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Rivista di appunti filosofici

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REDAZIONE

Direttore: Corrado Piroddi.

Vicedirettore: Anna Maria Ricucci

Redazione: Valeria Bizzari, Antonio Freddi, Giacomo Miranda, Teresa Paciariello, Lavinia Pesci, Corrado Piroddi, Anna Ricuc-

ci, Timothy Tambassi.

Collaboratori esterni: Marco Anzalone, Simona Bertolini, Mara Fornari, Donatella Gorreta, Federica Gregoratto, Francesco

Mazzoli, Giovanna Maria Pileci, Marina Savi, Cristina Travanini.

Direttore responsabile: Ferruccio Andolfi.

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SOMMARIO

Figure dell’individualismo..............................................................................................................................................p. 6

L’individuo come residuo? Osservazioni interdisciplinari di Michela Bella e Matteo Santarelli..............................................................p. 7

Meditazioni filosofiche..................................................................................................................................................p. 18

Incubo (o visione) di filosofia di Fedro Andiotin....................................................................................................................................p. 19

Tra silenzio e stupore: l’esperienza filosofica in Wittgenstein e Florenskij di Livio Rabboni...................................................................p. 23

Cinema e filosofia............................................................................................................................................................p. 28

Viewers turned into partecipants: Dziga Vertov’s A Sixth Part of the World di Tatjana Sheplyakova................................................p. 29

Upstream Color di Sofia Bonicalzi. ......................................................................................................................................................p. 38

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Letteratura e filosofia...................................................................................................................................................p. 42

La valle di Bamyan di Elisa Zimarri.....................................................................................................................................................p. 43

Crisi e direzioni di senso nell’esistenza. L’antropoanalisi di un dramma di Giuseppina Mazzei............................................................p. 51

Libri in discussione...................................................................................................................................................p. 56

Il liberalismo alla resa dei conti di Gianluca Cavallo..............................................................................................................................p. 57

From cooperation to liberal institutions di Onni Hirvonen.....................................................................................................................p. 60

Dal nuovo realismo al ritorno alla realtà di Timothy Tambassi.............................................................................................................p. 63

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MIL (Federica Parizzi 1984-?)

Ormai convinta di essere un'incongruenza sulla linea spazio-temporale, si muove al ritmo della sua

irrazionalità emotiva. E' un'eterna spettinata, affascinata dall'effimero e dall'espressività della materia, che opera in una sorta di trance mistico-metallurgica, cercando di traslare in una dimensione tangibile

frammenti di fragili stati d'animo.

lecosedimil.wordpress.com [email protected]

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Figure dell’individualismo

7

uesto breve articolo è diviso in due parti, nella prima parte si

cercherà di mettere a fuoco la concezione dell’individuo seguendo

l’approccio psicologico di un classico autore americano, William James

(1842-1910), nella seconda parte, l’attenzione sarà rivolta alla riflessione

della sociologia di matrice europea, con riferimento a Émile Durkheim

(1858-1917). Si tenterà di analizzare e chiarire le motivazioni e gli aspetti

critici di entrambi questi punti di vista che, rispettivamente,

attribuiscono l’uno un ruolo incisivo (attivo) all’individuo agente, l’altro,

al contrario, un ruolo residuale (passivo) per quanto ineliminabile.

I

William James è stato uno psicologo e filosofo americano, docente

ad Harvard, nonché uno dei padri fondatori della corrente filosofica del

Pragmatismo. Le riflessioni jamesiane risentono in modo evidente della

diffusione delle teorie evoluzioniste, delle scoperte della psicologia

sperimentale europea e ovviamente della cultura romantica che egli ebbe

modo di respirare fin dall'infanzia in famiglia, anche grazie alle amicizie

paterne, tra le quali spicca la figura R. W. Emerson.

William James è stato considerato un individualista, ma soprattutto si è

egli stesso definito tale in più occasioni. Nella sua ampia corrispondenza

si può leggere come egli scriva di sentirsi sempre più «pluralistic and

individualistic in my general views of things» o, altrove, di ritenersi

«intensely an individualist». Alcuni studiosi hanno parlato per James di

un individualismo etico, altri anche più recentemente di “individualismo

dinamico”. Sembra importante correlare queste due interpretazioni, cioè

quella che evidenzia il versante etico e quella funzionale-psicologica, perché è

proprio nella loro complementarietà che esse risultano indicative della

peculiarità del discorso di questo autore e del valore del suo contributo

al dibattito sulla relazione tra individuale e sociale. A tale scopo, è utile

analizzare un articolo di James dal titolo Great Men, Great Thoughts and

The Environment, del 1880, che fu materia di dibattito sulle pagine

dell’Atlantic Monthly per le dure repliche che ne seguirono da parte di

quei naturalisti interessati alla sociologia che James aveva più

apertamente contestato: Grant Allen e John Fiske. A costoro, a sua

volta, James rispose con un altro breve scritto intitolato The Importance of

Individuals (Open Court, 1890). Avvertendo i rischi di riduzionismo insiti

nelle assunzioni metodologiche degli studi sociali – nello specifico, quelli

derivanti da una lettura meccanicistica dell’influenza dell’ambiente

geografico e delle circostanze sociali sulla direzione degli avvenimenti storici –

Q

L’INDIVIDUO COME RESIDUO? OSSERVAZIONI INTERDISCIPLINARI

DI JOHANNES VOLKELT

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Quaderni della Ginestra

8

James sottolinea, piuttosto, tutta la reale importanza dei grandi uomini

nell’evoluzione storica, riprendendo così un tema caro alla tradizione

letteraria di Carlyle e dello stesso Emerson, ma riformulandolo in vista

della salvaguardia di quelle istanze empiriche, quali la concretezza e la

qualità individuale, che egli sentiva fortemente messe a rischio entro il

nuovo panorama scientifico. In particolare, James rimane vigile sulla

pretesa di certa scienza – a suo avviso, in verità, poco scientifica e

surrettiziamente affezionata a una metafisica di stampo materialista e

determinista – di mettere il veto o tacciare di anti-scientismo ogni

posizione che, di fronte alle incertezze della ricerca, mantenesse aperta

la possibilità di credere nella libertà personale, nell’indeterminismo, nella

efficacia dei caratteri individuali. James ritiene, inoltre, che queste istanze

siano esigenze vitali proprie degli esseri umani e in quanto tali legittime e

inalienabili, tanto da costituire le motivazioni della sua riformulazione

pragmatica della nozione di esperienza e, in seguito, dell’indirizzo pluralista

e anti-intellettualista assunto dalla sua metafisica.

La domanda che viene riproposta nell’articolo del 1880, e a cui James

tenta di dare la sua personale risposta, è relativa alle cause a cui attribuire

i cambiamenti sociali che si riscontrano di generazione in generazione. Un

tratto importante dell’individualismo di James e del dibattito del tempo,

che qui ben emerge, è come esso cercasse la sua legittimazione

scientifica radicandosi in una lettura seppure differente dell’evoluzionismo.

Dalla proposta più marcatamente meccanicistica di Herbert Spencer e

degli studiosi che a lui facevano riferimento, appunto Allen e Fiske,

James prende le distanze sostenendo che a causare l’evoluzione storico-

sociale, per quanto necessarie, non siano sufficienti le sole condizioni

ambientali e sociali. Le mutazioni generazionali delle società sono infatti

anche e principalmente dovute, direttamente o indirettamente, alle

azioni o all’esempio di individui di genio e alle relazioni accidentali che questi,

in certi momenti, hanno modo di stabilire con l’ambiente sociale, così

da poter agire in esso come fermenti di novità. In questo modo, James si

faceva sostenitore di una posizione antiriduzionistica e riteneva peraltro di

rimanere più fedele alla teoria di Darwin, quantomeno all’aspetto più

originale dell’analisi proposta dallo studioso inglese. Darwin (1859)

tenne infatti a distinguere tra due cicli causali relativamente indipendenti tra

loro: da una parte, il ciclo fisiologico della natura nel quale egli rinveniva

le cause delle tendenze alla variazione spontanea e, dall’altra, il ciclo ambientale

in funzione del quale agiscono le cause della preservazione (la selezione

naturale e sessuale). Per quanto debbano essere tenuti in conto i

cambiamenti adattativo-funzionali, quindi quelle modificazioni legate alla

pressione diretta esercitata dall’ambiente sull’organismo – nei quali le

relazioni interne corrisponderebbero alla loro causa efficiente esterna –

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Figure dell’individualismo

9

secondo James merito di Darwin è l’aver mostrato quanto maggiore sia

in realtà la massa di cambiamenti prodotti a livello ‘molecolare’, e

quanto le cause di questi ultimi ci rimangano quasi del tutto sconosciute.

Ovviamente si tratta di posizioni di fine Ottocento e la ricerca ha

fatto da allora moltissimi passi in avanti, soprattutto in campo genetico.

Quel che è interessante notare in queste posizioni è come, rispetto alla

sociologia, James cogliesse l’istanza antiessenzialista del darwinismo,

contribuendo a corroborarne la declinazione indeterministica che è

caratteristica del pensiero pragmatista in generale, e di quello di James in

particolare. Le variazioni che Darwin definisce “molecolari” sono infatti

novità interne, invisibili a occhio nudo, ma soprattutto accidentali. In altri

termini, James metteva sotto accusa le implicazioni riduzioniste delle pur

necessarie generalizzazioni metodologiche della sociologia, volte a

identificare i comportamenti e le reazioni della media degli individui a

dispetto della concreta varietà dei caratteri fisiologici e, soprattutto, delle

potenzialità individuali – anch’egli, in verità, senza preoccuparsi di

problematizzare le difficoltà di un diretto sviluppo della stessa analogia

tra il piano d’indagine biologico e quello sociale. Rispetto alla durezza di

Allen, che senza esitazioni ritiene che la scienza debba preoccuparsi di

spiegare la media-massa e non l’individuo, la replica di Fiske a James si

dimostra invece moderata e ricettiva al punto tale che, a questo

proposito, uno dei più noti seguaci di Spencer si trova a dover meglio

precisare la distinzione tra storia e sociologia. Venendo incontro al

legittimo timore di James di una storia quasi impersonale, cioè fatta dagli

eventi e non dagli individui o, detto in altri termini, di un possibile

collasso della storia in sociologia1, Fiske ridimensiona in quest’ambito quello

che dovrebbe essere l’apporto degli studi e della metodologia delle

scienze sociali.

È interessante notare come nella prospettiva di James, che legge

l’evoluzione in modo da valorizzare gli elementi innovativi e creativi

della società – i quali rimangono a suo avviso un portato individuale poi

selezionato e sostenuto dall’ambiente – egli finisca col valorizzare non

soltanto il contributo degli uomini di genio ma, a ben vedere, quello di

ciascun individuo. Infatti, sempre rimanendo nell’analogia bio-evolutiva,

ogni essere umano esibisce fisiologicamente variazioni seppur minime rispetto al

tipo ideale della media specifica e può essere considerato a sua volta una

variazione che, in quanto tale, dimostra un certo potere, seppure sempre

minimo, di condizionare in modo efficace il suo ambiente circostante e

con la selezione la stessa inclinazione della linea evolutiva.

Si può ben dire, quindi, che quello di James è uno scontro con il

determinismo degli studi sociali e, soprattutto, con i suoi esiti assolutistici.

Sarebbe, quindi, improprio leggere a sua volta l’indeterminismo di James in

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Quaderni della Ginestra

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termini assoluti: il ruolo dell’ambiente sociale rimane, infatti, un fattore

altrettanto determinante dell’evoluzione, contenendone le possibilità e

assicurandone la continuità. L’evoluzione sociale è definita da James come:

una risultante dell’interazione di due fattori completamente distinti – quello individuale, che deriva i suoi talenti particolari dal

gioco delle forze fisiologiche ed intra-sociali, ma che mantiene

nelle sue mani tutto il potere di iniziativa e di creazione; e, il secondo, l’ambiente sociale, con il suo potere di accettare o

rifiutare sia lui che i suoi talenti. Entrambi i fattori sono essenziali

al cambiamento. Senza l’impulso individuale la comunità ristagna. L’impulso muore senza il favore della comunità.2

Il punto è proprio la complessità della interazione tra novità e continuità.

Per quanto si diano condizionamenti storico-ambientali-sociali del

momento presente, e con essi si vengano a creare delle incompatibilità

che di fatto precludono una serie di possibili direzioni evolutive o ne

rendono altre ridondanti, ciò nonostante queste solo genericamente

determinano il singolo soggetto agente, cioè non ne determinano in

positivo lo specifico modus operandi : è nella critica dei rischi di questo

passaggio indebito, che in questo caso compirebbe la sociologia, che si

concentrano gli sforzi di James. L’evoluzione storico-sociale, come

quella biologica, rimane continuamente aperta grazie alla possibilità di

variazioni spontanee che sono legate a meccanismi genetici, non osservabili

e multifattoriali, i cui esiti concreti rimangono nella loro singolarità non

prevedibili. Le «living things», quali l’individuo e la comunità per James,

non sono soggetti soltanto all’influenza diretta dell’ambiente, ma

esibiscono uno spessore, una concretezza fisica e psichica che conserva i segni

del divenire storico, cosicché la loro evoluzione si va anche a scrivere sulle

stratificazioni che le scelte degli uomini e delle donne hanno formato e

conservato nel tempo, comportando una maggiore complessità e

incertezza dei risultati dell’interazione con l’ambiente naturale e sociale.

Dobbiamo notare, infine, che la posizione “individualista” di James

non è neanche compatibile con una teoria individualista forte, che

presupporrebbe una concezione più solida dell’Io. Accenniamo qui solo

brevemente all’indagine psicologica di James laddove, nel noto capitolo

X dei Principles of Psychology (1890), definisce l’Io proprio in termini plurali

e dinamici e ben riconosce la labilità dei confini del Sé e delle sue

relazioni interne. La proprietà e il possesso degli stati mentali non

definiscono l’identità in modo statico, essenzialistico, ma si osserva un

continuo succedersi di stagioni e di eredi proprietari (herdsmen) che si

trovano a dover rinegoziare e ridefinire continuamente le rispettive

capacità. James ritiene con T. Ribot che «l’unità psichica derivi da un

processo empirico graduale e non da un sottostante principio

metafisico»3. Così, anche nella sua descrizione del «campo di coscienza»

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Figure dell’individualismo

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che è costituito da margini e da un centro, egli nota come essi siano

modificabili, momentanei, continuamente soggetti al cambiamento. Il

centro è quello di cui siamo attualmente coscienti, ciò a cui prestiamo

attenzione, ma l’unità del Sé è precaria, non è mai assicurata o data una

volta per tutte. Una tale lettura psicologica del mentale rientra in quello

che si è cercato di rimarcare nel confronto con la nascente sociologia,

cioè nel fatto, ben rilevato da Francesca Bordogna, che l’anti-

essenzialismo era la ricetta «per ‘rivitalizzare’ e rigenerare la società

americana»4. Abbandonando l’idea di relazioni essenziali, statiche, definite

a priori, né per l’Io né per le relazioni sociali, si può parlare di relazioni

dinamiche, differenti, che possono cambiare, modificarsi nel tempo, e ciò

ha evidentemente una forte implicazione morale. Gli individui partecipano

con tutta la loro irripetibilità genetica, storiografica e con le rispettive

capacità creative al possibile miglioramento o peggioramento della società, un

cambiamento la cui evoluzione rimane relativamente aperta proprio per

la ‘natura ipotetica dell’individuo’ – come la definisce Sergio Franzese –

ovvero per l’irriducibilità della potenzialità individuale che James riscontra sul

piano fisiologico e psicologico e di cui traccia le conseguenze sul piano etico e

morale.

II

Prima di inoltrarci nell’articolazione alternativa rispetto a quella

jamesiana, è necessario chiedersi cosa significhi affermare che

l’individuo è un residuo. In una prospettiva filosofica e scientifica,

affermare che la componente individuale è residuale assume due

significati: in primo luogo, che essa è secondaria, che non svolge un

ruolo di primaria importanza; in secondo luogo, che di essa in qualche

modo non si può fare a meno. L’idea – un po’ brutale, a dire il vero – è

che il processo di elaborazione teorica non riesca a smaltire in pieno

l’individuo, in quanto esso rimane il residuo e la traccia irriducibile di

ogni processo di socializzazione. È questo l’esito a cui conduce una

certa impostazione sociologica che possiamo ricondurre idealmente a

Émile Durkheim.

Come noto, Durkheim è uno dei padri della sociologia

contemporanea. I suoi lavori fondamentali possono essere situati a

cavallo tra Ottocento e Novecento, e probabilmente pochi altri autori

possono essere altrettanto considerati come pensatori di frontiera tra i

due secoli. L’Ottocento è il secolo di Darwin e Spencer, ma anche il

palcoscenico su cui viene messo in scena il passaggio dalla folla alla

massa. Di fronte alla potenza di questo fenomeno, molti autori

nnnnnnnnn

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Quaderni della Ginestra

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MIL, TUTTO CHIUSO E IL VENTO DENTRO (PART.)

IO AMO CIÒ CHE NON SI DICE

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Figure dell’individualismo

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reagiscono in modo rigido, ossia proponendo una secca opposizione

che è assieme normativa e teorica5. In particolare, Le Bon, Taine e tanti

altri propongono una visione dicotomica costruita attorno a due mosse

decisive:

1) La netta distinzione tra individuo e massa

2) L’identificazione della sfera individuale con quella razionale, e

dei fenomeni della folla con la sfera impulsiva e irrazionale.

Nella società del progresso l’individuo è diventato capace di

controllare razionalmente se stesso e il mondo esterno. Se però

prendiamo lo stesso individuo e lo gettiamo in una folla ingiustamente

inferocita, anche lui diventerà inferocito. Questa doppia equazione

(individuo=razionalità, folla = irrazionalità), che è ovviamente in

connessione con il modello antropologico utilitarista, viene rifiutata da

Durkheim. All’origine di questo rifiuto non c’è tanto la rivalutazione

della folla o della massa, quanto piuttosto l’affermazione del primato del

sociale. Durkheim fonda la sociologia in quanto scienza esatta sul

primato metodologico e teorico del sociale: primato metodologico in

quanto l’oggetto specifico della sociologia non è l’individuo, le sue

sensazioni, le sue rappresentazioni, ma al contrario il fatto sociale. Nella

confusione e nella frammentazione della realtà esterna, il fatto sociale è

riconoscibile grazie a tre segni caratteristici:

1) L’esteriorità

2) La costrizione

3) La generalità.

Oggetto della sociologia sono dunque quei fenomeni collettivi,

irriducibili, esteriori rispetto agli individui, e capaci di esercitare su di

essi una forza costrittiva. Lo strumento pratico che permette la

separazione del fatto sociale dalle sue incarnazioni individuali è la

statistica. Pensiamo al celebre studio sui suicidi6. A Durkheim non

interessano i motivi psicologici o biografici che spingono una persona al

suicidio – “si è ucciso perché è stato lasciato dalla moglie”, e simili

motivazioni da televisione – , ma al contrario la sua analisi è focalizzata

sulla quantità aggregata di suicidi per anno in una determinata nazione e

sulla sua variazione storica, da ricondurre a cause collettive di natura

sociale. L’aspetto personale e individuale è insignificante in questo

senso.

La prospettiva di Durkheim è interessante perché in essa la metodologia

si traduce immediatamente in una teoria sul mondo. Durkheim dice che se

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vogliamo costruire una sociologia che sia scienza vera e propria,

dobbiamo occuparci dei fatti sociali, i quali come gli oggetti delle

scienze naturali esistono oggettivamente, ossia a prescindere da ciò che

ognuno di noi pensa o percepisce. Se vogliamo riconoscere un fatto

sociale, se vogliamo cioè distinguerlo da un fatto non sociale, bisogna

considerare se esso presenta le caratteristiche dell’esteriorità, della

costrizione e della generalità. Ma così facendo, il discorso slitta in

automatico dalla metodologia alla teoria, o forse più precisamente

all’ontologia. Nel delineare come si possa riconoscere un fatto sociale,

Durkheim finisce inevitabilmente per indicare la struttura effettiva di un

fatto sociale, finisce cioè per descriverlo. L’aspetto interessante ai fini della

presente discussione, è che questa ricaduta descrittiva della scelta

metodologica di base riguarda non solo la definizione del sociale, ma

anche quella dell’individuale. Se il fatto sociale è dotato di potere di

costrizione sull’individuo, complementarmente l’individuo sarà

connotato come qualcosa che è in qualche misura predisposto alla

costrizione. Questa deduzione pare confermata dal seguente passaggio:

Sans doute, elles (i fenomeni collettivi, nda) ne peuvent se réaliser

que si les natures individuelles n’y sont pas réfractaires; mais

celles-ci ne sont que la matière indéterminée que le facteur social détermine et transforme. Leur contribution consiste

exclusivement en états très généraux, en prédispositions vagues et, par suite, plastiques qui, par elles-mêmes, ne sauraient prendre

les formes définies et complexes qui caractérisent les

phénomènes sociaux, si d’autres agents n’intervenaient.7

La ‘metodologia della discontinuità’, come l’ha definita efficacemente

Claude Gautier8, finisce così per risolversi in un vero e proprio dualismo,

il cui manifesto è il testo del 1914 Le dualisme de la nature humaine et ses

conditions sociales9. In questo articolo l’umanità viene descritta come il

teatro dello scontro tra due principi: da un lato il sociale, che include la

moralità e il pensiero, dall’altro l’individuale, che contiene la dimensione

impulsiva e biologica. Uno scontro ad armi impari, che si risolve

fatalmente nella vittoria del sociale sull’individuo. Una vittoria che può

essere sofferta, riconosciuta, addirittura desiderata, ma che rimane pur

sempre una vittoria predestinata e vincolata alla sproporzione delle

forze in campo.

Ora, il punto cruciale è che questa concezione residuale dell’individuo

finisce per generare un paradosso piuttosto significativo. Se si afferma

con Durkheim che il sociale è il primum, in quanto ad esso appartengono

i fenomeni nobili dell’umanità come il pensiero, la scienza e la morale, e

in quanto esso è capace di influenzare in modo decisivo e di formare la

sfera individuale, bisogna necessariamente spiegare:

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Figure dell’individualismo

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a) In che modo questa influenza si realizzi

b) Quale sia l’oggetto, la materia per così dire su cui il marchio

della socializzazione si imprime.

La via più breve verso la concezione residuale, ossia la via che

tendenzialmente segue e traccia Durkheim nei due testi sopra

menzionati, consiste nel concepire la socializzazione come un processo

unidirezionale che forma la materia plastica e indeterminata di cui è

fatta l’individualità. Da qui la natura residuale menzionata nel titolo: la

sfera individuale infatti diventa così una sorta di stato primitivo e vuoto

che noi dobbiamo necessariamente ipotizzare come materia precedente

l’opera di formazione e organizzazione prodotta dal sociale. Ora,

questa forma può anche essere individuale, in quanto un certo tipo di

individualizzazione può essere il prodotto di un certo tipo di

socializzazione. In particolare, la società moderna, caratterizzata dalla

divisione del lavoro sociale e dalla relativa segmentazione, è dotata di un

evidente potere individualizzante. Si crea così il seguente paradosso: c’è

un’individualità a monte che è plastica e indeterminata; su questa

individualità agisce il potere costringente della società, che in epoca

moderna produce e lascia emergere un’individualità stavolta situata non

a monte, ma a valle del processo di socializzazione. Al di là del

paradosso, è evidente come la prospettiva sia rovesciata rispetto a quella

di William James. Mentre in James la concretezza dell’individuo è la fonte

delle innovazioni sociali e della pluralità dei punti vista, in Durkheim al

contrario sono la differenziazione dei ruoli e la divisione del lavoro sociale a

permettere l’emergere dell’individualità. Mentre in James la fonte delle

variazione e delle innovazioni è rintracciabile nell’individuo, in

Durkheim i mutamenti della società si spiegano a mezzo di fenomeni

sociali. Pensiamo soltanto all’esempio dei ‘grandi uomini’. Se è vero che

sono state le cosiddette qualità individuali a far sì che Napoleone, e non

il suo vicino di casa in Corsica, sia diventato Imperatore, ciononostante

sono state le particolari condizioni storiche e sociali a far sì che in quel

preciso momento sia emersa l’esigenza di una figura carismatica e

accentratrice. Non solo: pensiamo soltanto a quanto sia contestuale la

definizione di una caratteristica apparentemente individuale quale il

carisma. I leaders carismatici di trenta anni fa non eserciterebbero lo

stesso fascino nel contesto politico attuale, e viceversa i leaders attuali

probabilmente risulterebbero ridicoli agli occhi della vecchia opinione

pubblica. Riconoscendo il ruolo di censura e selezione esercitato

dall’ambiente sulle variazioni individuali, una prospettiva jamesiana può

anche dare conto di un fenomeno del genere, ma il punto cruciale in

ultima istanza è un altro, ossia il potere causale. Nel caso di James,

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Quaderni della Ginestra

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l’individuo è dotato del potere causale di incidere sulla realtà sociale. Un

potere limitato, ovviamente, ma pur sempre decisivo. Nel caso di

Durkheim invece l’apporto dell’individuo sembra non avere spazio. La

sfera dell’individuale esiste, la sua irruzione è un fenomeno tipicamente

moderno; tuttavia, l’individuo esercita la sua influenza sul sociale

sempre per interposta persona, dove l’interposta persona è il sociale

stesso. La società moderna ha costruito “il mito dell’individuo”, afferma

Durkheim, in quanto questo era l’unico ideale collettivo possibile in un

contesto social frammentato e diviso.

In conclusione, l’impostazione durkheimiana ha il merito di far

comprendere come l’individuo sia il prodotto di un processo sociale e

storico, e non un’entità autosufficiente e completamente autonoma che

esiste aldilà delle relazioni sociali e personali. Inoltre, essa mette bene in

luce l’arbitrarietà dell’assunto secondo il quale la fonte dell’innovazione

e del cambiamento vada localizzata necessariamente nella sfera

individuale. Un’intuizione che sembra confermata da un certo dibattito

contemporaneo sulla teoria dell’evoluzione, in cui il piano su cui si

esercita la selezione naturale e in cui compaiono le variazioni impreviste

di cui parlava Darwin è sia quello individuale, sia quello genetico, sia

addirittura quello dei gruppi. Fatto salvo questo contributo positivo, è

evidente il paradosso che si crea una volta posti di fronte a due

individualità– una a monte, l’altra a valle, una socializzata e l’altra

presociale, una disorganizzata, l’altra strutturata e compiuta – che

appaiono come separate e irrelate.

In che modo è allora possibile evitare un simile paradosso, pur

partendo dall’assunto del primato del sociale? Si può portare il discorso

alle estreme conseguenze, arrivando così a negare in assoluto l’esistenza

dell’individuo. La materia su cui la socializzazione imprime il suo segno

è in realtà la dotazione biologica e innata, di per sé sprovvista di potere

di individuazione. Per quanto riguarda invece l’individualizzazione a

posteriori, essa può essere denominata così solo metaforicamente.

Difatti, il prodotto della socializzazione moderna è un soggetto

individuale vincolato ad un numero sempre crescente di ruoli e

aspettative, e quindi egualmente soverchiato da una pressione sociale

che ha cambiato il proprio volto rispetto al passato, ma non ha perso il

proprio potere costringente. Un’alternativa più promettente rispetto a

quella dell’estinzione dell’individuo, e al contempo capace di tenere

conto delle debolezze dell’individualismo jamesiano, consiste invece nel

considerare i processi di socializzazione e di individuazione nella loro

interconnessione e nel loro necessario intreccio. Questo fa sì che l’individuo

sia impensabile al di fuori di una rete di vincoli, aspettative e relazioni

sociali e simbolico-istituzionali, ma che allo stesso tempo il processo di

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Figure dell’individualismo

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socializzazione non avvenga su di una tabula rasa priva di contenuti e

organizzazione. Questi contenuti sono le aspettative innate con cui

l’individuo viene al mondo, la sua dotazione genetica intesa in senso ampio,

ossia cioè che entrando in contatto con il sociale fa sì che ogni processo

di socializzazione sia unico e irripetibile. Lavorando in una simile

direttrice è forse possibile aggirare i paradossi che fatalmente sembrano

avvolgere il rapporto tra individuale e sociale.

MICHELA BELLA

MATTEO SANTARELLI

1 S. Franzese, Darwinismo e Pragmatismo e altri studi su William James, Mimesis 2009, p. 77. 2 W. James, I grandi uomini e il loro ambiente, Edistudio, Pisa 1995, p. 63. 3 F. Bordogna, Inner Division and Uncertain Contours: William James and the Politics of the Modern Self , The British Journal for the History of Science, Vol. 40, No. 4 (Dec., 2007), pp. 505-536, p. 517 [nostra traduzione]. 4 Ivi, p. 526 [nostra traduzione]. 5 E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma 2008. 6 E. Durkheim, Le suicide. Étude de sociologie (1897) Puf, Paris 1967. 7 E. Durkheim, Les Règles de la méthode sociologique, (1894) Puf, Paris 193, p. 105. 8 Claude Gautier, La force du social, Puf, Paris 2011. 9 E. Durkheim, « Le dualisme de la nature humaine et ses conditions sociales », Scientia, XV, 1914, pp. 206-221.

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Meditazioni filosofiche

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Meditazioni filosofiche

19

PAUL DELVAUX, LE DIALOGUE, 1974.

lungo ho sostato di fronte a questo dipinto, percependone la

vicinanza, quasi l’intimità. Non saprei che cosa questo tardo-

surrealista belga abbia realmente voluto esprimere o sfogare con esso.

Forse niente, lasciandomi così ampio margine ermeneutico: magari,

come suggerisce il mare sullo sfondo, si tratta solo della trasposizione

onirico-metafisica di una breve sosta turistica tra le bizzarre colonne

della moschea di Hassan. Quasi certamente non è così, ma ovviamente

mi sono ben cautelato evitando di leggere qualsiasi pagina di critica a

riguardo.

In realtà esteticamente non trovo quest’opera molto attraente, però

mi parla come raramente accade invece con i verbosi trattati filosofici

contemporanei. Soprattutto parla di me, ritrovato nelle sue colonne, così

inutili, così fini a loro stesse: che ruolo hanno in questo paesaggio, che

cosa sostengono? Non il cielo, troppo basse. Si direbbe proprio nulla,

solo loro stesse, volendo i loro capitelli. Non c’è traccia di travi o archi,

solo un paesaggio metafisico dove alle colonne si aggiungono soltanto

gradini e basamenti piastrellati, rivelando una prospettiva un po’

deformata nelle proporzioni. Eppure tanto il dipinto quanto la surrealtà

che rappresenta si direbbero finite, le colonne non sembrano

abbisognare di alcunché di ulteriore.

Esattamente tale paradossale compiutezza dell’incompletezza o

dell’inutilità ritrovo in gran parte delle cose che ho fatto e che vorrei

fare. Le colonne sono come le mie azioni, non contribuiscono ad un

progetto architettonico, non sono collegate ad un disegno complessivo

ulteriore. Lo stesso accade per i miei studi e le mie ricerche: si spingono

fino ad un certo punto, talora senza nemmeno giungere a “scolpire” un

bel capitello, e poi vengono abbandonati (da me!). D’altra parte dove

dovrebbero arrivare? Anzi perché dovrebbero arrivare? Per quale

ragione prediligere un’ottica finalistica? Baudelaire ha detto: “essere un

A

INCUBO (O VISIONE) DI FILOSOFIA

Page 21: Xiii

Quaderni della Ginestra

20

uomo utile mi è sempre sembrata una cosa squallida!”. In effetti come si

può “architettare” la propria esistenza, costringerla in un progetto, e

conservare la dignità della libertà? Come si possono seriamente

programmare e dosare le proprie azioni in vista di uno specifico

obiettivo, per quanto molti tentino l’impresa?

Ecco dunque sublimate in quest’opera, ovviamente surrealista, tali

mie riflessioni esistenziali, mi sono detto. Però, riflettendo meglio, mi

sono reso conto che l’analogia rinvenibile in questo quadro è ben più

ampia e universale della mia misera individualità e lambisce la filosofia

intera. Ovviamente non la filosofia in sè, ma piuttosto (se ancora serve

dirlo nel 2014…) la filosofia per me, in quanto rovina, apatia, inutilità e

incompletezza: peculiarità per le quali quest’opera dovrebbe intitolarsi

“la philosophie” ben più che “le dialogue”.

Il paesaggio del dipinto richiama senz’altro le rovine di un sito

archeologico, per quanto decisamente ripulito: i resti di un’area templare

o di una stoa presentano analoghe scheletriche schiere di colonne. Una

visione che, pur destando numerose sensazioni positive, si accompagna

solitamente alla desolazione, all’abbandono, all’idea di un passato ormai

immobile, solo sporadicamente animato dai rapidi guizzi delle lucertole.

Una “musealità” evidente anche nella filosofia accademica, le cui

orazioni e certamina richiamano spesso, per attualità e pertinenza con la

vita, i dialoghi delle mummie del Federico Ruysch di leopardiana

memoria.

Un’altra caratteristica lampante è l’apatia, sia come espressività vuota

sia come, a dispetto del titolo, a-dialogicità. Se le due donne sono

coinvolte in una conversazione, questa non sembra andare molto oltre

una già improbabile telepatia. Il loro è un dialogo monotono, incolore e

inespressivo come i loro volti; forse è un soliloquio, se non addirittura

una litania, un puro sussurro privo di semantica, magari un monologo

interiore. Come statue tra le colonne, neppure i loro sguardi, grandi ma

spenti, paiono creare relazioni. Analogamente la filosofia delle

conferenze (e non solo quella) è traboccante di pseudo-dialoghi, legati

ad un’apatica e breve coabitazione tra persone che condividono solo

uno spazio fisico (o editoriale) e che si spartiscono una sequenza

temporale di interventi, senza scambio reciproco, senza comunicazione

reale. Come non c’è intesa e contatto tra gli sguardi e le parole delle due

donne, così non c’è comprensione e sintonia tra i discorsi dei filosofi

attuali. Quante volte si assiste infatti a “polverosi” convegni in cui, dopo

che apatici relatori hanno letto interventi simili a tristi soliloqui, altri

sedicenti filosofi rivolgono domande non-domande per le quali

riceveranno risposte del tutto decontestualizzate: quanto più stringenti

le conversazioni condotte da Vladimir ed Estragon durante la loro attesa

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Meditazioni filosofiche

21

di Godot!

Già ho detto dell’inutilità quasi impudente delle colonne, prive di

schema e finalità. La casualità dei loro allineamenti, la disparità delle loro

altezze e la disomogeneità dei loro capitelli evidenzia come fin dall’inizio

non siano state concepite per l’usuale scopo sostenitivo. Non meno

inutile è la filosofia contemporanea, ormai abbandonata e snobbata sia

dalle scienze teoretiche che da quelle pratiche. Tuttavia non si rassegna e

pare anzi più indaffarata a ritagliarsi uno spazio di improbabile utilità

che a proporre idee peculiari e del tutto innovative, come le

consentirebbe l’assenza del fardello dell’immediata applicazione. Così

come le colonne che, per quanto nel dipinto appaiano già piuttosto

“soddisfatte”, potrebbero altrove trovare dignitose applicazioni, così le

elucubrazioni della filosofia, qualora realmente originali, potrebbero

costituire un’ottima palestra per il pensiero critico nonché una ricca

strumentologia o un archivio di spunti per le proposte dialettiche e gli

sviluppi “vivi” di altri rami del sapere.

In ogni caso “inutile” non è affatto da considerare un giudizio

negativo, semmai troppo realistico. È infatti l’inutilità la vera realtà con

cui l’essere umano si confronta nel labor della sua vita, al di là di risibili

illusioni volitive: chi se non Sisifo, così come descritto da Camus,

rappresenta l’essere umano per eccellenza? Coazione ad agire, a ripetere

con disperato entusiasmo pur nell’assenza di alcuna utilità, ripartendo

sempre poi dall’inizio, senza progresso, senza un fine se non l’inizio

della successiva azione.

Un’altra possibile difesa è considerare l’evanescenza dell’inutilità, in

quanto analoga al disordine: entrambi acquisiscono significato solo a

partire da uno specifico punto di vista, da una specifica visione del

mondo, che fissi obiettivi e punti di arrivo. Così come il disordine può

essere considerato solo un’altra forma di ordine (si pensi al Bergson di

Materia e memoria) allo stesso modo perché non vedere l’inutile solo

come un “diversamente” utile? Non è data un’inutilità assoluta, né

tantomeno un’utilità. Quindi come preferire uno scopo ad un altro?

Meglio forse non considerarne alcuno.

Le dialogue rappresenta senz’altro un paesaggio incompleto, manca ciò

che le colonne dovrebbero sostenere, proprio non ve n’è traccia. Allo

stesso modo la filosofia: sempre difettosa, al di là delle frequenti

illusioni, non giunge mai a una conclusione, a “lanciare” un arco o una

trave che congiungano dialetticamente un discorso ad un altro. Riparte

invece ogni volta con un nuovo discorso (una nuova colonna), un po’

perché facile preda dell’ansia di distinguersi dal precedente, del tutto

ridicola se si considera la sua sisifica condanna alla ripetizione

(riecheggiata nella limitata gamma di stili architettonici delle colonne),

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Quaderni della Ginestra

22

un po’ perché proprio di discorsi a sé stanti si tratta - in pratica i pezzi di

un Mikado. Mai, proprio mai, si cerca un superiore elemento di

connessione. Ogni filosofo giunge tutt’al più ad uno splendido

“capitello”. Solo l’idea di partenza (“ciò che stiamo facendo è filosofia!”

- Alias il pavimento…) e la propensione solipsistica li accomunano.

Però, anche in questo caso, regole grammaticali e logiche a parte,

quando o a quale punto del processo di sviluppo si può in assoluto dire

che qualcosa è completo o incompleto, considerando l’incessante

divenire? Si potrebbe magari considerare completo ciò che giunge a

soddisfare l’intenzione di partenza del parlante/scrivente, quindi nulla di

intrinseco: che ne direbbero però gli altri? In ogni caso, a proposito di

incompletezza, spero che nessun lettore sia stato così ingenuo da

aspettarsi che qui…

FEDRO ANDIOTIN

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Meditazioni filosofiche

23

«La mia tendenza e, io ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno mai cercato di

scrivere o di parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio.

Quest'avventarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente

disperato. L'etica, in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della

vita, il bene assoluto, l'assoluto valore non può essere una scienza […]. ma è un documento

di una tendenza dell'animo umano che io personalmente non posso rispettare profondamente

e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo.»

Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la

cedenza religiosa, Adelphi, Milano, 2005, p.18

«Le stesse percezioni del mondo che generano la Scienza e la filosofia sono inconciliabili

l'una con l'altra, sebbene nascano dalla stessa pulsione, la pulsione della realtà. Da tale

pulsione colpita, però, la filosofia, accoglie il movimento, quell'acuto sentimento di apertura al

novum che chiameremo stupore e, compresolo come desiderato, opera per vivere in esso. La

filosofia è il fiore che mai avvizzisce della meraviglia, essa è la meraviglia ordinata.»

Pavel Florenskij, Stupore e dialettica, Quodlibet, Macerata, 2011, p.52

potizzare o proporre un confronto tra il pensiero, le posizioni

speculative di Wittgenstein e di Florenskij alla ricerca di

convergenze, affinità o posizioni comuni sembra, a prima vista,

un'operazione poco plausibile, forse incompatibile con i canoni di una

letteratura rigorosa. L'evidenza sembra, nell'immediato, suggerire il

contrario, prospettare un'incolmabile distanza e mettere in luce le

differenze di orizzonti, di contenuti e di stile degli autori in questione.

Sono diversi, prima di tutto, il clima e i territori del pensiero che i due

autori esplorano all'inizio della loro ricerca: per Wittgenstein decide il

confronto con Frege e Russel, con le correlative ricerche sui fondamenti

logici della matematica, per Florenskij l'interesse scientifico curva,

da subito, in una prospettiva multidisciplinare in cui trovano spazio la

letteratura, le scienze dello spirito e la teologia. Sono diverse, inoltre, le

istanze di fondo che motivano l'avvicinarsi dei due filosofi all'attività

speculativa: in Wittgenstein domina un'esigenza di chiarezza, il tentativo

di rendere trasparenti le possibilità del linguaggio, delimitando gli ambiti

delle sue pretese di verità; in Florenskij è determinante una prospettiva

metafisica che si traduce nel recupero del platonismo e

nell'elaborazione di una philosofia prima in cui la dimensione del

sovrasensibile comprende quella del sensibile.

Anche lo stile dei due sembra prestarsi a facili contrapposizioni: da

I TRA SILENZIO E STUPORE: L’ESPERIENZA FILOSOFICA IN

WITTGENSTEIN E FLORENSKIJ

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Quaderni della Ginestra

24

un lato la prosa scabra e definitiva, al limite dell'aforisma, di

Wittgenstein, dall'altro la lingua ricchissima di Florenskij, fitta di

rimandi, digressioni e citazioni.

Se, tuttavia, si guarda ad alcuni contenuti specifici del loro pensiero

con una particolare attenzione a certe sfumature, non è impossibile

rintracciare qualche punto di convergenza nelle traiettorie originate dalla

loro riflessione.

Se non si può parlare di una vera e propria aria di famiglia tra

Wittgenstein e Florenskij, si può cogliere la condivisione di una certa

tonalità del pensiero rispetto allo statuto epistemico della filosofia, al

rapporto tra filosofia e scienza e, più in generale, al senso dell'esperienza

filosofica. In particolare, nella riflessione di Wittgenstein e Florenskij,

aldilà dei diversi orizzonti speculativi, c'è un dato che emerge ed è la

convinzione che la filosofia rappresenti un'esperienza conoscitiva in

grado di rendere conto, o quantomeno, di fare chiarezza su quegli

aspetti dell'umano sui quali la scienza non può pronunciarsi. Il sapere

filosofico, inoltre, nella riflessione dei due autori in questione, si pone

come un sapere integrale e complesso capace di tenere insieme il

profilo razionale della parola e del discorso con quello metarazionale del

sentire, degli affetti e dei comportamenti. .

In questa prospettiva è collocato un testo di Wittgenstein pubblicato

solo nel 1965 e situato all'origine di quella fase della ricerca speculativa

del filosofo viennese che culmina nelle Ricerche filosofiche. Nel testo in

questione- una conferenza pronunciata davanti a un' associazione

studentesca tra il 1929 e il 1930- Wittgenstein pone in evidenza un dato

caratteristico delle nostre abitudini linguistiche. Quando parliamo di

etica, utilizziamo termini come giusto, bene/buono e valore in un senso del

tutto diverso da quello corrente. Questi termini, nel contesto etico

hanno un senso assoluto, mentre, nel linguaggio corrente hanno un

senso relativo.

La ragione – o, per usare le parole di Wittgenstein- l'essenza di tale

differenza ha a che fare con l'oggetto delle nostre asserzioni: nei giudizi

di valore relativi, nel linguaggio ordinario, ci riferiamo a dei fatti. Questo

non accade quando ci occupiamo di etica.

Per chiarire la propria posizione a sostegno della distanza tra le

proposizioni etiche e il mondo dei fatti, Wittgenstein porta un esempio

tanto chiaro quanto suggestivo: se in un ipotetico libro universale in

grado di contenere la descrizione di tutti i fatti del mondo , trovassimo

la descrizione di un delitto , completa di tutti i particolari che riguardano

gli aspetti fisici e psicologici, non ci troveremmo di fronte ad alcun

giudizio o proposizione etica.

Le nostre parole – prosegue Wittgenstein seguendo la direzione

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Meditazioni filosofiche

25

mmmm

UN’AMOROSA QUIETE

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Quaderni della Ginestra

26

inaugurata nel Tractatus- non sono in grado di formulare giudizi di valore

assoluto perché non si danno stati di cose come il bene assoluto che

chiunque dovrebbe necessariamente conseguire. La nostra esperienza,

tuttavia, mostra continuamente la tendenza a esprimere giudizi di questo

tipo soprattutto nelle affermazioni a contenuto etico e religioso. In tale

prospettiva Wittgenstein rafforza il proprio procedimento

argomentativo con ulteriori esemplificazioni in riferimento a due

modalità del sentire che appartengono all'esperienza di ciascuno e alla

loro declinazione assertiva: il sentimento di meraviglia e la sensazione di

essere completamente al sicuro. La scelta non è casuale: si tratta di stati

emotivi cui il filosofo attribuiva un'estrema importanza nel proprio

vissuto e che, più in generale, costituiscono , come tonalità emotive, i

presupposti di posizioni speculative filosofiche e religiose.

Non è difficile intravvedere, nel meravigliarsi per l'esistenza del

mondo quell'atteggiamento di stupore che una tradizione immemorabile

collega alla nascita della filosofia e, allo stesso modo, non è inopportuno

rintracciare le affinità tra il sentirsi assolutamente al sicuro di cui parla

Wittgenstein e il radicale sentimento di dipendenza dall'infinito in cui un

autore come Scheleiermacher ravvisa l'origine del sentimento religioso.

Le traduzioni linguistiche di tali aspetti emotivi sono considerate da

Wittgenstein in una duplice prospettiva: sono, da un lato, espressioni

prive di significato, ma, dall'altro, rappresentano una tendenza

dell'animo umano che l'autore non vorrebbe mai, a costo della vita, porre in

ridicolo.

Le considerazioni del filosofo formulate nel testo della conferenza

testimoniano il rispecchiarsi delle sue tensioni personali nella

dimensione teoretica: in una fase iniziale della propria riflessione

Wittgenstein sembra riconoscere come significativo il solo discorso delle

scienze, che opera nel mondo dei fatti, per orientare successivamente la

propria indagine alla pluralità delle forme di vita e alla coerenza interna

dei linguaggi che la descrivono. Cambia, in questa prospettiva, anche il

ruolo della filosofia: da garante del silenzio su quanto nel mondo dei

fatti non si può affermare ad apertura del pensiero e del linguaggio che

mostra la complessità dell'umano anche dove rinuncia alla descrizione.

Una modalità simile di concepire la peculiarità ed i limiti del

conoscere filosofico è ravvisabile in un breve scritto di Pavel Florenskij

del 1918, Stupore e dialettica, in cui l'autore mette a confronto l'indagine

filosofica e quella scientifica.

La scienza -osserva Florenskij deve necessariamente lottare contro

l'assenza di metodo che abita il senso comune – la visione comune del

mondo – cercando di dare ordine, e forma a un discorso, quello del

linguaggio ordinario, in cui non c'è chiarezza. Nel suo processo di

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Meditazioni filosofiche

27

continua ridefinizione dei propri ambiti, il pensiero scientifico rischia di

rivelarsi inadeguato ed immobile rispetto a quella che il filosofo russo

chiama “la pienezza e il movimento del vivere”.

La filosofia, diversamente, riesce a restituire nella comprensione tale

pienezza poichè è un linguaggio costruito da una pluralità di descrizioni

che si fonda sul continuo movimento delle proprie strutture simboliche.

In una parola- afferma perentoriamente Florenskij- la filosofia è

dialettica, relazione viva con la realtà, esperimento ininterrotto su di essa

per giungere a comprendere I suoi strati più profondi.

La radicale diversità dell'esperienza filosofica rispetto a quella

scientifica riguarda, secondo il pensatore russo, anche le fonti. Seppure

la scienza e la filosofia nascano dalla stessa pulsione a comprendere, la

filosofia si pone come sentimento di apertura al nuovo , come stupore ,

come meraviglia ordinata.

Ed è proprio nella definizione della filosofia come apertura al non

ancora detto e all'indicibile che i destini speculativi di Wittgenstein e

Florenskij finiscono per incontrarsi, nell'idea comune che il compito

della filosofia risieda nel confronto interminabile ed inesauribile con la

vita e la sua complessità.

LIVIO RABBONI

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Cinema e filosofia

29

I.

he complete victory of the factory of facts over the factory

of grimaces – that is what I expect from A Sixth Part of the

World.” In these words Dziga Vertov, the Soviet Russian avant-garde

filmmaker, refers to his new production in an interview for Kino

magazine in August 17, 1926. By saying this, Vertov reiterates his

ambition to reinvent the very concept of cinema. In order for cinema to

become active part in the process of creation of a new socialist society,

it had to be radically cut off from theatre and literature. This meant that

everything that belonged to film as fiction – the plot, the sets, the

actors, and the script – was to be rejected by Vertov and his

collaborators.

The members of Vertov’s group called themselves “kinoki,” a

neologism combining the Russian words “kino” for cinema and “oko”

for eye. By boycotting acted films, they wanted to show “life as it is,”

devoid of any theatricality and liberated from the “grimaces” of the

bourgeois world. The idea was to turn away from entertainment and

commerce towards a mental self-reflective construction of reality – the

reality of the revolution. This involved various experiments with modes

of perception and cognition, to an extent where vision was placed

under the impossible imperative to become homologous with the

incessantly moving and all seeing eye of the camera: “Freed from the

rule of 16 – 18 frames per second, free of the limits of time and space,

I put together any given points of the universe, no matter where I have

recorded them,“ – this was the revolutionary message of the so-called

“Kino-Eye“ manifesto from 1923.

The result was highly experimental films where reality and its

assemblage merged into political statements. Driven by the ambition to

decode the communist structures of the world, the cinematic “factory

of facts” sought to establish a new truly universal language of the film by

giving form to the material, by giving a “language” not only to the

people but also to things and machines. The political and philosophical

challenge consisted in uncovering the laws of their existence, of their

function and interrelations. By editing the filmed material into

successions of images, these laws were meant to be given a visual

expression.

II.

The Man With the Camera (1929) has come to be seen as most

“T

VIEWERS TURNED INTO PARTICIPANTS: DZIGA VERTOV’S A SIXTH PART OF THE WORLD

(1926) DI PETER CARRUTH

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Quaderni della Ginestra

30

emblematic of Vertov’s strivings to establish a new language of the

screen. A Sixth Part of the World (1926), however, is in some respect even

more interesting to consider. Not only does it illustrate very well the

relationship between form and material in Vertov’s art as well as its

radical move away from theatre. The performative quality of the film

also makes us become aware of those elements of Vertov’s aesthetic

experiment that in the end put it at risk of failure.

A Sixth Part of the World was edited based on newsreel material shot

during ten expeditions in different parts of the USSR. The overall

material comprised 26,000 meters of film. The result is astounding: The

viewer witnesses “a six-reel camera race,” as Yuri Tsivian called it, while

the intertitles help to organize newsreel material into a film by giving it

rhythm and semantic unity. The film’s central theme is the

industrialization of the Soviet Union. Its basic line is simple: The film

shows the riches and the vast geographical space of the USSR, it shows

how goods are being produced as well as the process of their delivery

and exchange for the machines urgently needed in the process of

industrialization.

In A Sixth Part of the World nature and culture, the geographical and

the social spaces merge into the socialist project bigger than individual

life. The film shows landscapes – harsh conditions of life in the North,

the beauty of the South, the Caucasus Mountains, the Siberian taiga,

and the Arctic Ocean; it shows animals – horses, reindeers, and pigs,

and it is full of ethnographic details exposing the everyday life of the

people of different religions, customs, and languages. Without being

aware of being filmed, people act “as they are,” the film shows how

everyone of them – no matter whether orthodox, moslem or pagan, a

Samoyed eating raw reindeer meat, a shaman or a veiled women –

everyone without exception becomes integrated into the state trading

apparatus and, by virtue of that, into the new society. The film seeks to

prompt the audience to the conclusion that even “the most backward

peoples are involved in the construction of Socialism,” as it is indeed

stated in one of the intertitles.

Towards the end of A Sixth Part of the World a series of powerful

shots of the icebreaker “LENIN” is shown to epitomize the

revolutionary process. Within the composition of the filmic images the

icebreaker serves as a link between the present and the future, thus

becoming a symbol of social transformation. Not only does it move the

export goods to the West, it also paves the way for the country’s cultural

progress, for its emancipation from prejudices, superstition, and

illiteracy. Therefore after the icebreaker scene nothing remains as it was –

women “cast away” their veils and become members in the Komsomol,

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Cinema e filosofia

31

we see Samoyeds, Buriats, and Mongols reading newspapers, Mongolian

children becoming Pioneers, images of reading halls and of the masses

listening to the radio-lecture appear on the screen. The chimney smoke

– an image that is repeatedly used throughout Vertov’s films – promises

a better future not only for the workers but also for the peasants which

“someplace still plough the earth with a stick” and now will be able to

use machines.

What gives shape to A Sixth Part of the World, however, is that it is

based on a sharp antagonism between the world of the Capital and the

reality of socialist construction. The core idea is to show how the old

world is doomed to be superseded by the new reality of socialism. This

new reality is shown as a collective body, vibrant and alive. By contrast,

the world of Capital is presented in a gaudy way by sketchy references

to alienated workers in enormous factories in the West and to the

colonies’ enslavement, by images of African Americans’ dancing for

entertainment, of the foxtrots in a drawing room, of a bourgeois

couple, and by images of a fur coat and a female’s necklace. The

quintessence is summed up in one of the intertitles’ declamation that

“on the verge of its historical perishing / Capital / is having fun.”

For these images of bourgeois and NEP pleasures, on the one hand,

and blindness towards severe injustice, on the other, Vertov used

footage material that was filmed by someone else, as if he took the

decision not to mingle his revolutionary “life off-guard”-style with

bourgeois realities. By this opening sequence, Vertov sought to unmask

the alienating, self-deceiving, and blindly calculating logic of capital but

also to arouse in the viewers the sentiment of condemnation at the

sight of it. This impression is, once again, reinforced by the intertitles:

“In the land of Capital / I see / the golden chain of Capital / the

foxtrot / the machines / and you / and you / I see you / and you / and

you / and you / it is you I see / in the service of Capital.”

In view of all this, it appears odd, to say the least, that A Six Part of

the World was commissioned by the State Trading Organization in order

to promote export goods trade, among them most importantly, grain,

hemp, the fish of the Caspian Sea, the tabacco of Abkhazia, the skins

of the wild animals of the North which then for instance, strangely

enough, go to the Leipzig Trade Fair to be displayed and sold. As Walter

Benjamin described it in his essay “On the Present Situation of Russian

Film” (March 11, 1927), the double message of the film was to show to

the foreigners that “we are not dependent on foreign countries and

natures – Russia is, after all, a sixth of the world! Everything in the

world is here on our own soil.” As captured very clearly in the

intertitles, the purpose of the film was to empower the people, all

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Quaderni della Ginestra

32

people, to make everyone realize that “you Tatars / you Buriats /

Uzbeks / Kalmyks / Khakkass / mountaineers of the Caucasus / you,

Komi people / [...] and you, of a distant village / [...] / All of you are

the masters of the Soviet land / hold in your hands a sixth part of the

world.” The ideological purpose, in other words, was to fuse the

audience home and abroad with the enthusiasm for the reality of the

socialist revolution.

The film was controversially received, acclaimed by a number of

critics as “an authentic cinema symphony,” even compared to the poetry

of Walt Whitman (indeed a source of inspiration for Vertov) but also

severely criticized as “naive” and as a “failure” by others. Walter

Benjamin’s entry into his Moscow diary on January 5, 1927 also clearly

betrays some disappointment: “I went to see One-Sixth of the World (at

the Arbat cinema). But there was much that escaped me.” Two months

later, in his essay on Russian Film cited above Benjamin is more explicit

about what went wrong: “It must be admitted that Vertov, the director,

has not succeeded in meeting his self-imposed challenge of showing

through characteristic images how the vast Russian nation is being

transformed by the new social order. The filmic colonization of Russia

has misfired.” Despite the rich material, the director loses its aesthetic

object of the on-going revolution. – Why did that happen? What are the

reasons for that?

III.

The failure of the film is connected with Vertov’s own theoretical

assumptions on which it is based, in particular his strategic decision to

abandon the distinction between the “viewers and the spectacle.” For

Vertov, as he himself explains in the interview mentioned above, “ [t]he

very concept of this film and its whole construction are now resolving

in practice the most difficult theoretical question of the eradication of

the boundary between viewers and spectacle.” He develops this point

further by stating that “A Sixth Part of the World cannot have critical

opponents or critical supporters within the borders of the USSR, since

both the opponents and the supporters are also participants in the

film.”

This “theoretical question” how to fuse observers with the

participants is in itself unproblematic. We could even say that it is

clearly connected with the promise of democratization – the promise

that everyone can become part of art either by watching it or by being

filmed. This is one of the main emancipatory consequences resulting

from the kinoki project of replacing feature films by the newsreel.

Walter Benjamin, as the following passage from his essay The Work of

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Cinema e filosofia

33

nnnnnnnn

nnnnnnnn

nnnnnnnn

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nnnnnnnn

nnnnnnnn

Art in the Age of Mechanical Reproduction (1936) demonstrates, has

recognized very clearly why this shift was so significant: “[T]he newsreel

offers everyone the opportunity to rise from passer-by to movie extra.

In this way any man might even find himself part of a work of art, as

witness Vertov’s Three Songs About Lenin,” and then he adds

affirmatively: “Any person today can lay claim to being filmed.”

This notion of promoting the process of democratization by relying

solely on the permanence of the aesthetic revolution brings us very

close to Jacques Rancière’s understanding of what “artistic modernity”

actually means. In his recent study, Aisthesis (2013) Rancière claims that

art emerges as a recent phenomenon “when this hierarchy of forms of

life begins to vacillate,” it begins “by giving itself a new subject, the

people, and a new place, history.” In order to document this process,

Rancière writes a “counter-history of ‘artistic modernity’.” Spread out

in a series of Scenes from the Aesthetic Regime of Art this “counter-history”

demonstrates “how art, far from foundering upon these intrusions of

the prose of the world, ceaselessly redefined itself – exchanging, for

example, the idealities of plot, form and painting for those of

movement, light and the gaze [...].” Bearing this in mind, it is far from

being surprising that one of Rancière’s scenes is devoted precisely to

Vertov’s A Sixth part of the world. For Rancière Vertov’s films were able NUOVI SILENZI (PART.)

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Quaderni della Ginestra

34

to show “the dynamism of collective forms that cuts across any

particular activity.”

This dynamism is indeed the source for enthusiasm that A Sixth part of

the world conveys. Yet, at the same time, there is a sense that something

went dramatically wrong. Cinema that negates the logic of theatre

seems to lose sight of an important element of aesthetic experience in

theatre, – an experience that is grounded on the aesthetic distance

between the audience and what is being performed on stage. By keeping

all theatrical elements away from film, Vertov seems to destroy the

aesthetic distance altogether. By erasing the distance between the

observer and the aesthetic object, however, Vertov also relinquishes the

critical potential that is crucial to any process of political and social

transformation.

Vertov goes as far as claiming that “this film has, strictly speaking, no

‘viewers’ within the borders of the USSR, since all the working people

of the USSR (130-140 million of them) are not viewers but participants

in this film.” The vision he has is that the viewers turned into

participants will all be bound by the force of the “emotional action”

from which the bourgeois world necessarily remains “isolated” and

therefore becomes “the enemy of the Soviet State.” The outcome is,

however, that what is called “emotional action” becomes

indistinguishable from a major self-deception: What the viewer is

confronted with is an investment of human labour and life – his own

labour and life – into a huge industrialization process devoid of any

meaning and blind towards its own future. Thus, to implicitly quote

Rancière, the “strategic will” of building a new social order literally

“loses its world.”

And yet, despite all this, the decisive question remains, the question

how to transform the “material” of this world, the raw data of facts, so

to speak, into political statements that are able to generate true

generalities. In other words, how is the cinematic language of facts to be

thought of that is capable of making visible the community of people and

things? Surprisingly, this idea can be best expressed when turning to

Kant. In a way, the Kantian “I think” – as a condition of possibility for

any act of cognition – has been replaced in Vertov’s art by the “I see.”

The purpose of the gigantic “I see” that is visualized by the intertitles is

“to fuse the film with its viewers” in order to make a new community

of men free and equal visible – a community that takes shape in the

sensible life. It seems that the problem residing here is distinctly

Kantian as it leads us to the question how ideas translate into reality.

In the 1980s Jean-François Lyotard in his lecture entitled

“Enthusiasm: The Kantian Critique of History” (1986) addressed this

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Cinema e filosofia

35

problem by suggesting to focus on the “passages” between the realm of

ideas and the realm of experience in Kant’s philosophy, “passages that

to be sure are not bridges.” Kant’s concept of enthusiasm proved to be

vital for this analysis. Lyotard links this concept with the idea of the

sublime. Human sensitivity towards the sublime indicates that the

recipient of this specific type of affect is able to realize – against the

overwhelming but shapeless power of nature – that there is nothing

standing against moral destiny and human freedom. In its most radical

form, the capacity to set out purposes in the world, to determine

oneself freely and ultimately the capacity to culture (as the trace of

freedom in the world) is experienced as a felt paradox: Something that is

“formless” (for instance, a force of nature) makes us aware of

something lying outside of the experience, this “outside” is for Kant the

idea of the cosmopolitan society, the “weltbürgerliche Gesellschaft,”

that can neither be represented nor put into practice as such by entering

in the realm of experience but nevertheless reveals itself in the

culturally transformed nature of our affect. – For our thinking,

emancipatory events are always “cases,” as Lyotard following Kant

himself suggests calling them. As they fall out of the realm of necessity,

they possess an atemporal and coincidental character. They are “signs”

that make us sense the absolute goodness of the moral idea despite the

formless event in practice. Therefore Lyotard speaks of a “complex

hypotyposis” in which two incommensurable sentiments coexist. In

fact, enthusiasm is a strong indication of such passage between nature

and freedom.

The complex structure where incommensurable ideas are brought in

relation with each other in an unexpected way is, in fact, one of the

distinguishing features of the technique of dialectical montage Vertov

deploys. However, coming back to the notion of enthusiasm, the

difference between the Kantian concept of this significant emotion and

the strategy Vertov chose for A Sixth Part of the World is absolutely

striking: Kant speaks of enthusiasm when he describes the experiences

of a non-participating public watching the events of the French

Revolution as they unfold. The passive observers are nonetheless active

as they experience a complex emotion: As Lyotard sums up Kant’s view,

the emotional state of the spectator on the occasion of this event

oscillates between the “pathological” aspect of the feelings that the

revolution evokes (an aspect that is connected with the prospect of

utility of the coming new order), on the one hand, and the

fundamentally different aspect of this feeling – the tension that results

from the moral idea of the “absolute good,” on the other hand. By

contrast, to rely solely on the actors of the revolution who the audience

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Quaderni della Ginestra

36

is supposed to completely identify with – as it happens in Vertov’s film

– means to betray the revolutionary potential of realization of political

freedom.

It is by this operation of identifying spectators with participants that

Vertov’s film loses its political quality and becomes indistinguishable

from mere agitation. To put this problem in Kantian terms, what occurs

here is the collapse of the distinction between “moral politician” and

“political moralist.” When the status of observers is lost, then

observation becomes part of the aesthetic production in such a way that

the latter does not aim at truth but claims itself to be true, to be the

reality of the revolution. By watching the films the spectators merge

with a utopian social practice.

At a closer look, however, it appears that this consequence clearly

betrays the very principle of Vertov’s “Kino-eye.” The gaze of the

“Kino-eye” becomes reflective only as it forces us to distance ourselves

from the everyday by virtue of images that open up the possibility for

new modes of perception. If there are moments of political “truth” in

art then they lie in opening up this potential to overcome any fixed or

pre-shaped structures of thought, in inviting the viewers to see

differently. This is what the technique of dialectical montage initially

stands for. Once the distance between production and reception

collapses, we find ourselves in the agitating propaganda that is only

capable to generate pseudo-generalities of images saturated with

emotions and meaning, – images that foreclose possibilities of human

emancipation. From the avant-garde project we seem to have been

relocated into a new trajectory – a trajectory that leads to a blind future

of socialist realism.

TATJANA SHEPLYAKOVA

Page 38: Xiii

Cinema e filosofia

37

REFERENCES

“A Sixth Part of the World – List of Intertitles,” in Lines of Resistance: Dziga Vertov and the Twenties, ed. with an introduction by Yuri Tsivian, Pordenone: Le

Giornate del cinema Muto, 2004, pp. 187-193.

Walter Benjamin, Moscow Diary, ed. Gary Smith, trans. Richard Sieburth,

Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1986.

Walter Benjamin, “’On the Present Situation of Russian Film’ (‘Zur Lage

der Russischen Filmkunst,’ Literarische Welt, vol. 3, no. 10, March 11, 1927, p. 6),” in Lines of Resistance, pp. 210-214.

Walter Benjamin, “The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction,” in Illuminations, ed. with an introduction by Hannah Arendt,

trans. Harry Zohn, New York: Schocken Books, 1969.

Immanuel Kant, The Conflict of the Faculties / Der Streit der Fakultäten [1798],

trans. and introduction by Mary J. Gregor, New York: Abaris Books, 1979.

Jean-François Lyotard, Enthusiasm: The Kantian Critique of History [1986],

trans. George Van Den Abbeele, Stanford, CA: Stanford University Press, 2009.

Jacques Rancière, Aisthesis: Scenes From the Aesthetic Regime of Art , trans.

Zakir Paul, London: Verso, 2013.

Yuri Tsivian, “Introduction,” in Lines of Resistance, pp. 1-28.

Dziga Vertov, “A Sixth Part of the World (A Conversation with Dziga Vertov),” in Lines of Resistance, p. 182.

Dziga Vertov, “The Council of Three, April 10, 1923,” in Kino-Eye: The Writings of

Dziga Vertov, ed. with an introduction by Annette Michelson, trans. Kevin O’Brien, Berkeley: University of California Press, 1984, pp. 14-21.

FILMOGRAPHY DETAILS: A SIXTH PART OF THE WORLD

A Sixth Part of the World. A Kino-Eye Race around the USSR: Export and Import by the State Trading Organization of the USSR (Shestaia chast’ mira. Probeg Kino-

Glaza po SSSR: Eksport i Import Gostorga SSSR)

A film poem. 6 reels. 1718 metres.

Produced by Goskino (Kultkino), Moscow, and Sovkino, Moscow, 1926. Released 31 December 1926.

Author-Leader: Dziga Vertov

Assistant Director: Elizaveta Svilova. Assistant to the Author-Leader and Chief Cameraman: Mikhail Kaufman.

Cameramen: Ivan Beliakov, Samuil Bendersky, Petr Zotov, Nikolai

Konstantinov, Aleksandr Lemberg, Nikolaii Strukov, Iakov Tolchan. Film Reconnaissance: Abram Kagarlitsky, Ilya Kopalin, Boris Kudinov.

[Taken from: “Vertov’s Silent Films: An Annotated Filmography,” in Lines of

Resistance, p. 408]

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Quaderni della Ginestra

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“Live in each season as it passes; breathe the air, drink the drink, taste the

fruit, and resign yourself to the influence of the earth.”

Henry David Thoreau, Walden

pstream Color. Il Ladro (the Thief) assale Kris di notte, all’uscita

di un Club. Le fa ingerire una droga che contiene un

esemplare vivo di nematoda, un verme cilindrico infestante estratto

dalle sue speciali orchidee blu. Il Ladro sfrutta la suggestione ipnotica

prodotta dalla droga per esercitare una forma di controllo mentale

sull’esistenza di Kris. La deruba e vive da lei per qualche giorno,

distraendola con elaborati espedienti. Privata di ogni cibo solido, Kris

ricopia su foglietti di carta, poi piegati e incollati in modo che formino

una ghirlanda ad anelli, le pagine del Walden di Henry David Thoreau.

Risvegliandosi nel proprio letto, ormai sola, Kris osserva una serie di

corpi estranei che si muovono sotto la superficie della sua pelle. Dopo

aver cercato vanamente di rimuoverli, autoinfliggendosi ferite con un

coltello da cucina, è irresistibilmente ricondotta verso una fattoria fuori

città. Qui, il Campionatore (the Sampler), dopo aver richiamato i

nematodi che vivono dentro Kris usando degli infrasuoni, rimuove i

vermi dal suo corpo convogliandoli in quello di un maiale. Tornata a

casa, Kris scopre di aver perso il lavoro. Il suo conto è stato prosciugato.

Non ricorda nulla. Un anno dopo incontra Jeff, un ex broker colpevole

di aver truffato alcuni clienti nel corso di una presunta psicosi.

Sentendosi misteriosamente attratti e scoprendo di condividere

memorie e frammenti percettivi/uditivi, Kris e Jeff iniziano a

frequentarsi. Tra di loro nasce una specie di amore. Le loro esistenze

scorrono in paradossale sintonia con quelle dei maiali allevati dal

Campionatore. Quando Jeff sente Kris mormorare alcune frasi del

Walden, i pezzi cominciano a ricomporsi.

Regista, sceneggiatore, operatore, produttore, montatore, e

compositore delle musiche dei suoi lavori, Shane Carruth è una delle

voci più interessanti del panorama nordamericano indipendente che si

dedica alla sci-fi. È arrivato al cinema dopo un major in matematica e un

passato da programmatore per simulatori di volo. I critici scrivono che i

suoi film, e soprattutto le storie che raccontano, non assomigliano a

quelli di nessun altro. Di film, Carruth ne ha girati soltanto due, per di

più usciti a quasi dieci anni di distanza l’uno dall’altro. Eppure il fattore

temporale non ha giocato a suo sfavore. Carruth tratta temi filosofici

con uno sguardo scientifico e temi scientifici con uno sguardo

U

UPSTREAM COLOR DI PETER CARRUTH

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Cinema e filosofia

39

filosofico. Non cerca di farsi capire, preferisce complicare le cose. Il

primo film, Primer – comparso nel 2004, costato appena 7000 dollari, e

subito diventato un fenomeno di culto (più o meno) sotterraneo –

sviluppava alcuni paradossi della causazione attraverso il tema dei viaggi

nel tempo. Due giovani ingegneri – tra cui lo stesso Carruth, che

interpretava lo spavaldo Aaron – costruivano per caso una macchina

che consentiva di viaggiare nel tempo. All’inizio pensavano di arricchirsi

giocando in borsa, ma la faccenda finiva per sfuggire loro di mano

molto prima del previsto. Un meccanismo a orologeria che richiedeva

un adeguato tasso di concentrazione. Upstream Color – [la cui visione era]

“obviously, the thing to do this weekend” , per il critico del New Yorker

che ne scriveva a inizio aprile 2013 – è per certi versi più accessibile. Il

suo legame con teorie filosofico/scientifiche è più sfumato, più

suggerito ed evocato che chiamato direttamente in causa. Al tempo

stesso, il fatto che le immagini siano legate da un filo più emozionale

che logico, dove la sceneggiatura perde di consistenza e i personaggi si

muovono come in un sogno, ne rende più ineffabile il mistero. Se, con

Primer, la difficoltà era soprattutto appannaggio dello spettatore,

costretto a districarsi fra teorie fisiche e paradossi temporali, qui il

problema non è (solo) tecnico o teorico. Il mistero, qui, si cela nella vita

stessa, nella possibilità di coglierne la globalità e non solo i frammenti.

Salvo qualche svista, i personaggi del primo film stavano dietro gli

ingranaggi. Nel secondo, sono abbassati al livello degli spettatori,

altrettanto smarriti e persi. Il pragmatico ingegnere di Primer si trasforma

nel paranoico broker – il personaggio di Carruth in Upstream Color –, che

si rannicchia spaventato nella vasca da bagno.

Upstream Color è un film sull’identità diffusa, ove il principio

d’individuazione che marca ogni vivente si scioglie nell’equilibrio –

spontaneo o indotto – dei cicli chimico-biologici che legano fra di loro

gli esseri naturali. La figura del ciclo/cerchio, da rompere o da

ricomporre, ritorna di continuo in chiave simbolica (gli anelli di frasi

ricopiate dal Walden; lo strumento rotante, una specie di tornio, del

Campionatore). Ma non si tratta (solo) di facili metafore. Goethe

parlava di una pianta originaria (Urplanz), la forma elementare che,

attraverso giochi metamorfici, dà origine a strutture più complesse, per

poi tornare nella costituzione fisica degli esseri umani. Carruth ritrova

nel cerchio la forma base sulla quale costruire una narrazione ellittica,

metamorfica, solo apparentemente destrutturata, attenta a cogliere gli

stati emotivi dei suoi personaggi più che a ricostruirne le fila. Immagini

opache ed evanescenti, accostate per analogia interna, e percorse da

sonorità elettroniche e naturali (i rumori del vento e della pioggia), si

incardinano in una costruzione elaborata, ricorsiva, ove lo spettatore,

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Quaderni della Ginestra

40

insieme ai personaggi, procede a tentoni, guidato a malapena o, spesso

sviato, da mezze frasi appena percettibili. Gli scenari urbani e rurali in

cui i personaggi si muovono perdono la loro sconvolta consistenza e

definitezza, mentre le levigate superfici geometriche dell’ufficio di Jeff

aumentano il senso di estraneità e distacco. Le vite dei quattro

personaggi principali – tutti in qualche modo atomizzati e misteriosi – si

incrociano come spinte dal caso e dal fato o, più semplicemente, da un

meccanismo naturale di attrazione e repulsione privo di volontà

cosciente.

L’identità è definita, al tempo stesso, come perimetro

necessario/gabbia salvifica dell’io, e come limite/barriera che rompe

l’interconnessione con l’altro. Svuotate da un meccanismo di controllo

mentale prodotto dal Ladro, le identità di Kris e di Jeff riappaiono come

macchie di colore, frammenti di storie in cerca d’autore, rumori che

emergono da uno sfondo indefinito. Se l’identità diventa quindi un

concetto sfuggente e opaco, il rapporto mente-corpo si rompe quasi

subito. Il corpo di Kris, vittima della manipolazione mentale del Ladro,

si riduce a un burattino privo di anima e di memoria – se non quella

puramente fisica, inscritta nelle ferite che si autoinfliggerà per liberarsi

dai corpi estranei. Tornata apparentemente in se stessa, la donna è

vittima di un inaspettato scollamento, che la porta a cercare il suo antico

LOVE IS NEEDING TO BE LOVED, (PART.)

io fuori da se stessa, ritrovandolo paradossalmente nell’altro.

Come lo sguardo del costantemente evocato Thoreau, quello di

Carruth coglie il trascendentale in ogni essere vivente. Eppure, in

Upstream Color, il trascendentale e il mistico non hanno nulla di

sovrannaturale, ma si incarnano e si fanno tangibili nella realtà materica

di piante, uomini e nematodi. C’è un po’ di Terrence Malick certo, ma

senza la sua estatica meraviglia o il suo afflato mistico. Il trascendentale

non si colloca, infatti, al di là dei viventi, ma nelle relazioni di

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Cinema e filosofia

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dipendenza, affinità e persino violenta opposizione che legano gli esseri

fra di loro. Apparentemente il messaggio che chiude il cerchio è una

promessa/invito di ritorno alla natura, con gli orchid harvester che

lavorano quieti nei campi e Kris che tiene in braccio un cucciolo di

maiale. Thoreau e l’utopia naturalistica, certo. Ma Carruth non ci lascia

con un messaggio lineare e immediatamente decifrabile. Non si tratta di

un enigma da risolvere, come in Primer, ma di un mistero che deve

restare al fondo irrisolto. Upstream Color non offre un messaggio morale

normalizzante, ma sviluppa una storia metafisica. Kris uccide il

Campionatore che l’aveva aiutata a liberarsi dei vermi, e non il Ladro

che l’aveva stordita e derubata. Uno sparo che segue una scena onirica.

Il cerchio si rompe, ma non si capisce bene che cosa accada e perché sta

accadendo.

SOFIA BONICALZI

SCHEDA FILM

Titolo originale Upstream Color

Nazione U.S.A.

Anno 2013

Durata 96’

Regia Shane Carruth

Cast Shane Carruth, Amy Seimetz, Andrew Sensenig, Thiago

Martins

Produzione ERBP

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Letteratura e filosofia

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’ antica Battriana1, (oggi Afghanistan) prende nome dalla città di

Bactra, oggi Balk, a 30 Km da Mazar- e-Sharif. A poca distanza, sul

sito di Tepe-i-Zirgaran, “la collina del metallo”, si trovano i resti della

fondazione di Alessandro Magno. Non lontano da qui a TaKht-i-

Rustam, il trono di Rustam, presso Samangan, sorgono le rovine di un

monastero buddhista con evidenti influssi indiani e uno stupa

monolitico di roccia calcarea non ultimato, e forse interrotto, per la

calata degli Unni Eftaliti nel 425 d.C. Lo stupa ricorda il sangharama,

(tempio) di Darunta nei pressi di Jalalabad. In tutto il paese, i siti

buddhisti sono diversi e molti interessanti materiali rinvenuti sono

conservati al Museo Guimet di Parigi e al Museo Nazionale di Kabul,

altri ogni giorno sono avviati al mercato clandestino. Tuttavia, il sito più

suggestivo e denso di testimonianze è la valle della città di Bamyan,

detta la valle degli Dei, situata in una conca a 2500 m., in una zona

fertile e alberata, protetta dalle alte vette circostanti dell’HinduKush. La

sua storia iniziò con il popolo nomade dei Kushana che raggiunse

l’apogeo con l’imperatore Kaniska nel I secolo d.C. Fu centro di

diffusione del pensiero buddhista e capitale di un regno feudale

indipendente, esteso dal Tagikistan alla Valle del Gange, fino alla

conquista islamica del 970 d. C. L’imponente complesso monumentale,

architettonico, artistico si sviluppò all’interno e all’esterno di una

falesia, lunga oltre due chilometri. Alle sue estremità furono scolpite

entro nicchie due colossali statue di Buddha rispettivamente di 35 e 53

m. d’altezza. L’arte prodotta nella regione e di soggetto buddhistico è

espressione dell’iniziale fusione culturale, filosofica, artistica operata da

Alessandro Magno tra Occidente e Oriente che trova espressione finale

nella cosiddetta arte del Gandhara dal nome di un sito presso Peshavar,

in Pakistan, dove si manifestò per la prima volta e, nel corso di un

processo d’espansione verso Occidente, raggiunse il Nord

dell’Afghanistan. Tale arte rappresenta la commistione di elementi della

cultura indiana, del pantheon greco, del buddhismo, del paganesimo

nomade delle steppe dell’Asia centrale. Essa si realizza in una

produzione di rilievi in pietra e in materiale plastico (argilla e stucco).

Quest’arte non è nata per generazione spontanea; è l’effetto di un

incontro tra gli ideali artistici e filosofici del mondo ellenistico, come

sopravviveva nelle province orientali dell’impero romano, e della

spiritualità buddhista. In queste contrade arrivava l’onda della religiosità

indiana e il Buddhismo si modificava, cercava di rendersi accessibile alle

diverse genti, si adattava a certe loro esigenze spirituali, al loro modo di

esprimersi, accoglieva con tolleranza le idee, le favole, le liturgie che non

L

LA VALLE DI BAMYAN

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Quaderni della Ginestra

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fossero del tutto inconciliabili con i suoi principi fondamentali. Nacque

così una nuova teologia e una nuova arte e una nuova filosofia nella

quale disparati indirizzi s’incontravano o confluivano l’uno nell’altro;

l’ellenismo classico, allusivo e narrativo, il partico, rigido e frontale,

l’indiano, morbido e sensuale. Kaniska fece coniare monete con figura

di Buddha stante e la legenda Boddo in caratteri greci. In questa fase il

Buddhismo non avrebbe potuto seguitare a parlare il linguaggio

monacale e ascetico delle scuole antiche se non a rischio d’isterilirsi. Si

trovava di fronte stirpi di diversa cultura, da un lato, i Greci abituati a

rendere in forme umane le proprie intuizioni religiose, dall’altro, gli

Iranici che insistevano sulla dicotomia tra bene e male, tra luce e

tenebra, opposizioni inevitabili fino a che dura il campo di battaglia che

è il mondo. Gli Iranici introducevano il mistero della luce come

identificazione di vita e coscienza, e ciò poteva innestarsi sul fotismo,

non estraneo alle antiche speculazioni indiane buddhiste, e suggeriva a

queste ultime simboli nuovi e più manifesti. I Kushana sanciscono, per

innata tolleranza e per paura di fronte alle irrequiete forze divine, la

maggior libertà di culto senza rinunciare all’esaltazione dei propri capi,

in un’implicita identificazione di questi con gli dei da cui si

consideravano protetti o discesi: la Luna, il Sole, Mitra, le divinità celesti.

Le loro interpretazioni sottili riscuotevano il favore crescente delle folle.

Gli strati più umili della popolazione pur accettando la nuova religione e

pur prestando ascolto alle parole dei suoi monaci, non potevano

dimenticare i culti antichi, retaggio di terrori, di stupori primordiali, di

culture in origine contrastanti e ora conviventi poiché erano cacciatori,

pastori, contadini. Avevano sempre vissuto intorno a loro: gli dei

potenti della montagna, le forze fecondanti convergenti verso Sciva e le

terribili dee volanti per l’aria, capaci di assumere forme animali e la

Grande Madre, che distribuisce con indifferente alternanza la vita e la

morte. Queste idee convivono, s’incontrano, si assorbono l’una nell’altra

e ne nasce un arricchimento di esperienze filosofiche e di pensiero

religioso, un rigoglio di riti e di miti che d’un tratto investe il Buddhismo

e lo costringe a reagire, non sempre opponendosi, ma più spesso

accettando e trasfigurando quel vastissimo mondo religioso. Per gli

stoici il logos era sostanza unica, supremo principio attivo regolatore

dell’Universo. Era identificato nell’elemento naturale del fuoco come

soffio igneo, anima di esseri e cose, collante e solvente dell’Universo.

Tale principio è riconducibile al sanscrito, rta, la verità, la preghiera, la

potenza cosmica, la luce ed equivale al termine iranico arta, da cui deriva

Asa, la divinità del fuoco della monetazione Kushana, connessa con la

potenza, la verità, la formula sacra. Attraverso una vasta speculazione

che collega Grecia, Iran, India l’equivalenza logos-anthropos si traduce nel

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Letteratura e filosofia

45

GLI SPECCHI NON SONO GLI OCCHI DEGLI ALTRI

volto apollineo di Buddha che consente l’avvicinamento dell’immagine

umana al principio universale creatore–ordinatore nell’aspetto di verità.

Il fedele deve sapere identificare la mudra2, il sigillo che esprime in un

codice cinesico lo stato d’animo e la concentrazione meditativa

dell’immagine. Attraverso una particolare mudra Buddha valuta in quella

determinata concezione psichica la realtà apparente che lo circonda. Se

chi fruisce dell’immagine può riconoscere nella propria psiche la

categoria di stato del Buddha può rivivere in sé l’intero cammino verso

l’Illuminazione appoggiandosi su altre immagini che la descrivono.

Due colossali statue di Buddha, simboli del complesso e importanti

testimonianze del passato buddhista, datate rispettivamente al 507 e al

554 d.C, nel marzo 2001 sono state abbattute dai Talebani con gli

esplosivi perché considerati idoli preislamici. La tendenza al gigantismo

statuario ha una radice filosofica che rimanda ai racconti mitici della

richiesta della misurazione del Buddha che risulta immisurabile e alla

concezione cosmologica per cui Buddha è l’asse dell’Universo e

l’incommensurabile. Il Buddha di 53 m. Cosmocrator, signore del mondo

che tutto abbraccia, era contenuto in una grande nicchia con un soffitto

a volta decorato, sulle pareti laterali, con pitture rappresentanti molte

fasce di Buddha seduti (i 1000 Buddha di tutti i mondi e di tutti i tempi).

Al disopra sono ancora visibili divinità volanti che li cospargono di

fiori e di gioielli. Sulla volta si trovano numerosi Bodhisattva, (saggi

illuminati compassionevoli che rinunciano al loro livello per assistere gli

uomini e guidarli all’illuminazione), tra questi si trova una donna nuda

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Quaderni della Ginestra

46

(per influenza indiana), forse una Shakti3. Secondo le fonti era difficile

ricostruire il mudra, l’atteggiamento di questo Buddha. Le immagini

sono supporti di meditazione e punti focali di potere soprannaturale.

L’iconogramma del Buddha è costruito da un’artista filosofo partecipe

della Grecia e dell’India. A Bamyan Buddha appare spesso nelle vesti del

filosofo docente assimilato al logos (altrove appare come Apollo o come

Eracle) e i testi buddistici considerano il Buddha consustanziale con il

Dharma, la legge ossia il logos. È interessante filosoficamente notare che

il simbolismo grecizzante, intellegibile ai greci-battriani, restituisce alla

figura umana un valore prossimo a quello espresso dai simboli. Buddha

ha spesso un valore apollineo di ordine e compostezza che riflette il

concetto astratto di armonia. I gesti della mano (mudra) esprimono, con

un linguaggio simbolico che ricorda la mimica dei danzatori, lo stato

psichico da cui il divino è pervaso. Il Buddha è rappresentato

soprattutto nelle vicende dell’ultima vita o nel suo apostolato dopo

l’Illuminazione, con compiaciuta fantasia per l’edificazione dei fedeli.

Sebbene il Buddhismo non sia mai stato appesantito dal dogma, anzi lasci

che ciascuno riviva nel proprio spirito, con piena libertà, le parole del

Maestro, la sua raffigurazione, una volta conformatasi, si tramanda

inalterabile nei secoli e nei luoghi. La dottrina diventa un dialogo tra la

predicazione remota e le nuove situazioni storiche e spirituali, si carica

di nuove esperienze, le parole assumono un altro significato o

contenuto, secondo la volubilità di tutto ciò che vive. La forma conclude

nella fissità di un simbolo immutabile la perduta immagine. Tuttavia,

intorno a quell’immagine immobile, si agitano secoli di vita: principi e

mercanti, signori ed ancelle che entrano nel racconto figurato. Ognuno

trasportandosi nel passato irripetibile s’immaginava spettatore partecipe

del miracolo antico e così il presente, per la spinta della devozione,

rifluiva verso il principio e conferiva all’arte valore terrestre ed umano, e

la leggenda si trasfigurava in un’autenticità d’esperienza. L’immagine del

Buddha e gli episodi del racconto pseudo storico-mitizzato stanno per

le immagini mentali suscitate dai testi. Il contemplante nel leggere

l’immagine, vede la distesa iconica del racconto. Il creatore di immagini

compie un atto di devozione perché vive il sacro e adora il sacro. Il

congiungimento ideale dell’antico e del presente nel fervore della

preghiera e della devozione, nella recitazione delle litanie, si esaltava in

un atemporale anelito di beatitudine. Come ricorda il pellegrino cinese

Xuan Tsang, che visitò il paese nel VII d.C., Bamyan, notevole centro di

traffici commerciali e di vita religiosa, fu importante centro di

penetrazione buddhista dal Gandhara pakistano.4 Rappresentò il punto

d’arresto della diffusione del Manicheismo e del Cristianesimo

Nestoriano provenienti dall’Iran. Infatti, la città afghana situata sulla via

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Letteratura e filosofia

47

della Seta, a 200 Km da Kabul e molto a Nord Ovest, si trova

all’incrocio di due importanti vie di passaggio. La filosofia buddhista

prosperò grazie alle ricche donazioni di notabili locali che finanziarono

l’edificazione del grande complesso monumentale e convisse con la

fioritura in secondo piano della dottrina di Zarathustra. Nelle pareti di

roccia i soffitti a cupola dominati dal Buddha sono mandala dai colori

vivaci. È viva nelle raffigurazioni l’espressione della cultura mahayana5

per cui Buddha Cosmocrator è personificazione dell’Universo di cui tutti

gli innumerevoli Buddha di tutti i tempi sono manifestazione. Diverse

cappelle presentano il soffitto a lanterne, espressione materiale del

concetto filosofico della volta celeste: quadrati concentrici via via più

piccoli procedendo verso l’alto con gli angoli allineati con le diagonali,

sostituiscono la cupola. Lo schema architettonico riflette un simbolismo

cosmologico complicato: un’immagine dell’universo come i buddhisti la

concepivano, che era poi un’allusione al cammino dal molteplice all’Uno

che il fedele doveva compiere. Il sito fu abitato dal II al IX secolo d.C.

da monaci eremiti sotto le indicazioni dei quali il popolo Kushana

edificò le statue colossali. Le iconografie qui presenti

antropomorfizzano il concetto astratto del divino sotto l’influsso

filosofico greco e influiscono sulle produzioni cinesi di Yunkang (Vd.C)

e di Longmen (VII d.C). Numerose statue riproducenti i Buddha di

Bamyan hanno viaggiato come souvenir di pellegrini lungo le vie dell’Asia

orientale diffondendo la filosofia mahajana. Un Buddha di grandi

dimensioni, coricato, analogo a quello descritto nella cronaca, esiste in

Cina nel tempio di Bingling nella provincia del Gansu. Bamyan è la più

importante espressione monumentale del Buddhismo Occidentale,

centro di speculazione filosofica, meta di pellegrinaggio. É straordinario

pensare che la grande produzione d’immagini buddhiste con i caratteri

antropomorfi della regalità iranica, che influenzarono la prima pittura

tibetana, iniziò per diffondere un nuovo pensiero filosofico religioso in

una popolazione abituata ad antropomorfizzare la divinità. In un primo

tempo la rappresentazione antropomorfa di Buddha era stata

considerata inadeguata ad esprimere la realtà assoluta, ma ora a causa di

mutamenti nel pensiero religioso, quali l’introduzione della bhakti

(devozione) è elaborata un’iconografia che attraverso i segni alludeva

non solo al Buddha storico, ma ai valori assoluti legati alla predicazione

del dharma6 (dottrina spirituale). Il luogo fu da sempre culturalmente e

geograficamente aperto alle nuove idee penetranti nell’Asia centrale

dall’India, dalla Cina, dalla Parthia e da Roma. Non ci sono stati

tramandati i nomi dei filosofi, dei monaci che qui vissero. Sappiamo che

il pensiero fiorì per effetto dei Re e le popolazioni, abituate alle

coesistenze di diversi sistemi religiosi dettero il loro contributo. Dal

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Quaderni della Ginestra

48

culto di Anahita7, di Mitra, dal pantheon zoroastrico e greco sono attinti

elementi per la creazione del pensiero buddhista occidentale, gli effetti

di quest’incontro sono ancora oggetto di discussione da parte degli

studiosi. Folle laiche aderirono alla dottrina del risveglio secondo una

vocazione all’inclusività che risponde al carattere universale del pensiero.

Il monaco mendicante (bhikshu) è chiamato a una scelta di vita radicale,

a una serie di rinunce riguardanti il sistema sociale. L’opportunità di

definire un sentiero laico, uno stile esistenziale a cui uniformarsi senza

dover necessariamente rinunciare alle necessità del contingente

incontrava il favore della classe di mercanti locali.

La presenza di corsi d’acqua, la bellezza paesaggistica del luogo, la

forza e l’armonia, sprigionante dalla visione delle montagne e delle

pianure verde smeraldo, sono stati elementi che hanno influito sulla

scelta del sito come centro filosofico che infonde pace e forza interiore

nella contemplazione. In una nicchia profonda nella Valle di Kakrak a 3

km. da Bamyan rimane ancora un Buddha stante di 7, 7 m che indicava

la via al pellegrino e rappresentava la parola vincente di Buddha che,

come il grido del leone, fa tacere le altre voci della foresta. Le

iconografie seguivano probabilmente dei modelli di riferimento che

traducevano sulla pietra concetti filosofici. È spesso raffigurato negli

affreschi Buddha in Nirvana circondato da personaggi esprimenti

dolore che, con braccia levate al cielo, si feriscono con i coltelli (atti di

autolesionismo per esprimere il dolore della perdita); tra questi

Mahamaya8 e Mahakasyapa9 mai raffigurati altrove nei rilievi gandharici. Il

Mahayana elegge quale parametro di santità il bodhisattva (eroe del

risveglio) che, motivato dall’ideale altruistico del bodhicitta (pensiero del

risveglio) continua a reincarnarsi finché tutti gli uomini non sono stati

salvati. Tutta questa folla di personaggi, vasta galleria di tipi etnici, è

stata inghiottita nel vuoto, la cremazione e la dispersione delle ceneri

hanno consacrato nel rito funebre la perdita irreparabile. Nella comunità

buddhista tutto si consuma nell’aria o sotto il sole: senza ombre o

penombre sotterranee. Buddha nell’interpretazione filosofica qui

diffusa è l’estinto, l’estinzione della vera legge che risorgerà nel Paradiso

dei Tusita10 dove Maytreia11, il soccorritore celeste, il Mitra zoroastriano,

aspetta che si esalti la vera legge nel futuro. Bodhisattva Maitreya, essere

vivente destinato alla bodhi, all’illuminazione, in genere è assiso ed è la

divinità principale tra i soggetti parietali. Maitreya ha un nome personale

Ajita, l’invitto, che rimanda a Sol Invictus e porta come attributo il piccolo

vaso kalasa amrta, che contiene l’elisir della vita ossia la non morte,

l’amrta, l’ambrosia, la bevanda dell’immortalità. L’arte non è solo

narrativa, ma metafisica, Maitreya sancisce la promessa di vittoria sulla

morte e, in un fondo di pensiero, accomuna l’invincibilità e la carità

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Letteratura e filosofia

49

magica per tutti gli esseri viventi. Egli è circondato spesso da migliaia di

Buddha di dimensioni minori, seduti in dhyana mudra, in meditazione, o

stanti con aureola a più cerchi. La morte non è un muro che separa due

misteri; è un punto d’incontro di luce e di tenebra. Il Buddha è un

principio assoluto, si tende a rappresentare l’essenza della sua

Illuminazione, cioè la legge che condiziona il superamento del dolore,

della vecchiaia e della morte. Questa legge è la conoscenza, la gnosis, la

matrice del Buddha attraverso la quale è possibile pervenire a una realtà

diversa, assoluta, eterna, immutabile dalla quale non è possibile

decadere. I centri buddistici non sorsero sul vuoto, avevano occupato il

posto di più antichi insediamenti, i luoghi di cui una religione prende

possesso non sono quasi mai vergini; la sacralità si tramanda nei secoli

dai primordi.

Qui la roccia è stata scalpellata già in tempi remoti producendo

petroglifi, si tratta di un luogo sacro forse praticato per millenni di cui il

Buddhismo trionfante si è appropriato, magari scolpendo, al di sopra di

segni antichissimi, un Buddha meditante. Il Buddha perpetua l’istante

fugace in cui la bellezza dell’uomo ha qualcosa di divino, il dio dagli

occhi socchiusi abbassa le palpebre per celare il mistero e il miracolo, la

comunione con l’assoluto. Il suo corpo è il reliquiario della sua

intelligenza. Più lo contempliamo più sembra sfuggirci. Questa assenza

e questo svanire costituiscono il divino dell’Asia. Il Buddhismo ha

sempre lasciato intatti i segni di una sacralità più remota, consapevole

che nei luoghi dove genti per secoli hanno pregato, quella sacralità mai

scompare. L’importanza commerciale di Bamyan subì il declino quando

a metà del VI secolo d.C. le carovane iniziarono ad abbandonare il

percorso attraverso il Karakorum e l’Hindukush per l’altro più a ovest

verso il Tokharestan via Kapisi. La diffusione del pensiero filosofico

buddhista nell’area fu annientata definitivamente dalle incursioni

mongole del 1221 e così sulle vie verso l’India, dove il Buddhismo si

corruppe, degenerò, scomparve, il posto di un monastero o di uno

stupa (il monumento funerario che accoglie le reliquie dell’Illuminato

con valori cosmologici e cosmogonici) fu occupato dalle tombe di santi

musulmani. Era avvenuto un sincretismo nell’espressione artistica per

far accettare un nuovo concetto filosofico religioso, sulla pietra di

Bamyan sono ritratti fedeli orgogliosamente vicini al Buddha.

L’elaborazione è stata molto efficace e feconda, ma non ha resistito al

monoteismo islamico: le pietre scolpite sono diventate bunt (idoli) e il

pensiero buddhista ha lasciato per sempre quelle terre. L’espressione

simbolica del Buddha e della legge investe il Sacro nella sua espressione

più alta. Il che è molto lontano da una dialettica imperniata sul desiderio

e sulla rinuncia, sulla conquista di un’atarassia, di un’indifferenza assoluta

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Quaderni della Ginestra

50

che auspica lo spegnersi dell’esistenza in qualcosa d’indefinito e

d’indecifrabile. In questo aspetto nihilista appare alle menti occidentali

il buddhismo di maniera frutto della ricerca nel pensiero europeo del

XVIII secolo. Se il pensiero nato dall’Illuminazione si fosse imperniato

su valori di questo tipo, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di

un’evoluzione religiosa di vasto respiro. Il Buddha ha dimostrato

l’esistenza di un piano superiore e diverso, estraneo alle contingenze

della vita e dell’esistenza fenomenica, da raggiungersi tramite un

comportamento che annulli gli effetti della legge delle ricompense e

delle pene, ridimensionando, in senso negativo, i valori che dominano

questa esistenza. Naturalmente essendo il piano nirvanico

assolutamente ineffabile, il Buddha non lo descrive e non lo definisce.

Sarà la speculazione più tarda a immaginare, sulla falsariga

dell’escatologia iranica, una sopravvivenza individuale in un mondo

diverso, luminoso, invariabile, proiettato al di là della volta celeste. Ed è

per questo che il pavimento delle Terre Pure è immaginato in

lapislazzuli, vale a dire una pietra dura che, per il colore e per le

pagliuzze d’oro che la punteggiano, ricorda il cielo stellato. La

speculazione sul Buddha lo mostrerà sia come sovrano dell’Universo (e

proprio perciò la sua immagine risentirà della regalità terrena, sentita

come il più esplicito termine di paragone), sia come asse dell’Universo.

Gli artisti hanno così condensato in un’immagine antropomorfa una

complicatissima serie di valori religiosi con aderenza stretta ai testi per

sbalordire il fedele persuadendolo della sovraumanità del Maestro.

ELISA ZIMARRI

1 M.Guerini(2006) “Afghanistan. Profilo storico di una cultura” Jouvence, Roma. 2 Nel codice gestuale buddhista posizioni delle mani che esprimono lo stato d’animo dell’immagine. L’uso delle mudra è derivato dai gesti della danza. 3 Dea personificante la trasformazione perenne dell’energia cosmica. 4 D.Sechel (1963) “Il Buddhismo”, Milano, Il Saggiatore. 5 Grande veicolo, forma di Buddhismo caratterizzata dall’importanza attribuita al ruolo dei Buddha e dei Bodhisattva. 6 La legge buddhista che regola l’ordine cosmico e i doveri individuali. 7 In persiano antico “la pura” dea protettrice delle acque. 8 La madre di Buddha. 9 Uno dei dieci discepoli principali di Buddha. 10 Paradiso nel regno del desiderio, i suoi abitanti sono i raffinati e calmi Bodhisattva in attesa di rinascita. 11“Bontà amorevole” è simbolo del primato dell’illuminazione sul mondo delle apparenze.

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Letteratura e filosofia

51

Ein Bau hat schon sein Recht verwirkt

Will er hinauf bis zu den Sternen.

Ogni impresa che mira a scalare il cielo

È opera destinata a perire.

H. Ibsen, Brand

el primo scorcio del Novecento, a Bellevue, che ben presto

divenne uno dei principali sanatori d’Europa, Ludwig

Binswanger riuscì a fondare un vero e proprio centro di scambio di idee.

Husserl, Scheler, Heidegger, Buber, Freud, Jaspers, Nijinskij,

Grundgens, Warburg e molti altri ancora furono solo alcuni dei suoi più

importanti interlocutori.

In particolare, irresistibile fu il fascino che la fenomenologia esercitò

sullo psichiatra, tanto da indurlo a definire il suo metodo di ricerca

Daseinsanalyse. Una denominazione che mostra in maniera inequivocabile

l’influenza che l’analitica esistenziale heideggeriana ebbe sul suo

pensiero. La fenomenologia, da parte sua, coinvolse uno dei maggiori

fautori delle scienze dell’uomo, dimostrando di meritare, in senso più lato, il

sostantivo di “galassia” attribuitole più recentemente da Vincenzo

Costa, Elio Franzini, Paolo Spinicci1. La straordinaria contaminazione

di saperi a cui si assistette al suo interno fu testimoniata dalla figura del

medico-filosofo, testimoniata non solo da Ludwig Binswanger, ma

anche da Victor-Emil von Gebsattel, Eugéne Minkowski, Erwin Straus.

Un universo in espansione, dunque, che vide al proprio centro

innanzitutto l’interrogativo sul come, sul metodo più opportuno con il

quale approcciare la conoscenza in senso gnoseologico e, con la

psichiatria fenomenologica2, la crisi di senso.

L’attenzione fenomenologica per i rapporti di fondazione tra le parti

e l’intero, per ciò che fa dell’uomo un essere unitario, non ridotto al suo

mero corpo né alla pura idealità, avvinse la sensibilità dello psichiatra,

insoddisfatto delle rigide opposizioni tra mente e corpo presenti ancora

nella psicoanalisi freudiana. Folgorato dalla lettura di Sein und Zeit,

Binswanger si convinse della proficuità della concezione esistenzialistica

dell’uomo per la psichiatria. Le esperienze psicotiche dei suoi pazienti

non potevano essere semplicemente liquidate come buone o cattive,

sensate o insensate, normali o patologiche, ma dovevano essere

considerate modi di esistenza dotati di una coerenza interna.

Al momento dell’epoché, ovvero della messa in sospensione di

N

CRISI E DIREZIONI DI SENSO NELL’ESISTENZA. L’ANTROPOANALISI DI UN DRAMMA

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Quaderni della Ginestra

52

qualsivoglia giudizio su fenomeni spesso confinati3 nella sfera della

forsennatezza, seguì e si fece sempre più urgente la ricerca di un metodo

consono a tali modi di “stare-al-mondo”. Binswanger rilesse

criticamente l’opera di Heidegger, focalizzandosi, allora, sul carattere

antropologico più che ontologico del suo capolavoro, per elaborare, in

una della sue opere filosofiche più ambiziose (Grundformen und Erkenntnis

menschlichen Daseins, 1942), una fenomenologia delle forme interpersonali

d’esistenza. Lo scopo che perseguì fu, in altri termini, quello di

comprendere antropologicamente le strutture della psicosi, cogliendone la

generale significatività.

Ma, al di là del più noto riferimento ai temi dell’esistenzialismo e

della fenomenologia tedeschi, imprescindibile fu, in questa fase, anche il

suo rapporto con il mondo dell’arte. In Henrik Ibsen und das Problem der

Selbstrealisation in der Kunst4 (1949) vediamo infatti delineati, in maniera

chiara e originale, alcuni degli assi portanti della sua Daseinsanalyse.

Al principio del suo scritto su Ibsen, l’autore rileva che

«Le opere teatrali di Ibsen, i suoi drammi, sono di fatto solo configurazioni e riproduzioni artistiche del dramma della vita umana in

generale»5,

quasi a voler motivare la scelta monografica.

Lo psichiatra vede mostrarsi, sia nei momenti salienti della vita del

drammaturgo norvegese che nella struttura delle sue tragedie6, l’essenza

tragica dell’esistenza, il suo muoversi sul filo tensivo di molteplici direzioni

possibili e spesso opposte. In effetti, fu per avvicinarsi alla sua

realizzazione, per restituirsi a sé, che Ibsen decise di allontanarsi dalla

famiglia, dalla società, dalla patria originari. La situazione domestica e

quella politica erano così anguste per il tragediografo che spesso egli

stesso dichiarò esplicitamente ai suoi amici di non poter persistere

ancora “«nello stato di una mezza comprensione»” 7. Mezze comprensioni

furono, precisamente, ciò che egli ottenne dal mondo in cui era nato. Un

mondo che riuscì a comprendere pienamente solo nella misura in cui si

diede, distaccandosene, la possibilità di comprendere anche se stesso. In

una lettera a Georg Brandes scrisse: “«Non ho mai osservato la mia

patria e la vita vivente della patria in modo così forte, chiaro, e così da

vicino come proprio dalla lontananza e nell’assenza»”8.

La messa tra parentesi di un mondo, o meglio, di ciò che di esso si

conosce o anche di chi si è in rapporto a esso, appartiene non solo a

Ibsen, ma sembra essere, agli occhi di Binswanger, una necessità

antropologica. “Via-dagli-altri e dalla propria «disposizione»”9 scrive infatti

quest’ultimo, quasi a rimarcare il senso di una epoché psicologica resa nota

dall’artista stesso nella sue lettere giovanili.

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Letteratura e filosofia

53

D’altra parte, la sospensione di sé-in-rapporto-a-quel mondo, a un

certo modo di stare-al-mondo, non segna sempre l’inizio della ricerca di un

senso?

Per Binswanger non ci sono dubbi: il conflitto esistenziale che Ibsen

visse con il suo passato fu “potenza anticipatrice” della via che

intraprese, quella della realizzazione di sé nell’arte. La direzione che egli

seguì fu, precisamente, quella dell’altezza poetico-drammatica. Una

direzione, quella dell’altezza, che nella lettura antropoanalitica dei

drammi privati e artistici ibseniani riveste un ruolo chiave.

È proprio l’andare avanti, il salir su, che permette all’Esserci di

rendersi accessibile l’ente, di farlo uscire dal velo oscuro della mezza

comprensibilità.

L’altezza è dunque, per entrambi, per il medico-filosofo e per il

tragediografo, la sola direzione antropologica che possa portare a piena

visione l’essenza vera della vita. Non a caso, Sulle alture (1860) è il titolo

di un poema drammatico, in cui Ibsen dichiara necessaria la sua “ascesa”

artistica, usando queste parole:

“«[…] solo qui il mio spirito si è rafforzato,

sulle alture soltanto cresce la mia natura.

Ho gettato al vento l’ultima mia gioia per una superiore vista sulle cose.

Ora di tutta la mia serietà mi beffo, è tempo di vagare sulle alture.

Abdicato ha il mio piede al tran tran del bassopiano […]»10.

Oltre a ciò, la salita sulle alture del poeta non avrà il proprio scopo

nella pura contemplazione della verità conquistata-lontano-dagli uomini,

ma piuttosto nella: “«restituzione simbolica della vita»”11 al pubblico, agli

altri. Per Ibsen, infatti:

“«Nessun poeta vive qualcosa isolatamente. Ciò ch’egli vive, lo

vivono insieme a lui […] i suoi contemporanei. Se per lui così non fosse, chi mai traccerebbe allora i ponti della comprensione tra colui che

produce e colui che riceve?»”12

Diventa ora indispensabile chiarire il significato del salire sulla cima

della montagna, dell’elevarsi al di sopra del mondo, della vita stessa, per

restituirne simbolicamente, agli uomini dei “bassopiani”, l’essenza.

Di certo sono racchiusi nella salita almeno due sensi: quello del

faticoso distacco dalla terra e quello dell’essere-tesi verso l’alto per

vedere le cose stesse13. Ibsen è mosso dalla volontà di comprendere

pienamente sé in relazione alla sua patria, alla sua famiglia, alla società

del suo tempo e trova nell’arte drammatica il modo di mostrare

l’essenza di tali legami tipicamente umani. La simbolica restituzione ci fa

capire però qualcosa di fondamentale sulla cifra della consegna poetica

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Quaderni della Ginestra

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al mondo “sottostante”. Come ben avverte Ludwig Binswanger:

«Poiché questo vedere, mostrare e domandare riguarda un ente già in

sé e per sé drammatico, nella forma drammatica dev’essere insita […] la

più alta tensione che possiamo pretendere dall’opera d’arte, quella – cioè – che abbraccia l’intero dramma della vita umana, e lo abbraccia in modo

tale, vale a dire in una così “forte e vigorosa forma”, che esso se ne sta lì non più come “vita”, bensì come “restituzione simbolica della vita”, e

come tale si comunica a colui che lo coglie»14.

Perché il dramma comunichi il senso tragico, tensivo, della vita, è neces-

sario plasmare i vissuti “privati” nella forma artistica, ovvero mediare la

durezza del passato, le mezze comprensioni, con una superiore visione delle

cose. Solo così, mantenendo la tensione tra il passato e il futuro, si potrà

renderne visibile l’eterna tragica lotta.

È proprio nell’opera Il costruttore Solness (1892) che vediamo in modo

chiaro, per Binswanger, come le forme umane, universali, dell’estensione

e del movimento si sviluppino pienamente nella direzione della verticali-

tà, la cui importanza è già emersa nel poema Sulle alture. La scalata ri-

chiede il coinvolgimento di più sensi: il tastare delle mani, la coordina-

zione di piedi e braccia, in altri termini, il saper mantenere l’equilibrio, la

proporzione, tra altezza e base. Il protagonista del dramma ibseniano

mostra, invece, propriamente il turbamento della «proporzione antropologi-

ca»15 binswangeriana, esprimendo la tragica possibilità della caduta, del

crollo che minaccia chi tenti di raggiungere senza avvedutezza vette ver-

tiginose.

Il senso dell’innalzarsi inautentico che è caratteristico del protagonista,

non a caso un “costruttore”, è sottolineato da subito, nel primo atto

dell’opera, da Knut Brovik16che gli dice: «Neanche lei aveva imparato un

gran che del mestiere quando lavorava alle mie dipendenze. Ma è riusci-

to lo stesso a cominciare. E ad affermarsi. Togliendo il lavoro a me e a

molti altri …»17. Binswanger ci avvisa che l’uso dei due verbi: “comin-

ciare” e “togliere agli altri” è fondamentale per cogliere la natura del

“successo” di Solness come costruttore, una fortuna raggiunta “«sca-

vando letteralmente - la terra sotto i piedi»”18 di Knut Brovik. D’altra

parte, il protagonista, ormai vecchio, si sente minacciato dal giovane fi-

glio di Brovik a cui nega la nuova commissione, con la motivazione di

volere costruire solo qualcosa di solido e duraturo. C’è, in altri termini,

un evidente contrasto tra la sua astuta ascesa passata e la volontà di edi-

ficare salde sovrastrutture. Si annuncia così lo stato dubbioso che lo af-

fligge e che lo accompagnerà per tutto il dramma, in un sentimento co-

stante di minaccia rispetto all’avvenire (gioventù di Ragnar), alla colpa

passata (la rapida e astuta ascesa) e all’autoesautorazione presente19.

L’aria di pericolo e minaccia che si respira nell’opera culminerà con il

crollo definitivo del protagonista. Uno smarrimento ineluttabile, restitui-

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Letteratura e filosofia

55

to simbolicamente a noi da Ibsen con la caduta fisica del costruttore da

un edificio vertiginosamente alto, su cui Solness cercherà di arrampicarsi

spinto dalla fragile passione per la giovane Hilde.

Ancora più complessa e fitta è la trama del dramma ibseniano, ma

basterà qui ravvisare la fecondità antropologica dell’interesse di

Binswanger per l’arte di Ibsen. Attraverso l’incontro tra il mondo

“psichiatrico” e quello “drammaturgico” è possibile infatti cogliere

l’essenza dello smarrimento che può affliggere l’essere umano, qualora

questo si spinga troppo oltre i suoi limiti. Entrambi illuminano così, in

maniera filosoficamente inedita, il senso antropologico-esistenziale

dell’essere trascendente, cercando di mostrarne l’essenziale tragicità, tesa

tra le stelle e l’abisso.

GIUSEPPINA MAZZEI

1Cfr. Costa, Vincenzo, Franzini, Elio, Spinicci Paolo, La fenomenologia, Torino, Piccola

Biblioteca Einaudi, 2002. 2La cosiddetta Wengener Kreis, scuola fenomenologico-psichiatrica di cui Straus, Binswanger, von Gebsattel, Minkowski erano considerati esponenti di spicco. 3«Esiste, nella nostra società, un altro principio di esclusione: non più un interdetto, ma una partizione (partage) e un rigetto. Penso all’opposizione tra ragione e follia. Dal profondo del Medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri», disse Michel Foucault, uno dei maggiori storici della follia, in una lezione inaugurale al Collège de France (L’ordre du discours, Éditions Gallimard, Paris, 1971; trad. it. di Fontana, Betani, Zini, L’ordine del discorso, 2004, Einaudi, Torino, p. 5).

4Henrik Ibsen, La realizzazione di sé nell’arte, trad. it. a cura di Michele Gardini, Quodlibet, Macerata, 2008. 5Binswanger, Ludwig, Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte, trad. it., p. 4. 6Binwanger dedica un intero capitolo a Il costruttore Solness, (infra). 7Binswanger, Ludwig, Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte, trad. it., p. 5 8Ivi, p. 9. 9Ivi, p. 11. 10Ivi, pp. 22-23. 11Ivi, p. 32. 12Ivi, p. 33. 13«Altitudo è sempre insieme altezza, poter essere scalato, e profondità, abissalità», ivi, p. 50. 14Ivi, p. 32. 15Ivi, p. 60. 16

Il vecchio Brovik, una volta suo principale, ora suo dipendente, vuole che Solness

assegni una commissione a suo figlio, il giovane Ragnar Brovik, disegnatore di talento, ma il costruttore non vuole “cedergli il passo”, rimbrottandogli di essere poco esperto. 17Ibsen, Henrik, Bygmester Solness (1892); trad. it. di Coletti Grunbaum e Castagnoli Manghi, Il costruttore Solness, Unione tipografica, Torino, 1982, p. 319. 18Binswanger, Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte, p. 63.

19Solness fingerà di amare la promessa sposa di Ragnar, sua segretaria, solo per trattenere il giovane disegnatore ancora nel suo studio, per sfruttare a suo favore il lavoro del giovane.

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Libri in discussione

57

orrado Ocone propone un percorso inconsueto nella storia del

pensiero liberale, dove alcuni autori considerati spesso fondamen-

tali (ad esempio Locke o Rawls) non compaiono, mentre altri, spesso

esclusi (come Humboldt, o gli italiani Einaudi, Croce e Gobetti), assu-

mono una posizione centrale. Questa scelta offre una prospettiva volta a

privilegiare lo spirito liberale, piuttosto che la teoria. Quest’ultima, anzi, se

intesa come sinonimo di aspirazione ad una formulazione di verità uni-

versali, è rifiutata in quanto sopprimente quello spirito autenticamente

liberale che Ocone definisce «critico, anticonformistico, antidogmatico».

Il liberalismo «non è, ma si fa: è metodo e non sistema», perciò a suo

fondamento non potranno che essere lo storicismo e il pluralismo, in

quanto il suo farsi si dà solo sul campo della realtà storica cangiante e

mediante il conflitto tra le opinioni e gli interessi. Ogni tentativo di fis-

sare in una statica teoria gli elementi della politica, che può essere sol-

tanto prassi, non può avere altro risultato che l’ideologia, la quale è

sempre dogmatica e chiusa alla dialettica delle opinioni.

Il primo autore ad aver fornito alla riflessione politica queste basi è

stato Montesquieu, il quale ha mostrato come un governo non sia libe-

rale quando assume una specifica forma, descrivibile dettagliatamente

dal teorico, ma quando lascia spazio alla libertà ed è quindi «moderato».

Egli infatti non ha disegnato una dottrina definita, ma ha piuttosto insi-

stito sulla distinzione qualitativa delle forme di potere, secondo la quale

il «come» è più importante del «chi» lo esercita.

Ocone propone poi una lettura di Kant – suggerita da Carlo Antoni

– secondo la quale l’autentico spirito liberale del filosofo di Königsberg

andrebbe rintracciato non tanto nelle opere di teoria politica, quanto

nella Critica del giudizio, dove è presente la chiave per «superare, in senso

liberale e compiutamente umano, la deleteria antitesi di universalità e

particolarità», cioè, politicamente, andare oltre la dicotomia «di universa-

lismo e particolarismo culturale, di occidentalismo e multiculturalismo».

In quest’ottica, il rifiuto sia dell’universalità astratta che del sentimento

particolare diventa un invito, anzi un compito, a «ricercare, insieme e at-

traverso il dialogo, l’unica e storica (cioè discutibile e reversibile) razio-

nalità e universalità che ci è concessa: quella che parte dal particolare e

impone a esso una regola».

Se questa interpretazione del pensiero kantiano, pur svincolandosi

dal dovuto confronto con opere come la Metafisica dei costumi, non dà

pienamente ragione del fatto di trovare Kant fra gli autori «senza teoria»,

ancora più ingiustificata appare la presenza, fra questi, di Humboldt, cui

Ocone dedica un intero capitolo. L’autore si trova costretto

C

IL LIBERALISMO ALLA RESA DEI CONTI

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Quaderni della Ginestra

58

all’«ossimoro» fra «elemento teorico» e «liberalismo senza teoria», il qua-

le però appare al lettore più come flagrante contraddizione argomentati-

va che come figura retorica. L’idea di individuo proposta da Humboldt

è infatti tutt’altro che scevra di elementi filosofici ‘forti’. Innanzitutto

presuppone una concezione dello Stato minimo, la quale, pur essendo

espressa in termini prevalentemente negativi (a partire, cioè, dal punto

di vista dell’individualità che non deve essere ostacolata), è pur sempre

una «teoria», nel senso che Ocone stesso dà a questo termine.

Inoltre il filosofo tedesco è autore di una dottrina positiva

dell’individuo, secondo la quale la persona si realizza pienamente soltan-

to quando «le sue forze intellettuali e morali hanno raggiunto una forma

armonica ed equilibrata», mediante l’interazione fra l’individuo e

l’ambiente sociale e culturale che lo circonda. Humboldt si oppone per-

ciò all’individualismo atomista, ma non è chiaro perché quest’ultimo

dovrebbe essere «teoria» più di quanto non lo sia l’«individualismo oli-

stico» (l’espressione è di Charles Taylor). Forse Ocone intende dire che

quest’ultimo si oppone alle teorie forti del «soggetto-sostanza» e del

«concetto classico e moderno dell’individuo»; esso sarebbe perciò ade-

guato alla nostra epoca «postmoderna», in cui una concezione forte del

soggetto non è più adeguata. Ma la teoria atomistica non è che una delle

teorie della soggettività emerse nella modernità, e l’olismo humboldtia-

no – che è di derivazione herderiana – non ha alcuna caratteristica po-

stmoderna.

La contraddizione in cui incorre Ocone mostra come il liberalismo

non possa, in realtà, fare a meno di una teoria. Dobbiamo perciò do-

mandarci: perché dovrebbe farne a meno? Perché la storia del pensiero libe-

rale ha visto fiorire un gran numero di teorie tra loro incompatibili, sen-

za che fosse possibile stabilire, in base ad un criterio superiore, quale

fosse più adeguata a indicare che cosa è bene per la società nel suo

complesso e per gli individui che la abitano. Ocone vede perciò con

correttezza il fallimento di ogni teoria liberale, ma senza valutare che ciò

ha per conseguenza il fatto che i pensatori che ancora si richiamano al

liberalismo (in una delle sue molteplici forme) non hanno alcuno stru-

mento filosofico per opporsi a quella deriva che è il neoliberalismo o

«l’ideologia liberista». Ocone, quindi, gioca d’astuzia: per evitare il pro-

blema, propone di prescindere da qualsiasi teoria e così nega lo statuto

di «liberali» ai «neoliberali», proprio perché questi ultimi sono fautori di

una precisa teoria, basata su «false certezze». Ma i capitoli successivi a

quello dedicato a Humboldt mostrano che cosa resti, in questa prospet-

tiva, del liberalismo: una serie di autentiche banalità – per riconoscere le

quali non è certo necessario essere liberali – sul valore del dissenso («è

doloroso costringere un’opinione al silenzio, perché questa opinione po-

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Libri in discussione

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trebbe essere vera» [Einaudi]), del confronto con l’opinione avversa («il

liberale non può dialogare solo con i suoi simili, con coloro che lo con-

fermano nelle sue tesi») e del conflitto («lo Stato non deve cercare

un’armonia più o meno imposta perché sono la difformità, la disarmo-

nia, l’imperfezione il milieu più proprio della politica liberale»).

Non resta altro che «un’esigenza morale», che impone «spirito criti-

co» e «dubbio metodico». Abbiamo perciò, da una parte, una riduzione

del liberalismo ad etica negativa e, dall’altra, un’identificazione di questo

misero residuo con la filosofia. Perché per Ocone il liberalismo «è […]

propriamente la filosofia». Adeguarsi alle esigenze della contemporanei-

tà, come chiede di fare il nostro autore, significa davvero rinunciare a

tutto e ridurre la filosofia a così ben poca cosa?

GIANLUCA CAVALLO

Corrado Ocone, Liberalismo senza teoria, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 122, € 10

E NULLA SARÀ TUO TRANNE UN ANDARE VERSO DOVE NON C’È DOVE

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Quaderni della Ginestra

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rom the outset, Guido Seddone’s new book, Collective Intentionality,

Norms and Institutions, aims to understand human cooperation.

This is no easy task and the theme has been at the forefront of social

ontological discussion. Though Seddone draws material from the

classics of the field, he aims to present a novel theory of the

foundational meaning of cooperation for the human life-form and how

that enables us to understand and evaluate better the institutional world.

The accounts of cooperation that are based only on we-

intentionality (Tuomela, Searle) are rejected as groups amount to more

than the intentions of individuals’. Similarly, Seddone also rejects

Gilbert’s idea of a plural subject as groups are better understood as

historical networks of individuals. His intention is «to describe social

practices and institutions neither as being entirely dependent on

individual commitments nor as being externally independent of the

members who hold deontic states». While the former accounts of ‘we’

are interested in explaining the accomplishment of shared goals,

Seddone’s analysis is aimed at understanding enduring groups and

institutions that are interested in the conservation of their identities and

practices.

In the first chapter, Seddone introduces the key concept of

belongingness. That is, human embeddedness in certain social practices,

linked with an understanding of social groups like «organisms with a

final structure of self-preservation». Belongingness is continuity

between group and persons in a manner where individuals are

integrated in a group and engaged in preserving the social collaborative

activities and the social organization of that group. Belonging to a

group also requires practical competences, many of which are learned in

early childhood.

With the concept of belongingness Seddone tries to avoid the

problems of mistrust that plague the contract-based theories of groups.

Belongingness is seen as something more basic than just a contract that

can be always broken. While the concept does highlight the

interdependence of individuals and group, it might also be that it tackles

a different problem than the contract-based theories. The danger in

here is that even if Seddone claims to provide a larger and more

contextual view, his theory might not able to elaborate the internal

motivations for setting up a particular corporation or purpose-group

and their internal reasoning. One may worry that belongingness is in

danger of becoming a claim of individuals’ social constitution and not a

claim about the nature of groups as such.

F

FROM COOPERATION TO LIBERAL

INSTITUTIONS

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Libri in discussione

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After explicating the interdependence of individuals and groups in

the first part of the book, Seddone turns to the analysis of norms and

institutions. One of the key claims is that being institutionalized is the

only way a group can be recognized. That is, to become «a social entity

whose social commitments, roles and behavior can be controlled and

possibly legally prosecuted». This claim seems to be too strong because,

as Tuomela has shown, institutions come in varied forms and the broad

norm-governed systems like language might not have the commitments,

roles and behavior in the sense that corporations with more rigid

systems of personal tasks and rights might have.

Seddone is, however, aware that it is not wise to map all kinds of

institutions under the same concept. His own central distinction is that

of between autonomous and internal institutions. Internal institutions

are set within a wider cooperative framework and the duties and

interaction within them are contract-centered. Autonomous institutions,

in turn, are characterized by self-determination and their members have

a deeper and more fundamental relationship between each other and

the group. The difference can be described as that of between

«citizenship as belongingness to a lineage-based-organization» and

«membership as belongingness to a contract and competencies-based-

group».

Nations and states are prime examples of autonomous institutions as

lineage, belongingness and preservation – the central ideas of the whole

book – are combined within them. Seddone makes an interesting claim

that without sovereignty nations only have their identity and the identity

is at a risk of disappearing due to lack of organization. Firstly, this

implies that a state is an organized form of a nation. This, perhaps

inadvertently, associates states with nation states, which is clearly

problematic in the era when real states are more and more multicultural

or multinational. We might also have various other – economy, personal

safety, etc. – interests to join a state than just the preservation of an

institution into which we have been born. Secondly, though some

institutional identities are surely dependent on the level of organization,

this might not be the case with broader and looser cultural or national

identities. Sovereignty on a region is a thing that was definitely not

needed for the preservation of nomadic tribal identities.

With the introduction of institutions and organizations, we run into

the problem of collective and individual responsibility and this is what

Seddone tackles in the next section of his book. He sees hierarchies as a

necessary part of institutions, resulting from «unequal repartition of

tasks». However, he is against rigid hierarchies and argues for openness

and «self-aware cooperative mode» of action where the cooperative

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context is understood and evaluated. This in turn fosters self-

determination and moral responsibility within these institutions. Thus,

hierarchies and institutional power are necessary but they need not to be

coercive. Instead, in a free society they rely on reflective acceptance by

members.

Seddone finishes his book with an exploration of the idea of

intersubjective freedom – «the possibility of enjoying autonomy within

an institutionalized and cooperative enterprise». He agrees with the

Hobbes’s idea that individuals need to be shielded from arbitrary

coercion but at the same time he wants to combine this with the Hegel’s

insight that individuals need the intersubjective context to be free. Here

the reflective acceptance of law and lawfulness is the key. Law protects

us from coercion by others but at the same time it needs to be accepted

itself as there is potential for the institutions themselves to become

coercive. Ultimately, the ideals of social freedom ought to be embodied

by various institutions like the market economy or education. This leads

Seddone to argue for liberalism that is concerned with the individual

satisfaction of needs and in which solidarity is a social obligation

towards those who participate in the cooperative system.

Seddone’s book is difficult but rewarding. It is difficult in the sense

that the themes that are analyzed are complicated and there are places in

which the reader is left with a desire for more detailed explanations.

there are places where the book is repetitive and could have benefited

from more pedantic editing. For example, the page numbers for

references were occasionally marked as ‘??’. Despite this, the book was

also enlightening. It manages to combine the Hegelian tradition with the

analytical social ontology in an interesting fashion and presents a theory

that progresses from the analysis of social cooperation as human

condition into a defense of liberal theory. Even if I do not personally

endorse all the specific claims made in the book, I agree with the overall

approach of the research. Namely, the use of philosophical

anthropology – a line of research prevalent in the Hegelian tradition –

to back up the claims one makes about the institutional world. I can

warmly recommend Seddone’s book for all who are interested in the

social nature of human beings and the interplay of institutions and

individuals.

ONNI HIRVONEN

Guido Seddone, Collective Intentionality, Norms and Institutions. A Philosophical Investigation about Human Cooperation, Peter Lang, Frankfurt

2014, pp. 186

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entornata realtà raccoglie dieci saggi che testimoniano la ricchezza

del dibattito interdisciplinare che negli ultimi due anni, soprattutto

in Italia, si è sviluppato attorno al tema del nuovo realismo,

mostrandone differenze terminologiche e contestuali.

Nell’introduzione Mario De Caro e Maurizio Ferraris individuano i

quattro tratti fondamentali del nuovo realismo, accomunati dal tentativo

di conservare le istanze emancipative dell’antirealismo «evitandone gli

effetti indesiderati – e in particolare la curva entropica che ha portato il

postmoderno a dire addio alla verità e a dichiarare guerra alla realtà

applicando in modo indiscriminato il principio secondo cui “non ci

sono fatti, solo interpretazioni”». Il primo tratto è il recupero di concetti

come verità e realtà, concetti centrali per un pensiero critico e

decostruttivo, rilanciato in questo nuovo contesto «sotto altre forme,

adatte al mutato momento storico e non ridotte a pura scolastica». Il

secondo è il sottolineare il forte legame tra interpretazione, verità e

realtà rifiutando «l’ossessione postmoderna secondo cui non c’è verità,

ma solo conflitto, interesse, prevalenza del più forte, e che

“interpretare” significhi essenzialmente scendere in guerra, o

quantomeno in campo». Il terzo è il riconoscimento di un nesso

costitutivo tra filosofia e scienza, e l’apertura della filosofia ai risultati

scientifici, pur mantenendo una propria autonomia metodologica. Il

quarto è il proporre una filosofia globalizzata in cui convergono

competenza scientifica, filologica e storica, e pertinenza pubblica: «fa

intrinsecamente, e non accidentalemente, parte della filosofia la capacità

di rivolgersi a uno spazio pubblico, consegnando a quello spazio risultati

elaborati tecnicamente, però in forma linguisticamente accessibile».

L’eterogeneità del nuovo realismo è ben rappresentata dai dieci saggi

che compongono questo libro, suddivisi in tre sezioni dedicate

rispettivamente ai fatti della scienza e ai valori dell’etica, ai limiti

dell’interpretazione e a un confronto sulla realtà psichica. Nella prima

sezione Hilary Putnam (Realismo e senso comune) sostiene un realismo del

senso comune secondo il quale possono esserci molte descrizioni

corrette della realtà e ciò che esiste è indipendente dalla sua

conoscibilità; Mario De Caro (La duplicità del realismo) discute realismo

del senso comune e realismo scientifico; Akeel Bilgrami (Pragmatismo e

realismo) difende un realismo che fa coinvergere l’idea kantiana

dell’idealismo trascendentale con un pragmatismo di derivazione

peirciana; Carol Rovane (La separazione del relativismo dall’antirealismo) si

sofferma, infine, su realismo e relativismo, definendole come due

dottrine non in contrasto e considerando le possibilità di un relativismo

B

DAL NUOVO REALISMO AL RITORNO ALLA REALTÀ

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che non parta da premessa antirealiste. Nella seconda i saggi di

Umberto Eco (Di un realismo negativo), Diego Marconi (Realismo minimale)

e Maurizio Ferraris (Esistere e resistere) affrontano tre accezioni diverse di

realismo, rispettivamente negativo, minimale e dell’inemendabile,

anticipando il saggio di John Searle (Prospettive per un nuovo realismo)

difensore dell’idea che esista una realtà indipendente

dall’interpretazione, e contrapponendola a varie forme di idealismo.

Nella terza, infine, Massimo Recalcati (Il sonno della realtà e il trauma del

reale) e Michele Di Francesco (Realismo mentale, naturalismo e scienza

cognitiva) si confrontano sul tema della realtà della soggettività e della

sfera psichica, difendendo, il primo, una visione antirealistica di matrice

lacaniana e discutendo, il secondo, le prospettive del realismo mentale di

stampo cognitivista.

TIMOTHY TAMBASSI

Mario De Caro, Maurizio Ferraris, a cura di, Bentornata realtà. Il nuovo

realismo in discussione, Einaudi, Torino 2012, pp. 230

MA LA MIA NOTTE NESSUN SOLE LA UCCIDE

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