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XXVIII CONGRESSO NAZIONALE della SOCIETA’ ITALIANA di CRIMINOLOGIA BAD or MAD? Il controverso rapporto fra disturbo mentale e il crimine violento

25-27 settembre 2014 – Bari workshop n. 4 – Il trattamento degli offenders al tramonto degli OPG

REQUISITI DI CURA E MANDATI DI CONTROLLO COME ESTREMI IDENTIRARI E OPERATIVI DEI SERVIZI PSICHIATRICI

Bonadiman Fabio, psichiatra criminologo – Trento [email protected] Bonadiman Ilaria, psicologa – Trento [email protected]

ABSTRACT

Il controverso rapporto tra disturbo mentale e crimine violento condensa in sé numerose questioni non solo di tipo eziopatogenetico o criminodinamico ma – in previsione della chiusura degli OO.PP.GG. - anche di tipo trattamentale e quindi ripropone il tema e la scommessa della qualità delle cure al di fuori dei contesti chiusi. Proprio per la necessità di allineare le esigenze di giustizia e quelle sanitarie, risultano fondamentali alcuni criteri di ordine clinico/metodologico che giustifichino le iniziative di cura, che ne caratterizzino tecnicamente i luoghi e che ne specifichino degli obiettivi assunti con i quali - ad esempio - orientare un gruppo di lavoro o misurare l’efficacia di quanto svolto. Nei casi di psicopatologia grave correlata al reato, tornano utili quei concetti di coscienza di malattia, di compliance alle cure, di alleanza terapeutica,…… che, spesso invisi al reo/infermo, da sempre sostengono e indirizzano la pratica psichiatrica; concetti che, al di fuori delle mura e ben oltre i disposti della Magistratura di Sorveglianza, costringono gli operatori della Salute Mentale ad una costante e talora logorante ricerca di un contratto terapeutico. È quest’ultimo approccio che, mediando continuamente tra rischi di discontrollo e pianificazione degli interventi, ha via via incoraggiato quelle complicate prospettive di cura che, a partire dal diretto coinvolgimento interpersonale, hanno accreditato la psichiatria territoriale. Attraverso la lettura di alcuni casi peritali, e per i quali si imponevano scelte anche di risocializzazione oltre la pena, si sono riconsiderati i limiti dei Servizi Psichiatrici in ragione proprio della difficoltà a risolvere i dilemmi posti dalla presa in carico dell’autore di reato; dilemmi storici dove le valenze curative ed il controllo obbligano a superare la abituale dimensione terapeutica e volontaristica delle cure e a trovare una mediazione clinica ed operativa per tutte le variabili in atto. Soprattutto attraverso una puntuale analisi clinico/diagnostica – che inquadri condotte e funzionamento mentale del soggetto – è pensabile allestire un progetto di cura e assistenza che si deve iscrivere in una presa in carico interdisciplinare: un gruppo di lavoro orientato e formato che, dall’esperienza terapeutica, sappia affrontare e elaborare gli aspetti violenti, morali e controtransferali presenti in queste iniziative di cura. Combinare allora le resistenze per la specifica mission sanitaria dei Servizi e/o la rivendicata titolarità delle pertinenze psichiatriche, non aiuta a condividere dei modelli operativi comunque complessi perché non accreditati dalla abituale finalità terapeutica e perché facilmente sabotati da personalità non sempre disposte al contratto di cura.

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A differenza delle comuni prassi terapeutiche psichiatriche in cui coscienza e libertà man mano orientano anche le patologie più disturbanti, le disposizioni prevedibili nel trattamento - al di fuori degli OO.PP.GG. - di autori di reato prosciolti implicheranno dei connessi di prescrittività e di obbligatorietà cui sarà difficile o rischioso non attenersi.

Soprattutto in ordine a passaggi estremamente clamorosi o produttivi che possono caratterizzare negativamente non solo l’evoluzione della psicopatologia, ma anche la natura del contesto relazionale (costrittività), appare impervia quella frequente linea tollerante e garantista dei Sevizi Psichiatrici (S.P.) verso i pazienti gravi; linea che - puntando sui benefici delle terapie e sul transfert verso i curanti - sopporta livelli di tensione e di disadattamento del paziente talora fino all’abbandono o alla emissione di un qualche provvedimento sanitario obbligatorio.

E’ questa una misura che in alcuni casi si limita ad un contenimento psicofarmacologico o in altri casi non viene attivata producendo una forma di deriva e di cronicità nella quale si svuota il senso e il significato della crisi psichica che produce ulteriore disorganizzazione ed emarginazione.

Fatta questa sommaria premessa - che rimanda agli aspetti centrali della presa in carico di pazienti gravi e che interessa anche gli autori di reato prosciolti (che si suppongono tali e gravi alla luce del riconoscimento di infermità/non imputabilità) - si porrà la necessità di quali comportamenti si dovranno adottare a fronte di naturali conflitti e oppositività da parte di simili utenti instabili e problematici, inseriti in strutture di fatto aperte.

Non volendo radicalizzare i termini custodialistici del mandato, si sono volute riprendere, sul piano clinico e terapeutico, alcune indicazioni di fondo che, rimandando ai principi e ai metodi della psichiatria territoriale, possono costituirsi come riferimenti utili nel trattamento dell’autore di reato prosciolto e nel suo correlato di rischio, di controllo e di responsabilità.

In particolare si sono volute richiamare, in chiave critica e propositiva, alcune semplificazioni che renderebbero pressoché sovrapponibili gli approcci clinici e lo stile operativo dei SP rispetto a due tipologie di utenti, senza e con misure giudiziarie; casi questi ultimi di cui non si possono ignorare o tacere le diverse problematicità - in ordine soprattutto alla motivazione e alla adesione alla cura - che si pensano magari addomesticate dalle disposizioni del Tribunale ma che tuttavia non eludono il tema di possibili e gravi criticità attese.

E la attualità di queste questioni diventa pesante non solo per i risvolti in tema di responsabilità professionale che, se anche stemperati, vengono avvertiti sullo sfondo; ma soprattutto per le complicazioni che intervengono nel momento della presa in carico da parte dei S.P. di propri utenti che sono già incorsi nelle misure di sicurezza o in ripetuti provvedimenti obbligatori di cura per condotte “aggressive”; situazioni che aprono talora dei disfunzionalità e contrasti nel progetto di cura sia per prese in carico spesso già logore, sia per oggettive difficoltà a ripensare ad un intervento possibile.

Vengono brevemente illustrate di seguito tre situazioni recentemente peritate.

Rita ha 27 anni e dai 16 anni è seguita dai servizi psichiatrici con una molteplicità di diagnosi che in maniera molto generica oscillano da atteggiamenti teatrali regrediti e manipolatori fino ad un disturbo psicotico inquadrato all’interno di una personalità antisociale. A 22 anni è stata indagata per un improvviso e grave accoltellamento di uno sconosciuto che ha portato al riconoscimento di un’infermità mentale totale per uno scompenso psicotico in paziente con funzionamento border-line; quadro clinico confermato nella sua valenza di instabilità e di imprevedibilità anche al momento del riaffidamento al SP dopo un primo periodo trascorso

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all’interno dell’OPG. Il nucleo patologico, che dopo qualche tempo si è ripresentato, era costituito da impulsi, fobie, timori di discontrollo, voci,.. per i quali la paziente sentiva di poter far del male a qualcuno; sintomatologia alla lunga ripetitiva, gestita all’interno di un progetto riabilitativo, con riferimento allo psicologo del servizio, trattata con una terapia neurolettica in riduzione rispetto alle indicazioni dell’OPG,.. e con diverse ospedalizzazione psichiatriche in ragione della preoccupazione dettata dai precedenti e dall’attuale sintomatologia. Nella perizia – richiesta a seguito di una ennesima minaccia questa volta nei confronti del procuratore della repubblica - si confermava tra l’altro un funzionamento mentale caratterizzato da un registro psicotico: non vi era un corretto esame della realtà perché non percepiva il rischio dei comportamenti; non vi era un minimo insight per il quale non sapeva qualificare la propria sofferenza; persisteva una banalizzazione delle proprie condotte e del proprio malessere; giustificava il tutto in maniera piuttosto sganciata da sé e come esito di fatti patiti; non manifestava alcuna fiducia nella terapia psicofarmacologica che assumeva piuttosto passivamente; si vedeva fondamentalmente vittima degli accadimenti interni che innescano dei discontrolli. Ne derivavano una serie di certificazioni da parte del SP che – a fronte poi dei ricoveri, della importante terapia impostata, dell’inserimento in una struttura residenziale,… - escludevano la gravità della matrice patologica della sintomatologia che andava letta come disturbo antisociale di personalità per il quale vi stava l’indicazione del carcere, mancando i requisiti per assegnare un rilievo di infermità alle condotte.

Vito ha 42 anni ed è conosciuto dai SP fin dai vent’anni per una diagnosi di psicosi schizofrenica di tipo paranoide che nel tempo si è complicata anche per delle fasi di abuso di cannabis e di alcol; una condizione psichica che ha progressivamente compromesso non solo la tenuta della personalità, all’interno di una cronicità psicotica; ma ha gravemente alterato anche il contesto di vita e soprattutto quello familiare dove, sulla base di una sintomatologia allucinatoria, a ripetutamente e pesantemente aggredito il padre, soggiogato perversamente in un dinamica sadica e violenta con il figlio, dopo la morte della madre. Proprio a bilancio delle lesioni procurate al padre, che avevano portato recentemente a dei ricoveri ospedalieri di tipo ortopedico, era stata chiesta una perizia che aveva incluso l’analisi longitudinale di 39 cartelle cliniche relative alle diverse ospedalizzazioni psichiatriche (di cui 5 nei 3 mesi precedenti l’incarico) e dove figuravano prevalenti diagnosi di stato paranoide e allucinatorio provocato da farmaci, disturbo di personalità paranoide, reazione paranoide acuta; quadri a loro volta appesantiti da disordini nel comportamento, irregolarità nei controlli ambulatoriali, emarginazione sociale, discontinuità nelle terapie, fluttuazioni depressive e gesti autilesionistici. Il nucleo psicopatologico evidenziava abitualmente 1. le allucinazioni uditive nelle quali si sente potenzialmente aggredito o squalificato; 2. i convincimenti deliranti per cui viene sistematicamente danneggiato; 3. le ricostruzioni sempre persecutorie della mancata realizzazione adulta; 4. la tendenza alla reattività e all’aggressività per il vissuto frustrante, angosciato e talora di pericolo; 5. le crisi pantoplastiche in cui si scarica la frequente disperazione e distruttività.

Maria ha 40 anni ed è seguita da circa 10 anni dal SP per un disturbo schizoaffettivo in cui accanto a dei convincimenti persecutori si alternano delle fasi maniacali con esposizione a clamorosità e a condotte (fughe) che portano a delle disorganizzazioni nella personalità e nel suo adattamento; esiti che nel tempo avevano richiesto l’allontanamento della figlia e la nomina di un amministratore di sostegno verso il quale, insieme ad una amministrativa di una banca, aveva agito delle pesanti minacce che integravano poi anche dei comportamenti bizzarri di procurato allarme (attiva una sirena alle quattro del mattino per un supposto incidente).

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La condizione osservata in corso di perizia rimandava ad una fase scompenso psicotico che aveva richiesto una ospedalizzazione psichiatrica circa un mese prima dei fatti/reato; che già da quasi un anno aveva reso ancora più labile il progetto terapeutico con posizioni di resistenza/ rifiuto delle scadenze ambulatoriali e del progetto di inserimento in un laboratorio assistito; e che anche successivamente ai fatti aveva prodotto una fuga patologica con una prolungato ricovero psichiatrico all’estero. Nel profilo clinico si ricostruivano delle fluttuazioni importanti, con espressioni maniacali e con matrici persecutorie, che alimentavano una sintomatologia spesso clamorosa, inquieta, bizzarra e disorganizzata nella sua fase più acuta; sintomatologia afferente ad un disturbo schizoaffettivo a sua volta complicato da una scarsa coscienza di malattia, da una incostante adesione al progetto terapeutico e da una assunzione irregolare di terapia psicofarmacologica. Tali presupposti vanificano per altro delle parentesi nelle quali la periziata pareva in grado di ricostruire i fatti per i quali è in processo; dare delle spiegazioni su quanto accaduto; esprimere delle ragioni a sua difesa; segnalare un malessere sottostante (astinenza da sigarette, crisi con famigliari,..); criticare la sua presa in carico da parte della psichiatria; descrivere i suoi tentativi di affrancamento adulto; raccontare le vicende degli ultimi ricoveri; desiderare di continuare un minimo ruolo genitoriale,.. mai tollerando alcun supporto o indirizzo della psichiatria come minima idea di sofferenza o malattia.

Questi tre casi sommariamente esposti sono citati sia perché hanno in sé alcuni tratti topici della cura dei pazienti gravi (psicopatologia importante, lunga storia clinica, condotte aggressive, discontinuità nella tenuta del progetto terapeutico, disabilità relazionale, inaridimento affettivo e familiare, degenerazione sociale,....); sia perchè la complessità emersa nel loro trattamento e nella loro gestione alla lunga ha logorato le stesse equipe curanti sul piano delle risorse e delle ipotesi cliniche. Quest’ultimo esito si consuma spesso in progetti routinari di assistenza, discontinui nella loro verifica, non più incisivi come efficienza di cura, scanditi da frequenti scompensi,.. e che alla lunga portano anche alla chiamata in causa della Giustizia come rimedio e soluzione per la impotenza operativa.

Ora - se nella presa in carico ordinaria è al limite possibile non vedere la degenerazione soggettiva e relazionale del paziente o procedere ad una reiterata ospedalizzazione psichiatrica come forma estrema di trattamento/contenimento - i progetti di cura interessanti autori di reato prosciolti sono certamente da considerare e da approfondire meglio. E questo almeno per la condotta/reato presente in anamnesi, per la sentenza di affidamento, per la psicopatologia complessa, per il percepito rischio comportamentale,…aspetti tutti che purtroppo non si convogliano in progetti riabilitativi o di assistenza automaticamente condivisi da questi utenti.

In sostanza si pone un lavoro preliminare e aggiuntivo sul senso, sulla tenuta e sulla motivazione alla cura che non può essere dettato da una sentenza ma obbliga alla ricerca e alla definizione di uno spazio assistenziale (e possibilmente terapeutico) che qualifichi la presa in carico come sanitaria e non come giudiziaria.

All’interno di questo indispensabile smarcamento sanitario, vanno ripresi anche gli atteggiamenti non sempre sintonici e altrettanto condivisi degli operatori che possono delegare e risolvere la complessità di un progetto terapeutico nelle prescrizioni del mandato giudiziario; mandato che diviene - a questo punto - vero e unico regolatore del setting e che ridurrebbe il tutto al rispetto formale di una disposizione d’autorità terza.

Per tanti motivi – compreso lo svuotamento del rapporto interpersonale - non è possibile allora ridurre questa presa in carico ad una gestione conto terzi con rinuncia alla specificità psichiatrica che ha in sé una specificità terapeutica; e che nei casi in questione (e a differenza dei

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pazienti comuni) non può prescindere ad esempio dalla condotta/reato che deve diventare aspetto del trattamento e del recupero, oltre che fattore imprescindibile della relazione.

Già quest’ultimo punto giustifica, autorizza e nobilita la pertinenza psichiatrica di queste situazioni affidate ai SP affinchè - attraverso un percorso minimamente tecnico e pianificato – se ne disinneschi la pericolosità esplorando bisogni e moventi psichici e delittuosi di personalità, altrimenti sopite nella semplice residenzialità.

E’ indubbio che un orientamento specifico e meditato –consapevole di committenza, del mandato, della tipologia del paziente affidato e dei suoi sospesi clinici e giudiziari,.. - può contenere le evoluzioni più cronicizzate che derivano si dalla scarsa compliance alle cure, ma a volte da una operatività affacendata. La moltiplicazione delle diagnosi, la miriade di problemi assistenziali, il coinvolgimento di troppi interlocutori, la riproposizione delle stesse soluzioni,… sono frequenti modalità con le quali l’intervento langue e si impoverisce.

Sopravvive in questo operare una generica disponibilità curativa che espone gli stessi tecnici ad un abbandono di quella tensione e attenzione clinica ormai ridotta ad una rassegnata ripetizione di misure e prescrizioni formali, spesso passivamente accettate e ben argomentate dai SP stessi.

E’ allora possibile che anche nei confronti dell’autore di reato prosciolto si instauri la stessa logica istituzionale con una presenza impersonale di operatori presi dalla gestione di una routine fissata sulle terapie, sul calendario lasso di controlli, sui vincoli più banali della quotidianità, su riabilitazioni passivizzanti,…all’interno di una prospettiva meramente assistenziale, nel suo significato più regressivo.

Questa logica appare sufficiente ma non è utile alla ricomposizione di personalità spesso mal organizzate e instabili e per le quali diventa indispensabile la definizione ed il monitoraggio di quel funzionamento e di quei cedimenti che, oltre al reato, segnano la storia del soggetto; un compito che difficilmente vede concretizzarsi nel solo periodo della misura esecutiva.

Diversamente da altri utenti storici risulta necessario un approccio che integri il mandato accessorio della mission sostitutiva dell’OPG; e che nell’intervento affronti e risolva la ragione dell’affidamento al S.P. poiché il reato definito dalla sentenza non è estraneo, né scisso alla persona e alla sua psicopatologia.

In fondo, pur essendo saliente, il reato è considerabile come un sintomo che da solo non spiega alcunche per cui va ripreso e letto in una storia e in un funzionamento individuale che – stando anche alla dichiarata infermità – ha una matrice psicopatologica da delineare per tarare poi l’intervento possibile: non è cosi auspicabile che i SP puntino molto sulla delega giudiziaria che, alla fine, quasi per ricatto, dovrebbe motu proprio nevrotizzare in senso prosociale il deviante.

Nei casi di specie, gli operatori stessi sono allora coinvolti su delle specificità di queste prese in carico che aprono tematiche diverse di cui due preliminari e inelubili: la prima attiene alla corretta lettura del caso e alla congruenza dell’intervento, compito specifico e di default per i SP.

La seconda riguarda la rielaborazione di posizioni individuali rispetto alla dimensione “criminale” dell’autore di reato prosciolto; una dimensione che non si semplifica con difese buoniste o razionali poiché si attivano facilmente sentimenti e risentimenti non da poco soprattutto per chi è abituato a vivere la disposizione terapeutica nella sua accezione solidale, neutrale e cosi estranea alla violenza.

Quanti non hanno confidenza con simili situazioni, vivono spesso timore, fascinazione, stupore, paura, aggressività, distacco, anaffettività, indifferenza,..; fluttuazioni derivate dalla inappropriata sottostima del particolare coinvolgimento in atto e collegate ad un superficiale riadattamento personale rispetto alla vicenda intrigante o pericolosa condensata nell’autore di reato prosciolto.

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Sono queste fluttuazioni che nello stesso tempo condizionano notevolmente il rapporto interpersonale e la qualità dello stesso intervento poiché portano a deformare – inconsapevolmente - tutti quei fantasmi collegati al reato, al rischio, al controllo, alla sicurezza, alla responsabilità professionale,.. e per i quali si indebolisce lo stesso senso di responsabilità.

Una qualche consapevolezza, meglio di gruppo, di queste fluttuazioni individuali appare cosi necessaria non tanto per stigmatizzare l’autore di reato prosciolto rispetto a tutti gli altri pazienti; quanto per considerare appropriatamente tutto l’indotto che lega in origine il committente e il suo mandato; che riguarda poi l’interpretazione sanitaria del dispositivo giudiziario; e che chiama in causa successivamente una somma di atteggiamenti divergenti e disfunzionali negli operatori che, sulla base del singolo vissuto, possono confondere alla lunga quella disposizione interna che sta alla base del corretto ed equilibrato rapporto professionale e interpersonale.

I latenti o possibili insuccessi – senza queste considerazioni preliminari – rischiano di alimentare quelli stessi atteggiamenti negativi e logoranti che si vivono con i pazienti gravi e cronici verso i quali si può poi maturare, strutturare e giustificare una posizione cronificante; e per la quale non si verificano le assenze, si propongono gruppi e attività, si lascia grande disponibilità, si tollera la discontinuità, ... e si attende, lasciando accadere.

In queste evoluzioni capita che la ragione dell’intervento scemi sempre di più soprattutto per la impossibilità di rivedere e di riaggiustare il tutto ormai facilmente disperso in una operatività scontata dove: sono sempre di più gli interlocutori diversi del paziente; si evidenziano cosi aspetti e problemi diversi degli stessi pazienti; la valutazione è spesso occasionale ed estemporanea; si colgono le forme diverse delle crisi; sono indicate terapie diverse in ragione della sintomatologia osservata al momento; si ribadisce un intervento formale (di fatto non verificato); si associano terapie, assistenza, riabilitazione,.. mal integrate; non vengono prodotte efficaci versioni o correzioni di sintesi; si coinvolgono altri Servizi, volontari o famigliari,…; e questo attraverso una serie di incontri impersonali che svuotano la dimensione relazionale e specifica della presa in carico.

Sembra che in questo modo, al di là delle possibili riacutizzazioni della psicopatologia, si eviti il nucleo centrale della patologia grave che è un bisogno di appartenenza spesso presente e acuto anche in questi autori di reato prosciolti; un bisogno che, nella sua declinazione evolutiva e psichica, tenta delle soluzioni e dei compensi proprio nel rapporto spesso simbiotico, vischioso e intenso con un terapeuta.

In questo incontro - che non può essere frammentato in tanti interlocutori o iniziative pena una ulteriore frammentazione – la persona prova a sostituire e a riparare i molteplici fallimenti del proprio percorso evolutivo ricercando un minimo rispecchiamento e un consolidamento identitario e narcisistico che è abitualmente carente e che non si stabilizza solo con le strutture murarie.

Non curare questa esigenza personologica e relazionale - anche per carichi di lavoro o per insufficienza di risorse o di tempo – porta gli operatori e poi il S.P. a irrigidirsi su un pacchetto standard nel quale una molteplicità di attori porta disordinatamente un proprio contributo che vanifica la dimensione relazionale; una dimensione invece che va personalizzata e verificata in modo da integrare l’efficacia di quanto proposto, i cambiamenti eventualmente intervenuti, le difficoltà emergenti, i correttivi, il ruolo dei singoli,.. .

E questo senza dimenticare il monitoraggio clinico che solitamente permette di delineare l’andamento e i sintomi principali; di puntualizzare la diagnosi; di aggiornare gli strumenti di cura; di comprendere il funzionamento del paziente; di rinforzare l’ipotesi clinica di fondo;.. e di salvaguardare l’impronta relazionale al netto di farmaci e riabilitazioni.

Da questo ricorrente atteggiamento clinico e operativo è possibile illuminare e indirizzare un gruppo curante che non si impoverisce su standard passivi e routinari; e contenere i rischi di una

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cronicizzazione dell’autore di reato prosciolto che spesso nello svuotamento della relazione trova o cerca i moventi per disinvestire ed eludere possibilità e responsabilità.

Questo passaggio richiama in sé le ragioni profonde ed etiche della presa in carico di questi autori di reato prosciolti e di queste situazioni che, per la loro problematicità complessiva, anziché attivare metodologie e prassi altrettanto complesse, con il tempo – data soprattutto la diffusione di referenti – tendono invece a impoverirsi.

In parte semplificandosi cioè dando spazio a costrutti e atteggiamenti più individuali che non di equipe e che impediscono una restituzione unitaria degli obiettivi dell’intervento; in parte incancrenendosi su indici disfunzionali che associano tratti di personalità, problemi di servizio, famiglie assenti, rinvio ad altre agenzie, indisponibilità di opportunità risocializzanti, …; e in parte sottolineando le evoluzioni comportamentali aggressive che trasformano il mad in bad e per le quali si invocano altri protagonisti (la Procura) nonostante anni di presa in carico.

Soprattutto queste ultime rappresentano la degenerazione del rapporto terapeutico e assistenziale che, ad un certo punto, si trasforma in una sorte di braccio di ferro tra ampie disponibilità di cura date dai SP e ricorrenti episodi clamorosi, sabotanti e violenti avuti in cambio dai pazienti; episodi per i quali la clinica sembra improvvisamente venir meno, sostituita da richieste più contenitive (perizie comprese, ancor prima del reato) proprio agiti solo aggressivi ai quali non viene comunque riconosciuto alcun presupposto di infermità.

Non è sbagliato pensare che questi deboli pregiudizi di pericolosità in assenza di infermità – e quindi di impotenza sanitaria cui dovrebbe rimediare la giustizia – si potranno porre con maggiore frequenza nel caso di prese in carico di autori di reato prosciolti; e questo non solo per la presenza di possibili degenerazioni che si osservano nei pazienti psichiatrici multiproblematici, ma anche per l’effetto di controinvestimenti e di disinvestimenti clinici da parte degli operatori che ignorano le componenti di questi interventi e semplificano regole e gestione della presa in carico, vista in “conto terzi”, sollevandosi da ogni questione di responsabilità.

Si parla di una responsabilità assolutamente tecnica e che rinvia alla insufficiente consapevolezza della specificità di questi contesti in cui le ambiguità tra psichiatria e giustizia sembrano perpetuarsi in un’insoluto e reciproco gioco di attribuzioni, mentre esigono quel ricordato smarcamento per il quale si risponde con la specificità della propria pertinenza che - come detto - obbliga ad una preliminare riflessione sulla tipicità/atipicità dell’inviato.

Il rischio evidente è che prevalga, nelle residenze previste, una logica di esecuzione di una misura che, per sua natura, codifica già nettamente ruoli, adattamenti, regole, punizioni,.. riducendo tutti ad attori di una restrizione sanitaria, passivamente ricondotta ad una disposizione giudiziaria.

Diversamente non si capisce la adesione abbastanza facile e scontata data dai SP a queste prese in carico di autori di reato prosciolti, una adesione che stride con le difficoltà, la psicopatologia, il rischio e la gravosità riscontrati in certe perizie e che delineano disorganizzazioni e condotte estremamente pesanti e instabili, poco sostenute da una volontà di cura.

Confrontando allora il destino di certi pazienti psichiatrici gravi - che ignorando le disponibilità date in termini di offerte terapeutiche si perdono in degenerazioni fallimentari logorando le stesse equipe di cura - non si può non sollevare la questione delle prese in carico di autori di reato prosciolti; persone che non possono essere assorbite da questi SP senza una preliminare formazione o esperienza che impediscano di ignorare la specificità di questi incarichi e di riproporre semplicisticamente dei modelli operativi abituali.

Si devono cosi riprendere preliminarmente con gli operatori 1. sia dei vissuti e delle fantasie che si smuovono facilmente nel contatto con questi autori di reato e che finiscono per coinvolgere la singola sfera morale ed il singolo “controtranfert”; 2. sia la tensione clinica che viene

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frequentemente meno in casi multiproblematici poco aderenti ai piani di cura ed esposti alla routine inefficace.

In questa maniera è possibile promuovere negli operatori degli atteggiamenti meno scontati e meno contaminati da fantasmi che vanno rielaborati nel loro ritorno difensivo e disturbante.

Da questa rielaborazione minima prende corpo una impostazione metodologica che, sfrondando il dato controtranferale, modula il latente mandato giudiziario e tende ad integrare personalità, reato e psicopatologia per sintonizzare l’intervento terapeutico possibile; un intervento rispetto al quale la dimensione relazionale e dedicata dovrà trovare, almeno inizialmente, una sua prevalenza per rimediare simbolicamente alla assenza di perimetri fisici contenitivi.

Ciò si rende necessario non solo per allineare progressivamente le indicazioni e la forma dell’intervento stesso, sul quale vi può non essere una immediata adesione da parte dell’autore di reato prosciolto; ma anche per comporre nel soggetto e nel contesto quella grave frattura generata e mantenuta spesso sospesa della violenza del reato.

Quest’ultimo va comunque ripreso anche per recuperare contenuti, ravvedimenti e motivazione alla cura, e soprattutto per ricostruire i possibili percorsi psicopatologici sottesi e specifici che andranno esplorati e riparati all’interno di un progetto minimamente psicoterapico; progetto che cosi si chiarisce nei suoi riferimenti clinici e si adatta alle esigenze relazionali e assistenziali che diversamente rimangono come surrogati di un pacchetto alternativo ad una istituzione come l’OPG che quasi si ripropone nel SP per la sua natura contenitiva, passiva e scontata.

In conclusione

Il rinvio ai SP delle competenze assegnate agli OO.PP.GG. non può essere considerata automatica e scontata poichè prevede una preparazione specifica, diversa e aggiuntiva; quella che spesso lo psichiatra integra e matura nella formazione e nella esperienza forense almeno per il rapporto intramurario con le personalità devianti, per la complessità delle valutazioni e per la confidenza con le aree spesso drammatiche della violenza estrema.

In questo compito operativo e vicario appaiono centrali numerose problematiche che riguardano la delega giudiziaria, le strutture aperte, il reato, le implicazioni emotive, il mandato di controllo, la psicopatologia resistente e grave, il rischio comportamentale, la scarsa compliance, una frequente disabilità relazionale,..; tutti fattori che avvicinano gli autori di reato prosciolti ai pazienti psichiatrici più problematici. Diversamente da questi ultimi, gli autori di reato prosciolti condensano in se problematiche cliniche e dispositivi giudiziari che richiedono ancor più attenzione nella ricerca della pertinenza psichiatrica che risulta già gravosa per importanti carenze nella coscienza di malattia e nell’adesione alle cure da parte di questi pazienti; che richiede una introspezione preliminare al singolo operatore (e al gruppo) per ridimensionare i riflessi morali o controtransferali del caso; che abitualmente si complica per la difficoltà nell’individuare e nel perseguire la specificità terapeutica date le ambivalenze tra controllo e cura implicite nella sostituzione dell’OPG.

Ancora una volta – come è stato a proposito del superamento dell’ospedale psichiatrico – solo una forte tensione clinica permette ai SP di mantenere una specificità operativa a garanzia della complessità e della delicatezza di questo mandato; e di evitare inutili rivendicazioni su un tema, come quello del controllo, che così tipicamente coinvolge la patologia psichiatrica grave e a cui, ciascuno, per la propria parte, è chiamato a rispondere.

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