molte specie animali al sanguinario
principio di predazione. Così è e non resta che prenderne atto,
almeno fino a quando le capacità di interferenza dell’uomo sul
mondo naturale non saranno divenute talmente forti da porre in
grado di cancellarvi i rapporti di predazione. Ma l’esistenza di
tali capacità di interferenza renderebbe la realtà naturale opera
dell’uomo, sotto questo aspetto, e pertanto simile alla realtà
sociale. Sicché, per tale aspetto, la natura richiederebbe un
metodo di indagine non più di tipo osservazionistico ma del tipo
che andremo a definire in rapporto alle società umane, cioè di tipo
organizzativistico e costitutivo. Questa grande trasformazione nei
rapporti uomo natura va enucleandosi molto gradatamente,
soprattutto attraverso il sapere biologico e, pur se esige estrema
cautela per evitare all’uomo l’amaro destino dell’apprendista
stregone, procederà in modo inarrestabile. Apprendiamo così che non
è il metodo delle scienze sociali a dover mutuare quello delle
scienze naturali, come oggi avviene; semmai è vero il contrario e
cioè che, per certi aspetti, le scienze della natura saranno sempre
più chiamate ad ispirarsi a quelle sociali. Ciò accresce
ulteriormente l’esigenza di definire una metodologia appropriata a
situazioni relazionali che, come la realtà sociale, sono opera
dell’uomo.
Proseguiamo con l’esempio sopra citato ed ipotizziamo che esista
una società umana basata, a somiglianza del mondo naturale, sul
principio di predazione. L’osservazione del modo di funzionamento
di tale società porterà a scoprire che in essa trova applicazione
il modello predatore-preda di Volterra. Ma in questo caso,
diversamente dalla realtà naturale, l’opera dello studioso sociale
non può ritenersi conclusa con la scoperta di tale modello. Egli
può e deve chiedersi se ha senso o meno organizzare la società
umana in base a rapporti del tipo predatore-preda. Può e deve
sottolineare la mostruosità della predazione, il fatto che essa
ostacola la creatività umana e le umane potenzialità di sviluppo.
Insomma, può e deve chiedersi se è possibile basare
l’organizzazione sociale su principi diversi dalla predazione, ad
esempio, sul principio di cooperazione o di solidarietà.
Chiaramente, l’edificazione di formazioni sociali alternative al
rapporto predatore-preda implicherà istituzioni, forme giuridiche e
rapporti sociali completamente diversi da quelli propri di una
società di predazione. Ma il metodo osservativo, centrato
sull’ipotesi di ripetitività, sull’idea dell’accettazione
dell’esistente e sull’essere, rende incapaci di comprendere e
gestire le discontinuità generate da nuove scelte
ideologico-valutative (ad esempio, la scelta della collaborazione
in luogo della predazione). Esso milita per la preservazione degli
usuali rapporti sociali, anche se di tipo predatorio; concerne
l’essere, non il dover essere.
Appare dunque evidente che il pensiero sociale, in quanto proteso a
fornire insegnamenti sull’edificazione, ad opera dell’uomo, delle
società umane, è immerso nei valori. Costituisce quindi una forma
investigativa totalmente diversa da quella che si limita ad
accettare l’esistente e ad osservarlo per comprenderne le leggi di
movimento. Deve piuttosto analizzare la realtà con l’intento di
migliorarla, cioè avendo a riferimento il dover essere, i valori e
non soltanto l’essere. Deve applicare una forma di razionalità
preventiva e, per così dire, di tipo costitutivo, anziché limitarsi
a registrare a posteriori le (e a confidare nelle) spinte
razionalizzatrici di tipo spontaneo e di lunghissimo periodo.
L’esigenza di tale razionalizzazione preventiva è a maggior ragione
imposta dal fatto che, essendo la realtà sociale sollecitata ad
evolvere sempre più rapidamente dal pungolo della creatività umana,
la mera logica dei movimenti spontanei la condanna, come dicevamo,
ad oscillazioni e ad un’erraticità sempre più ampie e tormentate.
Vediamo, dunque, che il metodo consistente nella formulazione di
ipotesi teoriche e nel controllo di esse attraverso accurate
osservazioni elude o complica i problemi che il pensiero sociale è
chiamato a risolvere.
Peraltro, la ripetitività dei fatti osservati non è sufficiente a
motivare l’applicazione alla realtà sociale del metodo
osservazione-verifica. Supponiamo di essere in presenza di una
società di tipo stazionario-ripetitivo, come furono le società
quasi stazionarie dell’antichità (e come sarebbe l’ipotizzata
società di tipo predatorio). L’applicabilità del suddetto metodo
allo studio di tali società ripetitive esige che non ci si
interroghi sul perché le predette società sono organizzate in quel
modo e non altrimenti. Non appena ci interroghiamo sull’opportunità
e le modalità di transitare verso differenti forme organizzative,
ad esempio, da una forma di società chiusa a una di tipo aperto,
entriamo in un nuovo universo, non confrontabile con la situazione
precedente, e comprendiamo che il metodo osservazione-verifica non
serve a nulla e che si ha bisogno di una metodologia del tutto
diversa, di carattere organizzativistico anziché osservazionistico,
cioè che guidi nell’introduzione di nuovi valori, nella
realizzazione di nuove istituzioni e di un nuovo sistema di
compatibilità.
Per poter meglio chiarire questo aspetto, nonché il profondo
travisamento che il metodo osservazionista immette nel pensiero
sociale, torniamo al grande errore discusso nel paragrafo
precedente, cioè ipotizziamo di indagare, attraverso tale metodo,
su un sistema di socialismo reale. Una siffatta indagine consentirà
di comprendere il modo di funzionamento del predetto sistema
sociale; ad esempio, ci mostrerà che esso tende alla stagnazione, a
soffocare i processi creativi ed a promuovere il movimento
stazionario-ripetitivo dato che quest’ultimo, implicando uno stato
di conoscenza quasi perfetta, è congeniale all’organizzazione e
alle capacità decisionali burocratiche. Ma se si vuole studiare la
possibilità di uscire da tale forma organizzativa, per andare
oltre, occorre percorrere due strade alternative al positivismo o
neo positivismo osservativo e consistenti: a) nel confronto
(analogia) con sistemi sociali esterni più efficienti, più
accettabili e più rapidamente evolutivi, per cercare di ricavare le
ragioni delle loro migliori prestazioni e farle proprie; b) nella
definizione di procedure e regole metodologiche che consentano di
capire quel che la mera osservazione nasconde, cioè di capire le
ragioni dei limiti e inefficienze della società di riferimento, e
indichi i modi per rimuoverli. In verità, la strada percorribile si
riduce ad una, quella sub (b). Infatti la strada sub (a), oltre a
richiedere l’esistenza di società, diciamo, superiori con cui
confrontarsi e cui ispirarsi, che potrebbero non esistere, può
indurre in gravi errori di valutazione e di imitazione. Questo
perché ogni sistema sociale include sia aspetti indispensabili al
suo modo di funzionamento (“necessità” funzionali), sia aspetti che
invece hanno carattere opzionale. Ciò implica che forte è il
rischio, nel confronto, di scambiare aspetti concernenti la
“scelta-possibilità” per “necessità” e pertanto di prendere,
nell’imitazione del sistema superiore, aspetti sgradevoli e non
necessari di esso, anziché il meglio e cioè quel che rispecchia
necessità funzionali alle sue superiori prestazioni. Per non essere
ingannati dall’analogia, occorre un metodo che, come vedremo,
consenta sia di distinguere i due aspetti della “necessità” e della
“scelta-possibilità”, sia di capire il ruolo della “necessità” e di
esplicitare le implicazioni di nuove opzioni ideologico-valutative.
Questo significa che la strada appropriata non è quella sub (a) del
confronto analogico, bensì quella sub (b) della definizione di
procedure e regole metodologiche e, insomma, di una razionalità
idonee a comprendere le esigenze organizzative della realtà
sociale.
Le cose fin qui riferite sono talmente evidenti da apparire quasi
banali. Pertanto, è d’obbligo chiedersi perché mai tali banalità
non sono state chiaramente comprese. Forse il maggior responsabile
di tale incomprensione è il cosiddetto costruttivismo. Questa
corrente di pensiero associa un indirizzo giusto a uno
profondamente sbagliato. Precisamente, muove da un orientamento
investigativo tendente (correttamente) a preferire l’ottica
dell’organizzazione dei sistemi sociali a quella della mera
osservazione e accettazione dell’esistente, ma lo associa al metodo
della razionalità astratta, che ignora la realtà; sicché inclina a
fondare la riforma sociale su assunti ideologico-valutativi
incuranti di (e magari in contrasto con) caratteri di base della
realtà di riferimento. Ciò ha sospinto verso l’edificazione (o la
proposta) di formazioni sociali retrograde e insensate, quale è
stato il socialismo reale, che hanno screditato l’ottica
costruttivistica. Compito principale della ricerca epistemologica è
di impedire simili insensatezze, è di sostituire una progettualità
scientificamente fondata ad una che moltiplichi, attraverso idiozie
costruttivistiche, le assai gravi sofferenze alle quali i processi
sociali spontanei assoggettano l’uomo. Purtroppo le proposte
“alternative” sul metodo che si incontrano nel pensiero sociale
generano malintesi non inferiori rispetto a quella costruttivista.
Vediamo rapidamente.
Desta meraviglia il fatto che la teoria sociale non ha ancora
imboccato la strada di un metodo appropriato alla realtà di cui si
occupa, nonostante l’impressionante evidenza della inappropriatezza
alla realtà sociale sia del metodo della razionalità astratta che
del metodo osservativo. Ma la meraviglia viene meno se si pensa che
si è instaurato un clima in cui tale convergenza metodologica non
viene perseguita in quanto non è ritenuta possibile né sensata.
Questo clima, che costituisce il principale responsabile del
protrarsi del fallimento metodologico del pensiero sociale, è stato
alimentato dalla critica epistemologica sulla scienza, che si è
andata affermando nella seconda metà del secolo scorso e che
tuttora opera con grande vigore. Infatti, da tale critica è
scaturito il fenomeno del “relativismo cognitivo”, cioè la
convinzione della non confrontabilità dei vari modelli esplicativi,
quindi un’idea di scienza che intende quest’ultima come un libero e
incontrollabile modo di ragionare. È così accaduto che la crescente
consapevolezza, dietro l’imperversare del fenomeno del mutamento
sociale, sia della inadeguatezza alla realtà sociale delle
metodologie osservazioniste, sia dell’importanza di tener conto dei
caratteri della realtà analizzata, si è tradotta, invece che nella
convergenza su una più appropriata metodologia, in una galassia di
proposte metodologiche che hanno moltiplicato la confusione. Di
questa vicenda, che ha generato un esasperato incommensurabilismo
metodologico, tracceremo i contenuti in capitoli che seguiranno,
attraverso precisi riferimenti ai maggiori esponenti di tale
dottrina. Qui basterà dire che la suddetta critica alla scienza è
stata per lo più innescata dall’enfatizzazione di due aspetti del
pensiero di Popper, e cioè: dall’insistenza (in chiave gestaltica)
sull’idea del carattere meramente ipotetico delle ipotesi teoriche;
dalla connessa insistenza sull’influenza delle teorie sui fatti
osservati e sulla interpretazione di essi, che sottrae oggettività
alle osservazioni. Su queste basi argomentative si è sviluppato con
gran successo il concetto kunhiano di “paradigma” che, in quanto
postula visioni particolari contraddistinte da modi onnipervasivi
di considerare e giudicare le cose, si oppone alla confrontabilità.
Procedendo lungo tale strada, P. Feyerabend si è spinto fino
all’assimilazione della scienza al mito e del procedimento
scientifico alle costruzioni artistiche e fantastiche.
Per giunta, la cosiddetta impossibilità di tracciare precisi
criteri di demarcazione (cioè di distinzione) fra scienza e non
scienza, ha preteso di fornire all’incommensurabilismo una
legittimazione inconfutabile. Tale pretesa si basa sull’idea
secondo cui il procedimento di ricerca e scoperta è costretto,
dalla limitatezza delle capacità cognitive umane, ad apprendere per
tentativi ed errori. Ma proprio tale basamento dimostra
l’infondatezza di una simile pretesa. Infatti, e come sappiamo, il
procedimento per tentativi ed errori impone l’esigenza della
commensurabilità, cioè impone il confronto e la selezione dei
singoli contributi alla conoscenza, in modo da rendere possibile la
cooperazione delle singole menti all’edificazione del patrimonio
delle conoscenze umane.
Le scienze logico-formali e naturali dispongono di procedure e
regole generalmente condivise, che assicurano la commensurabilità e
confrontabilità, quindi la crescita cumulativa delle conoscenze, a
dispetto dei cavilli dei relativisti cognitivi e dell’epistemologia
della non demarcabilità. Invece, dobbiamo prendere atto che il
moderno pensiero sociale non solo è afflitto dall’assenza di
procedure e regole metodologiche appropriate alla realtà su cui
indaga e generalmente condivise; è vittima di un
incommensurabilismo paralizzante che, anche a voler prescindere
dalle estremizzazioni alla Feyerabend, dà vita ad una vivacità
culturale e ad un pluralismo puramente di facciata e, nella
sostanza, ad una estrema confusione ed impotenza cognitive.
Precisamente, assistiamo allo spezzettamento del pensiero sociale
in tante scuole separate, ognuna armata del proprio metodo
(relativismo cognitivo) e quindi incapaci di interagire
reciprocamente, di comunicare e di alimentare la crescita
cumulativa delle conoscenze. Gli studiosi sociali sono così giunti
a ripudiare la maggiore scoperta dell’uomo, che lo ha portato a
distinguersi in maniera crescente dagli altri esseri viventi: la
scoperta di metodologie in grado di consentire alla conoscenza di
crescere su sé stessa. Tale ripudio costituisce forse il maggiore
fallimento del pensiero umano ed ha investito in maniera massiccia
il pensiero sociale proprio nel momento in cui veniva sempre più in
superficie la necessità di differenziarne il metodo da quello
osservazionista e formalista. Questa situazione dà tutto il senso
del disastro in cui gli studi sociali sono precipitati nel nostro
tempo.
Talmente forte è la penetrazione dell’incommensurabilismo, specie
nel pensiero sociologico, che talvolta assistiamo al paradosso di
vederlo innestato sull’idea osservazionistica e sull’istanza
oggettivistica. Forse l’esponente di maggiore spicco di tale
curioso innesto è R. Boudon, di cui ci occuperemo in capitoli che
seguiranno. Vedremo che quell’innesto di due idee in forte
contrasto reciproco può essere difeso solo facendo appello al
concetto weberiano di “razionalità diffusa”, cioè all’idea che nel
lunghissimo periodo il buon senso tenda a prevalere e i sistemi
sociali marcino spontaneamente verso la razionalità ed efficienza.
Ma in tal modo ci si affida agli andamenti spontanei, cui invece il
pensiero sociale ha (come già visto) il compito di opporre forme di
razionalità costitutiva. Se ci si rifugia nei processi spontanei,
quale estrema linea di difesa dell’oggettività e razionalità
osservazioniste, si sposa un attendismo che l’uomo moderno,
testimone di mutamenti sociali e turbolenze di intensità crescente,
non può permettersi. Per concludere:
Da un lato la razionalità osservazionistica ignora che il controllo
delle teorie basato sui fatti non è possibile nel caso della realtà
sociale, a causa della marcata e crescente non ripetitività di
questa e, più in generale, a causa del fatto che l’uomo è in grado
di modificare i caratteri della società. Ciò rende la
falsificazione delle teorie un esito inevitabile e genera perciò
una situazione disastrosa sotto il profilo analitico: una
situazione priva di punti di riferimento che consente, in
definitiva, ad ognuno di recitare (e credere in) quel che vuole e
pretendere di aver ragione a modo suo. Inoltre, il fatto che il
metodo mutuato dalle scienze della natura si occupa, per
definizione, dell’essere, di quel che è (o è stato), non del dover
essere, lo rende incapace di entrare nel merito dei valori,
nonostante questi costituiscano parte dominante della realtà
sociale, e delle forme organizzative.
Dall’altro lato, la reazione antipositivista ha confermato,
seguendo Weber, l’impossibilità di trattare scientificamente i
valori; più in generale, è caduta a braccia aperte
nell’incommensurabilismo.
Tutto ciò rende assai urgente la definizione di un metodo
appropriato allo studio delle società umane, su cui il pensiero
sociale possa convergere e che sarà l’oggetto del prossimo
paragrafo.
3. Per la definizione di una procedura e di regole metodologiche
appropriate alla realtà sociale. Una diversa nozione di
razionalità
Veniamo ora, muovendo dall’analisi critica fin qui svolta, alla
parte più impegnativa di questo scritto, cioè al tentativo di
definire i capisaldi di un metodo di indagine che ben rispecchi i
caratteri di fondo della realtà sociale e che sia sufficientemente
generale da agevolare la valutazione e selezione dei vari
contributi alla conoscenza sociale e l’interazione fra studiosi. La
metodologia cercata deve essere idonea a:
A) Cimentarsi con il fenomeno del mutamento sociale e la
conseguente non ripetitività dei fatti osservati ed a spiegare i
processi evolutivi delle società umane.
B) Cercare condizioni e soluzioni migliorative rispetto alla realtà
di fatto, invece che adagiarsi sull’esistente. Cioè deve ispirarsi
ad una razionalità di tipo costitutivo, idonea a guidare l’azione
dell’homo faber.
C) Rappresentare l’aspetto ideologico-valutativo e distinguere in
modo rigoroso i suoi contenuti non relativistici e relativistici,
quel che è necessario da ciò che è invece oggetto di scelta.
D) Integrare i processi storici e sociali in una prospettiva
analitica unitaria, in quanto sono espressione di un’identica
fenomenologia, costituita dall’agire umano.
Sembra che l’importanza e la validità delle teorie sociali siano
misurate dalla loro efficienza nel trattare tutti questi aspetti,
per la parte che pertiene ad ognuna di esse. La nostra proposta,
che ci avviamo a delineare, mira a soddisfarli tutti.
Ogni metodologia è innanzitutto contraddistinta dalla procedura e
dalle regole che essa propone. Le riflessioni e le analisi critiche
svolte nei paragrafi precedenti suggeriscono che la procedura
metodologica del pensiero sociale non può essere di tipo induttivo,
giacché l’induzione è strettamente improntata dai fatti osservati,
ossia è assoggettata all’esistente, all’essere, mentre ignora il
dover essere, in qualunque punto dell’analisi venga collocato il
procedimento di controllo delle ipotesi: all’inizio o alla fine
della procedura di ricerca e scoperta, oppure in entrambi i lati.
Occorre tuttavia tenere ben fermo che la procedura delle scienze
sociali non può ignorare l’esistente così come fanno le discipline
logico-formali. È tipico dei fenomeni sociali, in quanto opera
dell’uomo, l’intrecciarsi di essere e dover essere, di realtà di
fatto e umane capacità normative e costruttive. Forse la maggiore
sfida metodologica che si pone nello studio della realtà sociale
consiste nel far convivere i due aspetti, quello positivo e quello
normativo. La realtà di fatto non può essere accantonata, ma
occorre non farsene schiacciare.
Un aspetto cruciale della procedura deduttiva che ci avviamo a
delineare è costituito dalla definizione, in accordo con quanto
sopra, del criterio di deduzione. Tale definizione deve ovviamente
muovere dal tratto distintivo della scienza rispetto ad altre forme
di pensiero, costituito dal fatto che il procedimento scientifico
si impernia sul criterio di razionalità. Il punto è che tale
criterio non opera nello stesso modo nelle varie scienze. Nelle
scienze logico-formali, esso agisce in forma assai acuta giacché si
assolve (è esente) dal bisogno di un sistematico confronto con la
realtà. Invece, nelle scienze della natura, il criterio di
razionalità assume una veste alquanto debole. Infatti, lo studioso
deve limitarsi ad accettare la realtà osservata, dato che non ha
senso scientifico manifestare insoddisfazione su come tale realtà è
e su come funziona; ci si deve accontentare di comprenderne,
attraverso scrupolose osservazioni, le leggi di funzionamento, al
fine di poter meglio interagire con essa. Il criterio di
razionalità delle scienze sociali è a metà strada fra quello delle
scienze logico-formali e quello delle scienze della natura. È più
debole del primo, dato che non può affidarsi alla pura logica ma
deve sistematicamente confrontarsi con la realtà; ma è più forte
del secondo. Precisamente, esso non implica la razionalità
rinunciataria, attendista e implicitamente spontaneista tipica
dell’osservazionismo, che presume l’accettazione di quello che è,
ma può entrare nel merito della realtà con cui si confronta (in
quanto questa è opera dell’uomo) e chiedersi come organizzarla più
efficientemente e in maniera più soddisfacente rispetto alle forme
vigenti o agli andamenti spontanei. È compito delle scienze sociali
di sviluppare e migliorare la razionalità nell’organizzazione,
costituzione, spiegazione e amministrazione dei sistemi sociali,
quale deterrente contro l’irrazionalità di molti comportamenti
individuali e collettivi; ma non intendendo ciò nel senso
dell’ingegneria sociale. La razionalità organizzativa è da noi
intesa solo come indispensabile a ridurre gli errori, le difficoltà
e a scongiurare le mostruosità che accompagnano la gravitazione
spontanea e di lunghissimo periodo dei sistemi sociali verso
l’ordine e l’efficienza lodati da Mandeville e dagli apologeti
dell’ordine spontaneo e della mano invisibile (lodi non insensate
in presenza dell’incapacità dell’uomo di confrontarsi
scientificamente con i problemi sociali). Tale opera
razionalizzatrice è a maggior ragione sollecitata dal fatto che la
suddetta gravitazione viene ostacolata da molti e ben noti
impedimenti: movimenti caotici, imprigionamento in particolari
sentieri, istinti umani contrari all’agire razionale, che Pareto
pose al centro della sua costruzione sociologica. Segue che, nella
teoria sociale, il processo di deduzione scientifica deve essere
basato sul criterio della razionalità organizzativa dei sistemi
sociali.
L’altro importante aspetto della procedura deduttiva riguarda il
carattere delle ipotesi iniziali, cioè dalle quali le deduzioni
prendono le mosse. Per le ragioni già viste, tali ipotesi non
debbono ignorare l’esistente, ossia non debbono consistere in
postulati nominalistici, come accade nelle scienze logico-formali,
ma debbono consistere in premesse realistiche. La scelta e
classificazione di queste premesse costituisce, come presto
vedremo, un passaggio cruciale per il successo della procedura che
proponiamo.
Quanto sopra ci porta a definire la procedura del metodo delle
scienze sociali nel modo seguente: La teorizzazione sociale deve
muovere da “premesse realistiche” e trarne tutte le conseguenze in
base al criterio di “razionalità organizzativa”.
Le premesse realistiche servono ad immunizzare contro gli errori e
distorsioni che abbiamo visto discendere dal fatto di ignorare
aspetti basilari della realtà o, peggio ancora, dal formulare
ipotesi in contrasto con essi. Da parte sua, il postulato della
razionalità organizzativa è suggerito da considerazioni di
carattere positivo e normativo, e precisamente: sia dal fatto che
la realtà sociale (come d’altronde anche quella naturale), nel
lunghissimo periodo tende spontaneamente a gravitare verso la
razionalità ed efficienza organizzative; sia dal fatto che l’uomo,
in quanto artefice di tale realtà, può e deve sforzarsi di
sospingerla scientemente verso la razionalità, al fine di portare
gli errori e le inefficienze molto al di sotto di quelli, assai
elevati, che corrispondono agli andamenti di tipo spontaneo di
società ad alto grado di dinamismo. Il principio, attribuito a
Hume, secondo cui è un errore logico passare dall’essere al dover
essere vale per la realtà naturale in quanto non è opera dell’uomo,
non per quella sociale, che è opera dell’uomo. Nella procedura che
abbiamo suggerito, l’aspetto positivo e quello normativo (essere e
dover essere) risultano strettamente amalgamati attraverso le
premesse realistiche (che comprendono, come vedremo, anche opzioni
etico-valutative), l’aspetto organizzativo e la forma di
razionalità considerata, cioè la razionalità a priori, di tipo
costitutivo e prescrittivo.
Sul processo di deduzione logica non c’è bisogno di soffermarsi
dato che la scienza se ne serve con maestria da tempi assai lontani
; esso può suggerire, come vedremo, non una ma più forme
organizzative compatibili con le ipotesi iniziali.
Un aspetto chiave del procedimento di ricerca e scoperta che
andiamo configurando è rappresentato dalla scelta delle premesse
realistiche. La proficuità del suddetto procedimento dipende
principalmente dall’accortezza e abilità nel selezionare le
premesse suddette, essendo il resto oggetto di deduzione. Sappiamo
che la marcata non ripetitività della realtà sociale non consente
di confidare nei criteri osservazionistici di controllo delle
teorie, magari dopo averle formulate tirando a indovinare. Ne
discende che è necessario porre molta attenzione a non partire con
il piede sbagliato. Pertanto, riveste grande importanza la
definizione di regole di classificazione e selezione che consentano
una scelta oculata delle premesse realistiche, così da conferire
solidità e capacità di penetrazione alle ipotesi teoriche e ben
inquadrare basilari sfaccettature della realtà. Queste premesse
(cioè gli aspetti della realtà sociale da cui far discendere
l’interpretazione e l’organizzazione efficiente di essa)
concernono, in particolare, i seguenti quattro aspetti della realtà
di riferimento, cui corrispondono modalità di scelta e tipi di
deduzione differenti:
a) I caratteri delle condizioni generali di sviluppo tipiche della
fase storica considerata, che esprimono il percorso evolutivo
dell’uomo e, per così dire, i segni dei tempi, o altri aspetti
molto generali. Le premesse realistiche ricavate dalla loro analisi
debbono escludere scelte ideologiche e tecnologiche, giacché queste
esprimono opzioni particolari.
b) Le scelte ideologico-valutative, in specie le grandi opzioni e
visioni che determinano le forme di civiltà, e gli eventi creativi;
esse influenzano marcatamente i nuovi valori e preferenze suscitati
dallo sviluppo economico e sociale.
c) Le condizioni della natura tipiche dell’area geografica di
riferimento e le tecnologie di base, la cui assenza impedirebbe i
correnti livelli di sviluppo. Le condizioni della natura hanno
esercitato forti influenze nelle società stazionarie, si pensi al
nomadismo; ma il progresso tecnico ha fortemente ridotto la loro
influenza
d) Il potenziale evolutivo e creativo degli esseri umani.
Naturalmente, la lista di cui sopra è aperta ad ampliamenti e
miglioramenti. Occorre indagare attentamente sull’importanza e la
plausibilità delle ipotesi selezionate.
La selezione delle premesse sub (a), diretta a dedurre principi
generali, rappresenta la parte più difficile ed importante dello
sforzo teorico e richiede di essere controllata tramite
approfondite indagini. L’efficienza a fini analitici di tale
selezione e delle altre premesse realistiche dipende, in primo
luogo, dall’abilità e dal talento dello studioso nel percepire gli
aspetti essenziali nonché dalle sue capacità creative e di sintesi.
D’altronde, se bastassero le regole, le scoperte potrebbero essere
realizzate in modo meccanico; invece, esse richiedono innanzitutto
il genio creativo. La procedura e le regole servono solo ad
agevolare tale sforzo creativo ed a controllarne i risultati.
Comunque, la selezione delle ipotesi sub (a), assai spinosa, è
coadiuvata dal riferimento alle condizioni generali di sviluppo. Ad
esempio, uno dei più significativi aspetti di queste nella nostra
epoca è costituito dagli elevati livelli di incertezza, la qual
cosa ha suggerito, come vedremo, alcuni maggiori approfondimenti
nella teoria economica e richiede appropriate istituzioni. Ad ogni
modo, gli aspetti e contenuti basilari della realtà sociale sono
più facili da circoscrivere e interpretare rispetto a quelli della
realtà naturale. Le condizioni generali di sviluppo ed i connessi
segni dei tempi rappresentano un saldo e affidabile terreno per la
selezione di ipotesi iniziali da cui dedurre basilari regole
organizzative, strutture, istituzioni e principi generali adatti a
illuminare la strada.
Gli aspetti specifici dei sistemi sociali sono ancora più chiari.
In particolare, le scelte sono precisamente quelle che sono state
presupposte, e pure gli eventi creativi constatati sono quelli che
sono. In riferimento alle ipotesi sub (b) e sub (c) non c’è alcun
bisogno di tirare a indovinare. Ovviamente, le scelte (sub b) sono,
proprio in quanto scelte, discutibili. Movendo da precisi aspetti
(e scelte) ideologico-valutativi e creativi, si possono dedurre i
loro effetti sui sistemi sociali attraverso il criterio di
razionalità organizzativa e paragonarli a quelli di altre possibili
scelte. Lo stesso può farsi in riferimento alle scelte tecnologiche
e alle particolari condizioni della natura. Sarà opportuno
classificare le opzioni ideologiche e tecnologiche a seconda della
loro presumibile durata. Le grandi opzioni, che contraddistinguono
le civiltà, vanno in cima alla gerarchia; infatti, esse incorporano
premesse ideologiche molto importanti e coinvolgenti, che
definiscono la fisionomia di base del sistema sociale la quale, in
quanto tale, tende a conservarsi a lungo. È importante analizzare
il modo secondo cui le grandi opzioni e altri valori tradizionali
stimolano oppure ostacolano le scelte ideologico-valutative e
l’apparizione di nuovi valori nel corso del processo sociale.
Infine, le premesse realistiche sub (d), che hanno importanza
decisiva per la identificazione delle condizioni per lo sviluppo
sociale, possono essere definite con chiarezza sulla base di
semplici considerazioni a priori sulla natura delle potenzialità
evolutive degli esseri umani.
Una importante sottolineatura è che le scelte non debbono
contraddirsi vicendevolmente, né contraddire le grandi opzioni, le
implicazioni delle condizioni generali di sviluppo e le umane
potenzialità creative ed evolutive. Accenneremo presto agli enormi
inconvenienti che tali contraddizioni hanno causato nel corso della
storia.
Come meglio vedremo nel paragrafo successivo, la derivazione di
principi generali dalle premesse sub (a) è univoca, ma il
soddisfacimento di quei principi può avvenire tramite differenti
forme organizzative; altrettanto può dirsi per il soddisfacimento
delle esigenze organizzative imposte dalle condizioni della
natura.
Sul piano generale, la metodologia qui delineata rientra nel
cosiddetto metodo analitico , cioè aperto alla costante ricerca e
verifica di nuove ipotesi, in primo luogo, quelle implicate dalle
condizioni generali di sviluppo. Questa incessante definizione e
revisione di ipotesi iniziali comporta una completa apertura della
teoria sociale ad uno stimolante e auto fertilizzante
pluralismo.
In conclusione, il metodo deduttivo applicabile alle società umane
sembra esigere i seguenti requisiti:
1. Deve basarsi sul criterio di razionalità organizzativa dei
sistemi sociali.
2. Deve concentrarsi sulle regole di definizione e corroborazione
delle ipotesi iniziali, facendo in modo che queste ipotesi non
costituiscano postulati nominalistici, ma poggino su fondamenta (o
obbiettivi programmatici) solidi e realistici, di cui occorre
verificare la plausibilità in anticipo piuttosto che definire tali
ipotesi in base a mere congetture. In questo modo il controllo
delle teorie viene spostato dallo stadio finale (come è nel
falsificazionismo) a quello iniziale del processo deduttivo.
3. Deve classificare appropriatamente le ipotesi iniziali: per
esempio, a seconda che esse siano destinate a condurre a principi
generali, considerino aspetti cruciali della natura umana o
analizzino aspetti particolari; o a seconda che esse considerino il
breve o lungo termine.
4. Necessità, scelta-possibilità-creatività e imperativi
ontologici, cardini di una teoria dell’evoluzione istituzionale e
dei processi storico-sociali.
I paragrafi che seguono presentano alcune principali applicazioni
del metodo che abbiamo proposto. In primo luogo, tale metodo
consente di distinguere con rigore, nell’organizzazione dei sistemi
sociali, l’aspetto della necessità e quello della
scelta-possibilità-creatività, come pure di distinguere i concetti
di necessità e durata. Ci riserviamo di esporre fra breve degli
esempi sugli svolgimenti astratti che seguono.
Le premesse realistiche sub (a) e sub (c) permettono di dedurre la
necessità, sulla base del criterio di razionalità organizzativa.
Precisamente, il campo della necessità è rappresentato dai principi
generali, forme organizzative, istituzioni e regole imposti (cioè
sospinti ad emergere), per semplici ragioni di coerenza ed
efficienza, dalle caratteristiche delle vigenti condizioni generali
di sviluppo, che sintetizzano i termini ed approdi del cammino
dell’uomo nel corso dei tempi, e dalle specifiche condizioni
tecnologiche di base e della natura (con le loro implicazioni). I
principi e forme organizzative generali discendenti dalle
condizioni di sviluppo possono essere denominati “imperativi
funzionali”, ma facendo attenzione a non confondere questa
espressione con la nozione di imperativi funzionali resa celebre da
T. Parsons che mescola necessità, scelta-possibilità e durata. Tale
mescolamento, purtroppo molto frequente nel pensiero sociale, è una
causa decisiva di confusione e incomprensioni .
Per solito gli imperativi funzionali, grazie all’elevato grado di
persistenza nel tempo e di generalità delle premesse sub (a) (in
quanto non includono specifiche condizioni e scelte di tipo
ideologico e tecnologico e dunque cambiamenti di esse), concernono
i pilastri dell’organizzazione sociale, cioè forme istituzionali,
organizzative e relazionali, regole e strutture assai coinvolgenti
e durevoli, imposte da ragioni di razionalità, che permettono di
spiegare i tratti di base della società considerata. Per tal
motivo, le premesse realistiche sub (a) consentono di individuare i
maggiori punti di forza del sistema sociale all’esame, nel caso in
cui tali principi generali e pilastri organizzativi sono
rispettati, o di debolezza e incoerenza, se sono disattesi. Daremo
presto alcuni esempi di imperativi funzionali succedutisi nel corso
della storia.
Il processo sociale è costretto a gravitare verso gli “imperativi
funzionali” da forti ragioni di efficienza organizzativa. Spesso
questa gravitazione avviene attraverso cambiamenti di rotta assai
violenti e sofferti, dopo un lungo errare ed indugiare in sistemi
sociali sbagliati e privi di prospettive, come abbiamo visto essere
accaduto nel caso dei “socialismi reali”. Tali imperativi sono
spinti ad emergere, nel corso del processo evolutivo umano, come
prodotto della sedimentazione di successive innovazioni e scelte
ideologico-valutative e tecnologiche che fanno variare le
condizioni generali di sviluppo. Pertanto forniscono un’importante
espressione della dinamica della società e il modo di identificare
lo stadio di sviluppo raggiunto da una particolare società, come
meglio vedremo più oltre.
Ci possono essere più modi per (cioè più forme organizzative idonee
a) soddisfare le predette necessità. Così, la necessità di legare a
precise responsabilità le varie forme di potere, ad esempio, il
potere imprenditoriale e quello dei giudici dei tribunali, può
essere soddisfatta, rispettivamente, attraverso varie forme di
impresa e varie normative tese a comprimere le possibilità di
arbitrio del corpo giudicante. Insomma, le necessità sopra definite
non implicano determinismo. Nello svolgersi dei fatti sociali, non
sussiste mera e automatica relazione di causa-effetto fra premesse
realistiche e categorie organizzative da esse implicate per ragioni
di razionalità organizzativa; tale automatismo causa-effetto vale
solo per la realtà naturale. Sicché, le “necessità” organizzative
possono essere (ed in genere sono) largamente violate dai processi
spontanei; è un compito importante delle autorità di governo di
rimediare a tali violazioni.
Veniamo ora al campo della scelta-possibilità. Esso è espresso
dalle scelte di valore (ipotesi iniziali sub b), con in testa le
opzioni che contraddistinguono le forme di civiltà, e dalle scelte
tecnologiche, con le loro implicazioni. Le scelte possono essere
caratterizzate da durata e temporaneità. Pertanto, il concetto di
durata non coincide con (non si limita a) quello di necessità: le
“forme di civiltà” tendono a protrarsi molto a lungo nel tempo, in
quanto incarnano abitudini, stili di vita, visioni e convinzioni
ben radicati; ma esse hanno il carattere della scelta; inizialmente
ci si poteva mettere sulla strada di una differente civiltà. Il
carattere opzionale delle civiltà chiarisce che, in linea di
principio, tali grandi scelte possono essere abbandonate senza
conseguenze per la razionalità organizzativa, purché lo si voglia e
purché vengano correttamente dedotte tutte le implicazioni di tale
abbandono. Soprattutto, occorre tener presente che, per quanto
radicate siano le scelte di civiltà, allorché esse entrano in
contraddizione con nuovi imperativi funzionali generati dai
cambiamenti delle condizioni generali di sviluppo, saranno
costrette, in un modo o nell’altro e da stringenti ragioni di
razionalità organizzativa, a cedere il campo in favore di un raggio
di scelte di civiltà compatibile con i nuovi imperativi funzionali.
Tuttavia, civiltà che soffochino gli imperativi ontologici (di cui
appresso) e quindi i processi di sviluppo, così come fa la civiltà
delle caste, impediscono l’avvento di nuovi imperativi funzionali e
possono quindi durare assai a lungo nel tempo. Questo fenomeno
conferma l’importanza di distinguere fra “necessità” e
“durata”.
All’apparenza, nelle società quasi-stazionarie dell’antichità, la
“necessità” sembra coincidere con la “durata”. Le strutture che vi
garantivano la ripetitività e la permanenza incarnavano anche
necessità organizzative, la tradizione imperava e la consuetudine
poteva fungere da legge. Nelle moderne società dinamiche non è
così: la tradizione inganna, la necessità si dimostra essere cosa
del tutto diversa dalla durata e la sua definizione deve misurarsi
con il carattere ed il livello dei processi evolutivi. Purtroppo,
nel pensiero sociale moderno persiste l’assimilazione di
“necessità” e “durata”. Forse uno dei maggiori problemi del mondo
in cui viviamo è di essere costretto ad evolvere rapidamente in una
crescente confusione, sfruttata dagli interessi in gioco, fra
“necessità” e “scelta-possibilità-creatività”, e nell’assimilazione
di questi due termini rispettivamente a quelli del binomio
“durata-provvisorietà”.
La necessità e la scelta–possibilità-creatività esprimono,
rispettivamente, il momento della