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FOIBE 10 febbraio 2019 Perché quando si parla di foibe si sorvola sul fatto determinante che a scatenare la reazione dei titini è stato il fascismo con l invasione e le politiche di italianizzazione e di repressione? Robby Shima , sempre interessato allo studio del passato. Ha risposto 14h fa Perché così non fu. In primissimo luogo, perché è infame voler sminuire una pulizia etnica con la politica culturale dei vent’anni precedenti. Nel 1943 e poi nel 1945–48 vediamo non solo massacri e saccheggi, ma atti generalizzati di vero e proprio sadismo, stupri sistematici di massa, torture e forme di esecuzione diaboliche come civili gettati vivi nelle foibe (o, in molti casi, coppie legate per le mani, di cui uno viene ucciso a pistolettate e l’altro lasciato a morire lentamente in fondo a un fosso). È qualcosa che va molto al di là della semplice uccisione, e non per caso ho usato quel termine, “sadismo”. Questa non potrebbe essere definita “vendetta” neanche se fosse stata giustificata. È tutt’altro. Chiunque — e che in Italia questi discorsi li faccia una parte politica in particolare non è mistero — guardi una comunità di cui non fa parte e dica, a commento di fatti così brutali, “beh, li avevamo fatti incazzare”, dimostra di considerare quella comunità selvaggia: con i popoli che consideriamo civili, questo tipo di razionalizzazione semplicemente non ce lo permettiamo. Sarebbe troppo paternalistico. Suonerebbe addirittura offensivo proporre, ad esempio, che i Gallesi di quegli stessi anni

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FOIBE 10 febbraio 2019

Perché quando si parla di foibe si sorvola sul fatto determinante che a scatenare la reazione dei titini è stato il fascismo con l invasione e le politiche di italianizzazione e di repressione?

Robby Shima, sempre interessato allo studio del passato.

Ha risposto 14h fa

Perché così non fu.

In primissimo luogo, perché è infame voler sminuire una pulizia etnica con la politica culturale dei vent’anni precedenti. Nel 1943 e poi nel 1945–48 vediamo non solo massacri e saccheggi, ma atti generalizzati di vero e proprio sadismo, stupri sistematici di massa, torture e forme di esecuzione diaboliche come civili gettati vivi nelle foibe (o, in molti casi, coppie legate per le mani, di cui uno viene ucciso a pistolettate e l’altro lasciato a morire lentamente in fondo a un fosso). È qualcosa che va molto al di là della semplice uccisione, e non per caso ho usato quel termine, “sadismo”. Questa non potrebbe essere definita “vendetta” neanche se fosse stata giustificata. È tutt’altro.

Chiunque — e che in Italia questi discorsi li faccia una parte politica in particolare non è mistero — guardi una comunità di cui non fa parte e dica, a commento di fatti così brutali, “beh, li avevamo fatti incazzare”, dimostra di considerare quella comunità selvaggia: con i popoli che consideriamo civili, questo tipo di razionalizzazione semplicemente non ce lo permettiamo. Sarebbe troppo paternalistico. Suonerebbe addirittura offensivo proporre, ad esempio, che i Gallesi di quegli stessi anni avessero tutte le ragioni per torturare e trucidare gli Inglesi, eppure la loro lingua era attivamente perseguitata e marginalizzata da secoli: i bambini gallesi venivano picchiati se beccati a parlare nella loro lingua a scuola, in certi casi anche dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma verso i Gallesi qui in Italia, sia da parte dei nazionalisti sia degli internazionalisti, si dimostra più rispetto e meno paternalismo.

In secondo luogo, perché la cosa aveva relativamente poco a che fare con il Fascismo, e la “italianizzazione” non era stata che l’inversione di una vecchia politica molto più duratura: già nel 1866, dopo aver perso la Lombardia e poi il Veneto, l’Imperatore Francesco Giuseppe ordinò:

«Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno.»

— Verbale del Consiglio della Corona, 12 novembre 1866.

È da qui che nacque l’inimicizia, coltivata attentamente dalla burocrazia imperial-regia: i sudditi italiani venivano ostacolati in molti modi, a quelli slavi veniva detto che i primi erano la causa di ogni loro problema; e poi li si mescolava ben bene. Ho citato altrove il fatto che, ancora al tempo in cui il Veneto era austriaco (fino al 1866), nella regione venivano mandati poliziotti croati, proprio per seminare sfiducia tra le due etnie.

Volendo essere sinceramente completi nella prospettiva storica, si potrebbe voler andare ancora più indietro, a quando la Serenissima invitò diverse ondate di coloni croati nella penisola spopolata dalla peste, nel XVII e nel XIV secolo: ma ciò sarebbe superfluo, perché al tempo le etnie vivevano in concordia, sotto un sentimento nazionale comune, quello appunto veneziano. È cosa risaputa tra chi studia cose veneziane che la più commovente elegia nazionalista a Venezia fu pronunciata in serbocroato da un conte che a casa si faceva chiamare Josip, ma altrimenti si firmava Giuseppe Viscovich, davanti ad un’intera città in lutto. Cito solo la parte centrale, nelle tre lingue in cui ci è pervenuta (le versioni sono lievemente discordanti nella forma, ma non nel contenuto), ma nel link c’è il discorso completo e l’antefatto:

In serbocroato:

Za tri sto sedamdeset i sedam godišta naša bića, krv naša, i životi naši isti, bili su poklonjeni tobi, i vele smo se srećni cijenili: za tri sto sedamdeset i sedam ljeta, Ti s nami, a mi s Tobom bijesmo na moru vazda glasoviti, vazda slavo dobitnici. Nikto nas s tobom ne vidje bjegati; nikto nas s tobom ne vidje predobivene.

In veneto:

Par trecentosettantasette anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite le xe stade sempre per Ti, o San Marco; e felicissimi sempre se semo reputà Ti co nu, nu co Ti; e sempre co Ti sul mar nu semo stai illustri e vittoriosi. Nissun co Ti n’ha visto scampar, nissun co Ti n’ha visto vinti o spaurosi!

In toscano:

Per trecentosettantasett’anni le nostre sostanze, il nostro sangue, le vite nostre ti furono sempre consacrate, e da che tu fosti con noi, e noi con te fummo sempre felicissimi, fummo sul mare illustri e vittoriosi sempre. Niuno con te ci vie mai fuggire, niuno con te ci poté vincer mai.

Vorrei ricordare qui che l’Italia ha svariate minoranze etniche allogene, ma le uniche tre con cui in passato ci sono state violenze e tensioni sono proprio quelle che l’Impero Austro-Ungarico volle far diventare nemiche della comunità italiana. Ma esistono anche Cimbri e Mocheni (e altri germanofoni in Veneto e Piemonte), Ladini, Arbëreshë, Greci, Ebrei romani, Catalani, Occitani, Croati del Molise. Tra questi gruppi, a parte Cimbri e Mocheni che furono marginalmente colpiti dalla politica fascista di reitalianizzazione del Trentino-Alto Adige (il caso degli Ebrei romani è a sé), non vediamo scenari simili a quelli dell’Istria, né ci aspetteremmo di giustificare casi di pulizia etnica dall’una o dall’altra parte.

Si fa molta disinformazione e molta politica sull’argomento, troppo spesso mettendo le mani avanti con un ma raccontiamola tutta, la storia!, che invece non fa che gonfiare quella che è un’interpretazione molto parziale e decisamente decontestualizzata.

In terzo luogo, perché quella di Tito non fu una “reazione”, fu una manovra politica.

Non è d’altronde un mistero il fatto che la federazione che Tito voleva vedere nel dopoguerra non si sarebbe limitata a rimettere insieme i territori del sommamente disfunzionale Regno di Jugoslavia antebellico (che fosse disfunzionale lo prova anche semplicemente la carneficina interetnica del 1941–45, che fece più morti dell’occupazione congiunta tedesco/ungherese/bulgara/italiana), ma mirava ad annettere anche il Friuli almeno fino al Tagliamento, la Carinzia austriaca, Albania e Bulgaria (queste due come Repubbliche federate) e Grecia settentrionale.

Ricostruzione della “Grande Jugoslavia”. L’annessione della Grecia settentrionale, nei fatti, aveva molto poco di verosimile e, se fu ventilata, fu presto scartata; l’annessione di territorio italiano, da Zara a Fiume a Pola a Trieste a Pordenone sembrava scontata, ma fu limitata dagli Alleati Occidentali, Inglesi in testa; l’annessione dell’Albania era ormai certa e stava già incominciando (ad esempio con l’equiparazione della valuta) ma andò all’aria quando, nel 1947, Tito si allontanò da Stalin, cosa che fece vedere rosso all’ultrastalinista Hoxha; la Bulgaria ha anch’essa la sua storia che però non ricordo nel dettaglio, ma il suo accorpamento fu presto scartato dal Segretario del PCB Georgi Dimitrov.

In quarto luogo, perché la moda italiana di voler “contestualizzare” disonestamente quella che a tutti gli effetti fu una tragedia senza attenuanti è una recente manovra politica, e chi si interessi della questione se ne rende conto molto presto, e la evita. Sembra quasi strano dirlo oggi, ma nel 1945 erano i partigiani (quelli non-comunisti, fratelli d’arme dei “Verdi” della Osoppo che furono ammazzati a Porzûs proprio perché non impedissero il massacro) i primi a cercare di divulgare quel che era successo. Salvo essere sabotati da quelle altre formazioni partigiane che ci tenevano all’espansione di quella che era ancora (Tito ruppe con Stalin nel 1947) l’avanguardia del blocco comunista.

Da un pamphlet pubblicato dal CLN nel 1946.

Su Porzûs e sugli ammazzati della Osoppo ci sarebbe da dire qualcosa di più: ad esempio che Maria Pasquinelli era riuscita a mettere loro ed i partigiani “Azzurri” di Edgardo Sogno in contatto con i semi-ammutinati della XªMAS (il comandante della Divisione, Borghese, si inimicò le autorità miltari tedesche e repubblicane quando dirottò — e fu ostacolato in ogni modo nel farlo — le proprie truppe a nord-est per impedire il ripetersi dei massacri del 1943), e che i garibaldini li uccisero proprio mentre gli abboccamenti erano già iniziati; ma la risposta è già lunga così. Se ne parlerà altrove.

In quinto luogo, perché il mescolamento di guerra comunista e guerra etnica non è per niente nuovo. Anzi, il suo antecedente teorico, nella letteratura marxista, è più che venerabile, dato che l’occasionale convergenza delle due venne già discussa da Engels nel suo articolo su La lotta magiara (qui nell’originale tedesco e qui in inglese), dell’8 gennaio 1848.

“…Diese Reste einer von dem Gang der Geschichte, wie Hegel sagt, unbarmherzig zertretenen Nation, diese Völkerabfälle werden jedesmal und bleiben bis zu ihrer gänzlichen Vertilgung oder Entnationalisierung die fanatischen Träger der Kontrerevolution, wie ihre ganze Existenz überhaupt schon ein Protest gegen eine große geschichtliche Revolution ist…”

“... Questi residui di una nazione, come dice Hegel, spietatamente calpestata dal corso della Storia, questa spazzatura etnica diventa sempre, e resta fino allo sterminio o alla snazionalizzazione completi, la fanatica antesignana della Controrivoluzione, come d’altronde l’intera sua esistenza non è che una protesta contro una grande rivoluzione storica…”

In barba all’internazionalismo bolscevico, ma non senza coerenza, molte minoranze etniche furono perseguitate dai vari regimi comunisti: e la giustificazione, di per sé, è molto pragmatica. Voler vedere le passioni umane tra i moventi, e non invece tra gli strumenti, delle scelte di statisti del calibro di Tito, appartiene ormai già a quel territorio in cui l’ingenuità è colpevole.

Fu secondo la logica già delineata teoreticamente da Engels che l’URSS staliniana incominciò le deportazioni di milioni di civili polacchi, lituani, lettoni, estoni nel 1939/40, quando invase quei Paesi, e le riprese non appena si reimpadronì di quei territori, nel 1945. Ma già le Grandi Purghe politiche del 1936/38 erano state precedute, affiancate e succedute da persecuzioni etniche, a partire dagli Ucraini (inizio anni ‘30), dalle tribù siberiane e dai Greci dell’Ucraina (1937–1950), passando poi a popolazioni, sempre civili, tedesche, coreane, rumene, e poi tatare, cecene, ingusce, daghestane ecc.

Per fare solo un esempio, nella propaganda sovietica degli anni ‘20 tutti i Polacchi, senza eccezione, erano dei “pan”, signori feudali secenteschi usciti fuori dai libri di Gogol’ o Sienkiewicz (fino agli stereotipi più anacronistici, v. il vestiario), nello stesso modo in cui tutti gli Italiani istriani/giuliani/dalmati erano dei “fascisti” o tutti i Ceceni erano dei “collaborazionisti”. In tutti questi casi e in altri, “l’unico X buono è lo X morto”, e l’etichetta che si decide di usare per dirlo è posticcia.

Secondo questa logica abbastanza perversa, i Völkerabfälle qui erano gli Italiani d’Istria, Venezia Giulia, Dalmazia: donne e bambini vennero uccisi al grido di “fascisti!”, ma il termine, per un marxista ortodosso, esaurisce la sua funzione nell’identificare la persona come “nemico della Rivoluzione”.

E non è per niente un caso che non pochi Italiani parteciparono attivamente al crimine: chi uccidendo a tradimento i partigiani non-comunisti, chi aprendo la strada alle bande titine, chi dandosi da fare per l’annessione dell’intero Friuli alla nuova Jugoslavia.

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