Woolf - Una Stanza Tutta Per Sé

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ENNESIMA Grandi classici Giovani traduzioni

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Il fondamentale contributo di Virginia Wolf al tema "le donne e il romanzo"

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E N N E S I M AGrandi classiciGiovani traduzioni

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Prima edizione: luglio 1995

© 1995 by Guaraldi/Gu.Fo Edizioni s.r.l.Via Covignano 302, 47037 Rimini

ISBN 88-8049-048-6

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Woolf

Una stanza tutta per sé

Traduzione e cura diGraziella Mistrulli

Guaraldi

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INDICE

7 Introduzione di Graziella Mistrulli

Una stanza tutta per sé

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139 Note

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INTRODUZIONE

di Graziella Mistrulli

Virginia Woolf nasce a Londra il 25 gennaio 1882, figlia diLeslie Stephen, un affermato critico letterario e storio-grafo, e di Julia Jackson Duckworth, nella casa, non lon-tana da Hyde Park, frequentata dalle personalità piùnote del mondo culturale e letterario inglese. Negli anni tra il 1895 e il 1897 Virginia è colta da crisidepressive, prima a causa della morte della madre, e poidella sorellastra Stella Duckworth, a cui era stata affidata. Nel 1904, in seguito alla morte del padre, Virginia tenta ilsuicidio buttandosi dalla finestra, e soltanto dopo l’estatedi quell’anno raggiunge una guarigione provvisoria. Il1904, tuttavia, è anche l’anno in cui dà inizio alla sua at-tività letteraria con la pubblicazione di alcuni articoli sulsettimanale Guardian e la regolare collaborazione alTimes Literary Supplement.La famiglia Stephen, Virginia, la sorella Vanessa e i duefratelli Thoby e Adrian, si trasferisce nel quartiere diBloomsbury, al n.46 di Gordon Square, dove il giovedìsera gli intellettuali londinesi, tra cui Leonard Woolf, fu-turo marito di Virginia, si ritrovano per discutere di arte,letteratura e politica. Dal 1905 al 1907 Virginia insegna al Morley College,una scuola serale per lavoratori. Il matrimonio con Leonard, il 10 agosto 1912, si rivela

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decisivo sia sul piano psicologico che letterario.Nel 1913 il romanzo La crociera viene accettato per lapubblicazione e, in seguito ad un nuovo attacco depres-sivo, Virginia tenta per la seconda volta il suicidio.Nel 1914, con l’inizio della I guerra mondiale, i Woolfsostengono la causa pacifista.Nel 1916 Virginia inizia la sua collaborazione, durataquattro anni, alla Women’s Cooperative Guild, per cuiorganizza e presiede riunioni mensili. L’anno successivofonderà, insieme a Leonard, la Hogarth Press, la casaeditrice che pubblicherà tutti i suoi romanzi e, tra le altreopere, le poesie di T.S. Eliot.Inizia, quindi, intervallata dalle crisi depressive, la pienamaturità letteraria; pubblica i primi grandi successi:Notte e giorno, La camera di Giacobbe, La signoraDalloway e Gita al faro; e poi Orlando, Una stanzatutta per sé, Le onde, Gli anni e Le tre ghinee.Alle prese con l’ultimo romanzo, Tra un atto e l’altro, lesue condizioni mentali si aggravano ulteriormente e il 28marzo 1941 Virginia si suicida gettandosi nel fiume Ouse.L’interesse della letteratura del primo Novecento, perl’influenza anche delle teorie di Freud e di Jung, sisposta dall’esterno verso l’interno, verso la psicologia e leintime motivazioni dei personaggi, per una visione piùprofonda dell’esperienza. Le impercettibili associazionidel pensiero, l’infinita serie di passaggi mentali che ac-compagnano anche le nostre frasi più brevi o i gesti piùinsignificanti, scandiscono il tempo della vita e organiz-zano il romanzo della Woolf, e soprattutto di JamesJoyce, intorno al “monologo interiore” e al “flusso di co-scienza”, nel tentativo di riprodurre, libero dalla direttainterferenza dell’autore, il non-compiuto, il non-dettodell’esperienza più intima.La produzione letteraria di questi anni si pone come

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scarto radicale rispetto al realismo del secolo precedente, ènegazione della possibilità di una realtà totalmente cono-scibile e fedelmente rappresentabile dalla scrittura cheallora diventa, in epoca modernista, strumento di costru-zione della realtà, mezzo privilegiato per imporre unaforma artistica sul caos del mondo fenomenologico. Cos’è il reale e come può essere catturato dalla scrittura èproprio l’interrogativo che attraversa tutta la produzionedella Woolf, la ricerca, nei romanzi, racconti, diari, let-tere, saggi, di una modalità di rapporto con il reale checonsenta di metterne in relazione il dato oggettivo conl’illuminazione soggettiva. La vita, “luminous halo”,“semi-transparent envelope”, (scrive Virginia in ModernFiction, nel 1919) è composta in un insieme sensato soloin quei momenti isolati di magica illuminazione, le epi-fanie della scrittura modernista, spazi del simbolico, incui le cose formano un disegno finalmente compiuto. InGita al faro, generalmente riconosciuto come il capola-voro della Woolf, Lily Briscoe, l’artista la cui opera at-tende da tempo un compimento logico, completa il suoquadro in un’epifania finale che investe non solo la suaricerca espressiva, ma le rivela anche la forma-nel-caosdella realtà e la possibilità di conciliare maschile e fem-minile; Lily, come Virginia, riesce ad andare oltre la se-paratezza dei ruoli, oltre la contrapposizione della razio-nalità, l’energia intellettiva, spietata e insensibile, del si-gnor Ramsay da una parte, all’immaginazione, l’energiacreatrice, rassicurante e stabilizzante il flusso dell’espe-rienza, della signora Ramsay dall’altra. Anche Orlando, uomo-donna, l’androgino che attraverso isecoli partecipa del maschile e del femminile, riproponela conciliazione dei generi, e non la loro gerarchizza-zione, come possibilità di creazione artistica, forma privi-legiata della fusione.

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Intorno al maschile e al femminile, ruoli irrigiditi e isti-tuzionalizzati dai pregiudizi della storia, e componentinecessarie della mente dell’artista, che solo in uno statoandrogino, di “matrimonio degli opposti”, può realizzarela creazione, si articola anche il saggio del 1929, Unastanza tutta per sé, basato sulle due conferenze tenutedalla Woolf l’anno precedente alle studentesse dell’uni-versità di Cambridge. Fin dall’inizio questo testo è struttura aperta e destabiliz-zante: cosa c’entra il titolo Una stanza tutta per sé conl’argomento della conferenza Le donne e il romanzo? Larisposta non sarà semplice, tantomeno scontata. Quelloche segue, infatti, è una storia, una finzione, il racconto,movimento a più riprese interrotto e deviato, dei giorniche precedono la conferenza. Non il prodotto finito, lapura gemma di verità, ma il processo, il divenire del pen-siero in tutte le sue tortuosità; una serie di gesti agitati chevieta la compiacenza, la sicurezza e la chiusura mentale.“Io è soltanto una comoda espressione per indicare qual-cuno che non esiste in realtà.” Il personaggio/narratoresi presenta subito come entità fluida, mutevole, che ri-fiuta un’identità precisa e limitante, persino un nome co-stante, e preferisce piuttosto rivelare il farsi, disfarsi e in-terrompersi dei suoi pensieri. “Chiamatemi Mary Beton,Mary Seton, Mary Carmichael o con qualsiasi altro nomevi piaccia, non ha alcuna importanza.” Le tre Mary, fi-gure di una vecchia ballata inglese che narra dell’impic-cagione di una quarta Mary, Mary Hamilton, colpevoledi aver ucciso il frutto delle insidie del re, sovrappon-gono le loro voci e le loro identità e si ritrovano, insiemealle tante donne protagoniste e comparse di questosaggio, nella figura di Judith Shakespeare, emblema dellasofferenza e della repressione femminile. L’io narrante,allora, parla alle studentesse e al tempo stesso prepara la

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conferenza, racconta del ricco pranzo in un college ma-schile e della magra cena in uno femminile, narra diLondra e del British Museum, incontra la studiosa MarySeton e alla fine si sovrappone a lei, prendendo il nomedi Mary Beton. La forma fluida e aperta del testo, il continuo porre do-mande che non trovano risposta, o solo una risposta par-ziale, si pone come rifiuto del dogmatico, proposta dipercorso conoscitivo, in un sottile intreccio di finzione erealtà; la storia delle donne e delle loro creazioni lette-rarie, o meglio la storia dell’assenza delle donne dal-l’arte, dalla politica e gli affari, la storia di un’esclusionesecolare per l’ostilità dell’altro sesso, si alterna sapiente-mente al racconto delle dolorose esclusioni del narratore,delle sue frustrazioni nella ricerca della conoscenza, e delcontinuo interrompersi del flusso dei suoi pensieri.Le donne sono viste, dunque, come già aveva fatto allafine del Settecento Mary Wollstonecraft, come le vittimeculturali dell’incontenibile desiderio di superiorità e pre-dominio che contraddistingue l’altro sesso, della sua seteincontrollata di potere che ha fatto di esse delle escluse;quel desiderio di predominio che è ricorso al disprezzo eallo scherno per la donna che avesse avuto l’ardire di se-guire liberamente le proprie inclinazioni. Judith Shake-speare, personaggio fittizio di cui Virginia Woolf si di-verte a tracciare una biografia, è la personificazione delladiversa sorte riservata al genio di sesso femminile, labrillante parabola della privazione femminile. E’ solocon Aphra Behn, nel Settecento, che la donna di talentonon è più la folle costretta a fuggire la società, ma è lascrittrice di professione che può rompere finalmente il si-lenzio quasi assoluto dei secoli precedenti per esprimerese stessa senza paure e vivere del suo lavoro. Da segno difollia, dunque, scrivere diventa di importanza pratica.

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Libertà di pensiero e indipendenza economica sono perla Woolf intimamente collegate: quando le donneavranno una stanza tutta per sé, non quella stanza in cuisono state rinchiuse per secoli a sognare il mondo al difuori, ma il luogo, fisico e metaforico, in cui potersi al-lontanare dalle interruzioni della vita domestica, da co-loro che consigliano, ordinano, giudicano, allora po-tranno essere se stesse e vivere a contatto con la realtà,non più in isolamento, ma in una nuova e più intensa re-lazione con il mondo. Una stanza tutta per sé e cinque-cento sterline all’anno: questa è la risposta di VirginiaWoolf al problema delle donne e il romanzo, ed è questal’esortazione che rivolge alle studentesse di Cambridge.Le invita a conoscere il mondo, a scrivere non solo ro-manzi e, soprattutto, a scrivere senza rabbia, senza paura,senza amarezza; la scrittura non deve più essere strumentodi autoespressione, ma creazione artistica. Le donne de-vono scrivere da donne, con un linguaggio adatto a loro, edevono scrivere di cose importanti per loro. Dunque nonl’imitazione dell’altro sesso, nei suoi atteggiamenti, valori,linguaggio, e la rinuncia ai propri, ma l’affermazione dellaspecificità del femminile, contro l’ordine esistente, controun concetto di uguaglianza che è l’accettazione di un unicomodello, l’uomo. La mente dello scrittore deve allora farsiluogo dell’unione tra maschile e femminile, perché l’artenon può nascere se non da una mente androgina, la cui in-terezza non è altro che eterogeneità, coesistenza dei duesessi. La scrittura non deve fornire lo strumento per riven-dicare il proprio sesso, come fa quella del signor A o diCharlotte Brontë, entrambe prodotto di una mente deltutto maschile o femminile, ma deve offrirsi come lin-guaggio sessualmente inconsapevole che è, al tempostesso, unico della donna o dell’uomo. Dimenticare il pro-prio sesso, sostiene la Woolf, non cancella la differenza.

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In Una stanza tutta per sé, allora, che è scrittura femmi-nile, quindi non dogmatica, scrittura sempre interrottaperché sempre aperta al sovrapporsi contraddirsi intrec-ciarsi delle idee, ciò che colpisce il lettore è l’esaltazionedella libertà, fisica, materiale, mentale, intellettuale, l’esor-tazione a godere di essa intensamente, l’amore per la vita.Il saggio si chiude con una nota di fiducia nelle possibilitàdelle donne: Judith, l’immaginaria sorella di Shakespeare,la poesia al femminile che ha vagato di corpo in corpoperché costretta ad abbandonare il proprio, rinascerà; lofarà quando le donne saranno libere, economicamente eintellettualmente, non avranno modelli maschili da ri-spettare e affronteranno la vita chiedendo aiuto soltanto ase stesse. Ci vorrà del tempo, forse cento anni, forse dipiù; lo sforzo sarà considerevole, ma ne varrà la pena.Non sono ancora trascorsi i cento anni che VirginiaWoolf credeva necessari perché quel futuro di libertà tro-vasse la sua completa realizzazione, e certamente ce nevorranno tanti ancora perché tutte le donne siano real-mente libere, economicamente e intellettualmente. L’in-terrogarsi sulla povertà delle donne che punteggia, co-stante, Una stanza tutta per sé, quella domanda a cuineanche l’immensa mole di cultura racchiusa nel BritishMuseum ha potuto fornire una risposta, fa discutereanche le donne di quest’ultimo scorcio di secolo, an-ch’esse per la maggior parte povere, dicono le statistiche.Ed ecco perché un saggio del 1929, anche se tanto pocoarrabbiato, sulle donne e la società, la storia, la lettera-tura, gli uomini, val la pena ancora di essere letto, nonsolo come testimonianza storica della sofferenza delledonne, ma soprattutto per un’esigenza di riflessione, suquanto le donne sono riuscite a fare, quanto è stato loroimpedito di fare, sul romanzo al femminile, il rapportocon gli uomini, le difficoltà, in definitiva, della donna

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che non voglia più vivere soltanto come sostegno e pre-senza rassicurante per l’uomo e che, al tempo stesso, nonabbia ancora trovato in se stessa quella sicurezza neces-saria per affrontare la vita e abbandonare la nicchia pro-tetta di un ruolo cristallizzato e sempre secondario.Ecco perché, vagando curiosa in una libreria di Bloom-sbury, presa dall’affannosa ricerca di libri, tanti libri, il ti-tolo Una stanza tutta per sé mi ha subito conquistata;l’idea di uno spazio privato, recesso fisico e metaforico,luogo separato del crearsi e decantarsi del mio pensiero,ha suscitato tanto interesse in me da non poter rinunciare aleggerlo. E leggerlo è stato molto piacevole; conversarecon Virginia Woolf sulle cause del silenzio delle donne,osservarla scavare nella storia per riportare alla luce co-loro che hanno lottato per rompere quel silenzio, essereparte, con lei, di una “genealogia, una filiazione di donne,un progetto di cultura di donne”, (da Progetto VirginiaWoolf - Parole. Immagini. Quaderni del Centro Studidonnawomanfemme, 1985) ha destato una consapevo-lezza sopita. Le donne del passato hanno sofferto e lottatoperché le trame viscose di un mondo pensato dagli uo-mini per gli uomini cominciassero ad allentarsi.Oggi la condizione della donna è in gran parte cambiata,ma si tratta solo di “emancipazionismo” o della vera ri-voluzione culturale che il femminismo auspicava e cheavrebbe dovuto cambiare in maniera radicale lo statusfemminile non soltanto nella società, ma anche nel mi-crocosmo della famiglia? Siamo comunque ancora lon-tani, secondo l’ultimo femminismo, da una società paci-fista, olistica, conservatrice dell’ambiente e rispettosadella natura, una società, cioè, al femminile.E allora Virginia Woolf e Una stanza tutta per sé, ladonna intellettuale, impegnata, problematica, creativa, eil racconto di un’esclusione secolare quale spinta ad esserci e

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a colmare l’assenza, possono proporsi anche alla donna delduemila come progetto, programma, manifesto?Credo di sì. Perché, nonostante la Woolf sia una figuraportante, il simbolo storico, del primo femminismo, quelprogetto di autonomia dobbiamo ancora perfezionarlo, el’androginia della mente ci appare tuttora un concetto ra-dicale, se è da intendersi come apertura dell’unità fissa inuna molteplicità, come valorizzazione dell’eterogeneità, ri-fiuto dell’uguaglianza. E Virginia Woolf rimane, inoltre,un termine di confronto inevitabile, pur se da qualcheparte criticata per aver eccessivamente smorzato la rabbia,per non aver assunto una posizione forte sulla vera naturadella donna (genetica o cultura?), per aver scelto una scrit-tura che si rifugia nella finzione, nelle “menzogne”, evi-tando i “fatti”, “la verità”, e favorendo la strategia dellohumour, della satira. Ma i fatti sono dominio esclusivodegli uomini e Judith può essere solo ricreata con la fan-tasia: la sua esistenza storica è andata del tutto perduta.Alla luce dell’ultimo femminismo, tuttavia, della teoriache con Luce Irigaray assume la differenza sessuale, enon la neutralizzazione, come unico strumento per la li-berazione delle donne, Una stanza tutta per sé offrespunti interessanti. “Non dovrebbe l’educazione eviden-ziare e rafforzare le differenze [tra i sessi], piuttosto chele somiglianze?” si legge nel saggio, e sono numerosi i ri-ferimenti alle donne come esseri diversi (“le donne, adifferenza degli uomini, non sono dominate da idee dipossesso e dominio”); le donne, dice la Woolf, pensanoattraverso le loro madri, ed è quanto affermano alcunefemministe oggi, quando rivalutano il materno e il le-game con la madre, una capacità biologica che le renda“soggetti sessuati femminili” .Possiamo allora leggere la signora Ramsay di Gita al farocome l’incarnazione della moderna scienza al femminile,

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non violenta, organica, conservatrice e protettrice dellavita, il punto di vista sul mondo come di un tutto inter-connesso, a cui si oppone radicalmente il signor Ramsay,la lama di coltello, il sapere maschile, distruttore. Lily,l’artista donna, può completare la propria ricerca artisticasolo quando entrerà in sintonia profonda con la madre,con la signora Ramsay; solo allora potrà conciliare ma-schile e femminile, e realizzerà una mente androgina. L’esigenza di una scrittura al femminile, inoltre, di unalingua, come dice la Woolf, che si adatti al corpo femmi-nile e possa dar voce al soggetto femminile, anticipa certe ri-vendicazioni femministe di oggi che sottolineano l’impor-tanza, per la liberazione della donna, di un mutamentoprofondo nella lingua: l’ordine linguistico deve accogliereil genere femminile e attribuirgli il suo giusto valore.Dunque Virginia Woolf profetessa della differenza, sim-bolo di un femminismo superato o addirittura snob, in-tellettuale asservita al sistema capitalistico, protetta dallasua classe sociale, dal marito, dalla ristretta cerchia diamicizie aristocratiche? Forse tutti questi aspetti convi-vono in lei, come convivevano in lei malattia e scrittura-come-strumento-di-vita, depressione e creatività; o forseè solo l’accumularsi delle diverse letture che ogni epocapropone, sovrapponendo le proprie alle precedenti,quando interroga una scrittura densa e problematica. Con Virginia Woolf e con questo saggio, tuttavia, sembrainevitabile doversi confrontare quando si voglia rifletteresulle donne, non solo al passato, ma anche al presente eal futuro, come testimonia l’inarrestabile proliferare dicitazioni, nuove traduzioni e saggi critici. E se ogninuovo testo è accrescimento dei testi precedenti, nuovastratificazione su sedimenti già esistenti e pertanto im-prescindibili, allora Una stanza tutta per sé risuona dimille echi ed è nota inconfondibile di quanto scritto più

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tardi; ne è un esempio, tra i tanti che si propongono, ilsaggio di Karen Horney, Fuga dalla femminilità, del1926, nel quale si sottolinea l’esigenza degli uomini, lorosingolare caratteristica, di denigrare le donne, o il celebreIl secondo sesso di Simone de Beauvoir, del 1949, in cui siafferma che se la donna deve ancora lottare per diventareun essere umano, non può essere una creatrice, e diven-terà una poetessa, citando la profezia di Rimbaudquando “l’infinita schiavitù della donna sarà spezzata,quando vivrà per sé e attraverso sé”. Concludendo, poi, il suo studio sull’oppressione delladonna, Simone de Beauvoir ci riporta al tema principaledel saggio della Woolf: se un cambiamento nelle condi-zioni economiche non è sufficiente perché nasca la donnanuova, afferma Simone de Beauvoir per chiudere il suostudio sull’oppressione della donna, pure è stato e ri-mane il fattore principale della sua evoluzione.Le donne allora, chiuse in una stanza tutta per sé, leg-gono ancora questo saggio al femminile e femminista,(benché Virginia temesse di essere così definita, come te-stimonia il suo diario) e anch’io, chiusa in una stanzatutta per me, l’ho letto, riletto, tradotto, meditato, com-mentato; lontana dai rumori e dalle interruzioni, comeVirginia Woolf auspicava, ho tradotto questo saggio cer-cando di rispettarne l’organizzazione testuale quanto piùpossibile, nelle scelte lessicali e strutturali, nello stile enel tono. Se può essere in qualche modo colmata la di-stanza tra l’originale e le sue innumerevoli traduzioni,questo ennesimo tentativo insegue l’ambizioso obiettivodella rigorosa fedeltà al testo, della rinuncia alle facili“deviazioni”, per tentare di riprodurre quelle configura-zioni che l’intimo intreccio di forma e contenuto assumenello spazio senza confini della scrittura, in un scambioosmotico che annulla le separazioni.

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Ma, forse direte, le abbiamo chiesto di parlare delledonne e il romanzo - che cosa c’entra con l’avere unastanza tutta per sé? Cercherò di spiegare. Quando miavete chiesto di parlare delle donne e il romanzo mi sonoseduta sulla sponda di un fiume e ho cominciato a do-mandarmi cosa volessero dire quelle parole. Potevanosemplicemente significare qualche osservazione su FannyBurney; qualcuna in più su Jane Austen; un tributo allesorelle Brontë e una rapida descrizione del presbiterio diHaworth sotto la neve; qualche arguzia, se possibile, sullasignorina Mitford; una rispettosa allusione a GeorgeEliot; un accenno alla signora Gaskell, e avrei finito. Ma,ripensandoci, quelle parole non apparivano più così sem-plici. Il titolo Le donne e il romanzo poteva significare, eprobabilmente era vostra intenzione che significasse, ledonne e la loro realtà; o poteva voler dire le donne e i ro-manzi che esse scrivono; oppure le donne e i romanziscritti su di loro, o poteva voler dire che in qualche modotutte e tre le interpretazioni sono inestricabilmente unitee volete che le consideri in questa luce. Ma quando iniziai aconsiderare l’argomento da quest’ultimo punto di vista,che mi sembrava il più interessante, mi resi subito contoche presentava un inconveniente fatale. Non sarei maistata capace di giungere ad una conclusione. Non sareimai riuscita ad adempiere quello che ritengo il primocompito di un oratore: porgervi, dopo un’ora di discorso,

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una gemma di verità pura da avvolgere tra le pagine deivostri appunti e conservare per sempre sulla mensola delcamino. Tutto quello che potevo fare era offrirvi un’opi-nione su una questione di second’ordine: se ha intenzionedi scrivere romanzi, una donna deve possedere denaro euna stanza tutta per sé; e ciò, come vedrete, lascia inso-luto il grande problema della vera natura della donna edella vera natura del romanzo. Mi sono sottratta dunqueal dovere di giungere ad una conclusione per questi dueproblemi: donne e romanzo rimangono, per quanto miconcerne, problemi insoluti. Ma per riparare in qualchemodo, farò del mio meglio per mostrarvi come sonogiunta a questa idea della stanza e del denaro. Vi illu-strerò, nella maniera più dettagliata e franca possibile, ilsusseguirsi dei pensieri che mi ha portato a quell’idea.Forse, messi a nudo i pregiudizi e le idee che sottendonoquella affermazione, converrete che hanno qualche rela-zione con le donne e con il romanzo. Ad ogni modo,quando un argomento è molto controverso - e qualsiasiquestione sul sesso lo è - non si può sperare di dire la ve-rità. Si può soltanto dimostrare come si è giunti ad averela propria opinione, qualunque essa sia. Si può solo of-frire al pubblico la possibilità di trarre le proprie conclu-sioni mentre prende nota delle limitazioni, i pregiudizi ele peculiarità dell’oratore. È probabile che allora il ro-manzo contenga più verità della realtà. Intendo, perciò,servendomi di tutte le libertà e le licenze del romanziere,raccontarvi la storia dei due giorni che hanno precedutoil mio arrivo qui, di come, curva sotto il peso dell’argo-mento che avete posto sulle mie spalle, lo soppesavo, e nefacevo pensiero costante della mia vita quotidiana. È inutiledire che ciò che sto per descrivere non esiste; Oxbridge èun’invenzione; e anche il college di Fernham; “io” è solouna comoda espressione per indicare qualcuno che nonesiste nella realtà. Menzogne fluiranno dalle mie labbra,

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ma ad esse potrà essere mescolata qualche verità; spetta avoi scovare questa verità e decidere se val la pena conser-varne una parte. In caso contrario, getterete naturalmentetutto quanto nel cestino, e non ci penserete più.Eccomi allora (chiamatemi Mary Beton, Mary Seton,Mary Carmichael o con qualsiasi altro nome vi piaccia,non ha alcuna importanza) seduta sulla sponda di unfiume una o due settimane fa in una bella giornata di ot-tobre, assorta nei miei pensieri.Quel collare di cui ho parlato, le donne e il romanzo, lanecessità di giungere a qualche conclusione su un argo-mento che suscita ogni sorta di pregiudizi e passioni, pie-gava la mia testa fino a terra. A destra e a sinistra certi ar-busti, oro e cremisi, si accendevano dei colori del fuoco,sembravano persino bruciare. Sulla riva opposta i salicipiangevano in lamento perpetuo, le chiome scomposte. Ilfiume rifletteva a suo piacimento parte del cielo, del ponte edell’albero infuocato, e non appena lo studente aveva so-spinto la sua barca attraverso i riverberi, questi si chiude-vano di nuovo, completamente, come se egli non fossemai esistito. Sarebbe stato possibile rimanere seduti lì perore, assorti nei propri pensieri. I miei pensieri - per chia-marli con un nome più altisonante di quanto meritassero -avevano gettato la lenza nella corrente. Essa ondeggiava,minuto dopo minuto, qua e là, tra i riverberi e le alghe, la-sciando che l’acqua la sollevasse e l’affondasse finché - co-noscete il piccolo strappo, l’improvvisa conglomerazionedi un’idea alla fine della sua lenza, e poi il cauto tirarla su el’attento adagiarla fuori dell’acqua? Ahimè, adagiato sul-l’erba, come appariva piccolo e insignificante questo miopensiero; il tipo di pesce che il bravo pescatore butta dinuovo nell’acqua perché possa ingrassare e valga la penaun giorno di cuocerlo e mangiarlo. Non voglio seccarviadesso con quel pensiero, per quanto, guardando attenta-mente, potrete trovarlo da sole in ciò che sto per dire.

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Tuttavia, per quanto fosse piccolo, possedeva, nondi-meno, quella misteriosa caratteristica che è propria dellasua specie: riportato nella mente, divenne subito moltoeccitante e molto importante; e guizzando e poi lascian-dosi cadere, e lampeggiando qua e là, creò un tale turbine etumulto di idee, che fu impossibile rimanere seduta. Fucosì che mi ritrovai ad attraversare con estrema rapiditàun terreno erboso. Immediatamente comparve la figuradi un uomo a fermarmi. Né d’altronde compresi subitoche le gesticolazioni di quell’oggetto strano, in giaccacorta e camicia da cerimonia, erano dirette a me. Il suovolto esprimeva orrore e indignazione. L’istinto, piuttostoche la ragione, venne in mio aiuto; lui era un custode; ioero una donna. Questo era il prato; quello il sentiero. Sol-tanto ai professori e agli universitari è permesso passeg-giare qui; la ghiaia è il posto per me. Tali pensieri furonoquestione di un momento. Non appena riguadagnai ilsentiero, le braccia del custode si abbassarono, il viso ri-tornò alla consueta compostezza, e, benché sia più co-modo camminare sull’erba che sulla ghiaia, non era suc-cesso niente di molto grave. L’unico rimprovero che po-tevo fare ai professori e agli studenti di qualunque fossequell’università, era che, per proteggere il loro prato,spianato per 300 anni di seguito, avessero fatto nascon-dere il mio pesciolino.Quale fosse stata l’idea che aveva causato la mia tanto au-dace intrusione, non riuscivo più a ricordare. Lo spiritodella pace discese come una nuvola dal cielo, perché se lospirito della pace dimora in qualche luogo, è nei cortili enei prati di Oxbridge, in una bella mattina di ottobre.Passeggiando attraverso quei collegi, lungo quelle antichesale, l’asprezza del presente sembrava addolcirsi; il corposembrava racchiuso in una vetrina miracolosa che non la-sciava penetrare nessun suono, e la mente, sciolta da ognilegame con la realtà (purché non si calpestasse il prato

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un’altra volta), era libera di dedicarsi a qualsiasi medita-zione fosse in armonia con il momento. Fu per volere delcaso che dei ricordi isolati di un vecchio saggio sul ri-torno a Oxbridge durante le vacanze mi rammentasseroCharles Lamb; “Santo Charles”, diceva Thackeray, pog-giando una lettera di Lamb sulla fronte. Infatti, tra tutti imorti (vi riporto i miei pensieri così come mi venivano),Lamb è uno dei più affini al mio spirito; colui al quale misarebbe piaciuto domandare: “Mi dica, come ha fatto ascrivere i suoi saggi?” Perché i suoi saggi sono superioripersino a quelli di Max Beerbohm, nonostante tutta laloro perfezione, pensai, grazie a quell’indomito lampodell’immaginazione, quella fulminante esplosione delgenio nel mezzo, che li lascia incrinati e imperfetti, mastellati di poesia. Dunque Lamb venne ad Oxbridge,forse cento anni fa. È certo che scrisse un saggio - il cuinome mi sfugge - sul manoscritto di una poesia di Miltonche si trovava qui. Era forse Licida; e Lamb scrisse dicome era stato sconvolgente per lui pensare alla possibi-lità che una qualunque parola di Licida avesse potuto es-sere diversa da come è adesso. Pensare che Milton avevamodificato le parole di quella poesia gli sembrava unasorta di sacrilegio. Ciò mi portò a ricordare tutti i passiche conoscevo di Licida, divertendomi ad indovinarequale poteva essere stata la parola che Milton aveva cam-biato, e perché. Mi venne in mente poi che proprio quelmanoscritto studiato da Lamb era solo a poche centinaiadi metri e avrei potuto seguire i passi di Lamb attraversola corte interna, verso quella famosa biblioteca in cui ècustodito il tesoro. Mi sovvenne, inoltre, mentre mettevoin esecuzione il mio piano, che in quella famosa biblio-teca si trova anche il manoscritto dell’Esmond diThackeray. I critici spesso affermano che Esmond è il ro-manzo più perfetto di Thackeray. Tuttavia, per quel cheriesco a ricordare, è d’impaccio l’affettazione dello stile,

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con la sua imitazione settecentesca; a meno che lo stilesettecentesco non riuscisse naturale a Thackeray - fattoche avrei potuto provare guardando il manoscritto e veri-ficando se i cambiamenti fossero a vantaggio dello stile odel significato. Ma allora dovremmo convenire su cos’è lostile e cos’è il significato, una questione che... ma eccomiarrivata alla porta che conduce proprio nella biblioteca.Devo averla aperta perché immediatamente ne vennefuori, come un angelo custode a precludere con disap-provazione il passaggio, tra svolazzi di una tunica nera in-vece che di bianche ali, un signore canuto e gentile, ilquale a bassa voce mi disse con rammarico, mentre mi fa-ceva segno di andare via, che le signore sono ammessealla biblioteca solo se accompagnate da un professore delcollege o munite di lettera di presentazione.Che una famosa biblioteca sia stata maledetta da unadonna, è cosa di nessuna importanza per una famosa bi-blioteca. Venerabile e tranquilla, con tutti i suoi tesori alsicuro nel suo seno, essa dorme compiaciuta e, per quantomi riguarda, così dormirà per sempre. Mai risveglieròquegli echi, mai più chiederò la sua ospitalità, giuravomentre scendevo le scale furibonda. Ancora un’ora man-cava per il pranzo; cosa si poteva fare? Vagabondare per iprati? Sedersi lungo il fiume? Certo era una bella mattinad’autunno; le foglie volteggiavano rosse fino a terra; farel’una o l’altra cosa non avrebbe comportato nessunagrande fatica. Ma un suono di musica arrivò alle mie orec-chie. Ci doveva essere qualche messa o celebrazione reli-giosa. Mentre passavo davanti alla cappella, l’organo si la-mentava sontuosamente. In quell’atmosfera serena, per-sino il dolore del cristianesimo risuonava più come il ri-cordo del dolore che non il dolore stesso; persino i la-menti del vecchio organo sembravano avvolti nella pace.Non avevo alcun desiderio di entrare, anche se ne avessiavuto il diritto; e questa volta avrebbe potuto fermarmi il

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sagrestano, chiedendomi forse il certificato di battesimo ouna lettera di presentazione del decano. Ma spesso l’e-sterno di questi magnifici edifici è bello quanto l’interno.Inoltre era piuttosto divertente guardare i fedeli adunarsi,entrare e uscire fuori di nuovo, affaccendati all’ingressodella cappella come api alla bocca di un alveare. Moltierano in tocco e toga; alcuni avevano bordi di pellicciasulle spalle; altri venivano spinti su sedie a rotelle; altri an-cora, benché non oltre la mezza età, sembravano raggrin-ziti e rattrappiti in forme talmente singolari da ricordarequei granchi giganteschi e quegli immensi gamberi che sisollevano con difficoltà sulla sabbia di un acquario.Stando appoggiata al muro, l’università mi appariva infatticome una riserva in cui si conservano quelle specie rareche si sarebbero subito estinte se lasciate a lottare per lavita sui marciapiedi dello Strand. Mi tornarono alla mentevecchie storielle di vecchi rettori e vecchi professori, maprima che avessi trovato il coraggio di fischiare - si dicevache il vecchio professor ***, appena sentiva un fischio, simetteva immediatamente a galoppare - la venerabile con-gregazione era entrata. Rimaneva l’esterno della cappella.Come sapete, le sue alte cupole e i suoi pinnacoli nonscompaiono mai dalla vista, come un veliero sempre inviaggio che non giunge mai a destinazione, illuminati dinotte e visibili per miglia, lontano oltre le colline. Untempo, probabilmente, anche la corte quadrata di questocollege, con i suoi prati curati, i suoi edifici imponenti e lacappella stessa, sarà stata una palude, dove le canne on-deggiavano e i maiali grufolavano. File di cavalli e buoi,pensai, devono aver trasportato carri di pietre da paesilontani; e poi con immensa fatica i massi grigi, alla cuiombra io ora indugiavo, furono ordinatamente posatil’uno sull’altro; e poi i pittori portarono il vetro per le ve-trate, e i muratori lavorarono per secoli su quel tetto constucco e cemento, vanga e cazzuola. Ogni sabato qual-

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cuno deve aver versato da un sacchetto di pelle oro e ar-gento nei loro palmi antichi, perché la sera probabilmentese la spassavano. Fiumi interminabili d’oro e d’argento,pensai, devono aver solcato questa corte senza sostaperché le pietre continuassero ad arrivare e i muratori alavorare, a livellare, fare fossati, scavare e prosciugare. Maera quella l’età della fede, e il denaro fu elargito in abbon-danza per porre queste pietre su fondamenta solide; e unavolta innalzati gli edifici, ancora più denaro fu versato daiforzieri di re e regine e grandi nobili perché qui si cantas-sero gli inni e gli studiosi vi fossero istruiti. Si donaronoterre; si pagarono decime. E quando si concluse l’età dellafede e sopraggiunse l’età della ragione, continuò lo stessofluire d’oro e d’argento; furono istituite cattedre; furonoconferiti incarichi; solo che l’oro e l’argento provenivaadesso, non dai forzieri dei re, ma dalle casse di mercantie fabbricanti, dalle borse di uomini che si erano costruitiuna fortuna con la loro operosità, e nei loro testamenti nerestituivano una parte cospicua per conferire più cattedre,più incarichi, più borse di studio, all’università in cui ave-vano imparato il mestiere. Di qui le biblioteche e i labora-tori; gli osservatori; lo splendido apparato di strumenti co-stosi e delicati che ora si trovano su mensole di vetro, làdove secoli fa le canne ondeggiavano e i maiali grufola-vano. Certo, meditavo gironzolando nel cortile, le fonda-menta d’oro e d’argento sembravano abbastanzaprofonde; il selciato poggiava solidamente sulle erbe sel-vatiche. Uomini con vassoi sulla testa si affaccendavano discala in scala. Fiori sgargianti sbocciavano sui davanzali.Dalle stanze interne le arie del grammofono arrivavano atutto volume. Era impossibile non riflettere - ma la mia ri-flessione, qualunque essa poteva essere, fu interrotta. L’o-rologio suonò. Era ora di andare a pranzo.È un fatto singolare che i romanzieri riescano a farci cre-dere che i pranzi siano immancabilmente memorabili per

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qualcosa di molto spiritoso che venne detto, o per qual-cosa di molto saggio che venne fatto. Raramente peròspendono qualche parola per quello che si è mangiato. Èparte delle convenzioni del romanziere non menzionarené minestra, né salmone e né anatra, come se minestra,salmone e anatra non fossero di alcuna importanza, comese mai nessuno fumasse un sigaro o bevesse un bicchieredi vino. Qui, tuttavia, mi prenderò la libertà di sfidarequella convenzione e di dirvi che il pranzo in quell’occa-sione cominciò con delle sogliole, distese in un piattoprofondo, che il cuoco del college aveva coperto con unostrato di crema bianchissima, se non per il fatto che erasegnata qua e là da macchie scure, come le macchie suifianchi di una daina. Seguirono le pernici, ma se ciò visuggerisce un paio di uccelli spennati e bruni su unpiatto, vi sbagliate. Le pernici, abbondanti e varie, arriva-rono con tutto il loro seguito di salse e insalate, quellepiccanti e quelle dolci, ognuna nel giusto ordine; con leloro patate, sottili come monete ma non altrettanto dure;i loro cavolini, gonfi di petali come boccioli di rosa, mapiù succulenti. E non appena si terminò con l’arrosto e ilsuo seguito, il silenzioso cameriere, forse il custode stessoin una manifestazione più gentile, posava davanti a noi,avvolto di tovaglioli, un dolce che era un gonfiarsi di zuc-chero in tutte le sue ondulazioni. Chiamarlo budino, equindi associarlo a riso e tapioca, sarebbe un insulto. Nelfrattempo i calici si erano accesi di giallo e di rosso; eranostati vuotati; erano stati riempiti. E così gradualmente siaccendeva, a metà strada lungo la spina dorsale, sede del-l’anima, non quella piccola e vivida luce elettrica chechiamiamo intelligenza vivace, perché esplode e si spegnesulle nostre labbra, ma l’incandescenza più profonda, sot-tile e sotterranea che è la fiamma giallo brillante della co-municazione razionale. Senza fretta. Senza scintille. Senzadover essere altro che se stessi. Stiamo tutti andando in

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paradiso e Vandyck fa parte della compagnia; in altre pa-role, come appariva bella la vita, dolci le sue ricompense,insignificante questo rancore o quel risentimento, ammi-revole l’amicizia e la compagnia dei nostri simili, quando,accendendo una buona sigaretta, affondavamo tra i cu-scini, nel divano accanto alla finestra.Se avessi avuto la fortuna di avere un portacenere a por-tata di mano; se, non trovandolo, non avessi fatto cadere lacenere fuori della finestra; se le cose fossero state un po’diverse da come erano, non avrei visto, probabilmente, ungatto senza coda. Vedere quell’animale inatteso e mozzatoattraversare lento e silenzioso il cortile mutò in me, col-pendo inaspettatamente l’intelligenza inconscia, la lucedell’emozione. Fu come se qualcuno avesse gettatoun’ombra. Forse l’ottimo vino del Reno stava abbando-nando la presa. Certo, mentre guardavo quel gatto senzacoda soffermarsi nel mezzo del prato come se anch’essointerrogasse l’universo, qualcosa sembrava mancare, c’eraqualcosa di diverso. Ma che cosa mancava, cosa c’era didiverso?, mi chiedevo, ascoltando la conversazione. E perrispondere a quella domanda dovetti immaginarmi fuoridella stanza, indietro nel passato, prima della guerra in ve-rità, e porre davanti ai miei occhi l’immagine di un altropranzo, tenuto in stanze non molto distanti da queste; madiverse. Tutto era diverso. Intanto la conversazione conti-nuava tra gli invitati, che erano tanti e giovani, di un sesso odell’altro; procedeva a meraviglia, procedeva piacevol-mente, libera, divertente. E mentre procedeva, la sovrap-posi a quell’altra conversazione, e mentre le confrontavo,non avevo alcun dubbio che una era la discendente, l’e-rede legittima dell’altra. Niente era cambiato; niente eradiverso, tranne solo... E qui mi misi ad ascoltare intensa-mente, non esattamente quello che stavano dicendo, ma ilmormorio o la corrente dietro le loro parole. Sì, ecco co-s’era; questo era il cambiamento. Prima della guerra, a un

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pranzo come questo, si sarebbero dette esattamente lestesse cose, ma avrebbero avuto un suono diverso, perchéin quei giorni erano accompagnate da una sorta di ronzioinarticolato ma musicale, eccitante, che trasformava il va-lore delle parole stesse. Si poteva tradurre quel ronzio inparole? Forse con l’aiuto dei poeti. C’era un libro accantoa me e, nell’aprirlo, mi rivolsi quasi per caso a Tennyson.Ed ecco Tennyson che cantava:

“È caduta una splendida lacrimadalla passiflora al cancello.Ella arriva, la mia colomba, il mio tesoro;ella arriva, la mia vita, il mio destino;La rosa rossa grida, ‘Si avvicina, si avvicina’.E la rosa bianca piange, ‘È in ritardo’;la speronella ascolta, ‘La sento, la sento’;e il giglio sussurra, ‘L’aspetto’.”

Era questo ciò che gli uomini mormoravano ai pranziprima della guerra? E le donne?

“Il mio cuore è come un uccello canoroche ha fatto il nido su un ramo bagnato;il mio cuore è come un albero di meledai rami curvi per i frutti abbondanti;il mio cuore è come una conchiglia arcobalenoche voga in un mare calmo;il mio cuore di tutti questi è il più feliceperché il mio amore è giunto da me.”

Era questo ciò che le donne mormoravano ai pranziprima della guerra?C’era qualcosa di così comico nell’idea che la gente aipranzi prima della guerra potesse mormorare simili cose,anche se sottovoce, che scoppiai a ridere; e dovetti spie-

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gare la mia risata indicando il gatto, che sembrava un po’assurdo, povera bestia, senza coda, nel mezzo del prato.Era davvero nato così, o aveva perso la coda in un inci-dente? Il gatto senza coda, benché si dica che ne esistanoalcuni sull’isola di Man, è più raro di quanto si possapensare. È un animale strano, più bizzarro che bello.Strano che una coda faccia tanta differenza... sapete iltipo di cose che si dicono alla fine di un pranzo quandola gente va in cerca del proprio cappotto e cappello.Questo pranzo, grazie all’ospitalità dell’anfitrione, si eraprotratto fino a pomeriggio inoltrato. La bella giornata diottobre si dileguava, e mentre percorrevo il viale, le fogliecadevano dagli alberi. Cancello dopo cancello sembravachiudersi dietro di me con fermezza cortese. Innumere-voli custodi inserivano innumerevoli chiavi in serratureben oliate; i tesori venivano messi al sicuro per un’altranotte. Dopo il viale si arriva a una strada - di cui misfugge il nome - che vi conduce, se prendete la svoltagiusta, fino a Fernham. Ma c’era tanto tempo. La cenanon era prima delle sette e mezzo. Si poteva quasi fare ameno della cena dopo un pranzo simile. È strano comeun frammento di poesia rimanga nella mente e facciamuovere le gambe al suo ritmo. Quelle parole:

“È caduta una splendida lacrimadalla passiflora al cancello.Ella arriva, la mia colomba, il mio tesoro... ”

cantavano nel mio sangue, mentre camminavo veloce-mente verso Headingley. E poi, passando all’altro ritmo,cantavo, dove le acque sono agitate dalla diga:

“Il mio cuore è come un uccello canoroche ha fatto il nido su un ramo bagnato;il mio cuore è come un albero di mele... ”

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Che poeti! - esclamai forte, come si fa nella penombra,che poeti erano quelli!Per una sorta di rivalità con la nostra epoca, suppongo,per quanto questi paragoni siano stupidi e insensati, michiesi poi se davvero si potessero indicare due poeti vi-venti grandi oggi come Tennyson e Christina Rossetti loerano allora. Ovviamente è impossibile, pensai, guar-dando in quelle acque spumeggianti, metterli a con-fronto. La sola ragione per cui quella poesia infiamma untale trasporto, un tale rapimento, è che essa esalta un sen-timento già provato (ai pranzi prima della guerra forse),sicché vi rispondiamo facilmente, familiarmente, senzapreoccuparci di esaminare il sentimento, o di paragonarlo aquelli che proviamo adesso. Ma i poeti viventi esprimonoun sentimento che in realtà viene creato in noi e a noistrappato allo stesso momento. Innanzitutto non lo rico-nosciamo; spesso, per qualche ragione, ne abbiamopaura; lo osserviamo intensamente, confrontandolo coninvidia e sospetto con il vecchio sentimento che già cono-scevamo. Di qui la difficoltà della poesia moderna; ed è acausa di questa difficoltà che non riusciamo a ricordarepiù di due versi consecutivi di qualunque buon poetamoderno. Per questa ragione - che la memoria mi venne amancare - la discussione illanguidì per mancanza di mate-riale. Ma perché, continuai, proseguendo verso Headin-gley, abbiamo smesso di mormorare a bassa voce aipranzi? Perché Alfred ha smesso di cantare:

“Ella arriva, la mia colomba, il mio tesoro.”

Perché Christina ha smesso di rispondere:

“Il mio cuore di tutti questi è il più feliceperché il mio amore è giunto da me?”

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Dobbiamo dare la colpa alla guerra? Quando i cannonisparavano, nell’agosto del 1914, era così chiaro, sui voltidegli uomini e delle donne, gli uni negli occhi degli altri,che la poesia era morta? Certo è stato un duro colpo (perle donne in particolare, con le loro illusioni sull’istruzione ecosì via) vedere le facce dei nostri governanti alla luce deibombardamenti. Così brutti apparivano - tedeschi, in-glesi, francesi - così stupidi. Ma da qualunque partestesse, e di chiunque fosse la colpa, l’illusione che ha ispi-rato Tennyson e Christina Rossetti a cantare così appas-sionatamente dell’arrivo dei loro innamorati è molto piùrara adesso di allora. Basta leggere, guardare, ascoltare,ricordare. Ma perché parlare di “colpa”? Perché, se eraun’illusione, non lodare la catastrofe, qualunque essafosse, che ha distrutto l’illusione e l’ha sostituita con laverità? Perché la verità... i puntini segnano il momento incui, in cerca della verità, non mi sono accorta della svoltaper Fernham. Allora, qual era la verità e quale l’illu-sione?, mi chiesi. Qual era la verità su queste case, peresempio, indistinte e in festa adesso con le loro finestrerosse nella luce del crepuscolo, ma rozze, rosse e sordide,con i loro dolci e i lacci per le scarpe, alle nove di mat-tina? E i salici e il fiume e i giardini che corrono fino alfiume, impalpabili adesso per la nebbia che scende fur-tiva, ma dorati e rossi nella luce del sole... qual era la loroverità, quale l’illusione? Vi risparmio tutti i serpeggia-menti delle mie meditazioni perché non fu raggiunta nes-suna conclusione sulla strada per Headingley, e vi chiedo diimmaginare che presto scoprii il mio errore a propositodel bivio e ritornai indietro verso Fernham.Poiché ho già detto che era un giorno di ottobre, non osoperdere il vostro rispetto e danneggiare il buon nome delromanzo cambiando la stagione e descrivendo lillà chependevano dai muri dei giardini, crochi, tulipani e altrifiori di primavera. Il romanzo deve essere fedele ai fatti, e

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quanto più veri sono i fatti, tanto migliore è il romanzo,così ci dicono. Era ancora autunno, dunque, e le foglieerano ancora gialle e cadevano, se mai, un po’ più veloce-mente di prima, perché era ormai sera (le sette e ventitréper la precisione) e si era levata una brezza (da sud-ovestper l’esattezza). Eppure stava succedendo qualcosa distrano:

“Il mio cuore è come un uccello canoroche ha fatto il nido su un ramo bagnato;il mio cuore è come un albero di meledai rami curvi per i frutti abbondanti... ”

forse le parole di Christina Rossetti erano in parte re-sponsabili della follia della mia fantasia - naturalmentenon era nient’altro che una fantasia: il lillà dondolava isuoi fiori dai muri del giardino, e le farfalle giallo sulfureofuggivano di qua e di là, e il pulviscolo del polline era nel-l’aria. Un vento soffiava, da quale parte non so, ma solle-vava le foglie ancora giovani, sicché c’era un lampo digrigio argenteo nell’aria. Era l’ora del crepuscolo quando icolori vengono intensificati e il porpora e l’oro fiammeg-giano alle finestre come il battito di un cuore eccitabile;quando inspiegabilmente la bellezza del mondo rivelato,e tuttavia destinato a perire subito (qui entrai nel giar-dino perché imprudentemente avevano lasciato il can-cello aperto e nessun custode sembrava essere in giro), labellezza del mondo che dovrà così presto morire, ha duelame, una del riso, l’altra del tormento, che tagliano ilcuore in due. I giardini di Fernham si stendevano davanti ame nel crepuscolo primaverile, selvatici e aperti, e nel-l’erba alta, sparsi a caso, c’erano narcisi e campanule, nonordinati forse neanche in momenti migliori, ma ora pie-gati e ondeggianti per il vento che sembrava volerli sradi-care. Le finestre della casa, curve come le finestre delle

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navi tra onde generose di mattoni rossi, mutavano dalgiallo limone all’argento al passaggio delle veloci nuvoleprimaverili. C’era qualcuno su un’amaca; qualcuno, main questa luce le persone erano solo fantasmi, metà indovi-nati, metà visti, attraversava di corsa il prato - non la fer-mava nessuno? - e poi sul terrazzo, quasi a fare un saltofuori per prendere aria, per dare un’occhiata al giardino,apparve una figura curva, solenne eppure umile, con lafronte spaziosa e il vestito logoro; poteva essere la famosastudiosa, poteva essere J... H... in persona? Era tutto con-fuso, ma intenso anche, come se la sciarpa che il crepu-scolo aveva gettato sul giardino fosse stata lacerata da unastella o una spada... lo scintillio di qualche terribile realtàche balzava, come è suo solito, dal cuore della primavera.Perché la giovinezza...Ecco la mia minestra. La cena era servita nella grande salada pranzo. Lungi dall’essere primavera, era in realtà unasera di ottobre. Erano tutti riuniti nella grande sala dapranzo. La cena era pronta. Ecco la minestra. Era un sem-plice brodo di carne. Niente che stimolasse la fantasia. At-traverso il liquido trasparente si sarebbe potuto vederequalsiasi disegno ci fosse stato sul piatto. Ma non c’eraalcun disegno. Il piatto era bianco. Seguì poi il manzo concontorno di verdure e patate, familiare trinità che evocaposteriori di bestiame in un mercato fangoso, e cavolinidagli orli increspati e ingialliti, e il contrattare e il calare diprezzo e le donne con le sporte il lunedì mattina. Nonavevamo alcuna ragione di lamentarci del nostro ciboquotidiano, visto che ce ne davano a sufficienza e senzadubbio i minatori pranzavano con meno. Seguironoprugne secche con la crema. E se qualcuno protesta che leprugne secche, anche quando addolcite dalla crema, sonoortaggi poco caritatevoli (frutta non sono), filamentosecome il cuore di un avaro ed essudanti un fluido qualepotrebbe scorrere nelle vene di un avaro che si è privato

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per ottant’anni del vino e del caldo e non ha ancora datoniente ai poveri, dovrebbe pensare che ci sono persone lacui carità comprende anche le prugne secche. Seguironopoi biscotti e formaggio, e qui la brocca dell’acqua fufatta generosamente circolare, perché è nella natura deibiscotti essere secchi, e questi erano veri biscotti. Fututto. Il pasto era terminato. Ognuno spinse indietro lapropria sedia; i battenti delle porte oscillarono violente-mente avanti e indietro; subito la sala fu sgombra di ognitraccia di cibo: doveva essere preparata per la colazionedel mattino seguente. Lungo i corridoi e su per le scale lagioventù d’Inghilterra andava rumoreggiando e cantando.E poteva un’ospite, un’estranea (perché non avevo più di-ritto a stare qui, a Fernham, che non al college di Trinity oSomerville o Girton o Newnham o Christchurch), dire:“La cena non era buona”, o domandare: (eravamo adesso,Mary Seton ed io, nella sua stanza) “Non avremmo po-tuto cenare quassù da sole?”; perché se avessi detto qual-cosa del genere avrei curiosato e frugato nell’economia se-greta di una casa che all’estraneo mostra una così bellafacciata di gaiezza e coraggio. No, non si poteva direniente di simile. Certo, la conversazione per un attimosembrò languire. Poiché l’essere umano è costruito inmodo che cuore, corpo e cervello siano tutti insieme, enon racchiusi in compartimenti separati (come certa-mente lo saranno tra un milione di anni), una buona cena èdi grande importanza per una buona conversazione. Nonsi può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si ècenato bene. La lampadina della spina dorsale non si ac-cende con manzo e prugne secche. Probabilmente an-dremo tutti in paradiso, e Vandyck sarà ad aspettarci, spe-riamo, al primo angolo: questo è lo stato d’animo incertoe dubbioso che, messi insieme, manzo e prugne secchepossono creare dopo una giornata di lavoro. Per fortunala mia amica, che insegnava scienze, aveva in una cre-

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denza una bottiglia quadrata e dei bicchierini (ma tantoper cominciare ci sarebbero voluti sogliola e pernice), cosìche potemmo avvicinarci al fuoco per rimediare in parteai danni della giornata. Dopo qualche minuto scivola-vamo liberamente dall’uno all’altro di quegli oggetti dicuriosità e interesse che prendono forma nella mente du-rante l’assenza di una data persona, e che vengono natu-ralmente discussi quando ci si rivede - un tale si è sposato,un altro no; uno pensa questo, un altro quello; uno è mi-gliorato incredibilmente, l’altro è peggiorato nel modopiù sorprendente, con tutte quelle speculazioni sulla na-tura umana e sul tipo di mondo sconcertante in cui vi-viamo, che scaturiscono naturalmente da simili inizi.Mentre si parlava di queste cose, tuttavia, mi accorsi, conimbarazzo, di una corrente che stava insorgendo di suainiziativa e sospingeva ogni cosa nella propria direzione.Si sarebbe potuto parlare della Spagna o del Portogallo,di libri o di corse di cavalli, ma il vero interesse di quantoveniva detto non era per nessuna di quelle cose, bensì peruna scena di muratori su un alto tetto, all’incirca cinquesecoli fa. Re e nobili portavano le loro ricchezze in sacchiimmensi e le versavano sottoterra. Questa scena rivivevacontinuamente nella mia mente accanto ad un’altra,quella delle vacche magre e un mercato fangoso e verdureavvizzite e i cuori filamentosi dei vecchi; queste due im-magini, incoerenti, sconnesse e prive di senso, ritornavanosempre insieme, e combattevano l’una contro l’altra, e ioero completamente alla loro mercé. Perché l’intera con-versazione non ne risultasse distorta, era preferibileesporre chiaramente ciò che era nella mia mente, così che,con un po’ di fortuna, avrebbe perso consistenza e si sa-rebbe sgretolato come la testa del re morto quando fuaperta la sua bara a Windsor. In poche parole, quindi,raccontai alla signorina Seton dei muratori che erano statitutti quegli anni sul tetto della cappella, e dei re e delle re-

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gine e dei nobili che portarono sulle spalle sacchi d’oro ed’argento, che poi versarono nella terra; e poi di come iricchi magnati dei nostri tempi vennero a deporre assegni etitoli, suppongo, dove gli altri avevano deposto lingotti eruvidi grumi d’oro. Tutto ciò giace sotto i collegi laggiù,dissi; ma questo college, dove siamo ora sedute, che cosac’è sotto i suoi bei mattoni rossi e l’erba alta e incolta delgiardino? Che forza c’è dietro quella porcellana senza de-cori in cui abbiamo cenato, e (questo mi scappò di boccaprima che potessi fermarlo) dietro il manzo, la crema e leprugne?Dunque, disse Mary Seton, intorno al 1860... Oh, ma tuconosci la storia, soggiunse, annoiata, suppongo, dal rac-conto. E cominciò: si affittarono delle stanze. Si riuni-rono in comitati. Si spedirono lettere. Si prepararono vo-lantini. Si organizzarono riunioni; si lessero le lettere rice-vute; il tale ha promesso tanto; il signor..., invece, nondarà un centesimo. La Saturday Review è stata moltoscortese. Come possiamo raccogliere i soldi per pagare gliuffici? Dobbiamo dare una vendita di beneficenza? Nonpossiamo trovare una ragazza carina che si sieda in primafila? Controlliamo cosa ha detto John Stuart Mill sull’ar-gomento. Nessuno riesce a convincere il direttore del... apubblicare una lettera? Possiamo persuadere Lady... a fir-marla? Lady... è fuori città. È probabile che così anda-rono le cose, sessant’anni fa, ed è stato uno sforzo prodi-gioso, che ha richiesto moltissimo tempo. E solo dopouna lunga battaglia, e con estreme difficoltà, misero in-sieme trentamila sterline.1 È ovvio, quindi, che non pos-siamo avere vino e pernici e camerieri con vassoi sullatesta, disse. Non possiamo avere divani e appartamenti.— Le amenità — disse, citando da qualche libro — do-vranno aspettare.2

Al pensiero di tutte quelle donne che lavorarono per anni eanni e trovarono difficile racimolare duemila sterline, e

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quello che riuscirono a fare fu solo metterne insiemetrentamila, fummo prese dal disprezzo per la riprovevolepovertà del nostro sesso. Come allora avevano passato iltempo le nostre madri, per non avere nessuna ricchezzada lasciarci? Incipriandosi il naso? Guardando le vetrinedei negozi? Pavoneggiandosi nel sole di Montecarlo? C’e-rano delle fotografie sulla mensola del camino. La madredi Mary - se quella era la sua fotografia - potrà forse aversprecato il suo tempo libero (ebbe tredici figli da un mi-nistro della chiesa), ma, se così è stato, la sua vita allegra edissipata aveva lasciato troppo pochi segni del piacere sulsuo volto. Era una persona senza pretese; una vecchia si-gnora in uno scialle a quadri fermato da un grandecammeo, seduta in una sedia di vimini, che incoraggiavaun cane a guardare la macchina fotografica, con l’espres-sione divertita ma tesa di chi è certo che il cane si muo-verà non appena verrà scattata la fotografia. Ebbene, se sifosse dedicata agli affari; se fosse diventata un industrialedella seta artificiale o una magnate della Borsa; se avesselasciato due o trecentomila sterline a Fernham, ci sa-remmo potute sedere comodamente stasera a conversaredi archeologia, botanica, antropologia, fisica, la naturadell’atomo, matematica, astronomia, relatività, geografia.Se solo la signora Seton e sua madre e sua madre primadi lei avessero imparato la grande arte del fare soldi eavessero lasciato in eredità il loro denaro, come fecero iloro padri e i loro nonni, per istituire cattedre e premi eborse di studio destinate al loro sesso, avremmo potutocenare molto accettabilmente quassù con un volatile euna bottiglia di vino; avremmo potuto presagire senza in-debita sicurezza una vita piacevole e onorevole trascorsaal riparo di una delle professioni generosamente sovven-zionate. Avremmo potuto esplorare o scrivere; bighello-nare per i luoghi venerabili della terra; sedere in contem-plazione sui gradini del Partenone, o andare in ufficio

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alle dieci e tornare a casa comodamente alle quattro emezza per scrivere della poesia. Solo che, se la signoraSeton e altre come lei si fossero dedicate agli affari all’età diquindici anni, non ci sarebbe stata - era questo l’intoppodell’argomentazione - nessuna Mary. Cosa ne pensavaMary?, chiesi. Tra le tende si intravvedeva la notte di ot-tobre, calma e leggiadra, con una o due stelle prigionieretra gli alberi quasi ingialliti. Era disposta a rinunciare allasua parte di quella notte e ai ricordi (perché la sua erastata una famiglia felice, anche se numerosa) dei giochi edei litigi in Scozia, terra che lei non è mai stanca di de-cantare per la purezza dell’aria e la bontà delle torte,purché Fernham avesse potuto ricevere una donazione dicinquantamila sterline con un sol tratto di penna? Perchéfinanziare un college richiederebbe necessariamente lacompleta soppressione della famiglia. Accumulare unafortuna e dare alla luce tredici figli: nessun essere umanopotrebbe reggere. Consideriamo i fatti, dicemmo. Primadi tutto passano nove mesi prima che il bambino nasca.Poi il bambino nasce. Poi ci vogliono tre o quattro mesiper allattarlo. Dopo che è stato svezzato, passano certa-mente cinque anni a giocare con il bambino. Non si può, aquanto pare, lasciar scorrazzare i bambini per la strada.Chi li ha visti crescere senza freni in Russia dice che nonè un bello spettacolo. Si dice, anche, che la natura umana siforma nei primi cinque anni. Se la signora Seton, dissi,fosse stata occupata a fare soldi, che ricordi avresti avuto digiochi e litigi? Cosa avresti conosciuto della Scozia, edella sua aria pura e delle torte e di tutto il resto? Ma èinutile fare queste domande, perché non saresti affattovenuta al mondo. Per di più, è ugualmente inutile chie-dersi cosa sarebbe potuto accadere se la signora Seton esua madre e sua madre prima di lei avessero accumulatograndi ricchezze e le avessero depositate sotto le fonda-menta del college e della biblioteca, perché, in primo

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luogo, era impossibile per loro guadagnare del denaro, e, insecondo luogo, se ciò fosse stato possibile, la legge ne-gava loro il diritto di possedere il denaro che avesseroguadagnato. È solo negli ultimi quarantotto anni che lasignora Seton ha avuto un centesimo di sua proprietà.Per tutti i secoli precedenti quei soldi sarebbero apparte-nuti al marito, un pensiero questo, che forse può averavuto il suo peso nel tenere lontane la signora Seton e lesue antenate dalla Borsa. Ogni centesimo che guadagno,si saranno forse dette, mi sarà tolto e investito secondo ilgiudizio di mio marito; forse per istituire una borsa distudio o sovvenzionare una cattedra al Balliol o a Kings;guadagnare del denaro, di conseguenza, anche se potessifarlo, non è una cosa che mi interessa molto. Meglio la-sciarla a mio marito. Ad ogni modo, fosse o meno colpa della vecchia signorache guardava il cane, non c’era alcun dubbio che perqualche ragione le nostre madri avevano molto mal curato iloro affari. Neanche un centesimo poteva esser messo daparte per le “amenità”; per pernici e vino, custodi e prato,libri e sigari, biblioteche e svaghi. Alzare nude pareti dallanuda terra era il massimo che potessero fare.Così conversavamo accanto alla finestra guardando, cometante migliaia di persone guardano ogni sera, le cupole ele torri della famosa città sotto di noi. Era molto bella,molto misteriosa alla luce della luna autunnale. La vecchiapietra appariva bianchissima e venerabile. Veniva da pen-sare a tutti i libri riuniti laggiù; ai ritratti di vecchi prelati enotabili appesi nelle stanze rivestite di legno; alle finestredecorate che forse proiettavano strani globi e mezze lunesul selciato; alle lapidi, ai monumenti e alle iscrizioni; allefontane e ai prati; alle stanze silenziose che davano su cortilisilenziosi. E (perdonatemi il pensiero) pensai anche alleottime sigarette e ai liquori, alle poltrone profonde e ai beitappeti; alla cortesia, la cordialità, la dignità che nascono

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dal lusso, dall’intimità e dallo spazio. Certo le nostremadri non ci avevano procurato niente di paragonabile atutto ciò, le nostre madri che ebbero difficoltà a racimo-lare trentamila sterline, le nostre madri che diedero allaluce tredici figli ad un pastore protestante di St Andrews.Così ritornai alla mia locanda, e mentre camminavo per lestrade buie riflettevo su questo e quello, come si fa allafine di una giornata di lavoro. Riflettevo sul perché la si-gnora Seton non ci aveva lasciato un centesimo; e qualera l’effetto della povertà sulla mente; e quale l’effettodella ricchezza sulla mente; e pensai agli strani vecchi si-gnori che avevo visto quella mattina, con i bordi di pel-liccia sulle spalle; e ricordai che se qualcuno fischiavauno di loro si sarebbe messo a correre; e pensai all’or-gano tuonante nella cappella e alle porte chiuse della bi-blioteca; e pensai a come sia spiacevole essere chiusifuori; e pensai a come sia peggio forse essere chiusidentro; e, pensando alla sicurezza e alla prosperità di unsesso e alla povertà e all’insicurezza dell’altro, e all’effettodella tradizione e dell’assenza di tradizione sulla mente diuno scrittore, pensai infine che era tempo di arrotolare latela sgualcita della giornata, con le sue discussioni, le sueimpressioni, la sua rabbia e la sua gioia, e di buttarla nellasiepe. Migliaia di stelle brillavano nei deserti blu delcielo. Mi sembrava di essere sola con una compagnia in-scrutabile. Tutti gli esseri umani erano addormentati: di-stesi, orizzontali, silenziosi. Nessuno sembrava muoversiper le strade di Oxbridge. Persino la porta dell’albergo sispalancò di scatto, come al tocco di una mano invisibile;neanche un facchino era sveglio per accompagnarmi finoin camera; era così tardi.

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II

Ora la scena, se posso chiedervi di seguirmi, è cambiata.Le foglie stavano ancora cadendo, ma a Londra adesso,non ad Oxbridge; e devo chiedervi di immaginare unastanza, come migliaia di altre, con una finestra che oltre icappelli della gente e i furgoni e le macchine, guarda altrefinestre, e sul tavolo nella stanza un foglio bianco sulquale era scritto in grande: LE DONNE E IL RO-MANZO, niente di più. Sfortunatamente l’inevitabile ef-fetto del pranzo e della cena ad Oxbridge sembrava es-sere una visita al British Museum. Bisognava filtrarequanto c’era di personale e accidentale in tutte quelle im-pressioni per ottenere il puro fluido, l’olio essenzialedella verità. Perché quella visita ad Oxbridge, il pranzo e lacena, avevano fatto nascere una folla di domande. Perchégli uomini bevevano vino e le donne acqua? Perché unsesso era così prospero e l’altro così povero? Che effettiha la povertà sul romanzo? Quali condizioni sono neces-sarie per la creazione di opere d’arte? Mille domande sipresentavano tutte insieme. Ma c’era bisogno di risposte,non di domande; e una risposta si poteva ottenere solointerpellando i colti e gli imparziali, coloro i quali si sonoposti al di sopra dei conflitti della parola e della confu-sione del corpo e hanno consegnato il risultato dei lororagionamenti e delle loro ricerche a libri che devono ne-cessariamente trovarsi al British Museum. Se non si riesce atrovare la verità sugli scaffali del British Museum, dov’è,

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mi chiesi, prendendo un taccuino e una matita, la verità?Così equipaggiata, così fiduciosa e avida di sapere, partiiin cerca della verità. La giornata, benché non propriopiovosa, era tetra, e le strade nei dintorni del museoerano piene di botole aperte nelle quali venivano vuotatisacchi di carbone; delle carrozze si accostavano e deposi-tavano sul marciapiede casse legate con delle corde condentro, presumibilmente, l’intero guardaroba di qualchefamiglia svizzera o italiana in cerca di fortuna o di rifugio odi qualche altra desiderabile comodità che si possa tro-vare in inverno nelle pensioni di Bloomsbury. I soliti uo-mini dalla voce roca sfilavano per le strade con le loropiante sui carretti. Alcuni gridavano; altri cantavano.Londra era come un’officina. Londra era come una mac-china. Noi eravamo tutti lanciati avanti e indietro suquelle semplici fondamenta come per creare un disegno.Il British Museum era un altro reparto della fabbrica. Leporte a vento si spalancarono; e ci si trovava sotto lagrande cupola, come un pensiero nell’immensa frontenuda splendidamente circondata da una fascia di nomifamosi. Ci si dirigeva verso il banco; si prendeva un pez-zetto di carta; si apriva un volume del catalogo, e.....questi cinque puntini indicano cinque interi minuti distupore, meraviglia e sbigottimento. Avete idea di quantilibri vengono scritti ogni anno sulle donne? Avete idea diquanti sono scritti da uomini? Siete consapevoli di essere,forse, l’animale più discusso dell’universo? Ero dunquearrivata con un quaderno e una matita, intenzionata a tra-scorrere una mattinata a leggere, supponendo che allafine di essa avrei trasferito la verità sul mio quaderno. Maavrei dovuto essere un branco di elefanti, pensai, e un’infi-nità di ragni, alludendo disperata agli animali consideratii più longevi e con il maggior numero di occhi, per farfronte a tutto quel lavoro. Avrei avuto bisogno di cheled’acciaio e di un becco d’ottone solo per farmi strada

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oltre il ciarpame. Come riuscirò mai a trovare i granidella verità confusi in tutta questa massa di carta?, michiesi e presa dalla disperazione, cominciai a scorrere piùvolte il lungo elenco di titoli. Persino i titoli dei libri midavano da pensare. Il sesso e la sua natura potranno sicu-ramente incuriosire dottori e biologi; ma la cosa sorpren-dente, e difficile da spiegare, era il fatto che il sesso - ladonna, cioè - incuriosisce anche amabili saggisti, roman-zieri dal tocco leggero, giovani con la specializzazione;uomini senza laurea; uomini che non hanno nessun titoloevidente oltre a quello di non essere donne. Alcuni diquesti libri erano, a prima vista, frivoli e divertenti; mamolti altri invece erano seri e profetici, morali ed esorta-tivi. La sola lettura dei titoli suggeriva innumerevoli pro-fessori, innumerevoli prelati, che salivano sulle cattedre esui pulpiti e declamavano con una loquacità che superavadi gran lunga l’ora di solito assegnata a tali orazioni suquesto argomento. Era un fenomeno estremamentestrano; e in apparenza - qui consultai la lettera U - limi-tato al sesso maschile. Le donne non scrivono libri sugliuomini; un fatto che non potei fare a meno di accoglierecon sollievo, perché se avessi prima dovuto leggere tuttoquello che gli uomini hanno scritto sulle donne, e poitutto quello che le donne hanno scritto sugli uomini,l’aloe che fiorisce una volta ogni cento anni fiorirebbedue volte prima che potessi mettere nero su bianco. Per-tanto, scegliendo in maniera del tutto arbitraria una doz-zina di volumi all’incirca, lasciai i miei pezzetti di cartanel cestino, e aspettai nel mio scomparto, tra gli altri ri-cercatori dell’olio essenziale della verità.Quale poteva essere la ragione, dunque, di questa stranadifferenza, mi chiedevo mentre disegnavo ruote sui tal-loncini di carta forniti dai contribuenti britannici per altriscopi. Perché, a giudicare da questo catalogo, le donnesono tanto più interessanti per gli uomini di quanto non

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siano gli uomini per le donne? Sembrava un fatto moltostrano, e la mia mente cominciò a vagabondare immagi-nando la vita di quegli uomini che trascorrono il lorotempo scrivendo libri sulle donne; mi chiedevo se eranovecchi o giovani, sposati o scapoli, con il naso rosso ogobbi; ad ogni modo, era vagamente lusinghiero sentirsil’oggetto di tale attenzione, purché non provenisse sol-tanto dagli invalidi e dagli infermi. Così riflettevo,quando una valanga di libri, scaricata sul tavolo davanti ame, pose fine a tutti questi frivoli pensieri. Ora comincia-vano i guai. Lo studente che a Oxbridge è stato preparatoalla ricerca possiede certamente un metodo per poter gui-dare il suo quesito attraverso ogni distrazione, finchéquesto non trova la sua soluzione come una pecora troval’ovile. Lo studente accanto a me, per esempio, che stavatrascrivendo senza interruzione da un manuale scienti-fico, estraeva, ne ero sicura, pure pepite di minerale es-senziale ogni dieci minuti circa. Tanto lasciavano inten-dere i suoi piccoli grugniti di soddisfazione. Ma se, sfor-tunatamente, non si possiede alcuna istruzione universi-taria, il problema, lungi dall’essere condotto al suo ovile,fugge di qua e di là, alla rinfusa, come un gregge spaven-tato inseguito da un intero branco di cani. Professori,maestri, sociologi, ministri della chiesa, romanzieri, sag-gisti, giornalisti, uomini senza titoli eccetto quello di nonessere donne, inseguivano la mia unica e semplice do-manda - Perché le donne sono povere? - fino a farla di-ventare cinquanta domande; finché le cinquanta do-mande non si lanciavano frenetiche in mezzo al fiume evenivano trascinate via. Tutte le pagine del mio quadernoerano scarabocchiate di appunti. Per mostrarvi lo statod’animo in cui mi trovavo, ve ne leggerò alcuni, premet-tendo che la pagina aveva come titolo semplicemente,DONNE E POVERTÀ, a lettere maiuscole; ma quantoseguiva era pressappoco questo: Condizioni nel Me-

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dioevo delle, Abitudini nelle isole Figi delle, Adoratecome divinità da, Più deboli in senso morale degli, Idea-lismo delle, Maggiore coscienziosità delle, Abitanti delleisole dei Mari del Sud, età della pubertà tra gli, Fascinodelle, Offerte in sacrificio a, Minori dimensioni del cer-vello delle, Subconscio più profondo delle, Minore pelo-sità sul corpo delle, Inferiorità mentale, morale e fisicadelle, Amore per i bambini nelle, Maggiore lunghezzadella vita delle, Muscoli più deboli delle, Forza degli af-fetti delle, Vanità delle, Istruzione superiore delle, Opi-nione di Shakespeare sulle, Opinione di Lord Birkenheadsulle, Opinione del decano Inge sulle, Opinione di LaBruyère sulle, Opinione del Dr. Johnson sulle, Opinionedi Oscar Browning sulle...Qui ripresi fiato e aggiunsi, a margine, in verità: perchéSamuel Butler dice: “Gli uomini saggi non dicono maicosa pensano delle donne”? Gli uomini saggi non dicononient’altro, a quanto pare. Tuttavia, continuai, appog-giandomi allo schienale della mia sedia e guardando lagrande cupola in cui io ero un singolo pensiero, sebbeneal momento piuttosto tormentato, la sventura è che gliuomini saggi non pensano mai la stessa cosa delle donne.Ecco Pope:

“La maggior parte delle donne non ha affatto carattere.”

Ed ecco La Bruyère:

“Les femmes sont extremes, elles sont meilleures ou piresque les hommes... ”

Un’esplicita contraddizione da parte di due acuti osserva-tori tra loro contemporanei. Sono o non sono in grado diessere istruite? Napoleone pensava di no. Il Dr. Johnsonriteneva il contrario.3 Hanno o non hanno un’anima? Al-

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cuni popoli selvaggi dicono che non ne hanno. Altri, alcontrario, ritengono che le donne siano per metà divine,e per questo le adorano.4 Alcuni saggi sostengono che illoro cervello è più superficiale; altri che la loro coscienzaè più profonda. Goethe le onorava; Mussolini le di-sprezza. Dovunque si volgesse lo sguardo, gli uomini ri-flettevano sulle donne e avevano opinioni diverse. Eraimpossibile venirne a capo, decisi, lanciando occhiated’invidia al lettore accanto che stava compilando i piùprecisi riassunti, spesso intitolati con una A o una B op-pure una C, mentre il mio quaderno abbondava degli sca-rabocchi più disordinati e di annotazioni contraddittorie.Era angosciante, era sconcertante, era umiliante. La ve-rità mi era sfuggita tra le dita. Non ne era rimasta unasola goccia. Non potevo proprio andare a casa, riflettevo, e aggiun-gere, come serio contributo allo studio sulle donne e il ro-manzo, che le donne sul corpo hanno meno peli degli uo-mini, o che l’età della pubertà tra gli abitanti delle isoledei Mari del Sud è nove anni - o novanta? - persino lascrittura, nel suo turbamento, era diventata indecifrabile.Era vergognoso, dopo un’intera mattinata di lavoro, nonavere niente di più importante o di più rispettabile da mo-strare. E se non riuscivo a cogliere la verità sulla D. (comeper amore della brevità ero giunta a chiamarla) nel pas-sato, perché preoccuparmi della D. nel futuro? Sembravauna pura perdita di tempo consultare tutti quei signoriesperti della donna e del suo effetto su qualsiasi cosa - poli-tica, bambini, salari, moralità - per quanto numerosi ecolti essi siano. Tanto valeva lasciare chiusi i loro libri.Ma mentre riflettevo, senza rendermene conto, nella miaindolenza, nella mia disperazione, mi ero messa a dise-gnare, mentre invece, come il mio vicino, avrei dovutoscrivere una conclusione. Avevo disegnato un volto, unafigura. Era il volto e la figura del Professor von X, occu-

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pato a scrivere la sua opera monumentale dal titolo L’in-feriorità mentale, morale e fisica del sesso femminile. Nelmio ritratto, non era un uomo attraente. Era di corpora-tura pesante; aveva grandi mascelle; per contrasto avevaocchi molto piccoli; era molto rosso in viso. La suaespressione lasciava immaginare che era oppresso daqualche emozione la quale lo induceva a pugnalare il fo-glio con la penna, come se, mentre scriveva, stesse ucci-dendo qualche insetto dannoso; tuttavia, anche dopoaverlo ucciso, non era soddisfatto; doveva continuare aducciderlo; e nonostante ciò, rimaneva ancora qualche ra-gione per la sua rabbia e la sua irritazione. Poteva esseresua moglie?, mi chiesi, guardando il mio disegno. Era in-namorata di un ufficiale di cavalleria? Forse l’ufficiale erasnello ed elegante e indossava una pelliccia di astrakan?Quando era nella culla, per adottare la teoria freudiana,era stato deriso da una bella ragazza? Perché nemmenonella culla il professore poteva essere stato un bel bam-bino, pensai. Qualunque fosse la ragione, feci in modoche il professore apparisse molto arrabbiato e moltobrutto nel mio schizzo, mentre scriveva il suo grandelibro sull’inferiorità mentale, morale e fisica delle donne.Fare disegni era un modo ozioso per terminare una matti-nata inutile. È tuttavia quando oziamo, quando so-gniamo, che la verità sommersa a volte viene a galla. Unesercizio molto elementare di psicologia, che non potreionorare con il nome di psicanalisi, mi dimostrò, guar-dando il mio quaderno, che lo schizzo del professore ar-rabbiato era stato fatto con rabbia. Mentre sognavo, larabbia aveva afferrato la mia matita. Ma che c’entrava quila rabbia? L’interesse, la confusione, il divertimento, lanoia; potevo individuare e nominare tutte queste emo-zioni, mentre l’una si susseguiva all’altra nell’arco dellamattinata. La rabbia, quella serpe nera, si era nascosta inmezzo a loro? Sì, diceva lo schizzo, proprio così. Mi ri-

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mandava inconfondibilmente proprio a quel libro, aquella frase, che aveva destato il demonio; era quell’affer-mazione del professore sull’inferiorità mentale, morale efisica delle donne. Il mio cuore aveva fatto un balzo. Lemie guance si erano accese. Ero diventata rossa dallastizza. Niente di straordinario nella mia reazione, perquanto stupida. Non fa piacere sentirsi dire che si è pernatura inferiori ad un ometto - guardai lo studente ac-canto a me - che respira con fatica, indossa una cravattaconfezionata, e non si è fatto la barba negli ultimi quin-dici giorni. Abbiamo certe assurde vanità. Purtroppo è lanatura umana, riflettei, e cominciai a disegnare ruote ecerchi sulla faccia del professore arrabbiato finché nonsembrò un cespuglio in fiamme o una cometa ardente, inogni caso, un’apparizione senza né somiglianza né signifi-cato umani. Il professore non era nient’altro adesso cheuna fascina in fiamme sulla cima del colle di Hampstead.La mia collera era stata subito spiegata e messa da parte;ma rimaneva la curiosità. Come spiegare la rabbia deiprofessori? Perché erano arrabbiati? Giacché quando sitrattava di analizzare l’impressione lasciata da quei libri,si rinveniva sempre una certa animosità. Questa animo-sità assumeva molte forme; si rivelava nella satira, nel sen-timento, nella curiosità, nel biasimo. Ma un altro ele-mento era spesso presente che non si riusciva ad identifi-care immediatamente. Rabbia, lo chiamai. Ma era unarabbia che si era nascosta e si era mescolata a tutte le altreemozioni. A giudicare dai suoi strani effetti, era unarabbia mascherata e complessa, non una rabbia semplicee chiara.Qualunque sia la ragione, tutti questi libri, pensai, scru-tando la pila sul mio tavolo, sono privi di valore per i mieiscopi. Erano scientificamente privi di valore, sebbene dalpunto di vista umano fossero pieni di informazioni, inte-resse, noia e fatti molto bizzarri sui costumi degli abitanti

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delle isole Figi. Erano stati scritti alla luce rossa dell’emo-zione e non alla luce bianca della verità. Pertanto dove-vano essere riconsegnati al banco centrale, e rimandatiognuno alla propria cella di quell’enorme favo. Tuttoquello che avevo ricavato dal lavoro della mattinata erastato un unico elemento: la rabbia. I professori - ne fecicosì un gruppo unico - erano arrabbiati. Ma perché, michiesi, dopo aver riportato i libri, perché, ripetevo, attar-dandomi sotto il colonnato tra i piccioni e le canoe prei-storiche, perché sono arrabbiati? E mentre mi ponevoquesta domanda, andai via senza fretta in cerca di unposto per il pranzo. Qual è la vera natura di quello che iochiamo per il momento la loro rabbia?, mi chiedevo.Ecco qui un rompicapo che avrebbe occupato tutto iltempo necessario prima di essere serviti in un piccolo ri-storante dalle parti del British Museum. Qualche clienteche mi aveva preceduta aveva lasciato su una sedia l’edi-zione di mezzogiorno del giornale della sera, e aspettandoche mi servissero, cominciai a leggere oziosamente i titoli.Una striscia di grosse lettere attraversava la pagina. Qual-cuno aveva vinto una partita in Sudafrica. Strisce più pic-cole annunciavano che Sir Austen Chamberlain era a Gi-nevra. Una scure da macellaio con sopra dei capelliumani era stata trovata in uno scantinato. Nelle udienzedi divorzio, il giudice*** aveva fatto delle osservazionisulla “Sfrontatezza delle Donne”. Sparse nel giornale c’e-rano altre notizie. In California un’attrice cinematograficaera stata calata da una vetta e tenuta sospesa in aria. Cisarebbe stata nebbia. Il più fugace visitatore su questopianeta, pensai, che trovasse questo giornale, non po-trebbe errare nel dedurre, persino da quest’unica testi-monianza, che in Inghilterra domina la patriarchia. Nes-suno che non sia fuori di sé potrebbe mancare di accor-gersi del predominio del professore. Suoi erano il poteree il denaro e l’influenza. Egli era il proprietario del gior-

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nale e il suo direttore e vicedirettore. Egli era il Ministrodegli Esteri e il giudice. Egli era il giocatore di cricket;egli possedeva i cavalli da corsa e i panfili. Egli era il di-rettore della società che paga il duecento per cento aisuoi azionisti. Egli donava milioni alle istituzioni di carità eai college da lui stesso diretti. Egli sospendeva l’attrice inaria. Egli deciderà se i capelli sulla scure sono umani; saràlui ad assolvere o condannare l’assassino, ad impiccarlo, o alasciarlo in libertà. Ad eccezione della nebbia, sembravacontrollare tutto. Eppure era arrabbiato. Deducevo cheera arrabbiato da questo segno. Mentre leggevo quelloche ha scritto sulle donne, non pensavo a ciò che stava di-cendo, ma a lui stesso. Quando una persona sostieneun’argomentazione con imparzialità, pensa esclusivamenteall’argomentazione; e anche il lettore non può fare a me-no di pensare all’argomentazione. Se egli avesse scrittocon imparzialità sulle donne, se avesse usato prove incon-testabili per fondare il suo ragionamento, e non avessemostrato il minimo desiderio perché si ottenesse un risul-tato piuttosto che un altro, non ci saremmo neanche ar-rabbiate. Avremmo accettato la realtà, come si accetta ilfatto che un pisello è verde e un canarino è giallo. Che siapure così, avrei detto. Ma mi ero arrabbiata perché luiera arrabbiato. Eppure mi sembrava assurdo, pensai, sfo-gliando il giornale della sera, che un uomo con tanto po-tere dovesse essere in collera. O è forse la collera, michiesi, in qualche modo, il famiglio, il folletto al serviziodel potere? I ricchi, per esempio, sono spesso in colleraperché sospettano che i poveri vogliano impossessarsidella loro ricchezza. I professori, o patriarchi, come sa-rebbe più esatto chiamarli, potrebbero essere in colleraper la stessa ragione in parte, ma anche per un’altra che èun po’ meno visibile in superficie. Forse non erano “ar-rabbiati” affatto; spesso, a dire il vero, nei rapporti pri-vati erano pieni di ammirazione, di devozione per la

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donna, persone esemplari. Forse quando il professore in-sisteva un po’ troppo enfaticamente sull’inferiorità delledonne, non si preoccupava tanto della loro inferiorità,bensì della propria superiorità. Era questo ciò che stavadifendendo, con fare alquanto impetuoso e con troppaenfasi, perché per lui era un gioiello del più alto valore.La vita per entrambi i sessi - e li guardavo farsi largo a fa-tica lungo la strada - è ardua, difficile, una lotta inces-sante. Richiede forza e coraggio giganteschi. Più di ognialtra cosa, forse, creature dell’illusione quali siamo, ri-chiede fiducia in se stessi. Senza fiducia in noi stessisiamo come neonati nella culla. E come possiamo gene-rare questa qualità imponderabile, e tuttavia così pre-ziosa, nel modo più veloce? Pensando che altre personesiano a noi inferiori. Credendo di avere qualche superio-rità innata - può essere la ricchezza, il rango, un nasodritto, o il ritratto del nonno fatto da Romney (perchénon c’è limite ai patetici espedienti dell’immaginazioneumana) - rispetto ad altre persone. Di qui l’enorme im-portanza per un patriarca che deve conquistare, che devegovernare, di poter credere che un gran numero di per-sone, metà razza umana in verità, sia per natura inferiorea lui. Deve essere proprio una delle fonti principali delsuo potere. Ma lasciatemi guardare la vita reale alla lucedi questa osservazione, pensai. Aiuta a spiegare alcuni diquegli enigmi psicologici che osserviamo ai margini dellavita quotidiana? Spiega il mio sbigottimento dell’altrogiorno quando Z, uomo dei più miti e dei più moderati,prendendo un libro di Rebecca West e leggendone unbrano, esclamò: — Femminista spudorata! Dice che gliuomini sono degli snob! L’esclamazione, per me così sor-prendente, non era solo il grido della vanità ferita; laWest era una femminista spudorata per aver fatto un’af-fermazione probabilmente vera, anche se poco lusin-ghiera, sull’altro sesso? Era una protesta contro il tenta-

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tivo di incrinare la sua capacità di credere in se stesso.Per secoli le donne hanno avuto la funzione di specchidal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata lafigura dell’uomo. Senza questo potere, la terra sarebbeancora probabilmente palude e giungla. Le glorie di tutte lenostre guerre sarebbero sconosciute. Saremmo ancora ascalfire sagome di cervi su frammenti di ossa di montonee a barattare pietre focaie con pelli di pecora o con altrisemplici ornamenti che colpissero il nostro gusto non sofi-sticato. I superuomini e la mano del destino non sareb-bero mai esistiti. Lo Zar e il Kaiser non avrebbero maiportato una corona, né l’avrebbero mai persa. Qualunquepossa essere il loro uso nelle società civilizzate, gli specchisono indispensabili per ogni azione violenta ed eroica.Ecco perché Napoleone e Mussolini sostengono contanta veemenza l’inferiorità delle donne; perché se questenon fossero inferiori, gli uomini cesserebbero di ingran-dirsi. Questo serve a spiegare in parte il bisogno chetanto spesso gli uomini sentono delle donne. E serve aspiegare la misura del loro disagio se colpiti dalla criticafemminile; l’impossibilità per la donna di dire questolibro è brutto, questo dipinto manca di personalità, oqualunque altra cosa, senza suscitare molto più dolore emolta più rabbia di un uomo che esprimesse le stesse cri-tiche. Perché se lei comincia a dire la verità, la figuranello specchio si rimpicciolisce; viene diminuita la suaidoneità alla vita. Come potrà continuare a giudicare, ci-vilizzare gli indigeni, emanare leggi, scrivere libri, vestirsia festa e sproloquiare ai banchetti, se non riesce a vedersi acolazione e a cena almeno il doppio di quanto è real-mente? Così riflettevo, mentre spezzettavo il pane e rime-scolavo il caffè, guardando di tanto in tanto la gente perla strada. L’idea dello specchio è di importanza supremaperché potenzia la vitalità, stimola il sistema nervoso. Eli-minatela, e gli uomini potrebbero morire, come il dro-

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gato privato della cocaina. Ammaliate da quella illusione,pensavo, guardando fuori della finestra, metà delle per-sone per la strada si affretta al lavoro. Ogni mattina in-dossano cappotto e cappello sotto i suoi raggi piacevoli.Cominciano la giornata fiduciosi, rinvigoriti, credendosidesiderati al tè della signorina Smith; si dicono mentreentrano nella stanza, io sono superiore a metà delle per-sone qui, ed è per questo che parlano con quella fiduciain se stessi, quella sicurezza, che hanno avuto conse-guenze così profonde sulla vita pubblica e creano notecosì bizzarre ai margini della mente. Ma questi contributi al pericoloso e affascinante argo-mento della psicologia dell’altro sesso (che, spero, ap-profondirete quando avrete una rendita personale di cin-quecento all’anno) furono interrotti dalla necessità di pa-gare il conto. Veniva cinque scellini e nove pence. Diedial cameriere un biglietto da dieci scellini e se ne andò perportarmi il resto. C’era un altro biglietto da dieci scellininel mio borsellino; me ne accorsi perché è un fatto cheancora mi lascia senza fiato, il potere del mio borsellinodi produrre automaticamente biglietti da dieci scellini.Lo apro ed eccoli là. La società mi dà pollo e caffè, letto ealloggio, in cambio di un certo numero di pezzi di cartache mi vennero lasciati da una zia, per nessun’altra ra-gione al di fuori di quella che porto il suo nome. Devo raccontarvi che mia zia, Mary Beton, morì per unacaduta mentre cavalcava prendendo aria a Bombay. Lanotizia dell’eredità mi giunse una sera quasi nello stessomomento in cui fu approvata la legge che concedeva il di-ritto di voto alle donne. La lettera di un avvocato caddenella cassetta della posta e quando la aprii trovai che leimi aveva lasciato cinquecento sterline all’anno per tutta lavita. Delle due cose, il voto e il denaro, il denaro, lo am-metto, sembrava quella immensamente più importante.Prima mi ero guadagnata da vivere elemosinando lavori

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saltuari dai giornali, facendo ora la cronaca di una mostradi asini, ora di un matrimonio; avevo guadagnato qualchesterlina scrivendo indirizzi sulle buste, leggendo a vecchiesignore, confezionando fiori artificiali, insegnando l’alfa-beto ai bambini di un asilo. Tali erano le principali occu-pazioni aperte alle donne prima del 1918. Non occorre,purtroppo, che descriva le difficili condizioni di lavoro,perché conoscete forse delle donne che le hanno provate;né la difficoltà di vivere con quel denaro, quando venivaguadagnato, perché ne avrete forse fatto la prova. Tut-tavia quello che ancora rimane in me, come castigo per-sino peggiore, era il veleno della paura e dell’amarezzache quei giorni fecero nascere in me. Tanto per comin-ciare, fare sempre un lavoro che non si desidera fare, efarlo come una schiava, adulando e facendo le feste, nonche fosse sempre necessario forse, eppure sembrava ne-cessario e la posta in gioco era troppo alta per correre ri-schi; e poi il pensiero di quell’unico talento che nascon-dere era la morte - piccolo ma caro al suo possessore - ilquale andava distrutto e con esso me stessa, la mia anima;tutto questo divenne come una ruggine che divorava ifiori della primavera, distruggendo l’albero al cuore. Co-munque, come dicevo, mia zia morì; e ogni volta checambio un biglietto da dieci scellini, un po’ di quella rug-gine e di quella corrosione viene portata via; paura e ama-rezza scompaiono. Certo, pensai, facendo scivolare lemonete nel borsellino, è notevole, ricordando l’amarezzadi quei giorni, il cambiamento di umore che un redditofisso comporta. Nessuna forza al mondo può togliermi lemie cinquecento sterline. Cibo, casa e vestiti sono mieiper sempre. Di conseguenza, non solo cessano lo sforzo ela fatica, ma anche l’odio e l’amarezza. Non ho bisognodi odiare nessun uomo; nessuno può ferirmi. Non ho bi-sogno di adulare nessun uomo; nessuno ha niente dadarmi. Così scoprii che stavo impercettibilmente adot-

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tando un nuovo atteggiamento verso l’altra metà dellarazza umana. Era assurdo biasimare una classe o unsesso, in generale. Le grandi masse di persone non sonomai responsabili per quello che fanno. Sono spinte daistinti che non sottostanno al loro controllo. Anche loro, ipatriarchi, i professori, hanno avuto interminabili diffi-coltà, terribili svantaggi contro cui lottare. La loro educa-zione era stata sotto certi aspetti manchevole come lamia. Aveva prodotto in loro difetti ugualmente grandi.Certo, essi possedevano denaro e potere, ma solo a costo diospitare nei loro cuori un’aquila, un avvoltoio, chesquarcia senza tregua il fegato e afferra i polmoni; l’i-stinto del possesso, la frenesia dell’acquisire, che li portaa desiderare in eterno i campi e i beni degli altri; a crearefrontiere e bandiere, corazzate e gas tossici; ad offrire leloro vite e le vite dei loro figli. Attraversate l’Arco del-l’Ammiragliato (ero proprio arrivata a quel monumento), oqualsiasi viale dedicato a trofei e cannoni, e riflettete sulgenere di gloria lì esaltato. Oppure osservate l’agente diBorsa e il grande avvocato, con il sole primaverile, andarein ufficio per fare soldi, più soldi, sempre più soldi,quando è accertato che cinquecento sterline all’anno ba-stano a farci vivere allegramente. Ospitare questi istintinon è piacevole, riflettevo. Sono generati dalle condizionidi vita, dalla mancanza di civiltà, pensai, guardando lastatua del Duca di Cambridge, e, in modo particolare, lepiume del suo tricorno, con una fissità che raramenteavevano causato prima. E, mentre mi rendevo conto diquesti svantaggi, paura e amarezza gradualmente si tra-sformavano in compassione e tolleranza; e poi, dopo uno odue anni, la compassione e la tolleranza scomparirono, earrivò il più grande sollievo di tutti, che è la libertà dipensare alle cose per come sono. Quell’edificio, peresempio, mi piace o no? Quel quadro è bello o non èbello? Secondo me quel libro è buono o cattivo? A dire il

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vero il lascito di mia zia mi svelava il paradiso, e al postodella grande e imponente figura di un signore, che Miltonraccomandava alla mia eterna adorazione, offriva la vistadel cielo aperto.Così pensando e meditando, ritornai verso casa, neipressi del fiume. Cominciavano ad accendere le luci eLondra aveva subìto un cambiamento indescrivibile ri-spetto alla mattina. Era come se la grande macchina,dopo aver lavorato sodo tutto il giorno, avesse prodottocon il nostro aiuto qualche metro di una cosa molto emo-zionante e molto bella: un tessuto splendente dai rossiocchi di saetta, un mostro fulvo e ruggente dall’alitocaldo. Persino il vento sembrava teso come una bandieramentre sferzava le case e faceva vibrare le staccionate.Nella mia stradina, tuttavia, dominava la vita domestica.L’imbianchino scendeva dalla sua scala; la bambinaiaspingeva la carrozzina con cura, di ritorno per il pasto se-rale; lo scaricatore di carbone piegava i suoi sacchi vuotil’uno sull’altro; la fruttivendola calcolava l’incasso dellagiornata con alle mani delle manopole rosse. Ma tantoero assorbita dal problema di cui mi avete fatto carico,che non riuscivo a vedere neanche queste scene consuetesenza collegarle a quell’unica idea. Pensavo quanto siamolto più difficile oggi di quanto doveva esserlo anchesolo un secolo fa, dire quale di queste occupazioni sia lapiù nobile, la più necessaria. È meglio fare lo scaricatoredi carbone o la bambinaia? La donna delle pulizie che hacresciuto otto bambini ha meno valore per il mondo del-l’avvocato che ha accumulato centomila sterline? È inu-tile farsi queste domande; tanto nessuno sa dare una ri-sposta. Non solo il valore relativo di domestiche e avvo-cati aumenta e diminuisce di decade in decade, ma nonpossediamo alcuna unità di misura con cui valutarlo,neanche in questo momento. Ero stata stupida a chiedereal mio professore di fornirmi delle “prove incontestabili” di

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questo o di quello nella sua discussione sulle donne.Anche se si potesse stabilire il valore attuale di una capacitàqualsiasi, quegli stessi valori cambieranno; molto proba-bilmente fra un secolo saranno mutati del tutto. Inoltre,tra cento anni, pensai, giunta alla porta di casa, le donneavranno smesso di essere il sesso protetto. È logico pen-sare che prenderanno parte a tutte quelle attività e quellemansioni che un tempo erano loro precluse. La bambi-naia scaricherà il carbone. La bottegaia guiderà una mac-china. Tutte le supposizioni fondate sui fatti osservatiquando le donne erano il sesso protetto saranno crollate,come, per esempio, (qui un drappello di soldati passò perla strada) l’idea che donne, sacerdoti e giardinieri vivanopiù a lungo degli altri. Eliminate quella protezione, espo-netele agli stessi sforzi e alle stesse attività, fatele soldati,marinai, macchinisti e scaricatori di porto, e non mori-ranno le donne tanto più giovani e più velocemente ri-spetto agli uomini, che si dirà: “Ho visto una donnaoggi”, come prima si diceva: “Ho visto un aereo”? Tuttopotrà accadere quando l’essere donna avrà smesso di es-sere un’occupazione protetta, pensai, aprendo la porta.Ma che c’entra tutto questo con l’argomento del miosaggio, “Le donne e il romanzo”?, mi chiesi entrando acasa.

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III

Fu una delusione non essere rientrata a casa quella seracon qualche affermazione importante, qualche fatto au-tentico. Le donne sono più povere degli uomini perché...questo o quello. Forse sarebbe meglio a questo punto ri-nunciare ad andare in cerca della verità, e smettere di ri-cevere sulla testa una valanga di idee bollente come lava,scolorita come risciacquatura di piatti. Sarebbe meglio ti-rare le tende, chiudere fuori le distrazioni, accendere lalampada, restringere il campo della ricerca e chiedere allostorico, il quale non registra opinioni ma fatti, di descri-vere in quali condizioni vivevano le donne, non dalle ori-gini ad oggi, ma in Inghilterra, diciamo, al tempo di Eli-sabetta.È infatti un eterno enigma il perché nessuna donna hascritto una parola di quella straordinaria letteratura, inun’epoca in cui un uomo su due, a quanto pare, era ca-pace di scrivere una canzone o un sonetto. Quali erano lecondizioni in cui vivevano le donne?, mi chiesi; perché ilromanzo, l’opera dell’immaginazione cioè, non cade aterra come un sasso, come può avvenire con la scienza; ilromanzo è come una tela di ragno, legata forse molto de-bolmente, ma comunque legata alla vita da tutti e quattrogli angoli. Spesso il legame è a mala pena percettibile; leopere di Shakespeare, per esempio, sembrano sospese lì,complete in se stesse. Ma quando la ragnatela viene sco-stata, uncinata in un orlo, lacerata al centro, ci ricor-

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diamo che queste ragnatele non sono tessute a mezz’ariada creature incorporee, ma sono il lavoro di esseri umaniche soffrono, e sono legate a cose volgarmente materialicome la salute, il denaro e le case in cui viviamo.Andai, quindi, allo scaffale dei libri di storia e ne presiuno dei più recenti, la Storia d’Inghilterra del professorTrevelyan. Ancora una volta cercai la voce “Donne”,trovai “Condizione delle”, e andai alle pagine indicate.“Picchiare la propria moglie” - lessi - “era un diritto rico-nosciuto dell’uomo, ed era esercitato senza onta da per-sone di alto come di basso... “Allo stesso modo” - con-tinua lo storico - “la figlia che si rifiutava di sposare ilgentiluomo scelto dai genitori poteva essere rinchiusa,percossa e maltrattata, senza che l’opinione pubblica nefosse minimamente scandalizzata. Il matrimonio non erauna questione di affetti personali, ma di cupidigia fami-liare, soprattutto nelle alte classi ‘cavalleresche’ ... Il fi-danzamento spesso aveva luogo quando una o entrambele parti erano ancora in fasce, e il matrimonio non appenalasciavano la balia.” Questo succedeva intorno al 1470,subito dopo l’epoca di Chaucer. Si fa poi riferimento allacondizione delle donne di circa duecento anni dopo, altempo degli Stuart. “Era ancora un fatto eccezionale chela donna delle classi medie e delle classi alte scegliesse ilproprio marito; ma una volta assegnatole, egli era signore epadrone, almeno fin dove la legge e il costume glielo per-mettevano. Eppure - conclude il professor Trevelyan -“né le donne di Shakespeare, né quelle delle autentichememorie seicentesche, come la Verney e la Hutchinson,sembrano mancare di personalità e carattere.” Certo, seriflettiamo, Cleopatra deve essere stata molto caparbia;Lady Macbeth, a quanto pare, era davvero ostinata; Rosa-linda, si potrebbe dedurre, era una ragazza interessante.Il professor Trevelyan dice soltanto la verità quando com-menta che le donne di Shakespeare non sembrano man-

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care di personalità e carattere. Visto che non siamo sto-rici, potremmo andare ancora oltre e dire che le donnehanno illuminato come fari tutte le opere di tutti i poetidall’inizio dei tempi: Clitennestra, Antigone, Cleopatra,Lady Macbeth, Phèdre, Cressida, Rosalinda, Desdemona,la Duchessa di Amalfi, fra i drammaturghi; e poi tra i ro-manzieri: Millamant, Clarissa, Becky Sharp, Anna Kare-nina, Emma Bovary, Madame de Guermantes... i nomi siaffollano alla mente, e non rievocano donne “che man-cano di personalità e carattere”. A dire il vero, se ladonna non esistesse al di fuori dei romanzi scritti dagliuomini, la si potrebbe immaginare una persona dellamassima importanza; multiforme; eroica e meschina,splendida e sordida; infinitamente bella ed estremamenteripugnante; grande come l’uomo, per alcuni persino piùgrande.5 Ma questa è la donna della letteratura. Nellarealtà, come sottolinea il professor Trevelyan, veniva rin-chiusa, percossa e maltrattata.Ne risulta in questo modo un essere molto singolare ecomposito. Estremamente importante nell’immagina-zione, totalmente insignificante nella realtà. Pervade lapoesia da copertina a copertina; è quasi assente dallastoria. In letteratura domina le vite di re e conquistatori;nella realtà era la schiava di qualunque ragazzo i cui geni-tori le infilassero con forza un anello al dito. Alcune delleparole più ispirate, alcuni dei pensieri più profondi in let-teratura escono dalle sue labbra; nella vita reale riusciva aleggere con fatica, a mala pena sapeva scrivere, ed era diproprietà del marito. Era senza dubbio uno strano mostro quello compostoleggendo gli storici prima e i poeti dopo: un verme alatocome un’aquila; lo spirito della vita e della bellezza in unacucina a tagliuzzare grasso. Ma questi mostri, per quantodivertenti da immaginare, in realtà non esistono. Perinfondere vita alla donna dobbiamo pensare poetica-

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mente e prosaicamente nello stesso istante, mantenendocosì il contatto con la realtà: ella è la signora Martin, ditrentasei anni, vestita di azzurro, con un cappello nero escarpe marrone; ma neanche trascurando l’immagina-zione: ella è un recipiente in cui scorre e brilla in eternoogni genere di spirito e di forza. Tuttavia, non appena ap-plichiamo questo metodo alla donna elisabettiana, unaparte dell’illuminazione viene a mancare: siamo bloccatidalla carenza di dati. Di lei non sappiamo niente di pre-ciso, niente di completamente vero e sostanziale. Lastoria non ne fa quasi menzione. Perciò mi rivolsi nuova-mente al professor Trevelyan, per capire cosa significasseper lui la storia. Guardando i titoli dei suoi capitoli sco-prii che voleva dire:“Il maniero e i metodi dell’agricoltura a campo aperto”,“I Cistercensi e l’allevamento delle pecore”, “Le Cro-ciate”, “L’Università”, “La Camera dei Comuni”, “Laguerra dei Cento anni”, “La guerra delle due Rose”, “Glieruditi del Rinascimento”, “La fine dei monasteri”, “Ilconflitto agrario e religioso”, “L’origine della potenza na-vale inglese”, “L’Invincibile Armata”, e così via. Ognitanto viene menzionata qualche donna straordinaria,un’Elisabetta, o una Maria; una regina o una nobildonna.Ma in nessun modo la donna delle classi medie, connient’altro che cervello e carattere a sua disposizione,avrebbe potuto prendere parte ad uno di quei grandi mo-vimenti che, messi insieme, costituiscono la visione delpassato per lo storico. Né la troveremo nelle raccolte dianeddoti. Aubrey la menziona appena. Ella non scrive maila propria vita e non tiene quasi mai un diario; rimangonosolo poche sue lettere. Non ha lasciato né drammi népoesie con cui poterla giudicare. Quello che manca, pen-savo (e perché non ce la potrebbe fornire qualche bril-lante studentessa di Newnham o di Girton?) è una moledi informazioni; a che età si sposava; quanti figli aveva di

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solito; com’era la sua casa, se aveva una stanza tutta persé; se si occupava della cucina, o se aveva una serva. Tuttiquesti dati si potrebbero trovare, presumibilmente, nei re-gistri parrocchiali e nei libri contabili; la vita della donnaelisabettiana deve trovarsi disseminata da qualche parte,se solo si potesse raccoglierla e farne un libro. Sarebbetroppo ambizioso per me se osassi, pensavo, guardandosugli scaffali in cerca di libri che non c’erano, proporreagli studenti di quei famosi college di riscrivere la storia,sebbene confesso che così com’è appare spesso un po’strana, irreale, sbilenca; ma perché non dovrebbero ag-giungere un supplemento alla storia, chiamandolo, natu-ralmente, con un nome poco vistoso in modo che ledonne possano figurarvi senza sconvenienza? Perchéspesso le si intravede nelle vite dei grandi, sgattaiolare vianel retroscena, nascondendo, a volte penso, un ammicco,una risata, forse una lacrima. Tutto sommato, abbiamo ab-bastanza biografie di Jane Austen, e mi sembra superfluoconsiderare di nuovo l’influenza delle tragedie di JoannaBaillie sulla poesia di Edgar Allan Poe; per quanto mi ri-guarda, non mi importerebbe se le case e i ritrovi di MaryRussell Mitford venissero chiusi al pubblico per almenoun secolo. Ma quello che trovo deplorevole, continuai, os-servando di nuovo gli scaffali, è che non si sappia nientesulla donna prima del Settecento. Non ho alcun modelloin mente da rigirare a mio piacimento. Sono qui a chie-dermi perché le donne non scrissero poesia nell’età elisa-bettiana, e non sono neanche sicura di come venisseroeducate; se veniva loro insegnato a scrivere; se avevano unsalotto per sé; quante donne avevano figli prima deiventun anni; in breve, cosa facevano dalle otto di mattinaalle otto di sera. Evidentemente non avevano soldi; se-condo il professor Trevelyan si sposavano, che lo volessero ono, prima di lasciare la balia, molto probabilmente a quin-dici o sedici anni. Sarebbe stato estremamente strano,

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proprio per questa situazione, se una di loro, inaspettata-mente, avesse scritto le opere di Shakespeare, conclusi, epensai a quel vecchio signore, che è morto adesso, credofosse un vescovo, il quale dichiarò che era impossibile perqualunque donna, passata, presente, o futura, avere ilgenio di Shakespeare. Lo scrisse anche sui giornali. Aduna signora, poi, che si rivolse a lui per informazioni, disseanche che i gatti in realtà non vanno in paradiso, sebbene,aggiunse, posseggano un certo tipo di anima. Quanti pen-sieri ci risparmiavano quei vecchi signori! Quanto si re-stringevano i confini dell’ignoranza al loro avvicinarsi! Igatti non vanno in cielo. Le donne non possono scrivere leopere di Shakespeare.Non potevo non pensare, tuttavia, mentre guardavo leopere di Shakespeare sullo scaffale, che il vescovo almenoin questo aveva ragione; sarebbe stato impossibile, asso-lutamente impossibile, per qualunque donna aver scrittole opere di Shakespeare al tempo di Shakespeare. Per-mettete che immagini, giacché è così difficile reperire deidati, cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avutouna sorella meravigliosamente dotata, di nome Judith, di-ciamo. Molto probabilmente Shakespeare frequentò lascuola ad indirizzo classico, - sua madre era un’ereditiera -dove avrà imparato il latino (Ovidio, Virgilio e Orazio) egli elementi di grammatica e di logica. Era, è risaputo, unragazzo turbolento che cacciava conigli di frodo, am-mazzò forse un cervo, e dovette sposare, molto prima diquanto avrebbe fatto, una donna del vicinato che glidiede un figlio più velocemente del solito. Questa scap-patella lo costrinse a cercar fortuna a Londra. Sembravache avesse un certo gusto per il teatro; cominciò col te-nere i cavalli all’ingresso degli attori. Ben presto cominciò arecitare, divenne un attore di fama e visse al centro delmondo: incontrava tutti, conosceva tutti, praticava la suaarte sulla scena, allenava la sua arguzia per strada, e fu

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persino ricevuto a palazzo dalla regina. Intanto la suastraordinariamente dotata sorella, supponiamo, era ri-masta a casa. Ella era tanto intraprendente, tanto crea-tiva, tanto impaziente di vedere il mondo quanto lo era ilfratello. Ma non fu mandata a scuola. Non ebbe nessunapossibilità di apprendere la grammatica e la logica, tantomeno di leggere Orazio e Virgilio. Ogni tanto prendevaun libro, un libro del fratello forse, e leggeva qualche pa-gina. Ma poi arrivavano i genitori e le dicevano di ram-mendare le calze o di badare allo stufato e di non oziarecon libri e carte. Le parole sarebbero state dure ma gen-tili, perché erano persone agiate che conoscevano le con-dizioni di vita di una donna e amavano la loro figlia; anzi,molto probabilmente ella era la prediletta del padre.Forse scriveva qualche pagina di nascosto su nel sotto-tetto, ma poi badava bene a nasconderla o bruciarla.Presto, tuttavia, ancora adolescente, dovette essere pro-messa al figlio di un vicino mercante di lana. Protestò chedetestava il matrimonio, e per questo fu duramente pic-chiata dal padre. Poi egli smise di rimproverarla. La im-plorò invece di non danneggiarlo, di non disonorarlo acausa del suo matrimonio. Le avrebbe regalato una col-lana o un bel vestito, le diceva, e i suoi occhi erano pienidi lacrime. Come poteva disubbidirgli? Come potevaspezzargli il cuore? Fu solo la forza del suo talento a spin-gerla a farlo. Una sera d’estate fece un pacchetto delle suecose, si calò giù con una corda e prese la strada perLondra. Non aveva neanche diciassette anni. Gli uccelliche cantavano dalla siepe non erano più musicali di lei.Possedeva, come il fratello, il più vivo senso dell’immagi-nazione per la melodia delle parole. Come lui, avevaun’inclinazione per il teatro. Si presentò all’ingresso degliattori; voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia.L’impresario, un uomo grasso e impertinente, prese asghignazzare. Urlò qualcosa sui barboncini che ballano e

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le donne che recitano; nessuna donna, disse, poteva farel’attrice. Insinuò invece... lo potete immaginare. Nonavrebbe avuto nessuna educazione al mestiere. Poteva ad-dirittura cenare in una taverna o vagare per le strade amezzanotte? Tuttavia Judith era nata per la letteratura ebramava nutrirsi con abbondanza delle vite degli uominie delle donne e studiare i loro costumi. Alla fine - poichéera molto giovane, e dal viso stranamente somigliante aShakespeare il poeta, con gli stessi occhi grigi e la frontetonda - alla fine Nick Greene, il capocomico, si impietosì;ed ella si ritrovò incinta di quel gentiluomo e allora (chipuò misurare la passione e la violenza del cuore del poetaquando è intrappolato e aggrovigliato nel corpo di unadonna?) si uccise una sera d’inverno e giace sepolta in unincrocio, dove ora si fermano gli omnibus, davanti adElephant and Castle.Così, grosso modo, narrerebbe la storia, credo, se unadonna ai tempi di Shakespeare avesse avuto il genio diShakespeare. Da parte mia, sono d’accordo con il de-funto vescovo, se tale egli era: è impensabile che unadonna ai tempi di Shakespeare potesse avere il genio diShakespeare. Perché un genio come quello di Shake-speare non nasce tra i contadini, tra la gente ignorante,servile. Non nacque in Inghilterra al tempo dei sassoni edei britanni. Non nasce oggi tra le classi operaie. Come,dunque, avrebbe potuto nascere tra donne che comincia-vano a lavorare, secondo il professor Trevelyan, quasi dabambine, che vi erano costrette dai genitori e lo accetta-vano per forza di legge e di tradizione? Eppure un geniodi qualche sorta deve essere esistito tra le donne, comedeve essere esistito tra le classi operaie. Ogni tanto fiam-meggia una Emily Brontë o un Robert Burns, e ne dimo-stra l’esistenza. Ma certamente non avrà mai intrapreso lacarriera letteraria. Quando, comunque, si legge di unastrega buttata nel fiume, di una donna posseduta dal de-

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monio, di un’indovina che vende erbe, o persino dellamadre di un uomo molto importante, allora credo chesiamo sulle tracce di una scrittrice mancata, di una poe-tessa messa a tacere, di qualche muta e oscura Jane Au-sten, qualche Emily Brontë che si è fracassata il cervellosulla brughiera o andava facendo boccacce per le strade,impazzita per la tortura procuratale dal suo talento. Az-zarderei l’ipotesi, infatti, che Anonimo, che ha scritto cosìtante poesie senza mai recitarle, fosse spesso una donna.Era una donna, credo che fosse Edward Fitzgerald a sug-gerirlo, che componeva le ballate e le canzoni popolari,cantilenandole sottovoce ai suoi bambini, rallegrandosimentre filava, o nelle lunghe sere d’inverno.Questo può essere vero o può essere falso - chi può dirlo? -ma quello che mi sembrava indiscutibile, riandando allastoria della sorella di Shakespeare, da me interamente im-maginata, è che qualunque donna che fosse nata nel Cin-quecento con un grande talento sarebbe certamente im-pazzita, o si sarebbe suicidata, o avrebbe finito i suoigiorni in qualche casupola solitaria fuori del villaggio,mezza strega, mezza maga, temuta e derisa. Perché non ènecessario essere esperti psicologi per affermare che unaragazza di grande talento che avesse cercato di mettere inpratica la sua inclinazione per la poesia, sarebbe stata cosìostacolata e intralciata dagli altri, così torturata e dilaniatadai propri istinti contraddittori, da perdere sicuramente lasalute e il giudizio. Nessuna ragazza avrebbe potuto cam-minare fino a Londra, bussare alla porta di un palcosce-nico e farsi largo fino al capocomico, senza fare a se stessauna violenza e patire un’angoscia che, per quanto possanoessere state irrazionali (perché la castità potrebbe essereun feticcio inventato da certe società per ragioni scono-sciute), erano nondimeno inevitabili. Nella vita di unadonna la castità aveva allora, come ha ancora oggi, un’im-portanza religiosa, e si è così avvolta di nervi e di istinti,

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che darle la libertà con un taglio e portarla alla luce delgiorno richiede un coraggio dei più rari. Vivere una vita li-bera a Londra nel Cinquecento avrebbe comportato peruna donna poeta e drammaturgo una tensione nervosa eun dilemma tali da ucciderla. Se anche fosse sopravvis-suta, qualunque cosa avesse scritto sarebbe stata contortae deforme, essendo il prodotto di un’immaginazione inna-turale e morbosa. E senza dubbio, pensavo, guardando loscaffale dove non ci sono opere di donne, i suoi scritti sa-rebbero rimasti anonimi. Quel rifugio ella avrebbe certa-mente cercato. Era il retaggio di un senso di castità cheimponeva l’anonimato alle donne persino nell’Ottocento.Currer Bell, George Eliot, George Sand, tutte vittime diun travaglio interiore, come i loro scritti dimostrano, cer-carono invano di velarsi dietro un nome di uomo. Inquesto modo resero omaggio alla convenzione, non instil-lata dall’altro sesso, sebbene da questo ampiamente inco-raggiata (il massimo vanto per una donna è far sì che nonsi parli di lei, diceva Pericle, egli stesso un uomo di cui siparlava molto), secondo la quale la notorietà nelle donne èabominevole. L’anonimato scorre nel loro sangue. Il desi-derio di celarsi dietro un velo ancora le domina. Neancheoggi esse sono così preoccupate per la prosperità dellaloro fama quanto lo sono gli uomini, e, in generale, pos-sono passare accanto a una tomba o un cartello stradalesenza provare l’irresistibile desiderio di incidervi il loronome, come sono costretti a fare Alf, Bert o Chas, perquel loro istinto che mormora, se vede passare una belladonna, o persino un cane, questo cane è mio. E, natural-mente, può anche non essere un cane, pensai, ricordandoParliament Square, la Sieges Allée e altri luoghi simili; puòessere un pezzo di terra o un uomo dai capelli neri e ricci. Èuno dei grandi vantaggi dell’essere donna quello di poterpassare accanto ad una bellissima negra senza desideraredi farne una donna inglese.

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Quella donna, dunque, nata nel Cinquecento con il donodella poesia, era una donna infelice, una donna in lottacon se stessa. Tutte le circostanze della sua vita, tutti i suoiistinti, erano ostili a quello stato d’animo necessario perlasciar fluire liberamente ciò che aveva nel cervello. Maqual è lo stato d’animo più propizio all’atto della crea-zione?, mi chiesi. Si può acquisire qualche idea dello statoche incoraggia e rende possibile quella strana attività? Aquesto punto aprii il volume delle tragedie di Shake-speare. Qual era lo stato d’animo di Shakespeare quandoscrisse, per esempio, Re Lear e Antonio e Cleopatra ? Eracertamente lo stato mentale più favorevole alla poesia chesia mai esistito. Ma Shakespeare stesso non ne ha parlato.Sappiamo solo, per puro caso, che “non ha mai cancellatouna riga”. Fino al Settecento forse, l’artista non ci ha maidetto niente, infatti, a proposito del suo stato mentale.Forse è stato Rousseau a cominciare. Ad ogni modo, nel-l’Ottocento la consapevolezza di se stessi era così svilup-pata che era abitudine degli uomini di lettere descrivere ipropri stati d’animo nelle loro confessioni e autobiografie.Vennero scritte anche le loro biografie, e dopo la loromorte venivano pubblicate le loro lettere. Così, sebbenenon sappiamo cosa provava Shakespeare quando scrivevaLear, sappiamo cosa provava Carlyle quando scrisse la Ri-voluzione Francese; cosa provava Flaubert quando scrisseMadame Bovary; cosa provava Keats quando cercava discrivere poesia avversando la morte che si avvicinava el’indifferenza del mondo.E da questa immensa letteratura moderna di confessionee autoanalisi si desume che scrivere un’opera d’arte èquasi sempre un’impresa di straordinaria difficoltà. Tutto ècontrario alla probabilità che il lavoro venga fuori dallamente dell’autore completo e integro. Generalmente lecircostanze materiali vi sono contrarie. I cani abbaie-ranno, la gente interromperà; bisogna guadagnare dei

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soldi; la salute verrà meno. Per di più, ad accentuare tuttequeste difficoltà e a renderle più pesanti da sopportare, siaggiunge la notoria indifferenza del mondo. Esso nonchiede alla gente di scrivere poesie, romanzi e volumi distoria; non ne ha bisogno. Non gli interessa se Flauberttrova la parola giusta o se Carlyle verifica scrupolosa-mente questo o quel fatto. Naturalmente non vorrà pa-gare ciò che non ha chiesto. E così lo scrittore, Keats,Flaubert, Carlyle, è preda, specialmente negli anni crea-tivi della giovinezza, di ogni forma di perplessità e di sco-raggiamento. Una maledizione, un grido d’agonia, si levada quei libri di analisi e di confessione. “I grandi poetinella sofferenza morti”, questo è il tema del loro canto.Se qualcosa ne vien fuori nonostante tutto ciò, è un mira-colo, e probabilmente nessun libro nasce intero e senzamalformazioni, così come era stato concepito.Ma per la donna, pensavo, guardando gli scaffali vuoti,queste difficoltà erano infinitamente più grandi. In primoluogo, avere una stanza tutta per sé, per non parlare diuna stanza tranquilla o isolata dai rumori, era fuori di-scussione, a meno che i suoi genitori non fossero eccezio-nalmente ricchi o dell’alta nobiltà, persino fino agli inizidell’Ottocento. E poiché il denaro per le piccole spese,che dipendeva dalla benevolenza di suo padre, bastavaappena a vestirla, ella era privata di quel conforto chepersino Keats, Tennyson o Carlyle, tutti uomini poveri,traevano da una gita a piedi, un piccolo viaggio inFrancia, o da un alloggio separato che, anche se moltomisero, offriva loro un riparo dalle pretese e le tiranniedella famiglia. Tali difficoltà materiali erano enormi; madi molto peggiori erano quelle non materiali. L’indiffe-renza del mondo che Keats e Flaubert e altri uomini digenio hanno trovato tanto difficile da sostenere, era nelsuo caso non indifferenza ma ostilità. Il mondo non di-ceva a lei, come diceva a loro: “Scrivi se vuoi; per me non

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ha alcuna importanza”. Il mondo diceva con una risata:“Scrivi? E a che serve se tu scrivi?” E qui le psicologhe diNewnham e Girton potrebbero venire in nostro aiuto,pensavo, guardando di nuovo gli spazi vuoti sugli scaffali.Perché sarebbe proprio ora di misurare l’effetto delloscoraggiamento sulla mente dell’artista, come ho vistomisurare, in un caseificio, gli effetti del latte comune e diquello selezionato sul corpo del topo. Chiusero due topiin gabbia, uno accanto all’altro, e dei due, uno era fur-tivo, timido e piccolo, l’altro era lucido, audace e grosso.Ebbene, di che nutriamo le donne artiste?, mi chiesi, ri-cordando, suppongo, quella cena di prugne secche ecrema. Per rispondere a quella domanda dovevo soltantoaprire il giornale della sera e leggere che LordBirkenhead ritiene che... ma proprio non ho intenzionedi scomodarmi per ricopiare l’opinione di Lord Bir-kenhead su quello che scrivono le donne. Lascerò in paceanche quanto afferma il decano Inge. Il medico specia-lista di Harley Street può anche risvegliare gli echi di queilaboratori con le sue vociferazioni, non mi farà drizzareun solo capello in testa. Citerò tuttavia Oscar Browning,perché Oscar Browning era una grande personalità aCambridge un tempo, ed esaminava gli studenti di Gir-ton e Newnham. Il professor Oscar Browning dichiaròche la sua impressione, dopo aver esaminato gli elaborati,era che: “prescindendo dai voti che poteva dare, la mi-gliore delle donne era intellettualmente inferiore al peg-giore degli uomini”. Dopo di ciò il professor Browningritornò al suo appartamento - ed è quanto segue che lorende caro e fa di lui una figura umana di grande impo-nenza e maestà - ritornò al suo appartamento e trovòsteso sul divano un ragazzo di stalla, “un vero scheletro,le sue guance erano incavate e giallastre, i denti eranoneri, e sembrava che non avesse il pieno uso degli arti... ”“Quello è Arthur” - disse il professor Browning - “È ve-

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ramente un caro ragazzo e di sentimenti molto nobili.”Le due scene mi sembrano sempre completarsi a vicenda.E fortunatamente, in quest’epoca di biografie, le due im-magini spesso veramente si completano a vicenda, cosìche siamo in grado di interpretare le opinioni dei grandiuomini non solo per quello che dicono, ma per quelloche fanno.Tuttavia, sebbene oggi sia possibile fare questi confronti,simili opinioni sulle labbra di persone importanti devonoessere apparse alquanto terrorizzanti persino cin-quant’anni fa. Supponiamo che un padre, per le più no-bili ragioni, non desideri che sua figlia vada via di casaper diventare scrittrice, pittrice o studiosa. “Vedi cosadice il professor Browning”, egli direbbe; e non c’era soloOscar Browning; c’era la Saturday Review; c’era il signorGreg: “gli aspetti fondamentali dell’ esistenza di unadonna” - diceva il signor Greg con enfasi - “riguardano ilsuo essere sostentata dagli uomini, e il provvedere ai lorobisogni”; c’era un’enorme quantità di opinioni maschili aconfermare che intellettualmente non ci si poteva aspet-tare niente dalle donne. Anche se suo padre non leggevaad alta voce queste opinioni, qualunque ragazza potevaleggerle per sé; e quella lettura, persino nell’Ottocento,deve aver smorzato la sua vitalità e influito profonda-mente sul suo lavoro. Ci sarebbe sempre stata quell’affer-mazione, non puoi fare questo, sei incapace di farequello, da contestare, da annientare. Probabilmente peruna scrittrice questo germe non ha più tanta efficacia;perché ci sono state scrittrici di grande merito. Ma per lepittrici deve ancora avere una certa forza; e per le musi-ciste, immagino, è ancora adesso estremamente attivo evelenoso. La donna che compone musica si trova nellaposizione in cui si trovava l’attrice al tempo di Shake-speare. Nick Greene, pensavo, ricordando la storia da meimmaginata sulla sorella di Shakespeare, diceva che una

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donna che recita gli rammentava un cane che danza.Johnson usò la stessa espressione, duecento anni dopo,per le donne che predicano. E qui, mi dissi, aprendo unlibro sulla musica, troviamo le stesse parole, ancora usate inquest’anno di grazia 1928, a proposito delle donne checercano di scrivere musica. “Riguardo alla signorina Ger-maine Tailleferre si può solo ripetere l’affermazione deldottor Johnson a proposito della donna predicatrice, tra-dotta in termini musicali: ‘Signore, una donna che com-pone è come un cane che cammina sulle zampe poste-riori. Non lo fa bene, ma vi sorprende comunque ve-derlo’.”6 Quanto è accurata la storia nel ripetersi.Pertanto, conclusi, chiudendo la biografia di Oscar Brow-ning e mettendo da parte tutto il resto, è alquanto evi-dente che persino nell’Ottocento una donna non venivaincoraggiata ad essere un’artista. Al contrario, ella eraumiliata, schiaffeggiata, rimproverata e ammonita. Deveessere stata forte la tensione mentale e grande il calo dellasua vitalità se ha dovuto smentire e opporsi a tutto questo.E qui si tratta ancora di quell’interessantissimo e assaioscuro complesso maschile che ha avuto così tanta in-fluenza sul movimento femminista; quel desiderioprofondo, non tanto che lei sia inferiore, quanto che luisia superiore, che mette l’uomo di guardia dovunque siposi lo sguardo, non solo all’ingresso delle arti, ma a sbar-rare anche la strada della politica, anche quando il rischioper se stesso sembra infinitesimo, e umile e devota la sup-plice. Persino Lady Bessborough, mi sovvenne, nono-stante tutta la sua passione per la politica, deve umilmentechinare il capo e scrivere a Lord Granville Leveson-Gower: “... nonostante tutta la mia veemenza in politica e ilmio gran parlare di quell’argomento, sono perfettamented’accordo con lei sul fatto che nessuna donna ha il diritto diimmischiarsi nelle faccende importanti, se non per dare lasua opinione (se le viene richiesta)”. E così ella continua a

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consumare il suo entusiasmo dove questo non incontra as-solutamente nessun ostacolo, cioè per quell’argomentoenormemente importante che è il primo discorso di LordGranville alla Camera dei Comuni. Lo spettacolo è certa-mente anomalo, pensavo. La storia dell’opposizione degliuomini all’emancipazione delle donne è più interessanteforse della storia di quella stessa emancipazione. Se ne po-trebbe fare un libro divertente se qualche giovane studen-tessa di Girton o Newnham raccogliesse degli esempi e nericavasse una teoria; ma avrebbe bisogno di spessi guantialle mani, e di sbarre che la proteggano, d’oro massiccio.Ma quello che ora ci diverte, ricordai, chiudendo LadyBessborough, doveva essere disperatamente serio in pas-sato. Quelle opinioni che oggi raccogliamo in un libro daltitolo Panzane e teniamo in serbo per poi leggere ad unpubblico scelto nelle sere d’estate, una volta facevanoversare lacrime, ve lo posso assicurare. Ce ne sono statemolte tra le vostre nonne e bisnonne che piansero tantoda consumarsi gli occhi. Florence Nightingale urlavanella sua agonia.7 Inoltre è facile per voi, che vi sieteiscritte all’università e godete del vostro salotto - o è solouna stanza da letto? - dire che il genio non dovrebbe cu-rarsi di simili opinioni; che il genio dovrebbe essere al disopra di quello che dicono gli altri. Sfortunatamente,sono proprio gli uomini o le donne di genio a preoccu-parsi di più per quello che si dice di loro. RicordateKeats. Ricordate le parole che fece incidere sulla sua la-pide. Pensate a Tennyson; pensate... ma è quasi superfluomoltiplicare gli esempi del fatto innegabile, benché sfor-tunato, che è nella natura dell’artista preoccuparsi ecces-sivamente di quello che si dice di lui. La letteratura è dis-seminata dei relitti di quegli uomini che hanno badato inmaniera irragionevole alle opinioni degli altri.E questa loro sensibilità è doppiamente sfortunata, pen-savo, ritornando alla mia domanda iniziale su quale stato

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mentale fosse più propizio al lavoro creativo, perché lamente dell’artista, per poter realizzare il prodigioso sforzodi liberare per intero l’opera che è in lui, deve essere incan-descente, come la mente di Shakespeare, congetturai, guar-dando il libro aperto alle pagine di Antonio e Cleopatra.Non ci deve essere nessun ostacolo in essa, nessuna so-stanza estranea non consumata.Sebbene diciamo di non conoscere nulla dello stato men-tale di Shakespeare, proprio mentre lo diciamo, stiamodicendo qualcosa sullo stato mentale di Shakespeare. Laragione forse per cui conosciamo così poco di Shake-speare - in confronto a Donne o Ben Jonson o Milton - èche i suoi rancori e ripicche e antipatie ci sono nascosti.Non siamo aiutati da qualche “rivelazione” che ci facciapensare allo scrittore. Ogni desiderio di protestare, dipredicare, di proclamare un’ingiuria, di saldare un de-bito, di rendere il mondo testimone di qualche sofferenza odi qualche torto, esplodeva via da lui e si consumava. Lasua poesia fluiva quindi libera e senza ostacoli. Se mai unessere umano è riuscito ad esprimere il proprio lavorocompletamente, quello fu Shakespeare. Se mai una mente èstata incandescente, libera, pensai, ritornando di nuovoverso lo scaffale, quella è stata la mente di Shakespeare.

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IV

Che nel Cinquecento si riuscisse a trovare una donna inquello stato mentale, era ovviamente impossibile. Bastasolo pensare alle lapidi elisabettiane con tutti quei bam-bini in ginocchio e con le mani giunte; e alle loro mortipremature; e vedere le loro case dalle stanze buie, strette,per capire che nessuna donna avrebbe potuto scriverepoesia allora. Quello che ci si aspetterebbe, è che un po’più tardi forse, qualche nobildonna traesse vantaggio dallasua relativa libertà e agiatezza, per pubblicare qualcosacon il proprio nome, rischiando di essere considerata unmostro. Gli uomini, naturalmente, non sono degli snob,continuai, evitando attentamente “il femminismo spudo-rato” di Rebecca West; ma generalmente apprezzano conpartecipazione gli sforzi di una contessa che cerca di scri-vere versi. Ci aspetteremmo dunque che una nobildonnaricevesse un incoraggiamento di gran lunga maggiore diquello che una sconosciuta signorina Austen o signorinaBrontë avrebbe incontrato a quel tempo. Ma ci aspette-remmo anche che la sua mente fosse disturbata da emo-zioni estranee, come la paura e l’odio, e che i suoi compo-nimenti mostrassero le tracce di quel turbamento. EccoLady Winchilsea, pensavo, per esempio, prendendo le suepoesie. Ella era nata nell’anno 1661; era nobile sia per na-scita che per matrimonio; era senza figli; scriveva poesia, ebasta aprire il suo libro per trovarla furente di indigna-zione per la condizione delle donne:

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“Come siamo cadute in basso! cadute per false regole,vittime della Cultura più che della Natura;escluse da ogni progresso della mente,che fossimo ottuse, hanno sperato e destinato;e se qualcuna si librasse su tutto il resto,con fantasia più ricca, e dall’ambizione spinta, tanto forte ancora appare la fazione nemica,che le speranze di riuscire mai le paure potran schiac-ciare.”

È chiaro che la sua mente non è affatto riuscita a “consu-mare tutti gli ostacoli e a diventare incandescente”. Alcontrario, è tormentata e sconvolta da odi e rancori. Perlei la razza umana è divisa in due parti. Gli uomini sonola “fazione nemica”; gli uomini sono odiati e temutiperché hanno il potere di impedirle di fare ciò che ellavuole: scrivere.

“Ahimè! una donna che tenta la penna,creatura tanto presuntuosa è ritenuta,che la macchia da nessuna virtù può esser redenta.Ci dicono che fraintendiamo il nostro sesso e cammino;buone maniere, eleganza, ballo, vestiti e giochi,sono le doti che dovremmo desiderare;scrivere, o leggere, pensare, o investigare,oscurerebbe la nostra bellezza, consumerebbe il nostrotempo,e ostacolerebbe le conquiste della nostra giovinezza,mentre il noioso governo di una casa di serviè ritenuto da certi nostra somma arte e impiego.”

Ed ella deve farsi coraggio per poter scrivere, proprio im-maginando che ciò che scrive non verrà mai pubblicato;deve consolarsi con questo triste canto:

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“Per pochi amici, e per la tua pena canta,per corone di alloro non fosti mai destinata;siano le tue ombre scure a sufficienza, e in esse sii con-tenta.”

È evidente tuttavia che se avesse potuto liberare la mentedall’odio e la paura, invece di colmarla di amarezza e ran-core, il fuoco sarebbe stato vivo dentro di lei. Di tanto intanto sgorgano parole di pura poesia:

“Né vuole in sete impallidite comporre,timidamente l’inimitabil rosa.”

giustamente lodate da Middleton Murry; e Pope, sipensa, si ricordò e si appropriò di queste altre:

“Ora la giunchiglia opprime il debole cervello,e sotto l’aromatica sofferenza perdiamo i sensi.”

Era un vero peccato che la donna che poteva scrivere inquesto modo, la cui mente era in sintonia con la natura ela meditazione, sia stata costretta alla rabbia e all’ama-rezza. Ma cosa avrebbe potuto fare?, mi chiesi, immagi-nando i sogghigni e le risate, l’adulazione dei leccapiedi,lo scetticismo del poeta di professione. Per scrivere avràdovuto rinchiudersi in una stanza in campagna, straziatadall’amarezza e dagli scrupoli forse, sebbene suo maritofosse dei più gentili, e la loro vita matrimoniale la perfe-zione. Avrà dovuto, dico, perché quando si vuole saperequalcosa di Lady Winchilsea, si scopre, come di consueto,che di lei non si sa quasi nulla. Soffrì terribilmente di ma-linconia, cosa che ci possiamo spiegare almeno in parte,ascoltandola raccontarci di come, presa dalla desolazione,era solita immaginare:

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“I miei versi denigrati, e la mia occupazione giudicatainutile follia o presuntuoso errore.”

L’occupazione così censurata era, per quanto possiamogiudicare, l’innocuo vagabondare per i campi e sognare:

“La mia mano si diletta nel tracciar l’insolito,e dal noto e volgare si allontana,né vuole in sete impallidite comporre,timidamente l’inimitabil rosa.”

Naturalmente, se questa era la sua consuetudine e il suodiletto, poteva solo aspettarsi di essere derisa; e infatti sidice che Pope o Gay l’abbiano ridicolizzata chiamandola“un’intellettuale con la smania di scribacchiare”. Si pensaanche che ella abbia offeso Gay per aver riso di lui. Avevadetto che i suoi Trivia dimostravano che “egli era piùadatto a camminare davanti ad una portantina che astarci dentro”. Ma questi sono tutti “pettegolezzi infon-dati”, dice Murry, e “privi di interesse”. E qui non sonod’accordo con lui, perché mi sarebbe piaciuto saperne dipiù, anche solo di pettegolezzi infondati, per poter sco-prire o inventare qualche immagine di questa signora ma-linconica che amava vagare nei campi e pensare a cose in-solite, e disprezzava, così audacemente, così imprudente-mente, “il noioso governo di una casa di servi”. Ma di-venne verbosa, dice Murry. Il suo talento è tutto cosparsodi erbacce e tenuto insieme dall’erica. Non ha avuto al-cuna possibilità di mostrarsi per quanto era distinto e raf-finato. E così, riponendola sullo scaffale, mi rivolsi al-l’altra nobildonna, la Duchessa amata da Lamb, la sven-tata, stravagante Margaret di Newcastle, più anziana diLady Winchilsea, ma sua contemporanea. Erano moltodiverse, ma si somigliavano per il fatto di essere entrambenobili e senza figli, e sposate al migliore dei mariti. In en-

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trambe bruciava la stessa passione per la poesia ed en-trambe appaiono sfigurate e deformate per le stesse ra-gioni. Basta aprire la Duchessa per trovare lo stesso ac-cesso di rabbia. “Le donne vivono come pipistrelli o gufi,faticano come bestie, e muoiono come vermi... ” AncheMargaret avrebbe potuto essere una poetessa; oggi tuttaquella attività avrebbe in qualche modo fatto girare laruota della sorte. Stando così le cose, in che modo si po-teva trattenere, addomesticare o civilizzare, a vantaggiodell’umanità, quell’intelligenza primitiva, generosa, spon-tanea? Essa si riversava, alla rinfusa, in torrenti di rima eprosa, poesia e filosofia, ormai congelati in volumi inquarto e in folio che nessuno mai legge. Avrebbe dovutoavere in mano un microscopio. Avrebbero dovuto inse-gnarle a guardare le stelle e a ragionare scientificamente.Perse la ragione nella solitudine e la libertà. Nessuno lateneva a freno. Nessuno la erudiva. I professori la adula-vano ignobilmente. A Corte si beffavano di lei. SirEgerton Brydges si lamentava della sua rozzezza, “sor-prendente in una donna di alto rango cresciuta a corte”.Si rinchiuse a Welbeck, sola.Che visione di solitudine e ribellione richiama alla menteil pensiero di Margaret Cavendish! come se qualche gi-gantesco cetriolo si fosse esteso su tutte le rose e i garo-fani del giardino, soffocandoli fino alla morte. È un pec-cato che la donna che scrisse: “le donne meglio educatesono quelle il cui animo è il più gentile”, dovesse sciupare ilproprio tempo scribacchiando stupidaggini e sprofon-dando sempre più nell’oscurità e nella follia, tanto che lagente si accalcava intorno alla sua carrozza quando ellausciva. Evidentemente la Duchessa pazza era diventatauno spauracchio con cui terrorizzare le ragazze intelli-genti. Ecco, ricordai, mettendo a posto la Duchessa eaprendo le lettere di Dorothy Osborne, Dorothy chescrive a Temple a proposito del nuovo libro della Du-

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chessa: “Certo che la povera donna è un po’ matta, altri-menti non si sarebbe resa tanto ridicola azzardandosi ascrivere un libro, e in versi per giunta; anche se non do-vessi dormire per quindici giorni arriverei a tanto”.E così, giacché nessuna donna che avesse buon senso edecoro poteva scrivere libri, Dorothy, che era sensibile emalinconica, proprio l’opposto della Duchessa nel carat-tere, non scrisse niente. Le lettere non contavano. Unadonna poteva scrivere lettere seduta accanto al letto delpadre ammalato. Poteva scriverle accanto al fuoco,mentre gli uomini discorrevano, senza disturbarli. Lacosa strana, pensavo, sfogliando le lettere di Dorothy, è iltalento che quella ragazza incolta e solitaria aveva: nelformare una frase, nell’ideare una scena. Ascoltate il suoparlare fitto:“Dopo pranzo ci sediamo a chiacchierare finché non siparla del signor B., e allora me ne vado. Le ore più caldedella giornata passano leggendo o lavorando, e verso lesei o le sette vado a passeggiare in un campo che si trova vi-cino casa, dove molte ragazze badano alle pecore e allemucche, e stanno sedute all’ombra cantando ballate; iovado verso di loro e paragono le loro voci e la loro bel-lezza a quelle di qualche antica pastora di cui ho letto, evi trovo un’enorme differenza, ma credetemi, penso chequeste siano innocenti quanto quelle. Parlo con loro, e miaccorgo che non manca loro nulla per essere le personepiù felici del mondo, se non la conoscenza di essere tali.Di solito, nel bel mezzo della nostra conversazione, unadi loro si guarda intorno e vede la sua mucca entrare nelcampo di granturco, e allora corrono tutte via, come seavessero le ali ai piedi. Io che non sono così svelta ri-mango indietro, e quando le vedo riportare il bestiame acasa, penso che sia anche per me l’ora di ritirarmi. Dopocena vado in giardino, e sulla riva di un ruscello chescorre lì vicino mi siedo, e vi desidero con me... ”

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Chiunque avrebbe giurato che avesse la stoffa della scrit-trice. Ma, “anche se non dovessi dormire per quindicigiorni arriverei a tanto”; riusciamo a misurare la forte op-posizione contro le donne scrittrici, se pensiamo che per-sino una donna con una grande attitudine per la scrittura èriuscita a credere che scrivere un libro significasse ren-dersi ridicola, persino mostrare di essere impazzita. Ecosì arriviamo, continuai, riponendo il volumetto dellelettere di Dorothy Osborne, alla signora Behn.E con la signora Behn giungiamo ad una svolta molto im-portante della nostra strada. Ci lasciamo dietro, rinchiusenei loro parchi, tra i loro volumi, quelle solitarie nobil-donne che scrivevano senza pubblico o senza critica, peril proprio diletto soltanto. Arriviamo in città e ci uniamoalla gente comune che passa per la strada. La signoraBehn era una donna della classe media, con tutte le virtùplebee dell’umorismo, della vitalità e del coraggio; unadonna costretta dalla morte del marito, e da certe sue av-venture sfortunate, a guadagnarsi da vivere con il suo ta-lento. Dovette lavorare alla pari con gli uomini. Lavo-rando molto duramente, guadagnava abbastanza per vi-vere. Questo fatto ha più importanza di qualunque cosaella realmente scrisse, ha più importanza persino dellasplendida Mille martiri ho causato o di Amore in capric-cioso trionfo sedeva, perché da questo momento comincia lalibertà della mente, o piuttosto, la possibilità che col pas-sare del tempo la mente diventi libera di scrivere ciò chele piace. Perché dopo che Aphra Behn l’aveva fatto, le ra-gazze potevano dire ai loro genitori: “Non c’è bisognoche mi date un’indennità; posso guadagnare scrivendo.”Naturalmente, per molti anni la risposta fu: “Sì, vivendola vita di Aphra Behn! Meglio la morte!”, e la porta ve-niva assicurata come non mai. Quell’argomento estrema-mente interessante, il valore che gli uomini attribuisconoalla castità delle donne, e il suo effetto sulla loro educa-

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zione, si propone qui alla discussione, e potrebbe sugge-rire l’idea per un libro interessante, se qualche studen-tessa di Girton o Newnham desiderasse approfondirel’argomento. Lady Dudley, seduta tra gli insetti di unabrughiera scozzese, coperta di diamanti, potrebbe fare dafrontespizio. Lord Dudley, scriveva il Times quando LadyDudley morì l’altro giorno, “un uomo dai gusti raffinati edalle molte doti, era benevolo e generoso, ma dispotico inmaniera stravagante. Esigeva che sua moglie indossassesempre abiti da gran cerimonia, persino nel più remoto ri-fugio di caccia nelle montagne scozzesi; la colmava digioielli sfarzosi”, e così via; “le dava tutto, tranne una purminima parte di responsabilità”. Poi Lord Dudley fupreso da un attacco apoplettico ed ella si prese cura di lui, eda allora in poi amministrò i suoi possedimenti conestrema competenza. Quell’eccentrico dispotismo esi-steva anche nell’Ottocento.Ma riprendiamo il filo. Aphra Behn aveva dimostrato che sipoteva guadagnare scrivendo, sebbene ciò comportasse,forse, il sacrificio di alcune piacevoli qualità; e così, pergradi, da mero segno di follia e di una mente turbata,scrivere divenne di importanza pratica. Poteva morire ilmarito, o qualche sventura poteva cogliere di sorpresa lafamiglia. Centinaia di donne, con l’avvicinarsi del Sette-cento, cominciarono ad incrementare i propri spiccioli, o asostenere le proprie famiglie, traducendo oppure scri-vendo quegli innumerevoli cattivi romanzi che persino imanuali hanno smesso di menzionare, ma che si possonotrovare nelle scatole da quattro centesimi delle librerie diCharing Cross. L’immensa attività mentale che fiorì tra ledonne verso la fine del Settecento - le conversazioni, gliincontri, lo scrivere saggi su Shakespeare, le traduzionidei classici - si fondava sul fatto concreto che le donnepotevano guadagnare dei soldi scrivendo. Il denaro nobilitaciò che sarebbe frivolo se non viene pagato. Forse c’era

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ancora chi scherniva le “intellettuali con la smania di scri-bacchiare”, ma non si poteva negare che mettevano soldinelle loro borse. Così, verso la fine del Settecento, ci fuun cambiamento che, se stessi riscrivendo la storia, do-vrei descrivere più in dettaglio, e ritenere di maggiore im-portanza, delle Crociate o della Guerra delle Rose. La donna della classe media cominciò a scrivere. Perchése Orgoglio e pregiudizio è importante, e Middlemarch eVillette e Cime tempestose sono importanti, allora è im-portante, molto di più di quanto io possa dimostrare inun discorso di un’ora, che le donne in generale, e nonsoltanto l’aristocratica solitaria rinchiusa nella sua casa dicampagna tra i suoi volumi e i suoi adulatori, si misero ascrivere. Senza quelle precorritrici, né Jane Austen né lesorelle Brontë né George Eliot avrebbero potuto scri-vere, più di quanto Shakespeare avrebbe potuto scriveresenza Marlowe, o Marlowe senza Chaucer, o Chaucersenza quei poeti dimenticati che prepararono la stradaaddomesticando la naturale barbarie della lingua. Perché icapolavori non sono nascite singole e solitarie; sono ilprodotto di molti anni di pensiero comune, del pensiero ditutto un popolo, di modo che l’esperienza della massasostiene la voce solitaria. Jane Austen avrebbe dovutodeporre una corona sulla tomba di Fanny Burney, eGeorge Eliot rendere omaggio all’anima robusta di ElizaCarter, la vecchia coraggiosa che aveva legato una cam-pana alla testata del letto per potersi svegliare presto eimparare il greco. Insieme, tutte le donne, dovrebberocoprire di fiori la tomba di Aphra Behn, che si trova,molto scandalosamente ma alquanto appropriatamente,nell’Abbazia di Westminster, perché è stata lei a conqui-stare loro il diritto di esprimersi. È lei, per quanto equi-voca e passionale, che rende non troppo stravagante ilmio dirvi stasera: guadagnate cinquecento all’anno con ilvostro talento.

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Qui, dunque, siamo giunti al primo Ottocento. E qui, perla prima volta, ho trovato diversi scaffali dedicati intera-mente alle opere delle donne. Ma perché, non potevo farea meno di chiedermi, mentre vi scorrevo lo sguardo,perché, tranne pochissime eccezioni, erano tutti romanzi?L’impulso originario era per la poesia. Il “capo supremo”,la Musa del canto, era una poetessa. Sia in Francia che inInghilterra, le poetesse precedono le donne romanziere.Inoltre, pensavo, guardando i quattro nomi famosi, cosaaveva in comune George Eliot con Emily Brontë? Non èstata Charlotte Brontë del tutto incapace di capire JaneAusten? Salvo per il fatto, probabilmente rilevante, chenessuna di loro ebbe figli, non si sarebbero potuti riunirein una stanza quattro personaggi più diversi; così diversiche sarebbe allettante inventare un loro incontro e ascol-tarle parlare. Tuttavia, spinte da qualche strana forza, scris-sero tutte dei romanzi. C’entrava con l’essere nate nellaclasse media, mi domandavo, e con il fatto, che Emily Da-vies doveva dimostrare in modo così sorprendente alcunianni dopo, che all’inizio dell’Ottocento le famiglie dellaclasse media possedevano soltanto una stanza di sog-giorno? Se una donna scriveva, doveva scrivere nel sog-giorno comune. E per di più, come Florence Nightingaledoveva lamentarsene con tanta veemenza: “le donne nonhanno mai una mezz’ora ... che possono chiamare pro-pria”, veniva sempre interrotta. Era comunque più facilescrivere della prosa o un romanzo, di quanto non fossescrivere della poesia o un dramma. È necessaria meno con-centrazione. In questo modo scrisse Jane Austen fino allafine dei suoi giorni. “Come riuscisse a fare tutto questo”,scriveva suo nipote nella sua Memoir, “è sorprendente,perché ella non aveva uno studio separato in cui rifugiarsi, ela gran parte del lavoro deve essere stata fatta nel sog-giorno comune, dove era soggetta ad ogni sorta di interru-zione accidentale. Ella badava a che la sua occupazione

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non fosse sospettata né dalla servitù, né dai visitatori, né daqualsiasi altra persona al di fuori della sua famiglia”.8

Jane Austen nascondeva i suoi manoscritti o li copriva conun pezzo di carta assorbente. Dunque tutta l’educazioneletteraria che una donna riceveva nel primo Ottocento si li-mitava ad un’esercitazione nell’osservazione dei caratteri,nell’analisi delle emozioni. Per secoli la sua sensibilità erastata educata dall’influenza del soggiorno comune. Eranostati impressi in lei i sentimenti umani; i rapporti personalierano sempre davanti ai suoi occhi. Di conseguenza,quando la donna della classe media cominciò a scrivere,scrisse naturalmente dei romanzi, anche se, come appareabbastanza evidente, due delle quattro donne famose quinominate, non fossero per natura scrittrici di romanzi.Emily Brontë avrebbe dovuto scrivere drammi in versi;tutto quanto traboccava dalla mente spaziosa di GeorgeEliot avrebbe dovuto estendersi, una volta spento l’impulsocreativo, alla storia o la biografia. Scrissero romanzi, tut-tavia; e si potrebbe persino aggiungere, mi dicevo, pren-dendo Orgoglio e pregiudizio dallo scaffale, che scrissero beiromanzi. Senza vantarsi o addolorare l’altro sesso, si po-trebbe dire che Orgoglio e pregiudizio è un bel libro. Adogni modo, non ci saremmo vergognate se ci avessero sco-perte a scrivere Orgoglio e pregiudizio. Tuttavia Jane Austenera felice che un cardine cigolasse, così da poter nascondere ilsuo manoscritto prima che entrasse qualcuno. Per Jane Au-sten c’era qualcosa di sconveniente nel fatto di scrivere Or-goglio e pregiudizio. E mi chiedevo se Orgoglio e pregiudizionon sarebbe stato un romanzo migliore, se Jane Austen nonavesse ritenuto necessario nascondere il manoscritto ai visi-tatori. Ne lessi una pagina o due per vedere; ma non c’eranessun segno che le circostanze avessero minimamentedanneggiato il suo lavoro. Questo, forse, è stato il miracolopiù grande. Ecco una donna che intorno al 1800 scrivevasenza odio, senza amarezza, senza paura, senza proteste,

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senza prediche. Era così che scriveva Shakespeare, pensai,guardando Antonio e Cleopatra; e quando si mette a con-fronto Shakespeare con Jane Austen, si intende forse direche le menti di entrambi avevano distrutto ogni ostacolo;ed è per questo che non conosciamo Jane Austen e non co-nosciamo Shakespeare, ed è per questo che Jane Austenpervade ogni parola che scrisse, e così anche Shakespeare.Se il modo in cui viveva fu per Jane Austen causa diqualche sofferenza, questa era dovuta alla limitatezza di vitache le era stata imposta. Era impossibile per una donna an-dare in giro da sola. Ella non viaggiò mai; non attraversòmai Londra in autobus, né pranzò mai da sola in un risto-rante. Ma forse era nella natura di Jane Austen non deside-rare quello che non aveva. Il suo talento e la sua condizione siaccordavano perfettamente. Ma dubito che ciò fosse verodi Charlotte Brontë, dissi, aprendo Jane Eyre e ponendoloaccanto a Orgoglio e pregiudizio.Il libro si era aperto al capitolo dodici e il mio sguardo sifermò sulla frase: “Chiunque potrà biasimarmi, se crede”.Perché biasimavano Charlotte Brontë? mi domandavo. Elessi di come Jane Eyre era solita salire sul tetto, mentrela signora Fairfax preparava le gelatine, per guardare,oltre i campi, il paesaggio lontano. E poi desiderava: (edera per questo che la biasimavano) “allora desideravo unpotere di visione capace di oltrepassare quei confini; ca-pace di raggiungere il mondo indaffarato, le città, le re-gioni piene di vita di cui avevo sentito parlare ma che nonavevo mai visto; allora desideravo più esperienza praticadi quanta ne possedessi; più rapporti con i miei simili,più conoscenza della varietà di caratteri di quanto fossequi alla mia portata. Apprezzavo quanto c’era di buononella signora Fairfax, e quanto c’era di buono in Adèle;ma credevo nell’esistenza di altri e più vivi generi dibontà, e quello in cui credevo, desideravo mirare.Chi mi biasima? Molti, senza dubbio, e mi chiameranno

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scontenta. Non potevo farci niente: l’irrequietezza eranella mia natura; mi agitava fino al dolore a volte...È inutile dire che gli esseri umani dovrebbero acconten-tarsi della tranquillità: hanno bisogno di azione; e la cree-ranno, se non riescono a trovarla. Milioni di essi sonocondannati ad un destino più immobile del mio, e milionisi ribellano silenziosamente contro il loro fato. Nessunosa quante ribellioni fermentano nelle masse di vita chepopolano la terra. Si suppone generalmente che le donnesiano molto calme: ma le donne sentono proprio comesentono gli uomini; hanno bisogno di esercitare le lorocapacità e di un campo per i loro sforzi, proprio come iloro fratelli; soffrono per una costrizione troppo rigida,un’immobilità troppo completa, precisamente come nesoffrirebbero gli uomini; ed è meschino da parte dei loropiù privilegiati simili dire che esse dovrebbero limitarsi apreparare budini e a fare la calza, a suonare il piano e aricamare borse. È insensibile condannarle, o deriderle, secercano di fare di più o di imparare di più di quanto latradizione abbia decretato necessario per il loro sesso.In quei momenti di solitudine, non di rado sentivo la ri-sata di Grace Poole... ”Questa è una goffa interruzione, pensai. È sconcertanteimbattersi all’improvviso in Grace Poole. La continuitàviene turbata. Si potrebbe affermare, continuai, lasciando illibro accanto a Orgoglio e pregiudizio, che la donna chescrisse quelle pagine aveva in sé più talento di Jane Au-sten; ma basta rileggerle facendo caso a quel sobbalzo, aquell’indignazione, per capire che ella non riuscirà maiad esprimere interamente il suo talento. I suoi libri sa-ranno deformati e contorti. Scriverà con rabbia, quandodovrebbe scrivere con pacatezza. Scriverà insensata-mente, quando dovrebbe scrivere saggiamente. Scriverà

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di se stessa, quando dovrebbe scrivere dei suoi perso-naggi. È in conflitto con il suo destino. Come avrebbepotuto non morire giovane, limitata e frustrata?

Non possiamo se non giocare per un momento con l’ideadi quello che sarebbe potuto succedere se CharlotteBrontë avesse posseduto, diciamo, trecento sterline al-l’anno - ma la sciocca vendette senza indugio i dirittid’autore dei suoi romanzi per millecinquecento sterline;magari avesse avuto in qualche modo una maggiore cono-scenza del mondo, delle città e delle regioni piene di vita;più esperienza pratica, più rapporti con i suoi simili econtatti con la molteplicità dei caratteri. Con quelle pa-role ella addita esattamente non solo le proprie mancanzecome scrittrice, ma anche quelle del suo sesso in quell’e-poca. Ella sapeva, e nessuno meglio di lei, quantoavrebbe giovato al suo genio se questo non si fosse consu-mato in visioni solitarie al di là di campi lontani; se l’espe-rienza, le relazioni sociali e i viaggi le fossero stati con-cessi. Ma non furono concessi; furono negati; e dob-biamo accettare il fatto che tutti quei bei romanzi, Vil-lette, Emma, Cime tempestose, Middlemarch, furonoscritti da donne con tanta esperienza della vita quanta nepoteva entrare nella casa di un rispettabile ministro dellachiesa; scritti anche nel soggiorno comune di quella casarispettabile, e da donne talmente povere da non potersipermettere di comprare più di pochi fogli di carta allavolta su cui scrivere Cime tempestose o Jane Eyre. Una diloro, è vero, George Eliot, riuscì a fuggire dopo molte tri-bolazioni, ma solo per rinchiudersi in una villa isolata diSt John’s Wood. E visse lì, nell’ombra della disapprova-zione del mondo. “Desidero che si sappia”, ella scrisse,“che non inviterei mai nessuno a farmi visita se non persua esplicita richiesta”; non viveva, infatti, nel peccatocon un uomo sposato, e non avrebbe l’incontro recato

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danno alla castità della signora Smith o di chiunque fosseandato per caso a trovarla? Bisogna piegarsi alle conven-zioni sociali, ed essere “tagliati fuori da ciò che si chiama ilmondo”. Nello stesso periodo, dall’altra parte dell’Eu-ropa, c’era un giovane che viveva liberamente con questazingara o quella nobildonna; andava in guerra; racco-glieva, senza intralci né censure, tutta quella variegataesperienza della vita umana di cui si giovò così splendida-mente poi, quando decise di scrivere i suoi romanzi. SeTolstoi fosse vissuto in una canonica, in isolamento conuna donna sposata, “tagliato fuori da ciò che si chiama ilmondo”, per quanto edificante la sua lezione morale, nonavrebbe forse potuto scrivere Guerra e pace, pensai. Ma si potrebbe forse indagare più a fondo la questionedella scrittura del romanzo, e dell’effetto del sesso sulloscrittore. Se chiudiamo gli occhi e pensiamo al romanzonel suo insieme, ci appare come una creazione che inqualche modo rispecchia la vita, sebbene naturalmentecon innumerevoli semplificazioni e alterazioni. È co-munque una struttura che imprime una forma alla fan-tasia, una forma composta ora di quadrati, ora somigliante auna pagoda, ora arricchita di ali e arcate, ora solidamentecompatta e sovrastata da cupole, come la cattedrale diSanta Sofia a Costantinopoli. Questa forma, riflettevo, ri-pensando a certi romanzi famosi, accende dentro di noi ilgenere di emozione che più le è appropriato. Ma questaemozione si combina subito con altre emozioni, perchéquella “forma” non si fonda sul rapporto tra pietra epietra, ma sul rapporto tra un essere umano e l’altro. Cosìun romanzo accende in noi ogni genere di emozione anta-gonista e contraria. La vita è in conflitto con qualcosa chenon è la vita. Di qui la difficoltà di giungere ad un ac-cordo qualunque su un romanzo, e l’enorme influenza deinostri pregiudizi personali. Da un lato pensiamo: Tu, John ilprotagonista, devi vivere, altrimenti sarò al colmo della di-

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sperazione. Dall’altro pensiamo: Ahimè, John, tu devi mo-rire, perché è necessario alla forma del libro. La vita è inconflitto con qualcosa che non è la vita. Siccome dunqueè in parte vita, la giudichiamo come se fosse vita. James èil tipo di uomo che più detesto, si dice. Oppure, questo èun cumulo di assurdità. Io personalmente non potrei maiprovare niente del genere. L’intera struttura, è evidente,ripensando ad un qualsiasi romanzo famoso, è infinita-mente complessa, perché si compone, in questo modo, ditanti giudizi diversi, di tanti diversi tipi di emozioni. Lacosa strabiliante è che qualsiasi libro così composto possaresistere per più di un anno o due, o possa avere per il let-tore inglese lo stesso significato che ha per il lettore russoo cinese. Eppure alcuni romanzi a volte resistono in ma-niera straordinaria. E ciò che li tiene insieme, in questi raricasi di sopravvivenza (stavo pensando a Guerra e pace), èqualcosa che si può chiamare integrità, sebbene non abbianiente a che fare con il pagare i propri debiti o con il com-portarsi in modo ammirevole in una circostanza impre-vista. Ciò che si intende per integrità, nel caso del roman-ziere, è il suo convincerci che quella del romanzo è la ve-rità. Sì, riconosciamo, non avrei mai pensato che potesseessere così; non ho mai conosciuto persone che si com-portassero in quel modo. Ma mi hai convinto che è così,che così vanno le cose. Mentre leggiamo, esaminiamo allaluce ogni espressione, ogni scena, perché sembra che laNatura, molto stravagantemente, ci abbia dotato di unaluce interiore con cui giudicare l’integrità, o l’assenza diintegrità, del romanziere. O forse è piuttosto che la Na-tura, in uno stato d’animo dei più irrazionali, ha tracciatocon dell’inchiostro invisibile, sulle pareti della nostramente, una premonizione che questi grandi artisti do-vranno confermare; un disegno che deve essere solo acco-stato al fuoco del genio perché diventi visibile. Quandoviene così rivelato e lo osserviamo prendere vita, escla-

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miamo estasiati, ma questo è ciò che ho sempre sentito,saputo e desiderato! E sopraffatti dall’eccitazione, chiu-dendo il libro persino con una specie di venerazione,come se fosse qualcosa di molto prezioso, un sostegno acui ricorrere finché si è in vita, lo riponiamo sullo scaffale,dicevo, prendendo Guerra e pace e riportandolo al suoposto. Se invece quelle povere frasi che mettiamo allaprova suscitano all’inizio una risposta pronta e impazientecon il loro colore acceso e il loro movimento brioso, maoltre non vanno, qualcosa sembra frenare il loro corso; ose alla luce rivelano solo uno scarabocchio sbiadito inquell’angolo e una macchia d’inchiostro in quest’altro, enon compare niente che sia integro e completo, allora so-spiriamo per la delusione e diciamo: un altro fallimento.Questo romanzo ha ceduto in qualche punto.E per la maggior parte, naturalmente, i romanzi cedono inqualche punto. L’immaginazione vacilla sotto l’enormesforzo. L’intuito è confuso; non riesce più a distinguere tra ilvero e il falso, non ha più la forza di proseguire con l’e-norme lavoro che ad ogni momento richiede l’impiego dicosì tante facoltà diverse. Ma come tutto questo può es-sere condizionato dal sesso dello scrittore, mi domandavo,guardando Jane Eyre e gli altri. Il fatto di essere una donnaha interferito in qualche modo con la sua integrità di ro-manziere, quell’integrità che io considero il sostegno prin-cipale dello scrittore? Dunque, nei brani che ho citato daJane Eyre, è evidente che la collera aveva corrotto l’inte-grità di Charlotte Brontë scrittrice. Ella abbandonò il rac-conto, a cui doveva la sua completa dedizione, per occu-parsi di qualche torto personale. Cominciò a ricordare diessere stata privata di quanto le spettava dell’esperienza:era stata costretta a stagnare in una canonica a rammen-dare calze, quando avrebbe voluto girare liberamente ilmondo. La sua immaginazione, sospinta dalla protesta,cambiò direzione, e siamo consapevoli del cambiamento.

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Ma c’erano molte più influenze della collera a far deviarela sua immaginazione, allontanandola dal suo percorso.L’ignoranza, per esempio. Il ritratto di Rochester è trac-ciato al buio. Sentiamo su di esso l’influenza della paura;così come sentiamo costantemente la causticità, conse-guenza dell’oppressione, la sofferenza sotterranea checova sotto la passione, il rancore che contrae quei libri,per quanto splendidi, con uno spasmo di dolore.E poiché un romanzo ha questa corrispondenza con lavita reale, i suoi valori sono, fino ad un certo punto,quelli della vita reale. Ma è ovvio che i valori delle donnedifferiscono molto spesso dai valori creati dall’altro sesso; ènaturale che sia così. Tuttavia sono i valori maschili a pre-valere. Per dirla semplicemente, il calcio e lo sport sono“importanti”; il culto della moda, il comprare vestiti, “fu-tile”. E questi valori sono inevitabilmente trasferiti dallavita al romanzo. Questo è un libro importante, suppone ilcritico, perché tratta della guerra. Questo è un libro insi-gnificante perché tratta dei sentimenti delle donne in unsalotto. Una scena su un campo di battaglia è più impor-tante di una scena in un negozio; dovunque, e anchemolto più sottilmente, persiste la differenza di valori.L’intera struttura del romanzo del primo Ottocento,quindi, veniva eretta, se l’autore era una donna, da unamente leggermente allontanata dal proprio percorso, ecostretta ad alterare la sua chiara visione, in ossequio aun’autorità esteriore. Basta sfogliare quei vecchi romanzidimenticati e prestare orecchio al tono di voce in cuisono scritti, per indovinare che l’autrice stava affron-tando delle critiche; diceva questo per aggredire, o quel-l’altro per placare. Riconosceva di essere “soltanto unadonna”, o protestava di essere “brava quanto un uomo”.Affrontò quelle critiche come dettava il suo tempera-mento, con docilità e reticenza, o con rabbia e veemenza.Non importa se in un modo o nell’altro; stava pensando a

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qualcos’altro che non era il romanzo. Il suo libro va inpezzi. C’era una spaccatura nel mezzo. E pensai a tuttiquei romanzi scritti dalle donne, che ora si trovanosparsi, come piccole mele butterate in un orto, nei negozidi libri usati di Londra. Era quella spaccatura nel mezzoche li aveva fatti marcire. L’autrice aveva alterato i suoivalori per rispetto delle opinioni altrui.Ma quanto deve essere stato difficile per loro non voltarsiné a destra né a sinistra. Che genio, che integrità sarannooccorsi di fronte a tutte quelle critiche, in quella societàesclusivamente patriarcale, per poter affermare la realtà,così come le donne la vedevano, senza timore. Solo JaneAusten ci è riuscita; ed Emily Brontë. È un’altra piuma,forse la più bella, del loro cappello. Scrissero come scri-vono le donne, non come scrivono gli uomini. Fra tutte lemigliaia di donne che scrivevano allora romanzi, furonole sole ad ignorare completamente gli incessanti ammoni-menti dell’eterno pedagogo: scrivi questo, pensa quello.Furono le sole a rimanere sorde a quella voce insistente,ora brontolante, ora condiscendente, ora tiranneggiante,ora accorata, ora scandalizzata, ora arrabbiata, ora confi-denziale, quella voce che non riesce a lasciare in pace ledonne, ma deve star loro dietro, come un’istitutricetroppo coscienziosa, scongiurandole, come Sir EgertonBrydges, di essere raffinate; ricorrendo persino, nella cri-tica letteraria, alla critica del sesso;9 esortandole, se voles-sero essere brave e vincere, come suppongo, qualchetrofeo luccicante, a mantenersi entro certi limiti che il si-gnore in questione ritiene convenienti: “... le scrittrici diromanzi dovrebbero aspirare all’eccellenza soltanto rico-noscendo coraggiosamente le limitazioni del loro sesso”.10

Così la questione è ridotta al nocciolo, e quando vi dico,cogliendovi alquanto di sorpresa, che questa frase non fuscritta nell’agosto del 1828 ma nell’agosto del 1928, con-verrete, credo, che per quanto ora possa farci sorridere,

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rappresenta una diffusa tendenza di pensiero - non vogliorimestare in quelle vecchie pozzanghere; prendo solo ciòche il caso ha fatto galleggiare fino ai miei piedi - che unsecolo fa era assai più vigorosa e assai più esplicita. Nel1828 ci sarebbe voluta una ragazza molto risoluta pernon curarsi di tutte quelle umiliazioni e rampogne e pro-messe di premi. Avrebbe dovuto essere una specie di sov-vertitrice per poter dire a se stessa: Oh, ma non possonocomprare anche la letteratura. La letteratura è aperta atutti. Io non ti permetto, per quanto custode tu sia, dicacciarmi via dal prato. Chiudete a doppia mandata levostre biblioteche, se volete; ma non c’è nessun cancello,nessun lucchetto, nessun catenaccio che potete metterealla libertà della mia mente.Tuttavia, qualunque effetto lo scoraggiamento e le criticheebbero sulla loro scrittura - e credo che ebbero un effettostraordinario - questo fu poco importante a confronto conl’altra difficoltà che dovettero affrontare (stavo ancoraconsiderando quelle scrittrici del primo Ottocento)quando decisero di affidare alla carta i loro pensieri: ilfatto cioè che non avessero alcuna tradizione alle lorospalle, o che questa fosse talmente breve e parziale da es-sere di poco aiuto. Perché se siamo donne, riflettiamo sulpassato attraverso le nostre madri. È inutile chiedere aiutoai grandi scrittori, per quanto piacere ci possano procu-rare. Lamb, Browne, Thackeray, Newman, Sterne,Dickens, De Quincey - chiunque egli sia - non hanno maiaiutato una donna, sebbene ella possa aver imparato daloro qualche espediente, per adattarlo poi ad uso proprio. Ilpeso, il passo, la velocità della mente di un uomo sonotroppo diversi dai suoi perché ella ne possa attingere qual-cosa di veramente utile. La scimmia è troppo distante perriuscire a imitare. Forse la prima cosa che ella scopri-rebbe, prendendo carta e penna, era che non c’era nes-suna frase in comune, pronta per essere usata. Tutti i

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grandi romanzieri come Thackeray, Dickens e Balzac,hanno scritto una prosa naturale, svelta ma non sciatta,espressiva ma non preziosa, che ha assunto una sfumaturapersonale, pur continuando ad essere di proprietà co-mune. Si erano basati sul tipo di frase usato all’epoca. Illinguaggio corrente all’inizio dell’Ottocento forse suonavagrosso modo così: “La grandezza delle loro opere era perloro una ragione non per fermarsi, ma per proseguire.Non esisteva per loro più nobile impulso o soddisfazionese non nell’esercizio della loro arte e nel generare all’infi-nito verità e bellezza. Il successo incita allo sforzo; e l’abi-tudine facilita il successo”. Questo è il linguaggio di unuomo; al di là di esso possiamo immaginare Johnson,Gibbon e gli altri. Era un linguaggio inadeguato a unadonna. Charlotte Brontë, nonostante il suo meravigliosotalento per la prosa, incespicò e cadde con quell’arma di-sagevole nelle mani. George Eliot commise con essa delleatrocità che non possono essere descritte. Jane Austen lediede un’occhiata e se la rise, e ideò una frase armoniosa,perfettamente naturale e appropriata alle sue esigenze, emai se ne separò. Così, con meno talento per la scritturadi quanto ne avesse Charlotte Brontë, riuscì a dire infini-tamente di più. In effetti, poiché la libertà e la pienezzadell’espressione sono l’essenza dell’arte, una tale man-canza di tradizione, una tale scarsezza e inadeguatezza distrumenti, deve aver influito enormemente sulla produ-zione letteraria delle donne. Inoltre, un libro non è fattodi frasi collocate l’una di seguito all’altra, ma di frasi, seun’immagine può aiutare, che costruiscono arcate o cu-pole. E anche questa forma è stata creata dagli uomini, inbase alle loro esigenze, per il loro uso personale. Non c’èalcuna ragione di credere che la forma dell’epica o deldramma in versi sia più adeguata a una donna di quantonon lo sia il loro stile. Ma tutte le più antiche forme lette-rarie si erano già irrigidite e fissate quando ella diventò

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una scrittrice. Soltanto il romanzo era abbastanza giovaneda farsi modellare nelle sue mani; un’altra ragione, forse,per cui ella scrisse romanzi. Eppure chi può dire che per-sino oggi “il romanzo” (lo scrivo tra virgolette per sottoli-neare quanto la parola mi sembri inadeguata), chi puòdire che persino questa, la più flessibile di tutte le forme,si adatta bene all’uso della donna? Senza dubbio quandoella potrà muoversi liberamente, la troveremo a rimetterloin forma per le proprie necessità, e a munirsi di qualchenuovo veicolo, non necessariamente in versi, per la poesiache è in lei. Perché è alla poesia che è ancora negataespressione. E mi misi a riflettere su come una donna oggiscriverebbe una tragedia in cinque atti. Userebbe il verso?O userebbe piuttosto la prosa?Ma la risposta a queste difficili domande appartiene alle te-nebre del futuro. Devo tralasciarla, se non altro perché miincita a divagare dal mio argomento e a inoltrarmi in fo-reste inviolate dove mi perderò e, molto probabilmente,sarò divorata dalle bestie feroci. Non voglio, e sono sicurache neanche voi me lo chiedereste, affrontare il malinco-nico argomento del futuro del romanzo, perciò mi fermeròqui, solo un momento, per attirare la vostra attenzione sulruolo importante che in quel futuro dovrà essere svolto,per quanto riguarda le donne, dalle condizioni fisiche. Illibro deve in qualche modo adattarsi al corpo; e, per dirneuna a caso, i libri delle donne dovrebbero essere più brevi,più concentrati, di quelli degli uomini, e strutturati inmodo tale da non richiedere lunghe ore di lavoro costantee ininterrotto. Perché interruzioni ce ne saranno sempre.Per di più, i nervi che alimentano il cervello sembra chesiano diversi negli uomini e nelle donne, e se vogliamo ot-tenere da essi il massimo, dobbiamo scoprire qual è il trat-tamento che meglio si addice loro: se quest’orario di confe-renze, per esempio, ideato dai monaci presumibilmentecentinaia di anni fa, è per essi adeguato; come alternare il

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lavoro e il riposo, intendendo il riposo non come farniente, ma come fare qualcosa benché qualcosa di diverso; ein cosa consisterebbe questa differenza? Tutto questo è an-cora da discutere e da scoprire; tutto questo fa parte delproblema delle donne e il romanzo. E tuttavia, continuai,avvicinandomi di nuovo alla libreria, dove troverò quellostudio particolareggiato sulla psicologia delle donne,scritto da una donna? Se a causa della loro incapacità digiocare al pallone alle donne non sarà concesso di eserci-tare la medicina...Fortunatamente in quel momento i miei pensieri preseroun’altra direzione.

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Ero arrivata finalmente, tra una divagazione e l’altra, agliscaffali con i libri degli autori contemporanei, sia donneche uomini; perché oggi ci sono quasi tanti libri scrittidalle donne quanti sono quelli scritti dagli uomini. O sequesto non è ancora del tutto vero, se il sesso maschile èancora quello più loquace, è certamente vero che ledonne non scrivono più soltanto dei romanzi. Ci sono ilibri di Jane Harrison sull’archeologia greca; i libri diVernon Lee sull’estetica; quelli di Gertrude Bell sullaPersia. Ci sono libri su ogni genere di argomento che unagenerazione fa nessuna donna avrebbe potuto trattare. Cisono poesie e opere teatrali e di critica; ci sono libri distoria e biografie; libri di viaggi e libri di studi e ricerche; cisono persino alcuni libri di filosofia, di scienza ed eco-nomia. E sebbene predominino i romanzi, è molto proba-bile che i romanzi stessi siano cambiati per la loro asso-ciazione con libri di genere diverso. La semplicità natu-rale, l’era epica della scrittura delle donne, sono proba-bilmente finite. L’abitudine alla lettura e alla criticahanno forse aperto alla donna un campo più ampio, lehanno permesso di essere più acuta. L’impulso autobio-grafico si è forse spento. È possibile che la donna stia co-minciando a usare la scrittura come un’arte, e non comeun metodo di autoespressione. Tra i nuovi romanzi si po-trebbe trovare una risposta a tante di queste domande.Ne presi uno a caso. Stava proprio all’estremità dello scaf-

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fale, si intitolava L’avventura della vita, o qualcosa di simile,scritto da Mary Carmichael, ed era stato pubblicato proprioin questo mese di ottobre. Sembra il suo primo libro, midissi, ma bisogna leggerlo come se fosse l’ultimo volume diuna serie piuttosto lunga, la continuazione di tutti queglialtri libri che ho finora sfogliato, le poesie di Lady Win-chilsea, le commedie di Aphra Behn e i romanzi dellequattro grandi scrittrici. Perché i libri si continuano l’unl’altro, a dispetto della nostra abitudine di giudicarli separa-tamente. E devo anche considerare questa donna scono-sciuta come la discendente di tutte quelle altre donne allecui condizioni si è accennato prima, e vedere cosa ha eredi-tato delle loro caratteristiche e delle loro limitazioni. Così,sospirando, giacché i romanzi spesso offrono un calmante enon un antidoto, ci fanno scivolare in un torpido sonno in-vece di incitarci con un’arma incandescente, presi qua-derno e matita e mi misi al lavoro con il primo romanzo diMary Carmichael, L’avventura della vita.Per cominciare, diedi una rapida occhiata alla pagina.Voglio innanzitutto farmi un’idea di come scrive, dissi,prima di appesantire la mia memoria con occhi azzurri eocchi castani e il rapporto che ci potrebbe essere traChloe e Roger. Avrò tempo per questo quando avrò de-ciso se ha in mano una penna o un piccone. Provaiquindi a leggere ad alta voce una o due frasi. Fu subitoevidente che qualcosa non funzionava. Lo scorrere fluidodi frase in frase era ostacolato. Qualcosa si lacerava, qual-cosa raschiava; qua e là una parola lampeggiava la suafiamma nei miei occhi. L’autrice si stava “lasciando an-dare”, come dicono nelle vecchie commedie. È come unapersona che strofina un fiammifero che non si accenderà,pensavo. Ma perché, le chiesi come se fosse presente, lostile di Jane Austen non ha la forma giusta per te? È tuttoda buttare via perché Emma e il signor Woodhouse sonomorti? Peccato, sospirai, che sia così. Perché mentre Jane

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Austen passa da una melodia all’altra come Mozart dauna canzone all’altra, leggere questa scrittrice era cometrovarsi su una barchetta in mare aperto. Su si saliva, giùsi affondava. Questa concisione, questa stringatezza, po-trebbero voler dire che l’autrice aveva paura di qualcosa;paura forse di essere chiamata “sentimentale”; oppurenon ha dimenticato che la scrittura femminile è stata defi-nita troppo fiorita, e quindi la adorna con sovrabbon-danza di spine; ma finché non avrò letto un’intera scenacon attenzione, non posso dire con sicurezza se mentrescrive è se stessa o qualcun altro. Ad ogni modo, nonspegne la nostra vitalità, pensavo, mentre leggevo più at-tentamente. Ma sta accumulando troppi fatti. Non riu-scirà ad usarne neanche la metà in un libro di queste di-mensioni (era all’incirca la metà di Jane Eyre ). Co-munque, in un modo o nell’altro, riuscì a metterci tutti -Roger, Chloe, Olivia, Tony e il signor Bigham - in unacanoa e a farci risalire il fiume. Aspettate un momento,dissi, appoggiandomi allo schienale della sedia, devo con-siderare il tutto più attentamente prima di andare avanti.Sono quasi sicura, mi dicevo, che Mary Carmichael ci stagiocando un tiro. Perché mi sento come ci si sente sullemontagne russe, quando la vettura, invece di sprofon-dare, come ci è stato fatto credere, svetta su di nuovo.Mary sta manomettendo la sequenza prevista. Prima harotto la frase; ora ha rotto la sequenza. Molto bene, hatutti i diritti di fare entrambe le cose, se le fa non per ilpiacere di rompere, ma per il piacere di creare. Quale siadei due, non posso esserne certa finché non avrà fattofronte ad una situazione. Le concederò tutte la libertà,dissi, di scegliere quale sarà quella situazione; può farla discatole di latta e vecchi bollitori, se vuole; ma deve con-vincermi che anche lei crede in quella situazione; e poiquando l’avrà creata, dovrà tenerle testa. Dovrà saltare.E, decisa a fare il mio dovere di lettrice con lei, se lei vo-

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lesse fare il suo dovere di scrittrice con me, voltai paginae lessi... Mi dispiace interrompermi così bruscamente.Non ci sono uomini presenti? Mi promettete che dietroquella tenda rossa laggiù non si è nascosto Sir CharlesBiron? Mi assicurate che siamo tutte donne? Allora possodirvi che le prime parole che lessi erano queste: “A Chloepiaceva Olivia... ” Non sobbalzate. Non arrossite. Am-mettiamo, fra di noi, che a volte queste cose succedono.A volte alle donne piacciono le donne.“A Chloe piaceva Olivia”, lessi. E poi mi resi conto del-l’immenso cambiamento. A Chloe piaceva Olivia forseper la prima volta nella letteratura. A Cleopatra non pia-ceva Ottavia. E quanto sarebbe stato diverso Antonio eCleopatra se a Cleopatra fosse piaciuta. Così com’è, pen-savo, lasciando purtroppo che la mia mente divagasse unpo’ da L’avventura della vita, tutto il loro rapporto è sem-plificato, convenzionalizzato, se posso osare dirlo, senzauna ragione. Il solo sentimento di Cleopatra per Ottavia èun sentimento di gelosia. È più alta di me? Come si ac-concia i capelli? L’opera, forse, non richiedeva niente dipiù. Ma quanto sarebbe stata più interessante se il rap-porto tra le due donne fosse stato più complesso. Tuttequeste relazioni tra donne, pensavo, rievocando rapida-mente la splendida galleria di donne immaginarie, sonotroppo semplici. Quante cose sono state tralasciate, maitentate. E cercai di ricordare qualche caso incontrato nelcorso delle mie letture, in cui due donne venissero rap-presentate come amiche. C’è un tentativo in Diana. InRacine e nelle tragedie greche sono confidenti, natural-mente. Ogni tanto sono madre e figlia. Ma, quasi senzaeccezioni, sono mostrate nei loro rapporti con gli uomini.Era strano pensare che tutte le grandi donne della lettera-tura erano state, fino all’epoca di Jane Austen, non soloviste dall’altro sesso, ma viste soltanto in relazione al-l’altro sesso. E quella non è che una piccola parte della

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vita di una donna; e persino di quella, un uomo può sa-perne molto poco, se la osserva attraverso le lenti nere orosate che il proprio sesso gli mette sul naso. Da ciò,forse, deriva la singolare natura della donna nel romanzo; ilsorprendente contrasto tra la sua estrema bellezza e lasua deformità; l’alternarsi della bontà celestiale alla de-pravazione infernale; perché così doveva vederla unamante, a seconda che il suo amore cresceva o si indebo-liva, era prospero o infelice. Ciò non è altrettanto verodei romanzieri dell’Ottocento, naturalmente. Qui ladonna diventa molto più variegata e complessa. È statoproprio il desiderio di scrivere sulle donne, forse, che haindotto gli uomini, per gradi, ad abbandonare il drammain versi (che, per la sua violenza, poteva fare così pocouso di esse) e ad inventare un contenitore più adeguato, ilromanzo. Eppure è ancora evidente, persino nelle operedi Proust, che un uomo è terribilmente ostacolato e par-ziale nella sua conoscenza delle donne, come lo è unadonna nella sua conoscenza degli uomini.Per di più, continuai, abbassando nuovamente lo sguardosulla pagina, è sempre più chiaro che le donne, come gliuomini, hanno altri interessi al di là degli eterni interessidella vita domestica. “A Chloe piaceva Olivia. Esse gesti-vano insieme un laboratorio... ” Continuai a leggere escoprii che queste due giovani donne si occupavano ditriturare del fegato, che viene usato, pare, come cura perl’anemia perniciosa; sebbene una delle due fosse sposatae avesse, se non sbaglio, due figli piccoli. In passato tuttoquesto, naturalmente, doveva essere tralasciato, e di con-seguenza il bellissimo ritratto della donna fittizia risultavatroppo semplice e troppo monotono. Supponiamo, peresempio, che gli uomini fossero rappresentati in lettera-tura soltanto nei ruoli di amanti delle donne, e non fos-sero mai amici di altri uomini, soldati, pensatori, sogna-tori; quante poche parti verrebbero loro assegnate nelle

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opere di Shakespeare; come ne soffrirebbe la letteratura!Ci potrebbe rimanere forse gran parte di Otello; e unabuona parte di Antonio; ma niente Cesare, niente Bruto,niente Amleto, né Lear, né Jaques; la letteratura ne sa-rebbe incredibilmente impoverita, come è stata in veritàinestimabilmente impoverita per aver chiuso tante portealle donne. Date in moglie contro la loro volontà, limitatead una stanza, e ad una sola occupazione, come potevaun drammaturgo farne una descrizione che fosse com-pleta o interessante o veritiera? L’amore era l’unico inter-prete possibile. Il poeta era costretto ad essere appassio-nato o pungente, salvo che non scegliesse di “odiare ledonne”, il che molto spesso significava che le donne nonsi curavano di lui.Dunque, se a Chloe piace Olivia, e gestiscono insieme unlaboratorio, elemento che sarà sufficiente a rendere piùvaria e duratura la loro amicizia, perché sarà meno perso-nale; se Mary Carmichael sa scrivere, e infatti cominciava apiacermi qualche tratto del suo stile; se ha una stanzatutta per sé, cosa di cui non sono del tutto sicura; se pos-siede cinquecento sterline all’anno - ma questo è ancorada dimostrare - allora ritengo che è successo qualcosa dimolto importante.Perché se a Chloe piace Olivia, e Mary Carmichael sacome esprimere quel sentimento, si accenderà una fiac-cola in quella grande sala dove nessuno ancora è entrato. Ètutta luci fioche e ombre profonde, come quelle grottetortuose dove ci si inoltra con una candela in mano, scru-tando in ogni angolo, non sapendo dove mettere i piedi.E ricominciai a leggere il libro, e lessi di come Chloe os-servava Olivia mettere un barattolo su una mensola edirle che era ora di andare a casa dai suoi figli. Questa èuna scena che non si è mai vista da quando è nato ilmondo, esclamai. E mi misi ad osservare anch’io, conmolta curiosità. Perché volevo vedere come avrebbe fatto

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Mary Carmichael a cogliere quei gesti non tramandati,quelle parole non dette o dette a metà, che prendonoforma, non più palpabili delle ombre delle falene sul sof-fitto, quando le donne sono sole, non illuminate dallaluce capricciosa e colorata dell’altro sesso. Dovrà tratte-nere il respiro, dissi, continuando a leggere, se vuolefarlo; perché le donne sono così sospettose di qualsiasiinteresse che non abbia un’ovvia ragione a suo sostegno,così terribilmente abituate alla dissimulazione e alla re-pressione, che scappano via al solo guizzo di unosguardo, se è volto ad osservarle con attenzione. L’unicomodo per riuscirci, pensai, rivolgendomi a Mary Carmi-chael come se ella fosse lì, sarebbe di parlare di qualco-s’altro, guardando fisso fuori della finestra, e così anno-tare, non con una matita in un quaderno, ma con la piùconcisa delle stenografie, con parole quasi non sillabateancora, quello che accade quando Olivia - questo orga-nismo che per milioni di anni è stato all’ombra dellaroccia - si sente colpire dalla luce, e vede arrivare un nu-trimento sconosciuto: il sapere, l’avventura, l’arte. E siprotende verso di esso, pensavo, di nuovo alzando gliocchi dalla pagina, e deve escogitare qualche combina-zione del tutto nuova delle sue risorse, così ben svilup-pate per altri scopi, per poter assorbire il nuovo nel vec-chio, senza disturbare l’infinitamente intricato ed elabo-rato equilibrio dell’insieme.Ma, ahimè, avevo fatto quello che avevo deciso di nonfare; mi ero ritrovata senza accorgermene a lodare il miosesso. “Ben sviluppate”, “infinitamente intricato”, questeinnegabilmente sono parole di lode, e lodare il propriosesso è sempre sospetto, spesso sciocco; inoltre, in questocaso, come poterlo giustificare? Non possiamo prendereuna carta geografica e dire che Colombo ha scoperto l’A-merica e che Colombo era una donna; o prendere unamela e osservare che Newton ha scoperto le leggi di gra-

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vità e che Newton era una donna; o guardare il cielo edire che gli aeroplani volano sopra di noi e che gli aero-plani sono stati inventati dalle donne. Non c’è nessunsegno sul muro con cui poter misurare l’altezza precisadelle donne. Non ci sono metri, accuratamente suddivisiin frazioni di centimetri, che si possano utilizzare per lequalità di una buona madre o la devozione di una figlia, ola fedeltà di una sorella, o le capacità di una massaia.Poche donne, persino adesso, hanno frequentato l’uni-versità; le grandi prove delle professioni, dell’esercito edella marina, del commercio, della politica e della diplo-mazia, esse non le hanno quasi affrontate. Delle donnenon si conosce tuttora quasi niente. Ma se voglio saperetutto quello che un essere umano può dirmi su SirHawley Butts, per esempio, devo soltanto aprire l’alma-nacco di Burke o di Debrett per scoprire che ha presouna certa laurea; possiede un maniero; ha un erede; èstato ministro; ha rappresentato la Gran Bretagna in Ca-nada; e ha ricevuto un certo numero di titoli, incarichi,medaglie e altri riconoscimenti, grazie ai quali i suoi me-riti sono indelebilmente impressi su di lui. Per quanto ri-guarda Sir Hawley Butts, solo la Provvidenza può sa-perne di più. Quando allora, a proposito delle donne, uso le espres-sioni “ben sviluppate”, “infinitamente intricato”, nonsono in grado di verificare le mie parole né in Whitaker, oin Debrett o nell’Annuario universitario. Cosa posso farein questa situazione? E volsi nuovamente lo sguardo allalibreria. C’erano le biografie: Johnson, Goethe, Carlyle,Sterne, Cowper, Shelley, Voltaire e Browning e molti altri.E cominciai a pensare a tutti quei grandi uomini che, peruna ragione o per l’altra, hanno ammirato certe personedel sesso opposto, le hanno cercate, hanno vissuto conloro, si confidavano, le corteggiavano, hanno scritto su diloro, ne hanno avuto fiducia, mostrando ciò che può solo

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essere descritto come una sorta di bisogno e di dipen-denza verso quelle persone. Che tutte quelle relazioni fos-sero completamente platoniche non lo affermerei, e SirWilliam Joynson Hicks probabilmente mi contraddi-rebbe. Ma sarebbe con grande discredito per questi uo-mini illustri se sostenessimo che in quelle relazioni essinon trovarono altro che serenità, adulazione e i piaceridel corpo. Quello che trovarono, è evidente, era qualcosache il loro sesso era incapace di offrire; e forse non sa-rebbe avventato definire ulteriormente questo qualcosa,senza citare le parole dei poeti, senza dubbio rapsodiche,come uno stimolo, un rinnovamento dell’energia creativache solo il sesso opposto ha la facoltà di offrire. Luiapriva la porta del salotto o della stanza dei bambini,pensavo, e la trovava con i figli forse, o con un ricamosulle ginocchia; ad ogni modo, lei era il centro di un di-verso ordine e sistema di vita, e il contrasto tra questomondo e il suo, che poteva essere il tribunale o la Cameradei Comuni, subito lo ristorava e lo rinvigoriva; e ne con-seguiva, persino nella conversazione più semplice, unanaturale differenza d’opinione, tale da fertilizzare dinuovo le idee ormai inariditesi in lui; e poterla vedere in-tenta a creare in un contesto diverso dal suo, rinvigorivatalmente la sua forza creativa, che impercettibilmente lasua mente sterile cominciava di nuovo a ideare, ed egliavrebbe finalmente trovato la frase o la scena che glimancavano quando si era messo il cappello per andare dalei. Ogni Johnson ha la sua Thrale, e si tiene stretto a leiper ragioni simili a queste, e quando la Thrale sposa ilsuo maestro di musica italiano, Johnson quasi impazzisceper la rabbia e il disgusto, non soltanto perché gli man-cheranno le sue piacevoli serate a Streatham, ma perchéla luce della sua vita sarà “come spenta”.E senza essere il dottor Johnson o Goethe o Carlyle o Vol-taire, possiamo sentire, sebbene in modo molto diverso ri-

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spetto a quei grandi uomini, la natura di questa comples-sità e la forza di questa facoltà creativa, così ben svilup-pata nelle donne. Entriamo nella stanza... ma per le risorsedella lingua inglese sarebbe un notevole sforzo, e interistormi di parole dovrebbero nascere librandosi illegittima-mente in volo, prima che una donna possa esprimere cosaaccade quando ella entra in una stanza. Le stanze sonocosì diverse; sono calme o tonanti; aperte sul mare o, alcontrario, sul cortile di una prigione; vi è appeso il bucato, oluccicano di opali e sete; sono dure come crine di cavalloo morbide come piume... basta entrare in una qualunquestanza di una qualunque strada per essere colpiti da tuttaquella forza estremamente complessa della femminilità.Come potrebbe essere altrimenti? Le donne sono state se-dute dentro casa per così tanti milioni di anni, che ormaianche i muri sono pervasi della loro energia creativa, laquale, infatti, ha talmente ecceduto la capacità di mattonie malta che deve necessariamente legarsi alle penne, aipennelli, agli affari e alla politica. Questa forza creativa,tuttavia, differisce enormemente dalla forza creativa degliuomini. E dobbiamo dedurre che sarebbe un vero pec-cato se venisse ostacolata o sprecata, perché è stata con-quistata con secoli e secoli della più drastica disciplina, enon c’è niente che la possa sostituire. Sarebbe un veropeccato se le donne scrivessero come gli uomini, o vives-sero come gli uomini, o somigliassero agli uomini, perchése due sessi non bastano, considerando la vastità e la va-rietà del mondo, come potremmo cavarcela con uno solo?Non dovrebbe l’educazione evidenziare e rafforzare le dif-ferenze, piuttosto che le somiglianze? Perché ci somi-gliamo già troppo, e se un esploratore dovesse ritornarecon la notizia di altri sessi che guardano altri cieli attra-verso i rami di altri alberi, niente sarebbe di maggioreaiuto per l’umanità; e avremmo per giunta l’immenso pia-cere di vedere il Professor X precipitarsi sulle sue bac-

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chette misuratrici per dimostrare di essere “superiore”.Mary Carmichael, pensavo, indugiando ancora lontanodalla pagina, dovrà far fronte ad un duro compito comeosservatrice. Temo infatti che sarà tentata da quella che ioconsidero la varietà meno interessante della specie: il ro-manziere naturalista, e non il contemplativo. Ci sono cosìtanti fatti nuovi da osservare. Non dovrà più limitarsi allecase rispettabili delle classi dell’alta borghesia. Entreràsenza benevolenza né condiscendenza, ma con spirito difratellanza, in quelle piccole stanze profumate dove è se-duta la cortigiana, la prostituta e la signora con il suo ca-gnolino. Eccole là, sedute con quegli abiti ruvidi e di con-fezione che l’uomo scrittore ha dovuto per forza buttarein fretta sulle loro spalle. Ma Mary Carmichael tireràfuori le sue forbici e li adatterà perfettamente a ogni ca-vità e ogni sporgenza. Sarà uno spettacolo insolito,quando ciò accadrà, vedere queste donne così comesono; ma dobbiamo aspettare un po’, perché Mary Car-michael è ancora impacciata da quella consapevolezza disé in presenza del “peccato”, l’eredità della nostra bar-barie sessuale. Ancora porta ai piedi i vecchi meschiniceppi della classe.La maggior parte delle donne, tuttavia, non sono né pro-stitute né cortigiane; né trascorrono tutti i pomeriggi d’e-state a stringere il cagnolino al loro vecchio vestito di vel-luto. Ma cosa fanno allora? E mi venne in mente una diquelle lunghe strade da qualche parte a sud del fiume, lecui interminabili file di case sono infinitamente popolate.Con l’occhio dell’immaginazione vedevo una signoramolto vecchia attraversare la strada al braccio di unadonna di mezza età, sua figlia, forse, entrambe così rispet-tabilmente calzate e impellicciate che il loro abbigliarsipomeridiano doveva essere un rituale, e i vestiti stessierano certamente riposti in armadi pieni di canfora, annodopo anno, tutti i mesi estivi. Attraversano la strada

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mentre si accendono i lampioni (perché il crepuscolo è illoro momento preferito), come avranno fatto anno dopoanno. La più anziana ha quasi ottant’anni; ma se le si do-mandasse che cosa ha significato per lei la vita, risponde-rebbe che era vivo il ricordo delle strade illuminate a festaper la battaglia di Balaclava, o che aveva sentito sparare icannoni di Hyde Park per la nascita del re Edoardo VII.Ma se le si domandasse, desiderosi di fissare il momentocon una data precisa, cosa stava facendo lei il 5 aprile1868, o il 2 novembre 1875, assumerebbe un’aria incerta edirebbe che non riusciva a ricordare niente. Perché ipranzi erano sempre pronti; i piatti e le tazze sempre la-vati; i bambini mandati a scuola e poi in giro per ilmondo. Non rimane niente di tutto questo. Tutto è sva-nito. Nessuna biografia, nessuna storia ha una parola dadire a proposito. E i romanzi, senza averne l’intenzione,inevitabilmente mentono.Tutte queste vite infinitamente oscure sono ancora da tra-scrivere, dissi, rivolgendomi a Mary Carmichael come seella fosse presente; e proseguii con il pensiero per lestrade di Londra sentendo la pressione di quel non detto,l’ammassarsi di vita non tramandata, delle donne agli an-goli delle strade con le mani sui fianchi, e gli anelli inca-strati nelle dita grasse e gonfie, e il loro parlare e gestico-lare che ricorda il ritmo delle parole di Shakespeare; odelle venditrici di violette e di fiammiferi, e delle vecchieche vivono sui marciapiedi; o delle ragazze senza meta neicui volti, come nei flutti sotto il sole e l’ombra, traspare ilsopraggiungere di uomini e donne e le luci tremolantidelle vetrine dei negozi. Tutto questo dovrai esplorare,dissi a Mary Carmichael, con la tua fiaccola stretta inmano. E soprattutto dovrai illuminare la tua stessa animain tutte le sue profondità e i suoi pianori, le sue vanità e lesue generosità, e dire cosa significa per te la tua bellezza o latua bruttezza, e qual è il tuo rapporto con il sempre mute-

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vole e roteante mondo dei guanti e delle scarpe e dellestoffe che ondeggiano tra le fievoli essenze delle bottigliedei profumieri, e creano arcate di tessuto sospese su unpavimento di finto marmo. Perché con la fantasia ero en-trata in un negozio; aveva il pavimento bianco e nero; eradecorato, in modo sorprendentemente bello, con dei na-stri colorati. Mary Carmichael potrebbe proprio darviun’occhiata, pensai, perché è uno spettacolo tanto appro-priato alla descrizione quanto una qualunque cima inne-vata o gola rocciosa delle Ande. E c’è anche la ragazzadietro il banco; mi piacerebbe tanto avere la sua verastoria quanto la centocinquantesima vita di Napoleone o ilsettantesimo saggio su Keats e il suo impiego dell’inver-sione miltoniana che il vecchio professor Z e i suoi col-leghi stanno al momento redigendo. E poi continuando,con molta cautela, proprio in punta di piedi (così codardasono, così paurosa della frusta che una volta fu quasi po-sata sulle mie spalle), le mormorai che dovrebbe ancheimparare a ridere, senza asprezza, delle vanità - diciamopiuttosto delle peculiarità, che è una parola meno offen-siva - dell’altro sesso. Perché dietro la testa c’è una mac-chia grande quanto una moneta da uno scellino che nonriusciamo mai a vedere da soli. Questo è uno dei favoriche un sesso può offrire all’altro: descrivere quella mac-chia dietro la testa grande quanto uno scellino. Pensatequanto hanno giovato alle donne i commenti di Giove-nale, la critica di Strindberg. Pensate con quanta benevo-lenza e quanto ingegno, fin dalle età più antiche, gli uo-mini hanno indicato alle donne quel punto oscuro dietrola testa! E se Mary fosse molto coraggiosa e molto onesta,dovrebbe andare alle spalle dell’altro sesso e raccontarciquello che ha trovato. Non potrà mai esser dipinto unvero ritratto dell’uomo nella sua interezza, finché unadonna non avrà descritto quella macchia grande quantouno scellino. Woodhouse e Casaubon sono proprio mac-

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chie di quella grandezza e natura. Certo, nessuno che siasano di mente le consiglierebbe di fare ciò con la sola in-tenzione di schernire e mettere in ridicolo; la letteratura cimostra la futilità di tutto ciò che è scritto con quella inten-zione. Sii veritiera, si potrebbe dirle, e il risultato sarà dicerto sorprendentemente interessante. La commedia nesarà certamente arricchita. Si scopriranno dei fatti nuovi.Comunque, era proprio il momento di ricondurre losguardo alla pagina. Sarebbe meglio, invece di specularesu ciò che Mary Carmichael potrebbe scrivere e do-vrebbe scrivere, vedere quello che Mary Carmichael haeffettivamente scritto. Ripresi dunque a leggere. Mi ri-cordai che ce l’avevo con lei. Aveva spezzato la frase diJane Austen, privandomi così della possibilità di vantarmidel mio gusto impeccabile, del mio orecchio esigente.Perché era inutile dire: “Sì, sì, questo è molto bello; maJane Austen scriveva molto meglio di te”, se avevo am-messo che non c’era alcuna somiglianza tra di loro. Maryinoltre aveva avuto l’ardire di spezzare la sequenza, l’or-dine previsto. Forse l’aveva fatto inconsapevolmente,dando semplicemente alle cose il loro ordine naturale,come farebbe una donna, se scrivesse da donna. Ma l’ef-fetto era alquanto sconcertante; non si riusciva a vedere ilfrangersi di un’onda, il risolversi di una crisi. Non potevovantarmi, quindi, né della profondità dei miei sentimenti,né della mia vasta conoscenza del cuore umano. Perchéogni volta che ero sul punto di provare le solite cose neisoliti momenti, sull’amore, sulla morte, quella fastidiosacreatura mi tirava via, come se il punto importante fosseproprio un po’ più in là. E così mi impediva di sciorinare lemie frasi altisonanti sui “sentimenti primordiali”, la “ma-teria comune dell’umanità”, “le profondità del cuoreumano”, e tutte quelle altre espressioni che ci aiutano acredere di essere, per quanto possiamo sembrare argutiin superficie, molto seri, molto profondi e molto umani

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in profondità. Al contrario, mi portò a credere che invecedi essere seri e profondi e umani, si potrebbe essere, el’idea era molto meno seducente, soltanto mentalmentepigri e per giunta convenzionali.Tuttavia continuai a leggere, e notai certi altri fatti. Ellanon era un “genio”, questo era evidente. Non avevanessun amore per la natura, né l’ardente immaginazione,la poesia primitiva, il vivace ingegno, la melanconica sag-gezza delle sue grandi precorritrici, Lady Winchilsea,Charlotte Brontë, Emily Brontë, Jane Austen e GeorgeEliot; non poteva scrivere con la melodia e la dignità diDorothy Osborne; era infatti soltanto una ragazza intelli-gente i cui libri tra dieci anni saranno certamente man-dati al macero dagli editori. Ma, ciononostante, aveva al-cuni vantaggi che mancavano a donne di talento di granlunga maggiore, persino mezzo secolo fa. Gli uomini perlei non erano più “la fazione nemica”; non deve sprecareil suo tempo ad inveire contro di loro; non deve arrampi-carsi sul tetto e distruggere la sua serenità desiderandoviaggi, esperienza e quella conoscenza del mondo e deicaratteri che le era stata negata. La paura e l’odio eranoquasi scomparsi, o se ne scorgeva qualche traccia soltantoin una leggera esagerazione della gioia per la sua libertà,nella tendenza ad essere caustica e satirica, piuttosto cheromantica, quando discuteva dell’altro sesso. Inoltre nonc’era alcun dubbio che come scrittrice di romanzi godevadi certi vantaggi naturali di prim’ordine. La sua sensibi-lità era molto grande, avida e libera. Reagiva ad un toccoquasi impercettibile. Si nutriva, come una pianta da pocospuntata, di ogni spettacolo e suono che la circondava. Sidilettava, anche, con molto acume e curiosità, di cosequasi sconosciute o mai trascritte; si imbatteva nelle cosepiccole e dimostrava che forse non erano così piccoledopo tutto. Portava alla luce cose sepolte, e ci faceva me-ravigliare della necessità di averle seppellite. Benché fosse

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goffa e mancasse di quell’inconsapevole stile, tramandatodi generazione in generazione, che rende il minimo trattodi penna di un Thackeray o un Lamb delizioso all’orec-chio, ella aveva perfettamente compreso, cominciai apensare, la prima grande lezione; scriveva come unadonna, ma come una donna che ha dimenticato di esseredonna, sicché le sue pagine erano piene di quella stranaqualità sessuale che appare solo quando il sesso non èconsapevole di se stesso. Tutto questo era lodevole. Ma nessuna abbondanza disensazioni o acutezza di percezione avrebbe giovato, seella non fosse riuscita a costruire con ciò che è passeggero epersonale il duraturo edificio che non può crollare. Avevodetto che avrei aspettato fino a quando ella non avesse af-frontato “una situazione”. E con ciò intendevo fino aquando non avesse dimostrato, convocando, richiamando emettendo insieme, di non sfiorare semplicemente le su-perfici, ma di aver studiato le profondità al di sotto. Oraè il momento, si sarebbe detta ad un certo punto, di rive-lare, senza violenze, il significato di tutto questo. Eavrebbe cominciato - quanto è inconfondibile quell’acce-lerazione! - a richiamare e a convocare; e si sarebbero de-stati alla memoria, per metà dimenticati, certi dettagliforse piuttosto banali, sparsi negli altri capitoli. Eavrebbe fatto sentire la loro presenza nel modo più natu-rale possibile, mentre qualcuno cuciva o fumava la pipa, eci saremmo sentiti, mentre lei continuava a scrivere, comese fossimo saliti in cima al mondo e lo vedessimo disteso,molto maestosamente, sotto di noi.Ad ogni modo, ci stava provando. E mentre la osservavoprotendersi verso la prova, vedevo, sperando tuttavia cheella non vedesse, i vescovi e i decani, i dottori e i profes-sori, i patriarchi e i pedagoghi, tutti vicino a lei per gri-dare avvertimenti e consigli. Non puoi fare questo e nonfarai quello! Professori e studiosi soltanto sono ammessi

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sul prato! Le signore non sono ammesse senza una letteradi presentazione! Le giovani e graziose scrittrici daquesta parte! Così gridavano, come fa la folla ad ogniostacolo delle corse, e la prova di Mary sarebbe stata disaltare il suo ostacolo senza guardare né a destra né a si-nistra. Se ti fermi a imprecare sei perduta, le dissi; cosìpure se ti fermi a ridere. Un’esitazione o un nervosismo, esei finita. Pensa solo al salto, la implorai, come se avessipuntato tutti i miei soldi su di lei; e lei superò l’ostacolocome un uccello. Ma c’era un altro ostacolo più in là, eun altro ancora più in là. Che potesse resistere, dubitavo,perché gli applausi e le grida erano tali da logorare inervi. Ma fece del suo meglio. Considerando che MaryCarmichael non era un genio, ma una ragazza sconosciutache scrisse il suo primo romanzo in un monolocale, nellapenuria di quelle cose desiderabili, il tempo, i soldi el’ozio, non se l’era cavata così male, pensavo.Datele altri cento anni, argomentavo, leggendo l’ultimocapitolo, (i nasi e le spalle scoperte della gente si mostra-vano nudi sullo sfondo di un cielo stellato, perché qual-cuno aveva tirato la tenda del salotto) datele una stanzatutta per sé e cinquecento all’anno, permettetele di direciò che pensa e di cancellare la metà di quello che ora in-serisce, e scriverà un libro migliore uno di questi giorni.Sarà una poetessa, dissi, riponendo L’avventura della vita,di Mary Carmichael, all’estremità dello scaffale, tra centoanni.

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Il giorno dopo, la luce del mattino di ottobre cadeva araggi polverosi attraverso le finestre senza tende, e dallastrada saliva il ronzio del traffico. Londra si stava dunquerimettendo in moto; la fabbrica era sveglia; le macchinericominciavano. Mi incuriosiva, dopo tutto quel leggere,guardare fuori della finestra e vedere che cosa facevaLondra la mattina del 26 ottobre 1928. E che cosa facevaLondra? Nessuno, a quanto pareva, stava leggendo An-tonio e Cleopatra. Londra sembrava totalmente indiffe-rente alle opere di Shakespeare. Nessuno si preoccupavaminimamente, e non li biasimo, del futuro del romanzo,della morte della poesia o del fatto che una donna co-mune avesse sviluppato uno stile di prosa capace di espri-mere completamente il suo pensiero. Se avessero scrittocon il gesso, sul marciapiede, delle opinioni su uno qua-lunque di questi argomenti, nessuno si sarebbe chinato aleggerle. L’indifferenza di quei piedi frettolosi le avrebbecancellate in mezz’ora. Ecco un fattorino; ecco unadonna con un cane al guinzaglio. Il fascino delle strade diLondra è che non ci sono mai due persone uguali;ognuna sembra badare a qualche sua faccenda personale.C’erano gli efficienti, con le loro valigette; c’erano i vaga-bondi a far risuonare le inferriate con i loro bastoncini;c’erano i personaggi affabili, per i quali la strada è comeun circolo, che salutavano gli uomini sui carretti e davanoinformazioni non richieste. C’erano anche i funerali, al

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cui passaggio gli uomini, ricordandosi improvvisamentedella caducità dei propri corpi, si levavano il cappello. Epoi un signore molto distinto uscì lentamente di casa edovette fermarsi per evitare la collisione con una affac-cendata signora che aveva, chissà come, acquistato unasplendida pelliccia e un mazzetto di violette di Parma.Sembravano tutti separati, assorti nei propri pensieri,presi dai propri affari.A questo punto, come accade tanto spesso a Londra, cifu una pausa e una completa sospensione del traffico.Niente veniva giù per la strada; non passava nessuno.Solo una foglia si staccò dal platano in fondo alla strada,e in quella pausa e quella sospensione, cadde. Era in uncerto senso come una caduta esemplare, il segnale di unaforza nelle cose che era stata trascurata. Sembrava indi-care un fiume che scorreva invisibile oltre l’angolo, giùper la strada, e portava via le persone in turbini vorticosi,come il fiume a Oxbridge aveva portato via lo studentecon la sua barca, e le foglie morte. Ora il fiume portavada un lato all’altro della strada, diagonalmente, una ra-gazza dagli stivali di vernice, e poi un giovane con uncappotto marrone; stava anche portando un tassì; e liportò, tutti e tre insieme, proprio sotto la mia finestra;dove il tassì si fermò; e la ragazza e il giovane si ferma-rono; ed entrarono nel tassì; e poi la macchina scivolò viacome se fosse spinta altrove dalla corrente.Lo spettacolo era piuttosto comune; quello che era stranoera l’ordine ritmico di cui la mia immaginazione lo avevainvestito; e il fatto che il comune spettacolo di due per-sone che entrano in un tassì avesse il potere di comuni-care qualcosa della loro apparente soddisfazione. Vederedue persone che vengono giù per la strada e si incontranoall’angolo, sembra alleviare la mente di una certa ten-sione, pensavo, mentre guardavo il tassì voltare e scompa-rire. Forse è uno sforzo pensare, come avevo pensato in

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questi due giorni, ad un sesso come distinto dall’altro. In-terferisce con l’unità della mente. Ora quello sforzo erafinito e quell’unità era stata ristabilita per il fatto di avervisto due persone arrivare insieme e salire su un tassì. Lamente è certamente un organo molto misterioso, riflet-tevo, allontanandomi dalla finestra, di cui non sappiamoassolutamente niente, sebbene dipendiamo così total-mente da essa. Perché sento che ci sono separazioni edopposizioni nella mente, così come ci sono lacerazioni,per ragioni evidenti, nel corpo? Cosa vuol dire “l’unitàdella mente”? - riflettevo - perché è chiaro che la menteha un così grande potere di concentrazione in qualunquepunto, in qualunque momento, che non sembra avereuna sola esistenza. Può separarsi dalla gente per strada,per esempio, e immaginarsi come lontana da essa, comese la guardasse dall’alto di una finestra. Oppure può pen-sare spontaneamente insieme agli altri, come, peresempio, in mezzo alla folla che aspetta la lettura diqualche notizia. Può pensare al passato attraverso i suoiantenati o le sue antenate, come ho detto che una donnache scrive pensa al passato attraverso sua madre e lamadre di sua madre. Inoltre se si è una donna, ci si sor-prende spesso di un improvviso scindersi della coscienza,quando si percorre, ad esempio, Whitehall, e dall’esserela naturale erede di quella civiltà, ella, al contrario, di-venta ad essa estranea e pronta alla critica. È chiaro chela mente cambia sempre fuoco, e pone il mondo in pro-spettive diverse. Ma alcuni di questi stati d’animo, anchese adottati spontaneamente, sembrano essere menoconfortevoli di altri. Per riuscire a perseverare in essi,dobbiamo reprimere inconsciamente qualcosa, e gradual-mente la repressione diventa uno sforzo. Ma ci può ancheessere qualche stato d’animo in cui si potrebbe rimaneresenza sforzo, perché non è necessario reprimere niente. Equesto forse, pensavo, allontanandomi ancora un po’

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dalla finestra, è uno di quelli. Perché certamente quandoho visto la coppia salire sul tassì, la mente ha sentitocome se, dopo essere stata a lungo divisa, si fosse ricom-posta in una fusione naturale. La ragione più ovvia sa-rebbe che è naturale che i due sessi cooperino. C’è in noiun profondo, benché irrazionale, istinto a favore dellateoria secondo la quale l’unione dell’uomo e della donnapromuove la massima soddisfazione, la felicità più com-pleta. Ma vedere quelle due persone salire sul tassì, el’appagamento che ciò mi ha dato, mi ha anche portata achiedermi se ci sono due sessi nella mente corrispondentiai due sessi nel corpo, e se anche questi hanno bisogno diessere uniti per ottenere la soddisfazione e la felicità piùcomplete. E mi misi poi ad abbozzare, da dilettante, unoschema dell’anima in modo che in ognuno di noi presie-dano due forze, una maschile e una femminile, e nel cer-vello dell’uomo l’uomo predomina sulla donna, e nel cer-vello della donna la donna predomina sull’uomo. La con-dizione normale e più piacevole è quella in cui le dueforze vivono insieme in armonia, cooperando spiritual-mente. Nell’uomo la parte femminile del cervello devepure avere la sua influenza; e anche la donna deve esserein contatto con l’uomo che è in lei. Forse Coleridge vo-leva dire questo quando affermò che una grande mente èandrogina. Ed è proprio quando ha luogo questa fusioneche la mente diventa pienamente fertile e può fare uso ditutte le sue facoltà. Forse una mente che è puramentemaschile non riesce a creare, allo stesso modo di unamente che è puramente femminile, pensavo. Ma sarebbebene verificare ciò che si intende per maschile-femminile, eviceversa per femminile-maschile, fermandosi a guardarequalche libro.Certamente Coleridge non voleva dire, quando sostenevache una grande mente è androgina, che si tratta di unamente che ha una particolare affinità con le donne; una

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mente che sostiene la loro causa o si dedica a compren-derle. Forse la mente androgina è meno adatta dellamente con un sesso solo a fare queste distinzioni. Volevadire, forse, che la mente androgina è risonante e porosa;che trasmette l’emozione senza ostacoli; che è per naturacreativa, incandescente e indivisa. Infatti il pensiero tornaindietro fino a Shakespeare come al modello di mente an-drogina, di mente maschile-femminile, benché sia impos-sibile dire che cosa pensava Shakespeare delle donne. Ese è vero che uno dei segni di una mente pienamente svi-luppata è quello di non pensare in modo particolare o di-stinto al sesso, è tanto più difficile raggiungere quellacondizione adesso, di quanto lo sia mai stato prima. Erodunque arrivata ai libri degli scrittori contemporanei, e lìmi fermai a domandarmi se questo fatto non fosse all’ori-gine di qualcosa che mi sconcertava da tempo. Nessunaepoca può essere mai stata così stridentemente consape-vole del sesso come la nostra; quegli innumerevoli libriscritti dagli uomini sulle donne, che si trovano al BritishMuseum, ne sono una prova. La campagna per il dirittodi voto era senza dubbio da biasimare. Deve aver destatonegli uomini uno straordinario desiderio di autoafferma-zione; deve averli costretti a dare al proprio sesso e allesue caratteristiche un’importanza a cui non si sarebberomai dati la pena di pensare se non fossero stati sfidati. Equando si viene sfidati, anche se da qualche donna incappellino nero, si reagisce sempre, se non si è mai statisfidati prima, in maniera piuttosto eccessiva. Questoforse spiega alcune delle caratteristiche che ricordo diaver trovato in questo libro, pensavo, prendendo unnuovo romanzo del signor A, il quale è nella piena giovi-nezza ed è molto stimato, a quanto pare, dai critici. Loaprii. A dire il vero, era delizioso leggere di nuovo lascrittura di un uomo. Era così diretta, così schietta, dopo lascrittura delle donne. Suggeriva tanta libertà mentale,

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tanta indipendenza della persona, tanta fiducia in sestesso. Si aveva una sensazione di benessere fisico allapresenza di questa mente libera, ben nutrita e benistruita, che non era mai stata ostacolata o contrastata, madalla nascita si era estesa liberamente in qualunque dire-zione desiderasse. Tutto questo era ammirevole. Ma dopoaver letto un capitolo o due, un’ombra sembrava disten-dersi sulla pagina. Era una sbarra dritta e scura, un’om-bra dalla forma simile alla lettera “I”.11 Bisognava rapida-mente spostarsi di qua e di là per riuscire a intravvedere ilpaesaggio dietro di essa. Se quello fosse un albero o unadonna che camminava, non ne ero del tutto sicura. Poi siritornava sempre alla lettera “I”. Ci si cominciava a stan-care della “I”. Non che questa “I” non fosse una rispetta-bilissima “I”; onesta e logica; dura come una noce, e lu-cida dopo secoli di ottimi studi e buon cibo. Io rispetto eammiro quella “I” profondamente. Ma - qui voltai una odue pagine, cercando qualcosa - la cosa peggiore è chenell’ombra della lettera “I” tutto è informe come lanebbia. Quello è un albero? No, è una donna. Ma... è unadonna dal corpo senza ossa, pensavo, guardando Phoebe,perché questo era il suo nome, attraversare la spiaggia.Poi Alan si alzò e l’ombra di Alan immediatamente an-nullò Phoebe. Perché Alan aveva delle idee e Phoebe erasoffocata dalla piena di quelle idee. Inoltre Alan, pen-savo, ha delle passioni; e qui voltai pagina dopo paginamolto velocemente, sentendo che la crisi si avvicinava, ecosì fu. Accadde sulla spiaggia, sotto il sole. Fu fattomolto apertamente, molto efficacemente. Niente avrebbepotuto essere più sconveniente. Ma... avevo detto “ma”troppo spesso. Non si può continuare a dire “ma”. Bi-sogna in qualche modo concludere la frase, mi rimpro-verai. La concludo allora: “Ma - che noia!” Ma perchéero annoiata? In parte per il predominio della lettera “I”e per l’aridità che essa, come un faggio gigantesco, porta

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con la sua ombra. Lì non crescerà niente. E in parte perqualche ragione più oscura. Sembrava esserci qualcheostacolo, qualche impedimento, nella mente del signor A,che ostruiva la sorgente dell’energia creativa e la arginavaentro limiti ristretti. E ricordando il pranzo di Oxbridge, ela cenere della sigaretta e il gatto senza coda e Tennyson eChristina Rossetti tutti insieme, mi sembrava di aver ca-pito quale fosse l’ostacolo. Poiché egli non canta più sot-tovoce, “È caduta una bellissima lacrima dalla passifloraal cancello”, quando Phoebe attraversa la spiaggia, e leinon risponde più, “Il mio cuore è come un uccello ca-noro che ha fatto il nido su un ramo bagnato”, quando le siavvicina, che cosa può fare Alan? Poiché è onesto come ilgiorno e logico come il sole, c’è una sola cosa che puòfare. Ed è ciò che egli fa, devo ammettere, una volta e poiun’altra (dicevo voltando le pagine) e un’altra ancora. Equesto, aggiunsi, consapevole della terribile natura dellamia confessione, mi sembra piuttosto noioso. La sconve-nienza di Shakespeare smuove mille altre cose nellamente, ed è tutt’altro che noiosa. Ma Shakespeare lo faper diletto; il signor A, come dicono le balie, lo fa ap-posta. Lo fa per protestare. Protesta contro l’uguaglianzadei sessi, rivendicando la propria superiorità. Egli èperciò ostacolato e inibito e consapevole di se stesso,come avrebbe potuto esserlo Shakespeare se anch’egliavesse conosciuto la signorina Clough e la signorina Da-vies. Senza dubbio la letteratura elisabettiana sarebbestata molto diversa se il movimento femminista fosse co-minciato nel Cinquecento e non nell’Ottocento.Quanto ne consegue allora, se questa teoria dei due latidella mente è valida, è che la virilità ha ora acquisito con-sapevolezza: gli uomini, cioè, adesso scrivono solo con illato maschile del cervello. È un errore per una donna leg-gerli, perché cercherà inevitabilmente qualcosa che non vipotrà trovare. Ciò di cui più si sente la mancanza, è il potere

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dell’evocazione, pensavo, prendendo in mano il signor B,il critico, e leggendo, con molta attenzione e molto ri-spetto, le sue osservazioni sull’arte della poesia. Moltopertinenti erano, acute e ricche di erudizione; ma il guaioera che i suoi sentimenti non erano più in comunicazione; lasua mente sembrava divisa in tanti diversi comparti; nonun suono passava dall’uno all’altro. Perciò, quando siporta alla mente una frase del signor B, questa cade dipeso a terra, morta; ma quando si porta alla mente unafrase di Coleridge, questa esplode e dà vita ad ogni sortadi altre idee, ed è questa la sola letteratura di cui si possaaffermare che possieda il segreto della vita eterna. Ma qualunque sia la ragione, è un fatto da deplorare.Perché significa (ero arrivata a questo punto alle file dilibri di Galsworthy e Kipling) che alcune delle opere piùbelle dei nostri più grandi scrittori viventi non trovanoascolto. Per quanto possa fare, una donna non riesce ascoprire in esse quella fonte di vita eterna che i critici leassicurano sia lì. Non è soltanto che celebrano virtù ma-schili, sostengono valori maschili e descrivono il mondodegli uomini; è che l’emozione di cui questi libri sonopervasi è incomprensibile per una donna. Sta arrivando,sta crescendo, sta per frangersi sulla nostra testa, comin-ciamo a dire molto prima della conclusione. Quel quadrocadrà sulla testa del vecchio Jolyon; questi morirà per lospavento; il vecchio impiegato farà un breve discorso da-vanti alla sua bara; e i cigni del Tamigi si metteranno acantare tutti insieme. Prima che questo accada, tuttavia,correremo a nasconderci tra gli arbusti, perché l’emo-zione che è così profonda, così sottile, così simbolica perun uomo, non induce che sorpresa in una donna. Lostesso accade con gli ufficiali di Kipling che disertano; e isuoi Seminatori che seminano il Seme; e i suoi Uomini,soli con il loro Lavoro; e la Bandiera... tutte queste maiu-scole ci fanno arrossire, come se ci avessero sorprese ad

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origliare un’orgia esclusivamente maschile. Il fatto è chené Galsworthy né Kipling ha una scintilla di donna in sé.Quindi tutte le loro qualità appaiono ad una donna, se sipuò generalizzare, rozze e immature. Mancano del poteredell’evocazione. E quando un libro manca del potere del-l’evocazione, per quanto colpisca forte la superficie dellamente, non riesce ad entrarvi. E in quello stato d’animo irrequieto che ci fa prendere ilibri e ce li fa rimettere a posto senza guardarli, cominciaiad immaginare un’età futura di pura, autoritaria virilità,come le lettere dei professori (prendete le lettere di SirWalter Raleigh, ad esempio) sembrano preannunziare, ed èstata già instaurata in Italia. Perché non si può non esserecolpiti a Roma da un senso di mascolinità assoluta; e qua-lunque sia il valore, per lo Stato, della mascolinità asso-luta, possiamo dubitare del suo effetto sull’arte dellapoesia. Ad ogni modo, secondo i giornali, c’è una certapreoccupazione per il romanzo in Italia. C’è stato un in-contro di accademici allo scopo di “sviluppare il romanzoitaliano”. “Uomini in vista dell’alta società, o della fi-nanza, dell’industria e delle gerarchie fasciste” si sonoriuniti recentemente per discutere dell’argomento, ed èstato mandato un telegramma al Duce nel quale si espri-meva la speranza “che l’era fascista potesse presto gene-rare un poeta degno di essa”. Possiamo tutti unirci aquesto pio desiderio, ma è dubbio che la poesia possa ve-nire da un’incubatrice. La poesia dovrebbe avere unamadre, come pure un padre. Il poema fascista, temo, saràun orrendo piccolo aborto, come se ne vedono sottovetro nei musei delle città di provincia. Simili mostri nonvivono mai a lungo, si dice; non si è mai visto un prodigiodi quel genere pascolare in un campo. Due teste su uncorpo solo non portano a lunga vita.Ad ogni modo, la colpa di tutto ciò, se proprio vogliamodare delle colpe, è da attribuire tanto ad un sesso che al-

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l’altro. Tutte le seduttrici e tutti i riformatori sono re-sponsabili: Lady Bessborough quando mentiva a LordGranville; la signorina Davies quando diceva la verità alsignor Greg. Tutti coloro che hanno determinato unostato di consapevolezza sessuale sono colpevoli, e sonoloro che mi costringono, quando voglio arricchire le miefacoltà con un libro, a cercarla in quell’età felice, primache la signorina Davies e la signorina Clough nascessero,in cui lo scrittore usava allo stesso modo entrambi i latidella sua mente. Bisogna ritornare a Shakespeare allora,perché Shakespeare era androgino; così come lo eranoKeats e Sterne e Cowper e Lamb e Coleridge. Shelleyforse non aveva sesso. Milton e Ben Johnson avevano untocco di troppo di mascolinità. Così anche Wordsworth eTolstoi. Ai nostri tempi Proust era completamente andro-gino, forse un po’ troppo donna. Ma questo difetto ètroppo raro perché ci si possa lamentare, visto che senzauna certa mescolanza di questo genere, l’intelletto sembrapredominare e le altre facoltà della mente indurirsi e di-ventare sterili. Mi consolavo, tuttavia, riflettendo chequesta è forse una fase transitoria; gran parte di quantoho detto per tener fede alla mia promessa di raccontarvi ilcorso dei miei pensieri, vi sembrerà superata; gran partedi ciò che arde nei miei occhi apparirà incerto a voi chenon siete ancora maggiorenni.In ogni caso, la prima frase che scriverei qui, dissi, diri-gendomi verso la scrivania e prendendo la pagina intito-lata Le donne e il romanzo, è che è fatale, per chiunquescriva, pensare al proprio sesso. È fatale essere un uomoo una donna, puri e semplici; bisogna essere donna-uomooppure uomo-donna. È fatale per una donna dare la mi-nima importanza al suo rancore; difendere qualunquecausa, anche se a giusta ragione; parlare comunque dadonna, ed esserne consapevole. E dico fatale non perusare una figura retorica; perché qualunque cosa sia

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scritta con la consapevolezza di quell’attitudine è desti-nata a morire. Non viene più fertilizzata. Può apparireper un giorno o due sorprendente ed efficace, convin-cente e magistrale, ma non può che appassire al calaredella notte; non può crescere nelle menti altrui. Ci deveessere una certa collaborazione nella mente, tra la donnae l’uomo, prima che possa completarsi l’arte della crea-zione. Si deve consumare un matrimonio degli opposti.La mente intera deve rimanere completamente aperta, sevogliamo provare la sensazione che lo scrittore stia comu-nicando la propria esperienza con assoluta pienezza. Cideve essere libertà e ci deve essere pace. Neanche unaruota deve stridere, né una luce tremare. Le tende de-vono essere ben chiuse. Lo scrittore, pensavo, appenaconclusa la sua esperienza, deve sdraiarsi e lasciare che lasua mente possa celebrare i suoi nuziali nell’oscurità.Non deve guardare né mettere in dubbio ciò che si stacompiendo. Anzi, deve staccare i petali di una rosa oguardare i cigni farsi trasportare placidamente lungo ilfiume. E rividi quella corrente che prese con sé la barca,lo studente e le foglie morte; e il tassì si portò via l’uomo ela donna, pensavo, vedendoli arrivare insieme per lastrada, e la corrente li spinse via, pensavo, sentendo lon-tano il frastuono del traffico di Londra, verso quel fiumeimmenso.

Qui, dunque, Mary Beton smette di parlare. Vi ha raccon-tato come è giunta alla conclusione, la prosaica conclu-sione, che se volete scrivere romanzi o poesia, occorreavere cinquecento all’anno e una stanza con una serraturaalla porta. Ha cercato di svelarvi i pensieri e le impressioniche l’hanno portata a quella conclusione. Vi ha chiesto diseguirla quando si è imbattuta in un custode, a pranzoqui, a cena là, a fare disegni al British Museum, a prenderelibri dallo scaffale, a guardare fuori dalla finestra. Mentre

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faceva tutte queste cose, avrete senza dubbio osservato isuoi difetti e le sue debolezze, e avrete deciso quali effettihanno avuto sulle sue opinioni. L’avrete più volte contrad-detta e avrete fatto aggiunte e soppressioni tutte le volteche vi è parso opportuno. Deve essere proprio così,perché, per un problema come questo, la verità si ottienesoltanto mettendo insieme molte varietà di errore. E devoconcludere adesso, di persona, anticipando due critiche,così ovvie, che non potrete quasi fare a meno di farle.Nessuna opinione è stata espressa, potreste dire, sui rela-tivi meriti dei due sessi, almeno come scrittori. Ciò è statofatto di proposito, perché, anche se fosse giunto il mo-mento per una tale valutazione, (ed è molto più impor-tante per ora sapere quanto denaro avevano le donne equante stanze, piuttosto che teorizzare sulle loro capacità)anche se fosse giunto quel momento, non credo che ledoti, che siano della mente o del temperamento, possanoessere pesate come zucchero e burro; neanche a Cam-bridge, dove sono così esperti nel dividere le persone inclassi e nel mettersi un cappello in testa e tante inizialidopo i loro cognomi. Non credo che neanche l’elencodelle precedenze che troverete nell’almanacco di Whi-taker rappresenti una definitiva scala di valori, o che ci siaqualche valida ragione per supporre che un Comandantedell’Ordine del Bagno dovrà in definitiva entrare a cenadietro un Maestro di Follia. Tutto questo contrapporre unsesso all’altro, una qualità all’altra; tutto questo vantarsidella propria superiorità e accusare gli altri di inferiorità,appartiene allo stadio adolescenziale dell’esistenza umanain cui esistono le “squadre”, ed è necessario che unasquadra batta un’altra squadra, ed estremamente impor-tante salire su un podio e ricevere dalle mani del Rettorestesso un vaso molto ornamentale. Maturando, poi, le per-sone smettono di credere nelle squadre o nei Rettori o neivasi molto ornamentali. Ad ogni modo, quando si tratta di

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libri, è notoriamente difficile apporvi un cartellino di me-rito in modo che non si stacchi. Non sono infatti le recen-sioni sulla letteratura del momento un esempio continuodella difficoltà di giudizio? “Questo libro bellissimo”,“questo libro mediocre”, così si dice dello stesso libro.Tanto la lode che il biasimo non significano nulla. No, perquanto piacevole possa essere il passatempo del misurare, èla più futile delle occupazioni, e sottomettersi ai decretidei misuratori, il più servile degli atteggiamenti. Finchéscrivete ciò che desiderate scrivere, questo è tutto ciò checonta; e se conta per secoli interi o solo per poche ore,nessuno può dirlo. Ma sacrificare un capello della testadella vostra visione, una sfumatura del suo colore, per ri-guardo a qualche rettore con un vaso d’argento in mano,o a qualche professore con un metro nascosto nella ma-nica, è il più vile tradimento, e la perdita della ricchezza edella castità, ritenuta la più grande delle sciagure umane,un semplice morso di pulce al confronto. In secondo luogo, potreste forse obiettare che in tutto ciòho dato troppa importanza a cose materiali. Pur conce-dendo un ampio margine al simbolismo, e ammettendoche le cinquecento sterline all’anno rappresentano il po-tere di meditare, che una serratura alla porta significa laforza di pensare per proprio conto, potreste ancora obiet-tare che la mente dovrebbe essere al di sopra di questecose; e che i grandi poeti erano spesso molto poveri. Per-mettetemi allora di citare le parole del vostro Professoredi Letteratura, il quale meglio di me sa cosa ci vuole perfare un poeta. Scrive Sir Arthur Quiller-Couch: “Qualisono i grandi nomi della poesia degli ultimi cento anni?Coleridge, Wordsworth, Byron, Shelley, Landor, Keats,Tennyson, Browning, Arnold, Morris, Rossetti, Swin-burne... possiamo fermarci qui. Di questi, tutti tranneKeats, Browning e Rossetti, avevano frequentato l’univer-sità, e di questi tre, Keats, il quale morì giovane, stron-

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cato nel pieno rigoglio della vita, era l’unico che nonfosse abbastanza ricco. Può sembrare una cosa brutale dadire, ed è triste dirla: ma, in realtà, la teoria secondo cui ilgenio poetico fiorisce dove gli aggrada, e in ugual modotra i poveri e i ricchi, ha poco di vero. Per dirla nuda ecruda, nove di quei dodici erano laureati: il che vuol direche in un modo o nell’altro si procurarono i mezzi per ri-cevere la migliore istruzione che l’Inghilterra potesse of-frire. Per dirla nuda e cruda, dei rimanenti tre sapete cheBrowning era ricco, e scommetto che, se non fosse statoricco, non sarebbe riuscito a scrivere Saul o L’anello e illibro, come non sarebbe riuscito Ruskin a scrivere Pittorimoderni se gli affari di suo padre non fossero stati pro-speri. Rossetti aveva una piccola rendita personale; e,inoltre, dipingeva. Non rimane che Keats; che Atropo uc-cise giovane, così come uccise John Clare in un mani-comio, e James Thomson con il laudano che prendevaper assopire la sua delusione. Tutto questo è spaventoso,ma dobbiamo affrontarlo. È certo che, per quanto sia undisonore per la nostra nazione, il poeta povero, perqualche difetto della nostra società, non ha oggi, né l’haavuta per duecento anni, la minima opportunità. Crede-temi, (e per quasi dieci anni ho tenuto d’occhio circa tre-centoventi scuole elementari), possiamo parlare di demo-crazia, ma in realtà, un bambino povero in Inghilterra hasolo qualche speranza in più, rispetto al figlio di unoschiavo ateniese, di godere di quella libertà intellettualeda cui nascono le grandi opere”.12

Nessuno avrebbe potuto esprimere il problema più chia-ramente. “Il poeta povero non ha oggi, né l’ha avuta perduecento anni, la minima opportunità ... un bambino po-vero in Inghilterra ha solo qualche speranza in più, ri-spetto al figlio di uno schiavo ateniese, di godere di quellalibertà intellettuale da cui nascono le grandi opere”. Pro-prio così. La libertà intellettuale dipende da cose mate-

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riali. La poesia dipende dalla libertà intellettuale. E ledonne sono sempre state povere, non per soli duecentoanni, ma dall’inizio dei tempi. Le donne hanno avutomeno libertà intellettuale dei figli degli schiavi ateniesi. Ledonne, dunque, non hanno avuto la minima opportunitàdi scrivere poesia. Ecco perché ho dato così tanta impor-tanza al denaro e ad una stanza tutta per sé. Tuttavia,grazie agli sforzi di quelle oscure donne del passato, di cuidesiderei si sapesse di più, grazie, ed è piuttosto strano, adue guerre, quella di Crimea che ha permesso a FlorenceNightingale di lasciare il suo salotto, e quella europea che haaperto le porte alla donna comune circa sessant’annidopo, questi mali stanno via via attenuandosi. Altrimentinon sareste qui stasera, e la vostra possibilità di guada-gnare cinquecento sterline all’anno, incerta come temoche ancora sia, sarebbe estremamente minuscola.Tuttavia, potreste obiettare, perché lei attribuisce cosìtanta importanza allo scrivere dei libri da parte delledonne quando, secondo lei, richiede così tanto sforzo, ciinduce forse ad ammazzare le nostre zie, ci farà esserequasi certamente in ritardo per il pranzo, e può trascinarciin dispute molto serie con delle persone molto rispetta-bili? Le mie ragioni, lo confesso, sono in parte interessate.Come alla maggior parte delle donne inglesi senza istru-zione, anche a me piace leggere; mi piace leggere libri inquantità. Negli ultimi tempi la mia dieta è diventata al-quanto monotona; la storia si occupa troppo delle guerre; labiografia troppo dei grandi uomini; la poesia ha dimo-strato, credo, una tendenza alla sterilità, e il romanzo... maho già rivelato a sufficienza le mie incapacità come criticodel romanzo moderno, e non ne parlerò più. Perciò vichiederei di scrivere ogni genere di libro, senza esitare pernessun argomento, per quanto futile o vasto. In un modoo nell’altro, spero che sarete in possesso di denaro suffi-ciente per viaggiare e per oziare, per meditare sul futuro o

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sul passato del mondo, per sognare sui libri e vagabon-dare per le strade e lasciare che la lenza del pensieroscenda giù fino al fondo del fiume. Perché non vi sto af-fatto confinando al romanzo. Se voleste compiacermi - ece ne sono migliaia come me - dovreste scrivere libri diviaggi e di avventure, di ricerca e di erudizione, e di storia edi biografia, e di critica e di filosofia e di scienza. Così fa-cendo gioverete certamente all’arte del romanzo. Perché ilibri riescono sempre ad influenzarsi a vicenda. Il ro-manzo sarà di gran lunga migliore per l’intimità con lapoesia e la filosofia. Inoltre, se considerate qualunquegrande figura del passato, come Saffo, come Lady Mura-saki, come Emily Brontë, scoprirete che ha sia ereditatoche creato, ed è nata perché le donne hanno preso l’abitu-dine di scrivere in modo naturale; allora, persino comepreludio alla poesia, una simile attività da parte vostra sa-rebbe inestimabile.Ma nel momento in cui rivedo questi appunti e critico ilsusseguirsi dei pensieri che ne è all’origine, scopro che lemie ragioni non erano del tutto interessate. Pervadequesti commenti e divagazioni la convinzione, (o è l’i-stinto?) che i buoni libri sono desiderabili e che i buoniscrittori, anche se mostrano ogni varietà di depravazioneumana, sono sempre dei buoni essere umani. Perciò,quando vi chiedo di scrivere più libri, vi incito a farequalcosa per il vostro bene e per il bene del mondo in-tero. Come giustificare questo istinto o questa convin-zione non so, perché le parole della filosofia, se non ab-biamo studiato all’università, sono pronte a tradirci. Cosa siintende per “realtà”? Sembrerebbe essere qualcosa dimolto variabile, molto inaffidabile: ora si può trovare inuna strada polverosa, ora a terra, in un pezzo di giornale,ora in un narciso al sole. Illumina un gruppo in unastanza e gli attribuisce una frase casuale. Ci confondementre torniamo a casa, camminando sotto le stelle, e

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rende il mondo del silenzio più reale del mondo della pa-rola; e poi eccola lì di nuovo, in un autobus, nel frastuonodi Piccadilly. A volte sembra abitare forme troppo lon-tane perché possiamo capire quale sia la loro natura. Maqualunque cosa tocchi, la immobilizza e la rende perma-nente. Ed è questo che ci resta quando la giornata cambiapelle e la getta nella siepe; questo è quello che rimane deltempo passato e dei nostri amori e delle nostre avver-sioni. Ebbene lo scrittore, credo, ha la possibilità di vi-vere di più delle altre persone alla presenza di questarealtà. Il suo compito è trovarla, raccoglierla e comuni-carla a noi. Così almeno deduco dalla lettura di Lear o diEmma o di Alla ricerca del tempo perduto. Perché la let-tura di questi libri sembra compiere una strana opera-zione di risveglio dei sensi; vediamo più intensamentedopo; il mondo sembra denudato della sua protezione einvestito di una vita più intensa. Sono da invidiare quellepersone che vivono in conflitto con l’irrealtà; e sono dacompatire quelle altre che vengono tramortite, come daun colpo alla testa, da ciò che fanno senza conoscere ocurarsene. Allora quando vi chiedo di guadagnare deisoldi e di avere una stanza per voi, vi chiedo di vivere inpresenza della realtà, una vita che, a quanto pare, forti-fica, che si possa comunicarla o no.Qui mi fermerei, ma il peso della convenzione stabilisceche ogni discorso debba finire con una perorazione. Euna perorazione rivolta alle donne dovrebbe avere qual-cosa, ne converrete, di particolarmente esaltante e nobili-tante. Dovrei supplicarvi di ricordare le vostre responsa-bilità, di essere più elevate, più spirituali; dovrei ricor-darvi che molto dipende da voi, e che potete esercitareuna grande influenza sul futuro. Ma possiamo senz’altrolasciare queste esortazioni all’altro sesso, che le espri-merà, e a dire il vero le ha espresse, con molta più elo-quenza di quanto io possa essere capace. Se frugo nella

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mia mente, non riesco a trovare alcun nobile sentimentoche riguardi l’essere compagni e uguali, e il guidare ilmondo verso scopi più elevati. Mi ritrovo a dire, breve-mente e prosaicamente, che essere se stessi è molto piùimportante di ogni altra cosa. Non sognate di influenzarealtre persone, vi direi, se sapessi come rendere questa miaesortazione con parole più elevate. Pensate alle cose perquello che sono.E per aver sfogliato giornali, romanzi e biografie, nonposso non ricordare che quando una donna parla ad altredonne dovrebbe avere in serbo qualcosa di molto spiace-vole. Le donne sono scortesi con le altre donne. Ledonne detestano le altre donne. Le donne... ma non sietestufe di questa parola? Vi assicuro che io lo sono. Siamod’accordo, allora, che una conferenza di una donna peraltre donne dovrebbe finire con qualcosa di particolar-mente sgradevole. Ma come dovrebbe essere? Cosa posso inventarmi? La ve-rità è che a me spesso le donne piacciono. Mi piace il loroanticonformismo. Mi piace la loro completezza. Mi piaceil loro essere anonime. Mi piace... ma non devo conti-nuare così. In quella credenza lì, voi dite che ci sono solotovaglioli puliti; e se Sir Archibald Bodkin fosse nascostolì in mezzo? Permettemi allora di adottare un tono piùduro. Sono riuscita, con quanto ho detto prima, a darviun’idea abbastanza chiara degli ammonimenti e del bia-simo del genere umano? Vi ho detto della cattiva opinioneche Oscar Browning aveva di voi. Vi ho rivelato che cosapensava di voi Napoleone, e cosa ne pensa Mussolini.Inoltre, in caso qualcuna di voi aspirasse al romanzo, hotrascritto, perché possa esservi di giovamento, il consigliodel critico sulla coraggiosa ammissione delle limitazionidel vostro sesso. Ho fatto qualche riferimento al ProfessorX, dando rilievo alla sua affermazione che le donne sonointellettualmente, moralmente e fisicamente inferiori agli

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uomini. Vi ho riportato tutto quello che per caso mi è ca-pitato tra le mani, e questo è un avvertimento finale, daparte di John Langdon Davies.13 John Langdon Davies av-verte le donne “che quando i figli cessano di essere deltutto desiderabili, le donne cessano di essere del tutto ne-cessarie”. Spero ne prenderete nota. Come posso incoraggiarvi ulteriormente ad affrontare lavita? Ragazze, vi direi, e per favore prestate attenzioneperché la perorazione sta per cominciare, voi siete, se-condo me, vergognosamente ignoranti. Non avete maifatto una scoperta della minima importanza. Non avetemai fatto tremare un impero o condotto un esercito inbattaglia. Non avete scritto le opere di Shakespeare, e nonavete mai portato i doni della civiltà a una razza barbara.Qual è la vostra giustificazione? Potete anche dire, indi-cando le strade e le piazze e le foreste del globo brulicanti diabitanti neri e bianchi e nocciola, tutti affannosamente alleprese con il commercio e l’industria e l’amore, abbiamoavuto altro da fare per le mani. Se non fosse stato peropera nostra, su quei mari non ci sarebbero vele e quelleterre fertili sarebbero un deserto. Abbiamo partorito e al-levato e lavato e istruito, forse fino all’età di sei o setteanni, i milleseicentoventitré milioni di esseri umani che,secondo le statistiche, vivono oggi, e per questo, pur rico-noscendo che alcune sono state aiutate, ci vuole tempo.C’è del vero in quello che dite, non lo nego. Ma allo stessotempo posso ricordarvi che dal 1866 esistono in Inghil-terra almeno due college universitari femminili; che dopoil 1880 la legge permetteva a una donna sposata di posse-dere i propri beni; e che nel 1919 (il che significa bennove anni fa) le è stato concesso il voto? Posso anche ri-cordarvi che da circa dieci anni ormai vi sono state apertequasi tutte le professioni? Quando rifletterete su questiimmensi privilegi e sul lungo periodo in cui li avete go-duti, e sul fatto che ci devono essere in questo momento

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forse duemila donne capaci di guadagnare più di cinque-cento all’anno in un modo o nell’altro, converrete che lascusa di mancanza di opportunità, preparazione, incorag-giamento, tempo libero e denaro non tiene più. Per di più,gli economisti ci dicono che la signora Seton ha avutotroppi figli. Dovete naturalmente continuare ad avere figli,ma, così dicono, a due o a tre, non a dieci o dodici. Perciò, con un po’ di tempo a disposizione e un po’ dicultura libresca nella testa - dell’altra ne avete avuta ab-bastanza, e vi mandano all’università in parte, sospetto,per essere diseducate - dovreste sicuramente intrapren-dere un’altra fase della vostra lunghissima, faticosissima eassai oscura carriera. Mille penne sono pronte a sugge-rirvi cosa dovreste fare e quale effetto avrete. Il mio sug-gerimento, lo ammetto, è un po’ eccentrico; preferisco,quindi, offrirverlo in forma di romanzo.Vi ho già raccontato che Shakespeare aveva una sorella;ma non andate a cercarla nella biografia del poeta scrittada Sir Sidney Lee. Ella morì giovane; ahimè, non scrissemai una parola. Giace sepolta dove ora si fermano gli au-tobus, di fronte ad Elephant and Castle. Io credo dunqueche questa poetessa che non scrisse mai niente e vennesepolta ad un incrocio, vive ancora. Vive in voi e in me, e inmolte altre donne che non sono qui stasera, perchéstanno lavando i piatti e mettendo i figli a letto. Ma vive;perché i grandi poeti non muoiono; sono presenzeeterne; hanno solo bisogno dell’opportunità di essere dinuovo tra noi, in carne ed ossa. E questa opportunità,credo, avete oggi la facoltà di potergliela offrire. Perchésono convinta che se viviamo un altro secolo - sto par-lando della vita comune, che è la vita reale, e non dellepiccole vite separate che viviamo come singoli individui - epossediamo cinquecento all’anno, ognuna di noi, e dellestanze tutte per noi; se abbiamo la consuetudine della li-bertà e il coraggio di scrivere esattamente quello che pen-

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siamo; se evadiamo per un po’ dal soggiorno comune econsideriamo gli esseri umani non sempre in relazionel’uno con l’altro, ma in relazione con la realtà; e con ilcielo, anche, e con gli alberi o qualunque altra cosa,purché nella sua essenza; se guardiamo oltre lo spaurac-chio di Milton, perché nessun essere umano dovrebbeimpedirci la vista; se affrontiamo il fatto, poiché è unfatto, che non c’è nessun braccio a cui aggrapparsi, maprocediamo da sole e il nostro rapporto è con il mondodella realtà e non solo con il mondo degli uomini e delledonne, allora questa opportunità si presenterà, e la poe-tessa morta, sorella di Shakespeare, rianimerà quel corpoche ha così spesso abbandonato. Attingendo la sua vitadalle vite di quelle sconosciute che l’hanno preceduta,come prima di lei ha fatto suo fratello, ella verrà alla luce.Quanto alla sua venuta senza quella preparazione, senzaquello sforzo, senza quella determinazione da parte no-stra che, una volta rinata, le permetterà di vivere e di scri-vere la sua poesia, questo non possiamo aspettarcelo,perché sarebbe impossibile. Ma io sostengo che ella verràse lavoriamo per lei, e che lavorare così, pur nell’oscurità enella povertà, vale la pena.

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Note

1 “Ci dicono che dovremmo chiedere almeno trentamilasterline... Non è una grossa somma, considerando checi sarà solo un “college” di questo tipo in tutta la GranBretagna, l’Irlanda e le Colonie, e considerandoquanto sia facile raccogliere somme immense per lescuole maschili. D’altra parte, considerando quantepoche persone desiderano realmente che le donnepossano studiare, è già tanto.” Lady Stephen, EmilyDavies and Girton College.

2 “Ogni centesimo che si riuscì a racimolare fu messo daparte per l’edificio, e le amenità furono rimandate.” R.Stratchey, The Cause.

3 “Gli uomini sanno che le donne sono per loro un av-versario troppo forte, e quindi scelgono le più stupide ole più ignoranti. Se non la pensassero così, non avreb-bero timore di donne che ne sanno quanto loro ... Aesser giusti con il sesso, devo in tutta onestà ammet-tere che, in una conversazione successiva, egli mi dissedi aver parlato seriamente.” Boswell, The Journal of aTour to the Hebrides.

4 “Gli antichi Germani credevano che ci fosse qualcosadi sacro nelle donne, e di conseguenza le consultavanocome oracoli.” Frazer, Il ramo d’oro.

5 “È un fatto strano e quasi inspiegabile che nella cittàdi Atene, dove le donne erano tenute in uno stato dioppressione quasi orientale, come odalische o serve, ilteatro abbia tuttavia prodotto figure come Clitenne-stra e Cassandra, Atossa e Antigone, Phèdre e Medea, etutte le altre eroine che dominano le opere del “miso-

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gino” Euripide. Ma il paradosso di questo mondo,dove nella vita reale una donna rispettabile poteva amalapena farsi vedere da sola per la strada, e poi sulpalcoscenico la donna eguaglia o sorpassa l’uomo, non èmai stato soddisfacentemente spiegato. Nella tragediamoderna persiste lo stesso predominio. In ogni caso,un’analisi molto rapida dell’opera di Shakespeare(come anche di quella di Webster, ma non di Marlowe odi Jonson) basta a dimostrare come questo dominio,questa intraprendenza delle donne, persiste da Rosa-linda a Lady Macbeth. Lo stesso per Racine; sei dellesue tragedie portano il nome della protagonista; equale dei suoi personaggi maschili potremmo contrap-porre a Hermione e Andromaque, Bérénice e Roxane,Phèdre e Athalie? Lo stesso con Ibsen; quali uominipotremmo paragonare a Solveig e Nora, Eda e IldaWangel e Rebecca West?” F.L. Lucas, Tragedy, pp.114-15.

6 A Survey of Contemporary Music, Cecil Gray.7 Vedi Cassandra, di Florence Nightingale.8 Ricordo di Jane Austen, scritto da suo nipote, James

Edward Austen-Leigh.9 “(Ella) ... ha un fine metafisico, e questa è un’osses-

sione pericolosa, specialmente in una donna, perché ledonne raramente posseggono il sano amore maschiledella retorica. E’ una strana carenza di questo sesso,che è, per altri aspetti, più primitivo e più materia-lista.” New Criterion, giugno 1928.

10 “Se, come il sottoscritto, ritenete che le scrittrici di ro-manzi dovrebbero aspirare all’eccellenza soltanto rico-noscendo coraggiosamente le limitazioni del loro sesso(Jane Austen ha dimostrato con quale grazia questogesto può essere compiuto...)” Life and Letters, agosto1928.

11 L’Autore gioca con il doppio significato in inglesedella “I”: non solo maiuscola di “i”, ma anche pro-nome personale “io”.

12 The Art of Writing, di Sir Arthur Quiller-Couch.13 A Short History of Women, di John Langdon Davies.

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Finito di stampare: luglio 1995presso Legoprint S.r.l. - Trento