Zagreb El Sky

7
Zagrebelsky: vi spiego il "patto" tra Cristo e il Grande inquisitore Un grande racconto sulla libertà e la seduzione del potere. Era dedicato alla «Leggenda del grande inquisitore» - il racconto di Ivan ne I Fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij - l’incontro pubblico che si è tenuto sabato scorso presso il Centro Culturale di Firenze, con due ospiti d’eccezione: Tat’jana Kasatkina, filologa, direttore del Dipartimento di Teoria della letteratura presso l'Accademia Russa delle Scienze, e Gustavo Zagrebelsky, giurista, presidente emerito della Corte costituzionale. «Lavoro sulla Leggenda da ormai una decina d’anni» dice il professore a IlSussidiario.net «perché i suoi temi hanno anche risvolti prettamente costituzionali». Ecco la sua lettura del «grande enigma». Gustavo Zagrebelsky, lei è un giurista. Perché i temi affrontati nelle grandi opere di Dostoevskij sono da anni al centro dei suoi interessi? Opere come Delitto e castigo, L’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov sono estremamente complesse, e non si è mai finito di rileggerle. Sono testi dai quali in molti, in gioventù, siamo stati profondamente affascinati, ma ogni età ha i suoi limiti. Per mio interesse personale lavoro sulla «Leggenda del grande inquisitore» da ormai una decina d’anni, perché i suoi temi non riguardano solo le grandi domande dell’uomo di ogni tempo, ma hanno anche risvolti prettamente costituzionali. Il grande tema della «Leggenda» non è quello della libertà? Della libertà e del potere. Il grande inquisitore si presenta come liberatore degli uomini dal peso della libertà. Sembra quasi un contraddizione: liberare dalla libertà. Ma è proprio questo ch’egli vuole fare: sollevare gli esseri umani da quella che sostiene essere la maledizione che il Cristo è venuto a portare agli uomini. Alla stragrande maggioranza di essi, dice il vegliardo al Cristo prigioniero che lo ascolta in silenzio, non si addice la vertigine della libertà, ma la servitù dello spirito. Perché, chiede l’inquisitore, sei tornato? Non hai diritto di tornare sulla Terra per impedirci di garantire agli uomini la umile, tiepida, fanciullesca felicità che essi possono permettersi una volta che rinuncino alla Tua libertà. Cosa la impressiona di più del terribile incontro che avviene in quella cella? Una figura è il rovescio dell’altra. Il grande inquisitore e il Cristo sono fratelli e al tempo stesso nemici mortali. Cristo promuove la vita, l'inquisitore la soffoca. Ma sono inscindibilmente connessi, anche nella struttura narrativa, che in Dostoevskij è sempre dialogica, mai singolare. Sembrerebbe che questo capitolo faccia eccezione, in realtà non è così: innanzitutto la Leggenda si inserisce nel dialogo tra Ivan e Alëša, e poi è essa stessa un dialogo, anche se uno dei due protagonisti tace. Tace, ma comunica. Il silenzio del Cristo è come un pungolo continuo nei confronti dell’inquisitore, perché porti fino al punto estremo la sua posizione. Che culmina con la condanna a morte. Ma la conclusione spariglia le carte. Dopo la condanna al rogo da parte dell’inquisitore, c’è il colpo di scena: Cristo si alza e dà un bacio al vegliardo. Ci aspetteremmo che quell’incontro possa concludersi solo in un modo, con il rogo dell’uno o con l’annichilimento dell’altro, invece termina con un bacio. Ma attenzione, perché il bacio non è un atto unilaterale del Cristo. Il vecchio reagisce, le sue labbra esangui hanno un tremito. Non rimane passivo; una comunicazione, tra i due, avviene. Il Cristo viene a quel punto liberato, a patto che non ritorni mai più. Viene rimandato non da dove era venuto, ma nelle oscure vie della città, cioè in mezzo agli uomini. L’anno scorso, nella sua lezione all’Accademia dei Lincei, lei commentò la «Leggenda» concentrandosi sul tema del potere. Quale tipo di razionalità politica fa sua l’inquisitore? L’incontro avviene nella piazza della cattedrale di Siviglia dopo il rogo di qualche centinaio di eretici ad maiorem Dei gloriam, dice Dostoevskij. Sembrerebbe dunque che l’inquisitore rappresenti la Chiesa, nella sua funzione di salvaguardia dell’ortodossia. È una interpretazione che non mi convince, perché il compito

description

Zagrebelsky: vi spiego il "patto" tra Cristo e il Grande inquisitore

Transcript of Zagreb El Sky

Page 1: Zagreb El Sky

Zagrebelsky: vi spiego il "patto" tra Cristo e il Grande inquisitore Un grande racconto sulla libertà e la seduzione del potere. Era dedicato alla «Leggenda del grande inquisitore» - il racconto di Ivan ne I Fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij - l’incontro pubblico che si è tenuto sabato scorso presso il Centro Culturale di Firenze, con due ospiti d’eccezione: Tat’jana Kasatkina, filologa, direttore del Dipartimento di Teoria della letteratura presso l'Accademia Russa delle Scienze, e Gustavo Zagrebelsky, giurista, presidente emerito della Corte costituzionale. «Lavoro sulla Leggenda da ormai una decina d’anni» dice il professore a IlSussidiario.net «perché i suoi temi hanno anche risvolti prettamente costituzionali». Ecco la sua lettura del «grande enigma». Gustavo Zagrebelsky, lei è un giurista. Perché i temi affrontati nelle grandi opere di Dostoevskij sono da anni al centro dei suoi interessi? Opere come Delitto e castigo, L’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov sono estremamente complesse, e non si è mai finito di rileggerle. Sono testi dai quali in molti, in gioventù, siamo stati profondamente affascinati, ma ogni età ha i suoi limiti. Per mio interesse personale lavoro sulla «Leggenda del grande inquisitore» da ormai una decina d’anni, perché i suoi temi non riguardano solo le grandi domande dell’uomo di ogni tempo, ma hanno anche risvolti prettamente costituzionali. Il grande tema della «Leggenda» non è quello della libertà? Della libertà e del potere. Il grande inquisitore si presenta come liberatore degli uomini dal peso della libertà. Sembra quasi un contraddizione: liberare dalla libertà. Ma è proprio questo ch’egli vuole fare: sollevare gli esseri umani da quella che sostiene essere la maledizione che il Cristo è venuto a portare agli uomini. Alla stragrande maggioranza di essi, dice il vegliardo al Cristo prigioniero che lo ascolta in silenzio, non si addice la vertigine della libertà, ma la servitù dello spirito. Perché, chiede l’inquisitore, sei tornato? Non hai diritto di tornare sulla Terra per impedirci di garantire agli uomini la umile, tiepida, fanciullesca felicità che essi possono permettersi una volta che rinuncino alla Tua libertà. Cosa la impressiona di più del terribile incontro che avviene in quella cella? Una figura è il rovescio dell’altra. Il grande inquisitore e il Cristo sono fratelli e al tempo stesso nemici mortali. Cristo promuove la vita, l'inquisitore la soffoca. Ma sono inscindibilmente connessi, anche nella struttura narrativa, che in Dostoevskij è sempre dialogica, mai singolare. Sembrerebbe che questo capitolo faccia eccezione, in realtà non è così: innanzitutto la Leggenda si inserisce nel dialogo tra Ivan e Alëša, e poi è essa stessa un dialogo, anche se uno dei due protagonisti tace. Tace, ma comunica. Il silenzio del Cristo è come un pungolo continuo nei confronti dell’inquisitore, perché porti fino al punto estremo la sua posizione. Che culmina con la condanna a morte. Ma la conclusione spariglia le carte. Dopo la condanna al rogo da parte dell’inquisitore, c’è il colpo di scena: Cristo si alza e dà un bacio al vegliardo. Ci aspetteremmo che quell’incontro possa concludersi solo in un modo, con il rogo dell’uno o con l’annichilimento dell’altro, invece termina con un bacio. Ma attenzione, perché il bacio non è un atto unilaterale del Cristo. Il vecchio reagisce, le sue labbra esangui hanno un tremito. Non rimane passivo; una comunicazione, tra i due, avviene. Il Cristo viene a quel punto liberato, a patto che non ritorni mai più. Viene rimandato non da dove era venuto, ma nelle oscure vie della città, cioè in mezzo agli uomini. L’anno scorso, nella sua lezione all’Accademia dei Lincei, lei commentò la «Leggenda» concentrandosi sul tema del potere. Quale tipo di razionalità politica fa sua l’inquisitore? L’incontro avviene nella piazza della cattedrale di Siviglia dopo il rogo di qualche centinaio di eretici ad maiorem Dei gloriam, dice Dostoevskij. Sembrerebbe dunque che l’inquisitore rappresenti la Chiesa, nella sua funzione di salvaguardia dell’ortodossia. È una interpretazione che non mi convince, perché il compito

Page 2: Zagreb El Sky

dell’inquisizione ecclesiastica era la conversione, non la morte. Un’altra lettura è quella dell’inquisitore come detentore della «ragion di Stato»: ogni generazione produce un ristretto numero di eletti che si prendono cura della massa, alla quale gli arcana imperii sono del tutto estranei. Ma secondo me queste interpretazioni sono sbagliate entrambe – o meglio, non applicabili. Perché? A mio avviso non si tratta di ragion di Stato, perché l’inquisitore sostiene le sue posizioni dal punto di vista della «ragion del volgo»: si presenta come amico e non come nemico del popolo. Egli, che ha detto di sì a tutte le tentazioni del demonio nel deserto, non vuole affatto costringere con la forza gli esseri umani ad obbedire; vuole piuttosto impadronirsi dell’animo. È l’anima umana che gli interessa. Il potere non compare come violenza, ma nella sua versione seduttiva, fino al punto di dispensare l’illusione di una vita oltre la morte. Noi, gli eletti – dice l’inquisitore – sappiamo bene che non è così, ma poiché sappiamo illudere gli uomini, essi moriranno felici. C’è qualcosa, nella «Leggenda», che mette in scacco il progetto dell’inquisitore? Insomma, la libertà vince o perde? È il grande enigma. Il lettore stesso è provocato a scegliere se stare dalla parte dell’inquisitore o dalla parte del Cristo silente. Ma l’esito non è così chiaro. Naturalmente, se uno segue l’andamento del dialogo, è portato a stare dalla parte della libertà cristiana, però la chiusura riapre tutto. Torniamo così al gesto enigmatico del bacio. Cristo bacia, alla fine, il vecchio ecclesiastico. Ma se il vecchio “raccoglie” il bacio, perché quel «non venire mai più»? Vi è non vi è una riconciliazione? Appunto. Non vi è una riconciliazione né nei termini del compromesso, né in quelli del reciproco riconoscimento. Amo molto l’interpretazione della «Leggenda» che ha dato Dietrich Bonhoeffer. Mentre una prima lettura porta a dire che le due posizioni, inquisitore e Cristo, legge e libertà, sono diametralmente contrapposte, nella sua Etica Bonhoeffer dice una cosa diversa: che l’inquisitore si occupa delle questioni «penultime», quelle del mondo, il Cristo, invece, delle cose ultime. Ma se non ci fosse una garanzia delle cose penultime – fuor di metafora: se non ci fosse qualcuno che si occupa del reggimento della società – ci sarebbe la possibilità di volgersi alle cose ultime? Per Bonhoeffer il Cristo, col suo bacio, riconosce che l’inquisitore ha ragione. Sia pure soltanto nelle cose penultime. La «Leggenda» è una fonte inesauribile. Cosa ci insegna oggi? È vero: le sue fortune non sono mai state così alte come in questi anni. Tra le moltissime cose, ci dice che la via della salvezza, non quella «larga» dell’inquisitore, ma quella «stretta» del Cristo, è individuale. Non vi si giunge attraverso regole generali che, essendo tali e contenendo un elemento di autoritarietà, fanno violenza alle nostre caratteristiche individuali. No, alla salvezza – qualunque cosa essa significhi – si può solo arrivare in piena libertà.

Page 3: Zagreb El Sky

A giudicare non sol dalla quantità, ma anche dalla qualità delle citazioni, delle sue interpretazioni letterarie, teatrali e cinematografiche la forza attrattiva della Leggenda del Grande Inquisitore contenuta ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij, a distanza di quasi un secolo e mezzo non è diminuita. Anzi, è cresciuta. E la ragione determinante è la forza con a quale essa solleva dal fondo questioni che sempre si rinnovano cl volgere delle epoche e non si possono eludere. La libertà di fronte al bene e al male; libertà come benedizione o maledizione; il nichilismo e la violenza; la felicità, l'infelicità degli esseri umani, cioè la natura del loro essere; il significato della vita e del suo esito nella morte; il dolore e la redenzione dal dolore e dal peccato; la religione e l'ateismo; il Cristianesimo, nella versione cattolico-romana, e il socialismo come strumenti di controllo delle coscienza e di livellamento della società. Nel luogo e nel tempo in cui fu scritta, la Russia di meta ̀ ottocento, radicaleggiante, sedotta dalle mode filo-occidentali e insofferente del dispotismo zarista e dell'ortodossia cristiana, la Leggenda sembrò una farneticazione letteraria. Nei decenni successivi, fu letta e condannata come espressione di un pensiero anacronistico, antidemocratico e antimoderno: come vagheggiamento di una restaurazione. Poi, ancora, alla luce degli sviluppi politici e sociali novecenteschi, fu giudicata una previsione e una condanna ante litteram di totalitarismi incipienti, cioe ̀ come un ammonimento profetico. Oggi, ora che ciò che allora si annunciava è davanti ai nostri occhi, pienamente dispiegato, la voce del Grande Inquisitore può essere ascoltata diversamente, al di sopra delle interpretazioni politiche, come una previsione, una profezia di sventura, se non come un annuncio apocalittico che riguarda tutti nel tempo presente. Qui, per iniziare, assumiamo la Leggenda come un discorso generale sul governo. Da dove nasce l'obbedienza nel cuore degli esseri umani? È l'enigma degli enigmi politici. Il grande Inquisitore ha una risposta, ed è spaventosa, disumana o forse troppo umana: l'obbedienza nasce dall'odio della libertà. Ma quest’affermazione è generica. L'odio per la libertà è una caratteristica dei regimi fondati sulla ragion di Stato e sulla verità di Stato. Nella Leggeda troviamo qualcosa di molto più impressionante, cioè dell'odio per la libertà non dei governanti (cosa abbastanza naturale), ma dei governati (cosa assai meno ovvia). Ciò di cui qui si parla è la "servitù volontaria", non la servitù imposta con la coercizione delle volontà. Per questo, ogni riflessione sul carattere politico del messaggio della Leggenda deve prendere le distanze da alcuni luoghi comuni. "Ragion di Stato” e “Ragion del volgo" Il tempo in cui si situa l'azione narrata è il secolo XVI, in cui prende forma lo Stato moderno e si svela l'esistenza di una doppia legge e di una doppia morale, una ordinaria per i comuni motali e una straordinaria che riguarda i governanti, che curano i superiori interessi dello Stato: sopravvivenza, difesa, grandezza. Questi interessi stanno nel cuore del potere e devono sottrarsi alla vista del volgo, incapace di visioni autenticamente politiche. La loro cura è riservata agli uomini di Stato, l cui compito non è di onorare la ragione comune, ma di seguire la Ragion di Stato. Coloro che conoscono gli arcana del potere, cioè gli iniziati alle arti del governo, sono quindi autorizzati, se occorre, ad affrancarsi dalla moralità comune dell'uomo medio e a proclamare quello che, in termini moderni, si dice lo "stato d'eccezione". La Ragion di Stato, dunque, è risorsa di chi sta al potere, al servizio di quell'entità metafisica che è lo Stato stesso, senza il quale gli esseri umani non possono vivere. Il popolo è legato alle leggi della sua morale, adatte a guidare i rapporti sociali. Ma c'è una sfera più alta, quella in cui opera il potere dello Stato. Qui vale una morale segreta, agli occhi della gente comune incomprensibile, anzi scandalosa. Il fine della morale comune è la società virtuosa. Il fine della morale politica è anch'esso la virtù, ma è la virtù dello stato che esige, costi quel che costi, la rovina dei nemici. Il Grande Inquisitore è anch'egli immerso nella distinzione tra coloro (i pochi eletti) che conoscono la realtà del potere e coloro (i molti) che l'ignorano. Ma, per

Page 4: Zagreb El Sky

legittimare il potere dei primi e la soggezione dei secondi, non si rivolge alla Ragion di Stato. Non c'è di mezzo, tra chi dispone del potere e chi al potere è sottoposto, lo Stato, questa entità sovrumana che ha le sue leggi oggettive e le sue astratte e fredde istituzioni. Per l'Inquisitore tutto è molto umano. Egli ha dalla sua quella che si potrebbe dire la ragion del volgo. Non deve salvaguardare lo Stato piegando i sudditi, Non è nemmeno il teorico dei poteri eccezionali. Si appella non alla natura dello Stato, ma a quella degli uomini. Il suo è un governo benigno, non contro, ma per loro. La Ragion di Stato si risolve, in ultima istanza, nel governo della violenza orientata solo allo scopo. La ragion del volgo si risolve non nella violenza, ma nella seduzione o, per usare l'espressione famosa di Tocqueville, in un "potere tutelare, assoluto, dettagliato, regolare, previdente e mite" che elimina la violenza dal proprio orizzonte. Il grande Inquisitore è un rassicuratore che vuole essere amico di tutti. Per questo, la sua morale è una sola, quella del volgo. Tanto gli inquisitori quanto i loro sudditi vi si devono piegare. La differenza e ̀ solo questa: i primi sono sofferenti e i secondi felici. Sofferenti perché consapevoli, felici perché ignari. Gli Inquisitori sono, a loro modo, dei despoti, ma despoti-servitori, che stanno dalla parte di un'umanità innocente, che nulla conosce se non il proprio meschino benessere. Il Principe rinascimentale, che incarna la "ragion di Stato", vede dappertutto potenziali da "spegnere"; l'Inquisitore di Dostoevskij, incarna la "ragion del volgo" e vede dappertutto potenziali amici, da blandire e sedurre. Terrorizzare o lusingare, nell'esercizio del governo. Questa e ̀ una differenza fondamentale, da tenere presente leggendo la Leggenda. Ragion di Fede e ragion del volgo La leggenda non parla di un inquisitore nel senso che la parola ha assunto nella storia dell'intolleranza cristiana verso i nemici della fede. Anche a questo riguardo si deve prendere la distanza. Naturalmente, non sarebbe stata scelta questa figura se non vi fossero somiglianze. Ma le analogie non devono nascondere le differenze. La differenza essenziale è nel fine. Il fine, per tutte le inquisizioni al servizio del dogma, è la sconfitta dell'eresia. È un fine innanzitutto di natura spirituale. La Chiesa, come societa ̀ sovrana, incaricata di mantenere intatta la parola rivelata da Dio, è responsabile di un compito primario: mantenere l'ortodossia. A ogni costo. Per l'Inquisizione si trattava di "spegnere" l'idea che semina dubbi, attentando all'unità della fede. I corpi che portano l'idea sono secondari: li si potrà sopprimere o risparmiare, a seconda che l'idea perversa sia riaffermata o ritrattata. Anzi, la maggior vittoria non è l'eliminazione fisica dell'eretico, ma l'abiura che riafferma la verità. L'Inquisitore della leggenda non ha a che fare con verità ed eresie. Egli ha a che fare con la pasta di cui è fatta l'umanità, della quale è al servizio. Il suo compito non è correggere, ma assecondare. La sua grande trovata sta in questo: il potere può essere assoluto se non si propone di cambiare, punire, frenare la natura umana, ma se la rispetta così com'è e la si lascia sfogare. E' un potere, certamente: ma è un potere amico, dalla parte dell'uomo comune. Per nulla paradossalmente, gli inquisitori potevano considerarsi agenti della carità cristiana. Il loro compito era la salvezza delle anime dei devinati, qualunque cosa comportasse: violenze, torture e condanne. L'Inquisitore della nostra Leggenda, invece, rifugge da ciò. Egli conosce la natura umana e ne ha pietà. Con i suoi mezzi l'accompagna. Non vuole risvegliarla alla verità, ma addormentarla sì, prima che s'affacci alla conoscenza del bene e del male, cioè alla libertà. Ancora una volta la ragione che lo muovo è quella "del volgo". L'Inquisitore di Dostoevskij viene prima degli Inquisitori della Santa Inquisizione: questi devono reprimere, quello si preoccupa di prevenire affinché reprimere non sia poi necessario. Le conclusioni

Page 5: Zagreb El Sky

Possiamo dire cosi ̀: la ragione dell'Inquisitore non è la ragion di Stato e neppure la ragione della fede. È la ragion del volgo. Si capisce allora perché i suoi argomenti ci appaiono familiari e perché a quel capitolo de I fratelli Karamazov ricorriamo spesso per riflettere sulla vita sociale e politica del tempo presente.

Page 6: Zagreb El Sky

Nei Demoni, e soprattutto nei Fratelli Karamazov, c’è la perfetta descrizione di quello che sarebbero potuti diventare i regimi di massa basati sull'uguaglianza livellatrice. Nel capitolo sul Grande Inquisitore - un trattato di antropologia politica - si tratta proprio il tema della societa ̀ massificata, della distinzione tra il gregge dei molti e i pochi pastori, un'immagine che ricorre frequentemente nelle posizioni dei critici della democrazia: il popolo inerte guidato da un despota che offre benessere in cambio della rinuncia alla libertà. La libertà e il potere sono il tema dell'incontro tra il Grande Inquisitore e il Cristo che torna sulla terra, a visitare il suo popolo, a constatare come si è ridotta la sua fede. Da un lato, c'è il Cristo che da la libertà ai figli di Dio, assumendosi il peso dei loro peccati; dall'altro lato c'è il Grande Inquisitore, anch'egli, a suo modo, una figura cristica al rovescio: la sua tesi e che gli esseri umani odiano la libertà che il Cristo ha portato loro, non vogliono la libertà ma la sicurezza, il benessere, la tranquillità. La società del futuro sarà composta - come si legge nel passo dei Demoni - per nove decimi dal gregge e per un decimo dai pastori; questi ultimi si assumeranno il peso della libertà, dal quale le pecore saranno state sollevate con il loro consenso. Profetico? La narrazione di Dostoevskij parte dalle tre tentazioni del Cristo nel deserto: il pane, il mistero, l'autorità. Cristo le rifiuta tutte e tre perche vuole essere adorato in libertà. Ma, avendo dato agli uomini la libertà, li ha condannati alla cosa più crudele. Essi non vogliono la libertà, vogliono poterla deporre ai piedi di qualcuno che tolga quell'inquietudine e quella responsabilità derivanti dall'esercizio della libertà. Noi - dice l'Inquisitore - ci carichiamo del peso della libertà altrui e questo ci procura un grande dolore, ma è un dolore altruistico. Responsabilità e dolore. La Leggenda ha dato luogo a varie interpretazioni: tra il Cristo e l'Inquisitore, chi ha ragione? Da che parte sta Dostoevskij? Dunque, il Cristo vuole la libertà, con tutti i rischi e anche la crudeltà che la libertà comporta; il "governante saggio", invece, sa con chi ha a che fare e non si illude. La massificazione sembra nostro destino. E’ un testo di grande attualità. Sì, e può applicarsi alle nostre società, naturalmente con alcuni adattamenti. Dostoevskij già anticipava il valore massificante della società tecnicizzata. Basti pensare all'immagine del palazzo di cristallo, che viene dalle Memorie del sottosuolo: la società come palazzo di cristallo dove tutto è regolato perfettamente, che in vista dell'ordine abolisce la libertà. Nella notte il vecchio Inquisitore gli porge visita, apostrofandolo in un lunghissimo monologo: la storia degli uomini si rivela un incubo nel quale la libertà è sacrificata da secoli per la sopravvivenza del genere umano. Cristo ascolta in siderale silenzio, condannato al rogo. «Una gemma solitaria che brilla di luce ambigua, inquietante», esordisce Zagrebelsky. «In molti individuano nella Leggenda la prima profezia sulla società di massa. Nel 1861 Dostoevskij si recò a Londra per la seconda Esposizione Universale. Milioni di anonimi individui infiammarono l'anima del più grande epilettico della storia, che negli istanti precedenti le crisi sperimentava il distacco dal corpo, l'eternità». Inquisizione totalitaria o Messia, salvati e sommersi, Creonte e Antigone. «La Leggenda ha per la prima volta risposto alla domanda sul perché gli uomini obbediscano al potere rinunciando alla libertà», continua l'intellettuale piemontese. Non è certo un caso che la parabola dostoevskiana abbia attirato negli ultimi due decenni un interesse particolare da parte di molti pensatori. La massa postnovecentesca è stata distratta, acquistata, ridotta a pingue catalessi da

Page 7: Zagreb El Sky

inquisitori evaporati. «Il Grande Inquisitore rappresenta la ragione di stato, è un personaggio dolente, è come ce lo immaginiamo. Come ce lo immaginiamo»?, si chiede Zagrebelsky in un silenzio che si trasforma in riso collettivo, nell'unico velato riferimento alla politica italiana del passato prossimo. La leggenda è un'anomalia nei polifonici romanzi del grande maestro russo. Un monologo enigmatico che confonde. La figura crudelmente, gloriosamente umana dell'Inquisitore e quella aerea, eterna del Cristo: bene e male si intrecciano nella pienezza del bello che «salverà il mondo». I quesiti proliferano, e durano nei secoli come i complotti. C'è solo un gesto nel Cristo di Dostoevskij: terminato il monologo, il bacio sulle labbra dell'Inquisitore, che si ritrae, in un brivido. Al messia verrà risparmiata la morte, purché continui la sua opera di salvazione lontano, nei meandri dell'umanità. «Il racconto e il bacio sono un enigma che solleva domande, come tutti i veri classici», chiude Zagrebelsky. A breve si alzerà il sipario sulla riduzione dei “Fratelli Karamazov”. La letteratura si è fatta filosofia, la filosofia teatro, il teatro vita.