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Zygmunt Bauman.

MODERNITÀ E OLOCAUSTO.

il Mulino, Bologna 1992.

Edizione originale: "Modernity and the Holocaust", Oxford, Basil Blackwell, 1989.

Copyright 1989 by Zygmunt Bauman.

Traduzione di Massimo Baldini.

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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NOTA DI COPERTINA.

La memoria collettiva e la letteratura specialistica hanno tentato in modi diversi di eludere il significato più profondo dell'Olocausto, riducendolo a un episodio della storia millenaria dell'antisemitismo o considerandolo un incidente di percorso, una barbara ma temporanea deviazione dalla via maestra della civilizzazione. In entrambi i casi la patologia evocata non chiama in causa la condizione «normale» della nostra società. In realtà l'Olocausto si dimostra inestricabilmente legato alla logica interna della modernità così come si è sviluppata in Occidente. Gli aspetti di razionalizzazione e burocratizzazione della civiltà occidentale - già analizzati dalla tradizione storico-sociologica che fa capo a Weber e qui criticamente rivisitati da Bauman - hanno costituito la condizione necessaria dei genocidio nazista, che fu l'esito specifico dell'incontro tra lo sconvolgimento sociale provocato dalla modernizzazione e i poderosi strumenti di ingegneria sociale creati dalla modernità stessa. Sebbene tale intreccio sia stato unico nella sua tragicità, i fattori che furono alla sua base sono tuttora operanti e diffusi. Non riconoscerlo, oltre che oltraggioso nei confronti delle vittime, sarebbe il segno di una cecità pericolosa e suicida. La lezione dell'Olocausto si carica così, nell'interpretazione di Bauman, di sconcertante attualità per il mondo contemporaneo, travagliato da concitate trasformazioni e rinnovati problemi di convivenza tra culture ed etnie.

Zygmunt Bauman, polacco di origine, insegna sociologia nell'Università di Leeds. Tra i suoi scritti ricordiamo «Legislators and Interpreters» ; (1988), «Modernity and Ambivalence» (1991) e, già tradotti in italiano, «Lineamenti di una sociologia marxista» (Editori Riuniti, 1971) e «Cultura come prassi» (il Mulino, 1973).

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INDICE.

Prefazione.

1. Introduzione.

2. Modernità, razzismo, sterminio [1].

3. Modernità, razzismo, sterminio [2].

4. Unicità e normalità dell'Olocausto.

5. La sollecitazione della cooperazione delle vittime.

6. L'etica dell'obbedienza (leggendo Milgram).

7. Verso una teoria sociologica della morale.

8. Riflessioni conclusive: razionalità e vergogna.

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PREFAZIONE.

Dopo aver scritto la storia della propria esperienza nel ghetto e nella clandestinità, Janina ringraziò me, suo marito, per aver accettato la sua prolungata assenza nel corso dei due anni dedicati a quella scrittura, durante i quali ella abitò di nuovo nel mondo «che non era mio». In effetti, io fuggii da quel mondo di orrore e disumanità; quando esso raggiunse i più remoti angoli d'Europa. E, come molti dei miei contemporanei, non feci mai il tentativo di esplorarlo dopo che fu scomparso dalla faccia della terra, lasciando che sopravvivesse nella memoria tormentata e nelle cicatrici non rimarginate di coloro che ne rimasero mutilati o feriti.

Ovviamente, sapevo dell'Olocausto. Condividevo la mia immagine di esso con moltissimi altri della mia generazione e di quelle successive: un orribile crimine, commesso dai malvagi contro gli innocenti. Un mondo diviso tra folli assassini e vittime indifese, con molti altri che aiutarono queste ultime, quando poterono, ma che il più delle volte non furono in grado di farlo. In quel mondo gli assassini uccidevano perché erano folli, malvagi e ossessionati da un'idea folle e malvagia. Le vittime andarono al massacro perché non erano in grado di competere con un nemico forte e ben armato. Il resto del mondo poté solo fare da spettatore, sconvolto e angosciato, sapendo che soltanto la vittoria finale degli eserciti raccolti nella coalizione antinazista avrebbe posto fine alle sofferenze che l'umanità stava patendo. Confortata da quest'idea, la mia immagine dell'Olocausto era come un quadro appeso a una parete, opportunamente incorniciato per far risaltare il dipinto contro la carta da parati e sottolinearne la diversità dal resto dell'arredamento.

Dopo aver letto il libro di Janina, cominciai a rendermi conto di quante cose non sapessi, o piuttosto non considerassi nella giusta prospettiva. In me si fece strada l'idea di non aver veramente capito ciò che era accaduto nel «mondo che non era mio». Quello che era effettivamente successo risultava di gran lunga troppo complicato per poter essere spiegato nella maniera semplice e intellettualmente confortante che io avevo con ingenuità ritenuto sufficiente. Mi accorsi che l'Olocausto era non soltanto sinistro e terrificante, ma anche un evento tutt'altro che facile da comprendere in termini abituali e «ordinari». Tale evento era stato scritto in un suo proprio codice, che doveva essere decifrato per renderne possibile la comprensione.

Desideravo che storici, sociologi e psicologi ne svelassero il senso e me lo spiegassero. Esplorai scaffali di biblioteche che non avevo mai esaminato in precedenza e li trovai colmi, straripanti di meticolosi studi storici e di profondi saggi teologici. C'erano anche alcuni studi sociologici, frutto di accurate ricerche e di osservazioni penetranti. La documentazione accumulata dagli storici risultava preponderante dal punto di vista quantitativo e dei contenuti. Le loro analisi erano stringenti e profonde. Esse dimostravano oltre ogni ragionevole dubbio che l'Olocausto era una finestra, piuttosto che un quadro appeso a una parete. Spingendo lo sguardo attraverso quella finestra era possibile cogliere una rara immagine di cose altrimenti invisibili. Cose della massima importanza non soltanto per i responsabili, le vittime e i testimoni del crimine, ma anche per tutti coloro che sono vivi oggi e sperano di esserlo domani. Ciò che vidi attraverso quella finestra non mi parve affatto piacevole. Ma quanto più la vista risultava deprimente, tanto più mi convincevo che chi avesse rifiutato di guardare lo avrebbe fatto a proprio rischio e pericolo.

E tuttavia io non mi ero mai affacciato a quella finestra prima di allora e, nel distogliere lo sguardo, non mi comportavo diversamente dai miei colleghi sociologi. Come la maggior parte di essi, ritenevo che l'Olocausto fosse, nel migliore dei casi, qualcosa che doveva essere spiegato dalle scienze sociali, non certo un fenomeno capace di far luce sull'oggetto dei nostri interessi attuali. Credevo (per manchevolezza, più che per convinzione) che l'Olocausto rappresentasse un'interruzione nel normale corso della storia, una formazione cancerosa cresciuta sul corpo della società civile, una momentanea follia in un contesto di saggezza. Potevo così dipingere per i miei

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studenti il quadro di una società normale, sana e saggia, lasciando la storia dell'Olocausto nelle mani dei patologi di professione.

Il compiacimento mio e dei miei colleghi sociologi fu abbondantemente favorito (sebbene non scusato) da un certo modo di recepire e presentare il ricordo dell'Olocausto. Nella coscienza sociale esso si era, fin troppo spesso, sedimentato come una tragedia che aveva colpito gli ebrei e soltanto gli ebrei, e che perciò suscitava negli altri rammarico, commiserazione, magari senso di colpa, ma non molto più di questo. Infinite volte sia i non ebrei, sia gli ebrei avevano rappresentato l'Olocausto come un retaggio collettivo (ed esclusivo) di questi ultimi, come qualcosa che andava affidato alla gelosa custodia degli scampati alle fucilazioni e alle camere a gas, e dei discendenti delle vittime. In ultima analisi, entrambi i punti di vista - quello «esterno» e quello «interno» - risultavano complementari. Alcuni, autoproclamatisi portavoce dei morti, arrivarono addirittura a lanciare avvertimenti contro coloro che congiuravano per rubare l'Olocausto agli ebrei, per «cristianizzarlo», o semplicemente per dissolvere il suo carattere specificamente ebraico nella miseria di un'«umanità» indistinta. Lo stato ebraico tentò di sfruttare il ricordo della tragedia come certificazione della propria legittimità politica, come salvacondotto per le proprie scelte passate e future, e soprattutto come pagamento anticipato delle ingiustizie eventualmente commesse. Questi punti di vista, ciascuno dei quali motivato da ragioni proprie, contribuirono tutti al radicamento dell'Olocausto nella coscienza sociale come una questione esclusivamente ebraica, di scarsa rilevanza per chiunque altro (ivi compresi gli ebrei stessi in quanto esseri umani) si trovi a vivere nell'epoca moderna e ad essere membro della società contemporanea. Conversando con un mio amico colto e riflessivo mi è divenuto improvvisamente chiaro fino a che punto e con quali rischi il significato dell'Olocausto fosse stato ridotto a quello di un trauma privato e di un'offesa subita da una sola nazione. Mi lamentavo con lui per non aver trovato in sociologia molte tracce di conclusioni universalmente rilevanti tratte dall'esperienza dell'Olocausto. «In effetti è sorprendente», osservò il mio amico, «se si pensa a quanto numerosi sono i sociologi ebrei».

Si legge dell'Olocausto in occasione degli anniversari celebrati di fronte a un pubblico prevalentemente ebraico e presentati come avvenimenti riguardanti la vita delle comunità ebraiche. Le università hanno istituito corsi speciali sulla storia dell'Olocausto, i quali vengono però condotti separatamente dai corsi di storia generale. Da molti l'Olocausto è stato definito come uno specifico capitolo della storia ebraica. Esso ha attratto i propri specialisti, professionisti che continuano ad incontrarsi e a proporsi le rispettive relazioni nel corso di conferenze e convegni specializzati. Ma il loro lavoro straordinariamente produttivo e di cruciale importanza trova raramente il modo di rifluire nella corrente principale della cultura scientifica e della vita culturale in generale, come succede alla maggior parte degli altri interessi specifici nel nostro mondo di specialisti e di specializzazioni.

Quando, nonostante tutto, l'argomento trova la strada della ribalta pubblica, molto spesso viene presentato in una forma sterilizzata e perciò, di fatto, pacificativa e tranquillizzante. Piacevolmente risonante di mitologie sociali, la questione può scuotere il pubblico dalla sua indifferenza alla tragedia umana, ma difficilmente dal suo compiacimento, come ha dimostrato la "soap-opera" americana intitolata "Holocaust", che ha messo in scena dei medici e i membri delle loro famiglie, ben allevati e ben educati (esattamente come lo spettatore di Brooklin vede i propri vicini di casa), onesti, dignitosi e moralmente integri, spinti nelle camere a gas da rivoltanti degenerati nazisti e da rozzi contadini slavi assetati di sangue. David G. Roskies, un acuto e sensibile studioso delle reazioni ebraiche di fronte all'Apocalisse, ha notato in proposito un silenzioso e tuttavia instancabile lavoro di autocensura: le «teste chinate a terra» di una poesia del ghetto diventano nelle edizioni successive «teste sollevate nella speranza». «Via via che venivano eliminate le sfumature», conclude Roskies, «l'Olocausto inteso come archetipo poteva assumere i suoi specifici contorni. Le vittime ebree rappresentavano il bene assoluto, i nazisti e i loro collaboratori il male assoluto» (1).

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Hannah Arendt fu messa a tacere dal coro dei sentimenti offesi quando suggerì che le vittime di un regime disumano potrebbero aver perso parte della propria umanità lungo la strada verso l'inferno.

L'Olocausto fu davvero una "tragedia ebraica". Sebbene gli ebrei non siano stati l'unica popolazione sottoposta a un «trattamento speciale»; da parte del regime nazista (erano di razza ebraica 6 degli oltre 20 milioni di persone sterminate per ordine di Hitler), soltanto essi furono destinati alla distruzione totale, essendo loro negata una qualsiasi collocazione nel Nuovo Ordine che Hitler intendeva instaurare. Ciò detto, l'Olocausto non fu semplicemente un "problema ebraico" e non soltanto un evento della "storia ebraica". "L'Olocausto fu pensato e messo in atto nell'ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano: ecco perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di tale cultura". Per questo motivo l'autoassoluzione della memoria storica che ha luogo nella coscienza della società moderna è più di un'oltraggiosa noncuranza per le vittime del genocidio. E anche il segno di una cecità pericolosa e potenzialmente suicida.

Questo processo di autoassoluzione non comporta necessariamente la completa cancellazione dell'Olocausto dalla memoria. Vi sono molti segnali che suggeriscono il contrario. A parte alcune voci revisioniste che negano la realtà dell'evento (voci che sembrano solo accrescere, anche se involontariamente, la consapevolezza sociale dell'Olocausto grazie ai sensazionali titoli di stampa che alimentano), la crudeltà dell'Olocausto e il suo impatto sulle vittime (e particolarmente sui sopravvissuti) occupano apparentemente uno spazio sempre maggiore tra gli interessi dell'opinione pubblica. Temi di questo genere sono divenuti quasi obbligatori - per quanto tutto sommato secondari - nella trama di film, sceneggiati televisivi e romanzi. E tuttavia vi sono scarsi motivi di dubitare che un'autoassoluzione sia effettivamente in corso, attraverso due processi interconnessi.

Il primo impone alla storiografia dell'Olocausto lo status di un'attività specialistica affidata ai propri istituti scientifici, alle proprie fondazioni e ad un proprio circuito di conferenze. La ramificazione delle discipline scientifiche ha di frequente il ben noto effetto di assottigliare il legame esistente tra le nuove specializzazioni e il filone principale della ricerca; quest'ultimo viene scarsamente influenzato dagli interessi e dalle scoperte dei nuovi specialisti, e ben presto anche dal particolare linguaggio e apparato di immagini che essi sviluppano. Molto spesso il processo di ramificazione fa sì che gli interessi scientifici delegati a istituzioni specializzate siano espulsi dal paradigma fondamentale di una disciplina; tali interessi vengono, per così dire, particolarizzati ed emarginati, privati in pratica, se non proprio in teoria, di un significato più generale; in questo modo la linea di sviluppo principale della disciplina può smettere di confrontarsi ulteriormente con essi. Così, mentre la quantità, lo spessore e la qualità scientifica dei lavori specialistici sulla storia dell'Olocausto crescono ad un ritmo impressionante, lo spazio e l'attenzione ad essa dedicati nelle opere di storia generale non fanno altrettanto; risulta semmai più facile esimersi da un'effettiva analisi dell'Olocausto allegando una bibliografia di pubblicazioni scientifiche sufficientemente lunga.

Il secondo processo in questione consiste nella già citata sterilizzazione dell'immagine dell'Olocausto sedimentata nella coscienza popolare. L'informazione pubblica su questo argomento è legata, nella grande maggioranza dei casi, alle cerimonie commemorative e alle solenni dichiarazioni che tali cerimonie suggeriscono e legittimano. Occasioni del genere, sebbene importanti per altri versi, offrono poco spazio a un'analisi profonda dell'esperienza dell'Olocausto, e in particolare dei suoi aspetti più sgradevoli e inquietanti. Solo una parte ancora minore di questa analisi già limitata riesce poi a raggiungere la coscienza sociale attraverso i mezzi di informazione non specializzati e accessibili a tutti.

Quando l'opinione pubblica viene chiamata a riflettere sulle domande più agghiaccianti - come è stato possibile questo orrore? come è potuto accadere nel cuore della parte più civilizzata del

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mondo? -, la sua tranquillità e il suo equilibrio mentale ne risultano raramente turbati. La discussione sulle colpe si traveste da analisi delle cause; le radici dell'orrore, ci viene detto, vanno cercate e saranno trovate nell'ossessione di Hitler, nella compiacenza dei suoi accoliti, nella crudeltà dei suoi seguaci e nella corruzione morale seminata dalle sue idee; forse, se si cerca un po' più a fondo, esse potrebbero anche essere rinvenute in certi tratti peculiari della storia germanica o nella particolare indifferenza morale della popolazione tedesca, atteggiamento che si può supporre soltanto alla luce del suo manifesto o latente antisemitismo. L'invito a «cercare di capire come siano potute accadere cose del genere» viene seguito, nella maggior parte dei casi, da una litania di rivelazioni su quel regime odioso che fu il Terzo Reich, sulla bestialità dei nazisti e su altri aspetti della «malattia tedesca», la quale, secondo quanto si crede e si è incoraggiati a credere, è il sintomo di qualcosa che «urta contro il carattere dell'umanità» (2). È stato anche detto che, soltanto dopo aver acquistato la piena consapevolezza della bestialità nazista e delle sue cause, «sarà possibile, se non guarire, almeno cauterizzare la ferita che il nazismo ha inflitto alla civiltà occidentale» (3). Una delle possibili interpretazioni (non necessariamente condivisa dagli autori) di queste e di simili dichiarazioni implica che la ricerca delle cause potrà dirsi conclusa una volta accertata la responsabilità morale e materiale della Germania, dei tedeschi e dei nazisti. Come l'Olocausto stesso, le sue cause vengono confinate all'interno di uno spazio circoscritto e di un tempo limitato (ormai, fortunatamente, concluso).

Ma esercitarsi ad individuare nella "germanicità" del crimine l'aspetto in cui deve risiedere la sua spiegazione è contemporaneamente un esercizio che assolve chiunque altro e, in particolare, "qualunque altra cosa". L'ipotesi secondo cui i responsabili dell'Olocausto rappresentano una ferita o una malattia della nostra civiltà e non il suo prodotto terrificante ma coerente sfocia non soltanto nella consolazione morale dell'autoassoluzione, ma anche nella tremenda minaccia dell'inerzia morale e politica. Tutto è avvenuto «fuori di qui», in un altro tempo e in un altro paese. Quanto più «loro» sono colpevoli, tanto più «noi» siamo integri e tanto meno dobbiamo preoccuparci di difendere questa integrità. Una volta presupposta la coincidenza tra attribuzione delle colpe e individuazione delle cause, l'innocenza e la saggezza del modo di vivere di cui siamo così orgogliosi non hanno bisogno di essere messe in dubbio.

L'effetto finale è, paradossalmente, quello di togliere al ricordo dell'Olocausto la sua asprezza. Il messaggio che l'Olocausto contiene sul nostro modo di vivere oggi - sulla qualità delle istituzioni a cui affidiamo la nostra sicurezza, sulla validità dei criteri con cui giudichiamo la correttezza della nostra condotta e dei modelli di interazione che accettiamo e consideriamo normali - viene messo a tacere, resta inascoltato e non arriva a destinazione. Esso viene sì decifrato dagli specialisti e discusso nel circuito delle conferenze, ma difficilmente giunge a farsi sentire altrove e rimane un mistero per tutti i non iniziati. A tutt'oggi non è entrato a far parte della coscienza contemporanea (in ogni caso non in modo serio). E, quel che è peggio, non ha ancora inciso sul nostro modo di agire.

Il presente studio si propone come piccolo e modesto contributo a quello che, nelle attuali circostanze, sembra essere un compito, lungamente disatteso, di eccezionale importanza culturale e politica: il compito di portare la lezione sociologica, psicologica e politica dell'Olocausto a influire sulla consapevolezza e sul modo di agire delle istituzioni e dei membri della società contemporanea. Non verrà qui offerta una nuova ricostruzione della storia dell'Olocausto; su questo piano ci affidiamo interamente agli straordinari risultati della recente ricerca specialistica, che abbiamo cercato di vagliare con la massima cura e verso la quale il nostro debito è illimitato. Il nostro studio si concentra piuttosto su quelle revisioni che, in diverse aree assai importanti delle scienze sociali (e forse anche dei comportamenti sociali), sono state rese necessarie dai processi, dalle tendenze e dai fermenti nascosti rivelatisi nel corso dell'Olocausto. "Lo scopo delle varie analisi qui sviluppate non è quello di accrescere la conoscenza specialistica o di enfatizzare alcune preoccupazioni marginali d ei sociologi, bensì quello di mettere i risultati della ricerca specialistica a disposizione delle scienze

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sociali in generale, di interpretarli in modo che mostrino la loro importanza per i temi fondamentali dell'indagine sociologica, di ricondurli nel filone principale della nostra disciplina", e con ciò di strapparli dalla loro attuale condizione di marginalità per portarli al centro della teoria e della pratica sociologica.

Il primo capitolo è una rassegna generale delle risposte sociologiche (o, piuttosto, dell'evidente limitatezza di queste risposte) ad una serie di questioni decisive dal punto di vista teorico, e vitali dal punto di vista pratico, sollevate dagli studi sull'Olocausto. Alcune di tali questioni verranno poi analizzate separatamente e più approfonditamente nei capitoli successivi. Nei capitoli secondo e terzo, ad esempio, verranno esaminate le tensioni derivanti dalle tendenze alla ridefinizione dei confini nelle nuove condizioni della modernizzazione, dal collasso dell'ordine tradizionale, dal consolidamento degli stati nazionali moderni, dall'interconnessione tra determinati attributi della civiltà moderna (tra cui, più importante di tutti, il ruolo della retorica scientifica nella legittimazione delle ambizioni di ingegneria sociale), dall'emergere delle forme razziste di antagonismo collettivo e dal legame tra razzismo e progetti di genocidio. Avendo in tal modo proposto di interpretare l'Olocausto come un fenomeno tipicamente moderno che non può essere compreso fuori dal contesto delle tendenze culturali e delle conquiste tecniche della modernità, nel capitolo quarto tenteremo di affrontare il problema della combinazione, autenticamente dialettica, di unicità e normalità nello status occupato dall'Olocausto tra altri fenomeni moderni; nelle conclusioni suggeriremo che l'"Olocausto sia stato l'esito di una combinazione unica di fattori di per sé assai ordinari e comuni; e che la possibilità di tale combinazione può essere attribuita in misura preponderante all'emancipazione dello stato politico - con il suo monopolio della violenza e le sue esasperate ambizioni di ingegneria sociale - dal controllo della società, emancipazione che seguì il progressivo smantellamento di tutte le fonti di potere non politiche e di tutte le istituzioni di autogestione sociale".

Il capitolo quinto affronta il compito ingrato e penoso di analizzare una di quelle cose che, con particolare zelo, «preferiamo lasciare inespresse» (4): i moderni meccanismi che portano le vittime a cooperare con i loro stessi persecutori; e altri meccanismi che, in contraddizione con i presunti effetti nobilitanti e moralizzanti del processo di civilizzazione, creano le condizioni per un esercizio progressivamente disumanizzante dell'autorità coercitiva. Una delle connessioni tra Olocausto e modernità e lo stretto legame con il modello di autorità sviluppato fino alla perfezione dalla burocrazia moderna costituisce l'argomento del capitolo sesto, un ampio commento dei fondamentali esperimenti socio-psicologici condotti da Milgram e Zimbardo. Il capitolo settimo, che svolge la funzione di sintesi e conclusione teorica, analizza lo status attuale della morale nelle versioni prevalenti della teoria sociale e si dichiara a favore di una sua radicale revisione, che dovrebbe concentrarsi sulla dimostrata capacità di manipolazione della distanza sociale (fisica e spirituale).

Nonostante la diversità dei rispettivi contenuti, vogliamo sperare che tutti i capitoli convergano nella stessa direzione e rafforzino un unico messaggio di fondo. In essi viene sviluppata "una serie di argomenti che inducono ad integrare la lezione dell'Olocausto nel filone principale della nostra teoria della modernità, del processo di civilizzazione e dei suoi effetti". Tutti questi argomenti prendono le mosse dalla convinzione che l'esperienza dell'Olocausto contiene alcune informazioni di fondamentale importanza sulla società di cui siamo membri.

L'Olocausto fu il prodotto specifico dell'incontro tra le vecchie tensioni che la modernità aveva ignorato, trascurato o mancato di risolvere, e i potenti strumenti di azione razionale ed efficiente creati dallo sviluppo della modernità stessa. Sebbene tale incontro sia stato un evento unico e abbia richiesto una rara combinazione di circostanze, i fattori che furono alla sua base erano, e sono tuttora, diffusi e «normali». Dopo l'Olocausto non si è fatto abbastanza per sondare la portata di

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questi fattori e meno ancora per bloccarne gli effetti potenzialmente terrificanti. Noi riteniamo che su entrambi i fronti si possa e certamente si dovrebbe fare molto di più.

Nello scrivere questo libro ci sono stati di grande aiuto le critiche e i consigli di Bryan Cheyette, Shmuel Eisenstadt, Ferenc Fehèr, Agnes Heller, Lukasz Hirszowicz e Victor Zaslavsky. Vogliamo sperare che in queste pagine essi trovino una traccia non marginale delle loro idee e della loro ispirazione. Siamo particolarmente in debito nei confronti di Anthony Giddens per la sua attenta lettura delle varie versioni del libro, per le sue meditate critiche e i suoi preziosissimi suggerimenti. A David Roberts va la nostra gratitudine per il suo contributo editoriale e la sua pazienza.

NOTE ALLA PREFAZIONE.

(1). D. G. Roskies, "Against tbe Apocalypse. Response to Catastrophe in Modern Jewish Culture", Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1984, p. 252.

(2). C. Ozick, "Art and Ardour", New York, Dutton, 1984, p. 236.

(3). S. Beller, "Shading Light on the Nazi Darkness", in «Jewish Quarterly», inverno 1988-89, p. 36.

(4). J. Bauman, "Winter in the Morning", London, Virago Press, 1986, p. 1.10

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1. INTRODUZIONE.

"Tra i propri prodotti materiali e spiritualila civiltà comprende ora i campi di sterminio e i 'Muselmänner'".

Richard Rubenstein e John Roth, "Approaches to Auschwitz".

Esistono due modi per sminuire, fraintendere o prendere alla leggera il significato dell'Olocausto per la sociologia come teoria della civilizzazione, della modernità, ovvero della civiltà moderna.

Un modo è quello di presentare l'Olocausto come qualcosa che è accaduto agli ebrei, come un avvenimento della storia "ebraica". Ciò rende l'Olocausto un fatto unico, confortevolmente atipico e sociologicamente irrilevante. L'esempio più comune in questo senso è dato dalla presentazione dell'Olocausto come punto culminante dell'antisemitismo europeo-cristiano, un fenomeno unico in se stesso, che non trova riscontri comparabili nella lunga e folta lista dei pregiudizi e delle violenze etniche o religiose. L'antisemitismo si distingue da tutti gli altri casi di antagonismo collettivo per la sua sistematicità senza precedenti, per la sua intensità ideologica, per la sua diffusione sovranazionale e sovraterritoriale, per la sua miscela unica di fonti e contributi locali e generali. Nella misura in cui viene definito, per così dire, come la continuazione dell'antisemitismo con altri mezzi, l'Olocausto sembra essere un «pezzo unico», un episodio specifico che getta forse qualche luce sulla "patologia" della società in cui ha avuto luogo, ma che difficilmente aggiunge qualcosa alla nostra comprensione della condizione "normale" di questa società. Ancor meno esso rende necessaria una revisione significativa delle idee convenzionali sulle tendenze storiche della modernità, sul processo di civilizzazione, sulle tematiche costitutive della ricerca sociologica.

Il secondo dei due modi in questione - che apparentemente è orientato in direzione opposta, ma in pratica conduce allo stesso punto di arrivo - consiste nel presentare l'Olocausto come il caso estremo di un'ampia e familiare categoria di fenomeni sociali, fenomeni certamente odiosi e ripugnanti, ma con i quali si può (e si deve) convivere. Si deve convivere con essi a causa della loro persistenza e diffusione, ma soprattutto perché la società moderna è stata fin dall'inizio, rimane tuttora e continuerà ad essere un'organizzazione concepita per reprimere tali fenomeni e forse addirittura per soffocarli del tutto. L'Olocausto, pertanto, viene classificato come una (anche se particolarmente rilevante) delle manifestazioni facenti parte di una classe che comprende molti episodi «simili» di conflitto, di pregiudizio o di aggressione. Nel peggiore dei casi l'Olocausto viene ricondotto a una predisposizione originaria e culturalmente insopprimibile della specie umana: l'aggressività istintuale di Lorenz o, nella terminologia di Arthur Koestler, l'incapacità della neo-corteccia cerebrale di controllare la parte più antica del cervello, dominata dalle emozioni (1). In quanto presociali e immuni dalla manipolazione culturale, i fattori responsabili dell'Olocausto vengono di fatto rimossi dall'area degli interessi sociologici. Nel migliore dei casi l'Olocausto viene fatto rientrare nella categoria del genocidio, terribile e sinistra, ma pur sempre teoricamente proponibile; oppure viene semplicemente dissolto nella vasta e fin troppo nota classe dell'oppressione e della persecuzione etnica, culturale o razziale (2).

I due modi di affrontare il problema appena descritto producono sostanzialmente gli stessi effetti. L'Olocausto viene incanalato nel flusso familiare della storia:

"Visto in questi termini e accompagnato da un'appropriata citazione di altri orrori storici (le crociate religiose, il massacro degli eretici albigesi, la decimazione degli armeni da parte dei turchi e perfino l'invenzione britannica dei campi di concentramento durante la guerra boera),

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l'Olocausto si presta in modo assai conveniente ad essere considerato come un fenomeno «unico», ma dopotutto normale" (3).

In alternativa esso può essere ricondotto alla fin troppo nota vicenda secolare dei ghetti, delle discriminazioni giuridiche, dei pogrom e delle persecuzioni contro gli ebrei nell'Europa cristiana, e con ciò presentato come una conseguenza terrificante e tuttavia pienamente logica dell'odio etnico e religioso. In entrambi i casi la bomba risulta disinnescata; non è necessaria nessuna rilevante revisione della nostra teoria sociale; la nostra visione della modernità, del suo potenziale nascosto ma ben presente, della sua tendenza storica, non richiede alcuna severa riconsiderazione, poiché i metodi e i concetti accumulati dalla sociologia sono del tutto adeguati ad affrontare la sfida, a «spiegarla», a «renderla intellegibile», a comprenderla. Il risultato finale di tutto ciò è il compiacimento teorico. In realtà non è accaduto nulla che giustifichi una critica di quel modello di società moderna che ha funzionato così bene come cornice teorica e legittimazione di fatto della pratica sociologica.

A tutt'oggi un significativo dissenso da tale atteggiamento condiscendente e autocompiacente è stato espresso più che altro da alcuni storici e teologi. I sociologi hanno prestato scarsa attenzione a queste voci di dissenso. A confronto con l'enorme mole di lavoro accumulata dagli storici e con l'ampiezza della ricerca spirituale svolta dai teologi sia cristiani che ebrei, il contributo dei sociologi agli studi sull'Olocausto appare marginale e trascurabile. Le ricerche sociologiche condotte fino ad oggi dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che "l'Olocausto ha da dire sullo stato della sociologia più di quanto la sociologia, nella sua forma attuale, sia in grado di contribuire alla nostra comprensione dell'Olocausto". Questo allarmante dato di fatto non è ancora stato affrontato dai sociologi (e ancor meno ha avuto una risposta da parte loro).

Il modo in cui la sociologia percepisce i propri compiti di fronte all'evento definito «Olocausto» è stato forse espresso nella maniera più pertinente da uno dei più eminenti rappresentanti della professione sociologica, Everett C. Hughes:

"Il governo nazionalsocialista della Germania ha reso gli ebrei vittime di uno dei più macroscopici esempi di «sporco lavoro» che la storia ricordi. I problemi più rilevanti posti da tale avvenimento sono i seguenti: 1) chi sono le persone da cui viene materialmente eseguito un lavoro del genere? e 2) quali sono le circostanze in cui altre persone «per bene» consentono loro di eseguirlo? Abbiamo dunque bisogno di una migliore conoscenza dei segnali che accompagnano l'ascesa al potere di queste persone e di migliori strumenti per tenerle lontano da esso" (4).

Per Hughes, che si dimostra con ciò fedele ai principi consolidati della pratica sociologica, il problema consiste nell'identificare la specifica combinazione di fattori psicosociali che potrebbero essere ragionevolmente collegati (in quanto fattori determinanti) alle particolari tendenze comportamentali manifestate dagli esecutori dello «sporco lavoro»; nell'elencare una seconda serie di fattori che diminuiscono la resistenza (attesa ma non riscontrata) a tali tendenze da parte di altri individui; e nell'arrivare a un certo grado di conoscenza esplicativa-predittiva che in questo nostro mondo razionalmente organizzato, governato com'è da leggi causali e probabilità statistiche, consenta di impedire a quelle tendenze di materializzarsi, di esprimersi in comportamenti concreti e di raggiungere i propri deleteri, «sporchi» effetti. L'ultimo di tali obiettivi verrà probabilmente raggiunto attraverso l'applicazione dello stesso modello di azione che ha reso il nostro mondo razionalmente organizzato, manipolabile e «controllabile».

In quello che è stato finora il più significativo dei contributi specificamente sociologici allo studio dell'Olocausto, Helen Fein (5) ha fedelmente seguito le raccomandazioni di Hughes. Si è dunque proposta di identificare una serie di variabili psicologiche, ideologiche e strutturali che risultano strettamente correlate alle percentuali di vittime e di sopravvissuti ebrei nei vari stati nazionali

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dell'Europa dominata dai nazisti. In base a tutti gli standard convenzionali la Fein ha condotto una ricerca estremamente pregevole. Le caratteristiche delle comunità nazionali, l'intensità dell'antisemitismo locale, il grado di acculturazione e di assimilazione degli ebrei, la conseguente solidarietà intercomunitaria sono stati tutti accuratamente e correttamente indicizzati, così da poter adeguatamente calcolare e controllare la rilevanza delle varie correlazioni. Alcune connessioni ipotetiche si sono dimostrate inesistenti o almeno statisticamente insignificanti; alcune altre regolarità (come la correlazione tra l'assenza di solidarietà e la probabilità che «gli individui si liberassero dai vincoli morali») sono state statisticamente confermate. Ma è proprio a causa delle impeccabili capacità sociologiche dimostrate dall'autrice, e della competenza con cui sono esercitate, che la debolezza della sociologia tradizionale viene inavvertitamente alla luce nel lavoro della Fein. Senza riconsiderare alcuni dei presupposti essenziali e tuttavia non dichiarati del discorso sociologico, è impossibile fare qualcosa di diverso da ciò che ha fatto la Fein: concepire l'Olocausto come un prodotto unico ma pienamente determinato di una particolare concatenazione di fattori sociali e psicologici, che ha condotto a un temporaneo venir meno della presa normalmente esercitata dalla civilizzazione sul comportamento umano. Da questo punto di vista una delle cose che emergono intatte e indiscusse (implicitamente, se non esplicitamente) dall'esperienza dell'Olocausto è l'influenza umanizzante e/o razionalizzante (i due concetti vengono usati come sinonimi) dell'organizzazione sociale sugli istinti disumani che regolano la condotta dei soggetti presociali o antisociali. Tutti gli atteggiamenti morali rintracciabili nella condotta umana sono socialmente prodotti. Essi scompaiono quando la società cessa di funzionare correttamente. «In una condizione di anomia - svincolata dalla regolazione sociale - è possibile che gli individui reagiscano ignorando l'eventuale danno che arrecano ad altri» (6). La presenza di un'efficace regolazione sociale rende per definizione improbabile questa eventualità. Il compito della regolazione sociale - e perciò della civiltà moderna, che si distingue per il fatto di spingere le ambizioni regolatrici verso limiti in precedenza inauditi - è quello di imporre dei vincoli morali all'egoismo rampante e all'innata bestialità dell'animale umano. Dopo aver sottoposto la realtà dell'Olocausto al trattamento di una metodologia che lo definisce nei termini di una problematica scientifica, la sociologia tradizionale può soltanto lanciare un messaggio ispirato più ai propri presupposti che alla «realtà dei fatti»: l'Olocausto rappresenta un fallimento, non un prodotto, della modernità.

In un altro pregevole studio sull'Olocausto, Nechama Tec ha tentato di esplorare il lato opposto dello spettro sociale, quello dei salvatori: quelle persone che non consentirono l'esecuzione dello «sporco lavoro» e che, in un mondo di universale egoismo, dedicarono la propria vita ai sofferenti; persone che, in breve, conservarono la propria integrità morale in un contesto di immoralità. Fedele ai precetti della saggezza sociologica, la Tec ha cercato con grande impegno di rintracciare le determinanti sociali di quello che, secondo tutti gli standard dell'epoca, era un comportamento aberrante. L'autrice ha verificato una ad una tutte le ipotesi che un sociologo competente e accorto includerebbe certamente in un progetto di ricerca. Ha misurato le correlazioni tra la disponibilità a prestare aiuto, da una parte, e una serie di variabili relative alla classe sociale, all'istruzione, alla confessione religiosa e all'appartenenza politica, dall'altra, solo per scoprire che in realtà non esisteva correlazione alcuna. A dispetto delle proprie aspettative e di quelle dei suoi lettori sociologicamente consapevoli, la Tec ha dovuto trarre la sola conclusione legittima: «Questi salvatori agirono in un modo che per essi era naturale: essi furono istintivamente in grado di battersi contro gli orrori del proprio tempo» (7). In altre parole, i salvatori erano desiderosi di aiutare le vittime perché ciò era nella loro natura. Essi provenivano da tutti i livelli e i settori della «struttura sociale», rivelando con ciò il bluff secondo cui esisterebbero alcune «determinanti sociali» del comportamento morale. Il contributo di tali determinanti si espresse semmai nell'impossibilità di sopprimere il desiderio dei salvatori di aiutare gli altri nella loro sofferenza. La Tec è arrivata più vicino della mag gioranza dei suoi colleghi alla scoperta del fatto che il vero problema non consiste nel chiedersi «che cosa possiamo dire noi sociologi a proposito dell'Olocausto?», ma piuttosto «che cosa ha da dire l'Olocausto a noi sociologi e alla nostra attività?».

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Se è vero che la necessità di porsi questa domanda appare come un compito assai urgente e, nello stesso tempo, colpevolmente trascurato, che l'eredità dell'Olocausto ci impone, allora le sue conseguenze devono essere attentamente vagliate. È certamente troppo facile reagire in modo sproporzionato all'evidente fallimento dell'approccio sociologico tradizionale. Una volta abbandonata la speranza di inquadrare l'esperienza dell'Olocausto nella cornice teorica della disfunzione (secondo cui la modernità sarebbe stata incapace di sopprimere alcuni fattori di irrazionalità fondamentalmente estranei al suo contesto, le pressioni civilizzatrici non sarebbero riuscite a soggiogare una serie di spinte emozionali e violente, la socializzazione avrebbe fallito il proprio compito e con ciò mancato di produrre la necessaria quantità di motivazioni sociali), si potrebbe essere facilmente tentati di uscire in modo «ovvio» da questa impasse teorica, di proclamare l'Olocausto un «paradigma» della civiltà moderna, il suo prodotto «naturale», «normale» (e forse anche "comune"), la sua «tendenza storica». Secondo questo punto di vista l'Olocausto verrebbe ad assumere lo status di "verità" della modernità (invece di essere riconosciuto come "possibilità" in essa contenuta), una verità soltanto superficialmente occultata dalla formula ideologica imposta da coloro che traggono vantaggio da una tale «grande menzogna». Avendo ipoteticamente accresciuto il significato storico e teorico dell'Olocausto, questa prospettiva (della quale tratteremo più dettagliatamente nel quarto capitolo) può soltanto, perversamente, sminuirne l'importanza, in quanto porterà gli orrori del genocidio ad essere di fatto indistinguibili da altre sofferenze che la società moderna, senza dubbio, produce quotidianamente e con abbondanza.

- "L'Olocausto come test della modernità".

Qualche anno fa un giornalista di «Le Monde» intervistò un campione di persone che erano state vittime di rapimenti. Una delle cose più interessanti rivelate dall'intervista fu l'incidenza eccezionalmente elevata dei casi di divorzio tra le coppie che erano passate attraverso l'atroce esperienza del rapimento. Incuriosito, il giornalista chiese ai divorziati il motivo della loro decisione. La maggior parte degli intervistati rispose di non aver mai contemplato la possibilità del divorzio prima del rapimento. Durante quella terribile esperienza, però, «si aprirono loro gli occhi» ed essi «videro il proprio partner in una nuova luce». Quelli che erano stati dei normali bravi mariti «si rivelarono» degli egoisti, preoccupati soltanto di se stessi; uomini d'affari amanti del rischio misero in mostra una disgustosa codardia; «uomini di mondo» pieni di risorse caddero in pezzi e si limitarono a lamentarsi della tragedia che incombeva su di loro. Il giornalista si pose la seguente domanda: quale delle due facce che questi personaggi bifronti sapevano evidentemente assumere era autentica, e quale era la maschera? Alla fine la domanda si rivelò mal posta. Nessuna delle due facce era «più vera» dell'altra. Entrambe erano possibilità che il carattere delle vittime conteneva contemporaneamente in sé e che semplicemente venivano alla superficie in momenti diversi, a seconda delle circostanze. La faccia «buona» era quella che appariva di solito, soltanto perché in condizioni normali risultava favorita rispetto all'altra. Quest'ultima era tuttavia sempre presente, sebbene di norma invisibile. Ma l'aspetto più affascinante di questa scoperta stava nel fatto che, se non fosse stato per l'episodio del rapimento, l'«altra faccia» sarebbe probabilmente rimasta nascosta per sempre. I due partner avrebbero continuato a vivere felicemente il proprio matrimonio, inconsapevoli delle sgradevoli caratteristiche che determinate circostanze, inattese e straordinarie, avrebbero potuto rivelare in persone che essi ritenevano di conoscere, amandole come tali.

Il passo che abbiamo più sopra citato dal lavoro di Nechama Tec si conclude con la seguente osservazione: «Se non fosse stato per l'Olocausto, la maggior parte delle persone che prestarono aiuto alle vittime avrebbe forse continuato per la propria strada, alcune compiendo opere di carità, altre conducendo una vita semplice e riservata. Si trattava di eroi potenziali, spesso indistinguibili da coloro che li circondavano». Una delle conclusioni più argomentate e convincenti dello studio in questione sostiene l'impossibilità di «intuire in anticipo» i segnali o i sintomi o gli indicatori della

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disponibilità individuale al sacrificio o della codardia di fronte alle avversità; cioè l'impossibilità di prevedere, fuori dal contesto che le suscita o semplicemente le «risveglia», le possibilità di una loro futura manifestazione.

John R. Roth solleva la medesima questione del contrasto fra potenzialità e realtà (la prima come modalità non ancora svelata della seconda, quest'ultima come modalità già realizzata - e perciò empiricamente verificabile - della prima) direttamente in relazione al nostro problema:

"Se i nazisti avessero prevalso, l'autorità di definire un modello normativo di realtà avrebbe stabilito che nell'Olocausto non era stata trasgredita alcuna legge naturale e non era stato commesso nessun crimine contro Dio e l'umanità. Ci si sarebbe chiesti, però, se lo sfruttamento del lavoro forzato avrebbe dovuto continuare, aumentare o cessare. Tali decisioni sarebbero state prese in base a considerazioni razionali" (8).

Il terrore inespresso che permea il nostro ricordo dell'Olocausto (collegato, e non a caso, al pressante desiderio di non trovarsi faccia a faccia con tale ricordo) è dovuto al tormentoso sospetto che l'Olocausto potrebbe essere più di un'aberrazione, più di una deviazione da un sentiero di progresso altrimenti diritto, più di un'escrescenza cancerosa sul corpo altrimenti sano della società civilizzata; il sospetto, in breve, che l'Olocausto non sia stato un'antitesi della civiltà moderna e di tutto ciò che (secondo quanto ci piace pensare) essa rappresenta. Noi sospettiamo (anche se ci rifiutiamo di ammetterlo) che l'Olocausto possa semplicemente aver rivelato un diverso volto di quella stessa società moderna della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze; e che queste due facce aderiscano in perfetta armonia al medesimo corpo. Ciò che forse temiamo maggiormente è che ciascuna delle due non possa esistere senza l'altra, come accade per le due facce di una moneta.

Spesso ci fermiamo proprio sulla soglia di un'agghiacciante verità. Henry Feingold, ad esempio, insiste nel definire l'episodio dell'Olocausto come un nuovo sviluppo della lunga, e nel complesso incolpevole, storia della società moderna; uno sviluppo che non c'era modo di attendersi e di prevedere, come l'apparizione di un nuovo ceppo maligno in una famiglia di virus ritenuti ormai innocui:

"La «soluzione finale» ["Endlösung"] segna il bivio di fronte al quale il sistema industriale europeo ha deviato dalla propria strada; invece di migliorare le condizioni di vita, come era nelle speranze originarie dell'illuminismo, esso cominciò a distruggere se stesso. Grazie a quel sistema industriale e all'ethos in esso incorporato l'Europa si era resa capace di dominare il mondo".

Come se le capacità richieste e sviluppate al fine di dominare il mondo fossero qualitativamente diverse da quelle che assicurarono l'efficacia della «soluzione finale». Eppure Feingold ha la verità proprio sotto gli occhi:

"[Auschwitz] fu anche un'estensione del moderno sistema di fabbrica. Invece di produrre merci, esso utilizzava gli esseri umani come materia prima e sfornava la morte come prodotto finale, con le quantità giornaliere accuratamente riportate sul rendiconto dei dirigenti. Le ciminiere, simbolo stesso del moderno sistema di fabbrica, sputavano l'acre fumo prodotto dalla combustione della carne umana. La rete ferroviaria dell'Europa moderna, perfettamente organizzata, trasportava alle fabbriche un nuovo genere di materia prima, così come faceva con altri materiali. Nelle camere a gas le vittime respiravano vapori tossici generati da pastiglie di acido prussico, prodotte dall'avanzata industria chimica tedesca. Gli ingegneri progettarono i crematori, gli amministratori crearono un sistema burocratico funzionante con un fervore e un'efficienza che nazioni più arretrate avrebbero invidiato. Persino lo stesso progetto complessivo era un riflesso del moderno spirito

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scientifico deviato dalla propria strada. Ciò di cui siamo stati testimoni non era altro che un enorme progetto di ingegneria sociale" (9).

La verità è che ogni «ingrediente» dell'Olocausto - tutte le cose che lo avevano reso possibile - era normale; «normale» non nel senso di familiare come può esserlo un nuovo esemplare appartenente a una vasta classe di fenomeni già da tempo esaurientemente descritti, spiegati e classificati (al contrario, l'esperienza dell'Olocausto fu nuova e sconosciuta), bensì nel senso della piena coerenza con tutto ciò che sappiamo della nostra civiltà, del suo principio ispiratore, delle sue priorità, della sua immanente visione del mondo, nonché della corretta maniera di perseguire contemporaneamente la felicità umana e una società perfetta. Ecco quanto hanno scritto in proposito Stillman e Pfaff:

"C'è più di un legame esclusivamente fortuito tra la tecnologia della produzione di massa, con la sua visione dell'abbondanza materiale universale, e la tecnologia del campo di concentramento, con la sua visione seriale della morte. Si può desiderare di negare tale connessione, ma Buchenwald appartiene all'Occidente tanto quanto Detroit: è impossibile rifiutare Buchenwald in quanto aberrazione casuale di un mondo occidentale fondamentalmente sano" (10).

Ci sia anche consentito di richiamare la conclusione che Raul Hilberg ha raggiunto alla fine del suo insuperato, magistrale studio sugli esiti dell'Olocausto: «La macchina della distruzione, dunque, non era strutturalmente diversa dall'organizzazione sociale tedesca nel suo complesso. La macchina della distruzione "era" la comunità organizzata in uno dei suoi ruoli specifici» (11).

Richard L. Rubenstein ha tratto dall'Olocausto quello che a noi sembra il suo insegnamento definitivo. «Esso testimonia», ha scritto Rubenstein, «un "avanzamento della civiltà"». E si trattava, vogliamo aggiungere, di un avanzamento in un duplice senso. Con la «soluzione finale» il potenziale industriale e la competenza tecnologica esaltati dalla nostra civiltà hanno toccato nuovi vertici nel far fronte con successo a un compito di dimensioni senza precedenti. E sempre con la «soluzione finale» la nostra società ci ha svelato una capacità fino a quel momento insospettata. Avendo imparato a rispettare e ad ammirare l'efficienza tecnica e la buona progettazione, non possiamo evitare di ammettere che, nel celebrare il progresso materiale prodotto dalla nostra civiltà, abbiamo seriamente sottostimato il suo vero potenziale.

"Il mondo dei campi di sterminio e la società da esso generata rivelano il lato sempre più oscuro della civiltà ebraico-cristiana. Una civiltà che significa schiavitù, guerre, sfruttamento e campi di sterminio. Essa significa anche igiene, alti ideali religiosi, arte meravigliosa e musica squisita. È un errore immaginare che civiltà e crudeltà selvaggia siano in antitesi... Oggi la crudeltà, come la maggior parte degli altri aspetti del nostro mondo, è amministrata in modo assai più efficiente che in passato. Essa non ha cessato e non cesserà di esistere. Creazione e distruzione sono entrambe aspetti inseparabili di ciò che chiamiamo civiltà" (12).

Hilberg è uno storico, Rubenstein un teologo. Abbiamo attentamente cercato nelle opere dei sociologi affermazioni che esprimessero un'analoga consapevolezza di quanto siano urgenti le questioni sollevate dall'Olocausto, e del fatto che esso rappresenta, tra le altre cose, una sfida alla sociologia come professione e come corpo di conoscenza scientifica. A confronto con il lavoro degli storici e dei teologi il grosso della produzione sociologica somiglia più che altro a un esercizio collettivo di dimenticanza e di cecità. La lezione dell'Olocausto ha in buona misura lasciato scarse tracce nel senso comune sociologico, in cui rientrano tra l'altro professioni di fede come quelle che sostengono la bontà del controllo razionale sulle emozioni, la superiorità della razionalità rispetto a (che altro?) ogni comportamento irrazionale e il continuo scontro tra le esigenze di efficienza e le inclinazioni morali di cui i «rapporti personali» sono irrimediabilmente impregnati. Per quanto forti

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e acute, le voci di protesta contro queste professioni di fede non sono ancora penetrate tra le mura dell'establishment sociologico.

Non ci risulta che siano molti i casi in cui un sociologo in quanto tale abbia affrontato pubblicamente il problema dell'Olocausto. Una di queste occasioni fu offerta (sebbene in un ambito circoscritto) dal convegno su «La società occidentale dopo l'Olocausto», organizzato nel 1978 dall'Institute for the Study of Contemporary Social Problems (13). Nel corso del convegno Richard L. Rubenstein presentò uno stimolante, benché ; forse eccessivamente emozionale, tentativo di rileggere, alla luce dell'esperienza dell'Olocausto, alcune delle più note diagnosi di Weber sulle tendenze della società moderna. Rubenstein desiderava scoprire se le cose che noi sappiamo, ma che ovviamente erano sconosciute a Weber, avrebbero potuto essere previste (dal sociologo tedesco e dai suoi lettori), almeno come possibilità, a partire da ciò che Weber sapeva, intuiva o ipotizzava teoricamente. Rubenstein ritenne di aver trovato una risposta positiva a questa domanda, o per lo meno suggerì che nella rappresentazione weberiana della moderna burocrazia, dello spirito razionale, del principio di efficienza, della mentalità scientifica, della collocazione dei valori nel regno della soggettività e così via non fosse presente alcun meccanismo capace di escludere la possibilità degli eccessi nazisti; nei tipi ideali di Weber, per di più, non c'era niente che rendesse necessario descrivere come eccessi le attività del regime nazista. Per esempio: «Nessuno degli orrori perpetrati dai medici o dai tecnocrati tedeschi era incoerente con l'idea che i valori siano inerentemente soggettivi e che la scienza sia intrinsecamente strumentale e libera da vincoli normativi». Guenther Roth, eminente discepolo weberiano e sociologo di ottima e meritata reputazione, non tentò di nascondere il proprio disappunto: «Il mio disaccordo con il professor Rubenstein è totale. Non c'è neanche una frase nella sua relazione che io possa accettare». Probabilmente irritato dalla possibilità che venisse arrecato danno alla memoria di Weber (danno annidato, per così dire, nell'idea stessa di «anticipazione»), Roth ricordò ai presenti che Weber era un progressista, amava la costituzione e approvava la concessione del diritto di voto alla classe lavoratrice (e che perciò, presumibilmente, non poteva essere chiamato in causa a proposito di una cosa così abominevole come l'Olocausto). Tuttavia Roth evitò di discutere la sostanza del discorso di Rubenstein. Ciò facendo, egli si privò della possibilità di prendere seriamente in considerazione le «conseguenze inattese» imputabili alla legge della razionalità crescente, che Weber identificava come attributo centrale della modernità e che era stata analizzata soltanto in modo molto embrionale. Roth non colse l'occasione per affrontare senza mediazioni l'«altra faccia» della prospettiva lasciataci in eredità dai classici della tradizione sociologica, né sfruttò l'opportunità di valutare se la nostra amara conoscenza, non ancora a disposizione di quei maestri, ci consenta di rintracciare nelle loro ipotesi qualcosa di cui essi stessi non potevano, se non debolmente, essere consapevoli.

Con ogni probabilità Roth non è il solo sociologo che correrebbe in difesa delle verità consacrate dalla nostra comune tradizione a spese di tutto ciò che possa metterle in discussione; la differenza sta semplicemente nel fatto che la maggior parte degli altri sociologi non è stata costretta a farlo in modo altrettanto esplicito. Nella propria attività professionale quotidiana, i sociologi non hanno in genere bisogno di preoccuparsi della sfida rappresentata dall'Olocausto. La sociologia è quasi riuscita a dimenticare tale sfida o a relegarla nell'area degli «interessi specialistici», dalla quale non esiste alcuna possibilità di immettersi nel filone principale della disciplina. Ammesso che sia discusso nei testi sociologici, l'Olocausto viene nel migliore dei casi presentato come un triste esempio di ciò che può fare l'incontrollata aggressività umana, e poi usato come pretesto per propugnarne, appunto, il controllo attraverso un'accresciuta pressione civilizzatrice e un'ulteriore raffica di capacità specialistiche nel risolvere i problemi. Nel peggiore dei casi l'Olocausto viene ricordato come un'esperienza privata degli ebrei, una questione tra questi ultimi e i loro persecutori (una «privatizzazione» a cui hanno contribuito in misura non indifferente molti portavoce dello stato d'Israele, ispirati da preoccupazioni non certo escatologiche) (14).

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Questo stato di cose è preoccupante non solo, e non tanto, per ragioni professionali, anche se danneggia le capacità cognitive e la rilevanza sociale della sociologia. A rendere la situazione assai più inquietante è la consapevolezza che «se ciò è potuto accadere su scala così ampia da qualche parte, allora potrebbe accadere dovunque; è qualcosa che rientra pienamente nell'ambito delle possibilità umane e, ci piaccia o no, Auschwitz ha allargato l'universo della consapevolezza non meno di quanto abbia fatto l'atterraggio sulla luna» (15). L'ansia non può certo essere alleviata dal fatto che nessuna delle condizioni sociali che resero possibile Auschwitz è davvero venuta meno, e che non si è presa alcuna efficace misura per impedire a tali possibilità e condizioni di generare altre catastrofi analoghe. Come ha di recente fatto notare Leo Ruper, «lo stato territoriale sovrano rivendica, in quanto parte integrante della propria sovranità, il diritto di ricorrere al genocidio o al massacro della popolazione soggetta al suo potere, e... le Nazioni Unite difendono a tutti gli effetti tale diritto» (16).

Un servizio postumo che l'Olocausto può offrire consiste nel rendere possibile un'analisi di quegli aspetti altrimenti trascurati dei principi sociali gelosamente custoditi dalla storia moderna. Proponiamo dunque che l'esperienza dell'Olocausto, ormai esaurientemente analizzata dagli storici, debba essere considerata, per così dire, come un «laboratorio» sociologico. L'Olocausto ha messo in luce e permesso di esaminare alcuni attributi della nostra società non rilevabili, e perciò empiricamente inaccessibili, in condizioni «ordinarie». In altre parole proponiamo di trattare l'Olocausto come un raro, ma tuttavia significativo e affidabile, test delle possibilità occulte insite nella società moderna.

- "Il significato del processo di civilizzazione".

La vicenda moralmente edificante di un'umanità emergente dalla barbarie presociale costituisce un mito eziologico profondamente radicato nella coscienza della società occidentale. Questo mito ha offerto incentivo e popolarità a tutta una serie di influenti teorie sociologiche e interpretazioni storiche, ricevendo a sua volta da esse un dotto e raffinato sostegno; la più recente manifestazione di tale rapporto si è avuta con l'enorme rilievo e l'immediato successo della lettura del «processo di civilizzazione» proposta da Elias. Le opinioni a questo proposito discordanti di alcuni teorici sociali contemporanei (si vedano, ad esempio, le accurate analisi della natura multiforme dei processi di civilizzazione: quelle storiche e comparative di Michael Mann, quelle sintetiche e teoriche di Anthony Giddens) - opinioni che sottolineano la crescita della violenza militare e l'uso incontrollato della coercizione come attributi fondamentali dell'emergere e del consolidarsi delle grandi civiltà - dovranno percorrere molta strada prima di riuscire a rimuovere dalla cosci enza sociale, o anche soltanto dal diffuso folklore della professione sociologica, il mito eziologico di cui dicevamo. L'opinione profana resiste in buona misura a tutte le critiche di tale mito. Questa resistenza, inoltre, risulta appoggiata da una vasta coalizione di rispettabili opinioni scientifiche, tra cui trovano posto approcci autorevoli quali: la «visione liberale» della storia come lotta vittoriosa della ragione sulla superstizione; l'interpretazione weberiana della razionalizzazione come processo teso al raggiungimento del massimo risultato con il minimo sforzo; la promessa psicoanalitica di ridimensionare, imbrigliare e addomesticare la presenza animale nell'uomo; la grande profezia marxiana secondo cui la vita e la storia sarebbero state ricondotte sotto il pieno controllo della specie umana una volta liberate dall'attuale inibizione dovuta agli interessi particolari; il ritratto, dipinto da Elias, della storia recente come espulsione della violenza dalla vita quotidiana; e, soprattutto, il coro degli esperti impegnati ad assicurarci che i problemi umani sono il risultato di politiche sbagliate e che l'adozione di politiche corrette comporta l'eliminazione dei problemi. Dietro questa coalizione di approcci si colloca saldamente il moderno stato «giardiniere», che vede nella società sottoposta al proprio controllo un oggetto di sistemazione del terreno, coltivazione delle piante desiderabili ed eliminazione delle erbe infestanti.

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Nella prospettiva di questo mito, già da lungo tempo ossificato nel senso comune della nostra epoca, l'Olocausto può essere compreso soltanto come insuccesso della nostra civiltà (cioè dell'attività umana propositiva guidata dalla ragione) nell'imbrigliare le malsane inclinazioni spontanee di ciò che l'uomo ha ereditato dalla natura. È ovvio che il mondo rappresentato da Hobbes non è stato completamente ridotto all'impotenza, che il problema hobbesiano non ha trovato piena soluzione. In altre parole, il grado di civilizzazione raggiunto finora non è sufficiente. Il processo di civilizzazione, ancora incompleto, deve essere portato a termine. La lezione dell'omicidio di massa ci ha insegnato che la prevenzione di analoghi rigurgiti di barbarie richiede ulteriori sforzi di civilizzazione. Non c'è niente, in questa lezione, che possa gettare dubbi sulla futura efficacia di tali sforzi e sul loro risultato finale. È certo che ci stiamo muovendo nella giusta direzione; forse non ci muoviamo abbastanza velocemente.

Via via che il quadro completo dell'Olocausto emerge dalla ricerca storica, si propone una sua interpretazione alternativa, e forse più credibile, come evento che ha rivelato la debolezza e la fragilità della natura umana (dell'orrore per l'omicidio, del rifiuto della violenza, della paura del senso di colpa e della responsabilità derivante dal comportamento immorale) di fronte all'efficienza fattuale dei più celebrati prodotti della civiltà: la sua tecnologia, i suoi criteri razionali di scelta, la sua tendenza a subordinare pensiero e azione alla pragmatica economica ed efficientista. Il mondo hobbesiano dell'Olocausto non è emerso dal suo sepolcro troppo poco profondo dopo essere stato resuscitato dal tumulto delle emozioni irrazionali. Esso è apparso sulla scena (in una forma esasperata che Hobbes certamente rinnegherebbe) a bordo di un veicolo uscito da una fabbrica, cinto di armi che soltanto la tecnologia più avanzata è in grado di produrre, e seguendo un itinerario tracciato da organizzazioni gestite con criteri scientifici. La civiltà moderna non è stata la condizione "sufficiente" dell'Olocausto, ma ha rappresentato senza alcun dubbio la sua condizione "necessaria". Senza di essa l'Olocausto sarebbe impensabile. È stato il mondo razionale della civiltà moderna a renderlo pensabile. «L'omicidio di massa della popolazione ebraica europea non è stato soltanto l'esito tecnologico di una società industriale, ma anche l'esito organizzativo di una società burocratica» (17). A questo proposito è sufficiente considerare che cosa ha reso l'Olocausto un fenomeno unico tra i molti omicidi di massa che segnano il cammino storico della specie umana.

"L'amministrazione statale trasmise alle altre gerarchie la certezza della propria pianificazione e la minuziosità della propria burocrazia. Dall'esercito la macchina della distruzione ereditò la precisione militare, la disciplina e l'insensibilità. L'influenza dell'industria si fece sentire nel forte accento posto sulla contabilità, sul risparmio esasperato e sul recupero dei materiali, oltre che nell'efficienza produttiva dei centri di sterminio. Infine, il partito conferì all'intero apparato l'«idealismo», il senso della «missione» e l'idea di partecipare all'edificazione della storia...Di fatto si trattava della società organizzata calata in uno dei suoi ruoli particolari. Sebbene impegnato nell'omicidio di massa su scala gigantesca, questo vasto apparato burocratico mostrava attenzione per la correttezza delle procedure burocratiche, per la scrupolosità delle definizioni precise, per la minuzia della regolamentazione burocratica e per il rispetto della legge" (18).

Presso il quartier generale delle S.S. il reparto incaricato della soppressione degli ebrei europei era ufficialmente designato come «Sezione amministrativa ed economica». Solo parzialmente si trattava di una finzione e solo fino a un certo punto essa può essere spiegata in base alle note «norme linguistiche» destinate a confondere sia gli osservatori occasionali, sia i meno risoluti tra gli esecutori. In misura troppo ampia per non suscitare disagio, la definizione rifletteva fedelmente il significato organizzativo dell'attività svolta. Tolta la ripugnanza morale dei suoi obiettivi (o, per essere precisi, la scala smisurata dell'obbrobrio morale), tale attività non differiva in alcun senso formale (l'unico senso esprimibile nel linguaggio della burocrazia) da tutte le altre attività organizzate, programmate, seguite e controllate dalle «normali» sezioni amministrative ed

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economiche. Come qualsiasi altra attività soggetta alla razionalizzazione burocratica, essa si adatta bene alla sobria descrizione dell'amministrazione moderna offerta da Max Weber:

"Nell'amministrazione burocratica... la precisione, la rapidità, l'univocità, la pubblicità degli atti, la continuità, la discrezione, la coesione, la rigida subordinazione, la riduzione dei contrasti, le spese oggettive e personali sono recate alla misura migliore... La burocratizzazione offre soprattutto la maggiore possibilità di attuazione del principio della divisione del lavoro amministrativo in base a criteri puramente oggettivi... l'adempimento «oggettivo» significa in primo luogo un adempimento «senza riguardo alla persona», in base a 'regole prevedibili'" (19).

Non c'è niente in questa descrizione che denunci la definizione burocratica dell'Olocausto o come semplice travestimento della realtà, o come manifestazione di una forma particolarmente mostruosa di cinismo.

Ma l'Olocausto è essenziale per la nostra comprensione del processo di razionalizzazione moderno non solo, e non tanto, perché ci rammenta (come se ne avessimo bisogno!) quanto formale ed eticamente cieca sia la ricerca burocratica dell'efficienza. Il significato dell'Olocausto non risulta pienamente espresso neanche dopo aver compreso in che misura l'omicidio di massa su una scala senza precedenti sia dipeso dalla disponibilità di ben sviluppate e radicate capacità e consuetudini di meticolosa ed esatta divisione del lavoro, di costante cura per la trasmissione fluida degli ordini e delle informazioni, di ben sincronizzata coordinazione di azioni autonome e tuttavia complementari: in che misura sia dipeso, in breve, da quelle capacità e consuetudini che trovano nell'atmosfera dell'ufficio il migliore terreno per crescere e prosperare. La luce gettata dall'Olocausto sulla nostra conoscenza della razionalità burocratica ottiene il suo massimo effetto illuminante una volta che si sia capito quanto "la stessa idea della «soluzione finale» fosse un risultato della cultura burocratica".

Dobbiamo a Karl Schleuner (20) l'idea che lo sterminio fisico della popolazione ebraica europea fosse il punto di arrivo di un percorso tortuoso che non fu né il parto della follia di un unico mostro, né una scelta meditata, compiuta all'inizio di un processo di "problem-solving" da alcuni leader ideologicamente motivati. Il percorso in questione si sviluppò, piuttosto, passo dopo passo, puntando ad ogni fase verso una destinazione diversa, compiendo delle svolte in risposta a crisi sempre nuove e sospinto in avanti dalla filosofia dell'«attraversare il ponte dopo averlo raggiunto». L'ipotesi di Schleuner sintetizza nel migliore dei modi i risultati raggiunti, nella storiografia dell'Olocausto, dalla scuola «funzionalista» (che negli ultimi anni ha rapidamente acquistato importanza a spese degli «intenzionalisti», i quali, da parte loro, trovano sempre più difficile difendere la spiegazione, un tempo dominante, secondo cui l'Olocausto è addebitabile ad una sola causa, in base a un approccio che attribuisce al genocidio una logica motivante e una coerenza mai avute).

Secondo la scuola funzionalista, «Hitler fissò l'obiettivo del nazismo - liberarsi degli ebrei e soprattutto rendere il territorio del Reich "judenfrei", vale a dire libero dalla presenza ebraica - ma senza specificare come esso dovesse essere raggiunto» (21). Una volta stabilito l'obiettivo, tutto procedette come Weber, con la sua consueta chiarezza, aveva spiegato: il «detentore del potere, nei confronti dei funzionari qualificati che si trovano nell'amministrazione, è nella situazione del 'dilettante' nei confronti dello 'specialista'» (22). L'obiettivo doveva essere raggiunto; il modo di farlo dipendeva dalle circostanze, sempre valutate dagli «esperti» in base alla fattibilità e ai costi delle possibili scelte alternative. Così, in un primo momento, la soluzione pratica al problema posto da Hitler fu individuata nell'emigrazione degli ebrei tedeschi: se altri paesi fossero stati più ospitali verso i profughi ebrei, ciò avrebbe portato a una Germania "judenfrei".

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Dopo l'annessione dell'Austria, Eichmann si guadagnò le prime lodi incondizionate per aver accelerato e semplificato l'emigrazione della popolazione ebraica austriaca. Ma poi il territorio sottoposto al dominio nazista cominciò ad allargarsi. In un primo momento la burocrazia nazista vide la conquista e l'appropriazione di territori quasi coloniali come la sognata opportunità di soddisfare in pieno l'ordine del "Führer": il sistema del "Generalgouvernment" sembrava offrire gli spazi desiderati in cui deportare gli ebrei che ancora abitavano sul territorio tedesco vero e proprio, destinato alla preservazione della purezza razziale. Una riserva separata che avrebbe dovuto accogliere il futuro «principato ebraico» fu individuata nelle vicinanze di Nisko, in quella che, prima della conquista, era stata le Polonia centrale. Ma la burocrazia tedesca, gravata dall'amministrazione degli ex territori polacchi, si oppose a questo piano: essa aveva già abbastanza problemi nel sorvegliare la popolazione ebraica locale. Fu così che Eichmann lavorò per un anno intero al progetto del Madagascar: con la Francia ormai sconfitta, la sua remota colonia poteva essere trasformata nel principato ebraico che non era stato possibile creare in Europa. Il progetto del Madagascar, però, si dimostrò altrettanto sfortunato, considerata l'enorme distanza, i problemi del trasporto navale e la presenza della marina militare britannica sugli oceani. Nel frattempo le dimensioni dei territori conquistati continuavano a crescere, insieme al numero degli ebrei soggetti alla giurisdizione tedesca. Al posto del «Reich riunificato» appariva sempre più tangibile la prospettiva di un'Europa dominata dai nazisti. Gradualmente ma costantemente il Reich millenario prendeva la forma ogni giorno più distinta di un continente europeo governato dalla Germania. In queste circostanze l'obiettivo di una Germania "judenfrei" non poteva che adattarsi al processo in corso. Quasi impercettibilmente, passo dopo passo, esso si trasformò nell'obiettivo di un'Europa "judenfrei". Ambizioni di tale portata non potevano ess ere soddisfatte da ipotesi come quella del Madagascar, per quanto praticabili (anche se, secondo Eberhard Jäckel, esiste qualche prova del fatto che ancora nel luglio del 1941, quando Hitler prevedeva di sconfiggere l'URSS nel giro di poche settimane, le vaste distese della Russia oltre la linea Arcangelo-Astrakhan erano considerate come la destinazione finale di tutti gli ebrei provenienti dall'Europa unificata sotto il dominio nazista). Ma la caduta della Russia tardava a materializzarsi e le soluzioni alternative si dimostrarono incapaci di tenere il passo con le crescenti dimensioni del problema; così, il primo ottobre 1941, Himmler ordinò la cessazione di ogni ulteriore emigrazione ebraica. Era stato trovato un altro, più radicale, strumento per portare a termine il compito di «liberarsi dagli ebrei»: lo sterminio fu scelto essendo il più praticabile ed efficace dei mezzi atti a raggiungere l'obiettivo originario, successivamente divenuto più ampio. Il resto fu una questione di cooperazione tra diverse sezioni della burocrazia statale, di attenta pianificazione, di progettazione della tecnologia e delle attrezzature tecniche adatte allo scopo, di bilancio, di calcolo e mobilitazione delle risorse necessarie: a tutti gli effetti, una questione di tediosa routine burocratica.

La più sconvolgente delle lezioni derivanti dall'esame del «tortuoso percorso verso Auschwitz» sta nel fatto che, in ultima analisi, "la scelta dello sterminio come strumento adeguato ad assolvere il compito dell'«Entfernung» fu il prodotto di normali procedure burocratiche": valutazione del rapporto tra mezzi e fini, pareggio del bilancio, applicazione universale della norma. Per rendere l'affermazione ancora più chiara, possiamo dire che la scelta compiuta fu il risultato di uno sforzo estremamente serio inteso a trovare una soluzione razionale a una serie di «problemi» successivi prodotti dal mutare delle circostanze. La scelta in questione fu anche l'esito della tendenza burocratica, ampiamente descritta, alla modificazione dello scopo: un vizio che in tutte le burocrazie risulta tanto normale quanto le presenza di procedure consuetudinarie. La stessa esistenza di funzionari incaricati di uno specifico compito condusse a ulteriori iniziative e al continuo ampliamento degli obiettivi originari. Ancora una volta la competenza dimostrò la sua capacità autopropellente, la sua propensione ad allargare e ad arricchire lo scopo che costituiva la sua "raison d'être".

"La semplice esistenza di un gruppo di esperti del problema ebraico creò una certa spinta burocratica che sosteneva la politica ebraica nazista. Ancora nel 1942, quando le deportazioni e gli

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omicidi di massa erano già in corso, furono emanati dei decreti che proibivano agli ebrei tedeschi di tenere con sé animali domestici, di farsi tagliare i capelli da un barbiere ariano o di ricevere il distintivo sportivo del Reich! Per far sì che gli esperti della questione ebraica alimentassero il flusso delle misure discriminatorie non furono necessari ordini dall'alto, ma semplicemente l'esistenza del compito stesso" (23).

In nessuno momento del suo lungo e tortuoso processo di esecuzione l'Olocausto venne in conflitto con i principi della razionalità. La «soluzione finale» non si scontrò in nessuna fase con la ricerca razionale di un efficiente, ottimale conseguimento dell'obiettivo. Al contrario, "essa scaturì da una preoccupazione genuinamente razionale e fu generata da una burocrazia fedele alla propria forma e al proprio scopo". Sono noti molti massacri, pogrom, omicidi di massa ed altri crimini niente affatto lontani dal genocidio, i quali furono perpetrati senza l'aiuto della moderna burocrazia, delle capacità e delle tecnologie che essa controlla, dei principi scientifici che ispirano la sua gestione interna. L'Olocausto, però, era chiaramente impensabile senza una tale burocrazia. Esso non fu un prodotto irrazionale dei residui, non ancora completamente sradicati, della barbarie premoderna. Trovò, invece, legittima accoglienza nella casa della modernità; a ben guardare sarebbe stato un estraneo in qualsiasi altra collocazione.

Tutto ciò non significa suggerire che la portata dell'Olocausto fu determinata dalla burocrazia moderna o dalla cultura della razionalità strumentale che essa incarna, e ancor meno che tale burocrazia "deve" necessariamente sfociare in fenomeni simili all'Olocausto. Vogliamo però ; effettivamente suggerire che le regole della razionalità strumentale sono singolarmente incapaci di impedire fenomeni del genere, e che non c'è nulla in queste regole a denunciare come sbagliati metodi di ingegneria sociale analoghi a quelli usati nell'Olocausto, o come irrazionali le azioni di cui essi sono stati strumento. Suggeriamo, inoltre, che la cultura burocratica dalla quale siamo spinti a considerare la società come oggetto di amministrazione, come complesso di molteplici «problemi» da risolvere, come «natura» da «controllare», «dominare», «migliorare» o «rimodellare», come materiale su cui esercitare l'«ingegneria sociale» e in generale come giardino da progettare e preservare con la forza nella forma prevista (la mentalità del giardiniere suddivide la vegetazione in «piante coltivate» di cui prendersi cura e in erbacce da estirpare) abbia creato l'atmosfera appropriata in cui l'idea dell'Olocausto poté essere concepita, lentamente ma coerentemente sviluppata e infine portata a compimento. Suggeriamo anche che fu lo spirito della razionalità strumentale e della sua moderna, burocratica forma di istituzionalizzazione a rendere le soluzioni che rispondono alla logica dell'Olocausto non solo possibili, ma fondamentalmente «ragionevoli», aumentando così la probabilità che venissero prescelte. Tale aumento di probabilità è collegato non solo casualmente alla capacità della burocrazia moderna di coordinare l'azione di un gran numero di individui dotati di principi morali nel perseguimento di qualsiasi scopo, anche di uno scopo immorale.

- "La produzione sociale dell'indifferenza morale".

Il dottor Servatius, avvocato difensore di Eichmann a Gerusalemme, sintetizzò con acume la propria linea di difesa nei seguenti termini: Eichmann compì atti per cui si viene decorati se si vince e condannati a morte se si perde. Il messaggio ovvio di questa affermazione - certamente una delle più penetranti di un secolo che davvero non è stato privo di idee sorprendenti - è banale: il potere crea il diritto. Ma l'affermazione contiene un altro messaggio, non così evidente, per quanto non meno cinico e molto più allarmante: Eichmann non fece niente di fondamentalmente diverso da ciò che fecero quanti si trovarono dalla parte dei vincitori. Le azioni non hanno alcun valore morale intrinseco. Né sono immanentemente immorali. Il giudizio morale è qualcosa di esterno all'azione in quanto tale, ispirato a criteri diversi da quelli che guidano e danno forma all'azione stessa.

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Ciò che risulta così allarmante nel messaggio del dottor Servatius è il fatto che esso - una volta svincolato dal proprio contesto e considerato in termini universali e spersonalizzati - non differisce in modo significativo da quanto la sociologia va dicendo da sempre o, a ben guardare, dal senso comune della società razionale moderna, raramente messo in discussione e a ancor più raramente attaccato. L'affermazione del dottor Servatius è scioccante proprio per questa ragione. Essa rivela una verità che in genere si preferisce tacere: finché la validità del senso comune in questione viene accettata come evidente, non esiste alcun modo sociologicamente legittimo di escludere il caso di Eichmann dall'ambito di tale validità.

È ormai risaputo che il tentativo iniziale di interpretare l'Olocausto come un misfatto commesso da criminali incalliti, da sadici, da pazzi, da soggetti antisociali o da altri individui moralmente tarati non ha trovato nessuna conferma nella realtà dei fatti. Il rifiuto di questa ipotesi da parte della ricerca storica è oggi praticamente definitivo. L'attuale tendenza del pensiero storico in proposito è stata adeguatamente sintetizzata da Kren e Rappoport:

"In base ai criteri clinici convenzionali non oltre il 10 per cento delle S.S. poteva essere considerato «anormale». Questa osservazione concorda in linea generale con le testimonianze dei sopravvissuti, le quali rivelano che nella maggior parte dei campi di concentramento c'erano di solito uno o al massimo alcuni uomini delle S.S. noti per i loro violenti eccessi di crudeltà sadica. Non sempre gli altri erano persone rispettabili, ma il loro comportamento veniva per lo meno giudicato comprensibile dai prigionieri...A nostro parere la stragrande maggioranza delle S.S., ivi compresi sia i capi che la truppa, avrebbe facilmente superato tutti i test psichiatrici a cui sono di norma sottoposte le reclute dell'esercito americano o i poliziotti di Kansas City" (24).

Il fatto che la maggioranza di quanti presero parte al genocidio fosse costituita da individui normali che sarebbero tranquillamente passati attraverso tutti gli esami psichiatrici esistenti, per quanto accurati, risulta moralmente inquietante. Risulta inoltre stimolante dal punto di vista teorico, specialmente in relazione alla «normalità» delle strutture organizzative che coordinarono l'azione di questi individui normali in un'impresa di genocidio. Sappiamo già che le istituzioni responsabili dell'Olocausto, sebbene giudicate criminali, in senso strettamente sociologico non erano affatto patologiche o anormali. Ora scopriamo che neanche gli individui la cui attività fu coordinata da tali istituzioni potevano dirsi devianti rispetto agli standard di normalità comunemente accettati. Dunque, non possiamo far altro che riconsiderare, con occhi resi più attenti da quanto abbiamo fin qui verificato, i normali modelli dell'azione razionale moderna, che presumibilmente dovrebbero essere stati già del tutto sviscerati. È in questi modelli che possiamo sperare di scoprire le possibilità così drammaticamente rivelatesi al momento dell'Olocausto.

Nelle celebri parole di Hannah Arendt, il problema più difficile che gli esecutori della "Endlösung" dovettero affrontare (e che risolsero con stupefacente successo, per così dire) fu quello di «soffocare... la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri» (25). Sappiamo già che gli individui facenti parte delle organizzazioni più direttamente coinvolte nell'omicidio di massa non erano né anormalmente sadici né anormalmente fanatici. Possiamo presumere che anch'essi possedessero l'avversione quasi istintuale dell'uomo per la sofferenza fisica, e l'ancor più universale inibizione alla soppressione della vita. Sappiamo addirittura che al momento di arruolare, ad esempio, i membri delle "Einsatzgruppen" o di altre unità ugualmente destinate a frequentare da vicino la scena delle uccisioni, veniva prestata particolare attenzione nello scartare - escludendoli o congedandoli - tutti gli individui eccessivamente entusiasti, emotivamente instabili o ideologicamente troppo zelanti. Sappiamo che le iniziative individuali venivano scoraggiate e che si facevano molti sforzi per mantenere tutte le attività in questione all'interno di confini professionali e strettamente impersonali. I vantaggi e in

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generale le motivazioni di carattere personale erano censurati e penalizzati. Le uccisioni provocate da desiderio o da piacere, a differenza di quelle eseguite in obbedienza ad un ordine e in modo organizzato, potevano condurre (almeno in via di principio) al tribunale e alla prigione, come avveniva per i normali omicidi. In più di un'occasione Himmler manifestò la profonda, e probabilmente genuina, preoccupazione di preservare la salute mentale e sostenere le convinzioni morali dei suoi molti subordinati impegnati quotidianamente in attività disumane; egli espresse anche l'orgoglio di constatare che, a suo parere, sia l'equilibrio mentale che la moralità di questi individui uscivano integri dalla prova. Per citare di nuovo Hannah Arendt, «questa 'concretezza' o 'oggettività' ("Sacklickckeit")... era tipica della mentalità delle S.S... Grazie ad essa, le S.S. si distinguevano da certi tipi 'emotivi' come Streicher, 'poveri idioti' che non a vevano una visione realistica, e anche da certi 'pezzi grossi teutonico-germanici del partito', che 'si comportavano da caproni'» (26). I capi delle S.S. facevano affidamento (a ragione, sembrerebbe) sulla routine organizzativa, non sullo zelo individuale; sulla disciplina, non sulla fede ideologica. La dedizione a un compito così sanguinoso doveva essere - e fu effettivamente - il frutto della fedeltà all'organizzazione.

Il «superamento della pietà animale» non poteva essere ottenuto attraverso la liberazione di altri istinti animali elementari: questi si sarebbero con ogni probabilità dimostrati disfunzionali rispetto alla capacità organizzativa di azione; una moltitudine di individui animati da passioni omicide e vendicative non avrebbe avuto la stessa efficacia di una piccola ma disciplinata e strettamente coordinata burocrazia. E poi, non era affatto certo che si potesse contare sull'apparizione di istinti omicidi in tutte le migliaia di normali impiegati e professionisti che, per via delle pure e semplici dimensioni dell'impresa, dovettero essere coinvolti ai diversi livelli dell'operazione. Nelle parole di Hilberg:

"Coloro che presero parte all'Olocausto non erano tedeschi di tipo particolare... Si sa che la natura stessa della pianificazione amministrativa, della struttura giurisdizionale e del sistema di contabilità precludeva una speciale selezione e formazione del personale. Qualsiasi agente di polizia poteva essere posto a guardia di un ghetto o di un treno. Tutti gli avvocati che lavoravano presso l'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich ["Reichsicherheithauptamt"] erano ritenuti in grado di assumere il comando delle unità mobili incaricate delle uccisioni; ogni esperto finanziario dell'Ufficio economico-amministrativo centrale era considerato adatto a prestare servizio in un campo di sterminio. In altre parole, l'esecuzione di tutte le operazioni necessarie veniva affidata al personale in quel momento disponibile" (27).

Come fu possibile, dunque, trasformare questi normali tedeschi in esecutori di un crimine di massa? Secondo l'opinione di Herbert C. Kelman (28), le inibizioni morali che impediscono di commettere atrocità violente tendono ad essere erose in presenza di tre condizioni, prese singolarmente o nel loro insieme: quando la violenza è "autorizzata" (da ordini ufficiali provenienti da istanze investite di autorità legale), quando le azioni violente sono "routinizzate" (da pratiche rispondenti a norme e da una precisa definizione dei ruoli) e quando le vittime della violenza vengono "disumanizzate" (grazie a una definizione e a un indottrinamento di carattere ideologico). Della terza condizione tratteremo separatamente. Le prime due, però, suonano notevolmente familiari. Esse hanno ripetutamente trovato espressione in quei principi di azione razionale cui è stata data universale applicazione dalle istituzioni più rappresentative della società moderna.

Il primo principio palesemente rilevante ai fini del quesito che ci siamo posti è quello della disciplina organizzativa; più precisamente, quello che richiede di obbedire al comando dei superiori escludendo ogni altra motivazione all'azione, nonché di porre la propria dedizione al servizio degli interessi dell'organizzazione così come sono definiti dagli ordini dei superiori e al di sopra di qualsiasi altro attaccamento e lealtà. Tra le influenze «esterne» che interferiscono con lo spirito di dedizione all'organizzazione, e che perciò devono essere soppresse ed eliminate, le più importanti

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risultano essere le opinioni e le preferenze personali. L'ideale della disciplina punta alla totale identificazione con l'organizzazione, il che, a sua volta, deve comportare la disponibilità a cancellare la propria identità separata e a sacrificare i propri interessi (interessi che, per definizione, non coincidono con i compiti dell'organizzazione). Nell'ideologia organizzativa la disponibilità a questo genere di estremo sacrificio di sé viene definita come virtù morale, destinata addirittura a cancellare tutti gli altri vincoli morali. La disinteressat a osservanza di questa virtù morale viene poi rappresentata, nelle celebri parole di Weber, come onore del pubblico impiegato: «Il funzionario, quando l'autorità a lui preposta insiste - nonostante le sue obbiezioni - su un ordine che a lui sembra errato, tiene ad onore di saperlo eseguire, sulla responsabilità del superiore, coscienziosamente ed esattamente come se esso corrispondesse al proprio convincimento». Questo tipo di comportamento significa, per un funzionario, «abnegazione e disciplina etica nel senso più alto» (29). Attraverso l'onore la disciplina diventa il sostituto della responsabilità morale. La delegittimazione di tutte le norme, eccetto quelle interne all'organizzazione, come fonte e garanzia di correttezza, e perciò la negazione dell'autorità spettante alla coscienza personale, divengono ora la più alta virtù morale. Il disagio che la pratica di tale virtù può causare in certe occasioni viene controbilanciato dall'insistenza con cui i superiori dichiarano che essi e solo essi si assumono la responsabilità delle azioni compiute dai propri subordinati (nella misura in cui questi, naturalmente, eseguono gli ordini ricevuti). Weber completò la sua descrizione dell'onore del pubblico impiegato sottolineando con forza l'«esclusiva responsabilità personale» del capo, «una responsabilità che egli non può e non deve respingere o delegare ad altri». Ohlendorf invocò appunto questo senso di responsabilità quando, durante il processo di Norimberga, gli fu chiesto di spiegare perché non si era dimesso dal comando dell'"Einsatzgruppe" il cui operato egli, come persona, disapprovava: se avesse denunciato le attività del proprio reparto per ottenere di essere sollevato da un incarico che gli pesava, egli avrebbe lasciato che i suoi uomini fossero «ingiustamente accusati». Ovviamente Ohlendorf si aspettava che i suoi superiori si facessero carico della stessa responsabilità paternalistica da lui assunta verso i «propri uomini», il che lo esimeva dal preoccuparsi di valutare moralmente le proprie azioni: una pr eoccupazione che poteva tranquillamente lasciare a coloro che gli ordinavano di agire in un certo modo. «Non credo di essere in condizione di giudicare se le misure prese... fossero morali o immorali... Io subordino la mia coscienza morale al fatto che ero un soldato e perciò un ingranaggio, in una posizione relativamente poco importante, di una grande macchina» (30).

Se il tocco di re Mida tramutava qualsiasi cosa in oro, l'amministrazione delle S.S. trasformava tutto ciò che veniva a cadere nella sua orbita - ivi comprese le sue vittime - in una parte integrante della catena di comando, in un ambito soggetto a norme strettamente disciplinari e svincolate dal giudizio morale. Il genocidio fu un processo composito: come ha osservato Hilberg, esso comprendeva azioni compiute dai tedeschi e azioni compiute - su ordine dei tedeschi, ma spesso con una dedizione sconfinante nell'abbandono di sé - dalle loro vittime ebree. In questo si rivela la superiorità tecnica di un omicidio di massa intenzionalmente programmato e razionalmente organizzato rispetto alla sfrenatezza delle uccisioni orgiastiche. Nel caso di un pogrom la cooperazione delle vittime con gli assassini è inconcepibile. Ma la cooperazione delle vittime con i burocrati delle S.S. faceva parte del piano: a ben guardare era una condizione fondamentale del suo successo. «Una grossa parte dell'intero processo dipendeva dalla partecipazione degli ebrei, sotto forma sia di semplici azioni individuali, sia di attività organizzate dei consigli... I funzionari tedeschi si rivolgevano ai consigli ebraici per ottenere informazioni, denaro, prestazioni di lavoro o attività di polizia, e i consigli offrivano loro continuamente questi mezzi». Il sorprendente risultato di estendere con successo le norme della condotta burocratica - ivi compresa la delegittimazione delle forme di lealtà alternative e dei principi morali in generale - fino a comprendere le vittime predestinate della burocrazia stessa, arrivando così a sfruttare le loro capacità e il loro lavoro per portar e a termine il compito della loro distruzione, fu ottenuto in una duplice maniera (come avviene nell'attività ordinaria di qualsiasi altra burocrazia, ostile o benevola che sia). In primo luogo, il contesto della vita nel ghetto era costruito in modo che tutte le attività dei suoi leader e dei

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suoi abitanti fossero oggettivamente «funzionali» agli scopi dei tedeschi. «Tutto ciò che era destinato a mantenere la sua [del ghetto] vitalità promuoveva nello stesso tempo uno degli obiettivi dei tedeschi... L'efficienza degli ebrei nell'assegnazione degli spazi e nella distribuzione delle razioni era un'estensione dell'efficienza tedesca. Il rigore degli ebrei nella tassazione e nell'utilizzazione del lavoro rafforzava la severità tedesca; persino l'incorruttibilità ebraica poteva essere uno strumento in mano all'amministrazione tedesca». In secondo luogo, venne usata particolare cura nel far sì che in ogni fase del percorso le vittime si trovassero in una situazione di scelta a cui erano applicabili i criteri dell'azione razionale, e di fronte a cui la decisione razionale coincideva invariabilmente con il «progetto manageriale». «I tedeschi riuscirono con notevole successo a deportare gli ebrei in fasi successive perché quanti rimanevano a casa pensavano che il sacrificio di pochi fosse necessario alla preservazione di molti» (31). Di fatto, persino ai già deportati fu lasciata l'opportunità di fare uso della propria razionalità fino all'ultimo. Le camere a gas, chiamate in modo accattivante «sale da bagno», apparivano invitanti dopo giorni e giorni trascorsi in carri bestiame sovraffollati e luridi. Coloro che sapevano la verità e non si facevano illusioni potevano pur sempre scegliere tra una morte «rapida e indolore» e una fine preceduta dalle sofferenze aggiuntive riservate agli insubordinati. Non soltanto, dunque, l'organizzazione esterna del ghetto - su cui le vittime non avevano alcun controllo - era manipolata in modo da trasformare il ghetto nel suo complesso in un'estensione della macchina omicida; ma anche l e facoltà razionali dei «funzionari» di tale apparato aggiuntivo venivano utilizzate per promuovere comportamenti motivati dalla cooperazione e dalla lealtà agli scopi burocraticamente definiti.

- "La produzione sociale dell'invisibilità morale".

Fin qui si è cercato di ricostruire il meccanismo del «superamento della pietà animale», la produzione sociale di una condotta contraria alle inibizioni morali innate nell'uomo, capace di trasformare individui «moralmente sani» secondo tutti i «normali» criteri di giudizio in assassini o in collaboratori consapevoli a un processo di assassinio. Ma l'esperienza dell'Olocausto mette in rilievo anche un altro meccanismo sociale, avente il potere assai più funesto di coinvolgere nel genocidio un numero molto più ampio di persone, che mai nel corso del processo si trovano ad affrontare consapevolmente difficili scelte morali o la necessità di soffocare la resistenza interiore della propria coscienza. In altre parole, qui il carattere morale dell'azione risulta o invisibile o intenzionalmente occultato.

Per citare nuovamente Hilberg, «va tenuto presente che la maggior parte dei partecipanti [al genocidio] non arrivò a sparare su bambini ebrei né a introdurre gas nelle apposite camere... La maggior parte dei burocrati coinvolti stilava promemoria, preparava progetti, parlava al telefono e partecipava a conferenze. Essi erano in grado di distruggere un intero popolo stando seduti alla propria scrivania» (32). Ammesso che costoro fossero consapevoli dell'esito finale di un'attività apparentemente innocua, tale consapevolezza era riposta, nel migliore dei casi, nei recessi remoti della loro mente. Le concatenazioni causali tra le loro azioni e l'omicidio di massa erano difficili da individuare. E risultava irrilevante la ripugnanza morale connessa alla naturale inclinazione umana ad evitare di preoccuparsi più del necessario, e perciò ad astenersi dall'esaminare l'intera catena causale fino ai suoi anelli finali. Per capire come fu possibile una tale stupefacente cecità morale, può essere d'aiuto pensare ai lavoratori di una fabbrica di armi che si rallegrano perché il proprio stabilimento si è «salvato dalla crisi» grazie a nuove importanti ordinazioni, pur condannando nello stesso tempo i massacri reciproci compiuti da etiopi ed eritrei; o pensare al fatto che la «caduta dei prezzi delle materie prime» può essere universalmente accolta come una buona notizia mentre altrettanto universalmente, e sinceramente, si lamenta la «morte per fame dei bambini africani».

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Alcuni anni fa John Lachs individuò nella "mediazione dell'azione" (il fenomeno per cui l'azione di un individuo viene svolta in sua vece da qualcun altro, da un intermediario che «si colloca tra me e la mia azione, rendendomi impossibile esperirla direttamente») uno degli aspetti più significativi e tipici della società moderna. Esiste una grande distanza tra intenzioni e risultati pratici, distanza che viene colmata da tutta una serie di microazioni e di attori irrilevanti. Nel caso dell'«uomo medio» gli esiti dell'azione vengono espulsi dal campo visivo dell'attore.

"Ne deriva che vi sono molte azioni di cui nessuno è consapevolmente responsabile. Per la persona a nome della quale esse vengono eseguite, tali azioni esistono solo a livello verbale o immaginario; questa persona non le riconoscerà come proprie, non avendole mai compiute direttamente. L'individuo che di fatto le ha eseguite, d'altra parte, le vedrà sempre come appartenenti a qualcun altro e considererà se stesso come un semplice strumento innocente di una volontà estranea...Senza un rapporto diretto con le proprie azioni, anche il migliore degli esseri umani si muove in un vuoto morale: il riconoscimento astratto del male non costituisce né una guida affidabile, né una motivazione adeguata... Non dobbiamo sorprenderci dell'enorme e largamente inintenzionale crudeltà degli uomini di buona volontà...La cosa degna di nota è che non siamo incapaci di riconoscere le azioni sbagliate o le ingiustizie gravi quando le vediamo. Ciò che ci sorprende è che esse siano state commesse anche se ciascuno di noi ha compiuto soltanto azioni innocue... È difficile accettare il fatto che spesso non esiste una persona o un gruppo che abbia pianificato o determinato un certo esito. Ed è ancora più difficile vedere come le nostre azioni, attraverso i loro effetti remoti, abbiano contribuito a causare la sofferenza" (33).

L'aumento della distanza fisica e/o psichica tra l'azione e le sue conseguenze produce qualcosa di più che la sospensione dell'inibizione morale: esso annulla il significato morale dell'azione e con ciò previene ogni conflitto tra lo standard personale dell'accettabilità morale e l'immoralità delle conseguenze sociali dell'azione. Quando la maggior parte delle azioni sociologicamente significative viene mediata da una lunga catena di complessi rapporti di dipendenza causale e funzionale, i dilemmi morali scompaiono dalla vista e le occasioni di scrutinio e di scelta morale consapevole diventano sempre più rare.

Un effetto analogo (su scala ancora più impressionante) si ottiene rendendo le vittime stesse psicologicamente invisibili. Questo è stato certamente uno dei fattori più rilevanti responsabili dell'escalation dei costi umani nella guerra moderna. Come ha osservato Philip Caputo, l'ethos della guerra «sembra essere una questione di distanza e di tecnologia. Non si può avere torto uccidendo la gente da lontano con armi sofisticate» (34). Nell'uccisione «a distanza» il legame tra una carneficina e un'azione del tutto innocente - come premere un grilletto, o girare un interruttore della corrente elettrica o battere un tasto sulla tastiera di un computer - è destinato a rimanere una nozione puramente teorica (questa tendenza viene poi enormemente favorita dalla discrepanza di scala tra l'esito e la sua causa immediata, un'incommensurabilità che impedisce facilmente la comprensione basata sull'esperienza del senso comune). È pertanto possibile essere un pilota che sgancia bombe su Hiroshima o su Dresda, eccellere nei compiti svolti in una base di missili t eleguidati o progettare modelli di armi nucleari sempre più devastanti, senza per questo perdere nulla della propria integrità morale e arrivare a una qualche crisi etica (l'invisibilità delle vittime fu, presumibilmente, un importante fattore anche nei tristemente noti esperimenti di Milgram). Avendo presente l'effetto dell'invisibilità delle vittime, è forse più facile comprendere i perfezionamenti successivi apportati alla tecnologia dell'Olocausto. Nella fase delle "Einsatzgruppen" le vittime rastrellate venivano condotte di fronte alle mitragliatrici e uccise con il tiro diretto. Sebbene ci si sforzasse di tenere le armi il più lontano possibile dalle fosse in cui gli assassinati dovevano cadere, era troppo difficile per coloro che facevano fuoco ignorare il legame tra lo sparare e l'uccidere. Per tale ragione gli amministratori del genocidio trovavano questo metodo primitivo e inefficiente, oltre che pericoloso per la coscienza morale degli esecutori. Vennero perciò cercate altre tecniche di assassinio, tali da

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nascondere le vittime alla vista degli uccisori. La ricerca ebbe successo e portò all'invenzione delle camere a gas, dapprima mobili e poi fisse; queste ultime - le più perfette che i nazisti ebbero il tempo di inventare - riducevano il ruolo dell'uccisore a quello di un «ufficiale sanitario», al quale si chiedeva di introdurre una certa quantità di «disinfettanti chimici» attraverso un'apertura nel tetto di un edificio il cui interno egli non era tenuto a visitare.

Il successo tecnico-amministrativo dell'Olocausto fu dovuto in parte alla sapiente utilizzazione dei «tranquillanti morali» messi a disposizione dalla tecnologia e dalla burocrazia moderne. Tra essi i più importanti furono la naturale invisibilità delle connessioni causali interne a un sistema di interazione complesso, e la collocazione «a distanza» degli esiti sgradevoli e moralmente ripugnanti dell'azione, fino al punto di renderli invisibili all'attore. I nazisti, tuttavia, si mostrarono particolarmente abili nell'utilizzazione di un terzo metodo, neanche questo di loro invenzione ma da essi portato a un grado di perfezionamento senza precedenti. Tale metodo consisteva nel rendere invisibile la stessa umanità delle vittime. Il concetto di "universo degli obblighi" sviluppato da Helen Fein («la cerchia di persone legate tra loro da obblighi di reciproca protezione, i cui vincoli derivano dal comune rapporto con una divinità o una fonte consacrata di autorità») (35) contribuisce in misura significativa a illuminare i fattori socio-psicologici che sono alla base della terrificante efficacia di questo metodo. L'«universo degli obblighi» designa i confini esterni del territorio sociale all'interno del quale possono essere poste questioni morali dotate di senso. Al di là di tali confini i precetti morali non sono vincolanti e i giudizi morali risultano privi di senso. Per rendere invisibile l'umanità delle vittime è sufficiente espellere queste ultime dall'universo degli obblighi.

Nella visione nazista del mondo - articolata sull'unico, superiore e incontestato valore dei diritti spettanti alla germanicità - escludere gli ebrei dall'universo degli obblighi era necessario per privarli dell'appartenenza alla nazione e alla comunità riunita nello stato tedesco. In un altro penetrante passaggio di Hilberg si legge: «Quando, all'inizio del 1933, un impiegato statale usò per la prima volta l'espressione 'non ariano' in un'ordinanza amministrativa, il destino degli ebrei europei era ormai segnato» (36). Per ottenere la cooperazione (o almeno la passività o l'indifferenza) degli europei non tedeschi era necessario fare di più. Se privare gli ebrei della loro germanicità era sufficiente per le S.S. tedesche, evidentemente non bastava a nazioni che, anche nel caso in cui apprezzassero le idee promosse dai nuovi dominatori d'Europa, avevano motivo di temere e rifiutare le loro pretese al monopolio della virtù umana. Dopo che l'obiettivo di una Germania "judenfrei" si era trasformato in quello di un'Europa "judenfrei", l'espulsione degli ebrei dalla nazione t edesca doveva essere sostituita dalla loro totale disumanizzazione. Di qui l'associazione, prediletta da Frank, tra «ebrei e pidocchi», il cambiamento di registro retorico espresso dallo spostamento della «questione ebraica» dal contesto dell'autodifesa razziale all'universo linguistico della «pulizia personale» e dell'«igiene politica», i manifesti contro il tifo attaccati sui muri dei ghetti e, infine, l'ordinazione dei prodotti chimici necessari per l'atto finale alla Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung, la Società tedesca per la lotta contro i parassiti.

- "Le conseguenze morali del processo di civilizzazione".

Esistono molte interpretazioni del processo di civilizzazione, ma la più comune (ed ampiamente condivisa) è quella che implica due fattori decisivi: la soppressione delle spinte irrazionali e fondamentalmente antisociali, e la graduale ma costante eliminazione della violenza dalla vita sociale (più precisamente, la concentrazione della violenza sotto il controllo dello stato, che ne fa uso per salvaguardare i confini della comunità nazionale e le condizioni dell'ordine sociale). Ciò che fonde questi due fattori decisivi in uno solo è la visione della società civilizzata - almeno nella sua forma occidentale e moderna - innanzi tutto e principalmente come forza morale, come sistema di

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istituzioni complementari cooperanti nell'imporre un ordine normativo e il primato della legge, i quali a propria volta garantiscono le condizioni della pace sociale e della sicurezza individuale, scarsamente difese nei sistemi che hanno preceduto la civilizzazione.

Questa immagine non è necessariamente fuorviante. Alla luce dell'Olocausto, tuttavia, appare certamente unilaterale. Mentre tematizza importanti tendenze della storia recente, preclude l'analisi di altri sviluppi ugualmente cruciali. Concentrandosi su una certa faccia del processo storico, traccia una linea di divisione arbitraria tra norma e anormalità. Trascurando alcuni aspetti persistenti della civilizzazione, suggerisce erroneamente che essi siano di natura fortuita e transitoria, occultando nello stesso tempo la palese consonanza tra le loro principali caratteristiche e i presupposti normativi della modernità. In altre parole, distoglie l'attenzione dalle tendenze alternative e distruttive del processo di civilizzazione e di fatto mette a tacere ed emargina quei critici che insistono sulla duplicità del sistema sociale moderno.

Nel presente lavoro si suggerisce che la principale lezione dell'Olocausto consiste nella necessità di prendere sul serio tali critiche, allargando così il modello teorico del processo di civilizzazione in modo da includervi la tendenza a penalizzare, destituire di autenticità e delegittimare le motivazioni etiche dell'azione sociale. È necessario valutare attentamente il fatto che "il processo di civilizzazione si presenta, tra le altre cose, come un processo che sottrae l'uso e lo spiegamento della violenza al giudizio morale e svincola i criteri di razionalità dall'interferenza elle norme etiche o delle inibizioni morali". Poiché la promozione della razionalità a principio che esclude criteri di azione alternativi e, in particolare, la tendenza a subordinare l'uso della violenza al calcolo razionale sono state da tempo identificate come aspetti costitutivi della civiltà moderna, i fenomeni che rientrano nella logica dell'Olocausto devono essere riconosciuti come esiti legittimi del processo di civilizzazione e come suo costante potenziale.

Rileggere a posteriori l'analisi weberiana delle condizioni e dei meccanismi della razionalizzazione rivela queste importanti, ma finora sottovalutate, connessioni. Si vede allora più chiaramente che le condizioni della gestione razionale delle attività produttive - tra cui la nota separazione tra economia domestica e impresa, o tra reddito privato e denaro pubblico - funzionano contemporaneamente come potenti fattori che isolano l'azione finalizzata, razionale, dal rapporto con processi governati da altre norme (per definizione irrazionali), svincolandola dai postulati della mutua assistenza, della solidarietà, del reciproco rispetto e così via, postulati che vengono rispettati nelle associazioni non produttive. Questo esito generale della tendenza razionalizzatrice è stato codificato e istituzionalizzato, non certo inaspettatamente, nella moderna burocrazia. Per quest'ultima, secondo un'analoga rilettura a posteriori, il mettere a tacere la morale si rivela come la principale preoccupazione: come, a ben guardare, la condizione fondamentale del suo successo in quanto strumento di coordinazione razionale dell'azione. Inoltre, nel perseguire in modo impeccabilmente razionale la propria quotidiana attività di "problem-solving", essa si dimostra capace di generare soluzioni analoghe a quella dell'Olocausto.

Una revisione della teoria del processo di civilizzazione secondo le linee qui suggerite comporterebbe necessariamente una trasformazione della sociologia stessa. La natura e lo stile di lavoro della sociologia sono stati posti in consonanza proprio con quella società moderna che essa studia e teorizza fin dalla propria nascita la sociologia è stata coinvolta in un rapporto mimetico con il proprio oggetto di analisi o, piuttosto, con l'immagine di tale oggetto che essa ha costruito e accettato come cornice del proprio discorso. Così facendo, la sociologia ha promosso a propri criteri di validità gli stessi principi di azione razionale che riconosceva come costitutivi del suo oggetto. Essa ha anche promosso, come regola vincolante del proprio discorso, l'inaccettabilità della problematica morale in tutte le forme diverse da quella di un'ideologia socialmente condivisa, e perciò eterogenee rispetto al discorso sociologico (scientifico, razionale). "Espressioni come

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«sacralità della vita umana» o «dovere morale» suonano estranee tanto in un seminario di sociologia quanto nelle stanze asettiche di un ufficio burocratico".

Osservando nella pratica professionale i principi che abbiamo visto, la sociologia non ha fatto altro che ritagliarsi un suo spazio nella cultura scientifica. In quanto parte del processo di razionalizzazione, anche la cultura non può sfuggire a un più attento esame da parte nostra. Dopotutto, il silenzio morale che la scienza si è autoimposto ha rivelato alcuni dei suoi aspetti meno propagandati nel momento in cui ad Auschwitz la produzione e l'eliminazione dei cadaveri furono qualificate come «problema medico». Non è facile respingere gli ammonimenti di Franklin M. Littel sulla crisi di credibilità dell'università moderna: «In che tipo di facoltà di medicina si sono formati Mengele e i suoi collaboratori? Quale dipartimento di antropologia ha preparato il personale dell'Istituto di eredità ancestrale dell'Università di Strasburgo?» (37). Se non si desidera essere colti di sorpresa al momento di scoprire per chi suona una certa campana, se si vuole evitare la tentazione di accantonare queste domande come questioni di carattere meramente storico, è sufficiente prestare attenzione allo studio di Colin Gray sulle spinte che sono alla base della corsa agli armamenti nucleari:

"A quanto si dice, da ambo le parti scienziati e tecnici stanno «correndo» per ridurre la propria ignoranza (il nemico non è rappresentato dalla tecnologia sovietica, ma dalle incognite della fisica che attraggono l'attenzione scientifica)... Gruppi di ricercatori fortemente motivati, tecnologicamente competenti e adeguatamente dotati di fondi produrranno inevitabilmente una serie interminabile di progetti per armi nuove di zecca (o perfezionate)" (38).

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NOTE AL CAPITOLO PRIMO.

(1). Confer K. Lorenz, "Das sogenannte Böse: Zur Naturgeschicbte der Aggression", Wien, Schoeler, 1963, trad. it. "L'aggressività ", Milano, Mondadori, 1986; A. Koestler, "Janus: A Summing Up", London, Hutchinson, 1978, trad. it. "Il principio di Giano", Milano, Comunità, 1980. Tra le molte opere che tentano di sviluppare una teoria dell'imperfezione immanente della natura umana per offrire una spiegazione dell'Olocausto occupa un posto di primo piano quella di I. W. Charny, "How Can we Commit the Unthinkable?", Boulder, Westview Press, 1982. L'opera contiene un'esame generale delle teorie riguardanti la natura umana e prende in considerazione ipotesi del tipo «l'uomo è malvagio per natura» ;, «il potere tende ad inebriare», o «si sacrifica l'umanità degli altri per risparmiare la propria». Il lavoro di W. S. Flory, "The Psychology of Antisemitism", in "Antisemitism in the Contemporary World", a cura di M. Curtis, Boulder, Westview Press, 1986, spiega l'Olocausto con la tenacia dell'antisemitismo, l'antisemitismo con l'universalità del pregiudizio, il pregiudizio con «la più fondamentale e intuitiva delle motivazioni umane: l'egoismo», che a sua volta viene spiegato come il «risultato di un'altra caratteristica umana...: l'orgoglio, che ci rende disposti praticamente a tutto pur di non ammettere a noi stessi di aver sbagliato» (p. 240). La Flory sostiene che la società, per prevenire gli effetti distruttivi del pregiudizio, deve fare in modo che esso «(come avviene per altri tipi di egoismo) venga rigorosamente controllato e contenuto» (p. 249).

(2). «Angela Davis viene trasformata in una casalinga ebrea sulla strada per Dachau; un taglio al programma di sovvenzioni alimentari diventa un tentativo di genocidio; "i boat people" vietnamiti si tramutano negli sventurati profughi ebrei degli anni trenta», come si legge ad esempio in H. L. Feingold, "How Unique is the Holocaust?, in Genocide: Critical Issues of the Holocaust", a cura di A. Grobman e D. Landes, Los Angeles, The Simon Wiesenthal Centre, 1983, p. 398.

(3). G.M. Kren e L. Rappoport, "The Holocaust and the Crisis of Human Bebaviour", New York, Holmes & Meier, 1980, p. 2.

(4). E.C. Hughes, "Good People and Dirty Work", in «Social Problems», estate 1962, p.p. 3-10.

(5). Confer H. Fein, "Accounting for Genocide: National Response and Jewish Victimization during the Holocaust", New York, Free Press, 1979.

(6). Ibidem, p. 34.

(7). N. Tec, "When Light Pierced the Darkness", Oxford, Oxford University Press, 1986, p. 193.

(8). J.K. Roth, "Holocaust Business", in «Annals of AAPSS», 450, (luglio 1980), p. 70.

(9). H.L. Feingold, "How Unique is the Holocaust?", cit., p.p. 399-400.

(10). E. Stifiman e W. Pfaff, "The Politics of Hysteria", New York, Harper & Row, 1964, p.p. 30-3 l.

(11). R. Hilberg, "The Destruction of the European Jews", New York, Holmes & Meier, 1983, vol. 3, p. 994.

(12). R.L. Rubenstein, "The Cunning of History", New York, Harper, 1978, p.p. 91, 195.

(13). "Confer Western Society after the Holocaust", a cura di L.H. Legters, Boulder, Westview Press, 1983.

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(14). Nelle parole dell'ex ministro degli Esteri di Israele, Abba Eban, «Per il signor Begin e i suoi sostenitori ogni nemico diventa un 'nazistÀ, ogni attacco diventa un 'Auschwitz'». Eban continua: «È tempo che noi ci reggiamo sulle nostre gambe, non su quelle dei sei milioni di morti», citato in M.R. Marrus, "Is there a New Antisemitism?", in " Antisemitism in the Contemporary World", a cura di M. Curtis, cit., p.p. 177-8. Affermazione come quelle fatte da Begin invitano a risposte dello stesso tipo; così, il «Los Angeles Times» attribuisce a Begin «il linguaggio di Hitler», mentre un altro giornalista americano scrive che gli occhi dei palestinesi guardano Begin dalle foto dei bambini ebrei inviati nelle camere a gas.

(15). G.M. Kren e L. Rappoport, "The Holocaust and the Crisis of Human Bebavior", cit., p.p. 126, 143.

(16). L. Kuper, "Genocide: Its Political Use in the Twentieth Century" ;, New Haven, Yale University Press, 1981, p. 16 l.

(17). C.R. Browning, "The German Bureaucracy and the Holocaust", in "Genocide", a cura di A. Grobman e D. Landes, cit., p. 148.

(18). L. Kuper, "Genocide", cit., p. 121.

(19). M. Weber, "Wirtschaft und Gesellschaft", Tübingen, Mohr, 1922, trad. it. "Economia e società", Milano, Comunità, 1980, p.p. 75-6. Nel suo esame generale e nella sua valutazione partigiana del lavoro degli storici dull'Olocausto ("The Holocaust and the Historians", Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1981) L.S. Dawidowicz respinge l'assimilazione dell'Olocausto ad altri casi di omicidio di massa, come la distruzione di Hiroshima e Nagasaki: «Lo scopo del bombardamento era quello di dimostrare la superiorità della potenza militare americana»; il bombardamento «non fu motivato dal desiderio di sterminare il popolo giapponese» (p.p. 17-18). Dopo aver fatto questa osservazione evidentemente fondata, Dawidowicz trascura però un punto importante: l'uccisione di duecentomila giapponesi fu concepita (e messa in atto) come mezzo efficace per raggiungere l'obiettivo prefissato: essa fu, dunque, un prodotto della mentalità del "problem-solving".

(20). Confer K.A. Schleunes, "The Twisted Road to Auschwitz: Nazi Policy Toward German Jews, 1933-39", Champaign, III., University of Illinois Press, 1970.

(21). M.R. Marrus, "The Holocaust in History", London, University Press of New England, 1987, p. 41.

(22). M. Weber, "Economia e società", cit., p. 9 l.

(23). C.R. Browning, "The German Bureaucracy", cit., p. 147.

(24). G.M. Kren e L. Rappoport, "The Holocaust and the Crisis of Human Bebavior", cit., p. 70.

(25). H. Arendt, "Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil", New York, Viking Press, 1964, trad. it. "La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme", Milano, Feltrinelli, 1964, p. 113.

(26). Ibidem, p. 77.

(27). R. Hilberg, "The Destruction of the European Jews", cit., p. 1011.32

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(28). Confer H.C. Kelman, "Violence without Moral Restraint", in «Journal of SociaI Issues», 29 (1973), p.p. 29-61.

(29). M. Weber, "Politik als Beruf", in "Gesammelte politische Schriften", Tübingen, Mohr, 1921, trad. it. "La politica come professione", in "Il lavoro intellettuale come professione", Torino, Einaudi, 1980', p. 72. Durante il processo in cui era imputato, Eichmann insistette sul fatto di aver obbedito non soltanto a degli ordini, ma alla legge. La Arendt osserva che egli (e non necessariamente soltanto egli) deformò l'imperativo categorico di Kant in modo da farlo sembrare a favore non dell'autonomia individuale, ma della subordinazione burocratica: «Agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese», H. Arendt, "La banalità del male", cit., p. 143.

(30). Cit. in R. Wolfe, "Putative Threat to National Security at a Nurenberg Defence for Genocide", in «Annals of AAPSS», 450 (luglio 1980), p. 64.

(31). R. Hilberg, "The Destruction of the European Jews", cit., p.p. 1036-8, 1042.

(32). Ibidem, p. 1024.

(33). J. Lachs, "Responsability of the Individual in Modern Society", Brighton, Harvester, 1981, p.p. 12-13, 58.

(34). P. Caputo, "A Rumor of War", New York, Holt, Rinchart & Winston, 1977, p. 229.

(35). H. Fein, "Accounting for Genocide", cit., p. 4.

(36). R. Hilberg, "The Destruction of the European Jews", cit., p. 1044.

(37). F.M. Littell, "Fundamentals in Holocaust Studies", in «Annals of AAPSS», luglio 1980, n. 450, p. 213.

(38). C. Gray, "The Soviet-American Arms Race", Lexington, Saxon House, 1976, p.p. 39, 40.

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2. MODERNITÀ, RAZZISMO, STERMINIO [1].

Sono pochi i legami che sembrano più evidenti di quello tra Olocausto e antisemitismo. Gli ebrei d'Europa vennero uccisi perché erano odiati dai tedeschi e da coloro che nelle altre nazioni li aiutarono nell'impresa. L'Olocausto fu il culmine spettacolare di una storia di secolare avversione religiosa, economica, culturale e nazionale. È questa la spiegazione dell'Olocausto che per prima corre alla mente. Essa si presenta come «spiegazione logica» (se ci è consentito indulgere in paradossi). Ma l'apparente chiarezza di questo nesso causale non supera la prova di un esame più attento.

Grazie alle accurate ricerche storiche condotte nel corso degli ultimi decenni, oggi sappiamo che prima dell'ascesa al potere dei nazisti, e ancora molto dopo il consolidamento del loro dominio in Germania, l'antisemitismo popolare tedesco seguiva a buona distanza l'odio per gli ebrei presente in diversi altri paesi europei. Già molto prima che la repubblica di Weimar portasse a termine il lungo processo dell'emancipazione ebraica, la Germania era ampiamente riconosciuta a livello internazionale dagli ebrei come un'oasi di uguaglianza nazionale e religiosa e di tolleranza. All'inizio di questo secolo il numero dei docenti universitari e dei professionisti ebrei era molto più elevato in Germania che in America e in Gran Bretagna. L'ostilità popolare per gli ebrei non era né profondamente radicata né diffusa. E quasi mai si manifestò in quelle esplosioni di violenza pubblica che erano così comuni in altre parti d'Europa. I tentativi nazisti di portare alla superficie l'antisemitismo popolare organizzando pubbliche manifestazioni di violenza antiebraica si dimostrarono controproducenti e dovettero essere abbandonati. Uno dei più eminenti storici dell'Olocausto, Henry L. Feingold, è giunto alla conclusione che, se fossero stati fatti dei sondaggi di opinione per misurare l'intensità degli atteggiamenti antisemiti «durante il periodo di Weimar, avremmo probabilmente scoperto che l'avversione dei tedeschi per gli ebrei era inferiore a quella dei francesi» (1). Durante il processo di sterminio, l'antisemitismo popolare non divenne mai una forza attiva. Al massimo si ritiene che esso abbia indirettamente contribuito all'omicidio di massa alimentando l'apatia con cui la maggior parte dei tedeschi accoglieva il destino degli ebrei quando ne era a conoscenza, oppure accettava di ignorarlo. Nelle parole di Norman Cohn, «la gente era riluttante a prendere le difese degli ebrei. La vasta diffusione dell'indifferenza, la facilità con cui le persone si dissociavano dagli ebrei e dal loro destino furono certamente in parte il risultato della vaga convinzione che... gli ebrei fossero in qualche modo misteriosi e pericolosi» (2). Richard L. Rubenstein procede oltre di un passo o due e suggerisce che l'apatia tedesca - l'abituale attitudine dei tedeschi a cooperare per inadempienza, se così si può dire - non può essere pienamente compresa se non ci si pone la seguente domanda: «La maggioranza dei tedeschi considerava l'eliminazione degli ebrei come un beneficio?» (3). Ci sono altri storici, tuttavia, che hanno spiegato la «cooperazione per mancata resistenza» con altri fattori, tra cui non è necessariamente inclusa nessuna credenza circa la natura e il carattere peculiare degli ebrei. Walter Laqueur, ad esempio, sottolinea il fatto che «pochissime persone erano interessate al destino degli ebrei. La maggior parte doveva affrontare molti problemi più importanti. Era un argomento spiacevole, pensarci non serviva a niente, e le discussioni sul destino degli ebrei venivano lasciate cadere. Per tutta la durata della guerra questo argomento fu evitato, cancellato» (4).

C'è un'altra questione che la spiegazione dell'Olocausto in termini di antisemitismo è impreparata ad affrontare. L'antisemitismo - religioso o economico, culturale o razziale, virulento o moderato - è

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stato per millenni un fenomeno quasi universale. E tuttavia l'Olocausto fu un evento senza precedenti. Praticamente in tutti i suoi aspetti esso risulta un caso a sé stante e non offre nessuna possibilità di confronto con altri massacri, per quanto cruenti, compiuti contro gruppi definiti come estranei, ostili o pericolosi. È evidente che, essendo un fenomeno costante e generalizzato, l'antisemitismo non può di per sé spiegare l'unicità dell'Olocausto. Inoltre, non è affatto ovvio che la presenza dell'antisemitismo, certamente una condizione necessaria della violenza antiebraica, possa essere considerata anche come condizione sufficiente, il che rende il problema ancora più complesso. Secondo l'opinione di Norman Cohn, la vera causa materiale e operativa della violenza è l'esistenza di un gruppo organizzato di «assassini professionisti di ebrei» (fenomeno non svincolato dall'antisemitismo, ma assolutamente non coincidente con esso); in mancanza di questa condizione, l'ostilità verso gli ebrei, per quanto intensa, non è praticamente mai sfociata nell'aggressione fisica:

"I pogrom come esplosioni spontanee di furia popolare sembrano essere un mito e di fatto non esiste nessun caso accertato in cui gli abitanti di una città o di un villaggio si siano semplicemente gettati sui propri concittadini ebrei e li abbiano massacrati. Ciò non è mai accaduto neanche nel Medioevo... Nell'epoca moderna l'iniziativa popolare è stata ancor meno evidente, poiché gli stessi gruppi organizzati si sono dimostrati efficaci solo quando eseguivano la politica e godevano dell'appoggio di un qualche tipo di autorità" (5).

In altre parole, l'ipotesi secondo cui la violenza antiebraica in generale e l'evento unico dell'Olocausto in particolare sarebbero «una manifestazione esasperata di sentimenti antiebraici», «antisemitismo al massimo grado di intensità» o l'esplosione dell'avversione popolare per gli ebrei» risulta debole e scarsamente fondata dal punto di vista storico e della realtà contemporanea. Da solo, l'antisemitismo non fornisce alcuna spiegazione dell'Olocausto (più generalmente possiamo dire che "l'avversione non costituisce di per sé una spiegazione soddisfacente in nessun caso di genocidio"). Se è vero che l'antisemitismo risultò funzionale, e forse indispensabile, al concepimento e alla messa in atto dell'Olocausto, è altrettanto vero che l'antisemitismo di quanti progettarono e gestirono l'omicidio di massa deve essere stato diverso, per qualche importante aspetto, dai sentimenti antiebraici, ammesso che esistessero, degli esecutori, dei collaboratori e dei testimoni compiacenti. È anche evidente che, per rendere possibile l'Olocausto, l'antisemitismo di qualsiasi tipo doveva essere fuso con determinati altri fattori di carattere completamente diverso. Invece di indagare i misteri della psicologia individuale, è necessario chiarire i meccanismi sociali e politici capaci di produrre questi fattori aggiuntivi ed esaminare la loro reazione potenzialmente esplosiva a contatto con i tradizionali antagonismi tra gruppi.

- "Alcune peculiarità dell'estraniazione ebraica".

Quando, verso la fine del diciannovesimo secolo, il termine «antisemitismo» fu coniato ed entrò nell'uso generale, si riconobbe che il fenomeno di cui quel termine rappresentava un tentativo di definizione aveva una lunga storia alle proprie spalle, che risaliva all'antichità; si vide che nel corso dei millenni una continuità praticamente ininterrotta caratterizzava la manifestazione storica dell'avversione e della discriminazione verso gli ebrei. Per consenso quasi generale, gli storici collegavano le origini dell'antisemitismo alla distruzione del Secondo Tempio (nel 70 d.C.) e all'inizio della diaspora, anche se vennero condotte molte interessanti ricerche su pregiudizi e pratiche, per così dire, proto-antisemitici, risalenti già all'epoca dell'esilio babilonese. (Un provocatorio e controverso studio sull'antisemitismo «pagano» fu pubblicato all'inizio degli anni venti dallo storico sovietico Salomo Luria.)

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Dal punto di vista etimologico, «antisemitismo» non è un termine felice, in quanto definisce il proprio referente in modo insufficiente (troppo ampio, nel complesso) e non individua il vero oggetto delle pratiche che si propone di isolare. (I nazisti, i più accaniti fautori dell'antisemitismo che la storia ricordi, divennero sempre più cauti nell'uso del termine, specialmente durante la guerra, quando la chiarezza semantica del concetto si trasformò in una questione politicamente pericolosa, poiché l'espressione era evidentemente rivolta anche contro alcuni dei più fedeli alleati tedeschi.) Sul piano pratico, però, la controversia semantica è risultata in buona misura priva di riflessi e il concetto è stato usato senza equivoci a spese delle vittime designate. Il termine «antisemitismo» indica l'avversione per gli ebrei. Esso si riferisce alla concezione degli ebrei come gruppo estraneo, ostile e indesiderabile, nonché alle pratiche che, derivando da tale concezione, a loro volta la sostengono.

L'antisemitismo differisce da altri casi di inimicizia prolungata tra gruppi da un importante punto di vista: i rapporti sociali di cui le idee e le pratiche dell'antisemitismo possono essere un aspetto non sono mai rapporti tra due gruppi separatamente dislocati sul territorio e che si confrontano su una base di parità: sono, piuttosto, rapporti tra maggioranza e minoranza, tra una popolazione «ospitante» e un gruppo più piccolo che vive al suo interno pur conservando la propria distinta identità e che per questo - essendola parte più debole - rappresenta l'oggetto designato dell'opposizione, i «loro» separati dai «noi» indigeni. Le vittime dell'antisemitismo hanno di norma lo status, sconcertante dal punto di vista semantico e inquietante da quello psicologico, di «stranieri in patria», scavalcando con ciò un confine vitale che dovrebbe essere tracciato con chiarezza e restare intatto ed incrollabile. L'intensità dell'antisemitismo è con ogni probabilità proporzionale all'urgenza e alla ferocia dell'impulso che spinge a tracciare e definire i confini (6). Molto spesso l'antisemitismo è stato una manifestazione esterna del bisogno di difendere tali confini, con tutte le tensioni emotive e le preoccupazioni pratiche che ciò comporta.

È ovvio che queste caratteristiche uniche dell'antisemitismo sono inestricabilmente connesse al fenomeno della diaspora. Anche la diaspora ebraica, tuttavia, si distingue dalla maggior parte degli altri episodi conosciuti di migrazione e reinsediamento di gruppi. Il più macroscopico aspetto distintivo della diaspora ebraica è dato dalla pura e semplice durata del tempo storico attraverso cui questi particolari «stranieri tra noi» hanno conservato la propria separatezza, sia nel senso della continuità diacronica, sia in quello dell'autoriconoscimento sincronico. Diversamente da quanto è avvenuto nella maggior parte degli altri casi di reinsediamento, dunque, le risposte in difesa dei confini di fronte alla presenza ebraica hanno avuto tempo sufficiente per sedimentarsi e istituzionalizzarsi come rituali codificati, dotati di un'intrinseca capacità autoriproduttiva, i quali rafforzavano a loro volta il perdurare della separazione. Un altro aspetto peculiare della diaspora ebraica era costituito dalla totale assenza di una patria, caratteristica che gli ebrei condividevano forse soltanto con gli zingari. Il legame originari o degli ebrei con la terra d'Israele è diventato sempre più tenue nel corso dei secoli, riducendosi alla sola dimensione spirituale. Quest'ultima, tuttavia, venne contestata dalle popolazioni ospitanti, allorché Israele divenne la Terra Santa, rivendicata da quelle stesse popolazioni in nome della propria ascendenza spirituale. Per quanto potessero essere ostili alla presenza ebraica nel proprio paese, gli ospiti sarebbero stati ancora più ostili al ritorno della Terra Santa nelle mani di coloro che essi consideravano come pretendenti illegittimi.

La permanente e irrimediabile assenza di una patria fu parte integrante dell'identità ebraica praticamente fin dalle origini della diaspora. E proprio questo fatto fu usato dai nazisti come principale argomento contro gli ebrei e venne utilizzato da Hitler a sostegno dell'affermazione secondo cui l'ostilità nei confronti degli ebrei era di tipo radicalmente diverso dal comune antagonismo tra nazioni o razze rivali.

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(Come ha dimostrato Eberhard Jäckel (7), fu la perpetua e generalizzata mancanza di una patria ciò che, più di qualsiasi altra cosa, isolò agli occhi di Hitler gli ebrei da tutti gli altri popoli che egli odiava e desiderava ridurre in schiavitù o distruggere.Hitler credeva che, non disponendo di uno stato territoriale, gli ebrei non potessero partecipare all'universale lotta per il potere nella sua forma consueta di guerra mirante alla conquista di terre, e che per questo dovessero servirsi in alternativa di metodi immorali, surrettizi e occulti che ne facevano un nemico particolarmente forte e minaccioso (8); un nemico che, inoltre, non sarebbe probabilmente mai stato soddisfatto o pacificato e che quindi, per essere ridotto all'impotenza, andava distrutto.)

Nell'Europa premoderna, tuttavia, la peculiare alterità degli ebrei non impedì, nel complesso, la loro accettazione nell'ordine sociale prevalente. Tale accettazione fu possibile grazie all'intensità relativamente bassa delle tensioni e dei conflitti generati dai processi di demarcazione e conservazione dei confini. Ma fu anche facilitata dalla struttura segmentata della società premoderna e dalla normalità della separazione tra i suoi diversi segmenti. In una società divisa in ceti o caste, gli ebrei costituivano appunto un ceto o una casta tra molti altri. Il singolo ebreo era definito dalla casta alla quale apparteneva e dagli specifici privilegi o oneri di cui quella casta godeva o era gravata. Ma lo stesso principio si applicava ad ogni altro membro della società. Gli ebrei vivevano in una condizione di separatezza, la quale però non li rendeva affatto unici. Il loro status, come quello di tutti gli altri gruppi analoghi alle caste, era definito ed efficacemente perpetuato e difeso dalle pratiche generali connesse alla conservazione della purezza e alla prevenzione della contaminazione. Per quanto diverse, queste pratiche erano unificate da una comune funzione: quella di creare una distanza di sicurezza e di renderla, nei limiti del possibile, invalicabile. La separazione tra i gruppi era ottenuta tenendoli fisicamente divisi l'uno dall'altro (riducendo al minimo quei rapporti che non fossero strettamente controllati e ritualizzati), rendendo i singoli membri di un gruppo riconoscibili come tali o favorendo la separazione spirituale tra i gruppi, in modo da precludere ogni osmosi culturale e il livellamento delle differenze di cultura che ne sarebbe potuto derivare. Per secoli gli ebrei furono individui che vivevano in un quartiere separato della città e indossavano abiti completamente diversi (talvolta prescritti dalla legge, in particolare quando le tradizioni comunitarie non sortivano l'effetto di salvaguardare l'uniformità della distinzione). La separazione del domicilio, tuttavia, non era sufficiente, poiché nella maggior parte dei casi l'economia del ghetto e quella della comunità ospitante erano interconnesse e perciò necessitavano di regolari contatti fisici. La distanza territoriale doveva perciò essere coadiuvata da un rituale accuratamente codificato, avente lo scopo di formalizzare e funzio nalizzare quei contatti laddove non potevano essere evitati. I rapporti che resistevano a questa formalizzazione e riduzione funzionale erano in buona misura proibiti o almeno scoraggiati. Come nella maggior parte dei rituali intesi a preservare i confini delle caste e ad ostacolare la contaminazione, tra le proibizioni più rigidamente imposte ed osservate c'erano quelle del "connubium" e della commensalità (oltre che del "commercium", con l'eccezione dei suoi aspetti strettamente funzionali).

È però importante ricordare che tutte queste misure apparentemente destinate a favorire l'antagonismo erano, nello stesso tempo, veicolo di integrazione sociale. Nel complesso esse disinnescavano il pericolo che uno «straniero in patria» rappresenta sempre e comunque per l'identità e l'autoriproduzione del gruppo ospitante. Esse creavano le condizioni m cui era possibile una coabitazione senza attrito. Articolavano norme comportamentali che, se rigidamente osservate, erano in grado di garantire una coesistenza pacifica in una situazione potenzialmente carica di conflitti ed esplosiva. Come ha spiegato Simmel, l'istituzionalizzazione ritualistica trasformava il conflitto in uno strumento di associazione e di coesione sociale. Finché si conservano efficaci, le pratiche di separazione non invocano il supporto dell'ostilità. La riduzione del commercio a una serie di scambi strettamente ritualizzati richiedeva soltanto la fedeltà alle regole e una reazione indotta contro la loro trasgressione. Richiedeva inoltre, certamente, che quanti subivano la separazione accettassero uno status inferiore a quello della comunità ospitante, e il diritto di

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quest'ultima a definire, imporre o modificare tale status. C'è da dire, tuttavia, che durante una parte della storia della diaspora ebraica la legge rappresentò in generale un sistema di privilegi e di espropriazioni, mentre l'idea dell'eguaglianza giuridica e specialmente di quella sociale rimaneva sconosciuta o comunque non era considerata come un'ipotesi suscettibile di applicazione pr atica. Fino all'avvento della modernità, l'estraniazione degli ebrei fu poco più che una manifestazione dell'universale separatezza delle unità componenti la catena preordinata dell'esistenza.

- "L'incongruenza ebraica dall'affermazione del cristianesimo alla modernità".

Tutto ciò non significa, ovviamente, che la separazione degli ebrei non fosse distinta da altre forme di segregazione e teorizzata come caso particolare con un significato tutto suo. Per le élite colte dell'Europa premoderna - clero cristiano, teologi e filosofi - occupate come tutte le élite di questo tipo a scoprire un senso nella casualità e una logica nella spontaneità dell'esperienza vitale, gli ebrei rappresentavano un'eccentricità, un'entità che sfidava la trasparenza cognitiva e l'armonia morale dell'universo. Essi non appartenevano né ai pagani non ancora convertiti, né agli eretici caduti in disgrazia, cioè a nessuno dei due gruppi che segnavano le frontiere gelosamente difese, e difendibili, della cristianità. Gli ebrei si collocavano inopportunamente, per così dire, a cavallo della barricata, compromettendo con ciò la sua invalicabilità. Essi erano contemporaneamente i padri venerabili della cristianità e i suoi odiosi, esecrabili detrattori. Il loro rifiuto degli insegnamenti cristiani non poteva essere accantonato come manifestazione di ignoranza pagana senza mettere seriamente in pericolo la verità del cristianesimo. Né poteva essere facilmente etichettato come l'errore - in via di principio - rettificabile di una pecorella smarrita. Gli ebrei non erano semplicemente dei miscredenti prima o dopo la conversione, ma individui che in piena coscienza rifiutavano di accettare la verità quando veniva loro offerta l'opportunità di riconoscerla. La loro esistenza costituiva una continua sfida alla certezza della rivelazione cristiana. Una sfida che poteva essere respinta, o perlomeno resa meno pericolosa, solo spiegando l'ostinazione ebraica come malvagia premeditazione, intenzione nociva e corruzione morale. Ci sia consentito di a ggiungere a tutto ciò un fattore che apparirà continuamente nel nostro discorso come uno dei principali e più distintivi aspetti dell'antisemitismo: l'ebraismo era, se così si può dire, contiguo al cristianesimo e confluente con esso. Per questa ragione esso si presentava diverso da ogni altra componente perturbatrice o non assimilata del mondo cristiano. A differenza di tutte le altre eresie, esso non costituiva né un problema locale né un episodio con un inizio chiaramente definito e di conseguenza, si poteva sperare, con una fine. Esso rappresentava invece una presenza universalmente concomitante con quella del cristianesimo, un vero e proprio "alter ego" della Chiesa cristiana.

La coesistenza del cristianesimo e degli ebrei non costituiva perciò una forma di conflitto e di inimicizia. O meglio, lo era certamente, ma era anche qualcosa di più. Il cristianesimo non poteva riprodursi, e sicuramente non era in grado di riprodurre il proprio dominio ecumenico, senza salvaguardare e rafforzare le basi dell'estraniazione ebraica: la visione di se stesso come eredità "e" superamento di Israele. L'identità cristiana coincideva, di fatto, con l'estraniazione ebraica. Essa era scaturita da un rifiuto "da parte degli ebrei". E traeva continua vitalità dal rifiuto "degli ebrei". Il cristianesimo poteva teorizzare la propria esistenza soltanto come costante opposizione agli ebrei. Il perdurare dell'ostinazione ebraica dimostrava che la missione cristiana non era ancora compiuta. L'ammissione dell'errore da parte degli ebrei, la loro resa alla verità cristiana e forse una futura conversione di massa rappresentavano per il cristianesimo il modello del trionfo finale. Ancora una volta il cristianesimo affidava agli ebrei, nella loro veste di "alter ego", una vera e propria missione escatologica. Essa sottolineava la presenza e l'importanza degli ebrei, "attribuiva loro un fascino potente e sinistro" che altrimenti non avrebbero certamente avuto.

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La presenza degli ebrei all'interno della cristianità, sul suo territorio e nella sua storia, non era dunque né marginale né contingente. La loro specificità non era simile a quella di altre minoranze, bensì un aspetto dell'identità cristiana. L'atteggiamento cristiano di fronte agli ebrei, pertanto, andava oltre la generalizzazione delle pratiche di esclusione; esso era qualcosa di più che un tentativo di sistematizzare quella vaga e diffusa esperienza di identità distinta che emana dalle forme della separazione tra le caste e ispira i sistemi di questo tipo. L'atteggiamento cristiano verso gli ebrei non era un riflesso dei comuni rapporti e attriti tra vicini, ma derivava da una diversa logica: quella legata all'autoriproduzione della Chiesa e del suo dominio ecumenico. Di qui, la relativa autonomia della «questione ebraica» dall'esperienza sociale, economica e culturale delle popolazioni ospitanti. E da ciò deriva anche la relativa facilità con cui tale questione poteva essere isolata dal contesto della vita di tutti i giorni e svincolata dal vaglio dell'esperienza quotidiana. Per i loro ospiti cristiani, gli ebrei erano nello stesso tempo interlocutori concreti di un rapporto quotidiano ed esemplari di una categoria definita indipendentemente da tale rapporto. Quest'ultima caratteristica degli ebrei non era né indispensabile né inevitabile dal punto di vista della prima. E fu precisamente per tale ragione che essa poté esserne separata con relativa facilità e utilizzata nella motivazione di azioni solo lontanamente connesse, ammesso che lo fossero, alle pratiche della quotidianità. Nell'atteggiamento della Chiesa di fronte agli ebrei l'antisemitismo acquisì una forma che gli consentiva di «esistere quasi a prescindere dalla reale condizione degli ebrei nella società... Ma ciò che più colpisce in assoluto è la sua presenza in persone che non avevano mai visto un ebreo, e in paesi dove gli ebrei erano assenti da secoli» (9). Questa forma di antisemitismo si dimostrò capace di sopravvivere molto oltre il declino del dominio spirituale della Chiesa e il venir meno della sua presa sull'immag ine popolare del mondo. "L'era moderna ereditò «gli ebrei» ; come soggetti già nettamente distinti dagli uomini e dalle donne che abitavano nelle città e nei villaggi". Avendo ricoperto con successo il ruolo di "alter ego" della Chiesa, gli ebrei erano pronti a rivestire un ruolo analogo per le nuove, secolari, istituzioni di integrazione sociale.

Il più macroscopico e pregnante aspetto del concetto di «ebreo» costruito dalle pratiche della Chiesa cristiana era la sua inerente illogicità. Tale concetto metteva insieme elementi disomogenei che non potevano essere riconciliati l'uno con l'altro. L'incoerenza della loro fusione caratterizzava l'entità mitica ritenuta capace di comporre questi elementi in una forza potente e demoniaca, una forza nello stesso tempo intensamente affascinante e repulsiva, ma soprattutto minacciosa. Il concetto di «ebreo» fu il campo di battaglia su cui venne combattuta l'interminabile lotta della Chiesa per la propria identità, cioè per la netta demarcazione dei propri confini temporali e spaziali. Quello di «ebreo» era un concetto sovraccarico dal punto di vista semantico, nel quale confluivano e si mescolavano significati che avrebbero dovuto restare separati; per questa ragione esso era un bersaglio naturale di tutte le forze impegnate a tracciare confini e a mantenerli impermeabili. Il concetto di «;ebreo» era "visquex "(per usare il vocabolario di Sartre) "slimy" (per usare quello di Mary Douglas), un'immagine costruita compromettendo e sfidando l'ordine delle cose, vera e propria sintesi e incarnazione di tale sfida. (Dei reciproci rapporti tra l'universale attività culturale della demarcazione dei confini e l'altrettanto universale produzione di «vischiosità» chi scrive ha trattato ampiamente nel terzo capitolo di "Cultura come prassi".) Costruito concettualmente in tal modo, l'«ebreo» ha svolto una funzione di primaria importanza: ha reso visibili le terrificanti conseguenze derivanti dalla violazione dei confini, dal rifiuto di rimanere nel gregge, da ogni condotta non ispirata a una lealtà incondizionata e a una scelta senza ambiguità; egli è stato il prototipo e il modello principe di ogni anticonformismo, eterodossia, anomalia, aberrazione. Come dimostrazione dell'irrazionalità ; minacciosa e inusitata della devianza, egli screditava a priori l'alternativa all'ordine definito, illustrato e tradotto in pratica dalla Chiesa. Per questa ragione egli era la più affidabile guardia di confine di tale ordine. "Il concetto di «ebreo» recava in sé un messaggio: l'alternativa all'ordine esistente qui ed ora non è un altro ordine, ma il caos e la devastazione".

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Chi scrive ritiene che la creazione dell'incongruenza ebraica come sottoprodotto dell'affermazione e dell'autoriproduzione della Chiesa cristiana sia stata un'importante causa del posto di rilievo occupato dagli ebrei tra quei «demoni interni dell'Europa» che Norman Cohn ha così efficacemente descritto nel suo memorabile studio sulla caccia alle streghe in questo continente. La più significativa delle scoperte di Cohn (che ha trovato ampia conferma in numerosi altri studi sul problema) è l'evidente mancanza di correlazione tra l'intensità della paura delle streghe, e delle paure irrazionali nel loro complesso, e lo sviluppo della conoscenza scientifica e del livello generale di razionalità quotidiana. Di fatto, l'affermazione della metodologia scientifica moderna e gli enormi sforzi verso la razionalizzazione della vita quotidiana coincisero, agli albori della storia moderna, con i più violenti e atroci episodi di caccia alle streghe mai verificatisi. L'irrazionalità delle credenze sulla stregoneria e della persecuzione contro le streghe appare assai scarsamente collegata ai ritardi della Ragione. Essa era, al contrario, intimamente connessa all'intensità delle ansie e delle tensioni provocate o generate dal collasso dell'"ancien régime" e dall'avvento dell'ordine moderno. Le vecchie sicurezze scomparivano, mentre le nuove tardavano ad emergere e non sembravano in grado di raggiungere la solidità delle precedenti. Distinzioni che erano sta te valide per secoli venivano ignorate, distanze rassicuranti si riducevano, estranei emergevano dai luoghi in cui fino ad allora erano rimasti confinati e si stabilivano nelle vicinanze, identità sicure si sfaldavano e perdevano la loro certezza. Ciò che rimaneva dei vecchi confini aveva disperatamente bisogno di difesa e nuove demarcazioni dovevano essere tracciate attorno alle identità di recente formazione; questa volta, per di più, in condizioni di universale movimento e di cambiamento accelerato. La lotta contro la «vischiosità», nemico originario della nettezza e della sicurezza dei confini e delle identità, doveva essere un importante strumento per far fronte ad entrambi quei compiti. Tale lotta avrebbe raggiunto una ferocia senza precedenti, così come di dimensioni senza precedenti erano i compiti stessi.

Il presente studio afferma che il coinvolgimento attivo o passivo, diretto o indiretto, nella forte preoccupazione dell'era moderna per la demarcazione e la difesa dei confini era destinato a rimanere il più distintivo e caratterizzante attributo del concetto di «ebreo». Si suggerisce qui che tale concetto è stato storicamente costruito per rappresentare tutte le «vischiosità» del mondo occidentale. Esso è stato collocato a cavallo di quasi tutte le barricate erette nel corso dei conflitti susseguenti, che lacerarono la società occidentale nelle sue varie dimensioni e fasi di sviluppo. Il fatto stesso di essere stato gettato di traverso a così tante barricate diverse - costruite su altrettanti fronti palesemente scollegati tra loro - carica la vischiosità del concetto di «ebreo» di un'intensità esorbitante, sconosciuta in altri casi. La sua mancanza di trasparenza era multidimensionale e "proprio questa multidimensionalità costituiva un'ulteriore incongruenza cognitiva", assente in tutte le altre (semplici perché circoscritte, isolate e funzionalmente specializzate) categorie «vischiose» scaturite dai conflitti di confine.

- "A cavallo delle barricate".

Per le ragioni discusse più sopra il fenomeno dell'antisemitismo non può essere concepito come manifestazione di una più ampia categoria di antagonismi nazionali, religiosi o culturali. Né fu un caso di conflitto tra interessi economici (sebbene questi ultimi siano stati spesso chiamati in causa nelle argomentazioni a sostegno della posizione antisemita, in un'era competitiva come quella moderna, che raffigura se stessa in termini di gruppi di interesse impegnati in un gioco a somma zero): l'antisemitismo era interamente imputabile agli interessi di autodefinizione e autoaffermazione dei suoi portatori. Rappresentò un caso di demarcazione, e non di contestazione, dei confini. Per questo motivo esso non può essere spiegato in base a una somma di fattori locali e fortuiti. La sua incredibile capacità di prestarsi a tutta una serie di preoccupazioni e di scopi è appunto dovuta alla sua universalità, extratemporalità ed extraterritorialità. "Esso si adattava così

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bene a tante problematiche locali perché non era causalmente connesso con nessuna di esse". L'adattamento del concetto di «ebreo» al contesto di problematiche dissimili, spesso reciprocamente contraddittorie, ma sempre oggetto di aspra contesa, ha costantemente esacerbato la sua intrinseca incoerenza. Ciò lo ha reso, tuttavia, sempre più duttile e convincente come criterio di spiegazione, accrescendo, per così dire, la sua carica demoniaca. Di nessun'altra categoria sociale del mondo occidentale si potrebbe dire ciò che Leo Pinsker scrisse degli ebrei nel 1882: «Per i vivi l'ebreo è un uomo morto; per gli indigeni un estraneo e un nomade; per i poveri e gli sfruttati un milionario; per i patrioti un uomo senza patria» (10). O ciò che è stato detto, in forma aggiornata ma sostanzialmente identica, nel 1946:

"L'ebreo potrebbe essere rappresentato come incarnazione di tutto ciò che viene avversato, temuto o disprezzato. Egli risultava un portatore del bolscevismo ma, abbastanza curiosamente, era nello stesso tempo un difensore dello spirito liberale delle corrotte democrazie occidentali. Sul piano economico era contemporaneamente capitalista e socialista. Veniva accusato di indolente pacifismo ma, per una strana coincidenza, era anche un eterno fomentatore di guerre" (11).

O ancora ciò che W. D. Rubinstein ha recentemente scritto a proposito di una delle innumerevoli dimensioni della «vischiosità» ebraica: la combinazione dell'atteggiamento antisemita riservato alle masse ebraiche «con l'altra forma di antisemitismo, rivolta contro l'élite, può essere all'origine della peculiare virulenza dell'antisemitismo europeo: nella storia, altri gruppi sono stati osteggiati, ora perché massa, ora perché élite, ma solo gli ebrei sono stati additati all'odio per le due ragioni assieme» (12).

- "Il gruppo prismatico".

Anna Zuk, dell'Università di Lublino, ha recentemente suggerito che gli ebrei possono essere considerati una «classe mobile», «in quanto sono portatori di emozioni generalmente esperite dai gruppi sociali più elevati nei confronti delle classi inferiori e, viceversa, dagli strati più bassi nei confronti delle posizioni sociali superiori» (13). La Zuk esamina molto dettagliatamente questo scontro di prospettive cognitive nella Polonia del diciottesimo secolo, che assume come esempio di un più generale fenomeno sociologico di grande importanza per la spiegazione dell'antisemitismo. Nel corso dell'ultimo secolo prima delle spartizioni di cui fu oggetto il territorio della Polonia, gli ebrei polacchi furono in massima parte al servizio dell'aristocrazia e della piccola nobiltà. Essi svolgevano tutte quelle funzioni pubbliche fortemente impopolari richieste dal dominio politico ed economico dell'aristocrazia terriera, come l'esazione degli affitti e l'amministrazione delle ricchezze prodotte dal lavoro contadino: con ciò essi facevano da «intermediari» e, in termini socio-psicologici, da scudo dietro cui si nascondevano i veri signori della terra. Gli ebrei ricoprivano questo ruolo meglio di chiunque altro, poiché non aspiravano (o non potevano aspirare) a quell'avanzamento sociale che la loro impor tante posizione era in grado di offrire. Nell'impossibilità di competere con i propri signori sul piano sociale e politico, essi si accontentavano di ricompense puramente finanziarie. Non soltanto, dunque, soffrivano di un'inferiorità sociale e politica, ma erano anche destinati a perpetuarla. Gli aristocratici potevano trattarli - e così effettivamente facevano - come trattavano tutti gli altri loro servitori appartenenti alle classi inferiori: con ripugnanza sociale e disprezzo culturale. L'immagine che la nobiltà aveva degli ebrei non si scostava dal generale stereotipo dell'inferiorità sociale. Analogamente ai contadini e alla plebe urbana, anche gli ebrei erano considerati dall'aristocrazia come incivili, sporchi, ignoranti e avidi. E allo stesso modo venivano tenuti a distanza. Poiché, date le loro funzioni economiche, alcuni contatti con essi non potevano essere evitati, nel caso degli ebrei le regole della separazione sociale venivano osservate assai più meticolosamente ed articolate con maggiore chiarezza e precisione, e tenute presenti nel complesso con molta più attenzione, che nel caso di

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altri rapporti tra classi dai quali non scaturiva nessuna ambiguità, e che perciò potevano essere riprodotti senza problemi.

Agli occhi dei contadini e della plebe urbana, però, gli ebrei si presentavano in modo completamente diverso. I servizi da essi resi ai signori della terra e agli sfruttatori del lavoro agricolo erano, dopotutto, di natura non soltanto economica, ma anche protettiva: essi isolavano l'aristocrazia e la piccola nobiltà dalla collera e dal furore popolare. Invece di puntare al suo vero bersaglio, il malcontento si arrestava e si scaricava sugli intermediari. Per le classi inferiori gli ebrei rappresentavano il nemico: erano infatti gli unici sfruttatori con cui quelle classi entravano personalmente in contatto. Esse avevano esperienza diretta soltanto dell'inflessibilità ebraica: per quanto ne sapevano, gli ebrei costituivano la classe dominante. Non c'è dunque da meravigliarsi se questi ultimi, i quali «occupavano nella società una posizione subordinata e sottoprivilegiata quanto quella di coloro che li attaccavano, diventarono oggetto dell'aggressività destinata alle classi superiori». Gli ebrei vennero ad occupare una «posizione mediatrice, essendo un anello di congiunzione estremamente visibile su cui si concentrò l'ostilità delle classi inferiori ed oppresse».

Sembra dunque che, nella lotta di classe, gli ebrei si trovassero impegnati su un duplice fronte, un fenomeno in nessun modo collegato alla specificità ebraica e di per sé insufficiente a spiegare i caratteri distintivi dell'antiebraismo. A rendere veramente particolare la collocazione degli ebrei nello scontro di classe fu il fatto che essi "erano divenuti oggetto di due opposti e contraddittori antagonismi di classe". Ciascuno dei due avversari impegnati nel confronto riteneva che i mediatori ebrei fossero schierati dall'altra parte della barricata. La metafora del prisma, e di qui il concetto di "categoria prismatica", sembrano esprimere questa situazione in modo più efficace dell'idea di «classe mobile». A seconda del punto di vista da cui venivano osservati, gli ebrei - come tutti i prismi - rifrangevano immagini completamente diverse: quella di una rozza, grossolana e brutale classe inferiore e quella di una spietata e arrogante classe superiore.

L'analisi della Zuk copre un periodo che si ferma alle soglie della modernizzazione polacca. Le conseguenze della duplicità di immagine così brillantemente descritta dall'autrice non sono pertanto pienamente considerate. Nelle epoche premoderne la comunicazione tra i diversi livelli della gerarchia sociale era scarsa. Le due prospettive, e i due stereotipi da esse generati, avevano quindi poche opportunità di convergere e infine di fondersi nell'incongrua commistione tipica dell'antisemitismo moderno. In seguito alla scarsità dei contatti tra le classi, ciascuno dei due antagonisti conduceva, per così dire, una sua «guerra privata» contro gli ebrei, guerra che - particolarmente nel caso delle classi inferiori - poteva essere coniugata dalla Chiesa cattolica con elaborazioni teoriche soltanto debolmente connesse alle vere cause del conflitto. (Prìncipi, conti e vescovi locali tentarono, in casi analoghi a quello dei massacri istigati da Pietro l'Eremita nelle città della Renania, di difendere i «propri ebrei» da imputazioni manifestamente estranee alle rimostranze che questi erano accusati di attirare su di sé e dovevano smentire.)

Solo con l'avvento della modernità le varie e, sul piano logico, incoerenti immagini di una «casta» ebraica fortemente estranea (ovvero già estraniata da sistematiche pratiche di segregazione) furono messe insieme, confrontate e infine fuse. La modernità comportò, tra le altre cose, l'affermazione di un nuovo ruolo riservato alle idee, visto che lo stato affidava la sua efficienza funzionale alla mobilitazione ideologica, vista la sua pronunciata tendenza all'uniformità (espressa nella forma più spettacolare dalla pratica delle crociate culturali), vista la sua missione «civilizzatrice» e la sua forte inclinazione al proselitismo (14), e visto il tentativo di portare classi e territori in precedenza periferici a stretto contatto spirituale con il centro politico produttore di idee. Il risultato complessivo di tutti questi nuovi sviluppi fu un forte incremento dell'ampiezza e dell'intensità della comunicazione tra le classi; in aggiunta ai suoi caratteri tradizionali, il dominio di classe prese la forma della leadership spirituale, nonché quella della produzione e diffusione di prospettive e formule culturali a sostegno della lealtà politica. Una delle conseguenze di tutto ciò fu l'incontro e il

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confronto fra una serie di immagini degli ebrei precedentemente separate. La loro incompatibilità, prima di allora rimasta inosservata, divenne a quel punto un problema e una sfida. Come ogni altra cosa in una società che si stava rapidamente modernizzando, tale problema doveva essere «razionalizzato». La contraddizione andava risolta: o attraverso il totale rifiuto delle immagini er editate dal passato in quanto totalmente incongruenti, o attraverso un discorso razionale che fornisse nuove ed accettabili basi a quella stessa incongruenza.

A ben guardare, entrambe queste strategie erano già state tentate in Europa all'inizio dell'epoca moderna. Da una parte, la palese irrazionalità insita nello status degli ebrei era rappresentata come un ulteriore esempio dell'assurdità che caratterizzava l'ordine feudale e delle superstizioni che sbarravano la strada allo sviluppo della ragione. La rimarchevole specificità e idiosincrasia degli ebrei era vista come del tutto analoga agli innumerevoli particolarismi che l'"ancien régime" tollerava e che il nuovo ordine avrebbe fatto esplodere. Analogamente a molte altre peculiarità locali, anche questa veniva considerata un problema prevalentemente culturale, vale a dire un atteggiamento che un diligente sforzo educativo era in grado di sradicare, come sarebbe senza dubbio avvenuto. Non mancavano certamente le profezie secondo cui, una volta estesa agli ebrei la nuova uguaglianza giuridica, la loro specificità sarebbe rapidamente scomparsa ed essi - al pari di tutti gli altri individui liberi e portatori dei diritti di cittadinanza - si sarebbero dissolti in una società ormai culturalmente e giuridicamente omogenea.

Dall'altra parte, tuttavia, l'affermarsi della modernità fu accompagnato da processi che puntavano nella direzione esattamente opposta. Sembrava che l'incongruenza ormai radicata da tempo - avendo etichettato il suo portatore come un fattore «vischioso», semanticamente molesto e sovversivo nel contesto di una realtà altrimenti trasparente e ordinata - tendesse ad adattarsi alle nuove condizioni e ad espandersi aggregando ulteriori incongruenze: essa acquisì nuove, moderne dimensioni, e la mancanza di connessioni reciproche tra queste ultime divenne un'incongruenza "sui generis", una specie di meta-incongruenza. Gli ebrei, già rappresentati come «vischiosi» sul piano religioso e di classe, erano vulnerabili più di ogni altra categoria all'impatto delle nuove tensioni e contraddizioni che gli sconvolgimenti sociali della modernizzazione dovevano inevitabilmente produrre. Per la maggior parte dei membri della società l'avvento della modernità significò la distruzione dell'ordine e della sicurezza, e ancora una volta la percezione comune volle che gli ebrei fossero vicini al centro del processo distruttivo. La rapidità e l'incomprensibilità del loro avanzamento e della loro trasformazione sociale sembrava incarnare la devastazione compiuta dalla modernità a danno di tutto ciò che era stato familiare, abituale e sicuro.

Per secoli gli ebrei erano vissuti isolati nei ghetti, in parte per costrizione, in parte per libera scelta; ora essi emergevano dai loro luoghi d'isolamento, acquistavano proprietà e affittavano case in quartieri un tempo uniformemente cristiani, diventavano parte della realtà quotidiana e interlocutori di un rapporto non più limitato a una serie di scambi ritualizzati. Per secoli gli ebrei erano stati distinguibili a vista: essi portavano la propria segregazione, per così dire, cucita addosso, simbolicamente e letteralmente. Ora si vestivano come tutti gli altri, in funzione della collocazione sociale piuttosto che dell'appartenenza di casta. Per secoli gli ebrei erano stati una casta di paria, legittimamente guardati dall'alto in basso anche dai più diseredati tra i cristiani. Ora alcuni dei paria conquistavano posizioni di influenza e prestigio sociale grazie alle proprie doti intellettuali o al denaro, nuovo riconosciuto fattore di piena determinazione dello status, apparentemente non vincolato e non condizionato da considerazioni di rango e di lignaggio sociale. Possiamo ben dire che "la sorte degli ebrei sintetizzava la terribile ampiezza dello sconvolgimento sociale e fungeva da vivido, invadente sintomo dell'erosione che smantellava le vecchie certezze", della dissoluzione e della scomparsa di tutto ciò che un tempo era stato ritenuto solido e durevole. Chi si sentiva privato dell'equilibrio, minacciato o soppiantato, poteva facilm ente - e razionalmente - dare un senso alla propria ansia interpretando questo sovvertimento come una manifestazione dell'incongruenza eversiva degli ebrei.

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In tal modo gli ebrei rimasero intrappolati nel più feroce dei conflitti storici: quello tra il mondo premoderno e l'avanzare della modernità. Questo conflitto trovò la sua prima espressione nell'aperta resistenza opposta dalle classi e dagli strati sociali dell'"ancien régime", sul punto di essere sradicati, diseredati e strappati alla propria sicura collocazione nella società in nome di un nuovo ordine sociale che essi potevano percepire soltanto come caos. Quando l'iniziale ribellione antimodernista risultò sconfitta e il trionfo della modernità ormai certo, il conflitto si fece sotterraneo e, in questo suo nuovo stato latente, segnalava la sua presenza nell'acuta paura del vuoto, nel desiderio mai sazio di certezza, in mitologie paranoiche di cospirazione e nella ricerca frenetica di un'identità sempre sfuggente. Alla fine la modernità elargì ai propri nemici armi sofisticate che soltanto la loro sconfitta aveva reso possibili. "L'ironia della storia consentì di neutralizzare le fobie antimoderniste attraverso canali e forme che soltanto la modernità poteva sviluppare". I demoni interni dell'Europa furono esorcizzati grazie ai raffinati prodotti della tecnologia, all'organizzazione scientifica e alla concentrazione del potere nelle mani dello stato, ovvero grazie alle massime conquiste della modernità.

L'incongruenza ebraica era destinata a misurarsi con questa vicenda storica di squisita contraddittorietà. Dopo che gli esorcismi furono ufficialmente proibiti e costretti alla clandestinità, gli ebrei rimasero l'incarnazione visibile dei demoni interni. Durante la maggior parte della storia moderna essi furono i principali portatori delle tensioni e delle ansie che la modernità aveva dichiarato estinte, condotto a un grado di intensità senza precedenti e armato di formidabili strumenti.

- "Le dimensioni moderne dell'incongruenza".

Ricchi ma spregevoli, gli ebrei costituivano un parafulmine naturale capace di deviare le scariche dell'energia antimodernista.

Essi si collocavano nel punto in cui il formidabile potere del denaro si incontrava con il disprezzo sociale, la condanna morale e il disgusto estetico. Ciò rappresentava esattamente l'àncora di cui l'ostilità verso la modernità, e in particolare verso la sua forma capitalistica, aveva bisogno. Se il capitalismo poteva essere posto in connessione con gli ebrei, esso sarebbe stato condannato contemporaneamente come fenomeno estraneo, innaturale, avverso, pericoloso ed eticamente ripugnante. Tale connessione risultava facile da stabilire: il potere del denaro rimase marginale e (sotto l'etichetta spregiativa di "usura") sottoposto ufficialmente a sanzione per tutto il periodo durante il quale gli ebrei restarono segregati nei ghetti, ma si spostò al centro dell'esistenza e (sotto l'etichetta prestigiosa di "capitale") rivendicò autorità e rispetto sociale proprio quando gli ebrei fecero la propria apparizione nelle strade dei centri urbani.

Il primo effetto della modernità sulla situazione degli ebrei europei fu la loro selezione come "bersaglio principale della resistenza antimodernista". I primi antisemiti moderni erano dei portavoce dell'antimodernismo, personaggi come Fourier, Proudhon, Toussenel, uniti tra loro dall'implacabile ostilità nei confronti del denaro, del capitalismo, della tecnologia e del sistema industriale. L'antisemitismo più virulento manifestatosi nella società all'inizio dell'era industriale era collegato all'anticapitalismo nella sua versione precapitalistica: un'opposizione all'avanzata del capitalismo che poteva ancora sperare di contenerne l'ascesa, arrestarne lo sviluppo e restaurare quell'ordine «naturale», reale o immaginario, che i nuovi signori del denaro minacciavano di

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distruggere. Per le ragioni che abbiamo brevemente presentato più sopra, il potere del denaro e gli ebrei venivano posti in stretta connessione. L'esistenza di un legame causale tra essi veniva suggerita, e a tutti gli effetti pratici confermata, mediante un rapporto di corrispondenza metaforica: la loro, per così dire, «parentela spirituale» o, per usare l'espressione preferita da Weber, la loro "affinità elettiva". Era molto più facile resistere al capitalismo, che aveva gettato la sua ombra sinistra sull'etica del lavoro artigiano e sulla sua celebrata indipendenza, identificandolo con una forza dichiaratamente estranea e spregevole. Per Fourier e Toussenel gli ebrei rappresentavano tutto ciò che vi era di odioso nell'avanzata del capitalismo e nella crescita disordinata delle metropoli moderne. Il veleno utilizzato contro gli ebrei avrebbe dovuto riversarsi sul nuovo, spaventoso e repellente, ordine della società. Secondo Proudhon l'ebreo «è per temperamento un anti-produttore, non è né un agricoltore e nemmeno un vero commerciante» (15).

Per definizione, la versione antimodernista dell'antisemitismo poteva conservare la propria apparenza di razionalità e il proprio richiamo popolare finché la speranza di arrestare il cammino del nuovo ordine, e di sostituirlo con un'utopia piccolo-borghese mascherata da paradiso perduto, appariva fattibile e realistica. Di fatto, tale forma di antisemitismo si esaurì soltanto verso la metà del diciannovesimo secolo, quando l'ultimo massiccio tentativo di cambiare il corso della storia fallì e la vittoria del nuovo ordine dovette essere accettata, per quanto a malincuore, come netta e irreversibile. Il legame tra potere del denaro e temperamento o spirito ebraico - stabilito dalla forma iniziale, antimoderna e piccolo-borghese, dell'opposizione anticapitalistica - era destinato ad essere assorbito e creativamente rimodellato dalle sue forme successive. A volte nascosto, a volte emergente in primo piano, questo legame non fu mai rimosso dal flusso principale della resistenza anticapitalistica e svolse un ruolo importante nella storia del socialismo europeo.

Fu Karl Marx, padre del socialismo scientifico (cioè di quel socialismo che si proponeva di superare e lasciare alle proprie spalle, piuttosto che arrestare, lo sviluppo capitalistico; che riconosceva l'irreversibilità della trasformazione capitalistica e accettava la sua natura innovatrice; e che prometteva di avviare la costruzione di una nuova e migliore società a partire dal punto in cui lo sviluppo capitalistico avrebbe portato il progresso universale umano), colui che spinse l'antisemitismo anticapitalista a non guardare più indietro ma avanti. Con ciò, egli lo rese potenzialmente utilizzabile da parte dell'opposizione anticapitalistica nel momento in cui sarebbe stata abbandonata e respinta l'ultima illusione che il capitalismo fosse una malattia temporanea, suscettibile di essere curata o esorcizzata. Marx accettò l'idea di un'affinità elettiva tra lo «spirito del giudaismo» e quello del capitalismo: entrambi erano ben noti per il fatto di promuovere l'interesse egoistico, la tendenza a mercanteggiare, l'avidità di denaro. Entrambi dovevano essere eliminati, se si voleva fondare su basi più sicure e più sane la coesistenza umana. Capitalismo e giudaismo condividevano una medesima sorte. Essi trionfavano insieme e insieme sarebbero periti. L'uno non poteva sopravvivere all'altro: ciascuno dei due doveva essere distrutto se si desiderava la scomparsa dell'altro. L'emancipazione dal capitalismo avrebbe comportato l'emancipazione dal giudaismo, e viceversa.

La tendenza a identificare il giudaismo con il denaro e il potere e, di fatto, con quelle patologie del capitalismo che erano oggetto di avversione e di condanna, era destinata a restare endemica, spesso nascosta appena sotto la superficie, nei movimenti socialisti europei. Manifestazioni antisemite erano frequenti nelle più grandi socialdemocrazie del continente, quella tedesca e quella austroungarica. Nel 1874 il leader socialdemocratico tedesco August Bebel lodò generosamente i rabbiosi insegnamenti antisemiti di Karl Eugen Dührer, gesto che due anni più tardi spinse Engels a pubblicare una replica della lunghezza di un libro a colui che si era autoproclamato profeta del socialismo tedesco; Engels, tuttavia, non lo fece per difendere gli ebrei, ma per salvaguardare la posizione di Marx come autorità ideologica del crescente movimento operaio. In numerose occasioni, però, lo sforzo di limitare i sentimenti antiebraici al loro ruolo designato - offrire un contributo necessario ma minore alla posizione anticapitalistica - furono inutili e le priorità

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risultarono invertite: il capitalismo venne ridotto a derivato della minaccia ebraica. Così, la maggior parte dei seguaci di Auguste Blanqui, indomito martire francese della guerra anticapitalistica, era stata guidata dal suo più intimo amico, Ernest Granger, direttamente dalle barricate della Comune di Parigi nelle file del nascente movimento nazionalsocialista. Fu soltanto con l'emergere del movimento nazista che l'opposizione popolare al capitalismo finalmente si scisse e si polarizzò: a quel punto l'ala socialista adottò la lotta senza compromessi all'antisemitismo come uno dei fattori necessari al suo tentativo di arginare l'onda montante del fascismo.

Se ad occidente la più ostinata resistenza al nuovo ordine industriale venne principalmente dai piccoli proprietari delle città e delle campagne, ad est la risposta più comune fu la formazione di un vasto fronte anticapitalista, antiurbano e antiliberale. Con l'influenza sociale e il dominio politico dell'aristocrazia terriera ancora intatti, le attività lavorative urbane venivano collocate all'estremità inferiore della scala del prestigio e trattate con un misto di ripugnanza e disprezzo. Tutti i mezzi di arricchimento, eccettuati il matrimonio e lo sfruttamento della terra, erano considerati indegni della vera nobiltà; anche l'agricoltura, insieme al resto delle attività economiche, veniva affidata a servi o ad affittuari di status e di valore personale dichiaratamente inferiori. Essendo le élite locali indifferenti o ostili alla sfida della modernizzazione, gli ebrei - accettati come culturalmente estranei - costituivano una delle poche categorie che sfuggivano alla presa soffocante dei valori aristocratici, ed erano perciò capaci e desiderosi di sfruttare le opportunità create dalla rivoluzione industriale, finanziaria e tecnologica avvenuta ad occidente. La loro iniziativa, tuttavia, incontrò la totale ostilità dell'opinione pubblica dominata dall'aristocrazia. Dopo aver condotto un accurato studio sull'industrializzazione in Polonia nel diciannovesimo secolo (processo non dissimile da quelli avvenuti nel resto dell'Europa orientale), Joseph Marcus è giunto alla conclusione che l'avvento dell'industria fu vissuto dalle élite locali, dominate dalla nobiltà, come una calamità nazionale.

"Mentre alcuni imprenditori ebrei erano impegnati nella costruzione di linee ferroviarie, un eminente economista polacco, J. Supinski, lamentava il fatto che «le ferrovie rappresentano un abisso in cui vengono gettate enormi risorse, delle quali non resta altra traccia che la massicciata e i binari giacenti su di essa». Se gli ebrei costruivano stabilimenti industriali, i proprietari terrieri li accusavano di distruggere l'agricoltura, che a loro parere mancava di manodopera. Quando le fabbriche cominciarono a funzionare, per l'élite letteraria e sociale polacca i loro proprietari furono non soltanto oggetto di odio, ma anche di commiserazione, avendo rinunciato a una vita di delizie campestri e di libertà e piaceri romantici per trasferirsi nelle desolate vicinanze di una fabbrica, che rende l'uomo schiavo e lo distrugge.Dovrebbe risultare chiaro che una società largamente impregnata di queste idee, secondo cui la ricchezza materiale è irrilevante e l'arricchimento spregevole, non poteva produrre le qualità imprenditoriali necessarie in un'epoca di industrializzazione capitalistica. Né è sorprendente che i soli promotori del progresso industriale in Polonia fossero gli ebrei indigeni e gli immigrati stranieri.La borghesia ebraica divenne anche la principale portatrice delle idee liberali sviluppatesi in occidente. L'opinione pubblica aristocratica e cattolico-conservatrice della Polonia considerava queste idee, e il «materialismo occidentale» in generale, come una minaccia per la tradizione e lo «spirito nazionale» polacco" (16).

Gli ebrei indigeni, che sotto gli occhi della sconcertata nobiltà si stavano trasformando in borghesia ebraica, minacciavano le élite esistenti in diversi modi. Essi impersonavano la concorrenza di un nuovo potere sociale basato sulla finanza e sull'industria nei confronti di quello vecchio fondato sulla proprietà terriera e sull'autorità sociale ereditaria che ne derivava. Essi incarnavano inoltre il venir meno dello stretto rapporto un tempo intercorrente tra la distribuzione del prestigio e quella dell'influenza: un gruppo sociale subordinato, tenuto in infima considerazione, saliva verso posizioni di potere servendosi di una scala recuperata nella pattumiera dei valori di scarto. Per la nobiltà, desiderosa di conservare la leadership nazionale, l'industrializzazione rappresentava un

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duplice pericolo: per ciò che veniva fatto e per chi lo faceva. L'iniziativa economica degli ebrei costituiva nello stesso tempo un minaccia al dominio sociale esistente e un colpo assestato all'ordine sociale complessivo, che quel dominio sosteneva e da cui era sostenuto. Risultava facile, pertanto, identificare proprio gli ebrei con la nuova confusione e la nuova instabilità. Essi erano percepiti come una forza sinistra e distruttiva, come agenti del caos e del disordine: tipicamente, come sostanza glutinosa che rende incerti i confini tra cose da tenere separate, che rende scivolose tutte le scale gerarchiche, fonde ogni solidità e profana tutto ciò che è sacro.

Via via che la spinta degli ebrei all'assimilazione si avvicinava ai limiti di assorbimento delle società ospitanti, le élite colte ebraiche si mostravano più nettamente propense alla critica sociale ed erano viste da molti conservatori locali come una forza fondamentalmente destabilizzante. Per citare l'acuta sintesi di David Biale, al sopraggiungere del ventesimo secolo

"liberali, nazionalisti e rivoluzionari ebraici, in disaccordo su ogni altro argomento, concordavano tutti sul fatto che le società europee nella loro forma contemporanea erano inospitali per gli ebrei. Soltanto modificando in qualche modo la società o cambiando il rapporto degli ebrei con essa si poteva risolvere il problema ebraico in Europa... Esperimenti sociali e ideali utopici mai realizzati costituivano ora la «norma» " (17).

La fedeltà all'eredità liberale dell'illuminismo forniva un'ulteriore dimensione alla «vischiosità» ebraica. A differenza di ogni altro gruppo sociale, gli ebrei avevano prestato interesse ai diritti di cittadinanza promossi dal liberalismo. Nelle parole memorabili di Hannah Arendt, «gli ebrei divennero l'unico gruppo che derivasse la sua funzione dal rapporto col corpo politico, e non dalla posizione nella società. Poiché tuttavia questo corpo politico non aveva altra realtà sociale su cui basarsi, essi si trovavano, socialmente parlando, in una terra di nessuno» (18). Tale situazione si protrasse per tutto l'arco della storia europea premoderna. A seconda del grado di sviluppo o delle varie specificità dell'ordine feudale, gli ebrei erano "Kö nigiuden", proprietà del re, del principe o dei signori locali, e posti sotto la loro tutela. Il loro status era di origine politica e si reggeva politicamente. Ciò significa anche che essi erano collettivamente svincolati dai rapporti sociali, ovvero restavano al di fuori della struttura sociale, il che comportava in termini pratici l'irrilevanza, o quasi, delle affinità o dei conflitti di classe nella definizione della loro esistenza. Come estensione dello stato nel corpo della società, gli ebrei avevano, in termini sociali, una collocazione fondamentalmente extraterritoriale. A causa di ciò, essi potevano soltanto fungere, per entrambe le parti in causa, da cuscinetto ammortizzatore nei rapporti spesso tesi e carichi di conflitti tra la società e i suoi capi politici, subendo le prime e più pesanti conseguenze quando tali conflitti giungevano al culmine. La sola protezione di cui godevano veni va dallo stato, ma proprio questo fatto li rendeva irrimediabilmente dipendenti dalla benevolenza dei governanti e totalmente impotenti di fronte alla mancanza di scrupoli o all'avidità del re. L'incongruenza della loro collocazione - nel vuoto compreso tra lo stato e la società - era puntualmente riflessa da un'altrettanto incongruente reazione agli sconvolgimenti sociali e politici che segnarono l'avvento della modernità. La rottura della secolare dipendenza dai governanti richiedeva l'acquisizione di un radicamento sociale non politico, e dunque dell'autonomia politica. Il liberalismo, sottolineando l'autocostruzione e l'autoaffermazione dei liberi individui, prometteva esattamente questo. Ma il diritto a mettere in pratica i comandamenti liberali sembrava dipendere, come tutti gli altri privilegi di cui gli ebrei avevano goduto in passato, da decisioni politiche. L'emancipazione dallo stato poteva venire - a quanto sembrava - soltanto dallo stato. Mentre altri gruppi si accontentavano di difendere il proprio potere sociale dall'eccessiva ingerenza dello stato, gli ebrei non potevano acquisire i diritti in questione senza uno stato interventista, disposto a percorrere l'intero cammino verso lo smantellamento dei monopoli e delle aree di privilegio fortemente tutelate presenti nel vecchio sistema gerarchico. Agli occhi delle élite tradizionali gli ebrei apparivano pertanto come semi di distruzione: a causa non soltanto del loro improvviso avanzamento sociale, ma anche della crisi di sicurezza che quell'avanzamento simbolizzava. P. G. J. Pulzer cita alcune tipiche grida

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d'allarme: «L'arma più potente del giudaismo è la democrazia dei non ebrei»; «Gli ebrei hanno bisogno semplicemente di impadronirsi del partito dell'illuminismo e dell'individualismo per minare dall'interno la struttura sociale tedesca. Così, essi non dovranno aprirsi la strada fino ai vertici della società con l'adulazione servile, avendo imposto ai tedeschi una teoria sociale destinata ad aiutare la scalata ebraica alle posizioni più elevate» ( 19). D'altra parte, la forte preoccupazione degli ebrei per il nuovo tipo di protezione politica cui erano sottoposti consentiva alla borghesia nazionale, creatasi da sola e fiduciosa di sé, di proiettare gli ebrei stessi nel campo dei nemici dell'autoaffermazione e della libertà politica. Così, simultaneamente, «un certo tipo di antisemitismo liberale ne trasse lo spunto per affermare che ebrei e aristocrazia avevano stretto un'alleanza contro la borghesia in ascesa» (20).

- "Una nazione senza caratteri nazionali".

Ma la dimensione dell'incongruenza ebraica che ha probabilmente influenzato la forma dell'antisemitismo moderno in maniera più profonda e duratura è data dal fatto che gli ebrei erano, per citare ancora la Arendt, un «elemento intereuropeo, non nazionale in un mondo di nazioni» (21). La loro dispersione e ubiquità territoriale faceva degli ebrei una nazione inter-nazionale, ovvero una nazione priva di caratteri nazionali. Dovunque abitassero essi fungevano costantemente da monito circa la relatività e i limiti dell'identità individuale e degli interessi comuni, identità e interessi che il criterio dell'appartenenza nazionale avrebbe dovuto determinare in modo assoluto e definitivo. Nell'ambito di ogni nazione essi rappresentavano il «nemico interno». I confini nazionali erano troppo ristretti per consentire una definizione degli ebrei, e gli orizzonti della tradizione nazionale troppo limitati per permettere di vedere la loro identità. "Ma gli ebrei non erano soltanto diversi da tutte le altre nazioni; erano anche diversi da tutti gli altri stranieri". In breve, essi mettevano in discussione la differenza tra ospitanti e ospitati, tra indigeni e stranieri. E mentre l'appartenenza nazionale diveniva la base principale per la costituzione autonoma dei gruppi, gli ebrei arrivavano a minare la più fondamentale delle differenze: quella tra «noi» e «loro». Erano flessibili e adattabili: un veicolo vuoto pronto per essere riempito con qualsiasi ripugnante carico «loro» fossero accusati di trasportare . Così, Toussanel vedeva gli ebrei come portatori del veleno protestante antifrancese, mentre Liesching, l'illustre denigratore autore di "Das junge Deutschland", li accusava di introdurre in Germania la pestilenza dello spirito gallico.

Il carattere sovranazionale degli ebrei divenne improvvisamente un motivo di apprezzamento all'inizio del processo di formazione delle nazioni, quando i conflitti territoriali tra le varie dinastie, provocati o almeno complicati dalle nuove rivendicazioni avanzate in nome delle diverse entità nazionali, premiarono l'assenza di coinvolgimento degli ebrei nei particolarismi locali e la loro capacità di comunicare al di sopra degli stati in guerra e attraverso le linee dei fronti. La capacità di mediazione degli ebrei fu utilizzata senza riserve dai sovrani invischiati, spesso contro la propria volontà, in conflitti che neanche comprendevano appieno e a cui desideravano porre termine, cercando solo un compromesso o almeno una modalità di coesistenza accettabile sia agli avversari che al propri sudditi chiassosamente nazionalisti. Nelle guerre che miravano prevalentemente o unicamente ad un più elastico "modus coexistendi" gli ebrei - internazionalisti per natura, se così si può dire - furono chiamati a ricoprire il ruolo degli araldi di pace e a spegnere lo spirito di belligeranza. Questa attitudine inizialmente lodata tornò vendicativamente a loro danno quando i potentati dinastici si trasformarono in veri e propri stati nazionali e nazionalistici: la distruzione del nemico divenne lo scopo della guerra e il patriottismo sostituì la lealtà alla corona, mentre il sogno della supremazia metteva a tacere il desiderio di pace. In un mondo completamente e radicalmente diviso in domini nazionali non rimaneva più spazio per l'internazionalismo, e qualsiasi brandello di territorio non appartenente a nessuno diventò un costante invito all'aggressione. "Il mondo, saturo di nazioni e di stati nazionali, aborriva il vuoto privo di caratteri nazionali. Gli ebrei si collocavano in

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questo vuoto: erano questo vuoto". Essi risultavano sospetti semplicemente per la loro capacità di negoziare là dove l'unica comunicazione ammessa doveva passare attraverso la canna dei fucili. (Il sospetto che gli ebrei delle diverse nazioni mancassero di patriottismo e di entusiasmo per il massacro del nemico fu pressoché l'unico punto di accordo tra i partecipanti alla Grande Guerra.) Sebbene fosse già in odore di alto tradimento, questa peculiarità degli ebrei era comunque un motivo di irritazione secondario rispetto all'innato e palesemente incurabile cosmopolitismo ebraico.

I peggiori sospetti erano prontamente confermati dalla pronunciata tendenza degli ebrei a riflettere il proprio status extraterritoriale nell'esasperante propensione per i «valori umani», «l'uomo in quanto tale», l'universalismo e altre parole d'ordine analogamente disfattiste e perciò ; antipatriottiche. Nella primissima fase dell'epoca del nazionalismo Heinrich Leo lanciò il seguente ammonimento:

"La nazione ebraica si distingue in modo evidente tra tutte le altre nazioni di questo mondo per il fatto di possedere uno spirito sicuramente atto a corrodere e decomporre. Allo stesso modo in cui esistono certe fontane che trasformano in pietra ogni oggetto che vi sia lasciato cadere, così gli ebrei, dall'inizio dei tempi fino ad oggi, hanno trasformato tutto ciò che è caduto nell'orbita della loro attività spirituale in un astratto concetto generale".

Gli ebrei, a ben guardare, erano l'incarnazione stessa degli "estranei" di Simmel: sempre all'esterno anche quando si trovano all'interno, essi osservano il mondo familiare come se fosse uno sconosciuto oggetto di studio, pongono domande che nessun altro ha mai posto, mettono in discussione l'indiscutibile e sfidano ciò che non può essere sfidato. Da Ludwig Börne, amico di Heine, passando per Karl Kraus alla vigilia del collasso asburgico per arrivare a Kurt Tucholsky alla vigilia del trionfo nazista, gli ebrei misero in luce quelle che vedevano come angustie della meschinità e del pregiudizio, ridicolizzarono le varie mescolanze locali di arretratezza, presunzione e millanteria, combatterono la pigrizia mentale e il gusto filisteo della mentalità provinciale. Nessuno che avesse una simile visione del mondo poteva essere davvero ammesso a far parte della nazione, definita com'era dalla sua scontata accettazione e dalla disponibilità a convivere supinamente con essa. Non suscitava dunque sorpresa il verdetto di Friedrich Rühs, primo di una lunga serie di giudizi secondo cui la particolarità deve opporsi a ogni astratta generalità:

"Gli ebrei non appartengono veramente al paese in cui vivono poiché - così come l'ebreo abitante in Polonia non è un polacco, quello abitante in Inghilterra non è un inglese e quello abitante in Svezia non è uno svedese - l'ebreo abitante in Germania non può essere un tedesco e quello abitante in Prussia un prussiano" (22).

Il ruolo dell'incongruenza ebraica nel contesto delle altre nazioni non fu certamente reso più facile dal fatto che spesso le rivendicazioni nazionalistiche erano esse stesse incongruenti e reciprocamente incompatibili. In genere, ciascuna nazione aveva degli oppressori, che temeva, e delle vittime, che disprezzava. Erano poche le nazioni che sostenevano con entusiasmo il diritto delle altre allo stesso trattamento che rivendicavano per sé . Durante tutto il travagliato e non ancora concluso periodo dell'autoaffermazione nazionale si è svolto un gioco a somma zero: la sovranità dell'altro costituiva un attentato alla propria. Quelli che per una nazione erano diritti, dalle altre erano visti come aggressività , intransigenza o arroganza.

In nessun'altra area le conseguenze di tutto ciò furono più gravi che nell'Europa centro-orientale, la quale nel diciannovesimo secolo si presentava come un vero crogiolo di nazionalismi, o antichi ma ancora insoddisfatti, oppure recenti ed avidi. Era di fatto impossibile appoggiare una rivendicazione nazionalistica senza inimicarsi diverse altre parti in causa, già esistenti come nazioni o aspiranti a diventarlo. Questo poneva gli ebrei in una situazione particolarmente scomoda. Ecco in proposito l'opinione di Pulzer:

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"La loro struttura occupazionale, i loro livelli di alfabetismo relativamente alti e il loro bisogno di sicurezza politica facevano sì che per gli ebrei fosse più facile aggregarsi alle nazionalità «storiche» dominanti (i polacchi, gli ungheresi, i russi) che non alle nazionalità contadine, subordinate e «non storiche» (i cechi, gli slovacchi, gli ucraini e i lituani, ad esempio). In Galizia e in Ungheria, pertanto, essi si sbarazzarono dello stigma di tedeschi, anche se questo non li aiutò molto nei rapporti con le razze che polacchi e ungheresi, a loro volta, opprimevano" (23).

In parecchi casi le élite di nazioni già affermate o in via di formazione si mostrarono desiderose di utilizzare lo zelo e il talento degli ebrei per promuovere attività che difficilmente avrebbero consentito a questi ultimi di accattivarsi la simpatia delle masse destinate (spesso contro la propria volontà) ad essere oggetto del proselitismo nazionale o della modernizzazione economica. In Ungheria, durante la dominazione asburgica, gli ebrei, assai ben disposti a integrarsi nella cultura locale, furono accolti con favore dall'aristocrazia terriera come i più coscienziosi ed affidabili agenti della magiarizzazione in quelle aree periferiche, prevalentemente slave, che la nobiltà sperava di portare sotto il proprio controllo nella futura Ungheria indipendente; nonché come gli strumenti di una drastica modernizzazione della stagnante e arretrata economia contadina. Le deboli élite lituane si avvalsero con entusiasmo dello zelo ebraico per promuovere le proprie pretese di governo sul complesso miscuglio di comunità etniche, linguistiche e religiose abitanti le antiche terre della Grande Lituania, che esse sognavano di ricostruire. Nel complesso le élite politiche erano ansiose di utilizzare gli ebrei per tutta una serie di compiti spiacevoli e pericolosi che esse ritenevano necessari, ma che non desideravano eseguire in prima persona. Ciò ri sultava conveniente per diversi aspetti. Una volta che il bisogno dei loro servigi avesse cessato di essere urgente, gli ebrei potevano facilmente essere accantonati: la decisione di «sistemarli come meritavano» avrebbe incontrato il favore delle masse, che gli ebrei avevano controllato a nome delle élite, e avrebbe addolcito l'amara medicina che queste ultime, ormai saldamente in sella, intendevano somministrare alle popolazioni.

Neppure le élite, tuttavia, potevano fidarsi appieno, anche se temporaneamente, della lealtà ebraica. L'appartenenza degli ebrei a una comunità nazionale, diversamente da quanto avveniva per coloro che in quella comunità erano «nati», era una questione di scelta e perciò, in linea di principio, revocabile, cioè «a termine». I confini delle comunità nazionali (e a maggior ragione quelli dei rispettivi territori) erano ancora incerti e contesi, non era consentito nessun lassismo, la vigilanza era all'ordine del giorno. Le barricate vengono erette per dividere, e chi le usa come passerelle ne paga le conseguenze. L'esistenza di un grosso gruppo di individui che si spostava a piacimento da una fortezza all'altra deve aver sollevato forti preoccupazioni. Era qualcosa che sfidava la verità su cui tutte le nazioni, vecchie e nuove, fondavano le proprie pretese: il carattere ascritto dell'appartenenza nazionale, l'ereditarietà e la naturalità delle entità nazionali. Il breve sogno liberale dell'assimilazione (e, più in generale, l'idea che il «problema ebraico» fosse prevalentemente di tipo culturale e perciò destinato ad essere risolto attraverso un'acculturazione volontaria e prontamente accettata) svanì a causa della "fondamentale incompatibilità tra il nazionalismo e l'idea della libera scelta". Per quanto paradossale ciò possa sembrare, i nazionalismi coerenti devono alla fine guardare con sospetto al potere di assimilazione delle rispettive nazioni. Essi possono certamente accogliere volentieri le lodi riversate sulle virtù della nazione dai suoi ammiratori, tanto più apprezzati quanto p iù rumorosi e zelanti. Proprio alle lodi essi subordinano anzi la concessione di quella benevolenza che i clienti si attendono dai protettori. I nazionalismi, tuttavia, potrebbero difficilmente accettare che l'ammirazione (anche un'ammirazione attiva, un'imitazione equivalente all'autodissoluzione) venga riconosciuta come titolo di appartenenza. Geoff Dench dà a tutte le nazioni subordinate il seguente stringato consiglio: «Dichiarate senz'altro la vostra fede nella giustizia e nell'uguaglianza futura. Ciò fa parte del ruolo. Ma non aspettatevi che si avveri» (24).

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Come mostra questo breve esame del lungo elenco delle incongruenze ebraiche, gli ebrei infilarono le dita praticamente in tutte le porte sbattute con violenza sulla strada della modernità. Dal processo di emancipazione dal ghetto essi non potevano che uscire gravemente contusi. "Gli ebrei costituivano l'opacità di un mondo che combatteva per la trasparenza, l'ambiguità di un mondo che anelava alla certezza". Essi si ritrovarono a cavallo di tutte le barricate e fecero da bersaglio alle pallottole di entrambe le parti. Il concetto di «ebreo» è stato di fatto costruito come archetipo della «vischiosità» nel sogno moderno di ordine e di chiarezza, come il nemico di ogni ordine: quello vecchio, quello nuovo e, in particolare, quello desiderato.

- "La modernità del razzismo".

Qualcosa di importante accadde agli ebrei sulla strada della modernità. Essi si erano avviati su quella strada quando erano ancora al sicuro, emarginati, segregati e prigionieri dietro le mura reali o immaginarie della "Judengasse". La loro estraniazione era un dato di fatto, come l'aria e la morte. Essa non richiedeva la messa in campo dei sentimenti popolari, di sofisticate argomentazioni o della vigilanza di sorveglianti autoproclamatisi tali: una serie di abitudini diffuse e spesso non codificate, ma nel complesso ben coordinate, era sufficiente a riprodurre la reciproca repulsione che garantiva il perdurare della separazione. Tutto questo cambiò con l'avvento della modernità, con il suo smantellamento delle differenze fissate per legge, i suoi slogan di uguaglianza giuridica e la più strana di tutte le sue novità: la cittadinanza. Ecco come Jacob Katz si esprime in proposito:

"Quando gli ebrei vivevano nel ghetto, e immediatamente dopo che ne furono usciti, le accuse contro di loro venivano da cittadini che godevano di uno status giuridico negato agli ebrei stessi. Queste accuse erano intese soltanto a giustificare e riconfermare la situazione esistente e a fornire una motivazione razionale al mantenimento degli ebrei in una posizione giuridicamente e socialmente inferiore. Ora, però, le accuse erano rivolte da cittadino a cittadino, essendo entrambi uguali di fronte alla legge, e il loro scopo era quello di dimostrare che gli ebrei erano indegni della posizione giuridica e sociale loro conferita" (25).

Non era soltanto la dignità morale e sociale ad essere, per così dire, in gioco. Il problema era infinitamente più intricato. Esso comportava nientemeno che l'invenzione di meccanismi ancora inesistenti e l'acquisizione di capacità fino ad allora sconosciute, come condizioni entrambe necessarie per produrre "artificialmente" ciò che in passato era dato "naturalmente". Nelle epoche premoderne gli ebrei erano una casta tra le altre, un gruppo tra gli altri nella gerarchia sociale, un ceto tra gli altri. La loro specificità non costituiva un problema e le pratiche abituali, pressoché automatiche, della segregazione impedivano che lo diventasse. Con l'avvento della modernità, invece, la separatezza degli ebrei divenne appunto un problema. Come tutte le altre componenti della società moderna, essa doveva ora essere predisposta, costruita, razionalmente argomentata, tecnologicamente progettata, amministrata, controllata e gestita. Coloro che governavano le società premoderne potevano assumere il tranquillo e fiducioso atteggiamento del guardacaccia: affidata alle proprie risorse interne, la società si sarebbe riprodotta anno dopo anno, generazione dopo generazione, con cambiamenti appena percettibili. Non così la società moderna. In essa niente si poteva più dare per scontato. Non sarebbe cresciuto nulla che non fosse stato piantato e qualsiasi frutto spontaneo sarebbe stato qualcosa di bacato, e perciò di pericoloso, che avrebbe potuto insidiare o confondere il piano complessivo. La tolleranza del guardacaccia sarebbe stata un lusso che era rischioso concedersi. Al suo posto si rendevano necessari l'atteggiamento e le capacità del giardiniere, armato di un dettagliato progetto per la sistemazione dei prati, dei confini e dei fossati di divisione; ispirato dall'idea dell'armonia cromatica e della differenza tra gradevole equilibrio e irritante cacofonia; deciso a trattare come erbe infestanti tutte le piante spontanee capaci di interferire con il suo piano e la sua visione dell'ordine e dell'armonia; dotato di macchine e di

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disinfestanti adeguati al compito di sterminare le erbacce e tutelare le divisioni richieste e previste dal progetto generale.

La separatezza degli ebrei aveva dunque perduto la sua naturalità, suggerita in passato dalla segregazione territoriale e rafforzata da molteplici ed evidenti segnali di avvertimento. Ora essa sembrava invece irrimediabilmente artificiale e fragile. Ciò che era stato un assioma, una dato di fatto tacitamente accettato, divenne una verità che doveva essere dimostrata e provata, un'«essenza delle cose» nascosta dietro fenomeni che apparentemente la contraddicevano. La nuova "naturalità" doveva ora essere laboriosamente "costruita" e fondata su un'autorità diversa dall'evidenza delle impressioni sensoriali. Nelle parole di Patrick Girard:

"L'assimilazione degli ebrei nella società ospitante e la sparizione delle distinzioni sociali e religiose avevano portato a una situazione in cui ebrei e cristiani non potevano essere distinti. Essendo diventato un cittadino come tutti gli altri, libero di mescolarsi ai cristiani attraverso il matrimonio, l'ebreo non era più riconoscibile. Ciò aveva un peso rilevante per i teorici antisemiti. Edouard Drumont, autore del pamphlet 'La Francia ebraica', scrisse: «Un qualsiasi signor Cohen, che va alla sinagoga e che osserva la legge religiosa sulla consumazione dei cibi, è una persona rispettabile. Io non ho niente contro di lui. Ce l'ho soltanto con gli ebrei che non sono riconoscibili».Simili idee si rintracciano anche in Germania, dove gli ebrei che portavano l'acconciatura rituale e il caffetano erano meno disprezzati... dei loro correligionari, i patrioti tedeschi di religione ebraica che imitavano i propri concittadini cristiani... L'antisemitismo moderno non nacque da forti differenze fra i gruppi, quanto piuttosto dalla minaccia di una sparizione delle differenze, di un'omogeneizzazione della società occidentale e di un'abolizione delle antiche barriere sociali e giuridiche esistenti tra ebrei e cristiani" (26).

La modernità portò al livellamento delle differenze, o almeno della loro evidenza, della sostanza di cui sono fatte le distanze simboliche tra gruppi separati. In assenza di tali differenze, non era sufficiente meditare filosoficamente sulla saggezza della realtà così com'era, cosa che la dottrina cristiana aveva fatto in precedenza nel tentativo di dare un senso alla materialità della separatezza ebraica. Ora le differenze dovevano essere create o mantenute di fronte allo spaventoso potere erosivo dell'uguaglianza sociale e giuridica e dello scambio tra culture.

La tradizionale spiegazione della segregazione ebraica - il rifiuto di Cristo da parte degli ebrei - era singolarmente inadatta al nuovo compito. Una spiegazione del genere implicava inevitabilmente la possibilità di uscire dalla segregazione. Finché il confine rimaneva chiaramente tracciato e ben marcato, la spiegazione serviva utilmente allo scopo. Essa forniva il necessario elemento di flessibilità che collegava il destino degli uomini alla loro presunta libertà di guadagnarsi la salvezza o di commettere il peccato, di accettare o respingere la grazia divina; tale scopo, inoltre, era conseguito senza incrinare minimamente la solidità del confine stesso. Il medesimo elemento di flessibilità, però, si dimostrò disastroso una volta che le pratiche della segregazione furono divenute troppo incerte e deboli per sostenere la «naturalità» del confine, rendendolo piuttosto un ostaggio dell'autodeterminazione umana. La visione moderna del mondo, dopotutto, proclamava l'assenza di limiti alle possibilità di educazione e di autoperfezionamento. Tutto era possibile, con il dovuto sforzo e la dovuta buona volontà. Al momento della nascita l'uomo era una tabula rasa, un contenitore vuoto che più tardi, nel corso del processo di civilizzazione, avrebbe dovuto essere coperto e riempito con i contenuti forniti dalla pressione livellatrice della cultura condivisa. Paradossalmente, il fatto di motivare le differenze fra gli ebrei e i loro ospiti cristiani soltanto con la diversità del credo religioso e dei rituali ad esso connessi appariva ben integrato nella visione moderna della natura umana. La rinuncia a pregiudizi di altro tipo, da una parte, e l'abbandono delle superstizioni giudaiche e la conversione a una fede superiore, dall'altra, sembravano essere veicoli

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appropriati e sufficienti di autopromozione, una spinta che era naturale attendersi, e su vasta scala, lungo il cammino verso la vittoria finale della ragione contro l'ignoranza.

Ciò che veramente minacciava la solidità dei vecchi confini non era, ovviamente, la formula ideologica della modernità (che, certo, neppure la rafforzava), bensì il rifiuto da parte del moderno stato secolarizzato di riconoscere per legge pratiche sociali diverse. Ciò andava bene finché gli stessi ebrei («il signor Cohen» di Drumont) rifiutavano di seguire lo stato nella sua tendenza all'uniformità e restavano fedeli alle proprie pratiche discriminanti. La vera confusione fu causata da quegli ebrei, sempre più numerosi, che accettarono l'offerta e si prestarono alla conversione, sia nella tradizionale forma religiosa, sia nella forma moderna dell'assimilazione culturale. In Francia, in Germania e nell'area a dominanza tedesca dell'impero austro-ungarico era assai concreta la possibilità che tutti gli ebrei venissero presto o tardi «socializzati» o si «autosocializzassero» fino a trasformarsi in non ebrei, diventando culturalmente indistinguibili e socialmente invisibili. In assenza delle vecchie, consuetudinarie e giuridicamente riconosciute, pratiche di segregazione, tale mancanza di segni visibili di differenziazione poteva soltanto comportare la cancellazione del confine stesso.

Nel contesto della modernità la segregazione richiedeva un metodo moderno di costruzione dei confini. Un metodo capace di contrastare e neutralizzare l'effetto livellatore attribuito ai poteri presumibilmente illimitati delle forze educative e civilizzatrici; un metodo in grado di individuare un'area vietata alla pedagogia e all'autopromozione, di opporre un limite invalicabile al potenziale della cultura (un metodo applicato con fervore, anche se con esiti alterni, a tutti i gruppi che si intendeva tenere in una posizione di subordinazione permanente, come la classe lavoratrice o le donne). Per essere salvata dall'assalto dell'uguaglianza moderna, "la specificità degli ebrei doveva essere riarticolata e costruita su nuove fondamenta, più solide dei poteri umani della cultura e dell'autodeterminazione". Nelle limpide parole di Hannah Arendt, il giudaismo deve essere sostituito dall'ebraicità: «Dal giudaismo essi [gli ebrei] avevano sempre potuto cercar salvezza nella conversione; dall'ebraicità non c'era più alcuna via di scampo» (27).

A differenza del giudaismo, l'ebraicità doveva essere, per usare un'espressione enfatica, più forte della volontà e della capacità creativa umana. L'ebraicità andava collocata a livello della legge di natura (quel genere di legge che si deve scoprire e poi tenere presente e sfruttare a beneficio dell'uomo, ma che non può essere cancellata, manipolata o trascurata, almeno non senza terribili conseguenze). Era una legge del genere che Drumont intendeva rammentare ai propri lettori con il seguente aneddoto:

"«Volete vedere come parla il sangue?», chiese una volta un duca francese ai suoi amici. Egli aveva sposato una Rothschild di Francoforte, nonostante le lacrime della propria madre. Chiamò dunque il figlioletto, estrasse un luigi d'oro dalla tasca e glielo mostrò. Gli occhi del fanciullo scintillarono. «Vedete», continuò il duca, «l'istinto semita si rivela senza incertezze»".

Più tardi Charles Maurras avrebbe insistito sul fatto che «ciò che siamo determina il nostro atteggiamento fin dall'inizio. L'illusione della scelta, della ragione, può solo condurre al " déracinement" personale e al disastro politico». Una tale legge si può ignorare solo mettendo in pericolo se stessi e gli altri, o almeno questo è quanto apprendiamo da Maurice Barrès:

"Preso in una trappola di sole parole, un bambino rimane tagliato fuori da qualsiasi realtà: la dottrina kantiana lo sradica dalla terra dei suoi antenati. Troppi titoli di studio creano ciò che, dopo Bismarck, possiamo chiamare un «proletariato di laureati». Questa è l'accusa che rivolgiamo alle università: il loro prodotto, l'«intellettuale», è destinato a trasformarsi in un nemico della società" (28).

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Il prodotto della conversione, sia essa religiosa o culturale, non è il cambiamento, ma la "perdita" di qualità. Al di là della conversione si nasconde un vuoto, non una nuova identità. Il convertito smarrisce la propria senza acquistare niente che la sostituisca. Per l'uomo l'"essere" precede l'"agire": niente di quello che fa può cambiare ciò che è. Ecco, a livello elementare, l'essenza filosofica del razzismo.

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NOTE AL CAPITOLO SECONDO.

(1). H.L. Feingold, "Menorah", in «Judaic Studies Programme of Virginia Commonwealth University», 4 (estate 1985), p. 2.

(2). N. Cohn, "Warrant for Genocide", London, Eyre & Spottiswoode, 1967, p.p. 267-8.

(3). H.L. Feingold, "Menorah", cit., p. 5.

(4). W. Laqueur, "Terrible Secret", Harmondsworth, Penguin Books, 1980, trad. it. "Il terribile segreto", Firenze, Giuntina, 1983, p. 245.

(5). N. Cohn, "Warrant for Genocide", cit., p.p. 266-7.

(6). Ho trattato più diffusamente questo argomento in "Exit Visas and Entry Tickets", in «Telos», inverno 1988.

(7). E. Jäckel, "Hitler in History)., University Press of New England, 1964.

(8). Confer "HitIer's Secret Book", London, Grove Press, 1964.

(9). N. Cohn, "Warrant for Genocide", cit., p. 252.

(10). Citato in W. Laqueur, "A History of Zionism", New York, Holt, Rinchart & Winston, 1972, p. 188.

(11). M. Weinreich, "Hitler's Professors: The Part of Scholarship in Germany's Crimes against the Jewish People", New York, Yiddish Scientific Institute, 1964, p. 28.

(12). W.D. Rubinstein, "The Left, the Right, and the Jews", London, Croom Helm, 1982, trad. it. "La sinistra, la destra e gli ebrei", Bologna, Il Mulino, 1986, p. 87. Io formulerei questa osservazione in modo diverso: dalla fusione di tali punti di vista non derivò un particolare livello di violenza, ma precisamente il fenomeno dell'antisemitismo.Va sottolineato che la contraddittoria collocazione sociale degli ebrei, sopravvissuta fino alla seconda guerra mondiale, sta oggi rapidamente scomparendo in quasi tutti i paesi ricchi dell'Occidente, con conseguenze finora difficili da prevedere e da calcolare. Rubinstein fornisce convincenti prove statistiche di un massiccio movimento degli ebrei verso il settore medio-superiore della scala sociale. Il successo economico, affiancato dallo smantellamento delle restrizioni politiche, si riflette sul profilo politico dell'opinione pubblica ebraica: «gli ebrei possono oggi essere considerati 'in blocco' come conservatori» (p. 135); «non tutti i neo-conservatori sono ebrei, ma lo è gran parte dei dirigenti» (p. 124); la rivista «Commentary», un tempo liberal-progressista, si è trasformata in un organo militante della destra americana; l'idillio tra l'establishment ebraico e la destra fondamentalista si sta facendo sempre più intimo. Ad un recente convegno su «La fine di una grande amicizia», quella tra gli ebrei e il socialismo (vedi «The Jewish Quarterly», 1988, n. 2), Melanie Phillips ha confid ato: «È un mio grande piacere poter dire ai miei amici e conoscenti socialisti che appartengo a una minoranza etnica e vederli cadere in preda ad un attacco isterico. Com'è possibile che io appartenga a una minoranza? Ho potere. Tra i socialisti è diffusa l'idea che gli ebrei occupino posizioni di potere. Essi sono al governo, non è forse vero? Hanno in mano molte cose, hanno in mano l'industria, sono proprietari terrieri». Mentre George Friedman si chiedeva retoricamente: «I membri ebrei del governo sono stati associati a politiche piuttosto impopolari. Quando l'attuale bolla di sapone scoppierà... che cosa succederà allora? Dove

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sarà la comunità ebraica in quel momento, e dove si collocherà in rapporto al collasso e alle frustrazioni della classe lavoratrice di questo paese?».È interessante notare che la collocazione sociale degli ebrei tedeschi immediatamente prima del periodo nazista era molto vicina ai modelli oggi tipici dell'Europa occidentale e in particolare degli Stati Uniti. Circa i tre quarti degli ebrei tedeschi, a quell'epoca, vivevano di attività commerciali, bancarie e professionali, specialmente nel settore della medicina e della giurisprudenza (contro soltanto un quarto della popolazione non ebraica). A rendere gli ebrei particolarmente visibili era la loro posizione dominante nell'industria editoriale, nella cultura e nel giornalismo («Giornalisti ebrei erano presenti in quasi tutto lo spettro della stampa liberale e di sinistra», scrive D.L. Niewyk in "The Jews in Weimar Germany", Manchester, Manchester University Press, 1980, p. 15). A causa della propria appartenenza di classe, gli ebrei tedeschi erano inclini a seguire il resto delle classi medie nel loro spostamento verso il versante conservatore dello spettro politico.Se, nonostante questa inclinazione, essi si conservarono più fedeli della media ai programmi e ai partiti liberali, fu principalmente perché la destra tedesca era apertamente antisemita e perciò respinse senza mezzi termini le ricorrenti "avances" degli ebrei.

(13). A. Zuk, "A Mobile Class. The Subjective Element in the Social Perception of Jews: the Example of Eighteen Century Poland", in " Polin", vol. 2, Oxford, Basil Blackwell, p.p. 163-78.

(14). Confer Z. Bauman, "Legislators and Interpreters", Cambridge, Polity Press, 1987.

(15). Citato in G.L. Mosse, "Toward the Final Solution: A History of European Racism", London, J.M. Dent & Son, 1978, trad. it. "Il razzismo in Europa. Dalle origini all'Olocausto", Bari, Laterza, 1980, p. 166.

(16). J. Marcus, "Social and Potitical History of the Jews in Poland, 1919-1939", Berlin, Mouton, 1983, p.p. 97-8.

(17). D. Biale, "Power and Powerlessness in Jewish History", New York, Schocken,1986, p. 132.

(18). H. Arendt, "Origins of Totalitarianism", London, Allen & Unwin, 1962, trad. it. "Le origini del totalitatismo", Milano, Bompiani, 1978, parte prima, "L'antisemitismo", p. 2 l.

(19). G.J., Pulzer, "The Rise of Political Antisemitism in Germany and Austria", New York, Wiley & Sons, 1964, p. 311.

(20). H. Arendt, "Le origini del totalitarismo", cit., p. 30.

(21). Ibidem, p. 33.

(22). J. Katz, "From Prejudice to Destruction: Anti-Semitisin 1700-1933", Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1980, p.p. 161, 87.

(23). G.J. Pulzer, "The Rise of Political Antisemitism", cit., p.p. 13 8-9. Dal seguente esempio ci si può fare un'idea della difficile situazione degli ebrei in tali circostanze: «Nella Galizia orientale e nei territori di confine fra la Lituania e la Bielorussia la situazione era di gran lunga più complessa e pericolosa, poiché qui gli ebrei si trovarono intrappolati tra rivendicazioni nazionali in competizione tra loro, come avvenne anche in altre regioni etnicamente miste dell'Europa orientale, come la Transilvania, la Boemia, la Moravia e la Slovacchia. Nella Galizia orientale la popolazione ebraica veniva fortemente identificata con la cultura polacca e in effetti nel periodo prebellico aveva accettato di riconoscere la supremazia politica dei polacchi. La maggior parte degli ebrei non conosceva, e forse disprezzava, la lingua ucraina, ed era indifferente alle aspirazioni nazionali

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ucraine. D'altra parte, la repubblica dell'Ucraina occidentale, esistita per un breve periodo dopo la sua proclamazione a Lwów nell'autunno del 1918, promise agli ebrei l'uguaglianza civile e l'autonomia nazionale, mentre i polacchi di quella regione non fecero nessuno sforzo per nascondere le proprie tendenze antisemite. Nell'incertezza su chi avrebbe ottenuto la vittoria finale, e nel desiderio di non alienarsi le simpatie né dei polacchi né degli ucraini, il consiglio nazionale ebraico proclamò la propria neutralità... Alcuni polacchi considerarono questo gesto come un segnale di propensione per gli ucraini e si vendicarono degli ebrei di Lwów dopo la presa della città nel novembre del 1918. Anche gli ucraini denunciarono la neutralità ebraica, interpretandola come una continuazione del tradizionale atteggiamento ebraico favorevole ai polacchi» (E. Mendelsohn, "The Jews of East-Central Europa between the World Wars", Bloomington, Indiana University Press, 1983, p.p. 51-2).La storia si ripete, quasi alla lettera, durante la seconda guerra mondiale. Gli ebrei della Polonia orientale salutarono con gioia l'arrivo dell'Armata rossa nel 1939, come protezione contro l'aperto e violento antisemitismo nazista. Ancora una volta ciò che rimaneva della popolazione ebraica polacca dopo l'occupazione vide senza ambiguità nelle truppe sovietiche che avanzavano una forza di liberazione. Per molti polacchi sia i tedeschi che i russi erano innanzi tutto e principalmente degli occupanti stranieri.

(24). G. Dench, "Minorities in the Open Society: Prisoners of Ambivalence", London, R.K.P., 1986, p. 259.

(25). J. Katz, "From Prejudice to Destruction", cit., p. 3.

(26). P. Girard, "Historical Foundations of Antisemitism", in " Survivors, Victims, and Perpetrators: Essays on the Nazi Hotocaust", a cura di J.E. Dinsclale, Washington, Emisphere Publishing Company, 1980, p.p. 70-1. Pierre-André Taguieff ha recentemente pubblicato uno studio generale sui fondamenti socio-psicologici del razzismo e sui fenomeni ad esso correlati, tra i quali gioca un ruolo essenziale il risentimento degli individui di sangue misto. Costoro differiscono significativamente da analoghi casi di «incertezza dei confini». Se i socialmente proscritti, gli individui "declassé", sono, per così dire, de-categorizzati, mentre gli immigrati tendono ad essere a-categorizzati (essi si collocano, in un certo senso, al di fuori della classificazione dominante e perciò nel complesso non minano la sua validità), i soggetti di sangue misto sono sovra-categorizzati: con essi si ha la sovrapposizione di campi semantici che devono essere accuratamente delimitati e tenuti separati affinché la classificazione dominante conservi la propria validità ; (confer P. Taguieff, "La force du préjugé: essai sur le racisme et ses doubles", Paris, La Découverte, 1988, p. 343).

(27). H. Arendt, "Le origini del totalitarismo", cit., p.p. 121-2. (28). "The French Right", a cura di J.S. McClelland, London, Jonathan Cape, 1970, p.p. 88, 32, 178.

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3. MODERNITÀ, RAZZISMO, STERMINIO [2].

C'è un evidente paradosso nella storia del razzismo,e del razzismo nazista in particolare.

In quello che di tale storia è di gran lunga il caso più clamoroso e meglio conosciuto, il razzismo fu uno strumento di mobilitazione dei sentimenti di ansia antimodernisti e risultò palesemente efficace soprattutto grazie a questa caratteristica. Adolf Stöcker, Dietrich Eckart, Alfred Rosenberg, Gregor Strasser, Joseph Goebbels e praticamente tutti gli altri profeti, teorici e ideologi del nazionalsocialismo utilizzarono il fantasma della razza ebraica come anello di congiunzione tra le paure delle vittime passate e potenziali della modernizzazione - paure che essi si incaricarono di articolare - e l'ideale società "völkisch" del futuro, che essi proponevano di creare con l'obiettivo di prevenire ulteriori progressi della modernità. Nel loro appello all'orrore - profondamente radicato - per lo sconvolgimento sociale che la modernità preannunciava, essi identificavano quest'ultima con il dominio dei valori legati all'economia e al denaro, e attribuivano alle caratteristiche razziali ebraiche la responsabilità di un tale implacabile attacco ai modi di vita e ai valori umani definiti come "völkisch". L'eliminazione degli ebrei veniva dunque presentata come sinonimo del rifiuto dell'ordine moderno. Ciò fa pensare a un carattere fondamentalmente premoderno del razzismo, alla sua naturale affinità, per così dire, con le emozioni premoderne e alla sua funzionalità selettiva come veicolo di tali emozioni.

D'altro canto, come concezione del mondo e - quel che più importa - come efficace strumento di attività politica, il razzismo è impensabile senza lo sviluppo della scienza, della tecnologia e delle forme moderne di potere statale. In quanto tale, il razzismo è un prodotto specificamente moderno. La modernità ha reso possibile il razzismo. Essa ha inoltre creato una domanda di razzismo: un'era che proclamava il successo come unica misura del valore umano aveva bisogno di una teoria dell'ascrizione per compensare le preoccupazioni legate alla demarcazione e alla difesa dei confini nel contesto di nuove condizioni che rendevano l'attraversamento dei confini stessi più facile di quanto non fosse mai stato in precedenza. Il razzismo, in breve, è un'arma interamente moderna utilizzata nella conduzione di battaglie premoderne o almeno non esclusivamente moderne.

- "Dall'eterofobia al razzismo".

Nella sua accezione più comune (sebbene erronea) il razzismo è inteso come un tipo di avversione o pregiudizio tra gruppi. Esso viene talvolta isolato da altri sentimenti o credenze appartenenti a una classe più ampia a causa della sua intensità emozionale, altre volte a causa di quel riferimento ad attributi ereditari, biologici ed extraculturali che di norma contiene, diversamente dalle varianti non razziste dell'ostilità tra gruppi. In alcuni casi gli studiosi del razzismo evidenziano le pretese scientifiche che altri stereotipi, non razzisti anche se analogamente negativi, di gruppi estranei generalmente non hanno. Quali che siano le caratteristiche prescelte, tuttavia, l'abitudine di analizzare e interpretare il razzismo nel quadro di una categoria di pregiudizi più ampia risulta raramente smentita.

Via via che il razzismo acquista rilievo tra le forme contemporanee di avversione tra gruppi, e unico tra esse manifesta una pronunciata affinità con lo spirito scientifico dell'epoca, assume un peso crescente un filone interpretativo opposto: la tendenza ad estendere la nozione di razzismo in modo

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da ricomprendere in essa ogni genere di avversione. Tutti i tipi di pregiudizio tra gruppi vengono così interpretati come altrettante espressioni di innate, naturali predisposizioni al razzismo. Si può probabilmente evitare di lasciarsi impressionare eccessivamente da questo scambio delle parti e considerarlo, filosoficamente, come una semplice questione di definizioni, che è possibile, dopotutto, adottare o respingere a piacimento. Ad un esame più ravvicinato, però, tale atteggiamento accomodante appare erroneamente motivato. In effetti, se è vero che tutti i tipi di avversione e di ostilità tra gruppi sono forme di razzismo, e che la tendenza a tenere lontani gli estranei rifiutandone la prossimità è stata ampiamente documentata dalla ricerca storica ed etnologica come un attributo pressoché universale e costante delle collettività umane, allora nel razzismo non vi sono elementi fondamentalmente e radicalmente nuovi che abbiano acquisito una particolare rilevanza nel nostro tempo: esso non sarebbe che la riedizione di una vecchia sceneggiatura, anche se certamente con i dialoghi un po' aggiornati. Lo stretto legame del razzismo con altri aspetti della vita moderna, in particolare, viene decisamente negato o relegato ai margini dell'attenzione.

Nel suo recente e straordinariamente erudito studio sul pregiudizio (1) Pierre-André Taguieff tratta il razzismo e l'eterofobia (l'avversione per i diversi) come sinonimi. Entrambi si manifestano, egli sostiene, «su tre livelli», o in tre forme distinte da un grado crescente di complessità. Il «razzismo primario» è, a suo parere, universale. È una reazione naturale alla presenza di un estraneo, a qualsiasi forma di vita umana che risulti sconosciuta e sconcertante. Invariabilmente, la prima risposta all'estraneità è l'antipatia, che il più delle volte conduce all'aggressività. Ciò costituisce un fenomeno universalmente spontaneo. Il razzismo primario non ha bisogno di essere suscitato o fomentato, né necessita di una teoria che legittimi l'odio elementare, sebbene possa essere deliberatamente rafforzato e utilizzato come strumento di mobilitazione politica (2). A questo punto esso può innalzarsi ad un secondo livello di complessità e trasformarsi in razzismo «secondario» (o razionalizzato). Tale trasformazione ha luogo quando viene fornita (e interiorizzata) una teoria che offre delle basi logiche all'avversione. Il ripugnante Altro viene rappresentato come animato da intenzioni malvage o come «oggettivamente» pericoloso, in ogni caso come una minaccia per il benessere del gruppo che prova l'avversione. La categoria verso cui si indirizza tale avversione può, ad esempio, essere immaginata come partecipe di una cospirazione con le forze del male nella forma prevista dalla religione del gruppo che si sente minacciato, oppure può essere ritratta come un rivale economico senza scrupoli. La scelta del campo semantico in cui viene teorizzata la «pericolosità» dell'Altro che è oggetto dell'avversione risulta presumibilmente dettata da ciò che in quel momento costituisce il fattore di maggior rilevanza, conflitto e divisione sociale. La xenofobia, e più in particolare l'etnocentrismo (entrambi sviluppatisi al massimo grado nell'età del nazionalismo rampante, quando una delle linee di divisione più accanitamente difese veniva motivata in termini di storia, cultura e tradizioni condivise), rappresentano un comunissimo caso contemporaneo di «razzismo secondario». Infine, il razzismo «terziario» o mistificatorio, che presuppone i due livelli «inferiori», è caratterizzato dall'uso di un'argomentazione che si richiama alla biologia.Nella forma in cui è stata costruita e interpretata da Taguieff, questa classificazione tripartita appare viziata sul piano logico: se il razzismo secondario è già caratterizzato dalla teorizzazione dell'avversione primaria, non sembra esserci alcuna buona ragione per isolare come caratteristica distintiva di un razzismo «di livello superiore» soltanto una delle molte possibili ideologie che possono essere (e sono) usate a questo scopo. Il razzismo di terzo livello appare molto simile a un caso particolare del gruppo di secondo livello. Taguieff potrebbe forse difendere la propria classificazione se, invece di separare le teorie biologiche a causa della loro presunta natura «mistificatoria» (si può discutere all'infinito sul grado di mistificazione di tutte le altre teorie razziste di secondo livello), sottolineasse la tendenza dell'argomentazione biologica a enfatizzare l'irreversibilità e incurabilità della pericolosa «diversità» dell'Altro. Si potrebbe in effetti far rilevare che - nella nostra epoca di artificialità dell'ordine sociale, di presunta onnipotenza dell'istruzione e, più generalmente, di ingegneria sociale - la biologia in generale e la genetica in particolare

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rappresentano, per la coscienza sociale, un'area tuttora esclusa dalla manipolazione culturale, qualcosa che non sappiamo ancora come strumentalizzare, plasmare e rimodellare a nostro piacimento. Taguieff, tuttavia, insiste sul fatto che la forma moderna, biologico-scientifica, del razzismo non sembra «diversa per natura, meccanismo e funzione, dai tradizionali argomenti di esclusione squalificante» (3), e sottolinea invece il grado di «delirante paranoia» o di estrema «speculazione» come caratteristiche distintive del «razzismo terziario».

Qui suggeriamo, al contrario, che "sono precisamente la natura, la funzione e il modo di operare del razzismo a differenziarlo radicalmente dall'eterofobia", cioè da quel diffuso (ed emozionale, piuttosto che pratico) senso di disagio, imbarazzo e ansia che gli individui normalmente esperiscono quando, in una certa situazione, si trovano di fronte a «presenze umane» che non comprendono pienamente, con cui non riescono a comunicare facilmente e da cui non possono attendersi un comportamento consuetudinario e familiare. L'eterofobia sembra essere una manifestazione concentrata di un fenomeno di ansia ancora più ampio, suscitato dalla sensazione di non avere il controllo di una situazione, e perciò di non poter né influenzare il suo sviluppo, né prevedere le conseguenze delle proprie azioni. L'eterofobia può apparire come un'oggettivazione realistica o irrealistica di tale ansia, ma è comunque probabile che quest'ultima cerchi sempre un oggetto a cui ancorarsi, e che di conseguenza l'eterofobia sia un fenomeno piuttosto comune in tutte le epoche, e più ancora nell'era della modernità, quando le occasioni per fare l'esperienza della «mancanza di controllo» diventano più frequenti, e la loro interpretazione in termini di interferenza intrusiva da parte di un gruppo umano estraneo risulta più plausibile.

Suggeriamo inoltre che, così descritta, "l'eterofobia dovrebbe essere analiticamente distinta dall'inimicizia competitiva", una forma di antagonismo più specifica, generata dalle pratiche umane di ricerca dell'identità e di demarcazione dei confini. Nel caso dell'inimicizia competitiva i sentimenti di antipatia e di avversione appaiono maggiormente come appendici emozionali dell'attività di separazione; la separazione stessa richiede un'attività, uno sforzo, un'azione prolungata. Nel caso dell'eterofobia, invece, gli estranei non sono semplicemente una categoria separata di individui - troppo vicina per non causare disagio, e tuttavia facile da identificare e da tenere a debita distanza -, bensì un gruppo di persone la cui «collettività» non è ovvia o generalmente riconosciuta, ma può essere addirittura contestata e viene spesso nascosta o negata dai membri della categoria estranea. In questo caso l'estraneo minaccia di introdursi nel gruppo indigeno e di fondersi con esso, se non vengono prese e rigorosamente osservate delle misure preventive. L'estraneo, dunque, minaccia l'unità e l'identità del gruppo indigeno non tanto intaccando il suo controllo su un dato territorio o la sua libertà di agire in modo familiare, ma piuttosto sfumando i confini del territorio stesso e cancellando la differenza tra il modo di vita familiare (giusto) e quello estraneo (sbagliato). È questo il caso del «nemico in mezzo a noi», che scatena una violenta spinta alla demarcazione dei confini, la quale a sua volta genera una pesante ricaduta di antagonismo e di odio verso coloro che sono colpevoli o sospettati di fare il doppio gioco e di collocarsi a cavallo della barricata.

Il razzismo è diverso dall'eterofobia e dall'inimicizia competitiva. La differenza non risiede né nell'intensità dei sentimenti, né nel tipo di argomenti usati per razionalizzarli. "Il razzismo si distingue per una pratica di cui è parte e che razionalizza: una pratica che combina le strategie dell'architettura e del giardinaggio con quelle della medicina nella costruzione di un ordine sociale artificiale attraverso l'eliminazione di quegli elementi della realtà data che non rientrano nella realtà perfetta immaginata, né possono essere modificati in modo da rientrarvi". In un mondo che vanta una capacità senza precedenti di migliorare la condizione umana riorganizzando su base razionale le attività dell'uomo, il razzismo esprime la convinzione che una certa categoria di esseri umani non possa essere incorporata nell'ordine razionale, per quanti sforzi si facciano in questo senso. In un mondo caratterizzato dal continuo allargarsi dei limiti della manipolazione scientifica, tecnologica e culturale, il razzismo proclama che determinati difetti di una certa categoria di individui non

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possono essere eliminati o corretti, che essi rimangono al di là dei confini delle pratiche riformatrici e che lì resteranno per sempre. In un mondo che esalta la propria formidabile capacità di educazione e di trasform azione culturale, il razzismo isola una certa categoria di persone che non possono essere raggiunte (e perciò efficacemente trasformate) dall'argomentazione o da qualsiasi altro strumento educativo, e che dunque devono restare perpetuamente estranee. In sintesi: in un mondo moderno distinto dall'aspirazione all'autocontrollo e all'autodeterminazione, il razzismo dichiara che una certa categoria di individui è endemicamente e irrimediabilmente refrattaria al controllo e resistente a tutti gli sforzi di miglioramento. Per usare una metafora medica, è possibile educare e modellare le parti «sane» del corpo, ma non le formazioni cancerose. Queste ultime possono essere «migliorate» solo attraverso la distruzione.

Ne consegue che "il razzismo è inevitabilmente associato alla strategia dell'allontanamento". Se le condizioni lo permettono, il razzismo esige che la categoria dei trasgressori sia rimossa dal territorio occupato dal gruppo che essa minaccia. Se tali condizioni non sussistono, il razzismo esige che la categoria dei trasgressori venga fisicamente sterminata. L'espulsione e la distruzione sono due metodi intercambiabili di allontanamento.

A proposito degli ebrei Alfred Rosenberg scrisse: «Zunz definisce il giudaismo la fantasia dell'anima [ebraica]. Ebbene, l'ebreo non può liberarsi da questa 'fantasia' neanche se viene battezzato dieci volte di seguito, e l'inevitabile esito di tale influenza sarà sempre lo stesso: mancanza di vitalità, anti-cristianesimo e materialismo» (4). Ciò che è vero per la religione vale anche per tutti gli altri interventi culturali: gli ebrei sono incorreggibili. Soltanto la distanza fisica, l'interruzione della comunicazione, la segregazione o l'annientamento possono renderli inoffensivi.

- "Il razzismo come forma di ingegneria sociale".

Il razzismo acquista i suoi caratteri specifici solo nel contesto fornito dal progetto di una società perfetta e dall'intenzione di realizzarlo attraverso sforzi pianificati e coerenti. Nel caso dell'Olocausto il progetto era costituito dal Reich millenario, il regno dello Spirito tedesco liberato. In esso vi era posto unicamente per quest'ultimo. Certamente non per gli ebrei, poiché essi non potevano essere spiritualmente convertiti e abbracciare lo spirito ("Geist") del popolo ("Volk") tedesco. Questa incapacità spirituale era spiegata come attributo dei caratteri ereditari o del sangue, elementi che, almeno a quell'epoca, incarnavano l'altra faccia della cultura, il terreno che essa non poteva sognare di coltivare, una landa selvaggia che non sarebbe mai divenuta oggetto di giardinaggio. (Le prospettive dell'ingegneria genetica non venivano ancora prese seriamente in considerazione.)

La rivoluzione nazista fu un esercizio di ingegneria sociale su scala gigantesca. Il «ceppo razziale» era l'anello fondamentale nella catena delle misure ingegneristiche. Nella raccolta ufficiale delle parole d'ordine della politica nazista, pubblicate in inglese su iniziativa di Ribbentrop per scopi di propaganda internazionale e per questa ragione espresse con cautela in una lingua misurata e prudente, Arthur Gütt, direttore del Dipartimento di igiene del ministero degli Interni, descriveva come principale compito del governo nazista «una politica attiva coerentemente tesa a preservare la salute della razza» e spiegava la strategia che tale politica necessariamente comportava nei seguenti termini: «Se noi facilitiamo la propagazione della stirpe sana attraverso la selezione sistematica e l'eliminazione degli elementi infermi, saremo in grado di migliorare gli standard fisici non, forse, dell'attuale generazione, ma di coloro che verranno dopo di noi». Gütt non aveva nessun dubbio circa il fatto che la selezione/eliminazione prefigurata da tale politica seguisse «le linee universalmente adottate in conformità con le ricerche di Koch, Lister, Pasteur e altri famosi

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scienziati» (5), e perciò costituisse una logica estensione - a ben guardare, il culmine - del progresso della scienza moderna.

Walter Gross, direttore dell'Ufficio per l'informazione sulla politica demografica e il benessere della razza, dichiarò l'obiettivo pratico della politica razziale: invertire la tendenza al «declino del tasso di natalità tra gli abitanti sani e alla illimitata prolificazione degli ereditariamente deboli, dei mentalmente deficienti, dei tarati, dei criminali ereditari, eccetera» (6). Scrivendo per un pubblico internazionale poco propenso ad apprezzare la determinazione dei nazisti - non intralciati da fattori irrazionali come l'opinione pubblica o il pluralismo politico - a portare la scienza e la tecnologia moderne alle proprie estreme conseguenze logiche, Gross non si spinge oltre la necessità di sterilizzare i portatori di tare ereditarie.

La realtà della politica razziale, tuttavia, era assai più raccapricciante. Contrariamente a quanto Gütt suggeriva, i capi nazisti non vedevano alcuna ragione per restringere le loro preoccupazioni a «coloro che verranno dopo di noi». Poiché le risorse lo consentivano, essi si dedicarono al miglioramento della loro generazione. La strada maestra verso tale obiettivo passava attraverso la rimozione forzata della «vita senza valore» ("unwertes Leben"). Sarebbe stato utilizzato ogni mezzo che permettesse di procedere lungo questa strada. A seconda delle circostanze si parlò di «eliminazione», «soppressione», «evacuazione» o «riduzione» (si legga «sterminio»). In seguito all'ordine impartito da Hitler il primo settembre 1939, a Brandenburg, Hadamar, Sonnestein e Eichberg erano stati creati dei centri che si mascheravano dietro una duplice menzogna: nelle conversazioni sommesse tra iniziati essi si chiamavano «istituti per l'eutanasia», mentre per il pubblico più vasto assumevano l'appellativo ancora più ingannevole e fuorviante di fondazioni caritatevoli per l'«assistenza istituzionale» o il «trasporto dei malati», o addirittura l'insignificante nome in codice «T4» (dall'indirizzo Tiergartenstrasse 4, a Berlino, dove si trovava l'ufficio che coordinava l'intera operazione di sterminio) (7). Quando, il 28 agosto 1942, l'ordine dovette essere annullat o in seguito alle proteste di numerose personalità eminenti della Chiesa, il principio della «gestione attiva delle tendenze demografiche» non fu affatto abbandonato. Esso, insieme alla tecnologia delle camere a gas che la campagna per l'eutanasia aveva aiutato a sviluppare, fu applicato a un diverso obiettivo: gli ebrei. E l'operazione fu trasferita in altri luoghi, come Sobibór o Chelmno.

Ma il bersaglio rimaneva pur sempre l'"unwertes Leben". Per i pianificatori nazisti della società perfetta, il progetto che essi perseguivano ed erano determinati a realizzare attraverso l'ingegneria sociale suddivideva la vita umana in quella «dotata di valore» e quella «priva di valore»; la prima doveva essere coltivata amorevolmente e fornita di «spazio vitale» ("Lebensraum"), l'altra doveva essere «allontanata» o - se ciò si rivelava impossibile - soppressa. Coloro che erano semplicemente stranieri non rappresentavano l'obiettivo della politica razziale in senso stretto; ad essi potevano essere applicate vecchie e sperimentate strategie, tradizionalmente associate all'inimicizia competitiva: gli stranieri dovevano essere tenuti al di là di confini ben sorvegliati. Quanti erano fisicamente o mentalmente handicappati costituivano un caso più difficile e richiedevano una nuova, originale politica: non potevano essere espulsi o rinchiusi, in quanto non appartenevano leggittimamente a nessuna delle «altre razze», ma non erano neanche degni di entrare a far parte del Reich millenario. Gli ebrei rappresentavano un caso fondamentalmente simile. Essi non costituivano una razza come le altre: erano piuttosto un'anti-razza, una razza destinata a minare e ad avvelenare tutte le altre, a scalzare non semplicemente l'identità di una qualche razza in particolare, ma l'ordine razziale stesso. (Si ricordi che gli ebrei rappresentavano una «nazione senza caratteri nazionali», l'irriducibile nemico dell'ordine fondato sulle nazioni.) Con approvazione e piacere Rosenberg citava il verdetto autodenigratorio di Weininger sugli ebrei come «tram a coesiva invisibile di fungosità viscide (plasmodio), esistente da tempo immemorabile e diffusasi su tutta la terra» (8). La separazione dagli ebrei, perciò, poteva essere soltanto una mezza misura, una tappa sulla strada dell'obiettivo finale. La questione non poteva essere risolta con l'espulsione degli ebrei

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dalla Germania. Anche lontano dal confini tedeschi, gli ebrei avrebbero continuato a erodere e disintegrare la logica naturale dell'universo. Pur avendo ordinato alle proprie truppe di combattere per la supremazia della razza "tedesca", Hitler credeva che la guerra da lui scatenata fosse combattuta in nome di "tutte le razze", un servizio reso ad una umanità organizzata su basi razziali.Secondo questa concezione dell'ingegneria sociale come compito scientificamente fondato mirante all'istituzione di un nuovo e migliore ordine (compito che implica necessariamente il contenimento, o preferibilmente l'eliminazione, di ogni fattore disgregante), il razzismo era effettivamente in consonanza con il punto di vista universalistico e la pratica della modernità. E ciò per quanto riguarda almeno due aspetti essenziali.

In primo luogo, con l'illuminismo si era giunti all'incoronazione di una nuova divinità - la Natura - nonché alla legittimazione della scienza come suo unico culto ortodosso, e degli scienziati come suoi profeti e sacerdoti. Tutto, in linea di principio, era stato spalancato all'indagine oggettiva; tutto, in linea di principio, poteva essere accertato in termini affidabili e veritieri. Verità, bontà e bellezza, le cose esistenti e quelle auspicabili, erano divenute oggetto legittimo di sistematica e minuziosa osservazione. A loro volta, esse potevano legittimare se stesse soltanto attraverso la conoscenza oggettiva derivante da tale osservazione. Ecco come George L. Mosse sintetizza la sua ben documentata storia del razzismo: «Scienza naturale e ideali morali ed estetici degli antichi si trovano a procedere insieme... è impossibile separare le indagini dei "philosophes" illuministi sulla natura dalla loro analisi della moralità e del carattere dell'uomo». Nella forma in cui fu modellata dall'illuminismo, l'attività scientifica risultò caratterizzata da un «tentativo di determinare l'esatto posto dell'uomo nella natura mediante l'osservazione, le misurazioni e i confronti tra gruppi di uomini e di animali», nonché dalla «fede nell'unità del corpo e della mente». Inoltre, «si ritenne che ciò a sua volta si esprimesse in una maniera tangibile, fisica, tale da poter essere misurata e osservata» (9). La frenologia (la capacità di analizzare il carattere a partire dalla misurazione del cranio) e la fisiognomia (la capacità di analizzare il carattere a partire dai tratti del volto) esprimono nel modo più pieno la sicurezza, la strategia e le ambizioni della nuova era scientifica. Il temperamento, il carattere, l'intelligenza, il talento estetico, persino le tendenze politiche dell'uomo erano visti come determinati dalla natura; in che modo, esattamente, si poteva scoprire attraverso la diligente osservazione e comparazione del «substrato» visibile, materiale, su cui doveva poggiare anche il più elusivo e nascosto degli attributi spirituali. Le fonti materiali delle impressioni sensoriali erano altrettanti indizi dei segreti della natura: segnali che andavano letti, testimonianze scritte in un codice che la scienza doveva svelare.

Al razzismo non restava che postulare una sistematica, e geneticamente riprodotta, distribuzione di questi attributi materiali dell'organismo umano, responsabili delle diverse attitudini caratteriali, morali, estetiche o politiche. Anche questo compito, tuttavia, era già stato svolto da rispettabili e giustamente rispettati pionieri della scienza, raramente o addirittura mai citati tra i fautori del razzismo. Osservando "sine ira et studio" la realtà data, essi non potevano certo ignorare la tangibile, materiale, indubitabilmente oggettiva superiorità dell'Occidente rispetto al resto del mondo abitato. Fu così che il padre della tassonomia scientifica, Linneo, registrò le differenze tra gli abitanti dell'Europa e quelli dell'Africa con la stessa scrupolosa precisione con cui descrisse le differenze tra crostacei e pesci. Egli poteva solo raffigurare, e così fece, la razza bianca come «ricca d'inventiva, piena d'ingegno, ordinata e retta da leggi... All'opposto, ai negri erano attribuite tutte quelle qualità negative che facevano di essi un preciso punto di riferimento per mettere in risalto la razza superiore: erano considerati pigri, infidi e incapaci di autogoverno (10). Il padre del «razzismo scientifico», Gobineau, non dovette fare uso di molta immaginazione per descrivere la razza nera come dotata di scarsa intelligenza ma anche di una sensualità sviluppata all'eccesso, e perciò come una forza bruta, terrificante (esattamente come una folla scatenata), e la razza bianca come amante della libertà, dell'onore e di tutto ciò che è spirituale (11).

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Nel 1938 Walter Frank descrisse la persecuzione degli ebrei come la saga della «cultura tedesca in lotta contro l'ebraismo mondiale». Fin dai primi giorni del governo nazista fu fondata tutta una serie di istituzioni scientifiche - dirette da illustri professori universitari di biologia, storia e scienza politica - con il compito di studiare «la questione ebraica» secondo gli «standard internazionali della scienza avanzata». Il Reichinstitut für Geschichte des neuen Deutschlands, l'Institut zum Studium der Judenfrage, l'Institut zur Erforschung des jüdischen Einflusses auf das deutsche kirchliche Leben, e il ben noto Institut zur Erforschung der Judenfrage di Rosenberg erano soltanto alcuni dei molti centri scientifici che affrontavano i problemi teorici e pratici della «politica ebraica» intesa come applicazione di una metodologia scientifica; a queste istituzioni non mancò mai un personale qualificato in possesso di credenziali accademiche. Ecco una tipica motivazione razionale della loro attività:

"Per decenni l'intera vita culturale è stata in misura maggiore o minore sotto l'influenza della biologia, che risale in particolare alla metà del secolo scorso, con gli insegnamenti di Darwin, Mendel e Galton, e che in seguito è stata sviluppata dagli studi di Plötz, Schallmayer, Correns, de Vries, Tschermak, Baur, Rüdin, Fischer, Lenz ed altri... Si riconobbe così che le leggi naturali scoperte per le piante e gli animali dovevano essere valide anche per l'uomo" (12).

In secondo luogo, a partire dall'illuminismo, il mondo moderno si distinse per il suo atteggiamento attivo, di manipolazione tecnica della natura e del mondo stesso. La scienza non doveva essere sviluppata in modo fine a se stesso: essa era considerata, innanzi tutto e principalmente, come uno strumento di terrificante potere che consentiva ai suoi detentori di migliorare la realtà, di rimodellarla secondo i piani e i progetti umani e di assecondarla nel suo cammino verso l'autoperfezionamento. Il giardinaggio e la medicina fornivano i modelli dell'atteggiamento costruttivo, mentre la normalità, la salute e l'igiene offrivano le metafore di base ai compiti e alle strategie di gestione delle attività umane. L'esistenza e la convivenza umana divennero oggetto di pianificazione e di amministrazione: come la vegetazione dei giardini o gli organismi viventi, esse non potevano essere lasciate alle proprie tendenze spontanee, e meno che mai si poteva consentire che fossero minacciate da erbe infestanti o sopraffatte da tessuti cancerosi. Il giardinaggio e la medicina sono forme funzionalmente distinte della stessa attività, consistente nel "separare e isolare gli elementi utili, destinati a vivere e prosperare, da quelli nocivi e patologici, che devono essere soppressi".

Il linguaggio e la retorica di Hitler erano carichi di immagini di malattia, infezione, infestazione, putrefazione, pestilenza. Egli paragonava il cristianesimo e il bolscevismo alla sifilide e alla peste; parlava degli ebrei come di bacilli, germi della decomposizione o parassiti. «La scoperta del virus ebraico», disse a Himmler nel 1942, «è una delle più grandi rivoluzioni che siano mai avvenute al mondo. La battaglia in cui ci impegniamo oggi è dello stesso tipo di quella ingaggiata, il secolo scorso, da Pasteur e da Koch. Dal virus ebraico hanno origine innumerevoli malattie... Riguadagneremo la nostra salute soltanto eliminando gli ebrei» (13). Nell'ottobre dello stesso anno Hitler proclamò: «Sterminando i parassiti, renderemo un servizio all'umanità» (14).

Gli esecutori degli ordini di Hitler parleranno dello sterminio degli ebrei in termini di "Gesundung" (guarigione) dell'Europa, "Selbstreinigung" (autodepurazione), "Judensäuberung" (epurazione degli ebrei). In un articolo pubblicato su «Das Reich» il 5 novembre 1941 Goebbels salutava l'introduzione dell'obbligo, per gli ebrei, di portare il simbolo della stella di David come una misura di «profilassi igienica». L'isolamento degli ebrei da una comunità pura sul piano della razza era «una regola elementare di igiene razziale, nazionale e sociale». Esistevano, sosteneva Goebbels, persone buone e persone cattive, così come c'erano animali buoni e animali cattivi. «Il fatto che gli ebrei vivano ancora tra noi non è affatto una prova della loro appartenenza al nostro mondo, proprio come una pulce non diventa un animale domestico solo perché vive in una

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casa» (15). La questione ebraica, nelle parole del capo dell'ufficio, stampa del ministero degli Esteri, era «eine Frage der politischen Hygiene» (una questione di igiene politica) (16).

Due scienziati tedeschi di fama mondiale, il biologo Erwin Baur e l'antropologo Martin Stämmler tradussero in un linguaggio esatto e oggettivo ciò che i capi della Germania nazista espressero ripetutamente con l'emotivo e appassionato vocabolario della politica:

"Ogni contadino sa che, se uccidesse i migliori esemplari dei propri animali domestici senza lasciarli procreare e continuasse invece a far riprodurre gli esemplari più scadenti, le sue razze da allevamento andrebbero incontro a una irrimediabile degenerazione. Questo errore, che nessun contadino commetterebbe con i propri animali e le proprie coltivazioni, viene da noi consentito su larga scala in seno alla società. A titolo di risarcimento per la nostra umanità di oggi, noi dobbiamo fare in modo che questi individui inferiori non possano procreare. Una semplice operazione eseguibile in pochi minuti rende tale possibilità praticabile senza ulteriore ritardo... Nessuno approva più di noi le nuove leggi sulla sterilizzazione, ma dobbiamo ripetere ancora una volta che si tratta solo dell'inizio...L'estinzione e la preservazione sono i due poli attorno a cui ruota l'intera politica razziale, i due metodi con cui essa deve lavorare... L'estinzione è la distruzione biologica dei geneticamente inferiori attraverso la sterilizzazione, la soppressione dei malati e degli indesiderabili... Il nostro compito consiste nella salvaguardia della popolazione dalla crescita delle erbe infestanti" (17).

In sintesi: molto prima che fossero costruite le camere a gas, i nazisti, su ordine di Hitler, tentarono di sopprimere i propri compatrioti malati di mente o fisicamente handicappati attraverso una «uccisione misericordiosa» (falsamente chiamata «eutanasia»), e di selezionare una razza superiore mediante la fecondazione organizzata di donne superiori da parte di uomini superiori sul piano razziale (eugenetica). Analogamente a questi tentativi, l'assassinio degli ebrei fu un esercizio di gestione razionale della società e uno sforzo sistematico per utilizzare al suo servizio l'atteggiamento, la filosofia e i precetti della scienza applicata.

- "Dalla repulsione allo sterminio".

«La teologia cristiana non ha mai patrocinato come scopo primario lo sterminio degli ebrei», scrive George L. Mosse, «ma piuttosto la loro esclusione dalla società in quanto testimoni viventi del deicidio: i pogrom erano solo una conseguenza secondaria dell'isolamento degli ebrei nei ghetti» (18). «Un delitto», afferma Hannah Arendt, «era colpito con la punizione; un vizio non poteva che essere estirpato» (19).

Soltanto nella sua moderna, «scientifica», forma razzista, la secolare repulsione per gli ebrei è stata concepita come una misura igienica; soltanto con la moderna reincarnazione dell'odio antiebraico, gli ebrei sono stati accusati di un vizio inestirpabile, di una tara innata inseparabile dai suoi portatori. Prima di allora essi erano dei peccatori; come tutti i peccatori erano destinati a soffrire per i propri peccati in un purgatorio terreno o ultraterreno, a pentirsi e forse a meritare la redenzione. Le loro sofferenze andavano viste come conseguenza del peccato e come necessità del pentimento. Nessun beneficio di questo tipo può essere immaginato per il vizio, anche se accompagnato dalla punizione. (Se si hanno dubbi in proposito, si consulti Mary Whitehouse.) Il cancro, i parassiti o le erbe infestanti non possono pentirsi. Essi non hanno peccato, hanno semplicemente vissuto secondo la propria natura. Non c'è niente di cui punirli. Vista la natura della loro malignità, essi devono essere sterminati. Solo con se stesso, nel proprio diario, Joseph Goebbels espresse questi concetti con la stessa chiarezza che più sopra abbiamo osservato nell'astratta filosofia della storia di Rosenberg: «Non c'è alcuna speranza di ricondurre gli ebrei in seno all'umanità civilizzata

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attraverso punizioni eccezionali. Essi rimarranno per sempre ebrei, esattamente come noi saremo sempre membri della razza ariana» (20). A differenza del «filosofo» Rosenberg, Goebbels era tuttavia ministro di un governo detentore di un enorme e incontrastato potere; un governo, per di più, che - grazie ai progressi della civiltà moderna - poteva concepire la possibilità di una vita senza cancro, parassiti o erbe infestanti, e che aveva a disposizione le risorse materiali per trasformare questa possibilità in realtà.

È difficile, forse impossibile, giungere all'idea di sterminare un intero popolo senza ricorrere all'immagine della razza, vale a dire senza la visione di un difetto innato e assolutamente incurabile che, oltretutto, è in grado di autopropagarsi se non viene fermato. È altrettanto difficile, e probabilmente impossibile, giungere a un'idea del genere senza chiamare in causa la pratica della medicina (sia della medicina in senso stretto, che ha per oggetto il singolo corpo umano, sia delle sue numerose applicazioni allegoriche), con il suo modello di salute e di normalità, la sua strategia di separazione e le sue tecniche chirurgiche particolarmente difficile, e pressoché impossibile, concepire una simile idea a prescindere dall'approccio ingegneristico alla società, dalla fede nell'artificialità dell'ordine sociale, nelle istituzioni basate sulla competenza e nelle pratiche di gestione scientifica dell'ambiente e dell'interazione umana. Per queste ragioni "la versione dell'antisemitismo mirante allo sterminio deve essere considerata come un fenomeno interamente moderno", possibile soltanto in uno stadio avanzato della modernità .

Questi non erano, tuttavia, gli unici legami tra il progetto di sterminio e gli sviluppi correttamente associati alla civiltà moderna. Il razzismo, anche se accoppiato alla predisposizione tecnologica della mentalità moderna, non sarebbe bastato a garantire il compimento dell'Olocausto. Per fare ciò, avrebbe dovuto essere capace di assicurare il passaggio dalla teoria alla pratica, e ciò avrebbe probabilmente comportato l'attivazione, grazie al semplice potere di mobilitazione delle idee, di un numero di agenti umani adeguato alle dimensioni dell'impresa, e la necessità di alimentare la loro dedizione alla causa per tutto il tempo richiesto dal progetto. Attraverso il condizionamento ideologico, la propaganda o il lavaggio del cervello, il razzismo avrebbe dovuto instillare nelle masse dei non ebrei un odio e una ripugnanza così intensi da scatenare una violenta azione contro gli ebrei sempre e dovunque essi fossero presenti.

Secondo un'opinione largamente condivisa tra gli storici, ciò non accadde. Nonostante le enormi risorse destinate dal regime nazista alla propaganda razzista, nonostante gli sforzi concentrati dell'educazione nazista e la concreta minaccia del terrore contro le resistenze alle pratiche razziste, l'accettazione popolare del programma razzista (e in particolare delle sue estreme conseguenze logiche) risultò essere ben lontana dal livello che uno sterminio di ispirazione emozionale avrebbe richiesto. Se fosse necessaria un'ulteriore prova in tal senso, ciò dimostra ancora una volta "l'assenza di continuità o di naturale progressione tra l'eterofobia o l'inimicizia competitiva e il razzismo". Quei capi nazisti che speravano di approfittare della diffusa avversione nei confronti degli ebrei per ottenere il sostegno popolare alla politica razzista di sterminio furono presto costretti a riconoscere di essersi sbagliati.

Ma se anche (caso davvero improbabile) il credo nazista avesse avuto più successo e i volontari disposti a linciare e a tagliare gole fossero stati assai più numerosi, la violenza della folla apparirebbe in tutta evidenza ai nostri occhi come un modo palesemente inefficiente e vistosamente premoderno di gestire l'ingegneria sociale e il progetto radicalmente moderno di igiene razziale. A ben guardare, come Sabini e Silver hanno sostenuto in maniera convincente, il più riuscito, diffuso e materialmente efficace, episodio di violenza antiebraica di massa in Germania, la tristemente famosa "Kristallnacht" (Notte dei cristalli) fu

"un pogrom, uno strumento di terrore... tipico della lunga tradizione dell'antisemitismo europeo e non del nuovo ordine nazista, del sistematico sterminio della popolazione ebraica d'Europa. La

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violenza della folla è una tecnica di sterminio primitiva e inefficace. È un metodo efficace per terrorizzare una popolazione, per tenere gli individui al proprio posto, forse anche per forzare alcuni ad abbandonare le proprie convinzioni religiose o politiche, ma questi non furono mai gli obiettivi di Hitler per quanto riguardava gli ebrei: egli intendeva semplicemente distruggerli" (21).

La «folla» disposta alla violenza non era abbastanza numerosa; lo spettacolo dell'assassinio e della distruzione respingeva tante persone quante ne ispirava, mentre la stragrande maggioranza di esse preferiva chiudere occhi e orecchie, ma anzitutto tacere. La distruzione di massa non fu accompagnata dal montare delle emozioni, ma da un mortale silenzio di noncuranza. Non fu il giubilo, ma l'indifferenza pubblica a «irrobustire il cappio che si stava inesorabilmente stringendo attorno al collo di centinaia di migliaia di individui» (22). "Il razzismo è in primo luogo una politica, in secondo luogo un'ideologia. Come tutte le politiche, ha bisogno di organizzazione, di amministratori e di esperti". Come tutte le politiche ha bisogno, per la propria realizzazione, di una divisione del lavoro e di un efficace isolamento dei compiti dall'effetto disorganizzante dell'improvvisazione e della spontaneità. Esso richiede che gli specialisti siano lasciati indisturbati e liberi di eseguire il proprio lavoro.

Non che l'indifferenza fosse essa stessa irrilevante: ai fini del successo della «soluzione finale» certamente non lo era. Fu la paralisi di una popolazione pur restia a trasformarsi in una folla violenta, una paralisi dovuta al fascino e alla paura emananti dalla manifestazione del potere, che consenti alla logica mortale del "problem-solving" di seguire il proprio corso senza incontrare ostacoli. Nelle parole di Lawrence Stoke, «l'assenza di proteste contro i disumani provvedimenti del regime quando ancora, inizialmente, la sua posizione al potere era insicura, rese pressoché impossibile la prevenzione delle estreme conseguenze logiche di quei provvedimenti» (23). La diffusione e la profondità dell'eterofobia erano evidentemente tali da far sì che la popolazione tedesca non protestasse contro la violenza, anche se la maggioranza di essa non l'approvava e restava immune dall'indottrinamento razzista. I nazisti ebbero molte occasioni di accertare quest'ultimo fatto. Nel suo impeccabilmente equilibrato resoconto degli atteggiamenti tedeschi, Sarah Gordon cita un rapporto ufficiale che esprimeva a chiare lettere la delusione nazista per la risposta della popolazione alla "Kristallnacht":

"E noto che oggi in Germania l'antisemitismo è fondamentalmente confinato al partito e alle sue organizzazioni, e che una certa parte della popolazione non ha la minima comprensione dell'antisemitismo, dimostrando una totale mancanza di identificazione con esso.Nei giorni che seguirono la 'Kristallnacht' queste persone si recarono immediatamente nei negozi ebraici...Ciò accade in buona misura perché noi indubbiamente siamo un popolo antisemita, uno stato antisemita, ma ciò nonostante in tutte le manifestazioni della vita dello stato e del popolo l'antisemitismo risulta praticamente inespresso... In seno al popolo tedesco ci sono ancora gruppi di 'Spiesser' [piccolo-borghesi] che parlano dei poveri ebrei e non hanno nessuna comprensione degli atteggiamenti antisemiti del popolo tedesco, e che intercedono a favore degli ebrei ogni volta che ne hanno l'opportunità. Bisognerebbe evitare che soltanto i dirigenti e il partito siano antisemiti" (24).

Il rifiuto della violenza - in particolare della violenza visibile e praticata in modo da essere vista - coincideva, tuttavia, con un atteggiamento assai più simpatetico verso le misure amministrative prese contro gli ebrei. Un gran numero di tedeschi salutò con favore la politica, energica e rumorosamente propagandata, mirante a segregare, tenere separati e ridurre all'impotenza gli ebrei: una politica che rientrava tra le espressioni e gli strumenti tradizionali dell'eterofobia e dell'inimicizia competitiva. Molti tedeschi, inoltre, accolsero favorevolmente i provvedimenti presentati come punizione degli ebrei (nella misura in cui si poteva fingere che ad essere punito fosse un ebreo astratto), in quanto soluzione immaginaria (e tuttavia plausibile) di reali (anche se

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subconsce) ansie e paure di essere scalzati dalla propria posizione e gettati nell'insicurezza. Quali che fossero le ragioni che inducevano a placare tali ansie e paure, esse apparivano radicalmente diverse da quelle suggerite dalle esortazioni alla violenza secondo lo stile di Streicher, cioè come modo fin troppo realistico di re agire a immaginari crimini sessuali o economici. Dal punto di vista di coloro che progettarono e ordinarono l'omicidio di massa degli ebrei, questi ultimi dovevano morire non perché fossero oggetto di avversione (o almeno non principalmente per questa ragione): "essi erano considerati meritevoli di morte (e perciò oggetto di avversione) perché si collocavano tra una realtà imperfetta e carica di tensioni e l'agognato mondo della tranquilla felicità". Come vedremo nel prossimo capitolo, la scomparsa degli ebrei era strumentale alla realizzazione di un mondo perfetto. L'assenza degli ebrei costituiva appunto la differenza tra quel mondo e il mondo imperfetto esistente qui ed ora.

Prendendo in considerazione fonti neutrali e critiche, oltre che i rapporti ufficiali, la Gordon ha documentato un diffuso e crescente sostegno, da parte del «tedesco medio», alla politica di esclusione degli ebrei dalle posizioni di potere, ricchezza ed influenza (25). La graduale sparizione degli ebrei dalla vita pubblica fu salutata con favore o deliberatamente ignorata. Il rifiuto di prendere parte personalmente alla persecuzione degli ebrei era, in breve, combinato con la disponibilità ad assecondare l'azione dello stato, o almeno a non interferire con essa.

"La maggioranza dei tedeschi non era costituita da antisemiti fanatici o «paranoici», bensì da antisemiti «moderati», «latenti» o passivi, per i quali gli ebrei erano divenuti un'entità «spersonalizzata», astratta ed estranea, che si collocava al di là della solidarietà umana, e la «questione ebraica» un problema legittimo di politica statale che richiedeva una soluzione" (26).

Queste considerazioni dimostrano ancora una volta l'importanza capitale dell'altro anello di congiunzione - operativo piuttosto che ideologico - tra l'antisemitismo concepito come sterminio e la modernità. L'"idea" dello sterminio, discontinua rispetto all'eterofobia tradizionale e perciò dipendente dai due fenomeni inequivocabilmente moderni della teoria razzista e della sindrome medico-terapeutica, forniva il primo anello di congiunzione. Ma tale idea moderna aveva anche bisogno di moderni mezzi di realizzazione, e li trovò nella burocrazia.

L'unica soluzione adeguata ai problemi posti dalla visione del mondo razzista è un isolamento totale e senza compromessi della razza patogena e infettiva - la fonte della malattia e della contaminazione - attraverso la sua completa separazione spaziale o distruzione fisica. Per sua natura questo è un compito di spaventose proporzioni, impensabile senza la disponibilità di enormi risorse, dei mezzi per la loro mobilitazione e distribuzione pianificata, delle capacità necessarie a scomporre l'impresa complessiva in un gran numero di funzioni parziali e specializzate, e delle competenze richieste dalla coordinazione delle varie prestazioni. In sintesi, il progetto risulta inconcepibile senza la burocrazia moderna. Per essere efficace, il moderno antisemitismo, inteso come sterminio, doveva essere accoppiato alla burocrazia moderna. E in Germania lo fu. Nel suo famoso rapporto presentato alla conferenza di Wannsee, Heydrick parlò di «approvazione» o «autorizzazione» data dal "Führer" ; alla politica ebraica delineata dal "Reichsicherheithauptamt". Di fronte ai problemi che scaturivano dall'idea dello sterminio e dall'obiettivo che essa si proponeva (Hitler preferiva parlare di «profezia» piuttosto che di obiettivo o di compito), l'organizzazione burocratica chiamata "Reichsicherheithauptamt" cominciò a progettare le adeguate "soluzioni" pratiche. Lo fece nel modo in cui lo fanno tutte le burocrazie: calcolando i costi e confrontandoli con le risorse disponibili, per poi cercare di individuare la combinazione ottimale. Heydrick sottolineò ; la necessità di accumulare esperienza pratica, pose l'accento sulla gradualità del processo e sul carattere provvisorio di ogni passo compiuto, condizionato dal patrimonio, ancora limitato, di conoscenze pratiche; il "Reichsicherheithauptamt" avrebbe attivamente cercato la soluzione migliore. Il "Führer" espresse la sua romantica visione di un mondo ripulito dalle razze

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inguaribilmente malate. Il resto della questione fu affidato a un freddo, razionale processo burocratico, niente affatto romantico.

"La miscela omicida era costituita da un'ambizione tipicamente moderna alla progettazione e all'ingegneria sociale, combinata con una concentrazione - altrettanto tipicamente moderna - di potere, risorse e capacità gestionali". Nelle parole limpide e indimenticabili della Gordon:

"Quando milioni di ebrei e di altre vittime pensavano alla propria morte imminente e si domandavano «perché devo morire, se non ho fatto niente per meritarlo?», probabilmente la cosa più semplice sarebbe stata rispondere che il potere era completamente concentrato nelle mani di un solo uomo, e che a quell'uomo accadeva di odiare la loro «razza»" (28).

L'odio di un uomo e la concentrazione del potere non dovevano necessariamente combinarsi. (In effetti, a tutt'oggi non è stata sviluppata nessuna teoria soddisfacente in grado di dimostrare che l'antisemitismo è funzionalmente indispensabile a un regime totalitario; o che, viceversa, la presenza dell'antisemitismo nella sua moderna forma razzista sfocia inevitabilmente in un regime del genere. Maus von Beyme ha fatto notare in un suo recente studio che i falangisti spagnoli, ad esempio, erano particolarmente orgogliosi dell'assenza di qualsiasi osservazione antisemita in tutti gli scritti di Antonio Primo de Rivera, mentre perfino un fascista «classico» come il cognato di Franco, Serrano Suñer, definiva il razzismo in generale come un'eresia per un buon cattolico. Il neofascista francese Maurice Bardech ha affermato che la persecuzione degli ebrei fu il più grande errore di Hitler e restava "hors du contrat fasciste") (29). Ma si combinarono. E potrebbero combinarsi di nuovo.

- "Guardando al futuro".

La storia dell'antisemitismo moderno - sia nella sua forma eterofobica, sia in quella razzista moderna - non è conclusa, come non lo è la storia della modernità in generale e dello stato moderno in particolare. Oggi i processi di modernizzazione sembrano spostarsi dall'Europa in altre parti del mondo. Anche se un qualche tipo di meccanismo di demarcazione dei confini appare necessario nel passaggio verso la moderna cultura del «giardinaggio», così come nel corso delle traumatiche trasformazioni che interessano le società in via di rnodernizzazione, la scelta di affidare agli ebrei il ruolo di tale meccanismo fu con ogni probabilità dettata dalle particolari vicissitudini della storia europea. La connessione tra la fobia antiebraica e la modernità europea era storica e, si potrebbe dire, storicamente unica. D'altra parte, sappiamo anche troppo bene che gli stimoli culturali si trasmettono in modo relativamente libero, anche se non accompagnati dalle condizioni strutturali strettamente correlate ad essi nel loro luogo di origine. Lo stereotipo degli ebrei come forza perturbatrice dell'ordine, come fastello di opposizioni che mina tutte le identità e minaccia tutti gli sforzi di autodeterminazione, si è sedimentato molto tempo fa nell'assai autorevole cultura europea, e si presta ad essere esportato ed importato, come tutti gli altri aspetti di tale cultura, ampiamente riconosciuta per la sua presunta superiorità e affidabilità. Questo stereotipo, come in passato tanti altri concetti ed elementi culturalmente strutturati, può essere adottato in quanto strumento per la soluzione di problemi locali, anche se l'esperienza storica da cui è scaturito è assente in quell'area, anche se (o forse particolarmente se) le società che lo adottano non hanno nessuna precedente conoscenza diretta degli ebrei.

È stato recentemente notato che l'antisemitismo è sopravvissuto alle vittime contro cui era apparentemente diretto. In paesi dove gli ebrei sono pressoché scomparsi, l'antisemitismo (come sentimento che ora, naturalmente, risulta legato a pratiche aventi un bersaglio principale diverso dagli ebrei) è tutt'altro che scemato. Ancor più degna di nota è la dissociazione tra i sentimenti

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antiebraici e tutti gli altri pregiudizi nazionali, religiosi o razziali a cui si riteneva che l'antisemitismo fosse strettamente correlato. E oggi i sentimenti antisemiti non sono neanche collegati a idiosincrasie individuali o di gruppo, e in particolare a problemi irrisolti portatori di ansia, forme acute di incertezza e così via. Bernd Martin, che ha studiato il caso austriaco dell'«antisemitismo senza ebrei», ha coniato la definizione di «sedimentazione culturale» per spiegare un fenomeno relativamente nuovo: certi caratteri o modelli comportamentali umani (generalmente morbosi o comunque repulsivi o infamanti) sono stati definiti nella coscienza popolare come tipici degli ebrei. In assenza di verifiche pratiche di tale correlazione, la definizione culturale negativa e l'avversione per i caratteri a cui essa si riferisce si alimentano e si rafforzano a vicenda (30).

In molti altri casi di antisemitismo contemporaneo, però, la spiegazione in termini di «sedimentazione culturale» non risulta valida. Nel nostro villaggio globale le notizie si diffondono rapidamente dovunque, e da molto tempo la cultura è diventata un fenomeno senza frontiere. "Più che un prodotto della sedimentazione culturale l'antisemitismo contemporaneo sembra essere soggetto ai processi di diffusione culturale", oggi assai più intensi di quanto non siano mai stati in passato. Come altri oggetti di tale diffusione, l'antisemitismo, pur conservando una certa affinità con la propria forma originaria, nel corso del processo viene trasformato - inasprito o arricchito - perché si adatti ai problemi e alle esigenze del suo nuovo contesto. Tali problemi ed esigenze non scarseggiano certo in tempi di «sviluppo ineguale» della modernità, con le tensioni e i traumi che l'accompagnano. Gli stereotipi della fobia antiebraica offrono una lettura prefabbricata di trasformazioni altrimenti inquietanti e spaventose e di forme di sofferenza mai sperimentate prima. In Giappone, ad esempio, tali stereotipi hanno acquistato negli anni recenti una crescente popolarità come chiave universale per la comprensione di ost acoli non previsti sulla strada dell'espansione economica: l'attività della popolazione ebraica mondiale viene proposta come spiegazione di eventi completamente diversi tra loro, quali la sopravvalutazione dello yen e la minaccia di "fall-out" nel caso di un altro incidente nucleare simile a quello di Chernobyl, seguito da un analogo tentativo sovietico di nascondere l'evento (31).

Un genere di stereotipo antisemita che si diffonde con facilità è quello che Norman Cohn descrive esaurientemente con l'immagine degli ebrei visti come soggetti di una cospirazione internazionale mirante ad abbattere tutti i poteri e a decomporre tutte le culture e le tradizioni dei vari paesi, per unire il mondo sotto la dominazione ebraica. Si tratta certamente della forma di antisemitismo più denigratoria e potenzialmente distruttiva: fu sotto gli auspici di questo stereotipo che i nazisti tentarono lo sterminio degli ebrei. Sembra che nel mondo contemporaneo la multiforme raffigurazione degli ebrei, che un tempo traeva ispirazione dalle molteplici dimensioni dell'«incongruenza ebraica», tenda ad essere ridotta a una sola, abbastanza semplice, immagine: quella di "un'élite sovranazionale, un potere invisibile mimetizzato dietro tutti i poteri visibili, un burattinaio nascosto responsabile di giochi del destino presumibilmente spontanei e incontrollabili, ma generalmente sfortunati e sconcertanti".

La forma di antisemitismo oggi dominante è un prodotto della teoria, non dell'esperienza elementare: essa è sostenuta da un processo di insegnamento e apprendimento, non da reazioni intellettualmente non elaborate al contesto dell'interazione quotidiana. All'inizio di questo secolo il genere di antisemitismo di gran lunga più diffuso nei paesi ricchi dell'Europa occidentale era quello che mirava a colpire le masse impoverite e fortemente estranee degli immigranti ebrei; tale antisemitismo scaturiva dall'esperienza immediata delle classi inferiori indigene, le sole che erano a contatto con quegli strani e bizzarri forestieri, e che rispondevano alla loro sconcertante e destabilizzante presenza con diffidenza e sospetto. Questi sentimenti erano raramente condivisi dalle élite, che non avevano nessuna esperienza diretta di interazione con i nuovi venuti, e per le quali gli immigranti non si distinguevano in modo sostanziale dal resto delle riottose, culturalmente rozze e potenzialmente pericolose classi inferiori. Finché rimase non elaborata da una teoria che

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soltanto gli intellettuali delle classi medie o superiori potevano offrire, l'eterofobia elementare delle masse restò (per parafrasare la famosa espressione di Lenin) al livello della «coscienza sindacale»: essa non poteva sollevarsi da tale livello finché faceva riferimento soltanto all'esperienza immediata del rapporto con gli ebrei poveri. Certo, poteva essere generalizzata in una piattaforma che facesse da supporto all'inquietudine delle masse semplicemente sommando le ansie individuali e presentando le preoccupazioni private come problemi condivisi (come avvenne nel caso del British Movement di Mosley, che si scagliava principalmente contro l'East End londinese, o dell'attuale British National Front, che, analogamente, prende di mira Leicester e Notting Hill, così come il Fronte Nazionale francese prende di mira Marsiglia). Ci si poteva spingere fino a chiedere di «rimandare i forestieri nel luogo da cui erano venuti». Ma non c'era nessun percorso che portasse da questa eterofobia, o anche da quest'ansia di demarcazione dei confini presente nelle masse (ansia che in un certo senso era una questione privata delle classi inferiori), a sofisticate teorie antisemitiche di ambizione universale, come quella della razza inquinante o della «cospirazione mondiale». Per catturare l'immaginazione popolare tali teorie devono riferirsi a fatti che di norma sono inaccessibili e sconosciuti alle masse, e certamente fuori dall'ambito dell'esperienza quotidiana e immediata.

La nostra precedente analisi ci ha tuttavia portato a concludere che il vero ruolo delle forme sofisticate - teoriche - di antisemitismo sta non tanto nella sua capacità di fomentare le pratiche antagonistiche delle masse, quanto nel suo peculiare legame con il progetto di ingegneria sociale e le ambizioni dello stato moderno (o, più precisamente, con le varianti estreme e radicali di tali ambizioni). Stando all'evidenza delle attuali tendenze, in Occidente - di fronte al ritirarsi dello stato dalla gestione diretta di molte aree della vita sociale da esso precedentemente controllate, per lasciar posto a una struttura generatrice di pluralismo e affidata al mercato - sembra improbabile che la forma razzista dell'antisemitismo possa ancora essere usata in futuro come strumento di un progetto di ingegneria sociale su larga scala. Nel futuro "prevedibile", per essere più precisi. L'assetto postmoderno, orientato al consumo e incentrato sul mercato, della maggior parte delle società occidentali appare fondato sulle fragili basi di un'eccezionale superiorità economica, che per il momento assicura a queste società una quota sproporzionata delle risorse mondiali, ma che non è destinata a durare per sempre. Si può ritenere che in un futuro non troppo lontano possano certamente presentarsi situazioni che richiedano una diretta assunzione della gestione sociale da parte dello stato: a quel punto la ben radicata e ben sperimentata prospettiva razzista potrebbe tornare di nuovo utile. Nel frattempo si potranno usare come mezzi di propaganda politica e di mobilitazione le versioni non razziste, meno radicali, della fobia antiebraica.

Poiché gli ebrei si muovono ormai massicciamente verso le classi medio-superiori, portandosi in questo modo fuori dal raggio di esperienza diretta delle masse, gli antagonismi di gruppo, di nuovo fomentati, che scaturiscono dalle preoccupazioni per la demarcazione e la difesa dei confini, tendono oggi a concentrarsi, nella maggior parte dei paesi occidentali, sui lavoratori immigranti. Esistono forze politiche ansiose di sfruttare tali preoccupazioni. Esse usano spesso un linguaggio sviluppato dal razzismo moderno per sostenere l'idea della segregazione e della separazione fisica: uno slogan utilizzato con successo dai nazisti nel loro cammino verso il potere come mezzo per guadagnare alle proprie intenzioni razziste l'appoggio dell'inimicizia combattiva delle masse. In tutti i paesi che nel periodo della ricostruzione economica postbellica hanno attratto grandi masse di lavoratori immigranti, la stampa popolare e i politici di ispirazione populista offrono innumerevoli esempi dei nuovi usi a cui il linguaggio razzista attualmente si presta. Gérard Fuchs, Pierre Jouve e Ali Magoudi (32) hanno recentemente pubblicato ampi resoconti e convincenti analisi di tali usi. C'è il caso della rivista «Le Figaro» del 26 ottobre 1985, dedicata al tema «Saremo ancora francesi fra trent'anni?», o il caso di Jacques Chirac che, in veste di primo ministro, annuncia appassionatamente la determinazione del suo governo a combattere con grande fermezza per il rafforzamento della sicurezza personale e dell'identità della comunità nazionale francese. E il lettore inglese non ha di certo bisogno di rivolgersi ad autori francesi per trovare un linguaggio

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segregazionista, pressoché razzista, al servizio della mobilitazione dell'eterofobia popolare e delle paure legate alla demarcazione dei confini.

Per quanto siano abominevoli, e per quanto grande sia la riserva di potenziale violenza che contengono, l'eterofobia e le ansie connesse alla contesa sui confini non sfociano - né direttamente, né indirettamente - nel genocidio. "Confondere l'eterofobia con il razzismo e il crimine organizzato sul modello dell'Olocausto è fuorviante e perciò potenzialmente dannoso, in quanto distoglie l'attenzione dalle vere cause del disastro, che sono radicate in alcuni aspetti della mentalità e dell'organizzazione sociale moderna", e non in reazioni agli estranei che nella storia si sono sempre riscontrate, e neanche in conflitti di identità meno universali ma comunque largamente diffusi. Nello scatenamento e nella conduzione dell'Olocausto l'eterofobia tradizionale gioca un ruolo ausiliario. I fattori veramente indispensabili risiedono altrove e hanno un rapporto al massimo meramente storico con le forme più familiari di avversione tra gruppi. La "possibilità" dell'Olocausto era radicata in alcuni caratteri universali della civiltà moderna; la sua "esecuzione", d'altro canto, era legata a una specifica, e niente affatto universale, relazione tra lo stato e la società. Il prossimo capitolo sarà dedicato a un più dettagliato esame di questi rapporti.

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NOTE AL CAPITOLO TERZO.

(1). Confer P. Taguieff, "La force du préjugé: essai sur le racisme et ses doubles", Paris, La Découverte, 1988.

(2). Ibidem, p.p. 69-70. A. Memmi, in "Le racisme", Paris, Gallimard, 1982, sostiene che «è il razzismo, non l'anti-razzismo, ad essere davvero universale» (p. 157), e spiega il mistero della sua asserita universalità chiamando in causa un altro mistero: la paura istintiva invariabilmente suscitata da tutte le forme di differenza. Non si capisce il "diverso", che così diventa "ignoto", e l'ignoto è fonte di terrore. Secondo Memmi l'orrore di fronte all'ignoto «scaturisce dalla storia della nostra specie, nel corso della quale l'ignoto era l'origine del pericolo» (p. 208). Si suggerisce pertanto che la presunta universalità del razzismo sia il prodotto dell'apprendimento a livello della specie. Avendo così acquisito un fondamento preculturale, il razzismo diventa sostanzialmente immune dall'influenza dell'educazione individuale.

(3). P. Taguieff, "La force du Préjugé", cit., p. 91.

(4). A. Rosenberg, "Selected Writings", London, Jonathan Cape, 1970, p. 106.

(5). A. Gütt, "Population Policy", in "Germany Speaks" , London, Thornton Butterworth, 1938, p.p. 35, 52.

(6). W. Gross, "National Socialist Racial Thought", in "Germany Speaks", cit., p. 68.

(7). Confer G. Fleming, "Hitler and the Final Solution", Oxford, Oxford University Press, 1986, p.p. 23-5.

(8). Citato in G.L. Mosse, "Nazi Culture: A Documentary History", New York, Shocken Books, 1981, p. 77.

(9). G.L. Mosse, "Toward the Final Solution: A History of European Racism", London, J.M. Dent & Son, 1978, trad. it. "Il razzismo in Europa. Dalle origini all'Olocausto", Bari, Laterza, 1980, p. 6.

(10). Ibidem, p. 25.

(11). Confer Ibidem, p.p. 60-1.

(12). M. Weinreich, "Hitler's Professors: The Part of Scholarship in Germany's Crimes against the Jewish People", New York, Yiddish Scientific Institute, 1946, p.p.56, 33.

(13). H.R. Trevor-Rope, "HitIer's Table Talk", London, 1953, p. 332.

(14). N. Cohn, "Warrant for Genocide", London, Eyre & Spottiswoode, 1967, p. 87. Ci sono ampie prove del fatto che il linguaggio usato da Hitler tutte le volte che discusse la «questione ebraica» non fu scelto semplicemente per il suo valore retorico o propagandistico. L'atteggiamento di Hitler verso gli ebrei era viscerale piuttosto che cerebrale. Egli considerava effettivamente la «questione ebraica» come una materia analoga all'igiene, un problema che egli sentiva molto e dal quale era ossessionato. Si può probabilmente capire in che misura il disgusto di Hitler per gli ebrei derivasse dalla sua sensibilità genuinamente puritana per tutte le questioni relative alla salute e all'igiene, e come ben si accordasse con tale sensibilità, se si valuta attentamente la risposta che egli diede nel 1922 a una domanda postagli da suo amico Josef Hell: che cosa avrebbe fatto degli ebrei, una volta

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avuti pieni poteri discrezionali? Promettendo di far impiccare tutti gli ebrei di Monaco alle forche appositamente erette ai lati di Marienplatz, Hitler non dimenticò di sottolineare che gli ebrei vi sarebbero rimasti appesi «fin quando non puzzeranno; resteranno appesi lì finché lo permetteranno i principi dell'igiene» (citato in G. Fleming, "Hitler and the Final Solution", cit., p. 17). Va aggiunto che tali parole furono pronunciate in un accesso di furore, in uno «stato di parossismo», che denunciava come Hitler avesse evidentemente perso il controllo di sé ; ma anche - o forse particolarmente - in un momento simile il culto dell'igiene e l'ossessione per la salute rivelavano l a forza della propria presa sulla mente del dittatore.

(15). M.G. Steinert, "Hitler's Wars and the Germans: Public Mood and Attitude during the Second World War", trad. ingl., Athens, Ohio, Ohio University Press, 1977, p. 137.

(16). R. Hilberg, "The Destruction of the European Jews", New York, Holmes & Meier, 1983, vol. 3, p. 1023.

(17). M. Weinreich, "Hitler's Professors", cit., p.p. 31-3, 34. La tradizione degli allevatori di bestiame e di altri manipolatori delle biologia fu utilizzata dai nazionalsocialisti non soltanto nella soluzione della «questione ebraica». Essa offrì ispirazione alla politica sociale nazista nel suo complesso. Andreas Walther, professore di sociologia ad Amburgo e sociologo urbano di punta della Germania nazista, spiegò che «non si può cambiare la natura umana attraverso l'educazione e l'influenza ambientale... Il nazionalsocialismo non ripeterà i grossolani errori dei passati tentativi di migliorare l'ambiente urbano, e si limiterà alla costruzione di alloggi e di servizi igienici. La ricerca sociologica stabilirà chi può ancora essere salvato... I casi senza speranza saranno eliminati» ("Neue Yege zur Grossstadtsanierung", Stuttgart, 1936, p. 4. Citato in S. Tyrowicz, "Swialo wiedzy zdeprawowanej", Poznafi, Instytut Zachodni, 1970, p. 53.)

(18). G.L. Mosse, "Il razzismo in Europa", cit., p. 146. (19). H. Arendt, "Le origini del totalitarismo", cit., p. 122.

(20). Dal diario di Joseph Goebbels, in "Survivors, Victims, and Perpetrators: Essays on the Nazi Holocaust", a cura di J.E. Dinsdale, Washington, Emisphere Publishing Company, 1980, p. 311.

(21). J.R. Sabini e M. Silver, "Destroying the Innocent with a Clear Conscience: A Sociopsychology of the Holocaust", in "Survivors, Victims, and Perpetrators", a cura di J.E. Dinsdale, cit., p. 329.

(22). R. Grünberger, "A social History of the Third Reich", London, Weidenfeld & Nicholson, 1971, p. 460.

(23). L. Stokes, "The German People and the Destruction of the European Jewry", in «Central European History», 1973, n. 2, p.p. 167-91.

(24). Citato in S. Gordon, "HitIer, Germans, and the «Jewish Question»", Princeton, Princeton University Press, 1984, p.p. 159-60.

(25). Confer Ibidem, p. 171.

(26). C.R. Browning, "Fateful Months", New York, Holmes & Meier, 1985, p. 106.

(27). "Le dossier Eichmann et la solution finale de la question juive" ;, Paris, Centre de documentation juive contemporaine, 1960, p.p. 52-3.

(28). S. Gordon, "HitIer, Germans, and the «Jewish Question» ", cit., p. 316.74

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(29). K. von Beyme, "Right-Wing Extremism in Western Europe", London, Frank Cass, 1988, p. 5. In un suo recente studio Michel Balfour ha esaminato le condizioni e i motivi che indussero diversi strati sociali della Germania di Weimar ad offrire un sostegno entusiastico, moderato o tiepido alla presa nazista del potere, o almeno ad astenersi da una resistenza attiva. Nello studio vengono elencate molte ragioni, sia generali sia specifiche di un dato settore della popolazione. L'appello diretto dell'antisemitismo nazista, tuttavia, occupa un posto di primo piano soltanto in un caso (la componente colta dell'"oberer Mittelstand", che si sentiva minacciata dalla «esagerata concorrenza» degli ebrei), e anche in questo caso come uno dei molti punti considerati con favore, o almeno meritevoli di un tentativo, nel programma nazista di rivoluzione sociale. Confer "Withstanding Hitler in Germany, 1933-45", London, Routledge, 1988, p.p. 10-28.

(30). Confer B. Martin, "Antisemitism before and after the Holocaust" , in "Jews, Antisemitisin and Culture in Vienna", a cura di I. Oxaal, London, Michael Pollak and Gerhard Botz, 1987.

(31). «Jewish Chronicle», 15 luglio 1988, p. 2.

(32). Confer G. Fuchs, "Ils resteront: le défi de l'immigration", Paris, Syros, 1987; P. Jouve e A. Magoudi, "Les dits et les non-dits de Jean-Marie Le Pen; enquête et psychanalyse", Paris, La Découverte, 1988.

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4. UNICITÀ E NORMALITÀ DELL'OLOCAUSTO.

"Fino a quel momento il male - poiché bisogna dare un nome a questa sorprendente combinazione di circostanze, inattese solo in apparenza - si era infiltrato gradualmente, in silenzio, per stadi che sembravano innocui... Tuttavia, guardando indietro e analizzando le cose in retrospettiva, appariva ovvio che l'accumulazione di segni non era il semplice risultato della casualità, ma piuttosto possedeva, per così dire, una propria dinamica ancora segreta, come un torrente sotterraneo che si gonfia e si allarga prima di sbucare all'improvviso e impetuosamente alla superficie; era solo necessario riandare al tempo in cui i primi sinistri segnali erano apparsi e avevano disegnato un grafico, tracciato un diagramma clinico, dell'irresistibile decorso di quel male".

Juan Goytisolo, "Paisajes después de la batalla".

«Non sareste più sollevati se io fossi stato capace di dimostrare che tutti i persecutori erano pazzi?», chiede il grande storico dell'Olocausto, Raul Hilberg. Ma è precisamente questo che egli è "incapace" di dimostrare. La verità che egli mostra non arreca nessun conforto. Non ha nessuna probabilità di rendere contento qualcuno.

"Essi erano uomini istruiti, figli della propria epoca. Questo si rivela il punto centrale della questione ogni volta che riflettiamo sul significato della civiltà occidentale dopo Auschwitz. La nostra evoluzione ha camminato più in fretta della nostra comprensione; non possiamo più ritenere di avere pienamente sotto controllo il funzionamento delle nostre istituzioni sociali, delle nostre strutture burocratiche o della nostra tecnologia" (1).

Ciò è davvero poco confortante per i filosofi, i sociologi, i teologi e tutte le altre persone colte che sono professionalmente impegnate nella comprensione e nella spiegazione. Le conclusioni di Hilberg implicano che costoro non hanno fatto bene il proprio lavoro: essi non riescono a spiegare che cosa è successo e perché, e non possono aiutarci a comprenderlo. Si tratta di un'accusa abbastanza pesante per degli intellettuali (destinata a renderli inquieti e forse, per così dire, a rimandarli sui banchi di scuola), ma che di per sé non è causa di allarme sociale. Nel nostro passato, dopotutto, ci sono stati molti altri eventi che non comprendiamo pienamente. Talvolta ciò risulta irritante, ma il più delle volte non ci fa sentire particolarmente turbati. In fin dei conti - così ci consoliamo - tali eventi del passato sono materia di "interesse accademico".

Ma è davvero così? Non è l'Olocausto ciò che troviamo difficile da comprendere in tutta la sua mostruosità. "È la civiltà occidentale che l'Olocausto ha reso pressoché incomprensibile", e questo in un momento in cui pensavamo di aver raggiunto un equilibrio con essa, di aver esplorato le sue spinte più segrete e persino le sue prospettive, nell'epoca della sua espansione culturale mondiale senza precedenti. Se Hilberg ha ragione e se, dunque, le nostre istituzioni più essenziali eludono la nostra comprensione teorica e pratica, allora non dovrebbe essere soltanto la cultura accademica a preoccuparsi. È vero che l'Olocausto ha avuto luogo quasi mezzo secolo fa. È vero che i suoi esiti immediati stanno rapidamente sprofondando nel passato. La generazione che ne ha avuto esperienza diretta è ormai quasi pressoché scomparsa. Ma - e si tratta di uno spaventoso, sinistro «ma» - le istituzioni, un tempo familiari, che l'Olocausto ha reso di nuovo misteriose, sono ancora parte

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fondamentale della nostra vita. Esse non sono superate. E dunque non è superata la "possibilità" dell'Olocausto.

Noi ci scuotiamo di dosso questa possibilità. Noi dileggiamo i pochi ossessi tormentati dal problema del nostro equilibrio mentale. Abbiamo persino una specifica, derisoria, definizione per essi: «profeti di sventura» . È facile sbarazzarsi dei loro angosciati avvertimenti. Non siamo forse già vigili? Non condanniamo forse la violenza, l'immoralità, la crudeltà? Non facciamo forse appello a tutta la nostra ingegnosità e a tutte le nostre considerevoli, costantemente crescenti, risorse per combattere tali fenomeni? E inoltre, c'è forse qualcosa in tutta la nostra esistenza che indica la semplice possibilità di una catastrofe? La vita sta diventando migliore e più confortevole. Nel complesso, le nostre istituzioni sembrano all'altezza della situazione. Siamo ben protetti contro il nemico, e i nostri amici certamente non faranno nulla di malvagio. Certo, veniamo a sapere di tanto in tanto delle atrocità che alcune popolazioni non particolarmente civilizzate, e per questa ragione spiritualmente lontane da noi, commettono contro i loro altrettanto barbari vicini. Gli Ewe massacrano un milione di Ibo, dopo averli chiamati parassiti, criminali, ladri ed esseri subumani senza cultura (2); gli iracheni bombardano col gas i loro concittadini curdi senza neanche preoccuparsi di insultarli; i tamil massacrano i cingalesi; gli etiopi sterminano gli eritrei; gli ugandesi sterminano se stessi. È triste, certo, ma che cosa può avere a che fare con noi? Ammesso che ciò dimostri qualcosa, dimostra sicuramente quanto sia negativo essere diversi da noi, e quanto sia positivo essere al sicuro dietro lo scudo della nostra superiore civiltà.

Ma l'inopportunità del nostro compiacimento si rivela alla fine evidente quando pensiamo che ancora nel 1941 l'Olocausto era un evento del tutto inatteso; che, data la nostra conoscenza dei «dati di fatto», esso non era prevedibile; e che, quando un anno più tardi infine ebbe luogo, fu accolto con universale incredulità. Le persone si rifiutavano di credere ai fatti che avevano sotto gli occhi. Non che fossero ottuse o male intenzionate. Accadeva soltanto che niente di quanto avevano conosciuto in precedenza le avesse preparate a credere. In base a tutto ciò che avevano conosciuto e a cui avevano creduto fino a quel momento, l'omicidio di massa - per il quale non esisteva ancora nemmeno un nome - era puramente e semplicemente inimmaginabile. Oggi esso è di nuovo inimmaginabile. Oggi, tuttavia, sappiamo ciò che non sapevamo nel 1941: che " bisognerebbe immaginare anche l'inimmaginabile".

- "Il problema".

Ci sono due ragioni per cui l'Olocausto, a differenza di molti altri argomenti di studio accademico, non può essere considerato come una materia di puro interesse intellettuale; e per cui il problema dell'Olocausto non può essere ridotto a un tema di ricerca storica e di riflessione filosofica.

La prima ragione è data dal fatto che l'Olocausto, anche se plausibilmente «come evento storico fondamentale - analogamente alla rivoluzione francese, alla scoperta dell'America o a quella della ruota - ha cambiato il corso della storia successiva» (3), ha certamente modificato poco o nulla nella storia successiva della nostra coscienza e autocomprensione collettiva. Esso ha avuto uno scarso impatto percettibile sulla nostra immagine del significato e della tendenza storica della civiltà moderna. Esso ha lasciato le scienze sociali, e la sociologia in particolare, praticamente immutate, con l'eccezione di qualche area di ricerca specialistica ancora marginale e di alcuni oscuri e sinistri avvertimenti circa le inclinazioni patologiche della modernità. Entrambe queste eccezioni vengono caparbiamente tenute a distanza dal filone canonico della pratica sociologica. Per tali ragioni la nostra comprensione dei fattori e dei meccanismi che hanno reso possibile l'Olocausto non ha fatto progressi significativi. E dunque, armati di una comprensione non molto più avanzata rispetto a quella di mezzo secolo fa, potremmo essere ancora una volta impreparati a cogliere e decodificare i

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segnali di avvertimento, nel caso in cui essi fossero, ora come allora, manifestamente presenti intorno a noi.

La seconda ragione è data dal fatto che, qualunque cosa sia accaduta nel «corso della storia», non sono scomparsi quei fattori storici che con ogni probabilità contenevano la potenzialità dell'Olocausto, o almeno non possiamo essere sicuri che lo siano. Per quanto ne sappiamo (o, piuttosto, per quanto non ne sappiamo) essi potrebbero ancora essere presenti tra noi, aspettando un'occasione per agire. Possiamo soltanto sospettare che le condizioni che già una volta hanno dato origine all'Olocausto non siano radicalmente cambiate. Se c'era qualcosa, nel nostro ordine sociale, che rese possibile l'Olocausto nel 1941, non possiamo essere sicuri che da allora sia stato eliminato. Un numero crescente di studiosi apprezzati e rispettati ci suggerisce di non abbandonarci al compiacimento.

"L'ideologia e il sistema da cui scaturì [Auschwitz] rimangono intatti. Ciò significa che lo stato nazionale stesso è fuori controllo e capace di scatenare atti di cannibalismo sociale su una scala impensabile. Se non viene tenuto a freno, esso può gettare nelle fiamme un'intera civiltà. Lo stato nazionale non è portatore di una missione umanitaria; i suoi eccessi non possono essere tenuti sotto controllo da codici morali o giuridici, poiché esso non ha nessuna coscienza" (4) (Henry L. Feingold).

"Molte caratteristiche della società «civilizzata» contemporanea incoraggiano il facile ricorso a forme di genocidio simili all'Olocausto...Lo stato territoriale sovrano rivendica, come parte integrante della propria sovranità, il diritto di commettere il genocidio o di compiere massacri generalizzati della popolazione soggetta al suo dominio, mentre... le Nazioni Unite, da ogni punto di vista pratico, difendono questo diritto" (5) (Leo Kuper).

"Entro certi limiti fissati da considerazioni di carattere politico e militare, lo stato moderno può fare qualsiasi cosa voglia di coloro che sono sottoposti al suo controllo. Non esiste nessun limite etico-morale che lo stato non possa trascendere se desidera farlo, poiché non esiste nessun potere etico-morale al di sopra dello stato. Sul piano dell'etica e della moralità la situazione dell'individuo nello stato moderno è, in linea di principio, grosso modo equivalente a quella degli internati di Auschwitz: o agire secondo gli standard di comportamento prevalenti fatti valere da coloro che detengono l'autorità, o rischiare tutte le conseguenze che costoro sono in grado di imporre...Oggi l'esistenza concorda in modo più o meno riconoscibile con i principi che governavano la vita e la morte ad Auschwitz" (6) (George M. Kren e Leon Rappoport).

Sopraffatti dalle emozioni che anche una lettura superficiale dell'Olocausto non può fare a meno di suscitare, taluni degli autori citati sono inclini ad esagerare. Alcune loro affermazioni suonano incredibili, e alcune indebitamente allarmistiche. Esse potrebbero essere perfino controproducenti: se tutto ciò che conosciamo è assimilabile ad Auschwitz, allora si può convivere con Auschwitz, e in molti casi conviverci ragionevolmente bene. Se i principi che governavano la vita e la morte degli internati ad Auschwitz erano simili a quelli che governano la nostra vita, qual era allora il motivo di tante denunce e lamenti? In effetti sarebbe opportuno evitare la tentazione di utilizzare l'immagine disumana dell'Olocausto al servizio di un atteggiamento partigiano verso conflitti umani più o meno gravi, ma nel complesso di carattere consuetudinario e quotidiano. La distruzione di massa fu una forma estrema di antagonismo e di oppressione, ma non tutti i casi di oppressione, di odio collettivo e di ingiustizia sono «come» l'Olocausto. La somiglianza palese, e perciò superficiale, è una guida mediocre all'analisi causale. Contrariamente a quanto suggeriscono Kren e Rappoport, dover scegliere tra il conformismo e le conseguenze della disobbedienza non significa necessariamente vivere ad Auschwitz, e i principi sostenuti e praticati dalla maggior parte degli stati contemporanei non sono sufficienti a trasformare i loro cittadini in vittime dell'Olocausto.

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La vera causa di preoccupazione - una causa che non può essere facilmente smentita né liquidata come naturale e tuttavia fuorviante esito del trauma derivante dall'Olocausto - risiede altrove. Essa può essere individuata in due fattori.

In primo luogo, i processi mentali che in virtù della propria logica interna possono portare a progetti di genocidio, nonché le risorse tecniche che consentono la realizzazione di tali progetti, non solo si sono dimostrati pienamente compatibili con la civiltà moderna, ma sono stati condizionati, creati e forniti da essa. Non è che l'Olocausto abbia semplicemente, per qualche misteriosa ragione, evitato di cozzare con le norme e le istituzioni sociali della modernità: furono tali norme e istituzioni a rendere l'Olocausto possibile. Senza la civiltà moderna e i suoi principali, fondamentali esiti, non vi sarebbe stato alcun Olocausto.

In secondo luogo, tutta l'intricata rete di controlli ed equilibri, barriere ed ostacoli che il processo di civilizzazione ha eretto e che, come speriamo e confidiamo, ci difenderebbe dalla violenza e terrebbe a freno tutti i poteri ambiziosi e senza scrupoli, si è dimostrata inefficace. Quando si giunse all'omicidio di massa, le vittime si ritrovarono sole. Non soltanto esse furono ingannate da una società apparentemente pacifica e umana, legalistica e ordinata, ma il loro stesso senso di sicurezza divenne un fattore decisivo della loro caduta.

Per definire la questione in termini netti, esistono ragioni di preoccupazione poiché oggi sappiamo "di vivere in un tipo di società che rese possibile l'Olocausto e che non conteneva alcun elemento in grado di impedire il suo verificarsi". Per queste ragioni è necessario studiare la lezione dell'Olocausto. È in gioco molto più che il tributo alla memoria di milioni di vittime, la sistemazione dei conti con gli assassini e la guarigione delle ancora brucianti ferite morali dei testimoni silenziosi e passivi.

Ovviamente, uno studio - anche il più accurato - non è una garanzia di per sé sufficiente ad impedire il ritorno agli omicidi di massa, con il loro pubblico di spettatori ottusi. E tuttavia senza tale studio non sapremmo neppure quanto questo ritorno sia probabile o meno.

- "La straordinarietà del genocidio".

L'omicidio di massa non è un'invenzione moderna. La storia è carica di inimicizie collettive e settarie, sempre reciprocamente nocive e potenzialmente distruttive, che spesso sfociano nella violenza aperta, talvolta portano al massacro e in qualche caso allo sterminio di intere popolazioni e culture. Ciò nega l'unicità dell'Olocausto. In particolare, sembra smentire lo stretto legame tra l'Olocausto e la modernità, l'«affinità elettiva» tra l'Olocausto e la civiltà moderna. Suggerisce, invece, che l'odio omicida collettivo è sempre stato tra noi e probabilmente non scomparirà mai; e che il solo significato della modernità a questo proposito consiste nel fatto che, contrariamente alle sue promesse e alle sue diffuse aspettative, essa non ha smussato gli spigoli certamente affilati della coesistenza umana, e dunque non ha posto fine alla disumanità dell'uomo nei confronti dell'uomo. La modernità non ha mantenuto le proprie promesse. La modernità ha fallito. Ma essa non ha alcuna responsabilità per l'episodio dell'Olocausto, poiché il genocidio accompagna la storia umana fin dall'inizio.

Questa non è, tuttavia, la lezione contenuta nell'esperienza dell'Olocausto. Senza dubbio esso fu l'ennesimo episodio della lunga serie degli omicidi di massa tentati, e della serie non molto più breve di quelli compiuti. Ma presenta anche caratteristiche che non condivide con nessuno dei precedenti casi di genocidio. Sono queste caratteristiche che meritano particolare attenzione. Esse

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hanno un sapore distintamente moderno. La loro presenza suggerisce che la modernità ha contribuito all'Olocausto in modo più diretto che non semplicemente attraverso la propria debolezza e inettitudine. Suggerisce che il ruolo della civiltà moderna nello scatenamento e nell'esecuzione dell'Olocausto fu attivo, non passivo. Suggerisce che l'Olocausto fu, nella stessa misura, un prodotto e un fallimento della civiltà moderna. Come tutto ciò che viene fatto in modo moderno - razionale, pianificato, scientificamente informato, esperto, efficientemente gestito, coordinato - l'Olocausto si lasciò alle spalle e fece impallidire tutti i propri presunti equivalenti premoderni, rivelandoli come comparativamente primitivi, dispendiosi e inefficienti. Come ogni altra cosa nella nostra società moderna, l'Olocausto fu un'impresa particolarmente ben riuscita sotto tutti gli aspetti, se valutata in base agli standard che que sta società ha esaltato e istituzionalizzato. Esso torreggia accanto ai precedenti episodi di genocidio nello stesso modo in cui gli stabilimenti industriali moderni giganteggiano accanto alle botteghe artigianali rurali, o l'agricoltura industriale moderna - con i suoi trattori, le sue mietitrebbie, i suoi pesticidi - giganteggia accanto alla casa colonica contadina con i suoi cavalli, le sue zappe e i suoi raccolti a mano.

Il 9 novembre 1938 ebbe luogo in Germania un avvenimento consegnato alla storia con il nome di "Kristallnacht". Abitazioni, negozi, luoghi di culto ebraici furono assaliti da una folla scatenata, sebbene ufficialmente incoraggiata e surrettiziamente controllata; essi furono distrutti, dati alle fiamme, vandalizzati. Circa cento persone persero la vita. La "Kristallnacht" fu l'unico pogrom su larga scala che ebbe luogo per le strade delle città tedesche in tutto il periodo dell'Olocausto. Fu anche il solo episodio dell'Olocausto avvenuto secondo la radicata, secolare tradizione della violenza antiebraica da parte delle folle. Esso non fu molto diverso dai pogrom del passato; si distinse a malapena dalla lunga serie di violenze collettive risalente all'epoca antica, che attraverso il Medioevo arrivava fino alla Russia, alla Polonia e alla Romania contemporanee, ma ancora largamente premoderne. Se il trattamento riservato agli ebrei da parte dei nazisti si fosse concretizzato soltanto in eventi simili alla "Kristallnacht", non avrebbe aggiunto molto di più che un paragrafo, al massimo un capitolo, ai molti volumi della cronaca delle emozioni sfocianti in furore omicida, delle folle avide di linciaggio, dei saccheggi e degli stupri commessi dai soldati nelle città conquistate. Ma non è questo che accadde.

Non accadde per una semplice ragione: non era possibile concepire né eseguire un omicidio di massa delle dimensioni dell'Olocausto affidandosi soltanto a una serie di Notti dei cristalli, non importa quanto numerose.

"Consideriamo le cifre. Lo stato tedesco sterminò approssimativamente sei milioni di ebrei. Al ritmo di 100 al giorno ciò avrebbe richiesto circa 200 anni. La violenza della folla si fonda su basi psicologiche sbagliate, su emozioni violente. La gente può essere istigata al furore, ma il furore non può essere alimentato per 200 anni. Le emozioni, e la loro base biologica, hanno un proprio naturale decorso temporale; l'avidità, anche l'avidità di sangue, a un certo punto trova appagamento. Le emozioni, inoltre, sono notoriamente instabili e possono essere ribaltate. Una folla assetata di linciaggio è inaffidabile, talvolta può essere sopraffatta dalla compassione, ad esempio di fronte alla sofferenza di un bambino. Estirpare una «razza» equivale fondamentalmente a uccidere quel bambino.Un omicidio accurato, globale, definitivo richiedeva la sostituzione della folla con la burocrazia, della furia collettiva con l'obbedienza all'autorità. Tale necessaria burocrazia sarebbe stata comunque efficace, a prescindere dal fatto che fosse costituita da antisemiti estremisti oppure moderati, il che allargava considerevolmente l'ambito dei potenziali esecutori; essa avrebbe governato le azioni dei propri membri non suscitando passioni, ma organizzando procedure di routine; avrebbe operato soltanto le distinzioni previste, non quelle che i suoi membri potevano essere indotti a fare, ad esempio, tra bambini e adulti, intellettuali e ladri, innocenti e colpevoli; avrebbe risposto alla volontà dell'autorità finale attraverso una gerarchia di responsabilità, non importa quale fosse il contenuto di tale volontà" (7).

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Ira e furore sono strumenti di distruzione di massa ridicolmente primitivi e inefficienti. Di solito scemano prima che il compito sia stato portato a termine. Sulla loro base è impossibile costruire grandi progetti. Certamente non quei progetti miranti ad obiettivi che vanno al di là di effetti momentanei quali un'ondata di terrore, la caduta di un vecchio ordine, lo sgombero del terreno per far posto ad un nuovo dominio. Gengis Khan e Pietro l'Eremita non ebbero bisogno della moderna tecnologia e dei moderni metodi scientifici di gestione e coordinazione. Stalin e Hitler sì. Gli avventurieri e i dilettanti come Gengis Khan e Pietro l'Eremita sono coloro che la nostra società razionale moderna ha screditato e probabilmente destinato all'estinzione. I fautori del genocidio freddo, accurato e sistematico sono coloro ai quali tale società ha lastricato il cammino.

I casi moderni di genocidio si distinguono principalmente per le proprie dimensioni quantitative. In nessun'altra occasione furono uccise in così breve tempo tante persone quante ne morirono sotto i regimi di Hitler e Stalin. Questo, tuttavia, non è l'unico fatto nuovo, e probabilmente neanche il più importante, ma semplicemente il prodotto collaterale di altre caratteristiche più essenziali. L'omicidio di massa contemporaneo si distingue, da una parte, per l'assenza pratica di spontaneità e, dall'altra, per il prevalere del progetto razionale, accuratamente calcolato. Esso si caratterizza per una quasi completa eliminazione della contingenza e del caso, e per l'indipendenza da emozioni collettive e motivazioni personali. È contraddistinto dal ruolo meramente fittizio o marginale - mistificante o decorativo - della mobilitazione ideologica. Ma risalta, innanzi tutto e principalmente, per il proprio scopo.

All'omicidio in generale, e all'omicidio di massa in particolare, sono state attribuite molte e diverse motivazioni. Esse vanno dal puro calcolo a sangue freddo del vantaggio ottenuto in una competizione, all'odio o all'eterofobia ugualmente puri ma disinteressati. La maggior parte dei conflitti collettivi e delle campagne di genocidio contro popolazioni aborigene rientra pienamente in questa gamma di motivazioni. Se sono accompagnate da un'ideologia, tali campagne non si spingono molto oltre una visione del mondo in termini di «noi e loro», e oltre la massima «non c'è posto per entrambi» o «l'unico indiano buono è un indiano morto». Ci si attende che l'avversario segua principi speculari non appena gli si consenta di farlo. La maggior parte delle ideologie che motivano il genocidio si basa su un'ambigua simmetria di intenzioni e azioni presunte.

Il genocidio autenticamente moderno è diverso. "Il genocidio moderno è un genocidio mirante ad uno scopo". Sbarazzarsi dell'avversario non è di per sé uno scopo. È il mezzo per raggiungere uno scopo: una necessità che scaturisce dall'obiettivo ultimo, un passo che bisogna compiere se si vuole raggiungere la meta del percorso. "Lo scopo è dato dalla visione grandiosa di una società migliore e radicalmente diversa". Il genocidio moderno è un elemento di ingegneria sociale mirante a realizzare un ordine sociale conforme al progetto della società perfetta.

Per gli iniziatori e gli esecutori del genocidio moderno la società è un oggetto di pianificazione e progettazione consapevole. Per essa si può e si deve fare di più che non semplicemente modificare qualcuno dei suoi molti dettagli, migliorare qui e là, curare alcuni dei suoi fastidiosi disturbi. È possibile e necessario proporsi obiettivi più ambiziosi e radicali: si può e si deve rimodellare la società, forzarla a conformarsi ad un piano complessivo scientificamente elaborato. È possibile creare una società oggettivamente migliore di quella «meramente esistente», cioè esistente senza un intervento consapevole. Questo progetto presenta sempre una dimensione estetica: il mondo ideale che sta per essere costruito è conforme ai canoni di una bellezza superiore. Una volta realizzato, esso sarà pienamente appagante, come un perfetto universo artistico; sarà un mondo che, nelle parole immortali dell'Alberti, nessuna aggiunta, sottrazione o alterazione potrebbe migliorare.

Ci troviamo qui di fronte alla fantasia di un giardiniere, proiettata su uno schermo di dimensioni universali. I pensieri, i sentimenti, i sogni e le motivazioni del progettista di un mondo perfetto sono

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familiari ad ogni giardiniere degno di questo nome, anche se forse su scala minore. Alcuni giardinieri odiano le erbe infestanti che insidiano il loro progetto: bruttezza nel seno della bellezza, rifiuti nel mezzo di un limpido ordine. Altri sono del tutto privi di emozioni in proposito: le erbacce costituiscono solo un problema da risolvere, un lavoro in più da portare a compimento. Non che ciò faccia differenza per le erbe infestanti: entrambi i giardinieri si propongono di sterminarle. Se ad essi viene data la possibilità di soffermarsi a riflettere, entrambi forniranno la stessa risposta: le erbacce devono essere sradicate non tanto per ciò che sono, quanto per come deve essere lo splendido, ordinato giardino.

La cultura moderna è una cultura del giardinaggio. Essa si definisce come il progetto di una vita ideale e di un perfetto ordinamento della condizione umana. A ben guardare, essa definisce se stessa e la natura, nonché la distinzione tra le due cose, attraverso la propria radicata diffidenza verso la spontaneità e la propria aspirazione a un ordine migliore, necessariamente artificiale. A prescindere dal progetto complessivo, l'"ordine" artificiale del giardino richiede strumenti e materie prime. Inoltre ha bisogno di essere difeso dal costante pericolo costituito, ovviamente, dal disordine. L'ordine, concepito anzitutto come progetto, determina poi quali debbano essere gli strumenti, quali le materie prime, che cosa è inutile, che cosa è irrilevante, che cosa è dannoso, quali sono le erbe infestanti o i parassiti. Esso classifica tutti gli elementi dell'universo in rapporto a se stesso. Questo rapporto è l'unico significato che esso concede loro e che tollera, è l'unica giustificazione dell'azione del giardiniere, differenziata in funzione di quel rapporto. Dal punto di vista del progetto tutte le azioni sono strumentali, mentre tutti gli oggetti dell'azione sono o mezzi o impedimenti.

Il genocidio moderno, analogamente alla cultura moderna in generale, può essere concepito come il lavoro di un giardiniere. È semplicemente uno dei tanti compiti che devono essere svolti da quanti trattano la società come un giardino. Se il progetto di un giardino definisce le proprie erbe infestanti, allora vi sono erbe infestanti dovunque vi sia un giardino. E le erbe infestanti vanno sterminate. Sradicarle è un'attività creativa, non distruttiva. Non differisce per sua natura da altre attività che contribuiscono alla costruzione e alla conservazione del giardino perfetto. Tutte le immagini della società come giardino definiscono alcune parti dell'ambiente sociale come erbe infestanti umane. Analogamente alle altre erbe infestanti, esse devono essere isolate, arginate, bloccate nella loro propagazione, rimosse e tenute fuori dai confini della società; se tutti questi mezzi si rivelano insufficienti, esse devono essere sterminate.

Le vittime di Stalin e di Hitler non furono uccise per conquistare e colonizzare il territorio da esse occupato. Spesso furono assassinate m modo ottuso e automatico, non animato da nessuna emozione umana, ivi compreso l'odio. Esse furono uccise perché non rientravano, per una ragione o per un'altra, nel progetto di una società perfetta. Furono eliminate affinché fosse possibile fondare un mondo umano obiettivamente migliore: più efficiente, più morale, più bello. Un mondo comunista. O un mondo ariano, puro dal punto di vista razziale. In entrambi i casi, un mondo armonioso, libero da conflitti, docile nelle mani dei propri governanti, ordinato, controllato. Gli individui macchiati dall'ineliminabile tara del proprio passato o della propria origine non potevano entrare a far parte di un tale mondo immacolato, sano, splendente. Come quella delle erbe infestanti, la loro natura non poteva essere modificata. Essi non si prestavano ad essere migliorati o rieducati. Dovevano essere eliminati per ragioni di eredità genetica o ideale, a causa di un meccanismo naturale resistente all'elaborazione culturale e ad essa sottratto.

I due estremi e più noti casi di genocidio moderno non tradirono lo spirito della modernità. Essi non si scostarono dal percorso principale del processo di civilizzazione, bensì furono l'espressione più coerente e disinibita di quello spirito. Essi tentarono di raggiungere gli scopi più ambiziosi del processo di civilizzazione, che la maggior parte degli altri processi non riusciva a conseguire, non necessariamente per mancanza di buona volontà. Essi mostrarono ciò che i sogni e gli sforzi di

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razionalizzazione, progettazione e controllo da parte della civiltà moderna sono in grado di compiere quando non sono mitigati, imbrigliati o contrastati.

Tali sogni e tali sforzi convivono con noi da lungo tempo. Essi hanno generato il vasto e potente arsenale della tecnologia e delle capacità manageriali. Hanno dato origine a istituzioni aventi il solo scopo di strumentalizzare il comportamento umano in modo che ogni obiettivo possa essere perseguito con efficienza e determinazione, con o senza dedizione ideologica o approvazione morale da parte di chi lo persegue. Essi legittimano il monopolio dei fini detenuto dai governanti e il confinamento dei governati al ruolo di strumenti. Essi definiscono la maggior parte delle azioni come mezzi, e i mezzi come subordinazione: al fine ultimo, a coloro che lo fissano, alla volontà suprema, alla conoscenza sovraindividuale.

Ciò non significa, per estensione, che tutti noi viviamo la nostra quotidianità secondo i principi di Auschwitz. Dal fatto che l'Olocausto è un fenomeno moderno, non consegue che la modernità coincide con l'Olocausto. L'Olocausto è un prodotto collaterale dell'aspirazione moderna ad un mondo pienamente progettato e controllato, una volta che tale aspirazione sia sfuggita al controllo e si sia sviluppata senza freni. Nella maggior parte dei casi la modernità non produce questi esiti. Le sue ambizioni si scontrano con il pluralismo del mondo umano; esse non arrivano alla propria realizzazione per mancanza di un potere assoluto e di istituzioni totalizzanti capaci di ignorare, rimuovere o sopraffare ogni forza autonoma, e perciò contrastante e mitigante.

- "La peculiarità del genocidio moderno".

Quando il sogno modernista viene abbracciato da un potere assoluto in grado di monopolizzare i moderni strumenti di azione razionale, e quando tale potere si libera da qualsiasi efficace controllo sociale, allora ci troviamo di fronte alle condizioni che producono l'Olocausto. Il corto circuito (si sarebbe tentati di dire: l'incontro casuale) tra un'élite del potere ideologicamente ossessionata e le terrificanti possibilità dell'azione razionale e sistematica sviluppate dalla società moderna è forse relativamente raro. Quando avviene, tuttavia, si rivelano certi aspetti della modernità che in altre circostanze sono meno visibili e perciò possono essere teoricamente trascurati.

L'Olocausto moderno costituisce un caso unico in un duplice senso. "È unico tra altri casi storici di genocidio perché è moderno. Ed è unico rispetto alla quotidianità della società moderna perché combina alcuni fattori comuni della modernità che normalmente sono tenuti separati". In questo secondo senso, soltanto la combinazione dei fattori è inconsueta e rara, non i fattori stessi. Preso separatamente dagli altri, ogni fattore è comune e normale. La conoscenza del salnitro, dello zolfo e del carbone non è completa se non si sa e non si ricorda che essi, mescolati, danno origine alla polvere da sparo.

La simultanea unicità e normalità dell'Olocausto ha trovato esauriente espressione nella sintesi delle ricerche di Sarah Gordon:

"Lo sterminio sistematico, in quanto opposto ai pogrom sporadici, poteva essere realizzato soltanto da un governo estremamente forte, e probabilmente poteva avere successo solo con la copertura delle condizioni di guerra. Solamente l'avvento di Hitler e dei suoi seguaci radicalmente antisemiti, e la loro successiva centralizzazione del potere, resero possibile lo sterminio della popolazione ebraica europea...Il processo di esclusione organizzata e di omicidio richiedeva la cooperazione di vastissimi settori dell'apparato militare e burocratico, oltre che l'acquiescenza diffusa del popolo tedesco, a prescindere dal fatto che esso approvasse o meno la persecuzione e lo sterminio nazista" (8).

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La Gordon cita diversi fattori che dovevano combinarsi per produrre l'Olocausto: l'antisemitismo radicale (e - come si ricorderà dal precedente capitolo - moderno, cioè razzista e votato allo sterminio) di tipo nazista; la trasformazione di tale antisemitismo nella politica concreta di un potente stato centralizzato; il controllo, da parte di quello stato, di un enorme, efficiente apparato burocratico; uno «stato di emergenza», cioè condizioni straordinarie di guerra che consentissero a quel governo e alla burocrazia da esso controllata di far passare provvedimenti che forse avrebbero incontrato ostacoli molto più seri in tempo di pace; infine, la non interferenza, l'accettazione passiva di tali provvedimenti da parte della popolazione nel suo complesso. Due di questi fattori (si potrebbe sostenere che essi sono riducibili a uno: con i nazisti al potere la guerra era praticamente inevitabile) possono essere visti come incidentali, cioè come attributi non necessari della società moderna, anche se compresi tra le sue possibilità. I restanti fattori, tuttavia, rientrano pienamente nella «norma» della modernità. Essi sono costantemente presenti in ogni società moderna, e la loro presenza è stata resa possibile e inevitabile da quei processi che sono propriamente associati al sorgere e al radicarsi della civiltà moderna.

Nel precedente capitolo si è cercato di svelare le connessioni tra l'antisemitismo radicale, votato allo sterminio, e le trasformazioni sociopolitiche e culturali generalmente identificate con lo sviluppo della società moderna. Nell'ultimo capitolo di questo libro tenteremo di analizzare quei meccanismi sociali, anch'essi posti in azione nell'epoca contemporanea, che mettono a tacere o neutralizzano le inibizioni morali e, più generalmente, trattengono gli individui dal resistere al male. Qui intendiamo concentrarci soltanto su uno, anche se probabilmente il più importante, dei fattori costitutivi dell'Olocausto: i modelli di azione tecnologico-burocratici tipicamente moderni e la mentalità che essi istituzionalizzano, generano, sostengono e riproducono.

Esistono due antitetiche modalità di approccio alla spiegazione dell'Olocausto. È possibile considerare gli orrori dell'omicidio di massa come prova della fragilità della civiltà, oppure vederli come dimostrazione del suo terrificante potenziale. Si può sostenere che, se il governo è nelle mani di criminali, le norme del comportamento civilizzato possono risultare sospese, e perciò l'eterna belva nascosta appena sotto la pelle degli esseri socialmente educati può scatenarsi. Oppure è possibile sostenere che l'uomo, una volta armato dei sofisticati prodotti tecnici e concettuali della civiltà moderna, può fare cose che la sua natura gli impedirebbe altrimenti di fare. In altri termini: è possibile concludere, seguendo la tradizione hobbesiana, che non risulta ancora completamente superato lo stato ferino presociale, nonostante tutti gli sforzi di civilizzazione; oppure si può, al contrario, insistere sul fatto che il processo di civilizzazione è riuscito a sostituire gli istinti naturali con modelli di condotta umana artificiali e flessibili, rendendo con ciò possibile la disumanità e la distruzione su una scala rimasta inconcepibile finché le inclinazioni naturali avevano guidato l'azione umana. Suggeriamo qui di optare per il secondo approccio, così come viene motivato nella discussione che segue.

Il fatto che la maggior parte degli individui (ivi compresi molti teorici delle scienze sociali) scelga istintivamente il primo approccio e non il secondo dimostra il notevole successo del mito eziologico che, in una variante o nell'altra, la civiltà occidentale ha utilizzato nel corso degli anni per legittimare la propria egemonia spaziale spacciandola per superiorità storica. La civiltà occidentale ha articolato la propria lotta per il dominio come guerra santa dell'umanità contro la barbarie, della ragione contro l'ignoranza, dell'obiettività contro il pregiudizio, del progresso contro la degenerazione, della verità contro la superstizione, della scienza contro la magia e della razionalità contro le passioni. Ha interpretato la storia della propria ascesa come graduale ma costante sostituzione del dominio dell'uomo sulla natura al dominio della natura sull'uomo. Ha presentato i propri esiti innanzi tutto e principalmente come un decisivo avanzamento della libertà d'azione, del potenziale creativo e della sicurezza dell'uomo. Ha identificato la libertà e la sicurezza con il proprio ordine sociale: la società occidentale moderna viene definita come civilizzata, e la società

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civilizzata viene a sua volta intesa come quella condizione in cui è stata eliminata, o almeno soffocata, gran parte delle brutture e delle malvagità naturali, nonché dell'immanente propensione umana alla crudeltà e alla violenza. L'immagine popolare della società civilizzata è quella in cui, prima di ogni altra cosa, è assente la violenza: l'immagine di una società moderata, mite, conciliante.

La più significativa espressione simbolica di questa immagine dominante della civilizzazione è forse la sacralità del corpo umano: l'attenzione con cui si cerca di non invadere il più privato degli spazi, di evitare il contatto corporeo, di rispettare le distanze fisiche culturalmente prescritte; e il disgusto e la repulsione indotti che proviamo quando vediamo o sentiamo dire che quello spazio sacrale è stato violato. La civiltà moderna può inscenare la finzione della sacralità e dell'autonomia del corpo umano grazie agli efficienti meccanismi di autocontrollo che ha sviluppato e che vengono complessivamente riprodotti con successo nel processo di educazione individuale. Una volta efficaci, i meccanismi di autocontrollo riprodotti eliminano il bisogno di ulteriori interferenze esterne con il corpo. La privatezza del corpo, d'altra parte, sottolinea la responsabilità personale del suo comportamento, e perciò aggiunge potenti sanzioni al modello della condotta fisica. (Negli anni recenti la severità delle sanzioni, abilmente sfruttata dal mercato del consumatore, ha infine prodotto la tendenza a interiorizzare la domanda di modelli com portamentali; lo sviluppo dell'autocontrollo individuale tende ad essere esso stesso autocontrollato, e perseguito secondo il principio del «fai da te».) La proibizione culturale dei contatti troppo ravvicinati con un altro corpo funziona pertanto da efficace salvaguardia contro influenze contingenti e diffuse che potrebbero, se consentite, opporsi allo schema di ordine sociale centralmente amministrato. La non violenza nei rapporti umani quotidiani e diffusi è una condizione indispensabile, e un costante prodotto, della centralizzazione della coercizione.

In ultima analisi, il carattere complessivamente non violento della civiltà moderna è un'illusione. Più esattamente, è parte integrante della sua auto-apologia e auto-apoteosi; in breve, del suo mito legittimante. Non è vero che la nostra civiltà elimina la violenza dovuta al carattere disumano, degradante o immorale delle civiltà che l'hanno preceduta. Ammesso che la modernità

"sia davvero antitetica alle passioni incontrollate della barbarie, non è affatto antitetica alla distruzione, al massacro e alla tortura eseguiti in modo freddo ed efficiente... Via via che la qualità del pensiero si fa più razionale, la quantità della distruzione aumenta. Nel nostro tempo, ad esempio, il terrorismo e la tortura non sono più strumenti delle passioni: sono divenuti strumenti di razionalità politica" (9).

Ciò che in effetti è avvenuto nel corso del processo di civilizzazione è il dislocamento della violenza, e la redistribuzione dell'accesso ad essa. Come molte altre cose che siamo stati educati ad aborrire e detestare, la violenza è stata sottratta alla nostra vista, piuttosto che eliminata. Essa è stata, cioè, resa invisibile dal punto di vista dell'esperienza personale strettamente circoscritta e privatizzata. In realtà è stata confinata in territori separati e isolati, complessivamente inaccessibili ai comuni membri della società; o espulsa in zone oscure vietate alla grande maggioranza (e alla maggioranza che conta) di quei membri; o esportata in luoghi lontani, irrilevanti per gli interessi vitali dell'umanità civilizzata (è sempre possibile cancellare le prenotazioni per le vacanze).

La conseguenza ultima di tutto ciò è la concentrazione della violenza. Una volta centralizzati e liberati dalla concorrenza, i mezzi di coercizione, pur senza essere tecnicamente perfezionati, sarebbero capaci di produrre risultati senza precedenti. Ma la loro concentrazione scatena e alimenta la spinta ai miglioramenti tecnici, e così gli effetti della concentrazione vengono ulteriormente amplificati. Come ha ripetutamente sottolineato Anthony Giddens (10), la rimozione della violenza dalla vita quotidiana nelle società civilizzate è sempre stata strettamente collegata alla radicale militarizzazione dei rapporti tra le varie società e della produzione interna di ordine in

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ciascuna di esse; gli eserciti stanziali e le forze di polizia hanno combinato la disponibilità ; di armi tecnologicamente superiori con un altrettanto superiore tecnica di gestione burocratica. Nel corso degli ultimi due secoli, il numero degli individui scomparsi per morte violenta in seguito a tale militarizzazione è cresciuto costantemente fino a raggiungere un livello senza precedenti.

L'Olocausto assorbì una quantità enorme di mezzi coercitivi. Dopo averli finalizzati ad un unico scopo, esso stimolò ulteriormente anche la loro specializzazione e il loro perfezionamento tecnico. Ma più della pura e semplice quantità degli strumenti di distruzione, e anche più della loro qualità tecnica, fu importante il modo in cui essi vennero utilizzati. La loro formidabile efficacia si fondò principalmente sulla subordinazione del loro uso a considerazioni tecniche puramente burocratiche (che rese la loro utilizzazione pressoché immune da pressioni contrastanti, quali avrebbe potuto incontrare se i mezzi di violenza fossero stati controllati da agenti sparsi e non coordinati, e impiegati in maniera diffusa). La violenza si è trasformata in una tecnica. Come tutte le tecniche, è svincolata da emozioni e puramente razionale. «È infatti del tutto ragionevole, se 'ragionÈ significa ragione strumentale, applicare la forza militare americana, i B-52, il napalm e tutto il resto, al Vietnam 'dominato dai comunisti' (chiaramente un 'oggetto indesiderabilÈ) come 'operatore' per trasformarlo in un 'oggetto desiderabile'» (11).

- "Gli effetti della divisione gerarchica e funzionale del lavoro".

L'uso della violenza massimizza l'efficienza e riduce al minimo i costi quando i mezzi impiegati sono soggetti esclusivamente ai criteri della ragione strumentale, e perciò dissociati dalla valutazione morale dei fini. Come si è fatto notare nel primo capitolo, questa dissociazione è un'operazione in cui tutte le burocrazie sono maestre. Si potrebbe persino dire che essa costituisce l'essenza della struttura e del processo burocratico, e con ciò il segreto di quella tremenda crescita della capacità di mobilitazione e coordinazione, e della razionalità ed efficienza dell'azione, che la civiltà moderna ha raggiunto grazie allo sviluppo dell'amministrazione burocratica. Tale dissociazione è in buona misura il risultato di due processi paralleli, entrambi essenziali per il modello burocratico di azione. Il primo processo è dato dalla "minuziosa divisione funzionale del lavoro" (come fenomeno aggiuntivo e distinto nelle sue conseguenze rispetto alla distribuzione lineare del potere e della subordinazione); il secondo processo è dato dalla "sostituzione della responsabilità tecnica a quella morale".

La divisione del lavoro (anche quella che deriva dalla semplice gerarchia dell'autorità) crea sempre una distanza tra la maggior parte di coloro che contribuiscono al risultato finale dell'attività collettiva e il risultato stesso. Prima che gli ultimi anelli della catena burocratica del potere (gli esecutori diretti) affrontino il proprio compito, le operazioni preparatorie di quella fase sono già state in gran parte svolte da persone prive di qualsiasi esperienza personale, e in alcuni casi di qualsiasi conoscenza, del compito in questione. A differenza di quanto avviene m una unità di lavoro premoderna, in cui tutti i gradini della gerarchia hanno in comune le stesse capacità professionali, e la conoscenza pratica delle operazioni lavorative cresce via via che si sale lungo la scala (il maestro di bottega sa le stesse cose che sanno i suoi lavoranti e apprendisti, ma le conosce di più e meglio), le persone che occupano livelli successivi della burocrazia moderna differiscono radicalmente per il tipo di competenza e di formazione professionale che il loro lavoro richiede. Esse possono, magari, essere in grado di calarsi psicologicamente nella posizione dei propri subordinati, e ciò può persino aiutarle a mantenere delle «buone relazioni umane» sul luogo di lavoro, ma questa non è la condizione di un'appropriata esecuzione dei compiti, né dell'efficacia della burocrazia nel suo complesso. In realtà, la maggior parte delle burocrazie non prende sul serio la regola romantica secondo cui tutti i burocrati, e m particolare quelli che occupano il vertice, devono «;cominciare dal basso» in modo da poter acquisire e accumulare, lungo il cammino verso

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l'alto, l'esperienza dell'intero percorso. Consapevoli delle molteplici capacità richieste dalle mansioni amministrative di diversa importanza, le burocrazie adottano invece, per lo più, canali separati di reclutamento per i diversi livelli della gerarchia. Sarà forse vero che ogni soldato porta un bastone da maresciallo nel proprio zaino, ma sono certamente pochi i marescialli - e se è per questo anche i colonnelli e i capitani - che tengono una baionetta nella propria borsa.

L'esistenza di questa distanza pratica e mentale dall'esito finale del processo burocratico fa sì che la maggior parte dei funzionari della gerarchia burocratica possa impartire ordini senza avere piena conoscenza dei loro effetti. In genere essi ne hanno una consapevolezza astratta e distaccata, il tipo di conoscenza che si esprime al meglio nelle statistiche, che soppesa i risultati senza esprimere nessun giudizio, e certamente non un giudizio morale. Nei loro documenti e nelle loro teste la migliore rappresentazione di tali risultati è data da grafici, curve e diagrammi, la loro forma ideale è quella delle colonne di numeri. Graficamente o numericamente rappresentati, i risultati finali degli ordini impartiti sono privi di qualsiasi contenuto sostanziale. I grafici misurano l'"andamento" del lavoro, non dicono nulla circa la natura o gli scopi dell'operazione. I grafici rendono intercambiabili compiti di carattere largamente diverso: ciò che importa è soltanto la quantificazione del successo o dell'insuccesso, e da tale punto di vista i vari compiti non differiscono tra loro.

Tutti questi effetti di distacco creati dalla divisione gerarchica del lavoro vengono fortemente amplificati quando la divisione assume un carattere funzionale. A questo punto il funzionario risulta separato dal lavoro della burocrazia di cui è parte non più soltanto dalla mancanza di esperienza personale diretta dell'effettiva esecuzione dei compiti svolti grazie a una serie di ordini successivi, ma anche dall'assenza di analogia tra compito immediato e compito della struttura nel suo complesso (il primo non è una versione miniaturizzata, né un'icona, del secondo). L'impatto psicologico di questo distacco è profondo e di ampia portata. Una cosa è impartire l'ordine di caricare delle bombe su un aeroplano, un'altra cosa è provvedere alla regolare fornitura dell'acciaio destinato a una fabbrica di bombe. Nel primo caso è possibile che chi impartisce l'ordine non abbia un'immagine esatta della devastazione che le bombe provocheranno. Ma nel secondo caso l'amministratore incaricato della fornitura non deve nemmeno, se non vuole, pensare all'uso a cui sono destinate le bombe. Persino in astratto la conoscenza puramente teorica dell'esito finale è superflua, e certamente irrilevante per quanto riguarda il successo del compito a lui affidato. All'interno di una divisione funzionale del lavoro, tutto ciò che viene fatto da un soggetto ha in linea di principio una molteplicità di scopi, pu ò cioè essere combinato e integrato in più di una totalità produttrice di senso. Di per sé la funzione è priva di significato, e quello che alla fine le verrà conferito non è in nessun modo ipotecato dall'azione di chi svolge la funzione stessa. Saranno «altri» (nella maggior parte dei casi soggetti anonimi e irraggiungibili) che ad un certo punto, da qualche parte, decideranno di quel significato. «I lavoratori degli stabilimenti chimici che producono napalm accetterebbero la responsabilità per i bambini bruciati da quel napalm?», si chiedono Kren e Rappoport. «Sono almeno consapevoli, questi lavoratori, del fatto che altri potrebbero ragionevolmente attribuire loro tale responsabilità?» (12). Naturalmente no. E dal punto di vista burocratico non c'è ragione per cui dovrebbero esserlo. La suddivisione del processo che porta al rogo dei bambini in una serie di dettagliati compiti funzionali e poi la separazione di tali compiti gli uni dagli altri hanno reso irrilevante, e troppo difficile da raggiungere, questa consapevolezza. E si rammenti che è lo stabilimento chimico a produrre napalm, non i singoli lavoratori.

Il secondo processo che porta alla dissociazione dei mezzi dalla valutazione morale dei fini è strettamente legato al primo. La sostituzione della responsabilità morale con quella tecnica non sarebbe concepibile senza la meticolosa frantumazione funzionale dei compiti e la loro separazione, o almeno non sarebbe concepibile nella stessa misura. La sostituzione avviene, in parte, già all'interno della distribuzione puramente lineare del controllo. Ogni membro di una gerarchia di autorità è responsabile di fronte al proprio immediato superiore, ed è quindi naturalmente

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interessato alla sua opinione e alla sua approvazione del lavoro svolto. Ma per quanto tale approvazione possa essere importante per lui, egli è ancora, sebbene solo teoricamente, consapevole di quello che sarà il risultato ultimo del proprio lavoro. C'è, dunque, almeno la possibilità astratta che una consapevolezza sia valutata in rapporto all'altra, che la benevolenza dei superiori sia confrontata con la repulsività degli effetti. E se è possibile il confronto, è ; possibile anche la scelta. All'interno di una distribuzione puramente lineare dell'autorità, la responsabilità tecnica rimane, almeno in teoria, vulnerabile: essa può ancora essere chiamata a giustificarsi in termini etici e a confrontarsi con la coscienza morale. Un membro di una gerarchia potrebbe decidere, ad esempio, che il suo superiore ha oltrepassato i limiti della propria competenza, spostandosi dal campo di interesse puramente tecnico a quello dotato di significato morale (sparare a dei soldati è accettabile, sparare a dei bambini è un'altra questione), e che il dovere di obbedire a un ordine non si estende al punto da giustificare ciò che si considera moralmente inaccettabile. Tutte queste possibilità teoriche spariscono, però, o almeno risultano considerevolmente indebolite, quando la gerarchia lineare di autorità viene affiancata, o sostituita, dalla divisione funzionale e dalla separazione dei compiti. A questo punto il trionfo della responsabilità tecnica è completo, incondizionato e praticamente inattaccabile.

La responsabilità tecnica differisce da quella morale in quanto dimentica che l'azione è un mezzo in vista di qualcosa di diverso da essa. Nel momento in cui le sue connessioni esterne vengono efficacemente rimosse dal campo visivo, l'azione del burocrate diventa un fine in sé. Essa può essere giudicata soltanto in base a criteri intrinseci di adeguatezza e di successo. La celebrata autonomia relativa del funzionario condizionato dalla propria specializzazione funzionale è accompagnata dal suo distacco dagli effetti globali dell'attività, parcellizzata e tuttavia coordinata, dell'organizzazione nel suo complesso. Una volta isolata dalle proprie remote conseguenze, la maggior parte delle azioni funzionalmente specializzate supera facilmente l'esame morale o risulta moralmente neutra. Svincolata da preoccupazioni morali, l'azione può essere giudicata su un terreno esclusivamente razionale.

Ciò che importa, a questo punto, è che essa sia stata eseguita secondo le migliori conoscenze tecnologiche disponibili, e che il suo risultato sia ottenuto ai costi minimi. Tali criteri di valutazione sono netti e facili da applicare.

Ai fini del nostro discorso due effetti di tale contesto dell'azione burocratica sono di importanza decisiva. In primo luogo, il fatto che le capacità, le competenze, la creatività e la dedizione degli attori - affiancate dalle motivazioni personali che h hanno spinti a sfruttare appieno queste loro qualità - possono essere completamente mobilitate e poste al servizio dello scopo burocratico complessivo anche se (o forse perché) l'attore conserva una relativa autonomia funzionale rispetto a tale scopo, e anche se quest'ultimo non concorda con la filosofia morale dell'attore stesso. In sintesi, "il risultato di tutto ciò è l'irrilevanza delle norme morali per il successo tecnico dell'operazione burocratica". La spinta verso l'abilità tecnica, che secondo Thorstein Veblen è presente in tutti gli attori, si concentra completamente sull'esecuzione del compito. La dedizione pratica al compito può essere ulteriormente potenziata dal carattere arrendevole dell'attore, dalla severità dei suoi superiori, dalla sua aspirazione a un avanzamento, dalla sua ambizione o disinteressata curiosità e da molte altre circostanze, motivazioni o tratti personali del carattere, ma nel complesso la spinta verso l'abilità tecnica sarà sufficiente anche in loro assenza. Gli attori, in buona misura, vogliono eccellere: qualsiasi cosa facciano, desiderano farla bene. Una volta che, grazie alla complessa differenziazione funzionale della burocrazia, essi siano stati separati dai risultati ultimi dell'operazione a cui contribuiscono, le loro preoccupazioni morali si possono concentrare pienamente sulla buona esecuzione dei compiti immediati. La moralità si riduce all'imperativo di essere un buon lavoratore: efficiente, diligente ed esperto.

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- "La disumanizzazione degli oggetti dell'attività burocratica".

Un altro effetto, ugualmente importante, del contesto burocratico dell'azione è la "disumanizzazione degli oggetti dell'attività burocratica": la possibilità di esprimere tali oggetti in termini puramente tecnici ed eticamente neutri..

Noi associamo la disumanizzazione alle immagini terrificanti degli internati nei campi di concentramento, che furono umiliati riducendo la loro azione al livello più elementare della sopravvivenza primitiva, impedendo loro di aggrapparsi ai simboli culturali (sia fisici, sia comportamentali) della dignità umana, privandoli perfino di sembianze umane riconoscibili. Come ha detto Peter Marsch, «in piedi accanto alla rete di recinzione di Auschwitz, guardando quegli scheletri emaciati dalla pelle rattrappita e dagli occhi incavati, chi avrebbe potuto credere che fossero davvero esseri umani?» (13). Queste immagini, tuttavia, rappresentano soltanto una manifestazione estrema della tendenza rilevabile in tutte le burocrazie, per quanto benigno o innocuo possa essere il compito in cui esse sono impegnate. Suggeriamo qui che la discussione della tendenza disumanizzante, invece di concentrarsi sulle sue manifestazioni più appariscenti e brutali, ma fortunatamente rare, dovrebbe privilegiare le sue espressioni più universali, e per questa ragione potenzialmente pericolose.

La disumanizzazione comincia nel momento in cui, grazie alla dissociazione che abbiamo visto, gli oggetti dell'attività burocratica possono essere, e sono, ridotti a una serie di misurazioni quantitative. Per gli amministratori delle ferrovie l'unica espressione significativa dell'oggetto del proprio lavoro è data in termini di tonnellate per chilometro. Essi non hanno a che fare con esseri umani, pecore o filo spinato, bensì semplicemente con un «carico», cioè con un'entità costituita esclusivamente da quantità misurabili e priva di qualità. Per la maggior parte dei burocrati persino una categoria come il «carico» rappresenterebbe una restrizione qualitativa troppo vincolante. Essi prendono in considerazione solo gli effetti finanziari delle proprie azioni. Il loro oggetto è il denaro. Il denaro è l'unico oggetto che appare nelle loro operazioni sia come input sia come output e, secondo l'acuta osservazione degli antichi, "pecunia non olet". Via via che crescono, le organizzazioni burocratiche si lasciano raramente confinare a una sola area di attività qualitativamente distinta. Esse si espandono lateralmente, guidate nel proprio movimento da una sorta di "lucrotropismo", una specie di forza gravitazionale tendente alla massimizzazione del profitto sul capitale investito. Come si ricorderà, l'intera operazione dell'Olocausto fu gestita dall'ufficio economico-amministrativo del " Reichsicherheithauptamt". E sappiamo anche che l'affidamento ad esso di questo compito non era, una volta tanto, da intendersi come uno stratagemma o un camuffamento.

Ridotti, come tutti gli altri oggetti della gestione burocratica, a semplici quantità misurabili prive di qualità, gli esseri umani perdono la propria specificità. A questo punto essi sono già disumanizzati, nel senso che il linguaggio in cui viene espresso ciò che accade loro (o che viene fatto loro) esclude i suoi referenti dal giudizio etico. Di fatto, questo linguaggio è inadeguato alla formulazione di valutazioni normativo-morali. Soltanto gli esseri umani possono essere oggetto di giudizi a carattere etico. (È vero che le valutazioni morali si estendono talvolta ad altri esseri viventi non umani, ma ciò avviene solo ampliando un originario punto di partenza antropomorfico.) Gli esseri umani perdono questa prerogativa una volta che siano stati ridotti a cifre.

La disumanizzazione è inestricabilmente collegata alle fondamentali tendenze razionalizzanti della burocrazia moderna. Poiché tutte le burocrazie colpiscono in qualche misura degli esseri umani, l'impatto funesto della disumanizzazione risulta molto più comune di quanto suggerisca l'abitudine di identificarlo quasi interamente con i suoi effetti in termini di genocidio. Ai soldati viene detto di

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sparare a dei "bersagli", i quali "cadono" quando sono "colpiti". Gli impiegati delle grandi imprese sono incoraggiati a distruggere la "concorrenza". I funzionari delle istituzioni assistenziali amministrano, a seconda dei casi, "assegnazioni discrezionali" o "benefici personali"; i loro interlocutori sono "beneficiati di prestazioni integrative". È difficile percepire e ricordare che dietro tutti questi termini tecnici vi sono degli esseri umani. E infatti, dal punto di vista delle finalità burocratiche è meglio che ciò non venga percepito e ricordato.

Una volta efficacemente disumanizzati, e perciò cancellati come potenziali soggetti di rivendicazioni morali, gli esseri umani oggetto delle prestazioni burocratiche vengono visti con indifferenza etica, la quale si trasforma rapidamente in disapprovazione e in censura quando la loro resistenza o mancanza di cooperazione rallenta il corso della routine burocratica. Gli oggetti disumanizzati non possono essere difensori di una «causa», e tanto meno di una causa «giusta»; essi non hanno «interessi» ; che possano essere presi in considerazione, di fatto non hanno nessun diritto alla soggettività. Gli oggetti umani diventano pertanto un «fattore di disturbo». La loro indisciplina rafforza ulteriormente l'amor proprio e i legami di solidarietà che uniscono tra loro i funzionari. Costoro vedono ora se stessi come compagni di una difficile lotta, che richiede coraggio, sacrificio e altruistica dedizione alla causa. Non sono gli oggetti dell'azione burocratica, bensì i suoi soggetti, a soffrire e a meritare compassione e apprezzamento morale. Essi possono a buon diritto provare orgoglio e certezza della propria dignità per il fatto di reprimere la resistenza delle vittime, così come sono orgogliosi di superare ogni altro ostacolo. La disumanizzazione degli oggetti dell'azione burocratica e l'autovalutazione morale positiva dei suoi soggetti si rafforzano a vicenda. I funzionari possono servire fedelmente qualsiasi scopo mentre la loro coscienza morale rimane intatta.

Da tutto ciò consegue che il modello burocratico di azione, così come si è sviluppato nel corso del processo di modernizzazione, contiene tutti gli elementi tecnici necessari all'esecuzione del genocidio. Tale modello può essere posto al servizio del genocidio stesso senza che la sua struttura, i suoi meccanismi e le sue norme di comportamento abbiano bisogno di significative revisioni.

Inoltre, contrariamente a quanto sostiene un'opinione assai diffusa, la burocrazia non è meramente uno strumento che può essere usato con uguale facilità una volta per scopi crudeli e moralmente riprovevoli, un'altra per scopi profondamente umanitari. Anche se in effetti si muove in qualsiasi direzione venga spinta, la burocrazia assomiglia maggiormente a un dado truccato. Essa ha una logica e un impulso propri; rende alcune soluzioni più probabili ed altre meno. Una volta ricevuta una spinta iniziale (messa di fronte ad uno scopo), essa si spingerà, come le scope dell'apprendista stregone, al di là di molti dei limiti che le avrebbero imposto coloro che l'hanno messa in movimento, se avessero ancora il controllo del processo che hanno innescato. La burocrazia è programmata per cercare la soluzione ottimale. Ed è programmata in modo da misurare l'optimum senza distinguere tra un oggetto umano e l'altro, o tra oggetti umani e non umani. Ciò che importa è l'efficienza e la riduzione dei costi.

- "Il ruolo della burocrazia nell'Olocausto".

Mezzo secolo fa accadde in Germania che alla burocrazia fosse affidato il compito di rendere il paese «ripulito dagli ebrei» ("judenrein"). Essa iniziò dal punto di partenza di tutte le burocrazie: la formulazione di una precisa definizione dell'oggetto. Poi registrò tutti coloro che corrispondevano a tale definizione e aprì una pratica per ciascuno di essi. Quindi procedette col segregare questi ultimi dal resto della popolazione, a cui le istruzioni ricevute non si applicavano. Infine passò ad espellere i membri della categoria segregata dalla terra degli ariani che doveva essere ripulita, all'inizio spingendoli ad emigrare e deportandoli in territori non tedeschi di cui fosse stato acquisito il controllo. A questo punto la burocrazia aveva sviluppato meravigliose capacità di pulizia, che non

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dovevano andare sprecate o rimanere inutilizzate. "La burocrazia, che aveva assolto così bene il compito di ripulire la Germania, rese realizzabili obiettivi ancora più ambiziosi e pressoché naturale la loro scelta". Avendo a disposizione un tale superbo strumento di pulizia, perché fermarsi alla terra d'origine degli ariani? Perché rinunciare a ripulire tutto il loro impero? In effetti, poiché tale impero era ormai ecumenico, non c'era un territorio «esterno» dove potessero essere scaricati i rifiuti ebraici. La deportazione poteva ormai prendere una sola direzione: verso l'alto, sotto forma di fumo.

Già da molti anni gli storici dell'Olocausto vengono suddivisi tra «intenzionalisti» e «funzionalisti». I primi insistono sul fatto che Hitler aveva sicuramente preso fin dall'inizio la decisione di uccidere gli ebrei e aveva atteso soltanto le condizioni opportune per metterla in atto. I secondi attribuiscono a Hitler solo l'intenzione generica di «trovare una soluzione» al «problema ebraico»: un'intenzione ben definita per quanto riguardava la visione di una «Germania ripulita», ma vaga e confusa circa i passi da compiere per avvicinarsi a quell'obiettivo. La ricerca storica sostiene in modo sempre più convincente il punto di vista funzionalista. Qualunque possa essere l'esito finale del dibattito in corso, tuttavia, non ci sono praticamente dubbi sul fatto che lo spazio compreso tra l'idea e la sua esecuzione fu riempito per intero dall'azione burocratica. Né ci sono dubbi sul fatto che, per quanto vivace fosse l'immaginazione di Hitler, essa sarebbe arrivata a ben pochi risultati se non fosse stata sostituita, e tradotta in un normale processo di "problem-solving", da un enorme e razionale apparato burocratico. Resta da fare un'ultima osservazione, e forse la più importante: il modello burocratico di azione lasc iò la sua traccia indelebile sulla vicenda dell'Olocausto. La sua impronta è presente dovunque nella storia dell'Olocausto, riconoscibile da chiunque. È vero che non fu la burocrazia a scatenare la paura della contaminazione e l'ossessione per l'igiene razziale. Di ciò si incaricarono dei visionari, poiché la burocrazia interviene là dove questi ultimi non arrivano. Ma fu la burocrazia a realizzare l'Olocausto. E lo realizzò a propria immagine e somiglianza.

Hilberg sostiene che nel momento in cui un funzionario tedesco scrisse la prima norma sulla segregazione degli ebrei, il destino della popolazione ebraica europea era ormai segnato. C'è una profonda e terrificante verità in questa osservazione. Ciò di cui la burocrazia aveva bisogno era la definizione del proprio compito. Dopodiché si poteva essere certi che essa, razionale ed efficiente com'era, lo avrebbe portato a compimento.

La burocrazia contribuì alla realizzazione dell'Olocausto non soltanto con le proprie capacità e attitudini intrinseche, ma anche con la propria immanente patologia. La tendenza di tutte le burocrazie a perdere di vista lo scopo originario per concentrarsi invece sui mezzi - i mezzi che si trasformano in fini - è stata ampiamente osservata, analizzata e descritta. La burocrazia nazista non sfuggì a questa tendenza. Una volta messa m movimento, la macchina omicida sviluppò una propria forza d'inerzia: quanto più si dimostrava efficiente nel ripulire dagli ebrei i territori sottoposti al suo controllo, tanto più attivamente cercava nuovi territori su cui esercitare le capacità recentemente acquisite. Con l'approssimarsi della sconfitta militare tedesca, lo scopo originale della «soluzione finale» diveniva sempre più irrealistico. A tenere in funzione la macchina omicida furono, dunque, semplicemente la sua routine e la sua inerzia. La capacità di eseguire l'omicidio di massa doveva essere applicata soltanto perché esisteva. Gli esperti creavano gli oggetti su cui esercitare la propria competenza. Si rammenti anche che gli specialisti della questione ebraica, nei loro uffici di Berlino, continuarono a introdurre restrizioni sempre più minuziose riguardanti gli ebrei tedeschi quando questi erano ormai da tempo pressoché scomparsi dal territorio della Germania; si rammenti anche che i comandanti delle S.S. proibirono ai generali della "Wehrmacht" di tenere in vita gli operai specializzati ebrei, di cui avevano disperatamente bisogno per le proprie operazioni di guerra. Ma in nessun altro caso la tendenza patologica alla sostituzione dei fini con i mezzi risulta più evidente che nell'incredibile e macabro episodio dell'assassinio degli ebrei rumeni e ungheresi, compiuto quando il fronte orientale era già a pochi chilometri di distanza e ad un costo enorme per lo sforzo bellico: preziosissimi vagoni ferroviari e locomotori, truppe e risorse amministrative furono sottratti

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agli usi militari per poter «ripulire» lontane regioni dell'Europa mai più destinate a diventare «spazio vitale» per i tedeschi.

La burocrazia è intrinsecamente "capace" di compiere un'azione di genocidio. Per "impegnarsi" in questa azione, essa ha bisogno di combinarsi con un'altra invenzione della modernità: l'audace progetto di un ordine sociale migliore e più razionale - una società omogenea dal punto di vista razziale, ad esempio, o senza classi - e soprattutto la capacità di tracciare un simile progetto e la determinazione a realizzarlo. Il genocidio scaturisce dalla combinazione di due comuni e diffuse invenzioni dell'epoca moderna. È soltanto tale combinazione ad essere stata, finora, insolita e rara.

- "Il fallimento delle salvaguardie moderne".

La violenza fisica o la sua minaccia

"non introduce [più] nella vita dell'individuo una costante insicurezza, bensì una particolare forma di sicurezza... da questa violenza immagazzinata dietro le quinte della vita quotidiana promana una pressione costante e uniforme sulla vita del singolo, della quale egli quasi non si avvede perché vi è abituato, perché fin dall'infanzia il suo comportamento e la sua conformazione pulsionale sono stati plasmati in armonia con questa struttura della società" (14).

Con queste parole Norbert Elias ha riformulato la familiare autodefinizione di società civilizzata. L'eliminazione della violenza dalla vita quotidiana è la principale caratteristica attorno a cui ruota tale definizione. Come abbiamo visto, questa apparente eliminazione è in realtà un'espulsione, che porta alla riaggregazione delle risorse e alla distribuzione dei centri della violenza in nuove collocazioni all'interno del sistema sociale. Secondo Elias questi due sviluppi sono strettamente interdipendenti. L'ambito della vita quotidiana è relativamente esente dalla violenza proprio perché da qualche parte dietro le quinte la violenza fisica viene accumulata in quantità che la sottraggono di fatto al controllo dei comuni membri della società e le conferiscono l'irresistibile potere di reprimere le esplosioni di violenza non autorizzate. I modelli di comportamento quotidiani si sono ingentiliti principalmente perché gli individui sono ora minacciati di violenza in caso siano violenti: di una violenza che essi non possono uguagliare o ragionevolmente sperare di contrastare. La scomparsa della violenza dall'orizzonte della vita quotidiana è dunque un'ulteriore manifestazione delle tendenze moderne alla centralizzazione e al monopolio del potere: la violenza è assente dai rapporti tra individui perché è ormai controllata da forze che si collocano definitivamente fuori dalla portata degli individui. Ma non fuori dalla portata di tutti. Il tanto celebrato ingentilirsi dei comportamenti (che Elias, seguendo il mito eziologico dell'Occidente, celebra con trasporto) e la confortevole sicurezza della vita quotidiana hanno dunque il loro prezzo. Un prezzo che noi, abitanti nella casa della modernità, possiamo essere chiamati a pagare in qualsiasi momento. O essere costretti a pagare senza prima essere chiamati a farlo.

La pacificazione della vita quotidiana comporta nello stesso tempo la sua mancanza di difese. I membri della società moderna, rendendosi disponibili - o essendo costretti - a rinunciare all'uso della forza fisica nei loro rapporti reciproci, gettano le armi di fronte agli sconosciuti e generalmente invisibili, ma potenzialmente minacciosi e sempre formidabili, amministratori della coercizione. Tale debolezza è preoccupante non tanto per l'elevata probabilità che questi ultimi approfittino effettivamente della coercizione e si affrettino ad usare contro la società disarmata gli strumenti di violenza da essi controllati, quanto per il semplice fatto che questa possibilità non dipende in linea di principio da ciò che fanno gli individui comuni. Da soli, i membri della società moderna non possono impedire l'uso massiccio della coercizione. L'ingentilirsi dei comportamenti è strettamente connesso a un radicale spostamento del controllo sulla violenza.

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La consapevolezza della costante minaccia contenuta nello squilibrio di potere tipicamente moderno ci renderebbe la vita insopportabile se non fosse per la nostra fiducia nelle salvaguardie che crediamo siano state intessute nella trama della moderna società civilizzata. Nella maggior parte dei casi non abbiamo motivo di pensare che questa fiducia sia mal riposta. È soltanto in alcune drammatiche occasioni che sull'affidabilità delle salvaguardie in questione cala l'ombra di un dubbio. E forse il significato principale dell'Olocausto risiede nel fatto di aver costituito, a tutt'oggi, una delle più temibili di tali occasioni. "Negli anni che hanno portato alla «soluzione finale» sono state messe alla prova le più affidabili di queste salvaguardie. Tutte hanno fallito, una ad una e nel loro complesso".

Il fallimento più spettacolare è stato forse quello della scienza, intesa come "corpus" di idee e come rete di istituzioni incaricate di diffondere la cultura e l'istruzione. Il potenziale di morte contenuto nei più celebrati principi ed esiti della scienza moderna è già stato illustrato. L'emancipazione della ragione dalle emozioni, della razionalità dai vincoli normativi, dell'efficienza dall'etica è stata il grido di battaglia della scienza fin dai suoi esordi. Una volta messa in pratica, però, tale emancipazione ha trasformato la scienza e le formidabili applicazioni tecnologiche da essa scaturite in docili strumenti nelle mani di un potere senza scrupoli.

L'oscuro e ignobile ruolo che la scienza ha svolto nell'esecuzione dell'Olocausto è stato sia diretto sia indiretto.

Indirettamente (anche se coerentemente con la sua funzione sociale generale) la scienza ha aperto la strada al genocidio minando l'autorità e mettendo in dubbio il valore vincolante del pensiero normativo, in particolare di quello religioso ed etico. La scienza considera la propria storia come una lunga e vittoriosa lotta della ragione contro la superstizione e l'irrazionalità . Dal momento che la religione e l'etica non erano in grado di legittimare razionalmente i vincoli da esse imposti al comportamento umano, furono condannate e la loro autorità venne negata. Poiché valori e norme erano stati proclamati come intrinsecamente e irreparabilmente soggettivi, restava soltanto la strumentalità come campo in cui fosse praticabile la ricerca della perfezione. La scienza intendeva essere libera da valori e si vantava di esserlo. Attraverso la pressione istituzionale e lo scherno essa mise a tacere i predicatori della moralità. Nel corso di questo processo si rese cieca e muta dal punto di vista morale. Smantellò tutte le barriere che potessero impedirle di cooperare, con entusiasmo ed abbandono, alla progettazione dei metodi più efficaci e più rapidi di sterilizzazione o uccisione di massa; o di concepire la schiavitù dei campi di concentramento come opportunità unica e meravigliosa di sviluppare la ricerca medica per il progresso della cultura e - naturalmente - dell'umanità.

Le varie discipline scientifiche (o piuttosto, questa volta, gli scienziati) aiutarono gli esecutori dell'Olocausto anche direttamente. La scienza moderna è un'istituzione gigantesca e complessa. La ricerca ha prezzi elevati e necessita di enormi edifici, attrezzature costose e grosse équipe di esperti ben retribuiti. Essa, pertanto, dipende da un flusso costante di denaro e risorse non monetarie, che soltanto istituzioni di dimensioni ugualmente grandi sono in grado di offrire e garantire. Ciò non significa che la scienza sia un'attività mercantile e che gli scienziati siano avidi. La scienza si occupa della verità e gli scienziati di ricercarla. Essi sono spinti dalla curiosità ed eccitati dall'ignoto. Se misurata col metro di tutte le altre preoccupazioni mondane, tra cui il denaro, la curiosità è disinteressata. Gli scienziati apprezzano e perseguono soltanto il valore della conoscenza e della verità. Il fatto che la curiosità non possa essere soddisfatta, e la verità scoperta, senza fondi sempre crescenti, laboratori sempre più costosi, retribuzioni sempre più elevate, costituisce una semplice coincidenza, o meglio un fattore di disturbo scarsamente importante. Ciò che gli scienziati vogliono è la possibilità di andare dove h spinge la loro sete di conoscenza.

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Un governo che allunghi la sua mano generosa per offrire tale possibilità può contare sulla gratitudine e sulla cooperazione degli scienziati. La maggior parte di questi ultimi sarebbe pronta, in cambio, a rinunciare a una lista piuttosto lunga di precetti meno importanti. Essi sarebbero disposti, per esempio, ad accettare l'improvvisa scomparsa di alcuni dei loro colleghi con la forma del naso o i dati biografici sbagliati. Ammesso che abbiano qualche obiezione in proposito, essa consisterà nel far notare che la sparizione contemporanea di tutti questi colleghi potrebbe mettere a repentaglio la tabella di marcia della ricerca. (Non è una denigrazione o un'osservazione sarcastica: è ciò a cui si ridusse la protesta dei professori universitari, dei medici e degli ingegneri tedeschi nei casi in cui si rese manifesta. I loro colleghi sovietici si fecero sentire ancor meno durante le purghe.) Gli scienziati tedeschi salirono con entusiasmo sul treno trainato dalla locomotiva nazista, la cui destinazione era un mondo nuovo, purificato dalla contaminazione razziale e dominato dalla Germania. I progetti di ricerca si fecero più ambiziosi di giorno in giorno e le istituzioni scientifiche videro crescere il proprio personale e le proprie risorse di ora in ora. Poco altro aveva importanza.

Nel suo nuovo, affascinante studio sul contributo della biologia e della medicina alla progettazione e all'esecuzione della politica razziale nazista, Robert Proctor smentisce il mito ampiamente condiviso della scienza come prima e principale vittima della persecuzione nazista e come oggetto di un intenso indottrinamento dall'alto (mito che risale almeno all'influente opera di Joseph Needham "The Nazi Attack on International Science", pubblicata nel 1941). Alla luce dell'accurata ricerca condotta da Proctor tale diffusa opinione risulta sottovalutare fortemente la misura in cui le iniziative politiche (ivi comprese, a ben guardare, alcune delle più raccapriccianti tra esse) furono partorite dalla comunità scientifica stessa, piuttosto che imposte dall'esterno a scienziati riluttanti ma arrendevoli, nonché la misura in cui perfino la politica razziale fu avviata e gestita da scienziati ben noti e in possesso di credenziali accademiche impeccabili. Se vi fu coercizione, «essa fu spesso esercitata da una parte della comunità scientifica contro un'altra». Nel complesso «molte delle basi sociali e intellettuali [dei programmi razziali] furono gettate assai prima dell'ascesa di Hitler al potere», mentre biologi e medici «svolsero un ruolo attivo e addirittura trainante nell'avviamento, nella gestione e nell'esecuzione dei programmi razziali nazisti» (15). I biologi e i medici in questione non costituivano affatto una frangia deviante o fanatica delle rispettive professioni, come dimostra Proctor analizzando minuziosamente la composizione dei consigli editoriali di 147 riviste mediche pubblicate nella Germania nazista. Dopo l'ascesa di Hitler al potere tali consigli editoriali rimasero immutati o procedettero alla sostituzione di una piccola minoranza dei propri membri (con ogni probabilità dovuta alla rimozione degli scienziati ebrei) (16).

Nel migliore dei casi, il culto della razionalità, istituzionalizzato nella scienza moderna, si dimostrò incapace di impedire allo stato di trasformarsi in un'organizzazione criminale; nel peggiore dei casi, si dimostrò strumentale al compimento di tale trasformazione. Neanche gli antagonisti di quel culto, tuttavia, si guadagnarono un giudizio migliore. Nel proprio silenzio gli scienziati tedeschi si trovarono in buona compagnia. La presenza più significativa accanto a loro fu quella delle Chiese: tutte le Chiese. Il silenzio di fronte alla disumanità organizzata risultò l'unico argomento su cui tutte le Chiese, così spesso in contrasto tra loro, si rivelarono d'accordo. Nessuna di esse tentò di rivendicare la propria schernita autorità. Nessuna di esse (in quanto distinta da singoli prelati per lo più isolati) riconobbe la propria responsabilità per i fatti commessi in un paese dichiarato come proprio dominio spirituale e da persone sottoposte alla propria guida pastorale. (Hitler non abbandonò mai la Chiesa cattolica, né fu mai scomunicato.) Nessuna di esse rivendicò il diritto di esercitare il giudizio morale sul proprio gregge e di imporre la penitenza ai reprobi.

Assai significativamente, il rifiuto culturalmente condizionato della violenza si dimostrò una ben misera salvaguardia contro la coercizione organizzata, mentre i comportamenti civilizzati manifestarono una sorprendente capacità di convivere - pacificamente e armoniosamente - con l'omicidio di massa. Il lungo, e spesso doloroso, processo di civilizzazione non riuscì ad erigere una sola barriera contro il genocidio che non fosse possibile aggirare. I meccanismi del genocidio

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richiedevano che il codice di comportamento civilizzato coordinasse le azioni criminali in modo tale da cozzare raramente contro la pretesa rettitudine degli esecutori. Tra gli spettatori il disgusto civilizzato per la disumanità non si dimostrò abbastanza forte da incoraggiare una resistenza attiva. La maggior parte di costoro reagì come le norme della civiltà li spingevano ad agire di fronte a manifestazioni sgradevoli e barbare: volgendo altrove lo sguardo. I pochi che si opposero alla crudeltà non disponevano di norme o sanzioni sociali che li sostenessero e h rassicurassero. Essi erano dei solitari che a giustificazione della propria lotta contro il male potevano soltanto citare uno dei propri illustri antenati: «Ich kann nicht anders».

Di fronte a un equipaggio senza scrupoli che guidava la potente macchina dello stato moderno, con il suo monopolio della violenza fisica e della coercizione, i più celebrati esiti della civiltà moderna fallirono come salvaguardie contro la barbarie. "La civiltà si dimostrò incapace di garantire un uso morale del terrificante potere da essa creato".

- "Conclusioni".

Se ora ci chiediamo quale fu il peccato originale che consentì a tutto ciò di accadere, la risposta più convincente sembra essere data dal collasso (o dal mancato consolidamento) della democrazia. In assenza dell'autorità tradizionale, gli unici controlli e contrappesi capaci di tenere lo stato lontano da forme di estremismo potevano essere forniti dalla democrazia politica. Ma quest'ultima non si istituisce rapidamente, e ancor più lentamente mette radici una volta spezzata la presa del vecchio sistema di autorità e di controllo, in particolare se tale operazione è stata compiuta in fretta. Questa situazione di interregno e di instabilità tende a verificarsi durante e dopo le rivoluzioni di ampia portata, che portano alla paralisi dei vecchi assetti del potere sociale senza ancora sostituirli con dei nuovi, e creano per questa ragione un contesto in cui "le forze politiche e militari non sono né controbilanciate né limitate nella loro azione da forze sociali influenti e dotate di risorse".

Situazioni del genere vennero a crearsi, presumibilmente, anche nelle epoche premoderne, sulla scia di conquiste sanguinose o di conflitti intestini che portarono talvolta alla pressoché completa autodistruzione di é lite consolidate. Le prevedibili conseguenze di tali situazioni, tuttavia, erano diverse. Generalmente ne derivava un collasso generale dell'ordine sociale più ampio. Ma la distruzione bellica toccava raramente le ben radicate reti comunitarie di controllo sociale; le isole locali di ordine sociale comunitariamente regolato venivano esposte a occasionali atti di violenza e di saccheggio, ma potevano ricadere su se stesse di fronte alla disintegrazione dell'organizzazione sociale al di sopra del livello locale. Nella maggior parte dei casi perfino i colpi più distruttivi assestati alla autorità tradizionali nelle società premoderne differivano dai rivolgimenti moderni per due aspetti fondamentali: in primo luogo, lasciavano intatte o almeno ancora praticabili le originarie forme comunitarie di controllo; in secondo luogo, indebolivano, invece di rafforzare, la possibilità di azione organizzata a livello sovracomunitario, poiché l'organizzazione sociale di ordine superiore si frantumava e i rapporti che sopravvivevano tra gli ambiti locali erano di nuovo affidati al libero gioco di forze non coordinate.

Nel contesto moderno, al contrario, rivolgimenti di tale natura avvengono, nel complesso, dopo che i meccanismi comunitari di regolazione sociale sono pressoché scomparsi e le comunità locali hanno cessato di essere autosufficienti e di poter contare su se stesse. L'istintivo riflesso a «ricadere» sulle proprie risorse viene meno e il vuoto tende ad essere riempito da nuove forze anch'esse sovracomunitarie, che tentano di utilizzare il monopolio statale della coercizione per imporre un nuovo ordine all'intera società. Invece di frantumarsi, dunque, il potere politico diventa praticamente l'unica forza che sostiene l'ordine sociale emergente. La sua azione non viene né

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bloccata né limitata da forze sociali o economiche, le quali risultano seriamente minate dalla distruzione o dalla paralisi delle vecchie forme di autorità.

Questo è, ovviamente, un modello teorico che raramente si concretizza in pieno nella prassi storica. Ma la sua utilità risiede nel richiamare l'attenzione su quelle trasformazioni sociali che sembrano rendere più probabile l'emergere di tendenze orientate al genocidio. Tali trasformazioni possono differire tra loro per quanto riguarda la forma e l'intensità, ma sono accomunate da un effetto generale: "la pronunciata supremazia del potere politico su quello economico e sociale, dello stato sulla società ". Questo effetto si ebbe forse nella forma più profonda ed esasperata nel caso della rivoluzione russa e nel successivo prolungato monopolio dello stato come unico fattore di integrazione sociale e di riproduzione dell'ordine. Ma anche in Germania le trasformazioni in questione si spinsero più avanti e più in profondità di quanto generalmente si creda. Affermatosi dopo la breve parentesi di Weimar, il regime nazista riprese e completò la rivoluzione che la repubblica - frutto di una difficile interazione tra vecchie e nuove (ma immature) élite, che soltanto in superficie assomigliava alla democrazia politica - non era stata, per varie ragioni, capace di gestire. Le vecchie élite furono considerevolmente indebolite o spinte da parte. Una ad una le forme di articolazione delle forze economiche e sociali vennero smantellate e sostituite da nuove forme di controllo centrale emananti e legittimate dallo stato. Tutte le classi furono profondamente toccate da questo processo, ma il colpo più pesante fu subìto da quelle che possono detenere un potere non politico soltanto collettivamente, cioè le classi non proprietarie, e in particolare dalla classe operaia. La statalizzazione o lo scioglimento di tutte le organizzazioni autonome dei lavoratori, affiancata dalla subordinazione del governo locale a un controllo centrale quasi totale, rese le masse popolari pressoché prive di potere e in pratica le escluse dal processo politico. La resistenza delle forze sociali fu ulteriormente impedita circondando l'attività dello stato con un impenetrabile muro di segretezza: si trattava a tutti gli e ffetti di una cospirazione del silenzio ordita dallo stato contro la stessa popolazione che esso governava. L'effetto complessivo e finale di tutto ciò fu la sostituzione delle forme tradizionali di autorità non con le nuove e vigorose forze della società civile autogovernata, ma con un monopolio quasi completo gestito dallo stato politico, che impediva alle forze sociali di autoarticolarsi e perciò di costruire le basi strutturali della democrazia politica.

Il contesto moderno rese possibile l'emergere di uno stato dotato di grandi risorse, capace di sostituire l'intera rete delle forme di controllo economico e sociale con il potere e l'amministrazione politica. Ma ancora più importante è il fatto che il contesto moderno ha dato sostanza a quel potere e quell'amministrazione. La modernità, come si ricorderà, è un'epoca di ordine artificiale e di grandi progetti sociali, l'era dei pianificatori, dei portatori di una visione del mondo fortemente strutturata e, più in generale, dei «giardinieri», che considerano la società come un appezzamento di terreno vergine il cui assetto deve essere accuratamente progettato, in modo che le coltivazioni e le manipolazioni successive si attengano alla forma progettata.

Non esistono limiti all'ambizione e alla fiducia in se stessi. In effetti, attraverso le lenti del potere moderno il «genere umano» appare così onnipotente e i suoi singoli membri così «incompleti», inetti e remissivi, e così bisognosi di perfezionamento, che trattare le persone come piante da potare (se necessario, da sradicare) o come bestiame da allevare non sembra bizzarro o moralmente odioso. Uno dei primi e principali ideologi del nazionalsocialismo tedesco, R. W. Darré, indicò le pratiche della zootecnia come modello della «politica demografica» che il futuro governo "völkisch" ; avrebbe dovuto adottare:

"Chi abbandona a se stesse le piante di un giardino scoprirà ben presto con sorpresa che esso è pieno di erbe infestanti e che persino il carattere fondamentale delle piante è cambiato. Se, dunque, il giardino deve restare un terreno di coltivazione delle piante, se, in altre parole, deve elevarsi al di sopra delle brute forze naturali, allora si rende necessaria la volontà formatrice di un giardiniere che, creando le condizioni adatte alla crescita, o tenendo lontane le influenze dannose, o facendo

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entrambe le cose insieme, coltiva con cura ciò che di cura ha bisogno ed estirpa senza esitazione le erbe infestanti che priverebbero le piante migliori del nutrimento, dell'aria, della luce e del sole... Dobbiamo pertanto renderci conto del fatto che i problemi relativi alla tutela della specie non sono irrilevanti per il pensiero politico, bensì devono essere posti al centro di ogni considerazione, e che la risposta ad essi deve discendere dall'orientamento spirituale e ideologico di un popolo. Dobbiamo anche affermare che un popolo può raggiungere l'equilibrio spirituale e morale solo se un progetto ben concepito di tutela della specie viene collocato al 'centro' della sua cultura" (17).

Darré esprimeva così in termini espliciti e radicali quelle ambizioni al «perfezionamento della realtà» che costituiscono l'essenza dell'atteggiamento moderno e che soltanto le risorse del potere moderno consentono di prendere seriamente in considerazione.

I periodi di profonde trasformazioni sociali sono momenti in cui questa peculiare caratteristica della modernità si manifesta in tutta la sua portata. In effetti, in nessun altro momento la società sembra così priva di forma - «incompiuta», indefinita e duttile - letteralmente in attesa di una visione del mondo e di un progettista abile e dotato che si dimostri capace di modellarla. In nessun altro momento la società appare così svuotata di forze e di tendenze proprie, e perciò incapace di opporre resistenza alla mano di un giardiniere e pronta ad essere modellata nella forma da lui scelta. "La combinazione di malleabilità e mancanza di difese costituisce un'attrazione a cui pochi assertori di un progetto, audaci e sicuri di sé, potrebbero resistere. Costituisce inoltre una situazione in cui è impossibile resistere a questi ultimi".

Gli ideatori del grande progetto, collocatisi al timone della moderna burocrazia statale, si liberarono dai vincoli dei poteri non politici (economici, sociali, culturali): ecco la ricetta del genocidio. Il genocidio si presenta come parte integrante del processo attraverso cui viene realizzato il grande progetto . "Il progetto conferisce al genocidio la sua legittimazione, la burocrazia statale gli offre il veicolo, e la paralisi della società gli dà il segnale di «via libera»".

Le condizioni favorevoli all'esecuzione del genocidio sono dunque peculiari, ma niente affatto eccezionali. Rare, ma non uniche. Esse non sono un attributo immanente della società moderna, ma neanche un fenomeno ad essa estraneo. Dal punto di vista della società moderna il genocidio non è né un anomalia, né una disfunzione. Esso dimostra ciò di cui è capace la moderna tendenza alla razionalizzazione e all'ingegneria sociale se non viene controllata e mitigata, se il pluralismo dei poteri sociali risulta eroso come vuole l'ideale moderno di una società intenzionalmente progettata, pienamente controllata, esente da conflitti, ordinata e armoniosa. Ogni impoverimento della capacità fondamentale di articolazione degli interessi e dell'autogoverno, ogni aggressione al pluralismo sociale e culturale e alle possibilità di una sua espressione politica, ogni tentativo di isolare la libertà senza impacci dello stato con un muro di segretezza politica, ogni passo verso l'indebolimento delle basi sociali della democrazia politica rende un po' più realizzabile un disastro sociale di dimensioni analoghe a quelle dell'Olocausto. Per essere efficaci i progetti criminali hanno bisogno di veicoli sociali. Lo stesso bisogno ha la vigilanza di coloro che vogliono impedire la realizzazione di tali progetti.

A tutt'oggi gli strumenti di vigilanza sembrano scarseggiare, mentre non c'è nessuna scarsità di istituzioni che appaiono capaci di mettersi al servizio di progetti criminali o peggio ancora - incapaci di impedire che un'attività di ordinaria amministrazione acquisti una dimensione criminale. Joseph Weizenbaum, uno dei più acuti osservatori ed analisti dell'influenza sociale della tecnologia informatica (uno sviluppo recente, certamente non disponibile al tempo dell'Olocausto nazista), suggerisce che la capacità di azioni miranti al genocidio è persino aumentata:

"La Germania intraprese la «soluzione finale» al suo «problema ebraico» come un esercizio da manuale sull'uso della ragione strumentale. L'umanità rabbrividì per un attimo, quando non poté

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più distogliere lo sguardo da quanto era successo, quando cominciarono a circolare le fotografie scattate dagli stessi assassini, e quando i miserevoli superstiti riemersero alla luce. Ma alla fine, non fece alcuna differenza. La stessa logica, la stessa applicazione fredda e crudele della ragione calcolatrice, portarono nei venti anni successivi al macello di almeno altrettante persone quante ne erano state vittime dei tecnici del Reich millenario. Non abbiamo imparato nulla. La civiltà è in pericolo oggi come lo era allora" (18).

E sono praticamente immutati i motivi per cui la ragione strumentale e le strutture umane sviluppate al suo servizio restano moralmente cieche, ora come allora. Nel 1966, più di venti anni dopo l'agghiacciante scoperta del crimine nazista, un gruppo di illustri studiosi ha tracciato il progetto, scientificamente elegante ed esemplarmente razionale, di un "campo di battaglia elettronico" ad uso dei generali impegnati nella guerra del Vietnam. «Questi uomini poterono dare la consulenza che diedero perché operavano a una distanza psicologica enorme dalla gente che sarebbe stata mutilata e uccisa dai sistemi d'arma che sarebbero risultati dalle idee comunicate da loro ai propri patrocinatori» (19).

Grazie al rapido sviluppo della nuova tecnologia informatica, che più di ogni altra tecnologia del passato è riuscita a cancellare l'umanità dei propri referenti umani («Le persone, le cose, gli avvenimenti vengono 'programmati', si parla di 'input' e 'output', di cicli di retroazione, di variabili, parametri, processi e così via, finché ci si astrae completamente da qualsiasi contatto con le situazioni concrete. Allora restano soltanto grafici, insiemi di dati, stampati del calcolatore») (20), la distanza psicologica di cui sopra cresce ad un ritmo inarrestabile e senza precedenti. Allo stesso modo cresce anche l'autonomia del progresso puramente tecnologico da qualsiasi scopo umano consapevolmente scelto e discorsivamente concordato. Oggi più che mai i mezzi tecnologici disponibili condizionano le proprie stesse applicazioni e subordinano la valutazione di queste ultime ai propri criteri di efficienza e di efficacia. Analogamente, il valore del giudizio politico e morale dell'azione è stato ridotto a una considerazione di poca importanza, se non addirittura screditato e reso irrilevante. L'azione non richiede quasi nessun'altra giustificazione oltre al riconoscimento del fatto che è resa praticabile dalla tecnologia disponibile. Jacques Ellul ha avvertito che la tecnologia, essendosi liberata dai vincoli degli scopi sociali discorsivamente definiti,

"non avanza mai in direzione di qualcosa se non 'perché' viene spinta da dietro. I tecnici non conoscono il motivo per cui lavorano, e generalmente non se ne preoccupano. Essi lavorano 'perché' dispongono degli strumenti che consentono loro di eseguire un certo compito, di portare a compimento con successo una nuova operazione... Non c'è alcuna aspirazione ad uno scopo: c'è la spinta di un motore collocato alle proprie spalle e che non ammette nessuna sosta della macchina" (21).

Una volta che al calcolo dell'efficienza sia stato attribuito il valore supremo nella decisione degli scopi politici, appare minore la speranza di poter fare affidamento sulle garanzie civili contro la disumanità per controllare l'applicazione di quel potenziale umano che si esprime in termini di ragione strumentale.

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NOTE AL CAPITOLO QUARTO.

(1). R. Hilberg, "Significance of the Holocaust", in "The Holocaust: Ideology, Bureaucracy, and Genocide", a cura di H. Friedlander e S. Milton, Milwood, N.Y., Kraus International Publications, 1980, p.p. 101-2.

(2). Confer C. Legum, in «The Observer», 12 ottobre 1966.

(3). H.L. Feingold, "How Unique is the Holocaust?", in "Genocide: Critical Issues of the Holocaust", a cura di A. Grobman e D. Landes, Los Angeles, Ibe Simon Wiesenthal Centre, 1983, p. 397.

(4). Ibidem, p. 4 0 l.

(5). L. Kuper, "Genocide: Its Political Use in the Twentieth Century" , New Haven, Yale University Press, 1981, p.p. 137, 161. Le opinioni di Kuper hanno trovato la più sinistra delle conferme nelle parole dell'ambasciatore iracheno a Londra. Intervistato da Channel 4 il 2 settembre 1988 a proposito del perdurante genocidio dei curdi iracheni, l'ambasciatore rispose indignato alle accuse dicendo che i curdi, la loro integrità e il loro destino erano un affare interno iracheno e che nessuno aveva il diritto di interferire con le azioni intraprese da uno stato sovrano all'interno dei propri confini.

(6). G.A. Kren e L. Rappoport, "The Holocaust and the Crisis of Human Bebaviour", New York, Holmes & Meier, 1980, p.p. 130, 143.

(7). J.P. Sabini e M. Silver, "Destroying the Innocent with a Clear Conscience: A Sociopsychology of the Holocaust", in"Survivors, Victims, and Perpetrators", a cura di J.E. Dinsdale, Washington, Emisphere Publishing Corporation, 1980, p.p. 329-30.

(8). S. Gordon, "HitIer, Germans, and the «Jewish Question»" ;, Princeton, Princeton University Press, 1984, p.p. 48-9.

(9). G.A. Kren e L. Rappoport, "The Holocaust and the Crisis of Human Behavior", cit., p. 140.

(10). Vedi in particolare i suoi "Contemporary Critique of Historical Materialism", London, Macmillan, 1981, e "The Constitution of Society", Cambridge, Polity Press, 1984, trad. it. "La costituzione della società", Milano, Comunità, 1990.

(11). J. Weizenbaum, "Computer Power and Human Reason: From Judgment to Calculation", San Francisco, W.H. Freeman, 1976, trad. it. "Il potere del computer e la ragione umana. I limiti dell'intelligenza artificiale", Torino, Gruppo Abele, 1987, p. 226.

(12). G.A. Kren e L. Rappoport, "The Holocaust and the Crisis of Human Behavior", cit., p. 141.

(13). P. Marsh, "Aggro: The Illusion of Violence", London, J.M. Dent & Son, 1978, p. 120.

(14). N. Elias, "Über den Prozess der Zivilisation. II. Wandlungen der Gesellschaft. Entwurf zu einer Theorie der Zivilisation", Frankfurt, Suhrkamp, l980, trad. it. "Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione", II, Bologna, E Mulino, 19 83, p. 311.

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(15). R. Proctor, "Racial Hygiene: Medicine under the Nazis", Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1988, p.p. 46.

(16). Ibidem, p.p. 315-24.

(17). R.W. Darré, "Marriage Laws and the Principles of Breeding, in Nazi Ideology before 1933: A Documentation", trad. ingl., Manchester, Manchester University Press, 1978, p. 115.

(18). J. Weizenbaum, "Il potere del computer e la ragione umana", cit., p. 230.

(19). Ibidem, p.p. 244-5.

(20). Ibidem, p. 227.

(21). J. Ellul, "Technological System", trad. ingl., New York, Continuum, 1980, p.p. 272-3.

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5. LA SOLLECITAZIONE DELLA COOPERAZIONE DELLE VITTIME.

"È l''interazione' tra persecutori e vittime che costituisce il «destino»".Raul Hilberg.

L'impressionante giudizio di Hannah Arendt - secondo il quale, se non fosse stato per l'opera dei collaboratori ebrei e per lo zelo degli "Judenräte" (i consigli ebraici), il numero delle vittime sarebbe stato considerevolmente minore - sembrerebbe essere smentito da un esame più attento. Il crudo verdetto della Arendt può difficilmente reggere di fronte al fatto che, nonostante l'ampia gamma di atteggiamenti assunti dai leader delle comunità perseguitate - dal suicidio di Cherniakov all'attiva e consapevole cooperazione con i nazisti da parte di Rumkowski e Gens, fino al caso di Bialystok, che vide l'appoggio semiufficiale dello "Judenrat" alla resistenza armata -, l'esito finale fu in buona misura lo stesso: lo sterminio pressoché totale delle comunità e dei loro leader. Si potrebbe anche far notare che circa un terzo di tutti gli ebrei assassinati dai nazisti fu ucciso senza nessun contributo diretto o indiretto dei consigli e dei comitati ebraici (la guerra contro la Russia fu ufficialmente dichiarata da Hitler guerra di sterminio e le famose "Einsatztruppen" che seguirono la "Wehrmacht" nella sua iniziale marcia vittoriosa attraverso il territorio sovietico non si preoccuparono di creare ghetti o di eleggere "Judenräte"). Nello spettro di opinioni sul ruolo della cooperazione ebraica nella strage degli ebrei europei il punto di vista espresso da Isaiah Trunk a conclusione della più accurata e comprensiva analisi mai condotta sui documenti relativi agli "Judenräte" occupa il polo opposto a quello della Arendt. Secondo tale punto di vista, «la partecipazione o la non partecipazione ebraica alle deportazioni non ebbe nessuna sostanziale influenza - in un senso o nell'altro - sull'esito finale dell'Olocausto in Europa orientale». Per sostenere questa sua conclusione Trunk fa riferimento ai numerosi casi in cui il rifiuto di alcuni "Judenräte" di obbedire agli ordini delle S.S. condusse alla loro sostituzione con persone più docili o anche allo scavalcamento della mediazione ebraica da parte delle S.S., le quali eseguirono esse stesse la «selezione» (anche se nella maggior parte dei casi con l'aiuto della polizia ebraica). È certo, però, che i casi "individuali" di disobbedienza restarono inefficaci proprio perché in numerosi altri casi i nazisti "poterono" contare sulla cooperazione ebraica e quindi sulla possibilità di eseguire le operazioni omicide utilizzando soltanto marginalmente le proprie forze. È impossibile sapere quanto più efficace sarebbe stata la disobbedienza se fosse stata generalizzata.

Appare comunque probabile che, se la cooperazione non vi fosse stata, o almeno non su scala così ampia, le complesse operazioni dell'omicidio di massa avrebbero posto agli amministratori tedeschi problemi gestionali, tecnici e finanziari di ben altre dimensioni. Come si è accennato nel primo capitolo, i leader delle comunità condannate eseguirono gran parte del lavoro burocratico preliminare che l'impresa richiedeva (fornendo ai nazisti i dati necessari e curando la documentazione relativa alle potenziali vittime), diressero le attività produttive e distributive indispensabili per tenere in vita le vittime finché non furono pronte le camere a gas destinate a riceverle, svolsero le attività di polizia riguardanti la popolazione segregata così che il mantenimento dell'ordine e della legge non gravò sulle risorse dei persecutori, assicurarono il regolare svolgimento del processo di sterminio designando le vittime delle sue progressive fasi, si incaricarono di trasportare le vittime designate in luoghi da cui potessero essere prelevate con il minimo sforzo, e misero a disposizione le risorse finanziarie per pagare il loro ultimo viaggio. "Senza" queste diverse e sostanziali forme di aiuto, probabilmente l'Olocausto avrebbe avuto luogo ugualmente, ma sarebbe passato alla storia come un episodio diverso e forse meno spaventoso: semplicemente come un altro dei molti casi di coercizione e violenza di massa esercitate su una

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popolazione disarmata da conquistatori assetati di sangue e guidati dal desiderio di vendetta o dall'odio collettivo. "Con" tutte queste forme di aiuto, d'altra parte, l'Olocausto rappresenta per gli storici e i sociologi un problema completamente nuovo. Esso costituisce una sorta di finestra attraverso cui è possibile cogliere un'immagine dei processi scaturiti dal modello specificamente moderno di azione razionale, ovvero un'immagine della nuova portata e dei nuovi orizzonti del potere moderno, resi possibili una volta che tali processi furono messi al servizio degli obiettivi di quel potere. Il quadro di riferimento adeguato all'analisi degli aspetti terrificanti dell'Olocausto sembra fornito dal «normale» esercizio del potere all'interno della società moderna, piuttosto che dalla storia - grondante di sangue - della violenza votata al genocidio.

In effetti, la routine del genocidio esclude, nel suo complesso, quella cooperazione delle vittime che fu così rilevante nel corso dell'Olocausto. Il «comune» genocidio si propone raramente lo scopo della totale distruzione di un gruppo; il fine della violenza (qualora questa sia dotata di un fine e sia pianificata) è quello di distruggere la categoria designata (una nazione, una tribù, una setta religiosa) in quanto comunità vitale capace di autoperpetuarsi e di difendere la propria identità. In questo caso lo scopo del genocidio può considerarsi raggiunto quando 1) il livello della violenza è stato tale da minare la volontà e la resistenza di coloro che l'hanno subita, e da spingerli col terrore ad arrendersi a un potere superiore e ad accettare l'ordine da esso imposto; e 2) il gruppo designato è stato privato delle risorse necessarie alla continuazione della lotta. Quando queste due condizioni risultano soddisfatte, le vittime sono alla mercé dei loro persecutori. Esse possono essere condannate a una lunga schiavitù o può essere offerto loro un posto nel nuovo ordine alle condizioni stabilite dai vincitori, ma la scelta tra le diverse possibilità è ; affidata esclusivamente al capriccio dei dominatori. Quale che sia l'opzione prescelta, coloro che commettono il genocidio ne beneficiano. Essi estendono e solidificano il proprio potere, ed estirpano le radici dell'opposizione.

Tra le risorse della resistenza che devono essere distrutte affinché la violenza sia efficace (risorse la cui distruzione, presumibilmente, è lo scopo principale del genocidio e la misura ultima della sua efficacia), il posto centrale è occupato dalle élite riconosciute della comunità condannata. L'effetto più radicale del genocidio è quello di «decapitare» il nemico. Si spera che il gruppo designato, una volta privato della propria leadership e dei propri centri di autorità, smarrisca la coesione e la capacità di proteggere la propria identità, e di conseguenza il proprio potenziale difensivo. A quel punto la struttura interna del gruppo subirà un collasso, disperdendo il gruppo stesso in una moltitudine di individui che potranno essere affrontati uno ad uno e incorporati nella nuova struttura controllata dai vincitori, o forzatamente riaggregati in una categoria sottomessa e segregata, dominata e sorvegliata direttamente dagli amministratori del nuovo ordine. Le élite riconosciute della comunità condannata rappresentano pertanto il primo obiettivo del genocidio, nella misura in cui quello finale è effettivamente costituito dalla distruzione della popolazione designata in quanto comunità, entità autonoma dotata di coesione. Secondo la visione hitleriana dell'Europa orientale come vasto "Lebensraum" destinato ad ospitare la razza tedesca, e dei suoi abitanti come futuri schiavi al servizio dei nuovi dominatori, le forze d'occupazione tedesche si incaricarono di sopprimere sistematicamente tutto ciò che restava della struttura politica e dell'autonomia culturale locale. Esse ricercarono, imprigionarono e tentarono di eliminare fisicamente tutti gli elementi attivi delle nazioni slave conquistate, e di impedire la riproduzione delle élite nazionali lasciando in vita soltanto le più elementari strutture educative e vietando tutte le iniziative culturali che non mirassero alla corruzione dell'identità locale. Nel fare ciò, tuttavia, esse rinunciarono alla possibilità che le nazioni sottomesse cooperassero al grande progetto hitleriano (se mai tale possibilità fu presa in esame), con l'eccezione, forse, dei servizi ausiliari prestati da elementi criminali marginali. Condannando alla distruzione le élite locali, i conquistatori ebbero a disposizione soltanto le proprie risorse e dovettero collocare gli sforzi delle popolazioni sottomesse tra le voci in passivo e non tra quelle in attivo.

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L'asservimento degli ebrei non fu mai uno scopo dei nazisti. Se anche l'omicidio di massa non venne preso in considerazione fin dall'inizio come obiettivo finale, ciò che i nazisti desideravano creare era una situazione di totale "Entfernung": una definitiva rimozione degli ebrei dallo spazio vitale della razza tedesca. Hitler e i suoi seguaci erano del tutto indifferenti ai servigi che gli ebrei potevano offrire, perfino nel ruolo di schiavi. Il carattere definitivo della soluzione perseguita - nella forma dell'emigrazione, dell'espulsione forzata o dell'eliminazione fisica - rese del tutto superfluo qualsiasi «trattamento speciale» delle élite ebraiche: esse furono destinate a seguire la sorte dei propri fratelli e, qualunque fosse il trattamento preparato per gli ebrei nel loro complesso, esso non lasciava spazio ad eccezioni, bensì era riservato nella stessa misura e nella stessa forma a tutti i membri della razza. Un primo effetto di questa «totalizzazione» del problema ebraico fu forse la sopravvivenza della struttura comunitaria, dell'autonomia e dell'autogoverno degli ebrei molto dopo che analoghi elementi di esistenza comunitaria erano stati attaccati frontalmente in tutti i paesi slavi occupati. Tale sopravvivenza consentì, anzitutto e principalmente, alle élite ebraiche riconosciute di conservare la propria leadership amministrativa e spirituale per tutta la durata dell'Olocausto; una leadership che, semmai, fu ulteriormente rafforzata e resa pressoché incontestabile dalla segregazione fisica degli ebrei e dall'isolamento dei ghetti.

A variare furono i metodi per affidare alle élite ebraiche un nuovo ruolo negli "Judenräte", metodi che andarono dall'insistenza nazista affinché si tenessero elezioni in alcuni dei ghetti più grandi dell'Europa orientale e nelle ben radicate comunità ebraiche dell'Europa occidentale, fino alla nomina di capi ("Präses") scelti in un gruppo di rispettati anziani radunati sulla locale piazza del mercato. Risulta comunque ampiamente accertato il fatto che i sovrintendenti nazisti dei «quartieri ebraici» erano ansiosi di sostenere e rafforzare l'autorità dei leader prescelti: per ottenere la remissività delle masse ebraiche si rendeva indispensabile il prestigio degli "Judenräte". Nel suo famoso "Schnellbrief" (messaggio urgente), inviato da Berlino il 21 settembre 1939 a tutti i comandanti tedeschi delle città polacche recentemente occupate, Heydrich sottolineava la necessità che i consigli ebraici degli anziani fossero composti «dalle personalità influenti e dai rabbini superstiti»; dopodiché elencava una lunga serie di compiti essenziali di cui i consigli dovevano esser unici responsabili e su cui dovevano dunque esercitare il controllo e l'autorità. Si può supporre che l'insistenza nazista affinché nei ghetti ogni provvedimento venisse eseguito da mani ebraiche avesse tra le proprie motivazioni perverse il desiderio di rendere ancora più visibile e convincente il potere della leadership ebraica. La popolazione ebraica fu praticamente sottratta (in Germania, gradualmente; nei territori conquistati, bruscamente) alla giurisdizione delle normali autorità amministrative, e affidata interamente e senza restrizioni ai propri leader che, da parte loro, ricevevano ordini da, e rispondevano a, istituzioni tedesche analogamente esterne alla «normale» struttura del potere. I principi giuridico-teorici della bizzarra mescolanza di autogoverno e isolamento che regnava nei ghetti furono espressi e codificati nel 1940 da Hermann Erich Seifert:

"Nei territori occupati i singoli ebrei non esistono per le autorità tedesche. In linea di principio non vi sono rapporti con i singoli ebrei... ma esclusivamente con i consigli ebraici degli anziani... Con l'aiuto di questi consigli, gli ebrei possono provvedere pienamente da soli ai propri affari interni, ivi comprese le attività delle comunità religiose, ma d'altra parte devono eseguire sotto la propria piena responsabilità i compiti e gli ordini dell'amministrazione tedesca. I membri dei consigli degli anziani, che nella maggior parte dei casi sono le persone più ricche ed illustri, sono personalmente responsabili di tutto ciò. Non c'è dubbio che questi consigli degli anziani ricordano alla lontana i Kahal di cui si serviva la politica ebraica della Russia [zarista], ma con una grossa differenza: i Kahal custodivano e difendevano i diritti degli ebrei; i consigli degli anziani recepiscono e assegnano i doveri degli ebrei... Non c'è discussione o disputa possibile in merito agli ordini impartiti dai tedeschi" (1).

Da una parte la leadership ebraica esercitava un potere formalmente illimitato sulla popolazione segregata; dall'altra essa era alla mercé di un'organizzazione criminale svincolata da qualsiasi

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controllo degli organi costituzionali dello stato. Le élite ebraiche svolgevano dunque un fondamentale ruolo di mediazione nella riduzione degli ebrei all'impotenza: del tutto atipicamente per un genocidio, la totale soggezione di una popolazione alla volontà incontrastata dei suoi carcerieri era ottenuta rafforzando, e non distruggendo, la sua struttura comunitaria e il ruolo di integrazione svolto dalle sue élite.

Paradossalmente, dunque, la situazione degli ebrei durante le fasi preliminari del processo che doveva portare alla «soluzione finale» era più simile a quella sperimentata da un gruppo all'interno di una normale struttura di potere, che non a quella delle vittime di una «comune» operazione di genocidio. Eccezionalmente, in una certa misura, "gli ebrei erano una componente dell'assetto sociale destinato a distruggerli". Essi costituivano un anello essenziale in una catena di azioni coordinate: le loro azioni medesime erano una parte indispensabile dell'operazione complessiva, e una condizione fondamentale del suo successo. Il «comune» genocidio suddivide senza ambiguità gli attori tra assassini e assassinati; per questi ultimi la resistenza rappresenta l'unica risposta razionale. Nell'Olocausto le divisioni erano meno nette. Incorporata nella struttura complessiva del potere, incaricata di un'ampia gamma di compiti e di funzioni all'interno di tale struttura, la popolazione condannata aveva apparentemente un ampio spettro di opzioni tra cui scegliere. La cooperazione con i propri nemici giurati e futuri assassini non era priva di una qualche razionalità. "Guidati nella propria azione da un intento di sopravvivenza razionalmente interpretato, gli ebrei fecero dun que il gioco dei propri oppressori, facilitarono il loro compito, avvicinarono la propria fine".

A causa di questo paradosso la vicenda dell'Olocausto offre una possibilità unica di gettare uno sguardo all'interno dei principi generali dell'oppressione burocraticamente amministrata. L'Olocausto fu, ovviamente, il caso limite di un fenomeno che di norma si manifesta in forma assai più moderata e raramente ha per scopo il totale annientamento degli oppressi. Ma, proprio per questo suo carattere estremo, l'Olocausto ha rivelato alcuni aspetti dell'oppressione burocratica che altrimenti avrebbero potuto passare inosservati. Nella loro forma generale questi aspetti hanno un'applicazione molto più ampia e devono certamente essere presi in considerazione se si vuole comprendere pienamente il modo di operare del potere nella società moderna. Tra essi ha un ruolo estremamente rilevante "la capacità del potere moderno, razionale, burocraticamente organizzato, di promuovere azioni che sono funzionalmente indispensabili ai propri scopi, sebbene si trovino in stridente contrasto con gli interessi vitali degli attori".

- "L'isolamento delle vittime".

La capacità del tipo appena visto non è universale; per possederla la burocrazia deve soddisfare ulteriori condizioni oltre a quelle che le sono proprie, cioè la gerarchia interna di autorità e i principi dell'azione coordinata. La burocrazia deve anzitutto pervenire a una completa specializzazione e avere il monopolio incondizionato delle funzioni specializzate da essa svolte. In parole povere ciò significa che, qualunque sia l'azione burocratica da esercitare su determinati oggetti di intervento, essa deve essere esplicitamente mirata in modo da non colpire nessun altro e da non incidere sulla situazione di altre categorie; e m modo che gli oggetti di intervento rimangano nell'ambito di competenza di quella burocrazia specializzata e di nessun'altra istituzione. Il soddisfacimento della prima condizione ha come esito l'improbabilità di qualsiasi interferenza esterna con il processo burocratico: è improbabile, cioè, che i gruppi non colpiti dall'intervento burocratico corrano in soccorso delle categorie colpite, in quanto i problemi che si pongono alle due parti non sono facilmente riducibili a un comune denominatore e suscettibili di ispirare un'azione comune integrata. Il soddisfacimento della seconda condizione, da parte sua, fa sì che la categoria colpita scopra ben presto l'inutilità o l'inefficacia di qualsiasi appello a centri di autorità e di influenza

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diversi da quelli della burocrazia sotto la cui giurisdizione essa ricade; in alcuni casi, appelli del genere possono costituire un'infrazione alle norme (che soltanto la burocrazia ha la competenza di definire), e perciò provocare conseguenze ancora più funeste del ligio adeguamento alla normativa burocratica. Insieme, le due condizioni hanno l'effetto di lasciare la categoria colpita sola con la «propria» burocrazia, come unico quadro di riferimento che consenta di prendere decisioni razionali. In altre parole, la burocrazia che conduce una politica «mirata» ed ha il diritto esclusivo di condurla è pienamente competente a fissare i parametri di comportamento delle proprie vittime, e perciò in grado di includere le stesse motivazioni razionali delle vittime tra le risorse di cui dispone per poter svolgere il proprio compito. Prima che il potere burocraticamente organizzato possa contare sulla cooperazione della categoria destinata ad essere colpita o distrutta, quest'ultima deve essere efficacemente «isolata»: o rimossa fisicamente dal contesto della vita e delle preoccupazioni quotidiane di altri gruppi, o separata psicologicamente grazie a definizioni esplicitamente e inequivocabilmente discriminanti e mediante l'accentuazione della sua unicità.

In un discorso tenuto nell'aprile del 1935 il rabbino Joachim Prinz di Berlino sintetizzò nel modo seguente l'esperienza della categoria «isolata»: «Il ghetto è il 'mondo'. Il mondo esterno è il ghetto. Il ghetto è dappertutto: sulla piazza del mercato, per le strade, nelle pubbliche osterie. Ed ha un suo segno distintivo. Questo segno è l'assenza del prossimo. Forse ciò non è mai accaduto prima al mondo e nessuno sa per quanto tempo possa essere sopportato; la vita senza prossimo...» (2). Nel 1935 le future vittime dell'Olocausto sapevano già di essere sole. Esse non potevano contare sulla solidarietà di altri. La loro sofferenza apparteneva soltanto a loro. Le altre persone, fisicamente così vicine, sul piano spirituale erano infinitamente remote, in quanto non condividevano la stessa esperienza. E l'esperienza della sofferenza è difficile da comunicare. Gli ebrei a nome dei quali parlava il rabbino Prinz sapevano che i funzionari degli uffici per la «politica ebraica» erano gli unici conduttori del gioco: essi fissavano le regole, le cambiavano a proprio piacimento e stabilivano la posta in palio. I loro interventi erano pertanto i soli fatti concreti su cui concentrarsi e in base ai quali decidere le proprie azioni. La scomparsa del mondo esterno ritagliava i confini della «situazione»: questa doveva ora essere definita soltanto nei termini del potere esercitato dai persecutori, di fronte al quale non c'era possibilità di appello. «La rimozione fisica degli ebrei passò inosservata, poiché i tedeschi li avevano già da tempo rimossi dal proprio cuore e dalla propria mente» (3). Prima di tutto veniva l'isolamento spirituale, che fu ottenuto attraverso una serie di mezzi diversi.

Il mezzo più ovvio fu quello di appellarsi direttamente all'antisemitismo popolare e di fomentare i sentimenti antisemiti della popolazione, fino a quel momento indifferente o inconsapevole dell'esistenza di uno specifico «problema ebraico». Ed è ciò che fece le propaganda nazista, abilmente, e senza risparmio di mezzi e di sforzi. Gli ebrei furono accusati di crimini odiosi, di intenzioni delittuose e di ripugnanti vizi ereditari. In particolare, assecondando l'attenzione per l'igiene da parte della civiltà moderna, furono alimentate le paure e le fobie generalmente suscitate dai parassiti e dai batteri, e fu chiamata in causa l'ossessione dell'uomo moderno per la salute e la pulizia. L'ebraismo fu rappresentato come una malattia contagiosa; i suoi portatori come una specie di bacilli del tifo. I rapporti con gli ebrei erano gravidi di rischi. I meccanismi socio-psicologici usati per produrre la reazione di repulsione e disgusto di fronte, poniamo, alla vista della carne cruda o all'odore dell'urina umana - meccanismi tanto convincentemente descritti da Norbert Elias nella sua analisi del processo di civilizzazione - furono utilizzati per rendere la presenza stessa degli ebrei nauseante e repellente.

C'erano tuttavia dei limiti all'efficacia della propaganda antisemita. Molti si dimostrarono immuni alla predicazione dell'odio o, più generalmente, all'interpretazione irrazionale del mondo che la propaganda chiedeva di accettare. Molti altri, pur reagendo con deboli proteste alla definizione ufficiale dell'ebraismo, si rifiutarono di applicarla ai singoli ebrei da essi conosciuti. Se la propaganda antisemita fosse stata l'unico mezzo per «isolare» gli ebrei dalla vita comunitaria, essa

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sarebbe probabilmente andata incontro a un insuccesso, provocando nel migliore dei casi la spaccatura della popolazione in due campi: gli antisemiti fanatici e la massa - magari meno bene integrata e organizzata, ma tuttavia ragionevolmente efficace - dei non collaboratori e dei difensori attivi delle «vittime innocenti». La propaganda non sarebbe certamente bastata a rimuovere gli ebrei «dal cuore e dalla mente» dei tedeschi in modo talmente drastico da rendere incontrastata e senza conseguenze la successiva eliminazione fisica delle vittime.

Ma l'impatto della propaganda fu sostenuto e considerevolmente rafforzato dall'attenzione con cui ogni misura antiebraica fu rigorosamente circoscritta al proprio obiettivo, così che ogni intervento successivo, anche se inefficace in rapporto al proprio scopo dichiarato, approfondiva il solco tra gli ebrei e il resto della popolazione, sottolineando il seguente messaggio: per quanto atroci siano le cose che accadono agli ebrei, esse non hanno assolutamente nessuna influenza negativa sulle condizioni di vita di tutti gli altri, e pertanto riguardano soltanto gli ebrei. Oggi sappiamo, grazie all'accuratezza della ricerca storica, quanti sforzi del vertice burocratico nazista e degli esperti da esso assunti furono dedicati all'esatta definizione degli ebrei. Apparentemente si tratta di una sottigliezza giuridica, che sembra ridicolmente fuori posto sullo sfondo di una violenza brutale e senza scrupoli. In realtà, la ricerca di una definizione giuridicamente perfetta era più che una sopravvivenza di quella "Jurisprudenzkultur" di cui i nazisti non potevano completamente liberarsi, o un omaggio reso alla non ancora del tutto dimenticata tradizione del "Rechtsstaat". Una precisa definizione degli ebrei era necessaria per assicurare ai testimoni della persecuzione che quanto essi vedevano o sospettavano non sarebbe accaduto anche a loro, e perciò che i loro interessi non erano minacciati. Per ottenere questo risultato bisognava disporre di una definizione che consentisse di decidere esattamente chi era ebreo e chi non lo era, e di eliminare tutti i possibili casi incerti, intermedi, misti ed equivoci, suscettibili di interpretazioni controverse. Per quanto fossero assurde nella loro sostanza e nella loro pretesa validità funzionale, le famose Leggi di Norimberga servirono magnificamente allo scopo suddetto (4). Esse non lasciarono alcuno spazio alla sopravvivenza di una qualche «terra di nessuno» tra gli ebrei e i non ebrei, creando così una categoria di persone marchiate a fuoco in vista di un «trattamento speciale» ("Sonderbehandlung") e, infine, dello sterminio. Nello stesso tempo, però, crearono anche una categoria molto più ampia di sicuri e irreprensibili cittadini del Reich, i tedeschi di sangue puro. Il medesimo obiettivo fu perseguito, con diverse gradazioni di successo, contrassegnando i negozi ebraici (e con ciò sottolineando la proprietà e la sicurezza di quelli non contrassegnati), o costringendo gli ebrei rimasti in Germania ad ornare i propri vestiti di un distintivo giallo. Di fatto, «per quanto possa apparire singolare, la questione ebraica costituiva soltanto un motivo di interesse minimo per la grande maggioranza dei tedeschi». Quando A Reich si mosse verso est e venne il momento dell'"Aussiedlung", la maggior parte delle persone «probabilmente non pensò molto a ciò che succedeva agli ebrei nell'Europa orientale, e tanto meno fece domande in proposito. Gli ebrei erano esclusi dalla vista e dai pensieri dei più... La strada verso Auschwitz fu costruita dall'odio, ma lastricata con l'indifferenza»

Il processo di separazione fu accompagnato dall'assordante silenzio di tutte le élite consolidate e organizzate della società tedesca, di tutti coloro che teoricamente potevano levare e far udire la propria voce contro l'incombente disastro. Si può supporre che la ragione di ciò fosse in parte da attribuire alla vasta simpatia per il grande progetto dell'"Entfernung" di una popolazione e di una cultura considerate per varie ragioni come estranee e indesiderabili. Ciò non esauriva, tuttavia, il complesso delle motivazioni, e forse non ne costituiva neppure la parte più decisiva. L'ascesa al potere dei nazisti non modificò le regole della condotta professionale: essa rimase fedele, come lo era stata fin dall'inizio dell'era moderna, al principio della neutralità morale della ragione e della ricerca della razionalità, che non tollera nessun compromesso con fattori estranei al successo tecnico dell'impresa. Le università tedesche, come quelle di altri paesi moderni, coltivavano con cura l'idea di una scienza come attività interamente libera da valori; esse attribuivano ai propri discepoli il diritto e il dovere di servire gli «interessi della conoscenza» e di mettere da parte altri interessi con cui il buon andamento delle attività scientifiche potesse entrare in contrasto. Alla luce

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di questa considerazione, il silenzio delle istituzioni scientifiche tedesche e persino la loro entusiastica cooperazione alla re alizzazioni degli obiettivi nazisti perdono gran parte del proprio impatto scioccante. Lo studioso americano Franklin H. Littell insiste sul fatto che, quanto più quel silenzio e quella cooperazione vengono accolti senza sorpresa, tanto più sono (o almeno dovrebbero essere) preoccupanti:

"La crisi di credibilità dell'università moderna nasce dal fatto che i campi di sterminio non furono pianificati e costruiti, né i loro progetti operativi tracciati, da analfabeti, da selvaggi ignoranti che non avevano mai frequentato una scuola. I centri di morte furono, come i loro inventori, il prodotto di quello che per generazioni era stato uno dei migliori sistemi universitari del mondo...I nostri laureati lavorano, senza vivere nessun serio conflitto interno, per il Cile socialdemocratico o per quello fascista, per la giunta o per la repubblica greca, per la Spagna di Franco o per quella repubblicana, per la Russia, per la Cina, per i kuwaitiani o per gli israeliani, per l'America, l'Inghilterra, l'Indonesia o il Pakistan... Ciò sintetizza, anche se sgradevolmente, il ruolo storico dei tecnici specializzati, individui che sono stati «educati» nell'indifferenza morale, etica e religiosa dell'università moderna".

Littell denuncia poi i molti anni durante i quali era più facile, nel suo paese, discutere l'abuso e il cattivo uso della scienza da parte dei nazisti che non i servizi offerti dalle università americane «alla Dow Chemical, alla Honeywell, alla Boeing... o alla I.T.T. nella restaurazione del fascismo in Cile» (6).

Ciò che veramente importava per le élite scientifiche (e, più in generale, intellettuali) tedesche, e per i loro migliori e più illustri rappresentanti, era la difesa della propria integrità ; di studiosi e portavoce della Ragione. Tale compito non comprendeva (anzi, escludeva in caso di conflitto) la preoccupazione per il significato etico delle attività svolte. Come ha rivelato Alan Beyrchen, nella primavera e nell'estate del 1933 i luminari della scienza tedesca - uomini come Planck, Sommerfeld, Heisenberg o von Laue - «raccomandarono la pazienza e l'astensione dall'interferenza con l'attività del governo, specie in fatto di espulsione e di emigrazione. L'obiettivo principale era quello di preservare l'autonomia professionale della propria disciplina, evitando il confronto e aspettando il momento in cui la vita e le procedure avrebbero assunto di nuovo un andamento ordinato» (7). Tutti costoro intendevano difendere e salvare ciò che per essi contava maggiormente: cosa che fecero con successo, mostrandosi disponibili a dimenticare ciò che ai loro occhi contava meno. Mostrare tale disponibilità fu facile, poiché l'«andamento ordinato» assunto di nuovo dalla vita dopo le stravaganze della luna di miele nazista non era molto diverso da quello a cui questi professori erano abituati e attribuivano un grande valore. (L'unica differenza stava nel fatto che alcuni dei loro colleghi mancavano all'appello e che c'era un nuovo tipo di saluto da fare quando si entrava in una classe piena di studenti disciplinati.) I loro servizi professionali erano molto richiesti e apprezzati, i fondi per progetti ambiziosi e scientificamente stimolanti erano disponibili, e nessun prezzo da pagare in cambio sembrava troppo alto. Heisenberg si recò da Himmler per ricevere assicurazioni sul fatto che a lui e ai suoi colleghi (con l'eccezione di coloro che nel frattempo erano scomparsi) sarebbe stato consentito di fare ciò che essi desideravano e tenevano nella più alta considerazione. Himmler gli consigliò una netta distinzione tra il lavoro scientifico e la condotta politica dei fisici. Questo consiglio deve essere suonato come musica alle orecchie di Heisenberg: non era forse ciò a cui era stato educato da sempre? Egli «si astenne dunque da ogni critica, promuovendo attivamente la causa nazista, specialmente all'estero, e dirigendo diligentemente, durante le ostilità, uno dei due gruppi di lavoro impegnati nella progettazione di ordigni atomici, certamente stimolato - da quell'irriducibile animale scientifico che era - dal desiderio di 'vederÈ e arrivare al risultato» (8).

«La storia della distruzione dello spirito in un paese è sempre la storia della sua autodistruzione», ha scritto Joachim C. Fest, «e, se si richiede una resistenza, un "savoir resister", questo dev'essere

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soprattutto esercitato verso la tentazione di suicidarsi» (9). Gli intellettuali tedeschi, trasformatisi da vittime in cortigiani del modello nazista di «andamento ordinato» della vita, trovarono, per così ; dire, poche ragioni di suicidio e molte di volontaria, talvolta entusiastica, resa.

Un aspetto peculiare di questa resa è la difficoltà di stabilire dove essa comincia e la quasi impossibilità di prevedere dove è probabile che finisca. Durante il pogrom della "Kristallnacht" la moglie dell'illustre orientalista professor Khale fu trovata ad aiutare una sua amica ebrea a risistemare il proprio negozio distrutto; suo marito fu sottoposto a un boicottaggio e ad altri amichevoli trattamenti che lo costrinsero a dimettersi.

"I mesi successivi furono un periodo di quarantena durante il quale tre persone complessivamente, di tutta la cerchia sociale e professionale dello studioso, gli fecero visita col favore delle tenebre. Egli ricevette una sola altra comunicazione dal mondo esterno: una lettera da un gruppo di colleghi che esprimevano il proprio rammarico per il fatto che egli avesse perso il diritto a un onorevole congedo dall'università in seguito alla mancanza di buon senso della moglie" (10).

Un altro aspetto peculiare della resa degli intellettuali è dato dal fatto che, per quanto penosa possa essere all'inizio, essa tende a passare dalla vergogna all'orgoglio. Coloro che si arrendono diventano complici del crimine e affrontano in modo appropriato la dissonanza cognitiva generata da tale complicità. Individui che avevano accolto con sdegno e disgusto le insensatezze antisemite della propaganda nazista ed erano rimasti silenziosi «soltanto per salvaguardare i valori più alti», si ritrovarono pochi anni più tardi a gioire per la sacralità immacolata delle università e la purezza della scienza tedesca. Il loro antisemitismo razionale

"si rafforzò via via che la persecuzione degli ebrei degenerava. La spiegazione di ciò è semplice, anche se deprimente: quando gli uomini sanno, anche soltanto a metà, che viene commessa una grande ingiustizia, e non hanno la generosità e il coraggio di protestare, automaticamente gettano la colpa sulle vittime, ricorrendo così al più elementare dei mezzi per alleggerire la propria coscienza" (11).

In un modo o nell'altro la solitudine degli ebrei in Germania divenne completa. Ora essi vivevano in un mondo privo del prossimo. Ai fini del loro destino, era come se tutti gli altri tedeschi non esistessero affatto. L'unico altro soggetto presente nel mondo degli ebrei era il potere nazista. In qualunque modo essi definissero la propria situazione, quest'ultima si riduceva ad un solo fattore: le azioni che i loro persecutori nazisti ritenevano utile intraprendere. In quanto esseri razionali, gli ebrei dovevano adattare la propria condotta alle prevedibili risposte dei nazisti. In quanto esseri razionali, dovevano presumere l'esistenza di un legame logico tra azione e reazione, e quindi di azioni più ragionevoli e consigliabili di altre. In quanto esseri razionali, dovevano affidarsi agli stessi principi di comportamento promossi dalla burocrazia che li teneva prigionieri: l'efficienza, la massimizzazione del vantaggio, la riduzione dei costi. Avendo l'incontestato controllo delle regole e della posta in gioco, i nazisti potevano sfruttare questa razionalità degli ebrei come risorsa nel perseguimento dei propri fini. Essi potevano manovrare le regole e gli interessi in campo in modo che ogni mossa razionale aumentasse l'impotenza delle future vittime e le avvicinasse di qualche passo all'annientamento finale.

- "Il gioco del «salvare il possibile»".

Il gioco a cui gli ebrei furono costretti dai nazisti aveva come posta la sopravvivenza o la morte; la razionalità del loro comportamento, dunque, poteva mirare soltanto - e su questa base essere misurata - ad accrescere le probabilità di sfuggire allo sterminio o di limitarne le dimensioni.

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L'intero mondo dei valori era ridotto ad una sola preoccupazione (o quantomeno era offuscato da essa): restare vivi. Oggi questo risulta chiaro, ma non necessariamente lo era altrettanto in quel momento agli occhi delle vittime, e certamente non nelle fasi iniziali del «tortuoso percorso verso Auschwitz». Sappiamo già che gli stessi nazisti, compresi i loro capi, non iniziarono la guerra contro gli ebrei con un'idea chiara del suo esito finale; essa iniziò con il modesto obiettivo dell'" Entfernung", cioè della separazione degli ebrei dalla razza tedesca, così da rendere la Germania, nel lungo periodo, "judenrein"; fu nel corso e sotto l'influenza del perseguimento burocratico di quello scopo che, in una fase posteriore, la distruzione fisica degli ebrei divenne una «soluzione» nello stesso tempo «razionale» e tecnologicamente praticabile. Ma anche quando Hitler prese la fatale decisione di assassinare gli ebrei russi, spalancando così agli zelanti «esperti del problema ebraico» nuovi orizzonti ed opzioni precedentemente trascurate, il mantenimento del segreto sulla natura della «soluzione finale» rimase una parte integrante ed essenziale del progetto nazista. La deportazione delle vittime verso le camere a gas veniva chiamata «trasferimento» e la natura dei campi di sterminio si dissolveva nell'idea vaga dell'«Est». Quando i rappresentanti dei ghetti si rivolgevano ai comandanti delle S.S. per sapere se le persistenti voci sull'incombere delle uccisioni erano vere, i tedeschi negavano recisamente la verità. Il segreto fu mantenuto letteralmente fino all'ultimo momento. Rivelare ai nuovi arrivati scesi dai carri bestiame che gli edifici visibili in lontananza non erano bagni comuni costituiva un'infrazione per cui gli ebrei dei "Sonderkommandos" addetti alle camere a gas e ai crematori venivano puniti con la morte immediata. La ragione di ciò, ovviamente, non era quella di risparmiare alle vittime l'angoscia dell'attesa, bensì quella di far sì che entrassero nelle camere a gas volontariamente e senza opporre resistenza.

In tutte le fasi dell'Olocausto, pertanto, le vittime erano "poste di fronte ad una scelta" (almeno soggettivamente, poiché oggettivamente la scelta non esisteva più, essendo stata cancellata dalla decisone segreta della distruzione fisica). Esse non potevano scegliere tra situazioni favorevoli o sfavorevoli, ma erano almeno in grado di esercitare l'opzione tra un male maggiore e uno minore. E, quel che più importa, potevano scansare alcuni colpi invocando e rivendicando il proprio diritto a un'esenzione o a un trattamento speciale. In altre parole, esse "avevano qualcosa da salvare". Per rendere il comportamento delle loro vittime prevedibile, e perciò manipolabile e controllabile, i nazisti dovevano indurle ad agire in modo «razionale»; per ottenere questo risultato dovevano far loro credere che c'era davvero qualcosa da salvare, e che per riuscirci esistevano regole ben chiare da seguire. Affinché si convincessero di ciò, le vittime dovevano essere portate a pensare che il trattamento del gruppo nel suo complesso non sarebbe stato uniforme, che la sorte dei singoli membri sarebbe stata diversa e dipendente in ciascun caso dal merito individuale. Le vittime dovevano credere, in altre parole, che la loro condotta aveva importanza e che la loro situazione poteva essere, almeno in parte, influenzata da ciò che avrebbero fatto.

La semplice esistenza di diverse categorie, burocraticamente definite, di diritti e privazioni variabili, suscitava sforzi affannosi per ottenere una «riclassificazione», per provare che si «meritava» di essere assegnati a una categoria migliore. Questo sforzo diventava estremo nel caso dei "Mischlinge" (persone di sangue misto), una «terza razza» creata dalla legislazione tedesca e collocata in una posizione assai scomoda tra gli ebrei «veri e propri», privati di qualsiasi diritto, e i membri a pieno titolo del popolo tedesco. «A causa di queste discriminazioni, venivano esercite pressioni su colleghi, superiori, amici e parenti per ottenere un trattamento speciale. Di conseguenza, nel 1935 fu istituita una procedure per la riclassificazione dei "Mischlinge" in una categoria superiore. Questa procedura divenne nota come " Befreiung" (liberazione)». La consapevolezza del fatto che gli sforzi non erano necessariamente vani, che ci si poteva appellare con successo contro il verdetto del sangue e annullarlo, aggiunse ulteriore zelo alle pressioni esercitate. Era possibile - e molti vi riuscirono - ottenere una "echte" («effettiva») liberazione dimostrando i propri meriti (la corte suprema tedesca stabili che «la condotta non era sufficiente; era decisivo l'atteggiamento rivelato dalla condotta»). Si poteva persino - così avvenne al consigliere

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ministeriale (e "Mischling") Killy, un uomo che contribuì in modo particolare alla distruzione degli ebrei - ricevere il certificato di "Befreiung" come regalo di Natale, consegnato da uno speciale corriere direttamente sotto l'albero (12).

L'aspetto diabolico di questa situazione era dato dal fatto che le credenze e le convinzioni da essa autorizzate, e le azioni da essa incoraggiate, offrivano legittimazione al grande progetto nazista e lo rendevano accettabile ai più, ivi comprese le vittime. Lottando per piccoli privilegi, per qualche esenzione o semplicemente per la sospensione della condanna che il disegno complessivo di distruzione prevedeva, le vittime e coloro che cercavano di aiutarle accettavano tacitamente i presupposti di quel disegno. Sostenendo, ad esempio, che questa o quella persona aveva diritto ad essere esentata dal divieto di esercitare una certa professione in virtù dei suoi passati meriti, si ammetteva in pratica che, in assenza di tali meriti speciali, quel divieto era incontestabile.

"L'accettazione delle categorie privilegiate fu così disastrosa perché chi chiedeva di costituire un'«eccezione» implicitamente riconosceva la regola; ma a quanto pare questo fatto non fu mai afferrato da quelle «brave persone» - ebrei e gentili - che si davano da fare per raccomandare ai nazisti i «casi speciali», gli individui che potevano avere diritto a un trattamento preferenziale... Anche dopo la fine della guerra, Kastner [un leader ebreo ungherese che trattò con i nazisti affinché alcuni dei suoi protetti non fossero inviati nei campi di sterminio] continuò a vantarsi di essere riuscito a salvare degli «ebrei illustri», una categoria definita ufficialmente dai nazisti nel 1942, come se anche per lui un ebreo famoso avesse maggiormente diritto di un ebreo comune a restare in vita" (13).

Le opportunità di confermare la regola attraverso la battaglia per le eccezioni (con il risultato finale di rafforzare la regola stessa utilizzandola come diritto alla ricerca di privilegi individuali) furono molteplici e diverse. Esse vennero offerte, anche se in forme mutevoli, in tutte le fasi dell'Olocausto. Nel caso degli ebrei tedeschi tali opportunità furono particolarmente numerose ed elaborate. Gli ebrei che avevano combattuto al fianco dei tedeschi nella Grande guerra, che erano stati feriti in battaglia, che erano stati decorati al valor militare furono fatti rientrare in una categoria particolare e per un lungo periodo di tempo esentati dalla maggior parte delle restrizioni applicate nei confronti dei loro fratelli meno meritevoli. Questo atteggiamento di benevolenza distolse l'attenzione dalla norma molto più generale di cui costituiva un'eccezione. Tutti quelli che nella normativa esistente vedevano una possibilità personale di salvarsi potevano rivendicare i benefici previsti solo accettando simultaneamente il presupposto che era alla base sia della norma generale, sia delle eccezioni: presupposto secondo il quale gli ebrei «comuni», gli ebrei «in quanto tali», non godevano dei normali diritti garantiti dal possesso della cittadinanza tedesca. La normativa in questione scatenò un diluvio di petizioni abilmente argomentate, lettere di raccomandazione, interventi in favore di personalità illustri, amici o soci d'affari, nonché una frenetica ric erca di documenti e testimoni: tutto ciò contribuì in misura non indifferente alla tranquilla accettazione della nuova situazione creata dalla legislazione antiebraica. I non ebrei onesti fecero del loro meglio per assicurare dei privilegi alle persone che conoscevano, apprezzavano o rispettavano, sottolineando nelle loro lettere alle autorità il fatto che "quelle particolari persone" non meritavano un trattamento severo in virtù dei servigi "unici" da esse resi alla nazione tedesca. Il clero si occupò di difendere gli ebrei "convertiti", i cristiani di origine ebraica. Intanto, il principio secondo cui era necessario essere un "tipo particolare" di ebreo per opporsi alla discriminazione e alla persecuzione era stato tacitamente accettato, o comunque in qualche modo accolto.

Nel complesso, non mancarono gli individui e i gruppi che abbracciarono con entusiasmo l'idea di una loro qualità esclusiva e di un loro diritto ad un trattamento più benevolo. Uno degli esempi più significativi in tal senso è quello offerto dalla nota e generalizzata spaccatura tra gli ebrei «residenti» e quelli «immigrati» nei paesi occupati dell'Europa occidentale: spaccatura che aveva il suo precedente nella lunga inimicizia delle comunità ebraiche di quest'area - ben radicate e

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parzialmente assimilate - verso i loro fratelli dell'Europa orientale, rozzi, ignoranti e di lingua yiddish, nella cui fastidiosa invadenza esse vedevano una minaccia alla propria rispettabilità duramente conquistata. (Le antiche e ricche famiglie ebraiche della Gran Bretagna avrebbero volentieri pagato il biglietto di ritorno alla moltitudine degli ebrei poveri e analfabeti che fuggivano dai pogrom russi a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo; in Germania gli ebrei di antico ceppo, «più tedeschi dei tedeschi... speravano di sottrarsi all'avversione... dirottandola sui loro fratelli immigranti, poveri e non ancora assimilati») (14). La lunga tradizione a cui si ispirava l'atteggiamento di sprezzante superiorità verso gli ebrei degli "shtetl" imp edì ai leader delle comunità ebraiche occidentali di vedere nel destino degli ebrei orientali il modello del proprio medesimo futuro, come se nessuna sorte comune, e perciò nessuna strategia di solidarietà, potesse plausibilmente scaturire da storie e culture tanto diverse fra loro. Quando la notizia delle uccisioni di massa in Polonia era già stata trasmessa in tutta l'Olanda dalla B.B.C., David Cohen, presidente del consiglio ebraico, negò recisamente la sua rilevanza per gli ebrei olandesi:

"Il fatto che i tedeschi avessero commesso delle atrocità contro gli ebrei polacchi non offriva motivo di pensare che si sarebbero comportati nella stessa maniera verso gli ebrei olandesi: in primo luogo perché i tedeschi avevano sempre avuto una cattiva opinione degli ebrei polacchi, in secondo luogo perché in Olanda, diversamente da quanto era avvenuto in Polonia, avrebbero dovuto tener conto dell'opinione pubblica" (15).

Questo punto di vista autoconsolatorio non era semplicemente il frutto di una concezione del mondo fantasiosa ed ingenua, gravida di potenziali conseguenze suicide per chi ne era portatore. Una visione del mondo tende sempre a determinare dei comportamenti, e la condotta delle comunità ebraiche organizzate convinte della propria superiorità ridusse notevolmente le possibilità di una reazione unitaria degli ebrei alla politica nazista, facilitando il processo di «distruzione per gradi». Pur provando compassione per gli immigrati ebrei rastrellati, imprigionati e deportati sotto i loro occhi, i rappresentanti delle consolidate comunità ebraiche occidentali invitarono i propri affiliati, in nome di «valori superiori», a mantenere la calma e a non opporre resistenza. Stando a uno studio di Jacques Adler, la strategia degli ebrei francesi, delineata già nel settembre del 1940 in risposta al trattamento differenziato annunciato dalle forze di occupazione tedesche, non lasciava alcun dubbio circa la gerarchia delle preferenze: «La prima priorità di tale strategia era quella di assicurare all'ebraismo fran cese la continuità della propria esistenza, obiettivo che non includeva gli ebrei stranieri». Si riteneva piuttosto che «gli ebrei immigranti rappresentassero un inconveniente» per la sopravvivenza degli ebrei francesi. L'establishment ebraico concordava con la risoluzione del governo di Vichy secondo cui il prezzo da pagare per proteggere gli ebrei francesi era quello di abbandonare gli immigranti nelle mani dei tedeschi: «È indubbio che l'ebraismo francese fu d'accordo con Vichy sull'indesiderabilità sociale e politica degli ebrei stranieri» (16).

Il rifiuto della solidarietà in nome dei privilegi personali o di gruppo (che comportava sempre, sebbene indirettamente, il consenso al principio in base al quale non tutti i membri della categoria perseguitata meritavano di sopravvivere, mentre dalla qualità «oggettiva» - debitamente valutata - doveva conseguire un trattamento differenziato) giocò un ruolo di rilievo non soltanto nei rapporti intercomunitari. Anche all'interno di ciascuna comunità si aspirava ad un trattamento differenziato e si lottava per esso, con gli "Judenräte" nella parte di coloro che mediavano per la sopravvivenza. Animate dalla strategia del «salvare il possibile», le future vittime cessavano di vedere, anche se temporaneamente, la terrificante realtà del loro destino imminente. Ciò offriva ai nazisti la possibilità di raggiungere il proprio scopo a costi fortemente ridotti e con uno sforzo minimo. Nelle parole di Hilberg:

"I tedeschi registrarono un notevole successo nella deportazione graduale degli ebrei, poiché coloro che ne erano momentaneamente esclusi pensavano che fosse necessario sacrificare alcuni per la salvezza di molti. Il funzionamento di questo meccanismo psicologico può essere osservato

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nella comunità ebraica viennese, la quale concluse un «accordo» con la Gestapo che prevedeva una «clausola» secondo cui sei categorie di ebrei non sarebbero state deportate. Anche gli ebrei del ghetto di Varsavia scelsero la cooperazione e scartarono la resistenza perché in questo modo i tedeschi avrebbero deportato sessantamila ebrei invece che centinaia di migliaia. Lo stesso fenomeno avvenne a Salonicco, dove la leadership ebraica collaborò con le autorità tedesche in cambio dell'assicurazione che sarebbero stati deportati soltanto gli elementi «comunisti» dei settori sociali poveri, mentre la «classe media» non sarebbe stata toccata. Questo calcolo fatale fu applicato anche a Vilnius, dove il capo del consiglio ebraico, Gens, dichiarò: «Con cento vittime posso salvare mille persone. Con mille posso salvarne diecimila» (17).

Nel contesto dell'oppressione la vita era strutturata in modo tale che, dal punto di vista dell'esistenza quotidiana, le possibilità di sopravvivenza sembravano davvero distribuite in modo ineguale; esse apparivano, inoltre, manipolabilì. Le risorse a disposizione dei singoli o dei gruppi potevano essere usate per trasformare la disuguaglianza pubblica in un vantaggio privato. Come ha suggerito Helen Fein:

"La minaccia dell'uccisione collettiva non fu prevista, perché l'organizzazione sociale dell'economia politica del ghetto creava ogni giorno una gamma differenziata di possibilità di morte. La probabilità che ciascuno aveva di sopravvivere dipendeva dalla sua collocazione nell'ordine di classe, il quale, nel suo complesso, scaturiva dalla scarsità imposta e dal terrore politico, premiando i più abili nel mettersi, direttamente o indirettamente, al servizio dei nazisti... Il sistema dei controlli rendeva inoltre difficile il riconoscimento di un nemico comune, dirottando sullo 'Judenrat' l'odio verso gli oppressori e perpetuando la convinzione che fosse in corso una guerra di tutti contro tutti, piuttosto che dei nazisti contro gli ebrei" (18).

La ricerca individuale di una strategia di sopravvivenza portò a una lotta generale per le posizioni e i ruoli ritenuti favoriti o privilegiati, e a sforzi diffusi per ingraziarsi la benevolenza degli oppressori, sempre a danno di altre vittime. L'ansia e l'aggressività che si generavano in questi tentativi venivano scaricate usando gli "Judenräte" come parafulmini; in ciascuna fase del processo di distruzione, tuttavia, gli "Judenräte" poterono contare su alcuni gruppi che, avendo beneficiato dei successivi cambiamenti di politica, erano disposti ad appoggiare gli sventurati rappresentanti della comunità, offrendo così legittimazione e autorità alle scelte fatte in quel momento. In ogni fase del processo di distruzione - esclusa quella finale - vi furono individui e gruppi desiderosi di salvare ciò che poteva essere salvato, di difendere ciò che poteva essere difeso, di esentare ciò che poteva essere esentato: e perciò - sebbene soltanto indirettamente - di cooperare.

- "La razionalità individuale al servizio della distruzione collettiva".

L'oppressione disumana di tipo nazista concede certamente poco spazio alla libertà d'azione; molte delle opzioni che gli individui sono preparati o educati a scegliere in condizioni normali diventano impraticabili o al di là della loro portata. In condizioni eccezionali la condotta è per definizione eccezionale; ma lo è nella sua forma esplicita e nelle sue conseguenze tangibili, non necessariamente nei principi e nei motivi che guidano la scelta. Nel corso del viaggio verso la distruzione finale la maggior parte delle vittime non fu, per lo più, completamente priva di scelta. E dove c'è scelta, c'è la possibilità di un comportamento razionale. In effetti, la maggior parte dei perseguitati si comportò razionalmente. Avendo il pieno controllo dei mezzi di coercizione, i nazisti fecero in modo che "la razionalità comportasse la cooperazione", che qualsiasi cosa gli ebrei facessero nel proprio interesse rendesse un po' più vicino il raggiungimento dell'obiettivo nazista.

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La nozione di cooperazione è forse troppo vaga e inclusiva. Considerare la semplice mancanza di una ribellione aperta (e l'adeguamento alla routine prestabilita) come un atto di cooperazione può essere un atteggiamento rigido e ingiusto. Tutte le responsabilità dei futuri consigli ebraici elencate da Heydrich nel suo "Schnellbrief" riguardavano i servizi che i leader ebrei erano obbligati a rendere alle autorità tedesche; Heydrich non si preoccupava di altre funzioni che gli "Judenräte" potessero ritenere utile o necessario assumere; egli, presumibilmente, contava sul fatto che tali funzioni sarebbero state assunte di propria iniziativa dai consigli, in base alla valutazione razionale dei bisogni di una comunità stipata in uno spazio ristretto e posta di fronte alla necessità di assicurare ai propri membri la convivenza e i mezzi di sopravvivenza. Se questa era l'ipotesi, essa si rivelò fondata. I consigli ebraici non avevano bisogno delle istruzioni tedesche per farsi carico delle esigenze religiose, educative, culturali e assistenziali degli ebrei. Nel fare ciò, essi accettarono già, inevitabilmente, il ruolo di gradino più basso della gerarchia amministrativa tedesca. La loro attività, che sollevò i tedeschi da tutti i problemi connessi alla vita quotidiana degli ebrei, era già una forma di cooperazione. Su questo piano, tuttavia, nonostante l'estrema oppressività del regime, il ruolo delle autorità comunitarie ebraiche non era fondamentalmente diverso da quello normalmente svolto dai leader delle minoranze oppresse nel rendere possibile la perpetuazione della repressione (e di fatto la riproduzione stessa del regime oppressivo). E non era neanche fondamentalmente diverso dalle tradizionali forme di autogoverno ebraico (particolarmente in Polonia e in alcune altre parti dell'Europa orientale) e dall'autonomia, gelosamente difesa, della "kheila".

All'inizio dell'occupazione tedesca, e prima che gli "Judenräte" divenissero ufficialmente un elemento della struttura amministrativa tedesca, gli anziani della "kheila" si assunsero spontaneamente il compito di rappresentare gli interessi ebraici nella creazione di un "modus vivendi" con le nuove autorità. Per antica abitudine, essi tentarono di utilizzare vecchi e sperimentati metodi, consistenti nello scrivere petizioni e lagnanze, cercare udienza alle proprie rimostranze, negoziare e corrompere. Essi non si opposero alla decisione tedesca di concentrare gli ebrei nei ghetti. L'isolamento dal resto della popolazione sembrava un buon sistema per proteggersi dalle vessazioni e dai pogrom. Appariva anche uno strumento efficace per accrescere la propria capacità di autogoverno e preservare il modello di vita ebraico in un contesto ostile e minaccioso. Sembrava, in altre parole, che il confinamento nei ghetti fosse funzionale, in certe circostanze, agli interessi ebraici, e che acconsentire ad esso fosse un atteggiamento razionale consigliabile a chiunque avesse a cuore tali interessi.

Nello stesso tempo, però, accettare il confinamento nei ghetti significava fare il gioco dei nazisti. Nel lungo periodo i ghetti avrebbero rivelato il loro ruolo di strumenti al servizio del concentramento, di necessario stadio preliminare sulla strada della deportazione e dello sterminio. Intanto, in ogni caso, i ghetti facevano sì che un solo ufficiale tedesco potesse esercitare un controllo completo su decine di migliaia di ebrei con l'aiuto degli ebrei stessi, che fornivano le necessarie prestazioni amministrative ed esecutive, l'infrastruttura comunitaria della vita quotidiana e gli organi responsabili del mantenimento della legge e dell'ordine. In questo senso, tutto il dispositivo dell'autogoverno ebraico era "oggettivamente" una forma di cooperazione. E col tempo l'aspetto cooperativo dell'attività degli "Judenräte" era destinato a crescere a spese di tutte le altre funzioni. Le decisioni razionali prese ieri in nome della difesa degli interessi ebraici modificarono il contesto dell'azione in modo da rendere le scelte razionali più difficili oggi e del tutto impossibili domani.

Il fondamentale studio di Isaiah Trunk sugli "Judenräte" non lascia dubbi circa l'affannosa e disperata lotta dei consigli ebraici per trovare una soluzione razionale a problemi sempre più complessi e drammatici. Non fu colpa loro se - di fronte al potere schiacciante dei tedeschi e alla totale eliminazione di ogni inibizione morale della macchina burocratica impegnata nella guerra antiebraica - non esisteva, nella gamma delle opzioni possibili, una soluzione che non fosse

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funzionale agli obiettivi nazisti. La macchina burocratica tedesca era al servizio di uno scopo incomprensibile nella sua irrazionalità. Tale scopo consisteva nell'annientamento degli ebrei, tutti gli ebrei: vecchi e giovani, fisicamente integri e invalidi, economicamente inutilizzabili e potenzialmente produttivi. Essi non avevano pertanto nessuna possibilità di ingraziarsi la burocrazia tedesca incaricata della loro distruzione, di rendersi utili, in qualche modo desiderabili o almeno accettabili. La guerra, in altri termini, era persa per gli ebrei ancora prima di cominciare. Ciò nonostante, in ciascuna delle sue fasi c'erano decisioni da prendere, iniziative da assumere, scopi da perseguire razionalmente. Ogni giorno si presentava un'occasione, e un'esigenza, di condotta razionale. Proprio perché l'obiettivo finale dell'Olocausto sfuggiva a qualsiasi calcolo razionale, il suo successo poteva essere costruito in base alle azioni razionali delle sue future vittime. Molto prima che l'Olocausto fosse concepito, K, l'abile e tuttavia inerme agrimensore de "Il castello" di Kafka, fece la stessa esperienza. Egli fallì nella propria lotta solitaria contro il Castello non perché agisse irrazionalmente ma, al contrario, per aver tentato in tutti i modi di ricorrere alla ragione nel rapporto con un potere che (come egli erroneamente credeva) avrebbe dovuto rispondere razionalmente a iniziative razionali, ma che in realtà si comportava in tutt'altro modo.

Uno dei più strazianti episodi della breve e sanguinosa storia dei ghetti fu il tentativo di salvarsi attraverso il lavoro intrapreso su iniziativa dei consigli ebraici in alcuni dei più grandi ghetti dell'Europa orientale. In questa parte del continente l'antisemitismo prebellico accusava gli ebrei di parassitismo economico: secondo tale accusa, essi erano tutti commercianti o intermediari improduttivi, e nel loro insieme costituivano un gruppo dalla cui assenza il resto della popolazione avrebbe tratto beneficio. Quando gli invasori tedeschi fecero dell'eliminazione degli ebrei il proprio programma dichiarato, divenne più logico che mai tentare di contrastare le loro intenzioni dimostrando in modo tangibile l'utilità della popolazione ebraica. Le circostanze apparivano particolarmente propizie a una strategia del genere poiché i tedeschi, le cui risorse erano impegnate allo stremo nello sforzo bellico, avrebbero certamente accolto con favore ogni disponibilità aggiuntiva di mezzi economici o di forza lavoro. Sarebbe difficile accusare Chaim Rumkowski, leader del ghetto di Lódz e tra i più ferventi apostoli della religione industriale, di aver suggerito una risposta irrazionale alla minaccia tedesca. Certamente egli sottovalutò l'irrazionalità omicida dei tedeschi e sopravvalutò la loro innata razionalità affaristica (o, più in generale, la presa dei valori e dei principi che apparentemente guidavano il mondo organizzato in base all'efficienza). Ma è difficile dire cos'altro avrebbe potuto fare, se anche fosse stato consapevole del proprio errore. Egli doveva comportarsi come se i suoi avversari fossero davvero attori che agivano razionalmente; non c'era modo di decidere il corso delle proprie azioni senza partire da tale presupposto. Nella terra dei ciechi chi ha un occhio solo diventa re. Nel mondo razionale della burocrazia moderna l'avventuriero irrazionale diventa dittatore.

Rumkowski, dunque, si comportò in un certo senso secondo l'unica forma di razionalità a lui accessibile, per quanto ingannevole e traditrice.

"In innumerevoli occasioni, in tutte le sue dichiarazioni pubbliche prima e nel corso dei «trasferimenti», egli ripeté instancabilmente che l'esistenza fisica del ghetto dipendeva esclusivamente dal fatto di essere un serbatoio di forza-lavoro utile ai tedeschi, e che in nessuna circostanza, neanche la più tragica, esso avrebbe dovuto abbandonare questa giustificazione della propria sopravvivenza" (19).

Rumkowski di Lódz, Barash di Bialystok, Gens di Vilnius e molti altri ancora parlarono spesso e con convinzione dell'influenza che il loro diligente lavoro avrebbe potuto avere sull'atteggiamento degli oppressori tedeschi. Essi sembravano credere che, una volta dimostrata la produttività e la remuneratività del lavoro ebraico, le commesse e le sovvenzioni tedesche avrebbero sostituito le deportazioni e l'omicidio indiscriminato; o, almeno, si inducevano e si forzavano a convincersi di ciò. E intanto non sabotarono in alcun modo lo sforzo bellico tedesco. "Essi lavorarono per ritardare

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la sconfitta finale di quello stesso potere funesto che aveva giurato di sterminarli". Lungo il tortuoso percorso verso Auschwitz molti ponti sul fiume Kwai furono costruiti dalle mani abili e generose degli ebrei.

In effetti, i funzionari della burocrazia tedesca meno ideologicamente impegnati restarono impressionati da questo tentativo. Per ragioni puramente pragmatiche, non c'è dubbio. Il fatto che gli ebrei fossero esseri umani con una collocazione durevole nello schema delle cose non sembra aver attraversato le loro menti, ma essi certamente accettavano l'idea che sfruttare lo zelo produttivo degli ebrei fosse più logico dal punto di vista economico (e militare) che non sterminare una forza-lavoro così devota e disciplinata. È stato accertato che alcuni comandanti militari impegnati nell'Europa orientale furono disposti a ritardare l'omicidio di massa quando ebbero scoperto che la maggior parte degli artigiani locali, in possesso delle capacità necessarie a tenere in funzione la macchina militare tedesca, era costituita da ebrei. I loro incerti tentativi di difendere la forza-lavoro ebraica dalle mitragliatrici delle "Einsatzgruppen" provocarono prontamente, una volta scoperti, il contrordine delle autorità superiori, le quali sapevano che considerazioni di carattere razionale erano ammissibili solo se, e nella misura in cui, acceleravano il raggiungimento dell'obiettivo finale. Le istruzioni del ministero da cui dipendevano i terr itori orientali occupati non lasciavano dubbi in proposito: «Nella soluzione della questione ebraica non doveva essere preso in considerazione, in linea di principio, nessun fattore economico. Se in futuro fossero sorti dei problemi, si sarebbe dovuto chiedere consiglio ai vertici delle S.S. e della polizia» (20). Il lavoro «utile» promosso dai consigli ebraici sembra, in generale, non aver salvato nessuno (anche se prolungò la vita di molti). Le lodi incondizionate di Rumkowski o di Barash per i lavoratori ebraici abili e zelanti, e perciò «insostituibili», non potevano modificare una sfortunata circostanza: quei lavoratori erano ebrei. Anche se contribuivano a lubrificare la macchina bellica tedesca, essi restavano innanzi tutto tali; la loro «utilità» veniva soltanto dopo. Nella maggior parte dei casi, troppo tardi.

Il comportamento razionale degli "Judenräte" fu davvero messo alla prova quando essi vennero incaricati di provvedere ai «trasferimenti». Avendo mobilitato tutte le proprie forze operative per contrastare la crescente pressione russa, i nazisti non potevano più permettersi di affidare la riuscita della «soluzione finale» ai propri uomini. Questa volta, perciò, accettarono l'idea di aver bisogno della manodopera ebraica. Agli "Judenräte" fu affidata la responsabilità di tutto il lavoro di preparazione richiesto dall'omicidio di massa. Essi dovevano fornire elenchi dettagliati dei residenti del ghetto destinati alla deportazione. Prima avevano il compito di selezionarli, poi di portarli ai vagoni ferroviari. La polizia ebraica doveva individuare e costringere all'obbedienza coloro che resistevano o tentavano di nascondersi. Idealmente, i nazisti riservavano a se stessi il semplice ruolo di osservatori distaccati.

Se gli ebrei fossero stati chiamati a morire tutti insieme, in un colpo solo, la scelta (o meglio, l'assenza di scelta) sarebbe stata chiara e senza ambiguità per tutti. Essa avrebbe ovviamente prodotto un appello alla resistenza generale, a prescindere dalle sue scarse speranze di riuscita, dal momento che l'unica alternativa sarebbe stata quella di «marciare come pecore verso il massacro». Dal punto di vista tedesco l'ovvietà di tale risposta avrebbe considerevolmente aumentato il costo dell'operazione. I tedeschi non sarebbero stati in grado di mettere il comportamento razionale delle vittime al servizio del proprio progetto di distruzione. Esse, infatti, non avrebbero cooperato. Sfruttare la razionalità delle vittime costituiva una soluzione molto più razionale. Dovunque fu possibile, perciò, i nazisti cercarono di evitare la deportazione totale. Essi preferivano evidentemente eseguire l'operazione per gradi.

"Nelle città in cui la liquidazione degli ebrei procedette gradualmente, i tedeschi assicurarono loro, dopo ciascuna delle «operazioni» successive, che quella sarebbe stata l'ultima... Durante il processo che doveva condurre alla «soluzione finale» questa lunga serie di frodi deliberate e di menzogne a sangue freddo fu usata dai tedeschi per tranquillizzare gli ebrei presi dal panico,

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ridurre la loro vigilanza e disorientarli completamente, così che all'ultimo minuto essi non avrebbero avuto nessuna idea di che cosa veramente significasse il «trasferimento». In questo modo l'istinto di conservazione, che spinge gli individui a opporsi al pensiero della morte imminente e ad aggrapparsi anche all'ultimo bagliore di speranza, era manovrato dai carnefici" (21).

In molte piccole città delle regioni occidentali dell'Unione Sovietica, trasformate ben presto dall'esercito d'invasione tedesco nell'anticamera dell'inferno, non erano necessari complessi stratagemmi. Secondo le istruzioni date da Hitler alle proprie truppe, la guerra contro l'Unione Sovietica era diversa da ogni altra: tutto era concesso, al di fuori da qualsiasi regola. La "Wehrmacht", e in particolare le "Einsatzgruppen", si comportarono come se l'unica norma ancora in vigore fosse quella dell'" uccidi come puoi". Gli ebrei venivano radunati nel bosco o nella forra più vicini e falciati dal fuoco delle mitragliatrici. All'operazione non facevano mancare il proprio contributo entusiasti ausiliari ucraini, né si manifestavano scrupoli tra i veterani che combattevano quella «guerra diversa da ogni altra». Solo in alcune zone, dove la popolazione ebrea era particolarmente numerosa o la domanda di artigiani ebrei particolarmente acuta, i tedeschi si presero la briga di istituire i consigli e la polizia ebraica, come avevano fatto di norma nei territori polacchi precedentemente conquistati. Ma dovunque venne organizzato un ghetto, fu richiesta, e in genere ottenuta, la cooperazione degli ebrei allo loro stessa distruzione.

Fu in una fase relativamente precoce che i consigli ebraici seppero - o almeno ebbero la possibilità di sapere, sempre che non cercassero in tutti i modi di evitarlo - quale era lo scopo delle «selezioni» che erano incaricati di fare. Un discreto numero di membri dei consigli rifiutò senza mezzi termini di cooperare. Alcuni si suicidarono, altri si unirono volontariamente ai gruppi in partenza verso i campi di sterminio, spesso dopo aver ingannato i tedeschi, che avevano ancora bisogno di consiglieri ebrei vivi. La maggior parte di essi, tuttavia, partecipò a quella che, di volta in volta, doveva essere l'«ultima operazione». Costoro non erano a corto di spiegazioni razionali convincenti della propria condotta. Poiché la tradizione ebraica proibiva di negoziare la sopravvivenza di alcuni a spese di altri (22), tali spiegazioni potevano essere tratte soltanto dal patrimonio culturale dell'epoca razionale moderna e confezionate nel linguaggio della moderna tecnologia. Di grande utilità era, in particolare, il gioco dei numeri: la vita di molti vale più della vita di pochi, uccidere di meno è meno ripugnante che uccidere di più. "Il sacrificio di alcuni per la salvezza di molti": ecco il ritornello più frequente nell'autodifesa dei leader degli "Judenräte". Grazie ad una curiosa acrobazia mentale, la condanna a morte veniva considerata come una nobile e moralmente lodevole difesa della vita: «Noi non decidiamo chi deve mori re, decidiamo soltanto chi deve vivere». Assumersi il ruolo di divinità non era sufficiente: molti leader degli "Judenräte" vollero essere ricordati come divinità benigne, protettive. Così, dopo aver mandato a morte migliaia di anziani, malati e bambini, il 4 settembre 1942 Rumkowski dichiarava: «Noi non eravamo... motivati dal pensiero di quanti sarebbero periti, ma dalla considerazione di quanti sarebbe stato possibile salvare» (23). Altri si calarono nelle metafore della medicina moderna e rivestirono i panni dei chirurghi salvatori di vite: «Talvolta è necessario asportare un arto per salvare il corpo» o «Se bisogna amputare un braccio infetto per salvare una vita, che sia fatto».

Una volta espresse queste giustificazioni e presentate le condanne a morte come un'encomiabile conquista del pensiero razionale moderno combinato con l'ardente cuore ebraico, una domanda continuava a turbare anche i più convinti collaborazionisti: ammesso che l'amputazione dell'arto sia necessaria, devo essere io ad eseguire l'operazione? E un'altra, ancora più inquietante: ammesso che alcuni debbano perire affinché altri possano vivere, chi sono io per decidere chi debba essere sacrificato, e a vantaggio di chi?

È accertato che domande come queste tormentarono molti dei consiglieri e dei leader ebrei, anche (o forse particolarmente) quelli che non rifiutarono la propria collaborazione e non cercarono la fuga attraverso il suicidio. L'onorevole morte di Cherniakov, leader della comunità ebrea di

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Varsavia, è ampiamente nota. Ma la lista dei suicidi è lunga e il numero dei consiglieri ebrei che tracciarono una linea impossibile da oltrepassare in base ai propri principi morali è ampio e ancora incerto. Eccone alcuni esempi, scelti in modo casuale. Prima di suicidarsi il capo dello "Judenrat" di Równe, Bergman, disse ai tedeschi che per il «trasferimento» poteva designare solo se stesso e la propria famiglia. Motel Chajkin, della comunità di Kosów Poleski, rifiutò sdegnato l'offerta di salvezza fattagli dallo " Stadkommissar". David Liberman, della comunità di Luków, gettò in faccia al funzionario tedesco, dopo aver fatto a pezzi le banconote, il denaro raccolto per un tentativo di corruzione fallito, gridando: «Ecco il pagamento del nostro viaggio, maledetto tiranno!». Liberman fu fucilato sul posto. Di fronte alla richiesta nazista di selezionare un contingente di ebrei da inviare a «lavorare in Russia», l'intero consiglio ebraico di Bereza Kartuska si suicidò durante la riunione del primo settembre 1942.

Gli altri, abbastanza codardi o abbastanza coraggiosi da scegliere la sopravvivenza, avevano disperatamente bisogno di una risposta: una scusa, una giustificazione, un'argomentazione morale o razionale. Nella maggior parte dei casi documentati essi scelsero quest'ultima, la più accettabile per gli altri e la più convincente. Dopo ciascuna delle «operazioni» successive, i compagni di strada di Gens e di Rumkowski sentivano il bisogno di convocare un'assemblea generale dei prigionieri del ghetto rimasti in vita per spiegare perché avessero deciso di «farlo». (Nel caso di Gens «farlo» aveva comportato il trasporto di 400 anziani e bambini di Oszmiana nel luogo di esecuzione e la loro uccisione per mano di poliziotti ebrei.) In occasione di queste assemblee, all'attonito pubblico veniva offerta una dimostrazione di pensiero razionale, di calcolo numerico: «Se avessimo lasciato il compito ai tedeschi, i morti sarebbero stati molti di più ». O, su un piano più personale: «Se avessi rifiutato di assumermi questa responsabilità, i tedeschi avrebbero messo al mio posto una persona molto più crudele e sanguinaria, con conseguenze inimmaginabili». Il «vantaggio» razionalmente calcolato veniva così trasformato in un obbligo morale. «Sì, è mio dovere sporcarmi le mani», decise Gens, colui che si autoproclamò dio degli ebrei di Vilnius, A killer che morì convinto di essere un saggio.

La strategia del «salvare il possibile» fu perseguita finché l'ultimo ebreo non fu seppellito in una fossa in Ucraina o bruciato in un forno crematorio a Treblinka. Fu perseguita da persone armate di logica e ben addestrate nell'arte del pensiero razionale. Tale strategia rappresentava di per sé un trionfo e una definitiva esaltazione della razionalità. C'era sempre qualcosa o qualcuno da salvare, e dunque un'occasione per essere razionali. La logica e la razionalità dei consiglieri ebrei li indusse ad assumere il ruolo di assassini. La loro logica e la loro razionalità erano parte del progetto omicida. Esse furono utilizzate ogni volta che le squadre della morte erano troppo esigue o le armi degli assassini non immediatamente disponibili. La logica e la razionalità, al contrario, erano sempre disponibili, e con esse una buona riserva di efficiente cooperazione, pronta a riempire i vuoti. Era come se la saggezza tradizionale dovesse essere espressa con parole nuove. Quando dio voleva distruggere qualcuno, evidentemente, non lo rendeva pazzo. Lo rendeva razionale.

Oggi sappiamo che la strategia del «salvare il possibile», per quanto potesse essere razionale, non aiutò le vittime. Ma a ben guardare essa non era una strategia delle vittime. Era un'appendice, un'estensione della strategia di distruzione elaborata e gestita da forze votate all'annientamento. Coloro che abbracciarono la strategia del «salvare il possibile» erano stati prima marchiati come vittime. Coloro che li avevano marchiati crearono una situazione in cui le cose avevano bisogno di essere salvate per poter esistere, così che divenne operante il calcolo del «risparmio sulle perdite», dei «costi di sopravvivenza», del «male minore». In una situazione del genere la razionalità delle vittime era divenuta un'arma degli assassini. Ma, del resto, "la razionalità ; dei dominati è sempre un'arma dei dominatori".

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Nonostante tutte queste verità teoriche, tuttavia, oggi sappiamo che gli oppressori incontrarono una difficoltà sorprendentemente scarsa nel sollecitare la complicità razionalmente motivata delle vittime.

- "La razionalità dell'autoconservazione".

Il successo degli oppressori dipendeva dalla loro capacità di far sì che il calcolo razionale delle vittime sopravvivesse alla possibilità di raggiungere l'obiettivo originariamente perseguito; di far sì che le persone - almeno un certo numero di esse e per un certo periodo di tempo - agissero razionalmente in un contesto certamente irrazionale. Ciò dipendeva a sua volta dalla capacità di ritagliare porzioni di normalità nel contesto complessivo, e di frazionare un processo la cui meta finale era la distruzione in una serie di fasi che, osservate separatamente, consentissero una scelta guidata da criteri razionali di sopravvivenza. Tutti i singoli atti che alla fine sarebbero confluiti nella "Endlösung" erano razionali dal punto di vista di coloro che gestirono l'Olocausto; molti di essi erano razionali anche dal punto di vista delle vittime.

Per ottenere questo risultato era necessario fingere che nella maggior parte dei casi la sopravvivenza selettiva fosse un obiettivo raggiungibile, e che perciò il comportamento dettato dall'interesse all'autoconservazione fosse razionale e sensato. Una volta scelta l'autoconservazione come criterio supremo di azione, il suo prezzo poté essere gradualmente ma costantemente elevato, finché tutte le altre considerazioni non furono svalutate, tutte le inibizioni morali o religiose infrante, tutti gli scrupoli ripudiati o respinti. Nelle sue tormentate ammissioni, Resvö Kastner ha dichiarato: «All'inizio vennero chieste [ai consigli ebraici] cose relativamente irrilevanti, oggetti sostituibili di valore materiale, come proprietà personali, denaro, appartamenti. Ma più tardi si passò ad esigere la libertà personale degli esseri umani. Infine i nazisti chiesero la vita stessa» (24). L'intrinseca indifferenza morale dei principi di razionalità fu così spinta alle estreme conseguenze e sfruttata appieno. Il potenziale sempre presente negli attori addestrati a perseguire un vantaggio razionale, ma inattivo finché non sottoposto ad un test estremo, venne qui apertamente alla luce. In un lampo abbagliante, la razionalità dell'autoconservazione s i rivelò nemica del dovere morale.

Secondo un testimone oculare, il giorno di Pasqua del 1942 l'"Amtkommissar" di Sokoly ordinò al locale "Judenrat" di consegnare tutti gli uomini abili della città. Quando, allo scadere del tempo fissato, il capo del consiglio riferì il fallimento dei propri sforzi, avvenne ciò che segue:

"L'Amtkommissar si infuriò, interrompendolo e colpendolo sulla testa e sul volto. Estrasse il suo orologio da tasca e gridò: «Nel giro di mezz'ora devono essere tutti radunati qui! Altrimenti l'intero Judenrat verrà immediatamente fucilato!». Fu un nuovo colpo per lo Judenrat. I suoi membri subirono un'improvvisa trasformazione. Tutti e dodici, insieme ai propri aiutanti ed assistenti, si precipitarono per le strade dello shtetl, andando di casa in casa a trascinarne fuori gli abitanti, adulti e bambini. Nessuno poteva fermarli. Poi fecero allineare tutti in una serie di file. Se qualche «imboscato» fosse riuscito a nascondersi, dicevano, quel demonio avrebbe giustiziato l'intero consiglio! In un quarto d'ora la strada fu piena di persone e i membri dello Judenrat le fecero mettere in marcia in doppia fila" (25).

Scene come questa si ripeterono con terribile regolarità nei vasti territori dell'Europa occupata dai nazisti. I consiglieri e i poliziotti ebrei furono messi di fronte a una scelta assai semplice: morire o lasciare che altri morissero. Molti scelsero di ritardare la propria morte e quella di parenti ed amici. L'assunzione del ruolo di dio era resa più facile dall'interesse egoistico.

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È impossibile dire quanti di coloro che scelsero di «sporcarsi le mani» sperassero effettivamente di sopravvivere. La scelta tra la vita e la morte sottopose l'istinto di autoconservazione a un test estremo. È ingiusto e fuorviante giudicare il comportamento umano di fronte a una scelta del genere in base agli standard adottati per le decisioni, meno gravide di conseguenze e meno drammatiche, della vita quotidiana, in cui i conflitti tra l'interesse egoistico e le responsabilità nei confronti di altri sono spesso acuti, ma quasi mai risultano insanabili o invocano scelte irreversibili. I conflitti ordinari, inoltre, vengono per lo più affrontati a livello individuale, in un contesto in cui la maggior parte delle altre persone non deve compiere scelte di comparabile intensità morale, per cui la presenza visibile dei valori morali rimane forte. Nei ghetti questo contesto venne letteralmente distrutto durante il processo graduale di sterminio. Tutto ciò che rimaneva della superiorità degli obblighi morali rispetto all'interesse egoistico fu eliminato a poco a poco nel passaggio attraverso la successione dei gironi infernali. Il normale modo di procedere di ogni burocrazia - rendere l'obbedienza più certa e facile da ottenere attraverso l'attenuazione o la neutralizzazione di tutte le pressioni contrastanti, ivi comprese quelle morali - fu qui portato all'estremo e rivelò tutto il suo potenziale. La cooperazione delle vittime ai piani dei persecutori fu resa più facile dalla corruzione morale delle vittime stesse. Mettendo queste ultime di fronte a scelte dalle quali i più «adatti» alla sopravvivenza potevano emergere soltanto con le mani sporche, i persecutori fecero in modo che, con il passare del tempo, la popolazione dei ghetti somigliasse sempre più a un gruppo di assassini, e che l'insensibilità e l'indifferenza morale crescessero fino ad intaccare, e possibilmente a sopprimere, tutti quei freni che normalmente vincolano il puro istinto di autoconservazione.

Subito dopo la fine della guerra Marek Edelman, uno dei leader e dei pochi sopravvissuti alla sollevazione del ghetto di Varsavia, ci ha lasciato una descrizione della «società del ghetto»:

"Anche la completa separazione, l'impossibilità di ricevere giornali da fuori e l'interruzione di tutte le comunicazioni con l'esterno avevano uno scopo e un effetto particolare sulla popolazione ebraica. Gradualmente, tutto ciò che accadeva dall'altra parte delle mura divenne sempre più lontano, sfocato, estraneo. Al contrario, contava soltanto ciò che accadeva nel presente e nello spazio immediatamente circostante; erano questi i fatti più importanti, su cui si concentrava l'attenzione degli abitanti del ghetto. Rimanere vivi diventò la sola questione rilevante. Questa «vita» veniva interpretata da ciascuno a proprio modo, a seconda delle condizioni e delle risorse su cui esercitava il proprio controllo. L'esistenza, confortevole per coloro che erano ricchi prima della guerra, ostentata ed esuberante per i degenerati collaboratori della Gestapo e per i contrabbandieri corrotti, significava la fame per la massa senza numero degli operai e dei disoccupati, che vivevano di una zuppa acquosa distribuita dalle opere di carità e di pane razionato. A questa «vita» ciascuno si aggrappava ossessivamente come poteva. Coloro che avevano denaro vedevano lo scopo dell'esistenza negli agi e nei piaceri quotidiani, che andavano a cercare nei caffè, nei night club e nei locali da ballo rumorosi e sempre affollati. Coloro che non avevano nulla davano la caccia alla «felicità» fugace nascosta in una patata ammuffita trovata dentro una pattumiera, o in un pezzo di pane ricevuto in elemosina da un passante; tutto ciò che desideravano era dimenticare la fame, anche se per un fuggevole momento... Ma la fame cresceva di giorno in giorno, straripava dagli appartamenti sovraffollati nelle strade, feriva lo sguardo con l'immagine di corpi mostruosamente rigonfi, di membra ulcerate e macilente avvolte in stracci sudici, coperte di piaghe e di ferite dovute al congelamento e alla denutrizione. La fame parlava attraverso le labbra dei bambini che mendicavano e dei vecchi miserandi... La povertà era tale che la gente moriva d'inedia per le strade. Ogni giorno, verso le quattro o le cinque del mattino, gli incaricati raccoglievano decine di cadaveri coperti di giornali tenuti fermi con una pietra. Alcuni cadevano per strada, altri morivano in casa, ma le famiglie h denudavano (per venderne i vestiti) e h gettavano sul marciapiede in modo che il funerale fosse pagato dal consiglio ebraico. I car ri passavano per le strade uno dopo l'altro, ricolmi di cadaveri nudi... Nello stesso tempo anche il tifo flagellava il ghetto... ogni corsia d'ospedale accoglieva 150 infetti; due, talvolta tre persone venivano messe nello stesso letto, ma molti giacevano sul pavimento. Accanto ai moribondi la gente

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attendeva con impazienza: c'era bisogno di spazio per altri... In ciascuna fossa comune venivano stipati cinquecento cadaveri, ma a centinaia restavano insepolti e il cimitero spandeva intorno un odore malsano, nauseante... In queste tragiche condizioni di vita i tedeschi tentarono di introdurre un'apparenza di ordine e di autorità. Fin dal primo giorno il potere era ufficialmente esercitato dal consiglio ebraico. Per mantenere l'ordine fu istituita una polizia ebraica in uniforme... Queste istituzioni, aventi lo scopo di dare alla vita del ghetto una verniciatura di normalità, divennero di fatto una fonte di estesa corruzione e depravazione" (26).

Nel ghetto la distanza tra le classi equivaleva alla distanza tra la vita e la morte. Sopravvivere significava chiudere gli occhi di fronte alla miseria e all'agonia altrui. I poveri morivano per primi, e in massa. La stessa sorte toccava ai privi di risorse, ai miti, agli ingenui, agli onesti, ai remissivi. Fin dall'inizio - con una moltitudine di persone ammassate in uno spazio atto ad ospitare non più di un terzo di esse, con le razioni di cibo calcolate in modo da causare l'indebolimento fisico e la depressione spirituale, con il pressoché completo esaurimento delle fonti di reddito, con il proliferare delle epidemie e la scarsità di medicine - la vita nel ghetto era diventata un gioco a somma zero la cui posta più ambita, e l'unica che contasse veramente, era l'autoconservazione. Raramente il prezzo della compassione era stato così alto. Raramente la mera preoccupazione per la sopravvivenza era stata così vicina alla corruzione morale.

Le distinzioni di classe, atroci e ripugnanti quando la posta in gioco era la possibilità di procurarsi del pane e un rifugio, acquistarono una valenza omicida allorché cominciò la lotta per la sospensione delle esecuzioni. A quel punto i poveri erano già troppo minati e indeboliti per poter resistere o difendere in qualche modo la propria vita. «Durante le operazioni di rastrellamento del ghetto molte famiglie ebree erano incapaci di lottare, incapaci di invocare pietà, incapaci di piangere e persino di recarsi nel luogo di adunata per farla finita. Agghiacciate dal terrore ed inermi, esse attendevano nelle proprie case l'irruzione delle squadre incaricate del rastrellamento» (27). I ricchi e coloro che non erano completamente privi di risorse tentavano (invano, il più delle volte) di strapparsi a vicenda, offrendo più degli altri, i pochi passaporti di uscita che di norma i nazisti avevano cura di offrire alla folla in preda al panico. Pochi rammentavano che la salvezza di una vittima poteva significare soltanto la morte di un'altra. Venivano offerte, ed accettate, intere fortune per le magiche piastrine di identificazione che consentivano al loro possessore di scampare all'«operazione» in corso si cercavano e si corrompevano febbrilmente coloro che potevano fungere da protettori influenti. Madyslaw Szlengel, l'indimenticabile cantore del ghetto di Varsavia, ci ha lasciato questa drammatica descrizione dell'«operazione» che ebbe luogo il 19 gennaio 1943:

"I telefoni sono assediati. Aiuto! Aiuto! Aiuto! Mobilitare i dignitari della Gestapo. Chiamare la stazione ferroviaria: sono stati mandati i treni? C'è qui il signor Szmerling? Signore, hanno portato via mio...! Signor Skosowski! Aiuto! Qualsiasi somma! 100000! Tutto quello che c'è da pagare! Offro mezzo milione per venti persone! Per dieci persone! Per una!Gli ebrei hanno soldi! Gli ebrei sono influenti! Gli ebrei sono inermi!...Sappiamo come hanno messo insieme le loro enormi fortune e come adesso vagano per le stanze in cerca di acqua, come offrono agli ucraini i loro milioni, come se la svignano portando con sé somme di danaro con cui potrebbero tenere in vita per mesi le centinaia di persone radunate alla stazione...Il bestiame adorno di piastrine di riconoscimento fugge via precipitosamente. Alcune creature senza piastrine rimangono in piedi indifese tra le rovine...Le casse del Reich si riempiono. Gli ebrei muoiono" (28).

Quanto più cresceva il prezzo della vita, tanto più diminuiva il prezzo del tradimento. Un irresistibile impulso a vivere spingeva da parte gli scrupoli morali e, con essi, la dignità umana. In mezzo alla generale lotta per la sopravvivenza il valore dell'autoconservazione fu incoronato come incontestabile legittimazione di ogni scelta. Tutto ciò che serviva all'autoconservazione era giusto.

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Quando era in gioco la vita, tutti i mezzi sembravano giustificati. Era vero che ora i nazisti chiedevano agli "Judenräte" prestazioni incomparabilmente più ripugnanti di quelle chieste in precedenza. Ma anche la posta del gioco era cambiata: sia il prezzo, sia la ricompensa dell'obbedienza erano saliti. E così, nella maggior parte dei casi, i servizi richiesti continuarono ad essere prestati. Nella lotta per un altro giorno di vita, un lavoro presso il consiglio ebraico o la polizia ebraica valeva più del denaro e dei diamanti.

Non che il denaro e i diamanti fossero disprezzati. Numerose testimonianze di sopravvissuti hanno raccontato la storia squallida e deprimente della corruzione e del ricatto, dell'estorsione e della frode dilaganti che contraddistinsero molti "Judenräte", o almeno molti degli individui che condivisero il loro terribile potere di separare la vita dalla morte. In cambio dei servizi di un consigliere - sia che fossero privilegi ufficialmente riconosciuti, sia che si trattasse di una falsa carta di identità - furono richieste e pagate enormi quantità di denaro e di beni familiari. Particolarmente ambite erano le stanze di edifici speciali riservati ai membri del consiglio e della polizia e alle rispettive famiglie; tali edifici erano presumibilmente sottratti all'attenzione delle S.S. ed esclusi dalle future «operazioni». Ma via via che la posta in gioco aumentava e la disperazione si faceva più profonda, ogni più piccolo privilegio veniva offerto ad un prezzo esorbitante, che soltanto i più ricchi tra i membri superstiti della comunità condannata potevano permettersi di pagare.

Questo comportamento degli "Judenräte" rifletteva la generale corruzione della popolazione perseguitata. L'oppressione, che esaltava la razionalità dell'autoconservazione e svalutava sistematicamente le considerazioni di ordine morale, riuscì di fatto a disumanizzare le proprie vittime. Essa agì come una specie di profezia che si autorealizzava. All'inizio gli ebrei furono proclamati immorali e senza scrupoli, egoisti e avidi detrattori dei valori, individui che usavano il loro apparente culto dell'umanesimo come copertura del puro interesse egoistico; dopodiché furono costretti a vivere in una condizione disumana nella quale la definizione promossa dalla propaganda potesse avverarsi. I cameramen del ministero di Goebbels spesero molte giornate di lavoro a filmare i mendicanti che morivano di fame di fronte ai ristoranti di lusso.

La corruzione aveva una sua logica. Essa procedeva per stadi e ogni passo rendeva più facile il successivo. Il processo cominciò come segue:

"Il vicepresidente del consiglio ebraico di Siedlce migliorò istantaneamente il proprio livello di vita... Il fatto che all'improvviso grandi quantità di denaro confluissero nelle sue mani e che gli si aprissero anche altre opportunità gli sconvolse la mente. Credette di avere poteri illimitati e approfittò della propria posizione sfruttando la miseria generale. Si appropriò di gran parte delle forti somme di denaro e dei gioielli che gli erano stati affidati per far fronte alle situazioni di emergenza, quando sarebbe stato necessario pagare i tedeschi. Prese a vivere negli agi..."

Si sviluppò in questo modo:

"Durante il «trasferimento» dell'agosto 1943 [il presidente del consiglio ebraico di Zawiercie], ricevendo la notizia che tutti gli ebrei, escluso un piccolissimo gruppo di operai specializzati, sarebbero stati deportati ad Auschwitz (e già si sapeva che cosa ciò significasse), radunò 40 membri della propria famiglia e inserì i loro nomi nella lista degli operai specializzati".

E si concluse nella maniera seguente:

"[Nel ghetto di Skalat] l'Obersturmbannführer Müller strinse un accordo con i rappresentanti del consiglio e il comandante della polizia del ghetto, il dottor Joseph Brif, affinché prendessero parte attiva all'«operazione», assicurando solennemente che essi e le loro famiglie non sarebbero stati toccati... Conclusa la crudele operazione... un gruppo di uomini delle S.S. si recò nella sede del

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consiglio ebraico, dove trascorse alcune ore piacevoli. Li attendeva un banchetto... i camerieri si affaccendavano attorno ai tavoli riccamente imbanditi, nel tentativo servile di soddisfare gli ospiti. Nella stanza risuonarono gaie risate, vi fu un intrattenimento musicale e gli ospiti si lasciarono andare, cantarono e si divertirono. Tutto ciò dopo che duemila persone erano state portate nella sinagoga, dove quasi soffocarono per mancanza d'aria, mentre altre attendevano al freddo su un prato vicino alla linea ferroviaria" (29).

In effetti, non fu questa la vera conclusione. Il treno che portava il nome di «autoconservazione» si fermò solo alla stazione ferroviaria di Treblinka.

- "Conclusioni".

Se avesse avuto la possibilità di scegliere, nessuno dei consiglieri e dei poliziotti ebrei sarebbe salito sul treno dell'autodistruzione. Nessuno avrebbe contribuito all'uccisione di altri. Nessuno sarebbe sprofondato in una corruzione simile a quella dell'«orgia in tempo di peste». Ma essi non ebbero la possibilità di scegliere. O, per meglio dire, la gamma delle opzioni era stata fissata in altra sede. La maggior parte di loro - ivi compresi coloro che erano apertamente corrotti e senza scrupoli - applicò ; la propria ragione e le proprie capacità di giudizio razionale alle scelte possibili. Ciò che l'esperienza dell'Olocausto ha rivelato in tutte le sue terrificanti conseguenze è la distinzione tra la razionalità dell'attore (un fenomeno psicologico) e la razionalità dell'azione (misurata in base alle sue conseguenze oggettive per l'attore). La ragione è una buona guida al comportamento individuale soltanto in quelle circostanze in cui le due forme di razionalità concordano e si sovrappongono. Altrimenti essa si trasforma in un'arma suicida che arriva a distruggere il suo stesso scopo, sopprimendo lungo il cammino le inibizioni morali, suo unico vincolo e potenziale suggeritore di saggezza.La coincidenza delle due forme di razionalità - quella dell'attore e quella dell'azione - non dipende dall'attore. Dipende invece dal contesto dell'azione, che a sua volta dipende dalla posta in palio e dalle risorse disponibili, cioè da fattori che sfuggono entrambi al controllo dell'attore. Posta e risorse sono manipolate da coloro che controllano realmente la situazione: che sono in grado di rendere alcune scelte troppo costose per essere compiute da chi è sottoposto al loro dominio, assicurando nello stesso tempo la massiccia selezione di opzioni che favoriscono il raggiungimento dei loro scopi e rafforzano il loro controllo. Questa capacità non varia a seconda di quanto gli scopi dei dominatori siano vantaggiosi o dannosi per gli interessi dei dominati. "Quando la distribuzione del potere è fortemente asimmetrica, la razionalità dei dominati è, nel migliore dei casi, uno strumento a doppio taglio". Essa può essere sfruttata a loro vantaggio. Ma può anche distruggerli.

Considerato come un'operazione complessa mirante ad uno scopo, l'Olocausto può fungere da paradigma della razionalità burocratica moderna. Quasi tutto venne fatto con l'intento di massimizzare il risultato riducendo al minimo i costi e gli sforzi. Quasi tutto (nell'ambito del possibile) venne fatto per sfruttare le capacità e le risorse di tutti gli attori coinvolti, compresi coloro che erano destinati a diventare le vittime dell'operazione nel caso in cui essa fosse riuscita. Quasi tutte le pressioni irrilevanti o contrarie allo scopo dell'operazione furono neutralizzate o direttamente eliminate. La storia dell'organizzazione dell'Olocausto potrebbe a buon diritto essere assunta come modello di gestione scientifica. Ciò sarebbe effettivamente avvenuto, se la condanna morale e politica dei suoi obiettivi non fosse stata imposta al mondo dalla sconfitta militare dei suoi ideatori. E oggi non mancherebbero illustri ricercatori che farebbero a gara per studiare e generalizzare l'esperienza dell'Olocausto a beneficio di un'organizzazione più avanzata dell'attività umana.

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Dal punto di vista delle vittime, l'Olocausto contiene insegnamenti diversi. Uno dei più importanti tra essi è dato dalla macroscopica insufficienza della razionalità come unica misura della capacità organizzativa. Questo insegnamento non è stato ancora pienamente assimilato dagli scienziati sociali. Fino a quando ciò non sarà avvenuto, noi rischiamo di continuare a studiare e generalizzare gli enormi passi avanti compiuti dall'efficacia dell'azione umana grazie all'eliminazione dei criteri qualitativi, tra cui le norme morali, riflettendo troppo raramente sulle sue conseguenze.

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NOTE AL CAPITOLO QUINTO.

(1). H.E. Seifert, "Der Jude an der Ostgrenze", Berlin, Eber, 1940, p. 82, citato in M. Weinreich, "Hitler's Professors: The Part of Scholarsbip in Germany's Crimes against the Jewish People", New York, Yiddish Scientific Institute, 1946, p. 91. Attribuire alle élite ebraiche un ruolo di primo piano nell'esecuzione dei progetti di lungo periodo per la soluzione della «questione ebraica» contrastava nettamente con il trattamento riservato alle élite delle nazioni slave conquistate, nazioni per le quali era prevista la sottomissione servile piuttosto che lo sterminio. Le classi colte di etnia polacca, ad esempio, furono sottoposte alla persecuzione e all'annientamento fin dal primo giorno dell'occupazione tedesca, molto prima che cominciasse lo sterminio degli ebrei polacchi. Questo fatto indusse erroneamente il governo polacco in esilio e l'opinione pubblica polacca in generale a credere che agli ebrei fosse stato riservato dai tedeschi uno status privilegiato rispetto a quello dei loro concittadini polacchi: confer D. Engel, "In the Shadow of Auschwitz", Chapel Hill, N.C., University of North Carolina Press, 1987.

(2). Citato in L. Kuper, "Genocide, Its Political Use in the Twentieth Century", New Haven, Yale University Press, 1981, p. 127.

(3). R. Grünberger, "A Social History of the Third Reich", London, Weidenfeld & Nicholson, 1971, p. 466.

(4). Confer H. Mommsen, "The Challenge of the Third Reich: The Adam von Trotta Memorial Lectures", a cura di H. Bull, Oxford, Clarendon Press, 1986, p.p. 122-8.

(5). I. Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich", Oxford, Clarendon Press, 1983, p.p. 359, 364, 372.

(6). F.H. Littell, "The Credibility Crisis of the Modern University", in "The Holocaust: Ideology, Bureaucracy and Genocide", a cura di H. Friedlander e S. Milton, Milwood, N.Y., Kraus International Publications, 1980, p.p. 274, 277, 272.

(7). A. Beyerchen, "The Physical Sciences", in "The Holocaust: Ideology, Bureaucracy, and Genocide", a cura di H. Friedlander e S. Milton, cit., p.p. 158-9.

(8). L. Pohakov, "Histoire de l'antisemitisme", vol. 4, Paris, Calmann-Lévy, 1971; dell'edizione italiana, "Storia dell'antisemitismo", Firenze, La Nuova Italia, 1974-76, sono finora stati pubblicati soltanto i primi tre volumi.

(9). J.C. Fest, "Das Gesicht des Dritten Reiches. Profile einer totalitären Herrschaft", München, Piper, 1963, trad. it. " Il volto del Terzo Reich", Milano, Garzanti, 1977, p. 406.

(10). R. Grünberger, "A social History of the Third Reich", cit., p. 313.

(11). N. Cohn, "Warrant for Genocide", London, Eyre & Spottiswoode, 1967, p. 268.

(12). R. Hilberg, "The Destruction of the European Jews", New York, Holmes & Meier, 1983, vol. 1, p.p. 76, 78-9.

(13). H. Arendt, "Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil", New York, Viking Press, 1964, trad. it. "La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme", Milano, Feltrinelli, 1964, p.p. 139-40.

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(14). Ibidem. Quest'idea non era del tutto fantasiosa; essa rifletteva una lunga tradizione di punti di vista e di pratiche delle élite dei paesi ospitanti che soltanto Hitler e Himmler - non senza resistenza all'interno dei loro stessi ranghi - osarono rovesciare. Ancora il 16 dicembre 1941 Wilhelm Kube, un fidato, scrupoloso dignitario nazista di vecchia data, rivolse un appello ai suoi superiori a nome degli ebrei tedeschi meritevoli di un trattamento speciale: «Persone che appartengono alla nostra sfera culturale sono assai diverse, vorrei far presente, dalle bestiali orde indigene [dei paesi dell'Europa orientale]» (citato in M. Weinreich, " Hitler's Professors", cit., p. 155). Esiste un bizzarro documento, emanato dal "Geheimes Sicherheitsamt" di Berlino il primo marzo 1940, che incaricava il dott. Arthur Spier, direttore della scuola talmudica di Amburgo «di creare nella riserva ebraica di Polonia [la cui creazione era a quell'epoca prevista nella regione di Nisko] un sistema di istruzione generale ebraica simile a quello in vigore nel Reich». Il sistema ipotizzato era chiaramente visto come superiore, per virtù derivata, a tutto ciò che gli ebrei di rango inferiore, senza contatto con la cultura tedesca, potessero creare: S. Colodner, "Jewish Education in Germany under the Nazis", Jewish Education Committee Press, 1964, p.p. 33-4.

(15). Citato in L. Dobroszycki, "Jewish Elites under German Rule", in "The Holocaust: Ideology, Bureaucracy, and Genocide", a cura di H. Friedlander e S. Milton, cit., p. 223.

(16). J. Adler, "The Jews of Paris and the Final Solution", Oxford, Oxford University Press, 1987, p.p. 223-4.

(17). R. Hilberg, "The Destruction of the European Jews", cit., vol. 3, p. 1042.

(18). H. Fein, "Accounting for Genocide: National Response and Jewish Victimization during the Holocaust", New York, Free Press, 1979, p. 319.

(19). I. Trunk, "Judenrat: The Jewish Councils in Eastern Europe under German Occupation", London, Macmillan, 1972, p. 401.

(20). Citato ibidem, p. 407.

(21). Ibidem, p.p. 418-19.

(22). Così Mairnonide: «Se i pagani dicessero loro: 'Dateci uno dei vostri e noi lo uccideremo, altrimenti vi uccideremo tutti', essi dovrebbero lasciarsi uccidere e non un solo ebreo dovrebbe essere consegnato» (" The Fundamentals of the Torah", 515). Vedi anche "Pirkei Abbot": «Un giorno un uomo si recò da Reba e gli disse: 'Il signore della mia città mi ha ordinato di uccidere una certa persona, e se rifiuto farà uccidere mÈ. Reba gli rispose: 'Fatti uccidere e non uccidere; pensi che il tuo sangue sia più rosso del suo? Forse è il suo ad essere più rosso del tuo'» (Pes. 25b). Il "Jerusalem Talmud" fornisce questa indicazione: «Un gruppo di ebrei percorreva una strada quando alcuni gentili si fecero loro incontro e dissero: 'Dateci uno del vostro gruppo così che possiamo ucciderlo, altrimenti vi uccideremo tutti!' Ma anche se dovessero essere tutti uccisi, essi non possono consegnare neanche una sola anima di Israele». Per quanto riguarda il caso in cui siano i nemici stessi ad indicare una specifica persona da punire, le opinioni delle fonti autorevoli sono diverse. Anche in questo caso, tuttavia, il Talmud consiglia di decidere alla luce della seguente storia: «Ulla bar Koshev era ricercato dal governo. Egli chiese asilo al rabbino Joshua ben Levi a Lod. Le forze governative vennero e circondarono la città. Esse fecero sapere: 'Se non ce lo consegnate, distruggeremo la città'. Il rabbino Joshua andò allora da Ulla bar Koshev e lo persuase a consegnarsi. Elia era solito apparire al rabbino Joshua, ma a partire da quel momento le apparizioni cessarono. Il rabbino Joshua digiunò per molti giorni e alla fine Elia si manifestò a lui e chiese:

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'Dovrei apparire agli informatori?'. Il rabbino Joshua disse: 'Io ho seguito la leggÈ. Elia replicò: 'La legge è forse per i santi?'» ("Trumot" ;, 8: 10).

(23). Citato in I. Trunk, "Judenrat", cit., p. 423.

(24). Citato ibidem, p. XXXII.

(25). Citato in I. Trunk, "Jewish Responses to Nazi Persecution: Collective and Individual Behavior in Extremis", New York, Stein & Day, 1979, p.p. 75-6.

(26). M. Edelman, "Ghetto walczy", Warszaw, C.K. Bundu, 1945, p.p. 12-14. (27). R. Hilberg, "The Destruction of European Jews", cit., vol. 3, p. 1036. (28). W. Szlengel, "Co czytaem umarlym", Warszaw, PIW, 1979, p.p. 46, 49, 44. (29). Citato in I. Trunk, "Judenrat", cit., p.p. 447-9.

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6. L'ETICA DELL'OBBEDIENZA (LEGGENDO MILGRAM).

Ancora sotto l'impatto della dirompente verità dell'Olocausto, Dwight Macdonald dichiarò nel 1945 che bisogna aver paura delle persone obbedienti alla legge, più che dei suoi trasgressori.

L'Olocausto aveva fatto apparire insignificanti tutte le immagini del male ereditate dal passato. Con ciò esso portò a un rovesciamento di tutte le tradizionali argomentazioni fornite per spiegare le manifestazioni del male. All'improvviso risultò chiaro che il più grande degli orrori a memoria d'uomo non scaturiva dall'infrazione dell'ordine, ma da un impeccabile, perfetto e incontrastabile dominio dell'ordine. Non era opera di una folla tumultuosa e incontrollabile, ma di uomini in uniforme, obbedienti e disciplinati, che seguivano le norme e rispettavano meticolosamente lo spirito e la lettera delle istruzioni ricevute. Ben presto divenne evidente che questi uomini, una volta spogliatisi delle uniformi, non erano affatto malvagi. Essi si comportavano in buona misura come tutti noi. Amavano le proprie mogli, coccolavano i propri bambini, aiutavano e confortavano i propri amici in caso di difficoltà. Sembrava incredibile che, una volta in uniforme, le stesse persone potessero fucilare, uccidere col gas o ordinare la fucilazione e l'uccisione col gas di migliaia di altre persone, tra cui donne amate da altri e bambini coccolati da altri. Non era solo incredibile, ma anche terrificante. Come era possibile che individui normali come tanti altri avessero commesso simile azioni? Era certo che per qualche aspetto - magari piccolo, magari impercettibile - essi dovevano essere stati speciali, "diversi" da noi. Dovevano essere sicuramente sfuggiti all'influenza nob ilitante, umanizzante della nostra società illuminata, civilizzata. O, altrimenti, dovevano essere stati guastati, corrotti da qualche malsana o infelice combinazione di fattori educativi, che aveva prodotto in essi una personalità tarata, patologica. Dimostrare che queste supposizioni erano false sarebbe stato un duro colpo, non soltanto perché avrebbe distrutto l'illusione della sicurezza personale che la vita in una società civilizzata promette, ma anche per una ragione molto più pregnante: perché avrebbe messo in luce l'inguaribile fragilità di ogni immagine di sé moralmente virtuosa e di ogni coscienza limpida. A partire da quel momento, tutte le coscienze avrebbero dovuto ritenersi limpide solo fino a prova contraria.

"La novità più terribile rivelata dall'Olocausto e da ciò che si era appreso sui suoi esecutori non era costituita dalla probabilità che qualcosa di simile potesse essere fatto a noi, ma dall'idea che fossimo noi a poterlo fare". Stanley Milgram, uno psicologo americano dell'Università di Yale, si fece carico di questa eventualità terrificante quando imprudentemente si propose di verificare empiricamente alcune supposizioni formulate sulla spinta delle emozioni e destinate a restare indimostrate; ancora più imprudentemente, nel 1974 egli pubblicò i risultati della propria ricerca. Le conclusioni di Milgram erano decisamente univoche: sì, anche noi avremmo potuto farlo, e tuttora potremmo in presenza di determinate condizioni.

Non era facile accettare tali conclusioni. Non stupisce che l'opinione pubblica specializzata si scagliasse con violenza contro la ricerca di Milgram. Le tecniche da lui adottate furono analizzate al microscopio, sezionate, proclamate scorrette e persino vergognose, e infine condannate. Ad ogni costo e con tutti i mezzi, rispettabili e meno rispettabili, il mondo accademico tentò di screditare e disconoscere risultati che annunciavano il terrore là dove avrebbero dovuto regnare il compiacimento e la tranquillità mentale. Sono pochi gli episodi nella storia della scienza che gettano una luce più rivelatrice sulla presunta ricerca avalutativa della conoscenza e sulle motivazioni disinteressate della curiosità scientifica. «Sono convinto», disse Milgram in risposta ai suoi critici, «che gran parte delle critiche, consapevolmente o inconsapevolmente, deriva dai

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risultati dell'esperimento. Se tutti i soggetti esaminati si fossero tirati indietro al momento di somministrare la scossa debole o media» (vale a dire prima dello stadio in cui eseguire gli ordini previsti dall'esperimento significava cominciare a infliggere dolore e sofferenza alla persona che faceva da vittima), «il risultato sarebbe stato molto rassicurante; chi mai avrebbe protestato in questo caso?» (1). Milgram aveva ragione, naturalmente. E ha ragione tuttora. Dall'epoca dell'esperimento sono passati molti anni ma i suoi risultati, che avrebbero dovuto portare a una radicale revisione della nostra concezione dei meccanismi del comportamento umano, restano citati nella maggior parte dei corsi di sociologia come una curiosità, divertente ma non particolarmente illuminante, che non influisce sul "corpus" principale della cultura sociologica. Se non è possibile smentire tali risultati, è sempre possibile relegarli ai margini.

Le vecchie abitudini di pensiero sono dure a morire. Poco dopo la fine della guerra, un gruppo di studiosi guidato da Adorno pubblicò "La personalità autoritaria", un libro destinato a divenire un modello di ricerca e di teorizzazione per molti anni a venire. La particolare importanza del libro non era data dalle sue specifiche affermazioni - praticamente tutte furono in seguito messe in discussione e confutate -, ma dalla sua individuazione del problema e dalla strategia di ricerca che ne derivava. Questo contributo di Adorno e dei suoi colleghi, privo di riscontri empirici anche se in confortante consonanza con i desideri subconsci della platea accademica, si dimostrò molto più digeribile del lavoro di Milgram. Come suggerisce il titolo del libro, gli autori cercarono la spiegazione del regime nazista e delle atrocità che ne seguirono nell'esistenza di un particolare tipo di individuo: una personalità incline all'obbedienza con i forti e alla brutalità senza scrupoli, spesso crudele, con i deboli. Il trionfo dei nazisti doveva essere stato un esito dell'insolita accumulazione di personalità del genere. Ma gli autori non spiegano, né desiderano spiegare, perché ciò accadde. Essi evitano accuratamente l'analisi di tutti gli eventuali fattori sovraindividuali o extraindividuali che potessero produrre la personalità ; autoritaria; né si preoccupano della possibilità che tali fattori possano provocare un "comportamento" autoritario in individui altrimenti privi di una "personalità autoritaria". Per Adorno e i suoi colleghi il nazismo fu crudele perché furono crudeli i nazisti, e i nazisti furono crudeli perché le persone crudeli tendevano a diventare naziste. Come ammise uno dei membri del gruppo diversi anni più tardi, «"La personalità autoritaria" enfatizzava soltanto le potenziali determinanti del fascismo e dell'etnocentrismo a livello della personalità e sminuiva l'importanza delle contemporanee influenze sociali» (2). Il modo in cui Adorno e il suo gruppo articolarono il problema era importante non tanto per come venivano distribuite le colpe, ma per l'ottusità grazie alla quale tutto il resto dell'umanità ne usciva assolto. Il punto di vista di Adorno divideva il mondo in due parti: i protonazisti congeniti e le loro vittime. Veniva così soppressa l'oscura e sgradevole idea che molte persone gentili possano diventare all'occorrenza crudeli. Il sospetto che anche le vittime possano perdere buona parte della propria umanità sulla strada verso la perdizione fu bandito con una tacita proibizione, che arrivò a toccare l'assurdità nel ritratto dell'Olocausto fatto dalla televisione americana.

La ricerca di Milgram sfidò questa tradizione accademica e questa inclinazione dell'opinione pubblica, entrambe profondamente radicate, saldamente consolidate e rafforzatesi a vicenda. Particolare scalpore e collera suscitò la sua ipotesi che la crudeltà non venga commessa da persone crudeli, ma da uomini e donne comuni che cercano di assolvere nel modo migliore i propri normali compiti; e la conclusione che, "mentre la crudeltà risulta sì correlata, ma scarsamente, con le caratteristiche personali di chi la commette, appare invece correlata molto fortemente con il rapporto di autorità e subordinazione", con la normale, quotidiana struttura del potere e dell'obbedienza. «Un individuo che, a causa dei suoi profondi principi morali, non è capace di rubare, fare del male o uccidere, riesce a compiere tranquillamente queste azioni quando un'autorità glielo ordina» (3). Un comportamento impensabile in un individuo che agisce autonomamente può essere messo in atto senza esitazione in seguito a un ordine. È forse vero che alcuni individui sono spinti alla crudeltà da inclinazioni del tutto personali, senza esservi indotti da altri. Ma è certo che le

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caratteristiche personali non ci impediscono di commettere una crudeltà quando il contesto interattivo in cui ci troviamo ci spinge ad essere crudeli.

Ci sia consentito di rammentare che l'unico caso in cui tradizionalmente, seguendo Le Bon, si era soliti ammettere tale possibilità (quella, cioè, che azioni immorali vengano commesse da persone altrimenti oneste) era una situazione in cui i normali, civilizzati, razionali modelli di interazione umana fossero stati infranti: una folla tenuta insieme dall'odio o dal panico; un incontro casuale tra estranei, ciascuno dei quali strappato al suo normale contesto di vita e sospeso per un certo tempo nel vuoto sociale; una piazza urbana affollata da una moltitudine, in cui le grida di terrore sostituiscono gli ordini e la fuga precipitosa prende il posto dell'autorità nel decidere la direzione da prendere. Si riteneva che l'impensabile potesse accadere soltanto quando gli individui cessano di pensare: quando il coperchio della razionalità viene tolto dal calderone delle passioni umane presociali e non civilizzate. I risultati della ricerca di Milgram rovesciarono anche questa tradizionale immagine del mondo, secondo la quale l'umanità era completamente schierata dalla parte dell'ordine razionale, mentre la disumanità era esclusivamente legata all'occasionale collasso di tale ordine.

In breve, Milgram suggerì e dimostrò che "la disumanità è una questione riguardante i rapporti sociali. Se questi ultimi vengono razionalizzati e tecnicamente perfezionati, altrettanto avviene per la capacità e l'efficienza della produzione sociale della disumanità".

Può sembrare banale, ma non lo è. Prima degli esperimenti di Milgram poche persone - fossero esse specialisti o gente comune - avevano previsto ciò che il ricercatore americano avrebbe scoperto. Praticamente tutti gli individui maschi della classe media e tutti i competenti e rispettati professionisti della psicologia a cui Milgram chiese quali sarebbero stati i probabili risultati degli esperimenti erano sicuri che il 100 per cento dei soggetti avrebbe rifiutato di cooperare via via che cresceva la crudeltà delle azioni da compiere, e che la prova sarebbe stata interrotta in una fase relativamente precoce. In realtà, la percentuale delle persone che rifiutarono di proseguire l'esperimento si ridusse in determinate circostanze al 30 per cento. L'intensità dell'ipotetica scossa elettrica che esse si mostrarono disposte a somministrare era fino a tre volte più alta di quella che gli esperti qualificati, di comune accordo con il pubblico profano, furono capaci di immaginare.

- "La disumanità come funzione della distanza sociale".

Il risultato più sorprendente della ricerca di Milgram è forse il rapporto inversamente proporzionale tra la disponibilità a esercitare la crudeltà e la prossimità della vittima. È difficile fare del male a una persona tanto vicina da poterla toccare. È alquanto più facile infliggere dolore a qualcuno che vediamo soltanto da lontano. Ed è ancora più semplice nel caso di una persona che possiamo soltanto udire. Infine, è molto facile essere crudeli verso qualcuno che non vediamo né udiamo.

Se fare del male a una persona comporta un contatto corporeo diretto, chi infligge quel male ha lo svantaggio di vedere il legame causale tra la propria azione e la sofferenza della vittima. Tale legame risulta palese e ovvio, e così anche la responsabilità della sofferenza inflitta. Quando ai soggetti che parteciparono agli esperimenti di Milgram fu detto di premere la mano della vittima sulla piastra attraverso cui veniva somministrata un'ipotetica scossa elettrica, soltanto il 30 per cento di essi continuò ad eseguire l'ordine fino alla fine dell'esperimento. Ma quando fu detto loro non di afferrare la mano della vittima, bensì di muovere i comandi del quadro di controllo, la percentuale di coloro che obbedirono salì al 40 per cento. E quando le vittime vennero nascoste dietro una parete, così che si potevano soltanto udire le loro grida angosciate, il numero dei soggetti disposti ad «arrivare fino in fondo» balzò al 62,5 per cento. L'eliminazione del sonoro non fece salire di

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molto questa percentuale: solo fino al 65 per cento. Sembra dunque che i nostri sentimenti passino per lo più attraverso gli occhi. Quanto maggiore era la distanza fisica e psicologica dalla vittima, tanto più facile risultava essere crudeli. La conclusione di Milgram è semplice e convincente:

"Ogni forza o ogni avvenimento che s'interpone fra soggetto e conseguenze delle scosse da lui inviate alla vittima... determinerà una diminuzione della tensione del partecipante riducendo in tal modo la disobbedienza. Nella società moderna, fra noi e un atto offensivo a cui indirettamente partecipiamo si trovano spesso altre persone interposte" (4).

In effetti, mediare l'azione, suddividerla in fasi definite e specificate dalla gerarchia del sistema di autorità, e frazionarla trasversalmente mediante specializzazioni funzionali è uno dei principali e più orgogliosamente celebrati successi della nostra società razionale. Il significato della scoperta di Milgram sta in questo: il processo di razionalizzazione facilita, per sua natura e irreparabilmente, comportamenti che sono disumani e crudeli nelle loro conseguenze, se non nelle loro intenzioni. "Quanto più razionale è l'organizzazione dell'azione, tanto più facile è causare sofferenza", e rimanere m pace con se stessi.

La ragione per cui la separazione della vittima rende più facile la crudeltà sembra psicologicamente ovvia: all'esecutore viene risparmiata l'angoscia di vedere l'esito delle proprie azioni. Egli può addirittura indursi a credere che non è accaduto niente di veramente disastroso, placando così i morsi della coscienza. Ma questa non è l'unica spiegazione. Di nuovo, le ragioni non sono solo psicologiche. Come tutto ciò che veramente spiega la condotta umana, esse sono anche sociali.

"Mettendo la vittima in un'altra stanza, non soltanto la si allontana dal soggetto, ma si produce un avvicinamento relativo fra soggetto e sperimentatore. Si viene così a formare una situazione di gruppo da cui la vittima è esclusa... Nell'esperimento a distanza, la vittima è un estraneo totale, isolato fisicamente e psicologicamente" (5).

La solitudine della vittima non è soltanto una questione di separazione fisica. È una funzione dell'unione tra coloro che la tormentano, e del suo essere esclusa da tale unione. La vicinanza fisica e la continua cooperazione (anche per un periodo di tempo relativamente breve: con nessuno dei soggetti l'esperimento durò più di un'ora) tendono a sfociare in un sentimento di gruppo, con quegli obblighi e quelle solidarietà reciproci che esso normalmente porta con sé. Questo sentimento di gruppo è prodotto dall'azione comune e in particolare dalla complementarità delle azioni individuali, qualora A risultato sia raggiunto attraverso uno sforzo condiviso. Negli esperimenti di Milgram l'azione univa il soggetto allo sperimentatore e contemporaneamente separava entrambi dalla vittima. In nessuna occasione a quest'ultima fu affidato il ruolo di attore, di agente, di soggetto. Al contrario, essa era sempre dalla parte di chi subisce. Senza ambiguità possiamo dire che veniva trasformata in "oggetto" e, a quanto pare, non importa molto che gli oggetti di un'azione siano umani o inanimati. La solitudine della vittima e l'unione di coloro che la tormentavano si condizionavano e confermavano a vicenda.

"L'effetto della distanza fisica e puramente psicologica, pertanto, viene ulteriormente accentuato dalla natura collettiva dell'azione lesiva". Anche senza tener conto degli ovvi vantaggi che l'economia e l'efficienza dell'azione traggono dalla sua organizzazione e gestione razionale, al semplice fatto che l'oppressore appartenga ad un gruppo deve essere presumibilmente attribuito un ruolo di estremo rilievo nel facilitare l'esecuzione di atti di crudeltà. Una parte considerevole dell'efficienza burocratica, rigida ed insensibile, potrebbe essere dovuta a fattori diversi dallo schema razionale della divisione del lavoro e dalla catena di comando, cioè all'abile - e non necessariamente deliberato o pianificato - sfruttamento della tendenza spontaneamente aggregante all'azione cooperativa, una tendenza sempre accoppiata alla demarcazione dei confini e all'esclusione degli estranei. L'organizzazione burocratica, grazie alla sua autorità sul reclutamento

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dei propri membri e sulla definizione dei propri obiettivi, riesce a controllare l'esito di tale tendenza e a fare in modo che essa conduca a una spaccatura sempre più profonda e incolmabile tra gli attori (cioè i membri dell'organizzazione) e gli oggetti dell'azione. Ciò rende molto più facile la trasformazione degli attori in persecutori, e degli oggetti in vittime.

- "La complicità con le proprie azioni".

Chiunque sia inavvertitamente entrato in una palude sa fin troppo bene che togliersi d'impiccio è difficile soprattutto perché ogni sforzo per uscirne fa sì che si sprofondi sempre di più nella melma. È addirittura possibile definire una palude come un tipo di ingegnoso sistema strutturato in modo tale che ogni movimento compiuto da chi vi si trova immerso aumenta sempre la «capacità di risucchio» del sistema stesso.

Le azioni sequenziali sembrano possedere la stessa qualità. La misura in cui un attore risulta vincolato a perpetuare l'azione, e trova difficile sganciarsene, tende a crescere ad ogni stadio successivo della sequenza. I primi gradini sono agevoli e richiedono, eventualmente, un minimo di travaglio morale. I gradini che seguono sono sempre più gravosi. Infine, affrontarli diventa insopportabile. Ma a quel punto è cresciuto anche il costo del ritiro. In questo modo la spinta a interrompere l'azione risulta debole quando anche gli ostacoli al ritiro sono fragili o inesistenti. Via via che la spinta al ritiro si intensifica, gli ostacoli da essa incontrati diventano abbastanza forti da bilanciarla. Quando l'attore è sopraffatto dal desiderio di sganciarsi, di solito è troppo tardi per farlo. Milgram ha citato l'"azione sequenziale" tra i principali «fattori vincolanti», quei fattori che legano il soggetto alla situazione in cui si trova. Si è tentati di attribuire la forza di questo particolare fattore vincolante all'"influenza determinante delle azioni compiute in passato dallo stesso soggetto".

Sabini e Silver ci hanno offerto una brillante e convincente descrizione di questo meccanismo:

"I soggetti affrontano l'esperimento essendosi in qualche modo impegnati a cooperare con lo sperimentatore; dopotutto, essi hanno accettato di partecipare, hanno ricevuto del denaro e probabilmente aderiscono in una certa misura agli obiettivi del progresso scientifico. (Ai soggetti di Milgram fu detto che avrebbero preso parte a uno studio che si proponeva di scoprire i modi per rendere più efficiente l'apprendimento.) Quando l'allievo compie il suo primo errore, i soggetti ricevono l'ordine di somministrargli una scossa elettrica. L'intensità della scossa è di 15 volt. Una scossa di 15 volt è del tutto innocua, impercettibile. A questo livello non si pone nessuna questione morale. Naturalmente la scossa successiva è ; più forte, ma solo di poco. In effetti, ogni scossa è soltanto appena più forte della precedente. Qualitativamente, l'azione compiuta dal soggetto si trasforma da qualcosa di completamente innocente in un comportamento senza scrupoli, ma per gradi. A che punto, esattamente, dovrebbe fermarsi il soggetto? Dove si trova il confine tra i due tipi di azione? Come fa a saperlo il soggetto? È facile vedere che deve esistere una linea di demarcazione, ma non è facile vedere dove dovrebbe essere".

Il fattore più importante del processo, tuttavia, sembra essere il seguente:

"... se il soggetto decide che non è accettabile somministrare la scossa successiva, di volta in volta appena più forte della precedente, come giustificare allora quella che ha appena somministrato? Negare la correttezza dell'azione che è sul punto di compiere significa mettere in discussione la correttezza di quella che ha appena compiuto, il che mette in dubbio la stessa posizione morale del soggetto. Quest'ultimo viene intrappolato dal proprio graduale impegno nell'esperimento" (6).

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Nel corso di un'azione sequenziale l'attore diventa schiavo delle proprie azioni precedenti. Questa presa su di lui sembra molto più forte di altri fattori vincolanti. Certamente supera fattori che all'inizio della sequenza apparivano molto più importanti e giocavano un ruolo veramente decisivo. In particolare, il rifiuto di riconsiderare (e condannare) la propria condotta precedente continua ad essere uno stimolo fondamentale - e di intensità crescente - a proseguire nell'azione molto dopo che l'originaria dedizione alla «causa» si è pressoché spenta. I fluidi e impercettibili passaggi da un gradino all'altro attirano il soggetto nella trappola; la trappola è costituita dall'impossibilità di smettere senza rivedere e respingere la valutazione delle proprie azioni come corrette o quantomeno innocenti. La trappola è, in altre parole, un paradosso: "è impossibile uscirne puliti senza sporcarsi". Per nascondere la sporcizia bisogna immergersi per sempre nel fango.

Questo paradosso potrebbe essere una motivazione del ben noto fenomeno della solidarietà tra complici. Niente vincola le persone l'una all'altra più della responsabilità condivisa di un atto da esse riconosciuto come criminale. Il senso comune spiega questo tipo di solidarietà con il naturale desiderio di sfuggire alla punizione; le analisi condotte sul famoso «dilemma del prigioniero» in base alla teoria dei giochi ci insegnano anche che (se nessuno confonde la posta in palio) dare per scontata la solidarietà del resto della squadra è la decisione più razionale che ciascuno dei suoi membri possa prendere. Potremmo chiederci, tuttavia, in che misura la solidarietà dei complici sia determinata e rafforzata dal fatto che probabilmente soltanto i membri della squadra originariamente impegnata nell'azione sequenziale agiranno in modo da negare il paradosso e da offrire, di comune accordo, qualche credibilità alla convinzione della legittimità delle azioni precedenti, nonostante la crescente evidenza del contrario. Suggeriamo, pertanto, che un altro «fattore vincolante» citato da Milgram, quello costituito dagli "obblighi situazionali", sia, in buona misura, un derivato del primo, cioè del "paradosso dell'azione sequenziale".

- "La moralizzazione della tecnologia".

Una delle caratteristiche più interessanti del sistema burocratico di autorità è data dalla scarsa probabilità che la discutibilità morale di un'azione venga scoperta e che, una volta scoperta, si trasformi in un penoso dilemma morale. In una burocrazia le preoccupazioni morali dei funzionari evitano di concentrarsi sulla condizione degli oggetti dell'azione. Esse sono forzosamente orientate in un'altra direzione: il lavoro da fare e la qualità della sua esecuzione. La situazione e i sentimenti dei «destinatari» dell'azione hanno scarsa importanza. Importanti sono l'abilità e l'efficienza con cui l'attore esegue ciò che i suoi superiori gli hanno detto di eseguire. A questo proposito i superiori rappresentano l'autorità naturale più competente. Tale circostanza rafforza ulteriormente la presa che i superiori hanno sui propri subordinati. Oltre a dare ordini e a punire l'insubordinazione, essi emettono anche giudizi morali, gli unici giudizi morali che contano per l'autoapprezzamento di ciascun attore.

Come i commentatori hanno ripetutamente sottolineato, i risultati degli esperimenti di Milgram potrebbero essere stati influenzati dalla convinzione che l'azione fosse richiesta nell'interesse della "scienza", la quale costituisce senza dubbio un'autorità di alto livello, raramente contestata e generalmente investita di valore morale. Ciò che non viene messo in luce, tuttavia, è il fatto che l'opinione pubblica consente alla scienza, più che ad ogni altra autorità, di adottare il principio, altrimenti odioso, secondo cui il fine giustifica i mezzi. La scienza vale come massimo esempio della dissociazione tra fini e mezzi, che fa da ideale all'organizzazione razionale della condotta umana: sono i fini ad essere soggetti alla valutazione morale, non i mezzi. Alle manifestazioni di angoscia morale dei partecipanti, gli sperimentatori continuavano a rispondere con una tranquilla, ripetitiva e insulsa formula: «Non verrà causato nessun danno permanente ai tessuti». La maggioranza dei partecipanti era fin troppo lieta di accettare questa replica consolante e non

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rifletteva sulle possibilità che la formula lasciava aperte (prima tra tutte l'accettabilità morale di un danno temporaneo ai tessuti o, semplicemente, dell'angoscia provocata dalla sofferenza). Ciò che importava ai loro occhi era l'assicurazione che un qualche detentore di una «posizione elevata» aveva stabilito che cos'è e che cosa non è moralmente accettabile.

All'interno del sistema burocratico di autorità, il linguaggio della morale acquista un nuovo vocabolario. Viene riempito di concetti come lealtà, dovere, disciplina: concetti che indicano invariabilmente i superiori come l'oggetto supremo della preoccupazione morale e, contemporaneamente, come la più alta autorità morale. Tutti questi concetti, non per nulla, convergono: lealtà significa esecuzione di un dovere così come risulta definito dal codice di disciplina. Convergendo e rafforzandosi a vicenda, essi accrescono il proprio potere come precetti morali, fino a svuotare e mettere da parte ogni altra considerazione morale, e in particolare le questioni etiche estranee alla preoccupazione autoriproduttiva del sistema di autorità. Essi si appropriano di tutti i normali strumenti sociopsicologici di autoregolazione morale, monopolizzandoli e sfruttandoli a vantaggio della burocrazia. Nelle parole di Milgram, «la persona subordinata prova vergogna o orgoglio a seconda di come svolge i compiti assegnatigli dall'autorità... Il Super Io non svolge più la funzione di giudicare se un'azione è buona o cattiva, ma si limita ad accertare se una persona funziona più o meno bene nel sistema di autorità» (7).

Ne consegue che, al contrario di quanto sostiene un diffuso punto di vista, un sistema burocratico di autorità non combatte contro le norme morali in quanto tali, e non le mette da parte come pressioni fondamentalmente irrazionali, affettive, che contraddicono la fredda razionalità di un'azione autenticamente efficiente. Il sistema burocratico, invece, utilizza le norme morali o, piuttosto, le ricicla. "La duplice impresa della burocrazia consiste nella mobilitazione della tecnologia, affiancata dalla negazione del significato morale delle questioni che esulano dal campo tecnologico". Di un'azione è l'aspetto tecnologico, non quello sostanziale, che viene giudicato buono o cattivo, appropriato o inappropriato, giusto o sbagliato. La coscienza dell'attore gli dice di fornire una buona prestazione e lo spinge a misurare la propria correttezza in funzione dello zelo con cui rispetta le norme organizzative e della dedizione al compito affidatogli dai suoi superiori. Ciò che teneva a bada l'altra, «vecchia», coscienza nei partecipanti agli esperimenti di Milgram, e che di fatto arrestava il loro impulso a interrompere la prova, era la "coscienza sostitutiva" costruita dagli sperimentatori facendo appello agli «interessi della ricerca» o alle «necessità dell'esperimento» e prospettando i danni che una sua prematura interruzione avrebbe causato. Nel caso degli esperimenti di Milgram la coscienza sostitutiva venne costruita in poco tempo (nessuna prova durò più di un'ora), e tuttavia si dimostrò sorprendentemente efficace.

Non c'è dubbio che la sostituzione della morale sostanziale con quella della tecnologia fu più facile grazie allo spostamento dell'equilibrio tra la prossimità del soggetto al destinatario dell'azione e la sua prossimità alla fonte di autorità dell'azione. Con straordinaria coerenza gli esperimenti di Milgram dimostrarono la dipendenza diretta tra l'efficacia di tale sostituzione e la lontananza (tecnica, più che fisica) del soggetto dagli effetti finali della propria azione. Un esperimento, ad esempio, rivelò che, quando «al soggetto non veniva richiesto di premere il pulsante della scossa, ma soltanto di compiere un atto sussidiario... mentre un altro soggetto azionava il generatore..., su 40 adulti... 37 hanno proseguito finché la vittima aveva ricevuto tutte le scosse del generatore» (8) (di cui l'ultima contrassegnata sul quadro di controllo con la scritta «molto pericoloso - X X»). Secondo la conclusione dello stesso Milgram, è psicologicamente facile ignorare la propria responsabilità quando si è soltanto un anello intermedio nella catena di un'azione immorale e si è lontani dagli esiti finali dell'azione stessa. Agli occhi di un tale soggetto intermedio, le operazioni che egli compie appaiono di natura tecnica, per così dire, ad entrambe le estremità della catena. L'effetto immediato della sua azione è l'innesco di un altro compito tecnico: compiere un'operazione che ha per oggetto un apparato elettrico o un foglio di carta sulla scrivania. Il legame causale tra l'azione e la sofferenza della vittima viene offuscato e può essere ignorato con uno sforzo

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relativamente piccolo. In questo modo il «dovere» e la «disciplina» non devono affrontare nessun serio antagonista.

- "La libera fluttuazione della responsabilità".

Negli esperimenti di Milgram il sistema di autorità era semplice e composto da pochi gradini. La fonte di autorità - lo sperimentatore - di fronte a cui si trovava il soggetto era il massimo rappresentante del sistema, anche se il soggetto stesso poteva non esserne consapevole (dal suo punto di vista lo sperimentatore agiva come intermediario: il suo potere gli era delegato dalla più alta, generalizzata e impersonale autorità della «scienza» o della «ricerca»). La semplicità della situazione sperimentale si rifletteva nella chiarezza dei risultati. Era evidente che il soggetto attribuiva allo sperimentatore l'autorità legittimatrice della propria azione; e in effetti tale autorità (l'autorità finale, quella che non richiede autorizzazione o sostegno da parte di qualcuno collocato più in alto nella gerarchia del potere) risiedeva appunto negli ordini dello sperimentatore. Al centro dell'attenzione, pertanto, c'era la disponibilità del soggetto a rinunciare alla responsabilità di ciò che faceva, e in particolare di ciò che si apprestava a fare. Questa disponibilità - l'attribuzione allo sperimentatore del diritto di richiedere cose che il soggetto non avrebbe fatto di propria iniziativa, addirittura di cose che non avrebbe fatto in nessun altro caso - era decisiva. Forse tale attribuzione scaturiva dall'idea che, in virtù di qualche oscura logica, ignota e imperscrutabile da parte del soggetto, le cose richiestegli dallo sperimentatore fossero giuste anche se sembravano sbagliate ai non iniziati; forse a questa logica non veniva dedicata nessuna riflessione, in quanto la volontà della persona autorizzata non aveva bisogno di alcuna legittimazione agli occhi del soggetto: il diritto di impartire ordini e il dovere di obbedire erano sufficienti. Ciò che sappiamo con certezza, grazie a Milgram, è che i soggetti dei suoi esperimenti continuarono a commettere azioni da essi riconosciute come crudeli unicamente perché ricevevano l'ordine di farlo da un'autorità che accettavano e a cui attribuivano la responsabilità ultima delle proprie azioni. «Questi studi confermano un punto essenziale: il fattore decisivo è la risposta all'autorità e non la risposta all'ordine specifico di inviare una scossa. Gli ordini la cui origine è estranea all'autorità perdono tutto il loro potere... Quello che conta non è tanto quello che i soggetti fanno, ma la persona per cui essi lo fanno» (9). Gli esperimenti di Milgram rivelarono il meccanismo che consente di "scaricare la responsabilità", nella sua forma pura, originaria ed elementare.

Una volta scaricata la propria responsabilità riconoscendo al superiore il diritto di impartire ordini, l'attore precipita in uno «stato eteronomico» ("agentic state") (10), una condizione in cui vede se stesso come esecutore dei desideri di un'altra persona. Lo stato eteronomico è il contrario dello stato di autonomia. In più, esso implica un'autodefinizione dell'attore come esecutore e l'esatta localizzazione delle fonti esterne del suo comportamento - le forze che stanno dietro la sua "eterodirezione" - in un punto specifico di una gerarchia istituzionalizzata. Nello stato eteronomico l'attore è in piena consonanza con la situazione così come viene definita e controllata dall'autorità superiore: tale definizione della situazione include la descrizione dell'attore come agente dell'autorità.

Scaricare la responsabilità, tuttavia, è un vero e proprio atto elementare, una singola unità o componente di un processo complesso. È un fenomeno che ha luogo nello spazio ristretto tra due membri del sistema di autorità, un attore e il suo immediato superiore. Gli esperimenti di Milgram, per la semplicità della loro struttura, non potevano delineare le ulteriori conseguenze del meccanismo che permette di scaricare la responsabilità. In particolare, avendo intenzionalmente puntato il microscopio sulle cellule di base di organismi complessi, essi non potevano porre domande concernenti l'intero organismo, come la seguente: quale sarà la probabile natura di

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un'organizzazione burocratica una volta che l'azione di scaricare la responsabilità abbia luogo costantemente a tutti i livelli della gerarchia?

Possiamo supporre che l'effetto complessivo di questo continuo e generalizzato scaricare la responsabilità sia una "libera fluttuazione della responsabilità" stessa, una situazione in cui ciascun membro dell'organizzazione è convinto - e se interrogato risponderebbe - di essersi attenuto alle istruzioni ricevute da altri, i quali però, a propria volta, passerebbero l'onere della responsabilità ad altri ancora. In una situazione del genere si può dire che "l'organizzazione nel suo complesso è uno strumento per la cancellazione della responsabilità". I legami causali tra azioni coordinate vengono mascherati, il che costituisce precisamente uno dei fattori più potenti della loro efficacia. La perpetuazione collettiva di azioni crudeli viene resa molto più facile dal fatto che la responsabilità non può essere attribuita ad alcuno, mentre tutti coloro che partecipano a tali azioni sono convinti che essa ricada su una qualche «autorità adeguata». Ciò significa che sottrarsi alla responsabilità non è soltanto uno stratagemma "a posteriori", usato come comoda scusa nel caso in cui vengano sollevate accuse di immoralità, o peggio ancora di illegittimità, di un'azione; la responsabilità liberamente fluttuante, disancorata, è la condizione stessa delle azioni immorali o illegittime che hanno luogo grazie all'obbedienza, o anche alla partecipazione intenzionale, di individui normalmente incapaci di infrangere le norme della morale convenzionale. Libera fluttuazione della responsabilità significa in pratica che l'autorità morale come tale è stata resa inoperante senza essere stata sfidata o negata.

- "Pluralismo del potere e potere della coscienza".

Come tutti gli esperimenti, gli studi di Milgram furono condotti in un ambiente artificiale, appositamente allestito. Esso differiva dal contesto della vita quotidiana per due importanti aspetti. In primo luogo, il legame dei soggetti con l'«organizzazione» era di breve durata e "ad hoc", ed era noto in anticipo che sarebbe stato tale: il soggetto veniva coinvolto per un'ora e soltanto per un'ora.

In secondo luogo, nella maggior parte degli esperimenti i soggetti venivano a contatto con un solo superiore, il quale agiva in maniera del tutto risoluta e coerente, affinché i soggetti percepissero il potere che autorizzava la loro condotta come monolitico e totalmente certo dello scopo e del significato della loro azione. Nessuna di queste due condizioni si riscontra di frequente nella vita normale. È necessario valutare, pertanto, se e in che misura esse possano aver influenzato il comportamento dei soggetti in un modo che non ci si può attendere in circostanze normali.

Cominciamo con il primo dei due punti in questione. L'influenza dell'autorità così convincentemente dimostrata da Milgram sarebbe stata, semmai, anche più profonda se i soggetti fossero stati certi della permanenza del proprio legame con l'organizzazione rappresentata da quell'autorità o, quantomeno, convinti del fatto che la possibilità di tale permanenza era reale. In questo caso sarebbero entrati a far parte della situazione fattori addizionali assenti per ovvie ragioni dall'esperimento: fattori come la solidarietà e i sentimenti di obbligo reciproco (che «impediscono di lasciare gli altri in difficoltà»), i quali hanno molte probabilità di svilupparsi tra i membri di un gruppo che lavorano insieme e affrontano gli stessi problemi per un lungo periodo di tempo; fattori come la "reciprocità ; diffusa" (i servizi resi spontaneamente ad altri membri del gruppo, nella speranza - se non altro semi-consapevole - di riceverli in cambio in un futuro imprecisato, o semplicemente intesi a creare una disposizione d'animo favorevole in un collega o in un superiore che, a sua volta, potrebbe rivelarsi in qualche modo utile in futuro); e, quel che più conta, fattori come la routine (una sequenza abituale di comportamenti, che rende il calcolo e la scelta superflui e perciò fa sì che i modelli di azione prefissati siano praticamente inattaccabili anche in assenza di ulteriori procedure di rafforzamento). Sembra estremamente probabile che questi e simili fattori

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rendano semplicemente più marcate le tendenze osservate da Milgram: tali tendenze, infatti, scaturiscono dal rapporto con un'autorità legittima, e i fattori elencati più sopra accrescono sicuramente questa legittimità, che può soltanto aumentare in un arco di tempo abbastanza lungo da consentire lo sviluppo di una tradizione e l'emergere di modelli informali pluridimensionali di scambio tra i membri del gruppo.

Il secondo scostamento dalle condizioni normali, tuttavia, potrebbe aver influenzato le reazioni all'autorità in un modo che non ci si può attendere nella vita quotidiana. Nelle condizioni artificiali attentamente controllate da Milgram esisteva una sola fonte di autorità e nessun altro punto di riferimento di uguale importanza (o anche soltanto una diversa opinione anonima) con cui il soggetto potesse confrontare l'ordine ricevuto, in modo da sottoporre la sua validità a qualcosa di simile a un test oggettivo. Milgram era pienamente consapevole della possibilità di distorsione che un tale carattere monolitico dell'autorità necessariamente comportava. Per portare alla luce l'ampiezza della distorsione, egli aggiunse al progetto un certo numero di esperimenti in cui i soggetti si trovavano di fronte a più di uno sperimentatore, e gli sperimentatori dovevano mostrarsi apertamente in disaccordo fra loro a proposito degli ordini da impartire. Il risultato fu davvero sorprendente: l'obbedienza servile osservata negli altri esperimenti svanì senza lasciare traccia. I soggetti non erano più disposti a compiere azioni che non approvavano, e sicuramente non sarebbero stati indotti ad infliggere dolore neanche a vittime sconosciute. Dei venti soggetti sottoposti a questo esperimento addizionale, uno si ritirò prima che si manifestasse il disaccordo inscenato tra i due sperimentatori, diciotto si rifiutarono di collaborare ulteriormente al primo segno di disaccordo, e l'ultimo andò avanti soltanto per uno stadio ancora. «È evidente che il disaccordo fra le autorità paralizza completamente l'azione» (11).

Il significato di questa correzione è inequivocabile: "la disponibilità ad agire contro il proprio giudizio e contro la voce della propria coscienza non è semplicemente una funzione degli ordini emanati dall'autorità, ma il risultato del rapporto con una fonte di autorità risoluta, univoca e monopolistica". Tale disponibilità ha maggiori probabilità di manifestarsi all'interno di un'organizzazione che non ammette nessuna opposizione e non tollera nessuna autonomia, e in cui la gerarchia lineare di subordinazione non prevede eccezioni: un'organizzazione nella quale non esistono due membri di uguale potere. (La maggior parte degli eserciti, delle istituzioni carcerarie, dei partiti e movimenti totalitari, di certi tipi di collegi si avvicina a questo tipo ideale.) Un'organizzazione del genere può essere efficiente se si comporta in uno dei due modi seguenti: essa può isolare i propri membri dal resto della società, avendo acquisito o usurpato un controllo indiscusso sulla maggior parte o la totalità delle loro attività e dei loro bisogni (avvicinandosi così al modello di "istituzione totale" sviluppato da Goffman), così da eliminare la possibile influenza di fonti di autorità concorrenziali; oppure può essere semplicemente uno degli apparati di uno stato totalitario o quasi totalitario, che trasforma ogni sua istituzione in un'immagine speculare di tutte le altre.

Nelle parole di Milgram, «soltanto quando si ha... un'autorità che... opera in un settore libero, in cui l'unica pressione contrastante sia la resistenza della vittima, si ottiene una risposta all'autorità allo stato puro. Nella vita reale, ovviamente, ci si trova di fronte a una grande quantità di pressioni contrastanti che si cancellano a vicenda» (12). Ciò che Milgram deve aver inteso parlando di «vita reale» ; è la vita all'interno di una società democratica e al di fuori di un'istituzione totale: ancora più precisamente, la vita in condizioni di pluralismo. Dall'intera serie degli esperimenti di Milgram si evince una conclusione di estrema importanza: "il pluralismo è la migliore medicina preventiva contro la possibilità che individui moralmente normali commettano azioni moralmente anormali". I nazisti dovettero distruggere quanto sopravviveva del pluralismo politico prima di poter mettere in atto progetti come quello dell'Olocausto, che richiedevano come risorsa necessaria la prevista disponibilità della gente comune a compiere azioni immorali e disumane. Nell'Unione Sovietica la sistematica distruzione dei reali o presunti avversari del sistema cominciò effettivamente solo dopo

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che erano stati estirpati i residui dell'autonomia sociale, e con essi quelli del pluralismo politico che ne era un riflesso. A meno che il pluralismo non sia stato eliminato a livello della società nel suo complesso, le organizzazioni aventi scopi criminali, che hanno bisogno di garantirsi l'infaticabile obbedienza dei propri membri nell'esecuzione di azioni palesemente immorali, sono gravate dal compito di erigere solide barriere artificiali che isolino quei membri dall'influenza «moderatrice» della diversità dei valori e delle opinioni. "La voce della coscienza morale individuale si ode meglio nel rumore della discordanza politica e sociale".

- "La natura sociale del male".

Le conclusioni derivanti dagli esperimenti di Milgram possono per lo più essere viste come variazioni su un tema centrale: la crudeltà è correlata a certi modelli di interazione sociale molto più strettamente che ai tratti della personalità o ad altre caratteristiche individuali di coloro che la commettono. L'origine della crudeltà è più sociale che legata al carattere. È certo che alcuni individui tendono ad essere crudeli se calati in un contesto che disarma le pressioni morali e legittima la disumanità.

Se, dopo Milgram, fossero sopravvissuti dubbi in proposito, è probabile che essi svaniscano una volta esaminati attentamente i risultati di un altro esperimento, condotto da Philip Zimbardo (13). Da tale esperimento è stato eliminato anche il potenziale fattore di disturbo costituito dall'autorità di un'istituzione universalmente riverita (la scienza), impersonata dalla figura dello sperimentatore. Nell'esperimento di Zimbardo non c'era nessuna riconosciuta autorità esterna pronta a liberare il soggetto dal peso della responsabilità. Tutta l'autorità che agiva nel contesto sperimentale emanava dai soggetti stessi. Zimbardo si limitò ad innescare il processo, distribuendo i soggetti tra diverse posizioni all'interno di un modello codificato d'interazione.

Nell'esperimento in questione (che avrebbe dovuto durare due settimane, ma fu interrotto dopo una soltanto, per il timore di danni irreparabili al corpo e alla psiche dei soggetti) i volontari erano stati suddivisi a caso in prigionieri e guardie carcerarie. Ad entrambi i gruppi furono dati dei simboli di riconoscimento della rispettiva posizione. I prigionieri, ad esempio, portavano parrucche che simulavano un cranio rasato e indumenti che li facevano apparire ridicoli. Le guardie ebbero uniformi e occhiali scuri che impedivano ai prigionieri di guardarle negli occhi. A nessuno era consentito di chiamare per nome un membro dell'altro gruppo: la regola era una rigida impersonalità dei rapporti. C'era poi una lunga lista di piccole norme che invariabilmente umiliavano i prigionieri e h privavano della propria dignità umana. Questo era il punto di partenza. Ciò che seguì superò di gran lunga l'immaginazione degli ideatori. L'iniziativa delle guardie (individui maschi in età universitaria selezionati a caso, ma in modo che non presentassero il minimo segno di anormalità) non conobbe restrizioni. Entrò in funzione una vera e propria «catena schismogenetica», a suo tempo ipotizzata da Gregory Bateson. L'artificiale superiorità delle guardie si rifletteva nella remissività dei prigionieri, che a sua volta invitava le guardie a ulteriori dimostrazioni del proprio potere, le quali poi provocavano puntualmente un'accentuata autoumiliazione dei prigionieri. Le guardie costrinsero i prigionieri a ca ntare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine con le mani nude; più si comportavano in questo modo, più sembravano convinte della natura non umana dei prigionieri, e meno si sentivano vincolate nell'escogitare e mettere in atto misure di una disumanità sempre più spaventosa.

L'improvvisa trasformazione di amabili e gentili ragazzi americani in individui simili a mostri del tipo di quelli che presumibilmente dovrebbero trovarsi solo in luoghi come Auschwitz o Treblinka è terrificante. Ma è anche sconcertante. Essa ha indotto alcuni osservatori a ipotizzare che nella

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maggior parte delle persone, se non in tutti noi, vive un piccolo seguace delle S.S. che attende di venire allo scoperto (Amitai Etzioni ha suggerito che Milgram. abbia scoperto l'«Eichmann latente» nascosto nell'individuo normale) (14). John Steiner ha coniato il concetto del "dormiente" per designare la capacità di essere crudeli, che normalmente rimane in letargo, ma talvolta è capace di risvegliarsi.

"Il fenomeno del dormiente si riferisce alla caratteristica latente della personalità di individui inclini alla violenza come gli autocrati, i tiranni o i terroristi, nel momento in cui le chiavi adatte spalancano determinate porte. A quel punto il dormiente viene risvegliato dallo stadio normativo del comportamento e le caratteristiche tendenzialmente violente della sua personalità, che prima erano in letargo, vengono attivate. In un certo senso, tutte le persone sono dormienti nella misura in cui posseggono un potenziale di violenza che in determinate condizioni può essere innescato" (15).

È del tutto evidente, però, che l'orgia di crudeltà da cui Zimbardo e i suoi colleghi furono colti di sorpresa scaturiva dal contesto sociale e non dalla malvagità dei partecipanti. Se i ruoli dei soggetti dell'esperimento fossero stati invertiti, il risultato complessivo non sarebbe cambiato. Ciò che importava era l'esistenza di una polarità, e non chi ne occupava gli estremi. "Ciò che davvero importava era il fatto che ad alcune persone fosse dato un potere totale, esclusivo e incontrollato su altre persone". Ammesso che vi sia un dormiente in ciascuno di noi, è possibile che esso resti in letargo per sempre se non viene a crearsi una situazione del genere. E noi non sapremmo mai nulla della sua esistenza.

A quanto sembra, il punto principale della questione sta nella facilità con cui la maggior parte delle persone scivola nel ruolo che richiede la crudeltà o quantomeno la cecità morale, purché quel ruolo sia stato debitamente rafforzato e legittimato da un'autorità superiore. Data l'incredibile frequenza con cui questo «scivolamento nel ruolo» è avvenuto in tutti gli esperimenti noti, il concetto del «dormiente» non sembra essere altro che un artificio metafisico. In realtà, non ne abbiamo bisogno per spiegare la massiccia conversione alla crudeltà. Esso, però, ha una sua pregnanza in quei casi, relativamente rari, in cui gli individui hanno trovato la forza e il coraggio di "resistere" agli ordini dell'autorità e, avendoli giudicati contrari alle proprie convinzioni, si sono rifiutati di eseguirli. Alcune persone comuni, rispettose della legge, modeste, non ribelli e non avventurose, si sono opposte ai detentori del potere e, senza pensare alle conseguenze, hanno dato la priorità alla propria coscienza, esattamente come hanno fatto quei pochi, dispersi e solitari individui che sfidarono un potere senza limiti e scrupoli, e rischiarono la morte tentando di salvare le vittime dell'Olocausto. Sarebbe inutile cercare le «determinanti» sociali, politiche o religiose della loro unicità. La loro coscienza morale, assopita in assenza di una occasione per mobilitarsi, ma risvegliatasi al momento dovuto, costituiva a tutti gli effetti un attributo e una dote personale, a differenza dell'immoralità, che doveva essere socialmente prodotta.

La loro capacità di resistere al male era rimasta «dormiente» per la maggior parte della loro vita. Avrebbe potuto restare addormentata per sempre, e in tal caso non sapremmo nulla di essa. Ma scoprire di essere stati ignoranti a questo riguardo non dovrebbe rammaricarci.

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NOTE AL CAPITOLO SESTO.

(1). S. Milgram, "The Individual in a Social World", Reading, Mass., Addison & Wesley, 1971, p. 98.

(2). R. Christie, "Authoritairinism Re-examined", in "Studies in the Scope and Method of «The Authoritarian Personality»", a cura di R. Christie e M. Jahöda, Glencoe, Ill., Free Press, 1954, p. 194.

(3). S. Migram, "Obedience to Authority: An Experimental View", London, Tavistock, 1974, trad. it. "Obbedienza all'autorità. Il celebre esperimento di Yale sul conflitto tra disciplina e coscienza", Milano, Bompiani, 1975, p. 7.

(4). Ibidem, p. 159.

(5). Ibidem, pp. 60-1.

(6). J.P. Sabini e M. Silver, "Destroying the Innocent with a Clear Conscience: A Sociopsychology of the Holocaust", in "Survivors, Victims, and Perpetrators", a cura di J.E. Dinsdale, Washington, Emisphere Publishing Corporation, 1980, p. 342.

(7). S. Milgram, "Obbedienza all'autorità", cit., p.p. 187-8.

(8). Ibidem, p.p. 25-6.

(9). Ibidem, p.p. 140-1.

(10). Ibidem, p.p. 172 segg.

(11). Ibidem, p. 142.

(12). S. Milgram, "The Individual in a Social World", cit., p.p. 96-7.

(13). Confer C. Haney, C. Banks e P. Zimbardo, "Interpersonal Dynamics in a Simulated Prison", in «International journal of Criminology and Penology», I (1973), p.p. 69-97.

(14). Confer A. Etzioni, "A Model of Significance Research", in «;International Journal of Psychiatry», 6 (1968), p.p. 279-80.

(15). J.M. Steiner, "The S.S. Yesterday and Today: A Sociopsychological View", in "Survivors, Victims, and Perpetrators", a cura di J. E. Dinsdale, cit., p. 431.

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7. VERSO UNA TEORIA SOCIOLOGICA DELLA MORALE.

Ci proponiamo qui di esaminare in dettaglio una questione emersa alla fine del precedente capitolo: il problema della natura sociale del male o, più precisamente, della produzione sociale della condotta immorale. Alcuni suoi aspetti (ad esempio i meccanismi responsabili della produzione dell'indifferenza morale o, più in generale, della delegittimazione delle prescrizioni morali) sono stati brevemente trattati nei capitoli precedenti. Dato il suo ruolo centrale nella vicenda dell'Olocausto, nessuna analisi di questo problema può pretendere di essere completa se non comprende un'indagine più accurata del rapporto tra società e condotta morale. La necessità di tale analisi è ulteriormente rafforzata dal fatto che le esistenti teorie sociologiche dei fenomeni morali si rivelano, ad un esame attento, scarsamente capaci di offrire una spiegazione soddisfacente dell'esperienza dell'Olocausto. Lo scopo del presente capitolo è quello di articolare alcune lezioni e conclusioni fondamentali che è possibile trarre da questa esperienza e che un'adeguata teoria sociologica della morale, superata la sua attuale debolezza, dovrebbe prendere in considerazione. Una prospettiva più ambiziosa, verso la quale questo capitolo muoverà soltanto alcuni passi preliminari, è quella che punta alla costruzione di una teoria della morale in grado di accogliere pienamente le nuove conoscenze scaturite dallo studio dell'Olocausto. Qualsiasi progresso saremo in grado di compiere in tale direzione costituirà un'appropriata sintesi dei temi sviluppati in questo libro.

Nell'ordine delle cose costruito dal discorso sociologico, lo status della morale risulta problematico e ambiguo. Poco si è fatto per consolidarlo, essendo stato considerato di scarsa importanza per lo sviluppo del discorso sociologico, così che all'interno di quest'ultimo i problemi della condotta e della scelta morale hanno ottenuto soltanto una collocazione marginale e, di conseguenza, un'attenzione altrettanto marginale. La maggior parte delle teorie sociologiche è priva di qualsiasi riferimento alla morale. Da questo punto di vista il discorso sociologico segue il modello della scienza in generale, che, ai propri esordi, si è conquistata l'emancipazione dal pensiero religioso e magico sviluppando un linguaggio che potesse produrre spiegazioni complete senza mai usare nozioni come quelle di scopo o di volontà. "La scienza è essenzialmente un gioco linguistico fondato su una regola che vieta l'uso del vocabolario teleologico". Il fatto di non usare la terminologia teleologica non è una condizione sufficiente per l'appartenenza di una proposizione al linguaggio scientifico, ma certamente ne costituisce una condizione necessaria.

Nella misura in cui la sociologia lottava per conformarsi alle regole del discorso scientifico, la morale e i fenomeni ad essa collegati si sono trovati a malpartito nell'universo sociale generato, teorizzato e indagato dalle teorie sociologiche dominanti. I sociologi, pertanto, hanno cercato in tutti i modi di ignorare la specificità qualitativa delle questioni morali, o di farle rientrare in una classe di fenomeni che possono essere spiegati senza ricorrere al linguaggio teleologico. Questi sforzi combinati hanno portato a negare l'esistenza indipendente delle norme morali: ammesso che venisse riconosciuta come fattore separato della realtà sociale, la morale ha ottenuto uno status secondario e derivato, che in linea di principio dovrebbe renderla spiegabile mediante il riferimento a fenomeni non morali, cioè analizzabili pienamente e senza ambiguità in base a un trattamento non teleologico. Di fatto, l'idea stessa di un approccio specificamente sociologico allo studio della morale è diventata sinonimo, come si suol dire, del "riduzionismo sociologico", il quale parte dal presupposto che i fenomeni morali nella loro totalità possano essere esaurientemente spiegati nei termini delle istituzioni non morali che attribuiscono loro la propria forza vincolante.

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- "La società come fabbrica della morale".

La strategia della spiegazione sociale-causale delle norme morali (che consiste nel concepire la morale come derivabile, in linea di principio, dalle condizioni sociali e come determinata dai processi sociali) risale almeno a Montesquieu. La sua ipotesi, ad esempio, che la poliginia scaturisca da un'eccedenza di donne o dal loro invecchiamento particolarmente rapido in determinate condizioni climatiche può oggi essere citata nei libri di storia principalmente allo scopo di dimostrare, per contrasto, il progresso compiuto nel frattempo dalle scienze sociali; e tuttavia il modello di spiegazione esemplificato dalle ipotesi di Montesquieu era destinato a rimanere in buona misura incontestato per molto tempo. Nel senso comune scientifico, raramente messo in discussione, è stata accolta l'idea secondo cui la stessa persistenza di una norma morale testimonia la presenza di un bisogno collettivo, che essa è stata creata per soddisfare; e secondo cui, di conseguenza, tutti gli studi scientifici sulla morale dovrebbero tentare di portare alla luce tali bisogni e di ricostruire i meccanismi sociali che, attraverso l'imposizione delle norme, assicurano la loro soddisfazione.

Dall'accettazione di questa ipotesi teorica e della strategia interpretativa ad essa collegata è derivata una forma di ragionamento circolare assai ben rappresentata da Kluckhohn, il quale ha sostenuto che la norma, o la consuetudine, morale non esisterebbe se non fosse funzionale (cioè utile a soddisfare determinati bisogni o ad imbrigliare tendenze comportamentali altrimenti distruttive: un esempio in questo senso sarebbe offerto dal modo in cui la stregoneria Navaho riusciva a ridurre l'ansia e ad incanalare l'aggressività innata); in tale contesto la scomparsa del bisogno che ha originato e sostenuto la norma porterebbe ben presto alla sparizione della norma stessa. Il mancato assolvimento, da parte della norma morale, del compito affidatole (cioè la sua incapacità di soddisfare adeguatamente il bisogno originario) condurrebbe ad un risultato analogo. Questo modello di analisi scientifica della morale è stato codificato nella sua forma più esplicita da Malinowski, che ha sottolineato la fondamentale strumentalità della morale, il suo status subordinato rispetto ai «bisogni umani essenziali» come l'alimentazione, la sicurezza o la difesa da un clima avverso.

Durkheim (il cui modo di affrontare i fenomeni morali divenne un canone della cultura sociologica e di fatto definì la sostanza dell'approccio specificamente sociologico allo studio della morale) respinse l'invito a collegare le norme ai bisogni; egli criticò, in effetti, il punto di vista comunemente accettato, secondo cui le norme morali riconosciute come vincolanti in una particolare società devono aver acquisito la propria forza obbligante attraverso un processo di analisi e scelta consapevole (se non razionale). In apparente contrasto con il senso comune etnografico della propria epoca, Durkheim sostenne che l'essenza della morale va cercata proprio nella sua forza obbligante, piuttosto che nella sua connessione razionale con i bisogni che i membri della società cercano di soddisfare: una norma è tale non perché sia stata selezionata per la sua adeguatezza al compito di promuovere e difendere gli interessi dei membri di una società, ma perché questi ultimi - attraverso l'apprendimento o le amare conseguenze della trasgressione - si convincono del suo valore vincolante. Le critiche di Durkheim alle interpretazioni dei fenomeni morali allora accettate non era, tuttavia, rivolta al principio della «spiegazione razionale» in quanto tale. E ancor meno minava la pratica del riduzionismo sociologico. Da questo punto di vista, la divergenza di Durkheim dal modello interpretativo tradizionale non costituiva altro che una lite in famiglia. Ciò che appariva come una manifestazione di dissenso radicale, si limitava, dopotutto, a spostare l'accento dai bisogni individuali a quelli "sociali" o, piuttosto, ad un bisogno supremo, cui veniva attribuita la priorità su tutte le altre esigenze individuali o di gruppo: il "bisogno dell'integrazione sociale". Ogni sistema morale è destinato a servire la continuità dell'esistenza e la preservazione dell'identità della società che ne sostiene la forza vincolante attraverso la socializzazione e le sanzioni punitive. La persistenza della società viene ottenuta e garantita con

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l'imposizione di vincoli alle inclinazioni naturali (asociali, presociali) dei suoi membri, forzando cioè questi ultimi ad agire in modo da non contraddire il bisogno di conservare l'unità sociale.

Semmai, la revisione operata da Durkheim aveva reso il discorso sociologico ancora più circolare. Se il solo fondamento essenziale della morale è la volontà della società e la sua sola funzione quella di far sì che la società sopravviva, allora il tema stesso della valutazione sostanziale di uno specifico sistema morale viene rimosso dall'ambito dell'interesse sociologico. Di fatto, se l'integrazione sociologica viene riconosciuta come l'unico quadro di riferimento all'interno del quale è possibile la valutazione, non esiste alcun modo di confrontare e giudicare in termini differenziali i vari sistemi morali. Il bisogno al servizio del quale si pone ogni sistema sorge all'interno della società, e ciò che conta è la necessaria esistenza di un sistema morale in ogni società, non la sostanza delle norme morali che questa o quella società rende vincolanti per conservare la propria unità. In parole povere, direbbe Durkheim, ogni società ha la morale di cui necessita. E poiché il bisogno della società è l'unica sostanza della morale, tutti i sistemi morali sono uguali dal solo punto di vista che permette legittimamente - oggettivamente, scientificamente - di misurarli e valutarli: la loro utilità per la soddisfazione di quel bisogno.

Ma nell'approccio di Durkheim al problema della morale non c'era soltanto l'energica riaffermazione della tradizionale visione delle norme morali come prodotto sociale. La più importante influenza esercitata da Durkheim sulla pratica socioscientifica è dovuta forse alla concezione della società come una forza, nella sua essenza, attivamente moralizzatrice. «L'uomo è un essere morale solo perché vive nella società»; «La morale, in tutte le sue forme, non esiste se non nella società»; «L'individuo si sottomette alla società ; e tale sottomissione è la condizione della sua liberazione. La libertà dell'uomo, infatti, consiste nella liberazione dalle cieche e irriflessive forze fisiche; egli la ottiene solo opponendo ad esse la grande e intelligente forza della società. Ponendosi sotto l'ala della società, egli si rende anche, in una certa misura, dipendente da essa. Ma si tratta di una dipendenza liberatoria; non c'è contraddizione in ciò»: queste ed altre memorabili affermazioni di Durkheim si riflettono ancora oggi nella pratica sociologica. Ogni morale deriva dalla società; al di fuori di quest'ultima non esiste vita morale; la miglior comprensione della società si ha immaginandola come fabbrica produttrice di morale; la società promuove il comportamento moralmente regolato ed emargina, sopprime o impedisce l'immoralità. L'alternativa alla presa morale esercitata dalla società non è l'autonomia umana, ma il dominio delle passioni animali. Poiché gli istinti presociali dell'animale umano sono egoistici, crudeli e minacciosi, essi devono essere domati e soggiogati se si vuole promuovere la vita sociale. In assenza della coercizione sociale, gli esseri umani ricadrebbero nella barbarie dalla quale sono stati sollevati, ma solo precariamente, dalla forza della società.

Questa fiducia, profondamente radicata, nell'ordine sociale come fattore nobilitante, umanizzante, contrasta con l'insistenza dello stesso Durkheim sul fatto che le azioni sono immorali perché socialmente proibite, piuttosto che socialmente proibite perché immorali. Il freddo e scettico studioso presente in Durkheim sostiene che l'unica sostanza dell'immoralità consiste nel suo rifiuto da parte di una forza abbastanza potente da trasformare la propria volontà in una norma vincolante. Ma l'appassionato patriota e l'uomo fiducioso nella superiorità e nel progresso della vita civilizzata, ugualmente presenti in lui, non potevano evitare di sentire che quanto veniva rifiutato era qualcosa di effettivamente immorale, e che tale rifiuto doveva essere un atto di emancipazione e nobilitazione.

Questo sentimento si associa all'autoconsapevolezza della forma di vita che, avendo conquistato e consolidato la propria superiorità materiale, doveva necessariamente convincersi della superiorità delle regole in base alle quali viveva. Dopotutto, non era la «società come tale» - un'astratta categoria teorica - ma la moderna società occidentale che faceva da modello alla missione moralizzatrice. Soltanto dalla pratica della crociata e del proselitismo, tipica di questa società dedita

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al «giardinaggio» (1), poteva scaturire quella sicurezza di sé che consentiva di vedere l'imposizione delle norme come un processo di umanizzazione, piuttosto che come soppressione di una forma di umanità da parte di un'altra. La stessa sicurezza di sé permetteva di emarginare come esempi di disumanità o, nel migliore dei casi, come potenzialmente sospette o pericolose quelle manifestazioni umane che non fossero socialmente regolate (in quanto frutto di indifferenza, trasgressione o subordinazione parziale). La visione teorica, in ultima analisi, legittimava la sovranità della società sia sui propri membri, sia sui propri oppositori.

Dalla trasformazione della sicurezza di sé in teoria sociale derivano conseguenze importanti per l'interpretazione della morale. Le motivazioni presociali o asociali non potevano, per definizione, essere morali. Allo stesso modo, non poteva essere adeguatamente articolata, e tantomeno seriamente considerata, la possibilità che almeno certi modelli morali siano radicati in fattori esistenziali non influenzati da contingenti norme sociali di convivenza. Ancor meno si poteva pensare, senza cadere in contraddizione, che alcune pressioni morali esercitate dalla modalità esistenziale umana, dal semplice «essere con altri», possano in certe circostanze essere neutralizzate o soppresse da forze sociali opposte; che, in altre parole, "la società - in aggiunta alla propria «funzione moralizzatrice» o addirittura in contrasto con essa - possa, almeno in alcune occasioni, agire come forza che mette a tacere la morale".

Finché la morale viene concepita come un prodotto sociale - e spiegata in termini causali in base a meccanismi che, quando funzionano adeguatamente, assicurano la sua «costante produzione» -, gli eventi che offendono sentimenti morali diffusi e profondamente radicati, e che sfidano la comune concezione del bene e del male (della condotta morale e immorale), tendono ad essere visti come risultato del fallimento o della cattiva gestione di quella che potremmo chiamare «industria della morale». Il sistema di fabbrica è una delle più suggestive metafore di cui è intessuto il modello della società moderna; l'immagine della produzione sociale della morale offre un esempio assai significativo di questa influenza. Il verificarsi della condotta immorale viene interpretato come esito di una produzione inadeguata di norme morali, o della produzione di norme imperfette (cioè di norme con una forza vincolante insufficiente); quest'ultima, a sua volta, viene fatta risalire alle carenze tecniche o manageriali della «fabbrica sociale della morale», nel migliore dei casi alle «conseguenze impreviste» di sforzi produttivi erroneamente coordinati o all'interferenza di fattori estranei al sistema produttivo (come l'incompletezza del controllo sui fattori di produzione). La condotta immorale viene allora teorizzata come «deviazione dalla norma», che scaturisce dall'assenza o dalla debolezza delle «pressioni socializzatrici» e, in ultima analisi, dall'imperfezione dei meccanismi sociali incaricati di esercitare tali pressioni (2). A livello del sistema sociale questa interpretazione evidenzia problemi di gestione non risolti (di cui l'anomia di Durkheim è l'esempio più illustre). Ai livelli inferiori mette in luce i limiti delle istituzioni educative, l'indebolimento della famiglia o l'influenza di «sacche» antisociali non ancora eliminate, capaci di pressioni socializzatrici in senso contrario alla morale. In tutti i casi, comunque, la comparsa della condotta immorale viene concepita come manifestazione di istinti presociali o asociali evasi dalle gabbie socialmente prodotte o sfuggiti fin dall'inizio alla cattura. La condotta immorale rappresenta sempre un ritorno ad uno stadio presociale, o la mancata emancipazione da esso. È dunque invariabilmente connessa con una qualche resistenza alle pressioni sociali, o almeno alle «giuste» pressioni sociali (concetto che, alla luce dello schema teorico di Durkheim, può essere inteso solo come coincidente con la "norma" sociale, cioè con i valori "prevalenti", con la "media"). Se la morale è un prodotto sociale, la resistenza ai valori elevati dalla società a norme di comportamento deve condurre all'azione immorale.

Questa teoria della morale concede alla società (certamente ad ogni società e, secondo un'interpretazione più elastica, ad ogni collettività sociale non necessariamente delle dimensioni di una «società globale», ma capace di sostenere la propria coscienza collettiva con una rete di sanzioni efficaci) il diritto di imporre la propria versione della condotta morale; e concorda con la

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pratica in base a cui l'autorità sociale rivendica il monopolio del giudizio morale. Essa accetta tacitamente l'illegittimità teorica di tutti i giudizi che non siano fondati sull'esercizio di tale monopolio, così che la condotta morale diviene, a tutti gli effetti e gli scopi pratici, sinonimo di conformità sociale e di obbedienza alle norme osservate dalla maggioranza.

- "La sfida dell'Olocausto".

Il ragionamento circolare dovuto alla virtuale identificazione della morale con la disciplina sociale rende la pratica sociologica quotidiana pressoché immune dalla «crisi del paradigma». Sono poche le occasioni, ammesso che ve ne siano, in cui l'applicazione del paradigma esistente può essere causa d'imbarazzo. Il relativismo paradigmatico costruito attorno alla concezione della morale fornisce comunque una valvola di sicurezza nell'eventualità che le norme osservate sollevino effettivamente un'istintiva ripulsa morale. Sono pertanto necessari eventi di eccezionale drammaticità per allentare la presa del paradigma dominante e per innescare una febbrile ricerca di fondamenti alternativi dei principi etici. Ma anche in questo caso la necessità di tale ricerca viene vista con sospetto, e si tenta di ricostruire l'esperienza drammatica in una forma che consenta di conciliarla con il vecchio schema; di norma ciò avviene o presentando gli eventi come veramente unici e perciò non del tutto rilevanti per la "teoria" generale della morale (in quanto distinta dalla "storia" della morale, così come la caduta di meteoriti giganti non renderebbe necessaria la ricostruzione della teoria evoluzionistica), o dissolvendo gli eventi stessi in una più ampia e familiare categoria di sgradevoli, e tuttavia normali, sottoprodotti o limiti del sistema che produce la morale. Se nessuno di questi due espedienti è all'altezza degli eventi, viene talvolta imboccata una terza via di fuga: rifiutare di ammettere l'evidenza nell'universo discorsivo della disciplina e procedere come se nulla fosse avvenuto.

Tutti e tre questi stratagemmi sono stati utilizzati nella reazione sociologica all'Olocausto, un evento di presumibile drammatica rilevanza sociale. Come abbiamo notato in precedenza, vi furono numerosi tentativi iniziali di presentare il più terrificante dei genocidi come opera di una rete particolarmente fitta di individui moralmente tarati, liberatisi dai vincoli della civiltà grazie a un'ideologia criminale e, soprattutto, irrazionale. Allorché tali tentativi fallirono, poiché gli esecutori del crimine furono giudicati sani e moralmente «normali» dalla maggior parte della ricerca storica scrupolosa, si tentò di rabberciare alcune vecchie classi di fenomeni devianti o di costruire nuove categorie sociologiche che potessero accogliere, e con ciò addomesticare e disinnescare, l'episodio dell'Olocausto (ad esempio spiegandolo in termini di pregiudizio o di ideologia). Infine, dobbiamo ancora accennare al modo più diffuso di affrontare l'evidenza dell'Olocausto. L'essenza e la tendenza storica della modernità, la logica del processo di civilizzazione, le prospettive e gli ostacoli a cui va incontro la progressiva razionalizzazione della vita sociale sono spesso discussi come se l'Olocausto non fosse avvenuto, come se non fosse vero e degno di seria considerazione il fatto che l'Olocausto «ha qualcosa da dire circa il progresso della civiltà» (3) o che «tra i propri prodotti materiali e spirituali la civiltà comprende ora i campi di sterminio e i "Muselmänner"» (4).

Ma l'Olocausto ha caparbiamente rifiutato tutte e tre queste forme di approccio. Per molte ragioni esso costituisce per la teoria sociale una sfida che non può essere facilmente accantonata, poiché la decisione di accantonarla non è nelle mani dei sociologi, o quantomeno non soltanto nelle loro mani. Le risposte politiche e giuridiche al crimine nazista hanno posto all'ordine del giorno la necessità di legittimare il verdetto di immoralità con cui sono state condannate le azioni di un gran numero di persone che seguirono fedelmente le norme morali della propria società. Se la distinzione tra giusto e sbagliato o tra bene e male fosse completamente e unicamente affidata a un gruppo sociale in grado di «coordinare in via prioritaria» lo spazio sociale sottoposto al suo controllo (come

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afferma la teoria sociale dominante), non vi sarebbero ragioni legittime per accusare di immoralità quegli individui che non hanno infranto le norme imposte da tale gruppo. Si potrebbe sospettare che, se non fosse stato per la sconfitta della Germania, questo problema e quelli ad esso correlati non sarebbero mai sorti. Ma la Germania fu sconfitta e la necessità di affrontare tali problemi si è posta.

In assenza di una qualche giustificazione per giudicare criminale un comportamento disciplinato, pienamente conforme alle norme morali in vigore a quell'epoca e in quel luogo, non vi sarebbero stati criminali di guerra e sarebbe venuto a mancare ogni diritto di processare, condannare e giustiziare Eichmann. E non vi sarebbe stato modo di concepire la punizione di tale comportamento come qualcosa di più che la vendetta dei vincitori sugli sconfitti (rapporto suscettibile di essere invertito senza contestare il principio della punizione), se non fossero esistite ragioni sovra- o extrasociali per dimostrare che le azioni condannate contrastavano non soltanto con una norma giuridica applicata retroattivamente, ma anche con principi morali che la società può sospendere ma non dichiarare estinti. In seguito all'Olocausto, la pratica giuridica, e perciò anche la teoria morale, si trovarono ad affrontare la possibilità che la morale si presenti in contrasto con alcuni principi socialmente approvati e in aperta sfida alla solidarietà e al consenso sociale. Per la teoria sociologica, l'idea stessa di un comportamento morale motivato da ragioni presociali comporta la necessità di una radicale revisione delle interpretazioni tradizionali relative alle origini e alle fonti delle norme morali e del loro potere vincolante. Questo tema è stato sviluppato con estrema chiarezza da Hannah Arendt:

"In quei processi, dove gli imputati erano persone che avevano commesso crimini «autorizzati», noi abbiamo preteso che gli esseri umani siano capaci di distinguere il bene dal male anche quando per guidare se stessi non hanno altro che il proprio raziocinio, il quale inoltre può essere completamente frastornato dal fatto che tutti coloro che h circondano hanno altre idee. E il problema è tanto più grave, in quanto noi sappiamo che quei pochi che furono abbastanza «arroganti» da confidare soltanto nel proprio raziocinio non erano affatto persone che si attenevano ai vecchi valori o che si lasciavano guidare da una fede religiosa. Poiché nel Terzo Reich tutta la società «rispettabile» aveva in un modo o nell'altro ceduto a Hitler, virtualmente erano svanite le massime morali che determinano il comportamento sociale, e assieme ad esse erano svaniti i comandamenti religiosi («non ammazzare») che guidano la coscienza. E quei pochi che sapevano distinguere il bene dal male giudicavano completamente da soli, e lo facevano liberamente; non potevano attenersi a norme e a criteri generali, non essendoci né norme né criteri per fatti che non avevano precedenti. Dovevano decidere di v olta in volta" (5).

Con queste parole illuminanti la Arendt ha articolato la questione della responsabilità morale di resistere alla socializzazione. Il problema dei fondamenti sociali della morale è stato in gran parte accantonato: quale che sia la soluzione data a tale problema, l'autorità e la forza vincolante della distinzione tra bene e male non può essere legittimata dal riferimento ai poteri sociali che la sanzionano e la impongono. Anche se condannata dal gruppo - addirittura da tutti i gruppi - la condotta individuale può sempre essere morale; un'azione raccomandata dalla società - perfino dall'intera società all'unisono - può sempre essere immorale. La resistenza alle norme di comportamento promosse da una data società non dovrebbe, né può, rivendicare la propria legittimità in base alla prescrizione normativa alternativa di un'altra società, ad esempio in base a un corpo di tradizioni morali appartenente a un passato ora denigrato o rifiutato dal nuovo ordine sociale. La questione dei fondamenti sociali dell'autorità morale è, in altre parole, moralmente irrilevante.

I sistemi morali socialmente imposti trovano la propria base e il proprio sostegno nella comunità, e quindi in un mondo pluralista, eterogeneo, irrimediabilmente relativo. "Questo relativismo, tuttavia, non si applica alla capacità umana di «distinguere il bene dal male»". Tale capacità deve fondarsi su

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qualcosa di diverso dalla "coscienza collettiva" della società. Ogni società trova questa capacità già formata, così come avviene per la costituzione biologica, i bisogni fisiologici o le motivazioni psicologiche dell'uomo. E si comporta con essa come ammette di fare con tali altre ostinate realtà, cerca cioè di sopprimerla, di sfruttarla per i propri scopi o di incanalarla in una direzione giudicata utile o innocua. "Il processo di socializzazione consiste nella manipolazione della capacità morale", non nella sua produzione. E la capacità morale manipolata implica non solo certi principi che più tardi divengono oggetto passivo di elaborazione sociale, bensì anche la forza di resistere, sfuggire e sopravvivere a una simile elaborazione, così che alla fine l'autorità e la responsabilità delle scelte morali risiedono là dove si trovavano fin dall'inizio: nella persona umana.

Se si accetta questa concezione della capacità morale, i problemi della sociologia della morale - apparentemente risolti e accantonati - vengono di nuovo aperti con forza. Il tema della morale deve trovare una nuova collocazione: dalle problematiche della socializzazione, dell'educazione o della civilizzazione - in altre parole, dal regno dei «processi umanizzanti» socialmente gestiti - deve essere spostato nell'area dei processi e delle istituzioni a cui è affidata la repressione, la conservazione dei modelli e la gestione delle tensioni, come uno dei «problemi» che tali processi e istituzioni sono incaricati di affrontare e risolvere o trasformare. La capacità morale, che è il loro oggetto ma non il loro prodotto, dovrebbe a quel punto rivelare la propria origine alternativa. Una volta rifiutata la spiegazione dell'inclinazione morale come spinta consapevole o inconsapevole alla soluzione del «problema hobbesiano», i fattori responsabili della capacità morale devono essere cercati nella sfera sociale, ma non in quella che qui definiremo «societaria». Il comportamento morale è concepibile solo nel contesto della coesistenza, dell'«essere con altri», cioè in un contesto sociale; ma non deve il proprio manifestarsi alla presenza di istituzioni educative e costrittive sovra-individuali, cioè al contesto societario.

- "Le fonti presocietarie della morale".

La modalità esistenziale del sociale (a differenza della struttura societaria) è stata vista raramente come centro dell'attenzione sociologica. Essa veniva volentieri collocata nel campo dell'antropologia filosofica ed era considerata, nel migliore dei casi, come la remota frontiera esterna dell'area propriamente sociologica. Non esiste, pertanto, un consenso sociologico per quanto riguarda il significato, il contenuto esperienziale e le conseguenze comportamentali di quella condizione primaria definibile come «essere con altri». I modi in cui si può rendere sociologicamente rilevante tale condizione devono ancora essere pienamente esplorati nella pratica sociologica.

La pratica sociologica più comune non sembra attribuire all'«essere con altri» (con altri esseri umani) un particolare significato. Gli «;altri» vengono dissolti nei concetti, molto più inclusivi, di «contesto dell'azione», di «situazione dell'attore» o, in generale, di «ambiente», cioè in quel vasto territorio in cui si collocano le forze che orientano in una particolare direzione le scelte dell'attore o ne limitano la libertà, e in cui sono contenuti gli oggetti che attraggono l'attività finalizzata dell'attore e quindi offrono motivi all'azione. Agli «altri» non viene accreditata una soggettività che possa distinguerli dalle altre componenti del «contesto dell'azione». O, piuttosto, il loro status specifico di esseri umani viene riconosciuto, ma in pratica quasi mai visto come circostanza che pone l'attore di fronte a un compito qualitativamente distinto. A tutti gli effetti e gli scopi pratici, la «soggettività» dell'altro si riduce alla limitata prevedibilità delle sue reazioni, e perciò ai vincoli che egli pone all'attore nella ricerca del controllo completo sulla situazione e di un'efficace esecuzione dei compiti prefissati. La condotta erratica dell'altro "umano", diversamente dagli elementi inanimati del campo di azione, costituisce un disturbo e, presumibilmente, un disturbo temporaneo. Il controllo dell'attore sulla situazione mira a una manipolazione del contesto di azione dell'altro,

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allo scopo di aumentare la probabilità ; di una condotta specifica da parte di quest'ultimo e quindi di ridurre la sua posizione nell'orizzonte dell'attore a qualcosa di praticamente indistinguibile dal resto degli oggetti rilevanti per il successo dell'azione. La presenza dell'altro "umano" nel campo di azione costituisce una sfida "tecnologica"; raggiungere il controllo dell'altro, ridurre l'altro allo status di fattore calcolabile e manipolabile dell'attività finalizzata, è dichiaratamente difficile. Potrebbe anche richiedere da parte dell'attore capacità particolari (come la comprensione, la retorica o la conoscenza della psicologia) che sono superflue o inutili per quanto riguarda gli altri oggetti del campo di azione.

All'interno di questa diffusa prospettiva, il significato dell'altro si esaurisce completamente nella sua influenza sulle possibilità che l'attore ha di raggiungere il proprio scopo. L'altro conta nella misura in cui (e solo nella misura in cui) la sua volubilità e la sua incostanza riducono la probabilità di portare a buon fine in modo efficiente l'impresa prevista. Il compito dell'attore consiste nel creare una situazione in cui l'altro cessi di contare e possa non essere più preso in considerazione. Questo compito e la sua esecuzione sono dunque soggetti a una valutazione tecnica, non morale. Le opzioni dell'attore nel suo rapporto con l'altro si suddividono in efficaci e inefficaci, efficienti e inefficienti - di fatto, in razionali e irrazionali - e non in giuste e sbagliate, morali e immorali. La situazione elementare dell'«essere con altri» non genera di per sé (vale a dire, a meno che non sia forzata da pressioni esterne) nessuna problematica morale. Qualsiasi considerazione morale possa interferire con essa, deve provenire dall'esterno. E qualunque sia il vincolo che considerazioni del genere possono imporre alla scelta dell'attore, non deriva dalla logica intrinseca del rapporto mezzi-fìni. Dal punto di vista analitico tali considerazioni devono essere senz'altro collocate nel campo dei fattori irrazionali. Nella situazione dell'«essere con altri» pienamente organizzata in base agli obiettivi dell'attore la morale costituisce un'intrusione.

Una concezione alternativa delle origini della morale può essere ricercata nella famosa descrizione che Sartre fa del rapporto "ego-alter" come fondamentale e universale modalità esistenziale. Ma non è affatto certo che tale ricerca si riveli fruttuosa. Se dall'analisi di Sartre emerge una concezione della morale, si tratta di una concezione negativa: la morale come limite piuttosto che come dovere, come vincolo piuttosto che come stimolo. Per questo aspetto (anche se solo per questo aspetto), il contributo di Sartre alla definizione dello status della morale non si discosta significativamente dal modello, precedentemente esaminato, di interpretazione sociologica del ruolo svolto dalla morale nel contesto dell'azione elementare.

La radicale novità consiste, ovviamente, nel distinguere gli altri esseri umani - in quanto unità dotate di uno status e di capacità qualitativamente distinti - dal resto dell'orizzonte in cui si muove l'attore. In Sartre l'altro si trasforma in "alter ego", un compagno, un soggetto simile a noi, dotato di una soggettività che possiamo immaginare soltanto come replica di quella che conosciamo in virtù della nostra esperienza interiore. Un abisso separa l'"alter ego" da tutti gli altri oggetti del mondo, reali o immaginari. L'"alter ego" fa ciò che noi facciamo; egli pensa, valuta, fa progetti, e nel fare tutto ciò ci guarda come noi lo guardiamo. Semplicemente guardandoci, l'altro diviene il limite della nostra libertà. Egli ora usurpa il nostro diritto di definire noi stessi e i nostri scopi, minando con ciò la nostra separatezza e autonomia, compromettendo la nostra identità e il nostro «essere a casa» nel mondo. La semplice presenza di un " alter ego" in questo mondo ci oscura e rappresenta per noi un costante motivo di angoscia. Noi non possiamo essere tutto ciò che vogliamo essere. La nostra libertà svanisce. Alla presenza dell'"alter ego" - vale a dire nel mondo - il nostro essere per noi stessi è anche, inevitabilmente, essere per l'altro. Nell'agire non possiamo evitare di prendere in considerazione tale presenza, e con essa anche le definizioni, i punti di vista, le prospettive che incarna.

Si è tentati di dire che l'inevitabilità delle considerazioni morali è insita nella descrizione del rapporto "ego-alter" fatta da Sartre. Ma è lungi dall'essere chiaro quali obblighi morali, ammesso

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che ve ne siano, possano essere determinati da tale rapporto. Alfred Schutz aveva pienamente ragione quando interpretava l'esito dell'incontro "ego-alter", così come viene descritto da Sartre, nel modo seguente:

"Le mie possibilità sono trasformate in probabilità al di là del mio controllo. Io non sono più padrone della situazione, o almeno la situazione ha acquisito una dimensione che mi sfugge. Sono diventato un utensile con cui e su cui l'Altro può agire. Io prendo atto di questa esperienza non attraverso la cognizione, ma attraverso un sentimento di disagio o di inquietudine che, secondo Sartre, è una delle principali caratteristiche della condizione umana" (6).

Questo disagio e questa inquietudine assomigliano in modo inequivocabile a quel contraddittorio vincolo esterno che la prospettiva sociologica tradizionale imputa alla presenza dell'altro. Più precisamente, essi rappresentano un riflesso soggettivo della difficoltà che la sociologia tenta di cogliere nella struttura oggettiva, impersonale di quella presenza; o, meglio ancora, essi costituiscono un'appendice emozionale, precognitiva, atteggiamento logico-razionale. Queste due interpretazioni della condizione esistenziale sono unite dal risentimento che implicano. In entrambe, l'altro rappresenta un disturbo e un peso, una sfida nella migliore delle ipotesi. Nel primo caso, la sua presenza non richiede nessuna norma morale, di fatto nessuna norma che sia diversa dalle regole del comportamento razionale. Nel secondo caso, quella presenza plasma la morale, che essa stessa produce, come complesso di regole piuttosto che di norme (molto meno come motivazione interiore); regole che vengono "naturalmente" sentite come un onere, in quanto designano gli altri esseri umani come ostili componenti esterne della condizione umana, come vincolo alla libertà.

Esiste, però, una terza concezione della condizione esistenziale dell'«essere con altri», una concezione che può fornire un punto di partenza per un approccio sociologico alla morale autenticamente diverso, capace di schiudere e articolare alcuni aspetti della società moderna ignorati dagli approcci tradizionali. Emmanuel Lévinas (7), che ha sviluppato questa concezione, sintetizza le proprie idee portanti in una citazione da Dostoevskij: «Noi siamo tutti responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti ed io più di tutti gli altri».

Per Lévinas «essere con altri», questo fondamentale e irrinunciabile attributo dell'esistenza umana, significa innanzi tutto e principalmente "responsabilità". «Allorché altri mi guarda io ne sono responsabile anche senza dover "assumere" responsabilità nei suoi confronti». La mia responsabilità è l'unica forma in cui l'altro esiste per me; è la modalità ; della sua presenza, della sua prossimità:

"... altri non è semplicemente vicino a me nello spazio, o vicino come un parente, ma si avvicina a me essenzialmente nella misura in cui mi sento - nella misura in cui sono - responsabile di lui. È una struttura che non assomiglia affatto alla relazione intenzionale che, nella conoscenza, ci collega all'oggetto - di qualsiasi oggetto si tratti, anche umano. La prossimità non appartiene a questa intenzionalità; in particolare non appartiene al fatto che altri mi sia noto".

Detto nel modo più esplicito possibile, "la mia responsabilità è incondizionata". Non dipende da una precedente conoscenza delle qualità del suo oggetto, bensì precede tale conoscenza. Non dipende da un'intenzione interessata estesa all'oggetto, bensì precede tale intenzione. Né la conoscenza né l'intenzione favoriscono la prossimità dell'altro, il modo specificamente umano di stare insieme.

"Il legame con altri si stringe soltanto come responsabilità, che questa peraltro sia accettata o rifiutata, che si sappia o no come assumerla, che si possa o no fare qualcosa di concreto per altri. Dire: eccomi. Fare qualcosa per un altro. Donare. Essere spirito umano significa questo... io analizzo la relazione interumana come se nella prossimità con altri - al di là dell'immagine che mi faccio dell'altro uomo -, il suo volto, l'espressivo in altri (e, in questo senso, tutto il corpo umano è,

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più o meno, volto) fosse ciò che mi ordina di servirlo... Il volto mi chiede e mi ordina. La sua significazione è un ordine significato. Preciso che se il volto significa un ordine nei miei confronti, non lo è alla maniera con cui un segno qualunque significa il suo significato, questo ordine è la significazione stessa del volto".

A ben guardare, secondo Lévinas, "la responsabilità è la struttura essenziale, primaria e fondamentale della soggettività". Una responsabilità che significa «responsabilità per altri», e perciò «per quel che non è un mio atto, o anche che non mi riguarda». Questa responsabilità esistenziale, unico significato della soggettività, dell'essere un soggetto, non ha niente a che fare con l'obbligo contrattuale. Né ha niente in comune con il calcolo del beneficio reciproco. Non ha bisogno di un'attiva o oziosa attesa di reciprocità, di una «mutualità delle intenzioni», del fatto che l'altro ricompensi la mia responsabilità con la propria. Io non assumo la mia responsabilità per ordine di una forza superiore, sia essa un codice morale sanzionato dalla minaccia dell'inferno o un codice giuridico sanzionato dalla minaccia della prigione. Non essendo niente di tutto ciò io non la porto come un fardello. lo divento responsabile nel momento in cui mi costituisco come soggetto. Divenire responsabile è costituire me stesso come soggetto. Pertanto è un problema che riguarda me stesso, e solo me stesso: «La relazione intersoggettiva è una relazione non simmetrica... io sono responsabile di altri senza aspettare il contrario, anche se mi dovesse costare la vita. L'inverso è affar suo».

Se la responsabilità rappresenta la modalità esistenziale del soggetto umano, la morale è la struttura primaria del rapporto intersoggettivo nella sua forma più pura, non viziata da fattori non morali (come l'interesse, il calcolo del vantaggio, la ricerca razionale della soluzione ottimale o la resa alla coercizione). E se la sostanza della morale è il dovere verso gli altri (in quanto distinto dall'obbligo), e un dovere che precede tutti gli interessi, allora le radici della morale affondano ben al di sotto degli ordinamenti societari, quali le strutture di dominio o la cultura. I processi societari incominciano quando la struttura della morale (coincidente con l'intersoggettività) esiste già. "La morale non è un prodotto della società. La morale è qualcosa che la società manipola": sfrutta, orienta, comprime.

Simmetricamente, il comportamento immorale - una condotta che rinuncia o abdica alla responsabilità verso l'altro - non rappresenta una conseguenza di disfunzioni societarie. È dunque il manifestarsi del comportamento immorale, piuttosto che di quello morale, a richiedere un'analisi della gestione sociale dell'intersoggettività.

- "Prossimità sociale e responsabilità morale".

La responsabilità, questa componente costitutiva di ogni condotta morale, scaturisce dalla prossimità dell'altro. Prossimità significa responsabilità, e la responsabilità è la prossimità. Discutere la priorità relativa dell'una o dell'altra è certamente gratuito, in quanto nessuna delle due è concepibile da sola. Rinunciare alla responsabilità, e perciò neutralizzare la spinta morale che ne consegue, comporta necessariamente (o meglio coincide con) la sostituzione della prossimità con la separazione fisica o spirituale. L'alternativa alla prossimità è la distanza sociale. L'attributo morale della prossimità è la responsabilità; l'attributo morale della distanza sociale è la mancanza di un rapporto morale, o eterofobia. "La responsabilità viene messa a tacere quando si erode la prossimità; essa può alla fine trasformarsi in avversione una volta che i soggetti umani a noi vicini siano stati trasformati in «altri»". Questo processo di trasformazione è un processo di separazione sociale. Fu una separazione del genere che consentì a migliaia di uomini di uccidere, e a mil ioni di osservare l'assassinio senza protestare. E furono le conquiste tecnologiche e burocratiche della moderna società razionale che resero possibile tale separazione.

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Hans Mommsen, uno dei più illustri storici tedeschi dell'epoca nazista, ha recentemente sintetizzato nel mondo seguente il significato storico dell'Olocausto e dei problemi da esso creati alla coscienza della società moderna:

"Mentre la civiltà occidentale sviluppava i mezzi per una inimmaginabile distruzione di massa, l'addestramento fornito dalla tecnologia e dalle tecniche di razionalizzazione moderne ha prodotto una mentalità puramente tecnocratica e burocratica, esemplificata dal gruppo degli esecutori dell'Olocausto, sia che essi abbiano commesso l'omicidio in prima persona, sia che abbiano preparato la deportazione e la liquidazione delle vittime seduti a una scrivania dell'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, nelle stanze del servizio diplomatico o come plenipotenziari del Terzo Reich nei paesi occupati e in quelli satelliti. Da questo punto di vista la storia dell'Olocausto sembra essere il 'mene tekel' dello stato moderno" (8).

A prescindere dagli altri traguardi raggiunti, lo stato nazista ha certamente avuto successo nell'eliminare il più formidabile degli ostacoli all'omicidio - sistematico, finalizzato, eseguito senza emozioni e a sangue freddo - di giovani e vecchi, uomini e donne: quella «pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri» (9).

Non sappiamo molto di questa pietà "animale", ma sappiamo che secondo un certo modo di vedere l'elementare condizione umana appare esplicita l'universalità del rifiuto di commettere l'omicidio, dell'inibizione a infliggere sofferenze ad un altro essere umano e della spinta ad aiutare coloro che soffrono: in ultima analisi, della responsabilità personale verso l'integrità degli altri. Se questo punto di vista è corretto, o almeno plausibile, allora l'impresa del regime nazista è consistita principalmente e anzitutto nel neutralizzare l'impatto morale della modalità esistenziale specificamente umana. È importante sapere se questo successo sia stato legato a caratteristiche esclusive del movimento e del regime nazista, o se possa essere spiegato in riferimento a più comuni attributi della nostra società, che i nazisti abbiano soltanto abilmente utilizzato al servizio degli scopi di Hitler.

Fino a uno o due decenni fa era un atteggiamento diffuso - non solo tra la gente comune, ma anche tra gli storici - cercare la spiegazione dell'omicidio di massa degli ebrei d'Europa nella lunga storia dell'antisemitismo europeo. Una spiegazione del genere richiedeva che si isolasse l'antisemitismo tedesco come il più intenso, spietato e propenso all'omicidio: dopotutto, il mostruoso progetto mirante all'annientamento totale dell'intera razza ebraica era stato concepito e messo in atto in Germania. Ma, come abbiamo già visto nel secondo e nel terzo capitolo, questa spiegazione e il suo corollario sono stati entrambi screditati dalla ricerca storica. C'era un'evidente discontinuità tra l'odio antiebraico tradizionale, premoderno, e il moderno progetto di sterminio indispensabile al compimento dell'Olocausto. Per quanto riguarda il ruolo dei sentimenti popolari, un crescente volume di documenti storici prova oltre ogni ragionevole dubbio l'esistenza di una correlazione quasi negativa tra il comune e tradizionale - «civile» - sentimento antiebraico basato sulla competizione, e la disponibilità ad accettare il progetto nazista della distruzione totale e a prendere parte alla sua esecuzione.

Tra gli storici dell'era nazista esiste un crescente consenso nel sostenere che "l'esecuzione dell'Olocausto richiedeva la neutralizzazione dei tradizionali atteggiamenti tedeschi verso gli ebrei, non la loro mobilitazione"; che la «naturale» continuazione dell'avversione tradizionale per gli ebrei era costituita più da un sentimento di rifiuto delle «azioni radicali» dei fanatici nazisti che dalla disponibilità a cooperare all'omicidio di massa; e che nel pianificare il genocidio le S.S. dovettero cercare la strada verso la «soluzione finale» salvaguardando l'indipendenza del loro lavoro dai sentimenti della popolazione nel suo complesso, e dunque l'immunità dall'influenza degli atteggiamenti tradizionali, spontanei e diffusi verso le vittime.

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I rilevanti e imprescindibili risultati degli studi storici sono stati recentemente sintetizzati da Martin Broszat: «Nelle città in cui gli ebrei costituivano una grossa fetta della popolazione, i rapporti tra tedeschi ed ebrei erano per lo più, anche nei primi anni dell'era nazista, relativamente buoni e quasi mai ostili» (10). I tentativi nazisti di attizzare i sentimenti antisemiti e di trasformare l'avversione statica in avversione dinamica (una distinzione opportunamente coniata da Müller-Claudius) - cioè di indurre la popolazione non inquadrata nel partito, e non impegnata ideologicamente, a commettere atti di violenza contro gli ebrei o almeno a sostenere attivamente l'uso della forza da parte delle S.A. - fallirono di fronte alla ripugnanza popolare per la coercizione fisica, alle profonde inibizioni che impediscono di infliggere il dolore fisico e alla caparbia lealtà umana verso i conoscenti, verso soggetti che, nella nostra mappa del mondo, sono stati classificati come persone, piuttosto che come anonimi esemplari di una tipologia. Le imprese teppistiche degli uomini delle S.A., scatenatisi nei primi mesi del regime hitleriano, dovettero essere abbandonate e forzosamente annullate per disinnescare la minaccia di un rigetto e di una ribellione popolare; pur rallegrandosi per il clamore antiebraico dei propri sostenitori, Hitler si vide costretto a intervenire personalmente per arrestare tutte le iniziative antisemite incontrollate. Il boicottaggio antiebraico, che secondo i piani avrebbe dovuto durare indefinitamente, fu ridotto all'ultimo minuto a una giornata di «azione dimostrativa», in parte per il timore di reazioni straniere, ma in buona misura per l'evidente mancanza di entusiasmo popolare a sostegno dell'iniziat iva. Dopo il giorno del boicottaggio (il primo aprile 1939) i capi nazisti lamentarono nei propri rapporti la diffusa apatia dimostrata dalla popolazione, con l'eccezione delle S.A. e dei membri del partito, e l'intera impresa fu giudicata un fallimento; se ne dedusse la necessità di una prolungata campagna di propaganda per risvegliare e invitare le masse al "loro" ruolo nell'esecuzione delle misure antiebraiche (11). Nonostante gli sforzi che ne seguirono, l'insuccesso della giornata di boicottaggio fu seguito da quello di tutte le successive iniziative antisemite che richiedevano una partecipazione attiva della popolazione nel suo complesso. I negozi e gli studi medici ebraici continuarono, finché rimasero aperti, ad attrarre clienti e pazienti. I contadini della Franconia e della Baviera dovettero essere costretti a sospendere i loro rapporti con i commercianti di bestiame ebrei. Come abbiamo visto in precedenza, anche la "Kristallnacht", l'unico pogrom di massa ufficialmente pianificato e coordinato, fu giudicato controproducente, nella misura in cui si sperava che innescasse l'adesione della gente comune alla violenza antisemita. Al contrario, la maggior parte delle persone reagì con sgomento alla vista dei marciapiedi disseminati di vetri rotti, e dei propri anziani vicini caricati da giovani teppisti su furgoni blindati. Né può essere sopravvalutato il fatto che tutte queste reazioni negative all'uso aperto della violenza antiebraica coincisero, senza visibile contraddizione, con una massiccia ed entusiastica approvazione della legislazione antiebraica, che comportava la ridefinizione degli ebrei, la loro espulsione dal seno del "Volk" tedesco e una serie crescente di restrizioni e proibizioni giuridiche (12).

Julius Streicher, il pioniere della propaganda antisemita nazista, riteneva che il compito più difficile affidato al suo giornale, «Der Stü rmer», fosse quello di far aderire lo stereotipo dell'«ebreo come tale» all'immagine personale che i lettori avevano dei propri conoscenti, vicini, amici o colleghi d'affari ebrei. Secondo Dennis E. Showalter, autore di un'acuta monografia sulla storia breve ma tempestosa del giornale, Streicher non era solo nella sua scoperta: «Una delle difficoltà principali incontrate dall'antisemitismo consiste nel cancellare l'immagine dell''ebreo della porta accanto', il conoscente o il collega visto come persona viva, che respira, la cui semplice esistenza sembra negare la validità dello stereotipo negativo rappresentato dall''ebreo mitologico'» (13). Sembrava esserci una correlazione sorprendentemente debole tra le immagini personali e quelle astratte, quasi non rientrasse nelle abitudini umane esperire la contraddizione logica tra le une e le altre come una dissonanza cognitiva o, più in generale, un problema psicologico; come se, nonostante il referente delle immagini personali e di quelle astratte fosse evidentemente lo stesso, esse non venissero generalmente considerate quali nozioni appartenenti alla stessa classe, quali rappresentazioni da confrontare e controllare reciprocamente, e infine conciliare o respingere. Ancora molto dopo che la

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macchina della distruzione di massa aveva cominciato a funzionare a pieno regime - nell'ottobre del 1943, per esse precisi - Himmler lamentava, di fronte ai propri accoliti, il fatto che persino i membri fidati del partito, i quali non mostravano nessun particolare disagio di fronte allo sterminio degli ebrei come razza, avessero i propri ebrei privati, speciali, da salvare e proteggere:

"«La razza ebraica viene sterminata», va dicendo ogni nostro camerata. Chiaro, sta scritto nel nostro programma: 'Sterminio degli ebrei', e così facciamo. E poi arrivano loro, ottanta milioni di buoni tedeschi e ognuno ha il suo ebreo perbene da salvare... È chiaro: gli altri sono tutti dei porci, ma quest'uno è un ebreo eccezionale" (14).

Sembra che a tenere separate le immagini personali dagli stereotipi astratti, e perciò ad escludere lo scontro che la logica riterrebbe inevitabile, sia la saturazione morale delle prime e il carattere moralmente neutro, puramente intellettuale, dei secondi. Il contesto della prossimità e della responsabilità, all'interno del quale si formano le immagini personali, circonda queste ultime di uno spessa protezione morale, praticamente impenetrabile da parte delle argomentazioni «meramente astratte». Per quanto persuasivo e insidioso possa essere lo stereotipo intellettuale, il suo ambito di applicazione finisce bruscamente dove comincia la sfera del rapporto personale. L'«altro» come "categoria astratta" semplicemente non comunica con l'«altro» che "conosciamo". Il secondo appartiene al regno della morale, mentre il primo ne risulta irrimediabilmente escluso. Il secondo abita nell'universo semantico del bene e del male, che ostinatamente rifiuta di lasciarsi subordinare al discorso dell'efficienza e della scelta razionale.

- "La soppressione sociale della responsabilità morale".

Sappiamo già che esisteva un tenue legame diretto tra l'eterofobia diffusa e l'omicidio di massa progettato e messo in atto dai nazisti. Oltre a ciò, la documentazione storica accumulata finora suggerisce con forza che un omicidio di massa come l'Olocausto, di dimensioni senza precedenti, non fu (e probabilmente non poteva essere) l'effetto di un risveglio, di un rilascio, di un innesco, di un'intensificazione o di uno scoppio di inclinazioni personali sopite; né aveva in nessun altro senso un rapporto di continuità con le relazioni personali faccia a faccia, per quanto critiche o aspre queste ultime potessero essere in certe occasioni. Esiste un limite alla possibile estensione di tale animosità personale. Nella maggior parte dei casi essa si rifiuta di spingersi oltre il confine tracciato da quella responsabilità elementare verso l'altro che è inestricabilmente intrecciata alla prossimità umana, al «vivere con altri». "L'Olocausto poteva aver luogo soltanto a condizione di neutralizzare l'influenza delle motivazioni morali originarie, di isolare la macchina dell'omicidio dalla sfera in cui esse sorgono e si applicano, di renderle marginal i o del tutto irrilevanti per il raggiungimento dello scopo".

Il regime nazista riuscì ad ottenere tale neutralizzazione, isolamento ed emarginazione sfruttando il formidabile apparato dell'industria, dei trasporti, della scienza, della burocrazia e della tecnologia moderna. Senza questo contributo, l'Olocausto sarebbe stato impensabile; la grandiosa visione di un'Europa "judenrein", del totale annientamento della razza ebraica, si sarebbe esaurita in una serie di piccoli e grandi pogrom messi in atto da psicopatici, sadici, fanatici ed altri adepti della violenza gratuita; per quanto crudeli e sanguinose, azioni del genere sarebbero state difficilmente all'altezza dello scopo. Ciò che alla fine si dimostrò adeguato alla visione di Hitler fu il progetto della «soluzione del problema ebraico» come compito razionale, tecnico-burocratico, come qualcosa di applicabile a una particolare categoria di oggetti da parte di una particolare categoria di esperti e di organizzazioni specializzate, in altre parole come compito spersonalizzato indipendente da sentimenti e adesioni personali. Ma la soluzione non poteva essere progettata, né certamente messa in atto, nel modo che abbiamo appena visto, finché i futuri oggetti delle operazioni burocratiche non

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fossero stati rimossi dall'orizzonte della vita quotidiana in Germania, tagliati fuori dalla rete dei rapporti personali, trasformati in pratica in esemplari di una categoria, di uno stereotipo: nel concetto astratto dell'ebreo metafisico. Finché, cioè, essi non avessero cessato di essere quegli «altri» a cui di norma si estende la responsabilità morale, e non avessero perso la protezione offerta da questa moralità naturale.

Dopo aver accuratamente analizzato i successivi fallimenti del tentativo nazista di scatenare l'odio popolare contro gli ebrei e di sfruttarlo al servizio della «soluzione del problema ebraico», Ian Kershaw arriva alla seguente conclusione:

"I nazisti ottennero i maggiori successi nella spersonalizzazione degli ebrei. Quanto più gli ebrei venivano spinti fuori dalla vita sociale, tanto più sembravano coincidere con gli stereotipi di una propaganda che, paradossalmente, si intensificava via via che l'effettiva presenza degli ebrei in Germania diminuiva. La spersonalizzazione accresceva la già diffusa indifferenza dell'opinione pubblica tedesca e creava un essenziale anello di congiunzione tra la violenza arcaica e l'annientamento razionalizzato sotto forma di «catena di montaggio» nei campi di sterminio.La «soluzione finale» non sarebbe stata possibile senza la progressiva esclusione degli ebrei dalla società tedesca, che ebbe luogo sotto gli occhi di tutti e nella sua forma giuridica andò incontro a una diffusa approvazione, sfociando nella spersonalizzazione e nella degradazione della figura dell'ebreo" (15).

Come abbiamo già osservato nel terzo capitolo, quei tedeschi che obiettavano alle gesta delle S.A. quando veniva preso di mira l'«ebreo della porta accanto» (e persino quelli, tra loro, che trovarono il coraggio di rendere manifesta la propria disapprovazione) accettarono con indifferenza e spesso con soddisfazione le restrizioni giuridiche imposte all'«ebreo come tale». Ciò che provocava la reazione della loro coscienza morale quando erano in causa dei conoscenti non sollecitava quasi nessun sentimento se il bersaglio era costituito da una categoria astratta e stereotipata. I tedeschi osservarono tranquillamente, o non notarono affatto, la graduale scomparsa degli ebrei dal mondo della propria vita quotidiana, finché per i giovani soldati e uomini delle S.S. incaricati della «liquidazione» di così tante "Figuren" gli ebrei furono soltanto «pezzi da museo», qualcosa da guardare con curiosità, resti fossili di una specie mitica, con la stella gialla sul petto, testimoni del passato esclusi dal presente, qualcosa che bisognava andare a cercare lontano (16). La morale non arrivava così lontano. La morale tende a rimanere a casa, confinata nel presente.

Nelle parole di Hans Mommsen:

"La politica di Heydrich, mirante a isolare socialmente e moralmente la minoranza ebraica dalla maggioranza della popolazione, procedette senza sollevare proteste significative dell'opinione pubblica perché quella parte della popolazione ebraica che era stata a stretto contatto con i propri vicini tedeschi fu esclusa dalle crescenti discriminazioni o isolata gradualmente. Soltanto dopo che il cumulo della legislazione discriminatoria ebbe costretto gli ebrei tedeschi nel ruolo di paria, completamente privati di ogni normale comunicazione sociale con la maggioranza della popolazione, fu possibile passare alla deportazione e allo sterminio senza scuotere la struttura sociale del regime" (17).

Raul Hilberg, la principale autorità per quanto riguarda la storia dell'Olocausto, ha rappresentato nel modo seguente i passi che misero gradualmente a tacere le inibizioni morali e avviarono la macchina della distruzione di massa:

"In una società moderna, un processo di distruzione sarà strutturato, nella sua forma completa, secondo questo diagramma:Verso una teoria sociologica della morale

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[freccia verso]Definizione[freccia verso]Licenziamento dei dipendenti ed espropriazione delle imprese[freccia verso]Concentramento[freccia verso]Sfruttamento del lavoro e riduzione alla fame[freccia verso]Annientamento[freccia verso]Confisca degli effetti personaliLa sequenza delle fasi in un processo di distruzione risulta dunque determinata. Se si tenta di infliggere il massimo danno a un gruppo di persone, è pertanto inevitabile che una burocrazia - a prescindere dal livello di decentralizzazione del suo apparato e di pianificazione delle sue attività - spinga le vittime attraverso questa serie di passaggi" (18).

Tali passaggi, suggerisce Hilberg, sono determinati logicamente: essi costituiscono una sequenza razionale conforme agli standard moderni, che ci spingono a cercare la via più breve e i mezzi più efficienti per raggiungere lo scopo. Se ora cerchiamo di scoprire il principio-guida di questa soluzione razionale del problema della distruzione di massa, scopriamo che "la successione dei passaggi è organizzata secondo la logica dell'espulsione dal regno del dovere morale" (o, per usare un concetto proposto da Helen Fein) (19), "dall'universo degli obblighi").

La definizione isola il gruppo delle vittime (tutte le definizioni comportano la suddivisione della totalità in due parti, che rispondono o meno alla definizione stessa) come categoria "diversa", così che quanto si applica ad essa "non" si applica a tutto il resto. Per il fatto stesso di essere definito, il gruppo diventa oggetto di un trattamento "speciale"; ciò che è appropriato per gli individui «comuni», non è necessariamente appropriato per questo gruppo. I suoi singoli membri diventano esemplari di un tipo e qualcosa della natura del tipo finisce necessariamente per infiltrarsi nelle loro immagini individuali, per compromettere l'innocente prossimità originaria, per limitarne l'autonomia in quanto universo morale autosufficiente.

I licenziamenti e le espropriazioni infrangono la maggior parte dei contratti di validità generale, sostituendo alla prossimità la distanza fisica e spirituale. A questo punto il gruppo delle vittime risulta efficacemente sottratto alla vista: è una categoria di cui al massimo si sente parlare, in modo tale che i discorsi uditi non hanno nessuna possibilità di tradursi in conoscenza dei destini individuali, e perciò di essere controllati in base all'esperienza personale.

Il concentramento completa questo processo di distanziamento. Il gruppo delle vittime e il resto della popolazione non vengono più a contatto, i loro percorsi di vita non si incrociano, la comunicazione si blocca, tutto ciò ; che accade a uno dei gruppi ora segregati non riguarda gli altri, non ha alcun significato facilmente traducibile nel vocabolario dei rapporti umani.

Lo sfruttamento e la riduzione alla fame ottengono un ulteriore, stupefacente, risultato: spacciare la disumanità per umanità. È ampiamente provato che i capi nazisti locali chiesero ai propri superiori il permesso di uccidere una parte degli ebrei sottoposti alla loro giurisdizione (molto prima che fosse dato il segnale di inizio delle uccisioni di massa) per risparmiare loro l'agonia dell'inedia; poiché i rifornimenti alimentari non erano sufficienti a soddisfare le esigenze di una vasta popolazione ghettizzata, precedentemente spogliata della sua ricchezza e del suo reddito, l'uccisione appariva un atto di misericordia, addirittura una manifestazione di umanità. «Il cerchio diabolico

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della politica fascista» consentì di «creare deliberatamente condizioni intollerabili e stati di emergenza, e poi di usarli per legittimare misure ancora più radicali» (20).

Così l'atto finale, l'annientamento, non costituì affatto una drastica frattura. Fu, per così dire, il risultato logico (sebbene, si ricordi, non previsto all'inizio) dei molti passi compiuti in precedenza. Nessuno di quei passi era inevitabile nella situazione esistente, ma ciascuno di essi rendeva razionale la scelta della tappa successiva sulla strada verso la distruzione. "Quanto più la sequenza si allontanava dal momento originario della «definizione», tanto più era guidata da considerazioni puramente tecnico-razionali, e tanto meno doveva tener conto di inibizioni morali". Di fatto, la necessità di compiere scelte morali venne pressoché soppressa.

I passaggi tra i diversi stadi avevano una fondamentale caratteristica in comune: accrescevano tutti la distanza fisica e mentale tra le vittime designate e il resto della popolazione, suddiviso tra esecutori e testimoni del genocidio. In questa caratteristica risiedeva l'intrinseca razionalità della sequenza di passaggi dal punto di vista della meta finale e la sua efficacia nel portare a termine il compito della distruzione. Evidentemente le inibizioni morali non agiscono a distanza. Esse sono inestricabilmente legate alla prossimità umana. L'esecuzione di azioni immorali, al contrario, diventa più facile via via che cresce la distanza sociale. Se Mommsen ha ragione quando individua la «dimensione antropologica» dell'Olocausto nel «pericolo, insito nell'attuale società industriale, di una progressiva abitudine all'indifferenza morale di fronte ad azioni non immediatamente legate alla sfera di esperienza dei singoli» (21), allora questo pericolo deve essere fatto risalire alla capacità della società industriale di ampliare la distanza fra gli uomini fino al punto in cui la responsabilità e le inibizioni morali non riescono più a farsi sentire.

- "La produzione sociale della distanza".

Essendo inestricabilmente legata alla prossimità umana, la morale sembra conformarsi alla legge della prospettiva ottica. Essa appare grande e massiccia quando è vicina all'occhio. Al crescere della distanza, la responsabilità verso gli altri si riduce, la dimensione morale dell'oggetto si sfoca, finché entrambe raggiungono il punto di fuga e spariscono dalla vista.

Questa caratteristica della morale sembra indipendente dall'ordine sociale che fa da contesto all'interazione. Ciò che invece dipende da tale ordine è l'efficacia pragmatica delle inclinazioni morali, la loro capacità di controllare le azioni umane, di fissare dei limiti ai danni arrecati agli altri, di tracciare dei confini all'interno dei quali tutti i rapporti tendono ad essere contenuti. Il significato - e il pericolo - dell'indifferenza morale diventa particolarmente acuto nella nostra società moderna, razionalizzata, industriale e tecnologicamente efficiente, perché in essa l'azione umana può essere efficace a distanza, una distanza che cresce costantemente con il progresso della scienza, della tecnologia e della burocrazia. In una società di questo tipo, "gli effetti dell'azione umana arrivano molto al di là del «punto di fuga» della visibilità morale". La capacità visiva della morale, limitata com'è dal principio della prossimità ;, rimane costante, mentre aumenta rapidamente la distanza a cui l'azione umana può essere efficace e con essa anche il numero di individui che possono subirne le conseguenze. La sfera dell'interazione influenzata dalla morale diventa minima rispetto alla quantità cres cente delle azioni sottratte alla sua interferenza.

Il riconosciuto successo della civiltà moderna nel sostituire i criteri razionali dell'azione a tutti gli altri, «irrazionali» secondo la definizione moderna (e tra i quali spicca il giudizio morale), è dovuto in misura decisiva allo sviluppo del «controllo a distanza», cioè all'estensione del raggio entro cui l'azione umana è in grado di produrre effetti. Gli obiettivi remoti dell'azione, difficilmente visibili,

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risultano svincolati dal giudizio morale; così, la scelta dell'azione che consente di raggiungere tali obiettivi è libera dalle limitazioni imposte dalla morale.

Come hanno drammaticamente dimostrato gli esperimenti di Milgram, lo scopo di mettere a tacere lo stimolo morale e sospendere le inibizioni morali si raggiunge rendendo «remoti e difficilmente visibili» i veri (sebbene spesso sconosciuti all'attore) obiettivi dell'azione, piuttosto che attraverso un'aperta crociata contro la morale o un indottrinamento mirante a sostituire il vecchio sistema morale con un nuovo complesso di norme. L'esempio più ovvio della tecnica che colloca le vittime fuori dal campo visivo, rendendole così inaccessibili al giudizio morale, è dato dalle armi moderne. Il progresso di queste ultime è consistito principalmente nella progressiva eliminazione delle possibilità di un combattimento corpo a corpo, di compiere l'atto di uccidere nella sua dimensione umana, nel significato attribuitogli dal senso comune; quando le armi separano e allontanano, invece di avvicinare e mettere di fronte gli eserciti nemici, l'abitudine dei combattenti alla soppressione dell'istinto morale o gli attacchi diretti alla «vecchia» morale perdono gran parte della precedente importanza, poiché l'uso delle armi sembra avere soltanto un rapporto astratto con l'integrità morale di chi le utilizza. Nelle parole di Philip Caputo, l'ethos della guerra «sembra essere una questione di distanza e di tecnologia. È impossibile essere nel torto se si uccide a distanza con armi sofisticate» (22). Nella mis ura in cui non si vedono gli effetti pratici della propria azione, o non si possono correlare in modo univoco le cose viste e piccoli gesti innocenti come premere un pulsante o girare un interruttore, è improbabile che sorga un conflitto morale, o è probabile che sorga in forma mutata. Si può ritenere che l'invenzione di un pezzo di artiglieria capace di colpire bersagli invisibili a coloro che lo azionano sia stato un punto di partenza simbolico che ha segnato l'inizio della guerra moderna e del concomitante processo destinato a rendere irrilevanti i fattori morali: diventa infatti possibile la distruzione del bersaglio senza che il cannone sia visibilmente puntato su di esso.

I risultati ottenuti dalle armi moderne possono essere assunti come metafora di un processo, molto più diversificato e ramificato, di produzione sociale della distanza. Le caratteristiche unificanti delle molte manifestazioni di questo processo sono state individuate da John Lachs nell'introduzione su vasta scala della "mediazione dell'azione" e del "soggetto intermediario", una figura che «si colloca tra me e la mia azione, rendendomi impossibile esperirla direttamente».

"La distanza che avvertiamo tra noi stessi e le azioni che compiamo è proporzionale alla nostra ignoranza di esse; tale ignoranza, a sua volta, è in buona parte una misura della lunghezza della catena di intermediari che si frappongono fra noi e le nostre azioni... Se svanisce la consapevolezza del contesto, le azioni diventano movimenti privi di conseguenza. Quando le conseguenze sono fuori dal campo visuale, gli individui possono prendere parte alle azioni più abominevoli senza neanche sollevare la questione del proprio ruolo e della propria responsabilità ...[È estremamente difficile] vedere come le nostre azioni, attraverso i loro effetti remoti, contribuiscono a causare la sofferenza.Non si tratta di un pretesto per ritenersi senza colpa e condannare la società. È il risultato naturale della mediazione su larga scala, che inevitabilmente conduce a una mostruosa ignoranza" (23).

Una volta che le azioni siano state sottoposte alla mediazione, i loro effetti finali si collocano fuori dall'area di interazione, relativamente ristretta, in cui le motivazioni morali conservano la propria forza regolatrice. Le azioni contenute all'interno di quest'area moralmente pregnante, invece, sono, per la maggior parte dei partecipanti e dei testimoni, abbastanza innocue da non subire il vaglio della censura morale. La dettagliata divisione del lavoro, insieme alla pura e semplice lunghezza della catena di azioni che mediano tra l'iniziativa e i suoi effetti tangibili, svincola dal significato e dallo scrutinio morale quasi tutti i partecipanti - anche se decisivi - all'impresa collettiva. Il loro operato è ancora soggetto all'analisi e alla valutazione, ma i criteri impiegati sono di carattere tecnico, non morale. I «problemi» invocano soluzioni migliori, più razionali, non la ricerca

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interiore. Gli attori sono impegnati nel compito razionale di trovare mezzi migliori per raggiungere i fini dati - che sono fini parziali - e non nel compito morale di valutare l'obiettivo finale (del quale essi hanno soltanto un'idea vaga, o rispetto al quale non si sentono responsabili).

Nella sua dettagliata ricostruzione della storia dell'invenzione e dell'impiego dei tristemente famosi camion dotati di camera a gas (la soluzione iniziale dei nazisti al problema tecnico di un rapido, pulito ed economico omicidio di massa), Christopher R. Browning ci offre la seguente analisi del mondo psicologico delle persone coinvolte:

"Specialisti la cui esperienza non aveva in genere nulla a che fare con l'omicidio di massa si trovarono improvvisamente ad essere un piccolo ingranaggio nella macchina della distruzione. Impiegate per fornire, trasportare, tenere in efficienza e riparare autoveicoli, le loro capacità ed attrezzature furono all'improvviso messe al servizio dell'omicidio di massa allorché essi vennero incaricati di produrre i camion... Ciò che li disturbava erano le critiche rivolte ai difetti del prodotto. Le insufficienze dei camion avevano un riflesso negativo sulla loro capacità professionale, a cui bisognava porre rimedio. Tenuti costantemente informati dei problemi che sorgevano sul piano pratico, essi si impegnarono a escogitare ingegnose modifiche tecniche che rendessero il loro prodotto più efficiente ed accettabile ai suoi utilizzatori... La loro maggiore preoccupazione era la possibilità di essere giudicati inadeguati al compito loro assegnato" (24).

Nel quadro della divisione burocratica del lavoro, gli «altri» compresi nella cerchia della prossimità in cui la responsabilità morale regna sovrana sono i compagni di lavoro, la cui riuscita nello svolgimento delle mansioni loro affidate dipende dall'applicazione dell'attore alla sua parte di lavoro; sono i superiori diretti, il cui status professionale dipende dalla cooperazione dei subordinati; e sono i soggetti che seguono immediatamente nella scala discendente della gerarchia, i quali si aspettano che i loro compiti siano chiaramente definiti e resi praticabili. Nel rapporto con questi «altri», la responsabilità morale che la prossimità tende a generare prende la forma della lealtà nei confronti dell'organizzazione, intesa come astratta articolazione della rete di interazioni faccia a faccia. Sotto forma di questa lealtà, le motivazioni morali dell'attore possono essere utilizzate per scopi moralmente abietti, senza minare la qualità etica dei rapporti all'interno dell'area della prossimità coperta dalle motivazioni morali. Gli attori possono sinceramente credere nella propria integrità morale, e di fatto il loro comportamento è conforme ai valori morali in vigore nell'unica area in cui rimangono operativi valori diversi da quelli universalmente dominanti. Browning ha analizzato le storie personali di quattro funzionari del noto Ufficio ebraico (D III) del ministero degli Esteri tedesco. Due di essi erano soddisfatti delle mansioni loro assegnate, mentre gli altri due preferirono essere destinati ad altri compiti.

"Entrambi riuscirono alla fine ad abbandonare il D III, ma finché vi rimasero svolsero diligentemente i propri compiti. Non criticarono apertamente le proprie mansioni, ma si diedero da fare dietro le quinte, silenziosamente, per essere trasferiti; conservare immacolato il proprio stato di servizio costituiva il loro obiettivo prioritario. Resta il fatto che, con zelo o riluttanza, tutti e quattro lavorarono in modo efficiente... Essi tennero in funzione la macchina, mentre i più ambiziosi e privi di scrupoli tra loro le diedero anche una spinta aggiuntiva" (25).

La frantumazione dei compiti e la conseguente separazione delle microcomunità morali dai fini ultimi dell'impresa produce quella distanza tra gli esecutori e le vittime della crudeltà che riduce, o elimina, la pressione contraria delle inibizioni morali. La necessaria distanza fisica e funzionale, tuttavia, non può essere ottenuta lungo tutta la scala gerarchica della burocrazia. Alcuni degli esecutori devono incontrare le vittime faccia a faccia, o quantomeno arrivare così vicino a loro da non poter evitare di vedere gli effetti delle proprie azioni. Si rende quindi necessario un altro metodo per assicurare la dovuta distanza psicologica anche in assenza di quella "fisica" o

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"funzionale". Questo metodo è fornito da una forma di autorità specificamente moderna: la competenza.

L'essenza della competenza consiste nel ritenere che la corretta esecuzione di un compito richieda una certa conoscenza, che tale conoscenza sia distribuita in maniera ineguale, che alcune persone ne possiedano più di altre, che quanti la possiedono debbano dirigere l'esecuzione del compito e che questa posizione direttiva attribuisca loro la responsabilità del modo in cui il compito viene eseguito. In realtà, la responsabilità non viene percepita come affidata agli esperti, ma alle competenze che essi rappresentano. L'istituzione della competenza e l'atteggiamento che ne deriva nei confronti dell'azione sociale costituiscono una buona approssimazione del celebre ideale di Saint-Simon (entusiasticamente appoggiato da Marx): il «governo delle cose, non degli uomini». Gli attori fungono da semplici agenti della conoscenza, in quanto portatori di "know-how", e la loro responsabilità personale consiste esclusivamente nel rappresentare adeguatamente la conoscenza, cioè nel fare le cose secondo lo «stato dell'arte», nel migliore dei modi che la conoscenza disponibile consente. Per coloro che non possiedono il "know-how", agire responsabilmente significa seguire il consiglio degli esperti. Nel corso di questo processo, la responsabilità personale si dissolve nell'autorità astratta del "know-how" tecnico.

Browning cita per esteso il promemoria preparato dall'esperto Willy Just sul miglioramento tecnico dei camion dotati di camere a gas. Just suggerì che la ditta incaricata di assemblare i camion dovesse ridurre lo spazio di carico: i camion esistenti non potevano muoversi sul dissestato territorio russo a pieno carico, così che troppo monossido di carbonio andava sprecato per riempire lo spazio rimasto vuoto, e l'intera operazione richiedeva troppo tempo, perdendo una parte considerevole della propria potenziale efficacia:

"Un camion più corto, a pieno carico, potrebbe operare molto più rapidamente. Un accorciamento del vano posteriore non avrebbe effetti svantaggiosi sull'equilibrio dei pesi sovraccaricando l'asse anteriore, perché «in pratica una correzione della distribuzione dei pesi avviene automaticamente grazie al fatto che nel corso dell'operazione il carico, lottando per raggiungere la porta posteriore, si accumula prevalentemente in quella parte del vano». Poiché il tubo di collegamento si arrugginisce rapidamente a causa dei «fluidi», il gas dovrebbe essere introdotto dall'alto, non dal basso. Per facilitare la pulizia, dovrebbe essere praticato nel pianale un foro di venti-trenta centimetri, provvisto di un coperchio apribile dall'esterno. Il pianale dovrebbe essere leggermente inclinato e il coperchio dotato di un piccolo crivello. In questo modo tutti i «fluidi» confluirebbero verso il centro: i «fluidi poco densi» colerebbero fuori già durante l'operazione e quelli «più densi» potrebbero essere fatti defluire più tardi con un getto d'acqua" (26).

Tutte le virgolette sono aggiunte da Browning: Just non cercò né usò consapevolmente metafore o eufemismi, il suo era il linguaggio diretto, concreto della tecnologia. In qualità di esperto nella costruzione di camion egli cercava di occuparsi del movimento del carico, non di esseri umani che lottavano per respirare; di fluidi più o meno densi, non di escrementi e vomito umani. Il fatto che il carico fosse composto da persone sul punto di essere assassinate e di perdere il controllo del proprio corpo non toglieva nulla alla sfida tecnica che il problema rappresentava. Tutto doveva comunque essere tradotto nel linguaggio neutrale della produzione di autoveicoli, prima di arrivare a costituire un «problema» che potesse essere «risolto». C'è da chiedersi se una retroversione del testo sia stata mai tentata da coloro che lessero il promemoria di Just e posero mano alla realizzazione delle istruzioni tecniche in esso contenute.

Per le cavie di Milgram il «problema» era costituito dall'esperimento organizzato e gestito da esperti. Questi ultimi fecero in modo che gli attori da essi istruiti non avessero, a differenza dei lavoratori della fabbrica Sodomka a cui era destinato il promemoria di Just, nessun dubbio sulle sofferenze che le loro azioni causavano, che non vi fosse alcuna possibilità di ricorrere alla scusa

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«io non lo sapevo». In ultima analisi, ciò che gli esperimenti di Milgram hanno dimostrato è il potere degli esperti e la sua capacità di trionfare sulle motivazioni morali. Individui dotati di senso morale possono essere indotti a commettere azioni immorali pur essendo consapevoli di tale immoralità, purché siano convinti che gli esperti (individui che, per definizione, sanno cose ignote ad altri) hanno definito quelle azioni come necessarie. La maggior parte delle azioni compiute nella nostra società, dopotutto, non risulta legittimata dalla discussione dei rispettivi obiettivi, ma dal consiglio e dalle istruzioni fornite dagli esperti.

- "Osservazioni finali".

Per nostra stessa ammissione, questo capitolo è ben lontano dal formulare una teoria sociologica alternativa del comportamento morale. Il suo scopo è molto più modesto: discutere alcune fonti non sociali della morale e alcune condizioni prodotte a livello societario nelle quali diviene possibile il comportamento immorale. Ci sembra che anche una discussione così limitata mostri come la tradizionale sociologia della morale abbia bisogno di una sostanziale revisione. Una delle ipotesi tradizionali che sembrano aver retto particolarmente male all'esame è quella secondo cui il comportamento morale è frutto della società e viene preservato dal funzionamento delle istituzioni sociali, la società è un meccanismo fondamentalmente umanizzante e moralizzante, e dunque il manifestarsi del comportamento immorale su scala non marginale può essere spiegato solo come effetto del cattivo funzionamento dell'ordinamento sociale «normale». Da questa ipotesi consegue, come corollario, che l'immoralità nel suo complesso non può essere socialmente prodotta e che le sue vere cause vanno cercate altrove.

Nel presente capitolo si è voluto far osservare che la forza delle motivazioni morali ha un'origine presocietaria, mentre alcuni aspetti dell'organizzazione societaria moderna provocano un considerevole indebolimento del loro potere vincolante; ciò significa che la società può rendere la condotta immorale più, e non meno, accettabile. L'immagine mitica, promossa dalla cultura occidentale, del mondo senza burocrazia e competenza come governato dalla «legge della giungla» o dalla «legge del più forte» dimostra in parte il bisogno di autolegittimazione della burocrazia moderna ` (impegnata a distruggere la concorrenza di norme derivanti da motivazioni e inclinazioni che essa non controlla) (28), e in parte la misura in cui l'originaria capacità umana di regolare i rapporti reciproci sulla base della responsabilità morale è stata ormai perduta e dimenticata. Ciò che viene concepito e presentato come barbarie da domare e sopprimere, pertanto, può rivelarsi, ad un attento esame, come quella stessa motivazione morale che il processo di civilizzazione si è proposto di neutralizzare e poi di sostituire con il controllo esercitato dalla nuova struttura di dominio. Una volta che le forze generate spontaneamente dalla prossimità umana siano state delegittimate e paralizzate, le nuove forze che le hanno sostituite acquistano una libertà di manovra senza precedenti. Esse possono generare su vasta scala una condotta suscettibile di essere definita come eticamente corretta solo dai criminali che detengono il potere.

Tra i risultati sociali ottenuti nella sfera della gestione della morale è necessario citare i seguenti: la produzione sociale della distanza, che annulla o indebolisce la pressione della responsabilità morale; la sostituzione della responsabilità tecnica a quella morale, che occulta efficacemente il significato morale dell'azione; e la tecnologia della segregazione e della separazione, che promuove l'indifferenza al destino dell'«altro», destino che altrimenti sarebbe soggetto al giudizio morale e a una reazione moralmente motivata. È anche necessario considerare che tutti questi meccanismi di erosione della morale sono ulteriormente rafforzati dal principio della sovranità dei poteri statali, che usurpano la suprema autorità etica a nome della società che governano. Se si esclude la dispersa e spesso inefficace «opinione pubblica mondiale», i governanti degli stati non incontrano, nel complesso, alcun limite nella gestione delle norme vincolanti sul territorio soggetto al loro potere

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sovrano. Non mancano le prove del fatto che, quanto più spregiudicate sono le loro azioni in questo ambito, tanto più forti sono gli appelli all'"appeasement", che riconferma e rafforza il loro monopolio e la loro dittatura nel campo del giudizio morale.

Ne consegue che nel contesto moderno non si scorge alcun segno di superamento dell'antico conflitto, delineato da Sofocle, tra legge morale e legge della società. Esso tende, semmai, a divenire più frequente e più ; profondo, mentre la sorte sembra favorire le pressioni societarie alla soppressione della morale. In molte occasioni comportarsi moralmente significa assumere un atteggiamento definito per decreto come antisociale o sovversivo dai poteri esistenti e dall'opinione pubblica (sia essa apertamente dichiarata o semplicemente espressa dall'azione o dall'inazione della maggioranza). In questi casi la promozione del comportamento morale comporta la resistenza all'autorità societaria e un'azione mirante all'indebolimento della sua presa. Il dovere morale deve contare sulla propria fonte originaria: la fondamentale responsabilità umana verso l'«altro».

Le parole di Paul Hilberg ci rammentano che questi problemi rivestono un'importanza che va al di là dell'interesse accademico:

"Si ricordi, ancora una volta, che la questione di fondo consisteva nello stabilire se una nazione occidentale, una nazione civilizzata, potesse essere capace di una cosa simile. Poi, a breve distanza di tempo dal 1945, la domanda fu completamente rovesciata nella seguente: c'è una qualche nazione occidentale che non sia capace di tanto?...Nel 1941 nessuno era in grado di prevedere l'Olocausto, e questa è la ragione principale delle nostre ansie successive: non osiamo più escludere la possibilità che avvenga l'inimmaginabile" (29).

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NOTE AL CAPITOLO SETTIMO.

(1). Confer Z. Bauman, "Legislators and Interpreters", Cambridge, Polity Press, 1987, capp. 3, 4.

(2). In vari studi su Durkheim ed elaborazioni di sue tematiche è stato ampiamente riconosciuto che il paradigma della «produzione sociale della morale» non si applica soltanto alla Società con la maiuscola, cioè quella dello stato nazionale pienamente sviluppato. All'interno di questa «grande società» viene riconosciuta la presenza di molteplici sistemi morali investiti di autorità; alcuni di essi possono addirittura essere in contrasto con il sistema morale promosso dalle istituzioni della «grande società». Per quanto riguarda il nostro problema, tuttavia, il punto rilevante non è il monismo o il pluralismo morale, né la «grande società», ma il fatto che all'interno della prospettiva di Durkheim qualsiasi norma moralmente vincolante, per quanto limitata nella sua applicazione, deve avere un'origine sociale ed essere imposta da sanzioni coercitive socialmente comminate. In questa prospettiva l'immoralità è sempre, per definizione, antisociale (il che equivale a dire che, simmetricamente, l'asocialità è sempre amorale); in effetti il linguaggio di Durkheim non consente l'articolazione di un comportamento morale che non sia di origine sociale. L'alternativa alla condotta socialmente regolata è dovuta a pulsioni non umane, animali.

(3). R.L. Rubenstein, "The Cunning of History", New York, Harper, 1978, p. 91.

(4). R.L. Rubenstein e J. Roth, "Approacbes to Auschwitz", San Francisco, S.C.M. Press, 1987, p. 324.

(5). H. Arendt, "Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil", New York, Viking Press, 1964, trad. it. "La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme", Milano, Feltrinelli, 1964, p. 296. La Germania perse la guerra; gli omicidi commessi per ordine dello stato tedesco, pertanto, sono stati definiti come crimini e come violazioni delle norme morali che trascendono l'autorità del potere statale. L'Unione Sovietica era tra i vincitori; gli omicidi ordinati dai suoi governanti, dunque, sebbene certamente non meno odiosi di quelli tedeschi, attendono ancora di essere trattati in modo analogo, e questo nonostante il sempre più radicale lavoro preparatorio condotto in tal senso nell'epoca della "glasnost" . Benché soltanto alcuni degli agghiaccianti misteri del genocidio stalinista siano stati scoperti, oggi noi sappiamo che nell'URSS l'omicidio di massa non fu meno sistematico e metodico di quello praticato più tardi dai tedeschi, e che le tecniche usate dalle "Einsatzgruppen" furono prima sperimentate su grande scala dalla formidabile burocrazia del N.K.V.D. Nel 1988, per esempio, un settimanale della Bielorussia, «Literatura i Mastactva», ha pubblicato i risultati di un'indagine di Z. Pozniak e J. Shmygaliev (in un articolo intitolato "Kuropaty - la strada della morte", pubblicato in seguito anche su «Sovietskaya Estonia» e «Moskovskiye Novosti») sulle fosse comuni scoperte attorno a tutte le città maggiori della Bielorussia, riempite nel periodo 1937-40 con centinaia di migliaia di cadaveri, tutti con fori di proiettile nel collo o nel cranio. Accanto ai «nemici del popolo» locali giacevano cittadini polacchi deportati dai territori orientali della Polonia recentemente annessi. «La maggior parte degli oggetti rinvenuti nella fossa n. 5 deve essere appartenuta all'intellighenzia. Tra essi furono trovati articoli da toletta, occhiali, monocoli e medicinali in grande quantità, insieme a scarpe di ottima qualità, spesso fabbricate su misura, calzature eleganti per signora, guanti di buon gusto. Considerando l'inventario degli oggetti ritrovati e il fatto che in molti casi essi erano accuratamente impacchettati (oltre che altri indizi, come la presenza di provviste alimentari e di valige) si può concludere che le vittime lasciarono le proprie case poco prima di essere uccise, senza passare da una prigione. È possibile ipotizzare che esse siano state 'liquidate' (secondo l'espressione corrente) senza processo» (citato da un articolo apparso sulla rivista polacca «Konfrontacje» nel novembre del 1988, p. 19). Per quanto ne sappiamo, le scoperte fatte dai due intraprendenti giornalisti costituiscono, come si suol dire, la punta di un iceberg.

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(6). A. Schutz, "SartrÈs Theory of the Alter Ego", in " Collected Papers", vol. 1, Den Haag, Nijhoff, 1967, p. 189 (il saggio in questione è stato omesso nell'edizione italiana dell'opera, "Saggi sociologici", Torino, Utet, 1979).

(7). E. Lévinas, "Ethique et Infini", Paris, Librairie Arthème Fayard et Radio France, 1982, trad. it. "Etica e infinito: dialoghi con Philippe Nemo", Roma, Città nuova, 1984, p.p. 108-15.

(8). H. Mommsen, "Anti-Jewish Politics and the Interpretation of the Holocaust", in "The Cballenge of the Third Reich: the Adam von Trotta Memorial Lectures", a cura di H. Bull, Oxford, Clarendon Press, 1986, p. 117.

(9). H. Arendt, "La banalità del male", cit., p. 113.(10). M. Broszat, "The Third Reich and the German People". in "The Challenge of the Third Reich", a cura di H. Bull, cit., p. 90.

(11). Confer K.A. Schleunes, "The Twisted Road to Auschwitz: Nazi Policy Toward German Jews, 1933-39", Champaign, Ill., University of Illinois Press, 1970, p.p. 80-8.

(12). Confer I. Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich", Oxford, Clarendon Press, 1983.

(13). D.E. Showalter, "Little Man, What Now?", New York, Archor Books, 1982, p. 85.

(14). Citato in J.C. Fest, "Das Gesicht des Dritten Reiches: Profile einer totalitären Herrschaft", München, Piper, 1963, trad. it. " Il volto del Terzo Reich", Milano, Garzanti, 1977, p. 185.

(15). I. Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich", cit., p.p. 275, 371-2.

(16). Ibidem, p. 370.

(17). H. Mommsen, "Anti-Jewish Politics and the Interpretation of the Holocaust", cit., p. 128.

(18). R. Hilberg, "The Destruction of the European Jews", New York, Holmes & Meier, 1983, vol. 3, p. 999.

(19). Confer H. Fein, "Accounting for Genocide: National Response and Jewish Victimization during the Holocaust", New York, Free Press, 1979.

(20). H. Mommsen, "Anti-Jewish Politics and the Interpretation of the Holocaust", cit., p. 136.

(21). Ibidem, p. 140.

(22). P. Caputo, "A rumor of War", New York, Holt, Rinehart & Winston, 1977, p. 229.

(23). J. Lachs, "Responsibility and the Individual in Modern Society" , Brighton, Harvester, 1981, p.p. 12, 13, 57-8.

(24). C.R. Browning, "Fateful Months: Essay on the Emergence of the Final Solution", New York, Holmes & Meier, 1985, p.p. 66-7.

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(25). C.R. Browning, "The Govemment Experts", in "The Holocaust: Ideology, Bureaucracy, and Genocide", a cura di HFriedlander e S. Milton, Millwood, N.Y., Kraus International Publications, 1980, p. 190.

(26). C.R. Browning, "Fateful Months", cit., p.p. 64-5.

(27). Nelle sue conversazioni con Charbonnier, Claude Lévi-Strauss ha definito la civiltà moderna come "antropoemetica", in quanto distinta dalle culture «primitive» "antropofagiche": queste ultime «divorano» i propri avversari, mentre noi li «vomitiamo» (separiamo, segreghiamo, espelliamo, escludiamo dal nostro universo di obblighi sociali).

(28). L'assegnazione, da parte del mito legittimante della civiltà occidentale, di tutte le pulsioni naturali (cioè presociali, e perciò anche della «responsabilità verso l'altro» in condizioni di prossimità) alla categoria degli «istinti animali», e da parte della mentalità burocratica alla categoria delle forze irrazionali, ricorda da vicino la denigrazione di tutte le tradizioni a base locale e comunitaria nel corso della crociata culturale che ha accompagnato l'affermazione dello stato moderno e la promozione delle sue pretese universalistiche e assolutistiche. Confer Z. Bauman, "Legislators and Interpreters", cit., cap. 4.

(29). R. Hilberg, "The Significance of the Holocaust", in "The Holocaust: Ideology, Bureaucracy, and Genocide", a cura di H Friedlander e S. Milton, cit., p.p. 98-9.

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8. RIFLESSIONI CONCLUSIVE: RAZIONALITÀ E VERGOGNA.

C'è una storia ambientata nel campo di concentramento di Sobibór. Quattordici prigionieri tentarono di fuggire. Nel giro di poche ore furono tutti catturati e portati sul piazzale delle adunate, di fronte al resto dei prigionieri. Qui fu loro detto: «Fra un momento voi morirete, naturalmente. Ma prima ciascuno di voi sceglierà un compagno da portare con sé nella morte». «Mai!», risposero i condannati. «Se rifiutate», disse tranquillamente il comandante, «sarò io a fare la selezione. Soltanto che, invece di quattordici, ne sceglierò cinquanta». Non fu necessario mettere in atto quella minaccia.

Nel film di Lanzmann "Shoah" un sopravvissuto a una fuga da Treblinka ricorda che quando il flusso dei condannati alle camere a gas diminuì, ai membri del "Sonderkommando" vennero ritirate le razioni di cibo e, essendo venuta meno la loro utilità, pendeva su di essi una minaccia di morte. Le loro prospettive di sopravvivenza tornarono ad essere buone quando altri gruppi di ebrei furono rastrellati e caricati sui treni per Treblinka.

Sempre nello stesso film di Lanzmann, un ex membro di un " Sonderkommando", ora barbiere a Tel-Aviv, ricorda come, tagliando i capelli alle vittime - capelli destinati ad imbottire i materassi dei tedeschi - egli non dicesse nulla sullo scopo di tale operazione e spingesse i propri clienti ad affrettarsi verso quelli che, secondo quanto veniva fatto loro credere, erano dei bagni comuni.

Nella discussione suscitata dal profondo e toccante articolo "Poor Poles look at the Ghetto", di Jan Blonski, e condotta nel 1987 sulle pagine dell'autorevole settimanale cattolico polacco «Tygodnik Powszechny», Jerzy Jastrzebowski rammenta una storia raccontata da un suo anziano parente. La loro famiglia si era offerta di nascondere un vecchio amico, un ebreo che aveva la fisionomia di un polacco e parlava l'elegante polacco dell'aristocrazia, ma si era rifiutata di fare la stessa cosa per le sue tre sorelle, che avevano l'aspetto di ebree e si esprimevano con un forte accento ebraico. L'amico aveva rifiutato di essere salvato da solo. Jastrzebowski commenta:

"Se la decisione della mia famiglia fosse stata diversa, con nove probabilità su dieci saremmo stati tutti fucilati [nella Polonia occupata dai nazisti la punizione per chi nascondeva o aiutava gli ebrei era la morte]. Data la situazione, la probabilità che il nostro amico e le sue sorelle sopravvivessero era forse ancora minore. E tuttavia la persona che mi raccontava questa storia e che ripeteva «Che cosa potevamo fare? Non c'era niente che potessimo fare!», non mi guardava negli occhi. Egli avvertiva che io avevo il sentore di una menzogna, anche se tutti i fatti narrati erano veri".

Un altro partecipante alla discussione, Kazimir Dziewanowski, ha scritto:

"Nel nostro paese, alla nostra presenza e sotto i nostri occhi, furono uccisi diversi milioni di persone innocenti: ciò costituisce un evento così terrificante, una tragedia così spaventosi, che è giusto, umano e comprensibile che i sopravvissuti siano ossessionati dal ricordo e non riescano a ritrovare la pace... È impossibile dimostrare che si sarebbe potuto fare di più, ma è anche impossibile dimostrare che non si sarebbe potuto fare di più".

Wladyslaw Bartoszewski, che durante l'occupazione era responsabile dell'assistenza polacca agli ebrei, ha commentato: «Soltanto chi ha pagato con la propria vita può dire di aver fatto tutto quello che poteva».

Tra i messaggi di Lanzmann quello di gran lunga più inquietante evidenzia "la razionalità del male" (o il male della razionalità?). Ora dopo ora, durante quell'interminabile agonia che è assistere

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a "Shoah", la terribile, umiliante verità viene rivelata e presentata nella sua oscena nudità: per uccidere milioni di persone furono sufficienti pochi uomini armati.

È sorprendente quanto fossero terrorizzati quei pochi uomini con il fucile, quanto fossero consapevoli della fragilità del proprio dominio su quel bestiame umano. Il loro potere si basava sulla condanna a vivere in un mondo di finzioni, il mondo che essi, gli uomini con il fucile, definivano e raccontavano alle vittime. In quel mondo l'obbedienza era razionale, la razionalità era obbedienza. La razionalità dava i suoi frutti, almeno per qualche tempo, ma in quel mondo non c'era altro tempo per vivere. Ogni passo sulla strada verso la morte era meticolosamente pianificato in modo da essere calcolabile in termini di perdite e profitti, ricompense e punizioni. Una stanza da bagno, completa di spogliatoi e di barbieri, di asciugamani e di sapone, rappresentava un'agognata liberazione dai pidocchi, dallo sporco e dal tanfo del sudore e degli escrementi umani. Individui razionali entreranno tranquillamente, pacificamente, con gioia, in una camera a gas, se solo si farà loro credere che si tratta di una stanza da bagno.

Come i membri dei "Sonderkommandos" ben sapevano, rivelare alle vittime che la stanza da bagno era una camera a gas costituiva una trasgressione punibile con la morte immediata. La trasgressione non sarebbe stata così grave, e la punizione così dura, se le vittime fossero state accompagnate alla morte semplicemente dalla paura o dalla rassegnazione suicida. Ma per fondare il proprio ordine soltanto sulla paura le S.S. avrebbero avuto bisogno di molti più uomini, armi e denaro. La razionalità era molto più efficace, facile da ottenere ed economica. Così, per distruggere le vittime, le S.S. ne coltivarono con cura la razionalità.

Intervistato recentemente dalla televisione britannica, un alto funzionario dei servizi di sicurezza sudafricani ha messo le carte in tavola: l'A.N.C. costituisce un pericolo reale, a suo parere, non per i propri atti di sabotaggio - per quanto spettacolari o dannosi - ma perché potrebbe indurre la popolazione nera, o gran parte di essa, a trasgredire «la legge e l'ordine»; se ciò avvenisse, anche i migliori servizi di informazione e le più potenti forze di sicurezza sarebbero impotenti (una previsione confermata di recente dall'esperienza dell'Intifada). Il terrore resta efficace finché la bolla d'aria della razionalità non viene squarciata. Il più sinistro, crudele, sanguinario dei tiranni deve restare un devoto predicatore e difensore della razionalità, o perire. Nel rivolgersi ai propri sudditi egli deve «parlare alla ragione». Deve proteggere la ragione, lodare le virtù del calcolo dei costi e degli effetti, difendere la logica dalle passioni e dai valori che, irragionevolmente, non tengono conto dei costi e si rifiutano di obbedire alla logica.

Tutti i governanti possono contare, in buona misura, sul fatto che la razionalità è dalla loro parte. I nazisti, inoltre, manipolarono la posta in palio in modo che la razionalità della sopravvivenza rendesse irrazionali tutte le altre motivazioni dell'azione umana. All'interno del mondo creato dai nazisti la ragione era nemica della morale. La difesa razionale della propria sopravvivenza richiedeva la non resistenza alla distruzione dell'altro. Questa razionalità spingeva i perseguitati gli uni contro gli altri e cancellava la loro comune umanità. Inoltre, li trasformava in una minaccia e in un nemico per tutti coloro che non erano ancora stati condannati a morte e ai quali veniva garantito, momentaneamente, il ruolo di spettatori. Il nobile credo della razionalità assolveva benevolmente sia le vittime sia gli spettatori dall'accusa di immoralità e dal senso di colpa. Avendo ridotto la vita umana al calcolo dell'autoconservazione, la razionalità la derubava della sua umanità.

Il regime nazista è finito da tempo, ma la sua venefica eredità è tutt'altro che morta. La nostra perdurante incapacità di riconoscere il significato dell'Olocausto, di scoprire il bluff dell'inganno omicida, la nostra disponibilità ad assecondare il gioco della storia con i dadi truccati di una ragione che si scuote di dosso le proteste della morale come irrilevanti o insulse, il nostro consenso alla validità del calcolo costi-benefici come argomento contro gli imperativi etici: tutto ciò dimostra in

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modo eloquente la corruzione che l'Olocausto ha portato alla luce, ma che ha scarsamente contribuito a screditare.

Due anni della mia infanzia furono segnati dai tentativi, eroici quanto vani, che mio nonno fece per introdurmi ai tesori della tradizione biblica. Forse egli non era un insegnante particolarmente ispirato, forse io fui un allievo ottuso ed ingrato: sta di fatto che non ricordo quasi nulla delle sue lezioni. Una storia, tuttavia, si è insediata profondamente nella mia memoria e mi ha ossessionato per molti anni. È la storia di un saggio che incontrò ; un mendicante mentre viaggiava su una strada con un asino carico di sacchi di cibo. Il mendicante chiese qualcosa da mangiare. «Aspetta», disse il saggio, «devo prima slegare i sacchi». Prima che egli avesse aperto uno dei sacchi, però, la lunga inedia patita dal mendicante ebbe il sopravvento, ed egli morì. Allora il saggio cominciò a pregare: «Puniscimi, o Signore, per non essere riuscito a salvare la vita di mio fratello». Il turbamento che questa storia provocò in me è praticamente l'unica cosa che io ricordi dell'interminabile serie di sermoni tenuti da mio nonno. Essa cozzava con tutti i modelli di pensiero che i miei insegnanti mi avevano inculcato fino ad allora e che continuarono a propormi in seguito. La storia mi colpì perché illogica (come effettivamente era), e perciò sbagliata (come non era affatto). Ci volle l'Olocausto per convincermi che il secondo attributo non consegue necessariamente dal primo.

Anche se sapessimo che sul piano pratico non si poteva fare molto di più per salvare le vittime dell'Olocausto (almeno non senza affrontare costi aggiuntivi probabilmente enormi), ciò non basterebbe a tacitare gli scrupoli morali. Né significherebbe che il sentimento di vergogna di una persona dotata di senso morale è infondato (anche se la sua irrazionalità in termini di autoconservazione può essere facilmente provata). Di fronte a questo senso di vergogna - condizione indispensabile per neutralizzare il veleno ad azione ritardata contenuto nella perniciosa eredità dell'Olocausto - appaiono irrilevanti i più scrupolosi e storicamente accurati calcoli sul numero di coloro che «potevano» o «non potevano» prestare aiuto, di coloro che «potevano» o «non potevano» essere aiutati.

Perfino i più sofisticati metodi di indagine quantitativa sulla «realtà dei fatti» non ci porterebbero molto lontano verso una soluzione oggettiva (cioè universalmente vincolante) del problema della responsabilità morale. Non esiste un metodo scientifico per stabilire se i gentili non riuscirono a impedire la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento perché le vittime stesse furono così passive e docili, o se gli ebrei sfuggirono tanto raramente ai propri persecutori perché non avevano un luogo dove scappare, avvertendo l'ostilità o l'indifferenza dell'ambiente che h circondava. Analogamente, non ci sono metodi scientifici per stabilire se i ricchi residenti del ghetto di Varsavia avrebbero potuto fare di più per alleviare la sorte dei poveri che morivano di fame e di freddo per le strade, o se gli ebrei tedeschi avrebbero potuto ribellarsi alla deportazione degli "Ostjuden", o se gli ebrei di cittadinanza francese avrebbero potuto fare qualcosa per impedire la reclusione degli «ebrei non francesi». Quel che è peggio, tuttavia, è che "il calcolo delle possibilità oggettive e la valutazione dei costi oscurano l'essenza morale del problema".

Non si tratta di stabilire se i sopravvissuti - combattenti che a volte poterono solo fare da spettatori, spettatori che a volte poterono solo temere di diventare vittime - "dovrebbero" provare collettivamente vergogna o sentirsi orgogliosi di sé. Il punto è che solo il " sentimento liberatorio della vergogna" può aiutare a ricostruire il significato morale di una terrificante esperienza storica, e con ciò contribuire a esorcizzare lo spettro dell'Olocausto, che ancora oggi turba la coscienza umana e ci fa trascurare la vigilanza nel presente per consentirci di vivere m pace con il passato. La scelta non è tra vergogna e orgoglio. La scelta è tra l'orgoglio di una vergogna moralmente purificatrice e la vergogna di un orgoglio moralmente devastante. Io non sono sicuro di come reagirei di fronte a un estraneo che bussasse alla mia porta e mi chiedesse di sacrificare me e la mia famiglia per salvargli la vita. Questa scelta mi è stata risparmiata. Ma sono sicuro che, se avessi negato un rifugio a chi me lo chiedeva, sarei pienamente in grado di dimostrare a me stesso e agli

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altri, dopo aver calcolato il numero delle vite salvate e perdute, la piena razionalità della scelta di respingere l'estraneo. Sono anche certo che proverei una vergogna irragionevole, illogica, ma assolutamente umana. E tuttavia credo che, se non fosse per questo sentimento di vergogna, la mia decisione di respingere l'estraneo continuerebbe a corrompermi fino alla fine dei miei giorni.

"Il mondo disumano creato dalla tirannia omicida disumanizzò le proprie vittime e coloro che assistettero passivamente alla persecuzione, forzando gli uni e gli altri a usare la logica dell'autoconservazione come assoluzione dall'accusa di insensibilità morale e di inazione". Nessuno può essere giudicato colpevole semplicemente per aver ceduto a tale pressione. Ma nessuno può essere esentato dalla disapprovazione di sé per aver ceduto. Soltanto se si prova vergogna per la propria debolezza, si può finalmente infrangere quella prigione mentale che è sopravvissuta ai suoi costruttori e alle sue guardie. Il nostro compito odierno è quello di distruggere la capacità della tirannide di continuare a tenere in catene vittime e testimoni molto dopo che la prigione è stata smantellata.

Anno dopo anno, l'Olocausto si riduce alle dimensioni di un episodio storico che, per di più, sta rapidamente sprofondando nel passato. Il significato del suo ricordo consiste sempre meno nella necessità di punire i criminali o di saldare i conti ancora aperti. I criminali sfuggiti a un processo sono ora individui afflitti dalla senilità; tali sono anche, per lo più, o saranno presto, i sopravvissuti alla persecuzione. Se anche altri assassini fossero scoperti, strappati al loro nascondiglio e portati di fronte a una tardiva giustizia, sarebbe sempre più difficile affrontare l'enormità del loro crimine con la dignità sacrale del processo (si vedano i casi imbarazzanti di Demianiuk e di Barbie). E sono sempre meno numerosi anche coloro che al tempo delle camere a gas erano abbastanza adulti da poter decidere se aprire o chiudere la porta agli estranei che cercavano rifugio. Se la punizione del crimine e la chiusura dei conti in sospeso esaurissero il significato storico dell'Olocausto, si potrebbe certamente lasciare che questo terrificante episodio rimanga confinato nell'ambito al quale sembra appartenere - il passato - e affidarlo allo studio degli storici. Ma la verità è che la chiusura dei conti in sospeso è solo una delle ragioni per continuare a ricordare l'Olocausto. E, a ben guardare, una ragione minore. Ora che essa perde rapidamente quanto le resta della propria importanza "pratica", ciò non è mai stato così evidente.

Oggi più che mai l'Olocausto non costituisce un'esperienza che appartiene ai soggetti privati (ammesso che mai sia stato così): non ai suoi esecutori, affinché vengano puniti; non alle sue vittime dirette, perché godano di simpatia, favori o indulgenze particolari in nome delle loro sofferenze passate; e non ai suoi testimoni, in cerca di redenzione o di certificati di innocenza. "Il significato attuale dell'Olocausto è dato dalla lezione che esso contiene per l'intera umanità".

La lezione dell'Olocausto sta nella facilità con cui la maggior parte degli individui - in una situazione nella quale non esiste una scelta «buona», o che rende quest'ultima assai costosa - prende le distanze dalla questione del dovere morale (o non riesce a porsela correttamente), adottando invece i precetti dell'interesse razionale e dell'autoconservazione. "In un sistema in cui la razionalità e l'etica spingono in due direzioni diverse, l'umanità subisce i danni maggiori". Il male può svolgere il suo sporco lavoro, sperando che la maggior parte degli individui si astenga dal compiere gesti avventati ed imprudenti; e resistere al male è avventato e imprudente. Il male non ha bisogno né di seguaci entusiasti, né di un pubblico plaudente. Basterà l'istinto di conservazione, incoraggiato dal pensiero che induce a dire: non è ancora il mio turno, grazie a Dio, mentendo ora posso ancora salvarmi.

C'è poi un'altra lezione che troviamo nell'Olocausto, e di non minore importanza. Se la prima lezione contiene un avvertimento, la seconda offre una speranza; è la seconda che rende la prima meritevole di essere ribadita.

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La seconda lezione ci dice che non è affatto scontato o inevitabile porre l'autoconservazione al di sopra del dovere morale. Si possono subire pressioni in questo senso, ma non si può essere costretti a farlo, e di conseguenza non si possono scaricare le proprie responsabilità su coloro che esercitano le pressioni. "Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell'autoconservazione, ciò che importa è che qualcuno l'abbia fatto". Il male non è onnipotente. È possibile resistergli. La testimonianza di coloro che effettivamente gli hanno opposto resistenza scuote la validità della logica dell'autoconservazione. Mostra ciò che essa è, in ultima analisi: "una scelta". Ci chiediamo quante persone debbano sfidare questa logica affinché il male sia ridotto all'impotenza. Esiste una soglia magica di resistenza al di là della quale la tecnologia del male cessa di funzionare?

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