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Concorso omissivo colposo nel delitto doloso Antonio Di Blasi 1.1 Il reato omissivo. La fattispecie omissiva impropria ex art.40 c.p. cpv. Il dispositivo dell'art. 40 c.p. cpv. recita : Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.” La fattispecie omissiva impropria ex art. 40 c.p. cpv. si forma quando la clausola generale contenuta nell’articolo 40 c.p. cpv. va ad innestarsi su disposizioni di parte speciale che incriminano fatti commissivi. In tal modo le fattispecie commissive si trovano come “doppiate”, in quanto ad esse viene assimilata una corrispondente figura di reato, basata non sul fare, ma sull’omettere. La fattispecie che nasce attraverso l’innesto sopra descritto è una fattispecie nuova ed autonoma, nel senso che tutte le sue componenti strutturali – ad eccezione dell’evento – si caratterizzano in modo del tutto peculiare rispetto a quelle della corrispondente fattispecie commissiva di base. Il principio di solidarietà (art. 2 Cost.) rappresenta il fondamento ideologico della responsabilità omissiva: le fattispecie omissive non esigono soltanto la mancata lesione di determinati beni, bensì pretendono una attivazione in favore di essi, con ciò determinando un rafforzamento del grado di tutela apprestato dall’ordinamento in favore di tali beni. La clausola di equivalenza posta dall’art. 40 c.p. cpv. determina un’estensione dell’ambito della punibilità. 1

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Concorso omissivo colposo nel delitto doloso

Antonio Di Blasi

1.1 Il reato omissivo. La fattispecie omissiva impropria ex art.40 c.p. cpv. Il dispositivo dell'art. 40 c.p. cpv. recita : “Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di

impedire, equivale a cagionarlo.”

La fattispecie omissiva impropria ex art. 40 c.p. cpv. si forma quando la clausola generale contenuta

nell’articolo 40 c.p. cpv. va ad innestarsi su disposizioni di parte speciale che incriminano fatti

commissivi.

In tal modo le fattispecie commissive si trovano come “doppiate”, in quanto ad esse viene

assimilata una corrispondente figura di reato, basata non sul fare, ma sull’omettere.

La fattispecie che nasce attraverso l’innesto sopra descritto è una fattispecie nuova ed autonoma, nel

senso che tutte le sue componenti strutturali – ad eccezione dell’evento – si caratterizzano in modo

del tutto peculiare rispetto a quelle della corrispondente fattispecie commissiva di base.

Il principio di solidarietà (art. 2 Cost.) rappresenta il fondamento ideologico della responsabilità

omissiva: le fattispecie omissive non esigono soltanto la mancata lesione di determinati beni, bensì

pretendono una attivazione in favore di essi, con ciò determinando un rafforzamento del grado di

tutela apprestato dall’ordinamento in favore di tali beni.

La clausola di equivalenza posta dall’art. 40 c.p. cpv. determina un’estensione dell’ambito della

punibilità.

La dottrina prevalente giunge a riconoscere che il dominio dell’art. 40 c.p. cpv. è rappresentato

dalle fattispecie di evento causalmente orientate.1

Che il capoverso dell’articolo 40 c.p. possa innestarsi soltanto su fattispecie di evento, è un dato

pacifico, è la disposizione normativa stessa ad esigere la presenza di un evento: l’evento che si

aveva l’obbligo di impedire.

Le fattispecie che si prestano alla conversione in forma omissiva sono, tra le fattispecie di evento,

soltanto quelle causalmente orientate, cioè quelle in cui ad essere incriminata è la realizzazione di

un determinato evento lesivo, indifferenti restando le modalità di produzione di esso.

Una inerzia può equivalere ad una condotta attiva soltanto laddove ciò che conti sia esclusivamente

la produzione di un evento, cagionato o, appunto, non impedito2.

La delimitazione operativa dell’art. 40 c.p. cpv. che è stata tracciata è destinata ad essere messa in

discussione con riguardo ai reati omissivi impropri plurisoggettivi, ossia il fenomeno della

1 M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 2004, sub art. 40, p.391 ss.2 L. RISICATO, Combinazione ed interferenza di forme di manifestazione del reato, Milano, 2001, p. 382

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compartecipazione per omesso impedimento del reato commesso da altri: come si avrà modo di

vedere, difatti, la dottrina oggi prevalente sostiene che, quando l’omesso impedimento riguardi reati

commessi da altri, non trovi più applicazione la regole della limitazione alle sole fattispecie di

evento.

1.2 Struttura del reato omissivo improprio.La fattispecie omissiva impropria di cui all’art. 40 c.p. cpv. esige la presenza di un evento: deve

trattarsi di un evento contemplato da una fattispecie incriminatrice commissiva.

La fattispecie omissiva impropria richiede la presenza di una condotta omissiva cioè una condotta di

omesso impedimento dell’evento.

Va segnalato come l’individuazione dell’azione doverosa non compiuta sia una operazione

complessa visto che il comportamento doveroso omesso non solo non risulta descritto dalla

clausola generale di cui all’art. 40 c.p. cpv. ma neanche, spesso, dalle norme che individuano il

soggetto tenuto ad attivarsi3.

Il compimento dell’azione doverosa presuppone, a sua volta, la possibilità di agire: la condotta

omessa, doveva essere, per l’omittente, possibile.

Ancora, nella fattispecie omissiva impropria deve rinvenirsi una equivalenza causale: il mancato

impedimento deve equivalere alla causazione dell’evento; c’è dunque un nesso causale che deve

intercorrere, appunto, tra la condotta omissiva e l’evento verificatosi.

Mentre nell’ambito della causalità commissiva il nesso causale è chiamato a legare due entità reali

(la condotta umana e l’evento verificatosi), nella causalità omissiva il rapporto causale si instaura

tra una sola entità reale (l’evento verificatosi) ed una entità inesistente (la condotta omessa), la

quale può essere soltanto immaginata.

Queste peculiarità si ripercuotono e incidono sul metodo e sui criteri di accertamento del nesso di

causalità.

Per valutare la sussistenza del nesso causale di tipo omissivo, il criterio del giudizio è identico a

quello impiegato per valutare la sussistenza della causalità attiva: si tratta del giudizio condizionale

di tipo controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge

scientifica4.3 G. GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, Giuffrè, pp. 363-364.4 La pronuncia delle Sezioni Unite Franzese afferma che «Pur dandosi atto della peculiarità concettuale dell’omissione (è tuttora controversa la natura reale o meramente normativa dell’efficienza condizionante di un fattore statico negli sviluppi della catena causale), si osserva che lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del "condizionale controfattuale”, la cui formula dovrà rispondere al quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo `coperto‟ dal sapere scientifico del tempo» (Cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza 30328/2002).

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Tuttavia, la condotta doverosa omessa non è un elemento del reale, ma è un elemento che può

essere solo immaginato. Da ciò derivano i necessari adattamenti.

L’interprete dovrà infatti accertare quale sia stata la causa reale dell’evento verificatosi. Solo una

volta ricostruita ed appurata la catena dei fattori eziologici che hanno condotto all’evento, sarà

possibile stabilire quale sarebbe stata la condotta doverosa impeditiva e quindi sarà possibile

individuare la omissione penalmente rilevante. Solo a quel punto potrà essere applicato il giudizio

controfattuale, la cui formula subirà anch’essa degli adattamenti: al posto dell’eliminazione mentale

della condotta attiva, dovrà essere compiuta una “aggiunta mentale” della condotta doverosa

omessa5.

Ancora, la fattispecie omissiva impropria esige la presenza di un ulteriore e fondamentale requisito:

un obbligo giuridico di impedire l’evento, elemento il quale, solo, è in grado di far scattare

l’equivalenza.

2.1 L’obbligo giuridico impeditivo.L’obbligo giuridico di impedire l’evento (c.d. posizione di garanzia) rappresenta la vera “questione

centrale” della fattispecie omissiva impropria.

L’obbligo giuridico impeditivo seleziona i soggetti dai quali l’ordinamento pretende un intervento

impeditivo.

Solo i soggetti che possano considerarsi titolari di un tale obbligo possono essere autori di un reato

di tipo omissivo improprio; l’obbligo giuridico impeditivo rende la fattispecie omissiva impropria

un reato di tipo proprio.

L’obbligo giuridico di impedire l’evento individua i soggetti obbligati ad impedire l’evento e

contribuisce a selezionare le condotte omissive rilevanti. Un’omissione potrà essere considerata

causale, rispetto ad un evento, solo e soltanto qualora autore dell’omissione sia un soggetto gravato

di un obbligo giuridico impeditivo.

2.2 Le teorie sulle fonti dell’obbligo impeditivo.In ordine alle fonti da cui poter trarre gli obblighi rilevanti ex art. 40 c.p. cpv., le concezioni

elaborate dalla dottrina sono riconducibili a tre principali teorie: la teoria formale, quella sostanziale

e quella cosiddetta mista6.

Secondo la teoria formale “l’obbligo giuridico” rilevante ai sensi dell’art. 40 c.p. cpv. può essere

soltanto quello che sia espressamente previsto da una fonte giuridica formale.

5 Cassazione penale, Sezione IV, 25 maggio 2005 n. 252336 G. MARINUCCI- E. DOLCINI Codice Penale commentato, 2010, Milano, Ipsoa, p.430 ss.

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Tale teoria individua come fonti: la legge, il contratto, la precedente attività pericolosa, la

negotiorum gestium (gestione di affari altrui) e alla consuetudine7.

Ciò che è stato rimproverato all’impostazione formalistica è stato il fatto che essa comporta una

automatica, e indebita, equiparazione degli obblighi extrapenali di attivarsi agli obblighi di

impedimento rilevanti ex art. 40 c.p. cpv.

La crescente insoddisfazione nei confronti della teoria formale, ha fatto aumentare nella dottrina gli

approcci che si richiamano in via alternativa o integrativa a criteri di tipo sostanziale (c.d. teoria

sostanziale).

Secondo tale orientamento ciò che rileva ai fini dell’imputazione dell’evento, non è tanto la

violazione di un obbligo formale di impedirlo, “quanto una effettiva posizione di garanzia – che

l’ordinamento attribuisce ad un determinato soggetto – del suo non verificarsi”8.

Per i sostenitori della teoria sostanziale, una attivazione è richiesta quando i beni non possono

essere tutelati adeguatamente dal titolari di essi, in quanto trattasi di soggetto incapace; tali beni

risultano affidati anteriormente rispetto al sorgere della situazione di pericolo al garante; vi è una

signoria del garante sul rischio che conduce all’evento lesivo9.

La posizione di garanzia esprimerebbe insomma quella particolare relazione tra un garante ed un

bene da proteggere; essa consiste in una situazione di fatto e prescinde dalla necessità di previsioni

formalistiche.

Tuttavia, gli approdi raggiunti dalla teoria, presentano seri punti di attrito col principio di legalità, in

quanto:

1) lasciano al singolo interprete la selezione dei casi in cui sussiste o non sussiste la posizione

di garanzia e la conseguente responsabilità penale;

2) si pongono in aperto contrasto con il tenore letterale dell’art. 40 c.p. cpv. che richiede che

l’obbligo sia giuridico.

La dottrina rileva così che “la teoria formale e la teoria sostanziale dell’obbligo di impedire l’evento

necessitano di reciproca integrazione”10.

La teoria mista richiede al contempo per fondare una responsabilità da reato omissivo improprio sia

l’esistenza di una fonte formale che ponga l’obbligo, sia la sussistenza di una posizione di garanzia.

Fermo restando che alla base di ogni posizione di garanzia deve sussistere una funzione di

protezione, tale funzione può declinarsi in un duplice modo: posizioni di protezione e posizioni di

7 G. MARINUCCI- E. DOLCINI Codice Penale commentato, 2010, Milano, Ipsoa, p.430 ss.8 M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 2004, sub art. 40, p.391 ss.9 G. MARINUCCI- E. DOLCINI Codice Penale commentato, 2010, Milano, Ipsoa, p.430 ss.10 M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 2004, sub art. 40, p. 391 ss.

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controllo. Una terza categoria, variamente inquadrata e discussa, è quella degli obblighi di

impedimento del reato altrui11.

Le posizioni di protezione vengono definite come quelle che hanno ad oggetto specifico la

protezione di un determinato bene giuridico da tutti i pericoli che lo minacciano, quale che sia la

fonte da cui provengono12.

Le posizioni di controllo vengono definite come quelle volte a neutralizzare una determinata fonte

di pericolo – fonte sulla quale si esercita, appunto, un controllo – in modo da proteggere l’integrità

di tutti i beni che possano da quella risultare minacciati13.

A detta categoria parte della dottrina riconduce altresì quei casi in cui la fonte di pericolo da

neutralizzare sia costituita dall’agire di soggetti terzi: in tali casi il garante sarebbe tenuto ad

esercitare un controllo, appunto, sulle azioni poste in essere da terzi, al fine di impedire che questi

soggetti commettano reati14.

Altra parte della dottrina ritiene invece che gli obblighi di impedimento dei reati altrui non possano

essere assimilati agli obblighi di controllo e debbano piuttosto formare una categoria a sé stante15.

2.3 L’approdo della dottrina più recente alla nozione giuridico-formale di posizione

di garanzia.La dottrina più recente converge nella direzione di un’opera di ricostruzione dell’obbligo giuridico

impeditivo rilevante ex art. 40 c.p. cpv. effettuata alla luce dei principi costituzionali che devono

governare la responsabilità penale16.

Predominando in ambito penale il principio di legalità (art. 25 Cost.), l’obbligo idoneo a fondare

una responsabilità penale ex art. 40 c.p. cpv., l’obbligo giuridico, può essere costituito solo da atti

aventi forza di legge.

Il principio di legalità in materia penale si declina, altresì, nei termini della tassatività, intesa come

necessità che gli elementi costitutivi dell’illecito penale siano formulati in maniera precisa e

determinata: l’azione doverosa dovrà risultare sufficientemente specifica e determinata.

La ricostruzione dell’obbligo impeditivo ex art. 40 c.p. cpv. va effettuata altresì alla luce del

principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.) in virtù del quale il soggetto non

può essere chiamato a rispondere se non di un fatto commesso con dolo o almeno con colpa.

11 G. GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, p. 292 ss.12 G. MARINUCCI- E. DOLCINI Codice Penale commentato, 2010, Milano, Ipsoa, p.430 ss.13 G. MARINUCCI- E. DOLCINI Codice Penale commentato, 2010, Milano, Ipsoa, p.430 ss.14 G. MARINUCCI- E. DOLCINI Codice Penale commentato, 2010, Milano, Ipsoa, p.430 ss.15 G. MARINUCCI- E. DOLCINI Codice Penale commentato, 2010, Milano, Ipsoa, p.430 ss.16 F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 2007, p. 156 ss.

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Il principio di personalità della responsabilità penale conduce a concentrare l’attenzione sul profilo

del “poter agire”: di una responsabilità per omesso impedimento di un evento può essere chiamato a

rispondere solo quel soggetto che avrebbe potuto impedirlo; un obbligo giuridico impeditivo ex art.

40 c.p. cpv. può dirsi pertanto sussistente solo laddove vi sia un soggetto munito di veri e propri

poteri di impedire l’evento.

È l’esistenza di tali poteri a consentire l’equiparazione del mancato impedimento dell’evento alla

sua attiva causazione.

La sussistenza di poteri giuridici impeditivi appare dunque essere la condicio sine qua non per poter

parlare di responsabilità per omesso impedimento dell’evento.

L’obbligo rilevante ex art. 40 c.p. cpv. è stato ricostruito come “obbligo di garanzia” definito come

“quell’obbligo giuridico, gravante su una determinata cerchia di soggetti (c.d. garanti), muniti dei

necessari poteri giuridici, di vigilare e intervenire direttamente sulla situazione di pericolo per

impedire eventi lesivi degli altrui beni, la cui tutela è loro «affidata», per l’incapacità dei titolari di

salvaguardarli in modo pieno17.

La norma che fonda l’obbligo deve essere: precisa, tassativa, determinata.

Alla categoria degli obblighi di garanzia dovrebbero essere ricondotte tutte quelle ipotesi in cui

all’agente sia attribuito non solo l’obbligo di impedire l’evento, ma anche i corrispettivi poteri per

soddisfare tale dovere.

Solo laddove un soggetto possa reputarsi munito di doveri-poteri giuridici propriamente impeditivi

rispetto al verificarsi di un certo evento potrà dirsi sussistente un obbligo di garanzia ex art. 40 c.p.

cpv. e dunque potrà configurarsi, sussistendone tutti i presupposti, una responsabilità per omesso

impedimento dell’evento.

3.1 L’individuazione dell’obbligo di garanzia, rilevante ex art. 40 c.p. cpv., nei casi

di doveri di vigilanza sull’attività altrui.Nei casi in cui esiste un dovere di controllo e vigilanza sull’attività altrui, si dovrà comprendere se

ci si trovi di fronte, ad un obbligo di sorveglianza oppure se ci si trovi al contrario di fronte ad un

vero e proprio obbligo, rilevante ex art.40 c.p. cpv., di impedire, non un “evento qualunque”, bensì,

un reato commesso da altri, e cioè dal soggetto “sottoposto a vigilanza”.

Dalla violazione di un obbligo di impedire il reato altrui, di norma, viene fatta discendere una

responsabilità per concorso mediante omissione nel reato non impedito.

La dottrina individua un requisito imprescindibile: che il soggetto terzo, il cui reato va impedito, sia

un soggetto sottoposto al potere di vigilanza, di comando, del garante. Viene difatti percepito come

17 F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 2007, p. 156 ss..6

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vi sia un quid pluris che caratterizza l’obbligo impeditivo del reato altrui rispetto agli altri obblighi

impeditivi: «l’impedimento del reato di un terzo necessariamente consiste in una attività di

contrasto dell’altrui (altrimenti libera) condotta, quindi in una fattiva limitazione dell’altrui libertà

di autodeterminazione (...) quel che rileva è che comunque si impone al garante di interferire con la

condotta di un terzo»18.

Condicio sine qua non per poter parlare di obbligo di impedire il reato altrui, è quella di stabilire

una equazione tra l’“evento” di cui parla il 40 c.p. cpv., ed il reato commesso da altri.

Secondo un’impostazione dottrinaria maturata soprattutto a partire dagli anni Ottanta – e poi

sviluppatasi sino a diventare, a tutt’oggi, quella senz’altro dominante - gli obblighi di impedire il

reato altrui possono esplicarsi nei confronti di tutti i reati: non solo dunque dei reati di evento19.

Secondo l’opinione dominante, il termine “evento” di cui parla l’art. 40 c.2 c.p. va inteso – quando

trattasi di obbligo di impedire il reato altrui – come “fatto di reato”.

3.2 Violazione dell’obbligo giuridico di impedire il reato altrui e la responsabilità

penale per concorso nel reato medesimo.Opinione della giurisprudenza e di parte della dottrina, è che la violazione dell’obbligo giuridico di

impedire il reato altrui determina la responsabilità penale per concorso nel reato medesimo20.

Nel reato, difatti, convergerebbero il contributo attivo – apportato da chi quel reato ha

materialmente commesso – ed il contributo omissivo, equiparato alla causazione attiva in forza

dell’art. 40 c.p. cpv., arrecato da chi quel reato non ha impedito, pur avendo l’obbligo giuridico di

farlo.

In ordine alle condotte omissive opera con assoluta sufficienza ed esclusività l’art. 40 c.p. cpv. nel

senso che i presupposti ed i requisiti di operatività della responsabilità per omesso impedimento

dell’altrui reato sarebbero già interamente compresi nell’art. 40 c.p. cpv.; di qui, l’affermazione

secondo cui l’art. 110 c.p. non sarebbe chiamato a svolgere nessuna funzione incriminatrice con

riguardo alle condotte omissive; il concorso potrà venire in questione soltanto in chiave e con

funzione di disciplina21.

3.3 Il concorso colposo nel reato doloso.

18 L. BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e giurisprudenza italiane, in Riv. it. dir. proc. pen, 1997 p. 1367.19 G. GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, Giuffrè, p. 140 ss20 G. MARINUCCI–E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2006, p. 367 e ss21 L. RISICATO, Combinazione ed interferenza di forme di manifestazione del reato, Milano, 2002, pp. 460,461.

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La tematica del concorso colposo in reato doloso si colloca nell'ambito del più vasto istituto del

concorso di persone nel reato e, nello specifico, si ricollega all'indagine sull'elemento psicologico

dei concorrenti.

L'elemento soggettivo del concorso è costituito da due componenti: la coscienza e volontà del fatto

criminoso e la volontà di concorrere con altri alla realizzazione del reato (c.d. dolo di concorso).

Nel diverso caso in cui ognuno dei soggetti attivi del reato agisca all'insaputa degli altri, non sarà

configurabile un concorso, ma si potrà addebitare a ciascuno di essi la responsabilità per un

autonomo reato monosoggettivo22.

Nello specifico, parte della dottrina ha aderito alla teoria della unicità del titolo di responsabilità dei

concorrenti, prospettando diverse argomentazioni a sostegno di tale scelta.

In primo luogo si richiama il contenuto letterale dell'art. 110 c.p., che, nel disciplinare il concorso di

persone nel reato, parla di concorso “ nel medesimo reato”, adottando, quindi, una concezione

unitaria del reato in cui concorrono più soggetti.

In aggiunta a questo, si valorizza il contenuto dell'art. 116 c.p. (“ reato diverso da quello voluto da

taluno dei concorrenti”), che contempla una ipotesi di concorso con titoli diversi di responsabilità

fra i concorrenti: dolo in capo a chi ha posto in essere la condotta e colpa (o responsabilità

oggettiva) in capo alle altre persone, che volevano porre in essere un reato diverso. Da ciò la

considerazione che, laddove il legislatore ha voluto ammettere una possibilità di concorso con titoli

diversi di responsabilità, lo ha fatto espressamente, con apposite previsioni.

Tale dottrina giunge, dunque, alla conclusione che per poter configurare un concorso di persone è

necessario che la condotta sia ascrivibile a tutti i concorrenti in base allo stesso titolo soggettivo. In

caso di diversi titoli soggettivi di responsabilità non si tratterebbe di un concorso, ma ciascuno

risponderebbe del proprio reato, monosoggettivo.

Altra dottrina, invece, ritiene che l'unicità debba riguardare l'offesa tipica, ma che non sussista

alcuna esigenza di unitarietà sotto il profilo dell'elemento psicologico.

A sostegno di tale conclusione, si fa riferimento allo stesso art. 116 c.p., ritenendo che l'inserimento

di tale previsione nel codice debba far ritenere che una responsabilità a titolo diverso fra i

concorrenti sia la regola, e non l'eccezione.

Questa argomentazione viene utilizzata soprattutto per ammettere la configurabilità di un concorso

doloso in delitto colposo, trattandosi di una partecipazione dolosa alla condotta altrui che, in

mancanza di un'apposita incriminazione, rimarrebbe impunita.

Sorgono invece, maggiori dubbi in relazione alla possibilità di configurare un concorso colposo in

delitto doloso.

22 G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte Generale, Bologna, 2007, p. 469 ss.8

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La dottrina che nega la sua ammissibilità, fa leva su alcuni dati normativi.

In primo luogo, la considerazione per cui il legislatore, laddove ha voluto riconoscere rilevanza ad

una agevolazione colposa di un fatto doloso altrui, lo ha espressamente previsto (si pensi agli

articoli 254 c.p. e 259 c.p. agevolazione colposa).

In aggiunta, la previsione contenuta nell'art. 42, c.2 c.p., ai sensi del quale la responsabilità a titolo

colposo è configurabile soltanto nei casi in cui sia espressamente prevista dalla legge.

La considerazione per cui l'art. 113 c.p. disciplina la “ cooperazione nel delitto colposo”, con ciò

precludendo la possibilità di configurare anche le ipotesi di cooperazione colposa nel delitto

doloso23.

L’orientamento della Corte di Cassazione dell’ultimo decennio su questo problema è invece

orientato in senso favorevole a ritenere ammissibile il “concorso” colposo nel reato doloso.

La premessa da cui occorre prendere le mosse è costituita dal riconosciuto superamento delle teorie

che si rifanno al concetto di unitarietà del fatto reato di natura concorsuale.

Le difficoltà di inquadramento di queste forme di partecipazione soggettiva eterogenea si attenuano

riconoscendo la pluralità dei fatti reato nei casi in cui l’evento sia unico.

L’esame congiunto delle due norme (artt. 42 c.2 c.p. e art. 113 c.p.) consente di pervenire a questa

conclusione: la compartecipazione è stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo

perché, nel caso di reato doloso , non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo

strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore, potrebbe dirsi

“in aggiunta”, rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l’aver previsto e voluto l’evento24. Il

dolo è qualche cosa di più, non di diverso, rispetto alla colpa concezione efficacemente riassunta

nella formula: “non c’è dolo senza colpa”25.

Ormai la giurisprudenza di legittimità ritiene ammissibile l’ipotesi di concorso colposo anche

rispetto al delitto doloso, non ostandovi la previsione di cui all’art. 42, c.2 c.p., che, riferendosi

soltanto alla parte speciale del codice, non interessa le disposizioni di cui agli artt. 110 c.p. e 113

c.p.26.

4.0 Casi giurisprudenziali Corte Suprema di Cassazione Sez. IV- Sentenza n.10795 del 2008 imputato Pozzi Euro art. 589 c.p.

Il 24 maggio del 2000 all’interno della clinica “ALBATROS” di Imola (BO) un paziente psicotico

ivi ricoverato (Sig.MUSIANI) aggrediva con un coltello un educatore (Sig.CARDELLI)

procurandone la morte.

23 G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte Generale, Bologna, p. 469 ss.24 G. MARINUCCI Non c’è dolo senza colpa. In Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1991, p. 3 ss.25 G. MARINUCCI Non c’è dolo senza colpa. In Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1991, p.3 ss.26 Cass. Sez. IV, sentenza n.39680 del 2002

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Il dott. POZZI medico psichiatra, consulente esterno, è stato imputato di omicidio colposo in

quanto sospendendo in maniera imprudente il trattamento farmacologico a cui era sottoposto il

suddetto paziente, ne aveva determinato lo scompenso psichico, ritenuto la causa della crisi nel

corso della quale lo stesso paziente aveva aggredito ed ucciso il predetto operatore che lo accudiva.

Il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Bologna ha ritenuto in sede di valutazione

dei fatti, che il comportamento omissivo e le condotte colpose del POZZI si ponessero in rapporto

di casualità con l’evento delittuoso verificatosi, in quanto avevano aggravato lo stato di aggressività

che caratterizzava il paziente in questione.

La Corte di Appello di Bologna con sentenza 12 gennaio 2007, nel condividere l’operato del primo

Giudice e dei periti da esso nominati, e nel rigettare le varie istanze del ricorrente, ha confermato la

sentenza di primo grado. La Corte ha ritenuto che qualora a scompenso conclamato il dott. POZZI

avesse adottato adeguate misure terapeutiche non vi sarebbe stata da parte del suddetto paziente

l’aggressione nei confronti della persona offesa.

La Corte ha concluso che oltre alle suddette condotte di natura commissiva ve ne fosse anche una di

natura omissiva in rapporto di causalità con l’evento costituita dall’omessa richiesta del trattamento

sanitario obbligatorio.

La Suprema Corte di Cassazione nell’esaminare le motivazioni addotte dal ricorrente, individua

una posizione di garanzia a carico del dott. POZZI in favore del paziente al fine di verificare se su

di lui incombesse l’obbligo giuridico di impedire l’evento.

L'obbligo di garanzia si fonda sul disposto del capoverso dell'art. 40 c.p., secondo cui non impedire

un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, laddove si fa riferimento

all'obbligo giuridico di impedire l'evento.

La posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui

tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione.

Nel caso in esame, i periti d’ufficio hanno affermato che la situazione clinica del MUSIANI al

momento della modifica della terapia non era quella di un soggetto in “remissione” ma al contrario

era da tempo un paziente sull’orlo dello scompenso. La scelta della riduzione e soprattutto quella

della eliminazione dei farmaci neurolettici avrebbe potuto essere adottata in un paziente in

remissione da almeno 5 anni.

Sul tema della prevedibilità dell'evento occorre fare qualche considerazione preliminare. La

prevedibilità dell'evento, riguardando l'elemento soggettivo e la sua esistenza, va accertata con

criteri ex ante (a differenza della causalità) e si fonda sul principio che non possa essere addebitato

all'agente di non aver previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe

dovuto avere, non poteva prevedere.

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La Corte nell’evidenziare la distinzione tra causalità attiva ed omissiva (nella prima viene violato

un divieto nella seconda è un comando ad essere violato) sottolinea che il comportamento del Pozzi

non rientra nella causalità omissiva ma in quella attiva.

Il dott. POZZI non ha violato un comando omettendo di intervenire in un caso che richiedeva la sua

attivazione ma ha violato la procedura che vieta di somministrare le terapie farmacologiche in modo

incongruo, prima con una immotivata riduzione della metà del farmaco neurolettico e poi addirittura

sospendendolo, senza un adeguato periodo di osservazione e senza un approfondito esame delle

conseguenze della modifica terapeutica.

Nel nostro caso i Giudici di merito hanno motivatamente ritenuto accertato in termini di sostanziale

certezza, che la crisi si è scatenata a seguito del mutamento incongruo della terapia farmacologica.

Il giudizio controfattuale non va dunque compiuto, come implicitamente richiede il ricorrente,

dando per avvenuta una condotta impeditiva che non c'è stata e chiedendosi se, posta in essere la

medesima, l'evento sarebbe ugualmente avvenuto in termini di elevata credibilità razionale, ma,

chiedendosi se, ipotizzando non avvenuto il mutamento del trattamento farmacologico, si sarebbe

ugualmente verificato il processo patologico che ha condotto il paziente allo scompenso conclamato

cui è riconducibile l'aggressione a CARDELLI.

Infine, per quanto riguarda la verifica dell'esistenza dei presupposti di natura soggettiva per la

verifica in concreto dell'ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso: sull'imputato gravava

una posizione di garanzia di protezione a tutela del paziente e la regola cautelare violata dal dott.

POZZI era finalizzata anche ad evitare eventi del tipo di quello in concreto verificatosi. Con la

conseguenza che, anche sotto questo profilo, la responsabilità dell'agente nella causazione

dell'evento non può essere esclusa.

La Corte Suprema di Cassazione, nel confermare il giudizio espresso dalla Corte di Appello di

Bologna ritenendo corrette le relative procedure e valutazioni ed alla luce delle considerazioni in

precedenza svolte, rigetta il ricorso.

Quindi, la Cassazione ha affermato la ammissibilità di un concorso colposo in delitto doloso27, a

condizione che il reato del partecipe sia previsto dal legislatore in forma colposa (per non incorrere

in una violazione dell’art. 42, c.2, c.p.) e che nella sua condotta siano riscontrabili tutti gli elementi

che caratterizzano la colpa.

Nello specifico, la Corte ha evidenziato la necessità di accertare l’esistenza dei presupposti propri

della colpa e di provare l’inosservanza di una norma cautelare che fosse diretta ad evitare anche il

rischio dell’atto doloso del terzo e la prevedibilità per l’agente dell’atto del terzo.

27 Cass. Sez. IV, sentenza n.10795 del 200811

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La Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema in tempi più recenti, applicando gli stessi principi

per verificare la configurabilità o meno di un concorso colposo nel delitto doloso.

Nel 2009, con la sentenza della IV sezione, 12 novembre, n.410728, è stata confermata la condanna

per concorso colposo nei delitti di omicidio e lesioni dolose in capo a due medici (CALABRÒ e

DIECI) che avevano redatto certificati strumentali al conseguimento del porto d’armi,

successivamente rilasciato dalla Questura di Milano, da parte di una persona affetta da gravi

problemi di ordine psichico, la quale, ottenuta la disponibilità dell’arma, aveva ucciso alcune

persone e ne aveva ferite altre, per poi suicidarsi.

Il 5 maggio 2003 CALDERINI si trovava nella sua abitazione ad un tratto, con un'arma da fuoco di

cui aveva la disponibilità, iniziava a bersagliare i passanti colpendone alcuni e provocando loro

gravi lesioni. Le forze dell'ordine, prontamente intervenute, entravano nell'edificio e rinvenivano,

nell'appartamento sito al primo piano, il corpo senza vita di una donna attinta da colpi d'arma da

fuoco. Al terzo piano dell'edificio, nell'appartamento occupato da CALDERINI, si trovavano i corpi

senza vita del medesimo CALDERINI e della sua convivente, anch'essi attinti da colpi d'arma da

fuoco. Nella medesima abitazione veniva rinvenuta anche una pistola semiautomatica marca

Kimber cal. 45.

Le indagini successivamente svolte consentivano di accertare che tutti i colpi esplosi nei confronti

dei passanti, delle due donne trovate uccise e che avevano attinto anche CALDERINI erano stati

esplosi con la pistola semiautomatica indicata, che lo sparatore risultava detenere legalmente.

Va precisato che il CALDERINI risultava affetto da patologia psichiatrica.

Il primo Giudice ha ritenuto in sede di valutazione dei fatti, che il comportamento omissivo e le

condotte colpose dei suddetti medici si ponessero in rapporto di casualità con l’evento delittuoso

verificatosi.

Il dott. DIECI nell'interrogatorio reso al p.m. negava di aver compilato e sottoscritto il certificato

anamnestico mentre ammetteva di aver compilato e sottoscritto l'altro certificato (quello di sana e

robusta costituzione fisica).

La Corte di Appello di Milano, nel condividere l’operato del primo Giudice e dei periti da esso

nominati, e nel rigettare le varie istanze dei ricorrenti, ha confermato la sentenza di primo grado. La

Corte ha ritenuto grave negligenza e superficialità da parte dei predetti medici nella visita e

compilazione dei certificati richiesti, avendo posto in essere una condotta che aveva avuto influenza

decisiva sula determinazione degli eventi che dovevano inoltre essere ritenuti prevedibili ed

evitabili.

28 Cass. Sez. IV, sentenza n.4107 del 200912

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La Suprema Corte di Cassazione nell’esaminare le motivazioni addotte dai ricorrenti, conferma le

decisioni prese dalla Corte di merito che hanno ritenuto gravemente negligente la condotta del dott.

DIECI e del dott. CALABRÒ non improntata a quanto disposto dal D.M. 28 aprile 1998 art.3 c.3

che prevede espressamente gli obblighi del medico certificatore. Alla luce delle considerazioni

svolte non possono esservi dubbi sulla natura commissiva della causalità nel caso in esame. Sia il

dott. DIECI che il dott. CALABRÒ non hanno violato un comando omettendo di intervenire in un

caso che richiedeva la loro attivazione, ma hanno violato il divieto di porre in essere gli atti

propedeutici al rilascio del porto d'armi in presenza di una situazione patologica che non lo

consentiva o di una documentazione irregolare.

Nel caso in esame, se la causalità ha natura commissiva e se l'evento è da ritenere causalmente

ricollegabile alla condotta degli imputati in termini di sostanziale certezza, la Corte ritiene che non è

necessario porsi la domanda che si pone il ricorrente, su che cosa sarebbe avvenuto se il certificato

anamnestico (e quello di idoneità) non fossero stati rilasciati e CALDERINI non avesse potuto

acquistare l'arma e portarla presso la sua abitazione. Certamente CALDERINI avrebbe potuto

rivolgersi al mercato clandestino e compiere i medesimi atti ma, il giudizio controfattuale, va

compiuto in riferimento all'accadimento hic et nunc verificatosi e non ad un diverso avvenimento

ipotizzato in via del tutto congetturale.

Se CALDERINI non avesse ottenuto la licenza per il porto d'armi non avrebbe potuto acquistare

quell'arma, portarla fino alla sua abitazione e quindi utilizzarla per porre in essere la già descritta

condotta omicidiaria. E, trattandosi di causalità commissiva, neppure deve richiedersi se DIECI e

CALABRÒ erano investiti di una posizione di garanzia: essi hanno posto in essere un antecedente

causalmente efficiente nella verificazione dell'evento e quindi, secondo la regola dell'equivalenza

delle cause, sono chiamati a rispondere del verificarsi dell'evento.

Per quanto attiene all'esistenza dei presupposti di natura soggettiva per la verifica in concreto

dell'ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso: le regole cautelari violate dagli imputati

erano finalizzate anche ad evitare eventi del tipo di quello in concreto verificatosi (c.d.

"concretizzazione del rischio"). Con la conseguenza che, anche sotto questo profilo, la

responsabilità degli agenti nella causazione dell'evento non può essere esclusa. Entrambi gli

imputati hanno, con varietà di argomentazioni, sostenuto che le condotte di CALDERINI e quelle

dei funzionari di polizia che hanno rilasciato il porto d'armi, pur essendo a conoscenza dei

precedenti atti di violenza posti in essere dal predetto, erano idonei, per la loro abnormità e

imprevedibilità, ad interrompere il nesso causale tra le loro condotte asseritamente colpose e

l'evento.

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La censura comune ripropone uno dei temi di maggior complessità del diritto penale che riguarda

l'interpretazione dell'art. 41 c.p., c.2, secondo cui "le cause sopravvenute escludono il rapporto di

causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento".

Si tratta di una norma di fondamentale importanza all'interno dell'assetto normativo che il Codice ha

inteso attribuire al tema della causalità e lo scopo della norma, secondo l'opinione maggiormente

seguita, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale

contenuto nel primo comma dell'art. 41 c.p., in esame che si ritiene abbia accolto il principio

condizionalistico o dell'equivalenza delle cause ("condicio sine qua non").

La Suprema Corte asserisce che anche se i funzionari di polizia hanno colposamente trascurato i

precedenti del CALDERINI a loro disposizione per decidere sulla richiesta di rilascio del porto

d'armi, tale ipotesi non merita certo particolari argomentazioni, poiché l'accertamento dell'esistenza

dei requisiti psicofisici effettuato dal medico militare (fondato sul certificato anamnestico e

sull'altro certificato) hanno agevolato un esame superficiale degli atti d'ufficio che consentivano di

ricostruire i numerosi episodi di violenza di cui CALDERINI era stato protagonista. D'altro canto la

redazione del certificato anamnestico e quello di idoneità sono preordinati proprio ad evitare, tra

l'altro, che persone che soffrono di malattie psichiche possano disporre di armi, a tutela

dell'incolumità propria e dei terzi. Insomma nel caso in esame non può ipotizzarsi l'ipotesi prevista

dall'art. 41 c.p., comma 2, perché la causa sopravvenuta non solo non costituisce uno sviluppo del

tutto autonomo ed eccezionale della prima condotta inosservante, ma rientra nell'ambito delle

conseguenze prevedibili della primitiva condotta addebitabile ai ricorrenti costituendone anzi una

possibile, e quindi prevedibile, conseguenza.

La Cassazione, nel confermare il giudizio espresso dalla Corte di Appello di Milano ritenendo

corrette le relative procedure e valutazioni, ed alla luce delle considerazioni in precedenza svolte,

rigetta il ricorso con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Da ultimo, la Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema, con una sentenza che nella motivazione

rende ancora evidente la portata ed il significato degli accertamenti che devono essere posti in

essere prima di affermare una responsabilità per concorso colposo in delitto doloso.

Il caso di specie29, sezione IV sentenza n. 34385 del 2011, riguardava il dirigente della Questura di

Torino, giudicato responsabile per concorso colposo in omicidio doloso per l’illecito posto in essere

da un ispettore, a lui subordinato, che aveva cagionato la morte della moglie e del cognato

utilizzando la pistola d’ordinanza.

Al dirigente si rimproverava di avere omesso di trasmettere all’Ufficio sanitario provinciale un

rapporto informativo sull’Ispettore, già sottoposto a sorveglianza medica semestrale con

29 Cass. Sez. IV, sentenza n.34385 del 201114

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provvedimento del Servizio Centrale di Sanità, di non aver tenuto adeguatamente in considerazione

un precedente episodio di violenza che l'Ispettore aveva posto in essere nei confronti della moglie, e

di non aver disposto il ritiro dell'arma in dotazione.

La Cassazione ha confermato il giudizio di responsabilità in capo al dirigente, ritenendo che sul

medesimo gravasse una posizione di garanzia e che la regola cautelare violata mirasse a scongiurare

il rischio di eventi come quello verificatosi.

L’impostazione seguita in questa pronuncia è la stessa che si rinviene nel precedente del 2007.

Si ammette, cioè , la possibilità di configurare un concorso colposo in delitto doloso, ma ad una

duplice condizione: che il delitto del partecipe sia previsto dall’ordinamento anche nella forma

colposa e che nella condotta siano riscontrabili tutti gli elementi costitutivi della colpa.

Nel caso di specie la Corte individua una serie di norme che, nelle circostanze concrete e alla luce

delle precedenti manifestazioni di violenza da parte dell’ispettore nei confronti della moglie,

avrebbero imposto al dirigente determinate condotte, fra cui il ritiro dell’arma all’ispettore.

Il dirigente aveva l'obbligo di controllare una situazione di per sé rischiosa, rientrando nell'ambito

della sua discrezionalità assumere tutte quelle iniziative ed interventi idonei a prevenire l'evento

verificatosi.

Questo obbligo deriva innanzitutto dal tenore dell'art. 48, comma terzo, D.P.R. 28 ottobre 1985

n.782 (approvazione del regolamento di servizio dell'amministrazione della Pubblica Sicurezza),

secondo il quale la tessera di riconoscimento deve essere ritirata in caso di sospensione dal servizio

o aspettativa per motivi di salute determinata da infermità neuro-psichiche. In secondo luogo,

l’obbligo di attivarsi è espressamente indicato in due circolari esplicative, aventi ad oggetto proprio

il ritiro dell'arma, vigenti all'epoca dei fatti, emanate a seguito di richieste di chiarimenti: la prima,

in data 24 settembre 2001, proveniente dal Ministero dell'Interno-Dipartimento della Pubblica

Sicurezza - Direzione Centrale di Sanità e l'altra del 17 ottobre 2001, proveniente dall'Ufficio

Sanitario provinciale. Segnatamente, la seconda circolare ai punti 3 e 4 disciplina le ipotesi nelle

quali è il dirigente a poter disporre d'ufficio il ritiro dell'arma, senza previa sollecitazione del

sanitario, al quale l'interessato dovrà comunque essere inviato tempestivamente.

Individuata la sussistenza della posizione di garanzia, la Corte valuta la prevedibilità ed evitabilità

dell’evento dannoso, per verificare se in concreto fosse esigibile dal dirigente una condotta diversa.

Si conclude in senso affermativo: le concrete circostanze del caso e la pregressa condotta

dell’ispettore rendevano prevedibile una condotta aggressiva da parte del medesimo ed il rispetto

delle regole cautelari (compreso il ritiro dell’arma) sarebbe valso ad evitare l’evento verificatosi.

In tema di evitabilità dell'evento, è stato correttamente sottolineato che se l’imputato, venuto a

conoscenza dell’episodio di violenza dell’ispettore nei confronti della moglie, avesse di iniziativa

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provveduto al ritiro della pistola, come gli era consentito dalla pericolosa situazione venutasi a

creare, l'evento hic et nunc verificatosi non si sarebbe realizzato.

L'omesso ritiro dell'arma e/o l'omessa trasmissione all'ufficio Sanitario provinciale di un rapporto

informativo sull’ispettore, già richiesto il 18 settembre 2003, con la comunicazione dell'episodio di

violenza nei confronti della moglie, avevano rappresentato la premessa imprescindibile per la

realizzazione delle condizioni che avevano reso possibile gli eventi lesivi.

Conclusioni.Per quanto finora esposto ed esaminato sulle più recenti pronunce della Cassazione sul tema, si

rende evidente come la giurisprudenza si attesti su una posizione di apertura verso il concorso

colposo in delitto doloso, ma non in maniera generalizzata ed indiscriminata.

In primo luogo, una responsabilità del genere potrà essere affermata soltanto ove il delitto sia

previsto dal legislatore in forma colposa, per non incorrere in una violazione dell'art 42, c.2, c.p.

In aggiunta, sarà necessario che nella condotta dell'agente siano riscontrabili tutti gli elementi che

caratterizzano la colpa: da qui la necessità di un giudizio sulla esistenza di una posizione di

garanzia e sulla violazione di una regola cautelare che mirava ad evitare eventi dannosi del tipo di

quello concretamente verificatosi30.

Provati questi elementi, sarà possibile affermare una responsabilità per concorso colposo nel delitto

doloso, nonostante nel nostro ordinamento manchi una norma che disciplini espressamente tale

istituto.

30 Cass. Sez. IV, sentenza n.10795 del 2008, Cass. Sez. IV, sentenza n.4107 del 2009, Cass. Sez. IV, sentenza n.34385 del 2011.

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